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Il metodo biografico (2022) di Romano Màdera – Recensione

Il libro Il metodo biografico”, dopo il primo capitolo che motiva le impostazioni teoriche, coerentemente con il metodo che vuole proporre, contiene ampie pagine in cui l’autore parla di sé e della propria vicenda biografica, senza nascondere errori o delusioni.

 

Romano Màdera, l’autore di questo denso volume, è un noto filosofo e psicoanalista, docente di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. È membro AIPA (Associazione italiana di psicologia analitica) e IAAP (Associazione internazionale di psicologia analitica). Ha fondato “Philo” (Scuola superiore di pratiche filosofiche) e SABOF (Società di analisi biografica a orientamento filosofico). Tra i suoi libri più recenti: Il nudo piacere di vivere (2006), La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica (2012), Una filosofia per l’anima. All’incrocio di psicologia analitica e pratiche filosofiche (2013), Carl Gustav Jung. L’opera al rosso (2016).

L’interesse per il metodo biografico è dunque non occasionale per Màdera, ma costituisce una linea di ricerca duratura nel tempo, affrontata anche in questo volume, che affonda ampiamente le sue radici sia nella filosofia che nella psicologia, per giungere anche a conclusioni di carattere politico che non si possono non condividere.

Il principio biografico che anima il metodo è il corrispettivo teorico-pratico della presa d’atto che un universale umano si è impiantato nella storia e che è centrato sull’individualità, per quanto si tratti ancora di un’individualità ideale (p. 17).

Dunque, l’individualità, nella sua dignità e nel suo diritto al rispetto e al riconoscimento, è l’essenza vera dell’universale. Ecco come filosofia e psicologia, pur da versanti diversi, si incontrano nella battaglia per il riconoscimento della soggettività individuale e nel mancato riconoscimento e difesa dei diritti individuali risiede il peccato originale delle società totalitarie e antidemocratiche.

L’analisi biografica ad orientamento filosofico si rivolge alle dimensioni “sane” dell’individuo ed è volta alla ricerca di senso dell’esistenza dell’analizzante: orientamento filosofico è inteso come ricerca di senso che parte dalla biografia storicamente, culturalmente e socialmente incarnata. Questo è un tentativo di risposta alla crisi, a partire dal XX secolo, delle istituzioni tradizionalmente riconosciute come orientanti l’esistenza; l’analista filosofo si propone di riformulare su base biografica i processi educativi e formativi integrandoli con le psicologie del profondo.

Per Màdera:

Il nesso fondativo della filosofia come modo di vivere è quello tra pratica – ed esercizio per costituirla – e discorso, che può criticare, consolidare, migliorare la scelta di vita. Questa caratteristica la rende adatta al tempo delle domande senza risposte, anzi al tempo che dispera delle risposte. Perché, rimasti senza riparo, senza orientamento, senza senso, possiamo e dobbiamo ricominciare solo dalla nostra esperienza, dall’esperienza che porta un nome proprio, che è “personale”, quali che siano, poi, le distinzioni e le destrutturazioni di questo punto di partenza. Poiché non solo nessun uomo è un’isola, ma la stessa persona è, in gran parte, una costruzione socioculturale (p.33).

La biografia dunque come metodo e non soltanto come contenuto. Il suo metodo non si limita affatto all’autobiografia: si inizia dall’osservazione della propria esperienza in prima persona, ma poi si volge lo sguardo verso altro, verso l’altro che ci definisce, per concludersi nella ricerca della storia culturale di cui siamo intrisi, costruita da miti individuali, familiari e collettivi. Così scrive Màdera:

Partire da sé ma non per finire con sé. Quindi non lasciare varchi – o almeno renderli difficilmente percorribili – alla temperie narcisistica che avvolge la nostra epoca da ogni lato. Dobbiamo sapere che il lato oscuro, l’ombra così pervasiva da appannare ogni percorso individuale di formazione e di cura nel nostro mondo, la pandemia psichica dell’autoriferimento, è mescolato anche ai più onesti e seri tentativi di conoscere se stessi per trasformarsi (o viceversa). Sta nel DNA della motivazione a ogni cura psicologica e psicoanalitica, tanto quanto nei processi legati all’autoformazione, ed è propriamente questo che ne fa a dangerous method, pericoloso ben più sottilmente che lasciarsi vincere dalla seduzione (messa in atto o subita). Il sé – quale che sia la concezione di questa istanza – può esistere solo a partire dall’interintradipendenza alla quale deve riferirsi finalisticamente, cioè eticamente, politicamente, filosoficamente, in quanto vita almeno in parte cosciente e responsabile. (p. 46)

Il libro, dopo il primo capitolo che motiva le impostazioni teoriche, coerentemente con il metodo che vuole proporre, contiene ampie pagine in cui l’autore parla di sé e della propria vicenda biografica, senza nascondere errori o delusioni. Da questo punto in poi, a partire dal capitolo 2 “Noi camminiamo attraverso noi stessi”, in cui inizia il tratteggio del complesso percorso personale dell’autore, il volume si può leggere come se si trattasse di un romanzo e questa costituisce la parte centrale del libro. Anche il capitolo successivo, “Un racconto di sogno e di sabbia” è biografico ma è maggiormente incentrato sulle esperienze analitiche di Màdera, con l’incontro con le pratiche junghiane e la descrizione minuziosa di alcuni sogni, rivelatisi decisivi per comprendere i suoi nodi esistenziali primari, e di alcuni giochi della sabbia (otto per la precisione), una tecnica spesso utilizzata dagli psicoanalisti junghiani. Il suo analista è stato Paolo Aite, allievo diretto di Ernest Bernhard, capostipite dei junghiani italiani. In queste pagine non vengono escluse le vicende personali più scabrose, incluso un arresto durato circa un anno con l’accusa di appartenere alle Brigate rosse. Il capitolo 4 “Vivere è continuare a resuscitare”, invece, descrive, dopo la filosofia e la psicoanalisi, il terzo incontro decisivo per Màdera: quello con la dimensione spirituale e cristiana. Anche qui, si intrecciano ricordi personali e profonde riflessioni teoriche, ed è indubbio che l’approfondimento con l’incontro con Cristo e della dimensione spirituale in genere costituiscono l’approdo definitivo del modello di Màdera nella ricerca di senso. In tal modo, la sua ricerca mito-biografica termina riconoscendo il suo tentativo primario di coniugare insieme comunismo e cattolicesimo (le due grandi anime non solo della sua famiglia, ma del suo mondo sociale), entrambi studiati in profondità e “reinterpretati” in una lettura personale ed affascinante.

 

Asessualità eterogenea: modelli di comportamento sessuale e processi psicologici

Le persone asessuali, ovvero coloro che non provano attrazione sessuale per gli altri, rappresentano una percentuale di popolazione che va dall’1% al 6% (Brunning e McKeever, 2021). 

 

La letteratura sull’asessualità

Da una prospettiva storica, l’asessualità è stata definita per la prima volta nel 1948 da Kinsey come “Categoria X”, cioè individui che non avevano alcuna risposta sessuale a stimoli sessuali (Kinsey et al., 1948). In seguito, per molti decenni non sono state condotte ricerche sull’asessualità finché, nel 2001, l’attivista David Jay ha fondato AVEN (www.asexuality.org), che è diventata la più grande comunità online di asessuali al mondo, ravvivando l’interesse scientifico verso il tema dell’asessualità.

La letteratura ci dimostra che gli asessuali rappresentano una popolazione molto eterogenea, sia per quanto riguarda l’attività sessuale e il desiderio di relazioni romantiche, ma anche per quanto riguarda l’identità (ad es, Brotto e Yule, 2017). Infatti, lo spettro dell’asessualità può includere i demisessuali (che sperimentano l’attrazione sessuale solo nel contesto di un’attrazione romantica), i Gray-A (che si collocano nella zona grigia percepita tra sessuali e asessuali) e gli A-fluid (che applicano il termine a una generale fluidità della sessualità nel suo complesso; Carrigan, 2011).

Nonostante le conoscenze sull’asessualità aumentino, sono ancora frammentarie. Perciò è importante chiarire i potenziali modelli di comportamento asessuale emersi della ricerca, perché questo potrebbe aiutare a decostruire lo stigma intorno all’asessualità, a evidenziare la diversità e ad adattare i servizi forniti a questa popolazione, alle loro caratteristiche e identità.

Una revisione sistematica di De Oliveira e colleghi (2021) si è focalizzata sul riconoscimento e sulla sistematizzazione dei modelli di comportamento sessuale degli asessuali e sui processi psicologici relativi alla sessualità (cioè, cognizioni ed emozioni).

I risultati ottenuti dalla revisione rafforzano l’idea che gli asessuali siano un gruppo eterogeneo rispetto a diversi aspetti indagati. Uno di questi, condiviso all’interno del campione, sembra essere l’assenza di angoscia legata allo scarso desiderio sessuale; infatti, quando gli asessuali provano angoscia per il sesso, è probabile che questa sia legata allo stigma sociale o alle difficoltà relazionali causate dalle discrepanze nel desiderio sessuale.

Asessualità e eccitazione

Per quanto riguarda l’eccitazione sperimentata dagli asessuali, negli studi selezionati sono stati utilizzati questionari autovalutativi che catturano l’esperienza individuale soggettiva dell’eccitazione sessuale e l’eccitazione psicofisiologica che si riferisce alla componente genitale, solitamente misurata con la fotopletismografia. I punteggi in riferimento all’eccitazione sessuale psicofisiologica in risposta a un film erotico non sembrano indicare differenze significative tra donne asessuali e non asessuali. Tuttavia, a seguito del filmato erotico, per le donne asessuali è stato riscontrati un aumento delle emozioni negative o positive. Ciò suggerisce che il film è stato percepito come neutro e non sessuale da parte delle donne asessuali, coerentemente con i risultati di altri studi inclusi nella revisione che dimostrano che gli asessuali presentano un’eccitazione sessuale soggettiva significativamente più bassa rispetto ai non asessuali.

Asessualità e attività sessuale

È importante sottolineare che l’attività sessuale per le persone asessuali non è necessariamente negativa. Infatti, l’eterogeneità del campione denota una componente valutativa del sesso (positiva, negativa, neutra): alcuni studi hanno rilevato che gli asessuali non sembrano avversi o spaventati dal sesso, ma semplicemente disinteressati o annoiati da esso, non traendo alcun piacere dagli atti sessuali. A sostegno di ciò, alcune persone considerano la masturbazione un’attività corporea non collegata al sesso.

Per altri invece, impegnarsi in un’attività sessuale di coppia può avere esiti positivi; alcune persone possono dedicarsi alla masturbazione e al rapporto sessuale come parte di un’esperienza normale e l’attività sessuale può essere spesso negoziata per garantire i desideri del partner.

Al contrario, per gli asessuali che sono avversi al sesso o contrari al sesso, vale la pena studiare se l’attività sessuale di coppia comporta esiti emotivi negativi.

Asessualità e credenze sessuali disfunzionali

 Un ulteriore aspetto indagato sono le credenze sessuali disfunzionali, considerate come convinzioni errate sulla sessualità che possono predisporre o mantenere le difficoltà sessuali. Le donne asessuali, rispetto alle donne non asessuali, riferiscono più credenze conservatrici (ad esempio, considerano il sesso come procreativo), più credenze sul desiderio sessuale come peccato (ad esempio, considerare il sesso un’attività maschile e che le donne devono controllare i loro impulsi sessuali), più credenze legate all’età (cioè credere che la sessualità sia influenzata negativamente dall’età), e più credenze che sottolineano il primato dell’affetto (cioè credere che il sesso debba avvenire nel contesto dell’amore e dell’affetto).

Allo stesso modo, gli uomini asessuali hanno riportato più credenze conservatrici e più credenze sul potere sessuale femminile (ad esempio, credendo che le donne possano usare il sesso come mezzo per sottomettere gli uomini).

Studi precedenti (ad es, Nobre e Pinto-Gouveia, 2008) hanno riscontrato che le convinzioni sessuali disfunzionali sono associate a problemi di desiderio e di eccitazione sessuale nelle donne. Tuttavia, considerando che gli asessuali non sperimentano l’angoscia derivante dal basso desiderio (ad es, Brotto et al., 2010), è possibile che gli asessuali non abbiano bisogno di cambiare le convinzioni sessuali disfunzionali, poiché queste sono probabilmente coerenti con loro stessi e non comportano disfunzioni. Come riconosciuto dagli autori, le convinzioni sono “disfunzionali” nella misura in cui costituiscono una certa vulnerabilità ai problemi sessuali; quando non lo sono, tali convinzioni sono una parte legittima del modo in cui si valuta la sessualità.

Per quanto concerne le fantasie sessuali, gli asessuali che le riferiscono le considerano meno eccitanti dal punto di vista sessuale rispetto ai non asessuali; inoltre, è più probabile che riferiscano fantasie su attività sessuali che non coinvolgono loro stessi. Sembrerebbe che chi non prova attrazione sessuale possa comunque impegnarsi in fantasie sessuali, forse per facilitare l’eccitazione sessuale fisiologica e la masturbazione.

Conclusioni

In conclusione, la popolazione degli asessuali sembra essere molto eterogenea sotto differenti punti di vista. Sebbene gli asessuali differiscono dai non asessuali per alcuni aspetti, possono anche condividere alcune caratteristiche. Ad esempio, sembrano condividere alcuni punti di vista sul romanticismo e la monogamia, il contenuto delle fantasie sessuali e della masturbazione.

Ulteriori ricerche sull’asessualità si spera continueranno a decostruire lo stigma dell’asessualità, informando gli specialisti del settore sanitario e il pubblico in generale.

 

L’arcobaleno emotivo: come far tornare l’umore di mio figlio a splendere – Podcast

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “L’arcobaleno emotivo: come far tornare l’umore di mio figlio a splendere”.

 

 Solo nel 1971 l’Unione degli Psichiatri Infantili Europei ha dichiarato ufficialmente che la depressione può manifestarsi anche nell’infanzia e nell’adolescenza. In Italia sono state definite le Linee Guida dalla Società Italiana Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza – SINPIA – nel 2008. Esse documentano che questi disturbi sono spesso non riconosciuti o sottovalutati o non trattati adeguatamente, sono più frequenti rispetto a quanto ritenuto in passato, spesso sono cronici o con andamento ricorrente, presentando un alto rischio di evoluzione verso gravi psicopatologie e sono associati ad una compromissione significativa del funzionamento adattivo, sociale e cognitivo.

Per il trattamento di tali disturbi, vengono consigliati due tipi di intervento, quello non farmacologico e quello farmacologico. Rispetto al primo, risultano efficaci la psicoeducazione sul funzionamento del disturbo dell’umore che viene effettuata con il paziente e la famiglia e la psicoterapia che si dimostra valida sia nella fase acuta che nella fase di mantenimento, in particolare nelle forme meno gravi, senza sintomi psicotici e bipolari, in tutte le fasce d’età. Riguardo al secondo, i farmaci più efficaci sono gli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina (Selective Serotonine Reuptake Inhibitors o SSRI).

Approfondiamo l’argomento in questo episodio del podcast, condotto dalla Dott.ssa Valeria Mancini, Psicologa, Psicoterapeuta.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Il secretive eating in età evolutiva

Il secretive eating è caratterizzato dal mangiare furtivamente e nascondere l’evidenza di aver mangiato (Lydecker e Grillo, 2019).

 

Secretive eating e Binge Eating Disorder

Il “mangiare di nascosto” rientra tra i criteri del Binge Eating Disorder (BED): “mangiare in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità di cibo ingerite” (Lydecker e Grillo, 2019). Il secretive eating è un comportamento messo in atto da più della metà delle persone che cercano trattamento per il BED e le persone che presentano secretive eating e BED hanno una più grave psicopatologia alimentare e maggiori livelli di depressione (Lydecker e Grillo, 2019).

Tra i pazienti con Binge Eating Disorder, il secretive eating riflette una maggiore psicopatologia alimentare, anche se non un aumento nella frequenza degli episodi di binge eating o un maggiore BMI. Comprendere il secretive eating può fornire informazioni sulla gravità del disturbo alimentare e contribuire alla pianificazione del trattamento (Lydecker e Grillo, 2019).

Nonostante questo, secretive eating e Binge Eating Disorder non sono sovrapponibili; infatti, la segretezza non è sperimentata da tutte le persone con BED e gli episodi di alimentazione possono essere tenuti nascosti anche nelle persone senza BED (Lydecker e Grillo, 2019). La segretezza, per esempio, si riscontra anche in altri disturbi alimentari oltre al BED, come la bulimia nervosa, dove è legata alla vergogna e alle condotte compensative (Lydecker e Grillo, 2019).

Il secretive eating potrebbe quindi essere un indicatore precoce del fatto che gli individui possano sviluppare un vero e proprio disturbo alimentare (Lydecker e Grillo, 2019).

Secretive eating in bambini e adolescenti

Il secretive eating è relativamente comune in bambini (18.1%-27.2%) e adolescenti (34%) e associato a psicopatologia alimentare, depressione ed emotional eating (Lydecker e Grillo, 2019). Può essere legato alla vergogna per il mangiare o per il corpo, si associa a sintomatologia depressiva in adolescenti sovrappeso o obesi e può correlare con il binge eating, che a sua volta predice un eccessivo aumento di peso e l’esordio di sintomatologia alimentare.

È possibile che il secretive eating sia più comune tra gli adolescenti che tra i bambini per il fatto che gli adolescenti hanno più possibilità di avere accesso al cibo senza dover chiedere ai caregiver, grazie alla maggiore autonomia; inoltre gli adolescenti possono avere una maggior consapevolezza del secretive eating come comportamento problematico (associato alla vergogna) e quindi questo comportamento correla maggiormente con effetti negativi.

Dallo studio di Kass e collaboratori (2017) emerge come questo fenomeno possa comparire in associazione a pratiche malsane di controllo del peso, che potrebbero esacerbare un ciclo problematico di alimentazione e compensazione. È possibile che gli adolescenti in sovrappeso o con obesità sperimentino una maggiore consapevolezza del proprio peso corporeo e della propria immagine corporea con l’inizio della pubertà e successivamente si impegnino in pratiche alimentari malsane, ad esempio restrittive, per influenzare il proprio peso o la propria forma del corpo.

Lo studio suggerisce che promuovere una considerazione positiva del proprio corpo e pratiche alimentari sane possono essere accorgimenti fondamentali per ridurre il secretive eating e i comportamenti alimentari problematici ad esso collegati.

Il secretive eating può essere individuato prima di altre manifestazioni di un disturbo alimentare a causa della presenza di involucri di cibo in casa o di cibo mancante dalla cucina, di conseguenza questo comportamento potrebbe fungere da segnale di avvertimento e costituire un costrutto clinicamente significativo per lo screening dei disturbi alimentari.

Considerazioni conclusive

In conclusione, il secretive eating in bambini e adolescenti in sovrappeso o con obesità è associato all’aumentare dell’età e all’incremento della psicopatologia alimentare, suggerendo che questo comportamento potrebbe essere un marker di aumentato rischio per i disturbi alimentari. Lo screening di questo fenomeno può essere clinicamente utile per identificare i comportamenti di disturbo alimentare, sebbene siano necessari studi prospettici per valutarne l’impatto. Studi futuri potrebbero valutare se il secretive eating costituisca effettivamente un fattore di rischio per l’esordio di disturbi alimentari o se sia in qualche modo implicato nel loro mantenimento, come dato utile per la strutturazione del trattamento.

 

Solitudine, regolazione delle emozioni e Disturbo d’Ansia Sociale

Uno studio di Eres e colleghi (2012) ha avuto come obiettivo principale quello di analizzare come i deficit di regolazione delle emozioni siano associati alla solitudine in individui con e senza ansia sociale.

 

Solitudine e ansia sociale

 Gli esseri umani sono intrinsecamente esseri sociali. Infatti, è stato dimostrato che i legami sociali contribuiscono a una durata della vita maggiore (Rico-Uribe et al., 2018). Quando il senso di connessione con gli altri viene interrotto, i sentimenti di solitudine nascono come spinta evolutiva a connettersi (Levy-Gigi e Shamay-Tsoory, 2017).

Per definizione, la solitudine è uno stato emotivo negativo che si verifica a causa della percezione soggettiva che le proprie relazioni siano inadeguate (Heinrich e Gullone, 2006) ed è più strettamente associata alla qualità delle relazioni piuttosto che alla quantità (Masi et al., 2011).

Meltzer e colleghi (2013) hanno osservato che la solitudine è associata a diversi disturbi, in particolare al disturbo d’ansia sociale (DAS) e alla depressione. Analogamente, Lim e colleghi (2016) hanno rilevato che la solitudine predice più sintomi depressivi, paranoia e ansia sociale nel tempo. Tuttavia, l’ansia sociale è stata identificata come unico predittore significativo della solitudine. Questi risultati suggeriscono che esiste una relazione reciproca tra ansia sociale e solitudine.

Un meccanismo condiviso tra queste variabili è la regolazione delle emozioni. La regolazione delle emozioni è definita come la capacità di gestire, modificare e valutare le proprie espressioni e risposte emotive e caratterizza una serie di processi complessi quali: identificazione delle emozioni, selezione e capacità di attuazione (Gross, 2015).

Ansia sociale, solitudine e regolazione delle emozioni

Diversi studi hanno osservato che la presenza di relazioni sociali facilita la regolazione delle emozioni. Non sorprende quindi che chi sperimenta solitudine tenda a utilizzare maggiormente strategie di regolazione delle emozioni che non gli sono utili (ad esempio, la soppressione espressiva o l’evitamento) e un minor numero di strategie di regolazione delle emozioni solitamente utili (ad esempio, la rivalutazione cognitiva; Kearns e Creaven, 2017). Così come le persone che sperimentano solitudine, anche le persone con ansia sociale utilizzano più strategie non utili rispetto a individui sani (Werner et al., 2011).

Alla luce dei risultati appena citati, uno studio di Eres e colleghi (2012) ha avuto come obiettivo principale quello di analizzare come i deficit di regolazione delle emozioni siano associati alla solitudine. Il campione era composto da persone con Ansia Sociale, dato che gli individui con DAS sono più inclini a sperimentare livelli problematici di solitudine (Cacioppo et al., 2015). Inoltre, è stato reclutato un campione senza ansia sociale (indicato come NODAS), come gruppo di confronto per determinare se esistono differenze tra la capacità di regolazione delle emozioni in campioni clinici e non clinici.

I risultati hanno mostrato che, in media, i partecipanti con DAS hanno riportato livelli più problematici di solitudine e sintomi psicopatologici più gravi rispetto alle persone nel gruppo NODAS. In particolare, i partecipanti con DAS hanno riportato livelli più problematici di solitudine e una sintomatologia depressiva e ansiosa più grave. Ricerche precedenti hanno mostrato che la solitudine funziona come parte di un ciclo in cui l’aumento dell’isolamento sociale percepito porta a risposte ipervigilanti a potenziali minacce sociali (Cacioppo e Hawkley, 2009), per cui i punteggi di ansia sociale e depressione più gravi nei partecipanti con DAS non sorprendono.

Le strategie di regolazione emotiva nell’ansia sociale

A sostegno delle ipotesi fatte dagli autori, i partecipanti con DAS hanno riferito di utilizzare più spesso strategie di regolazione delle emozioni non utili, meno spesso strategie di regolazione delle emozioni utili e, in generale, di avere più difficoltà a regolare le proprie emozioni rispetto ai partecipanti senza DAS. Ciò suggerisce che i partecipanti con DAS fanno eccessivo affidamento sulle strategie di regolazione delle emozioni meno utili.

Questi individui mostrano un’alterazione nella selezione delle strategie di regolazione emotiva (Jazaieri et al., 2015), che si manifesta come un’aumentata sensibilità al rilevamento delle minacce sociali e un ulteriore evitamento delle situazioni di paura o di prestazione. Questo può anche contribuire a una maggiore difficoltà nell’implementazione di strategie efficaci di regolazione delle emozioni (ad esempio, accettazione, rivalutazione cognitiva; Goldin et al., 2014). Pertanto, le persone con DAS potrebbero avere maggiori difficoltà a regolare le emozioni perché si sottraggono all’impegno in situazioni percepite come minacciose.

Gli autori hanno anche rilevato che maggiori difficoltà nella consapevolezza emotiva e nella conoscenza delle proprie emozioni sono fattori importanti per la comprensione della solitudine nei soggetti con DAS. I deficit di consapevolezza e chiarezza emotiva sono stati precedentemente collegati all’ansia sociale (Kranzler et al., 2016) e possono essere indicativi di una peggiore salute e benessere mentale (Vine e Aldao, 2014). Le difficoltà osservate nella consapevolezza e nella chiarezza emotiva dei partecipanti con DAS sono congruenti con il ciclo di regolazione emotiva proposto da Jazaieri e colleghi (2015). Cioè, le persone con ansia sociale mostrano disturbi nella loro capacità di regolazione emotiva, come dimostra l’aumento delle difficoltà nel prestare attenzione alle proprie emozioni (cioè la consapevolezza) e nel comprendere le cognizioni che circondano le emozioni (cioè la chiarezza).

Inoltre, la mancanza di consapevolezza e comprensione dello stato emotivo è comune anche nelle persone che sperimentano livelli problematici di solitudine (Zysberg, 2012). Pertanto, le stesse difficoltà nella regolazione delle emozioni che sono alla base del DAS sono anche alla base della solitudine clinicamente rilevante.

Conclusioni

In conclusione, lo studio presentato ha apportato un contributo teorico significativo mostrando, per la prima volta, che la solitudine, la regolazione delle emozioni e l’ansia sociale non solo risultano correlate, ma anche che i deficit di regolazione delle emozioni sono associati alla solitudine in modo diverso nei gruppi clinici e di controllo.

Essendo la solitudine un problema complesso che richiede una moltitudine di metodi di intervento, ciò che funziona per una persona, potrebbe non necessariamente funzionare per un’altra. Dunque, sapere quale componente della capacità di regolazione delle emozioni è associata alla solitudine, consente di impiegare interventi alternativi per contrastare la solitudine. Nella pratica clinica la regolazione delle emozioni può essere quindi un aspetto utile su cui intervenire per ridurre la solitudine nelle persone con livelli clinici di DAS.

 

La terapia metacognitiva interpersonale di gruppo per i disturbi di personalità – Recensione

Il libro “La terapia metacognitiva interpersonale di gruppo per i disturbi di personalità” di Popolo, Dimaggio e Ottavi è un vero e proprio manuale per psicologi e psicoterapeuti riguardante l’applicazione della terapia metacognitiva interpersonale di gruppo (TMI-G) per i disturbi di personalità.

 

Il manuale fornisce un protocollo specifico che permette di acquisire le informazioni necessarie per conoscere la TMI-G e approcciarsi a questo tipo di terapia, accompagnando la spiegazione di ogni concetto con esempi clinici e pratici al fine di permettere una comprensione più esaustiva. La prima metà del libro è dedicata al background teorico della terapia metacognitiva interpersonale, per giungere, nella seconda parte, agli aspetti più pratici del modello, come la descrizione della composizione del gruppo, dei conduttori, delle regole e di come vengono strutturate le sedute.

I disturbi di personalità (DP) sono caratterizzati da una significativa difficoltà nelle abilità metacognitive, ossia quelle capacità che permettono di comprendere e riconoscere le emozioni e gli stati mentali propri e degli altri, e permettono di sfruttare le informazioni ottenute negli scambi interpersonali e relazionali. Le abilità metacognitive permettono quindi di poterci muovere in modo efficace e soddisfacente all’interno delle relazioni, possibilità assente negli individui con disturbi di personalità, in quanto incapaci di riconoscere e decodificare le emozioni e ciò che le coinvolge. Risulta pertanto chiaro che l’obiettivo principale del trattamento dei disturbi di personalità consiste nel migliorare nei pazienti la metacognizione, in modo tale da permettere loro di avere una vita sociale e relazionale positiva.

Il manuale dedica diversi capitoli al background teorico, in particolare alla descrizione dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI): questi vengono descritti come disposizioni innate e universali che organizzano il comportamento della persona al fine di raggiungere specifici obiettivi, e di modificare il modo di rapportarsi con gli altri in un determinato momento. Non sono schemi di comportamento, ma sistemi di regole che spingono la persona a uno specifico comportamento. Gli SMI si dividono in biologici (ad esempio il sistema esploratorio o predatorio) e sociali. Questi ultimi regolano la condotta sociale dell’uomo e sono: il sistema di attaccamento, di accudimento, agonistico, sessuale, cooperativo e di inclusione sociale. Sono veri e propri sistemi psicobiologici frutto dell’evoluzione, che organizzano sia l’esperienza emozionale, sia la rappresentazione di sé con l’altro in vista del perseguimento di un bisogno. I conduttori della terapia devono avere una conoscenza approfondita di ogni sistema motivazionale, delle emozioni e relazioni che governa, in quanto ogni sistema viene affrontato durante le sedute della TMI-G.

A seguito di una spiegazione approfondita e dettagliata di tutti i sistemi motivazionali e di come vengono gestiti all’interno della seduta, si arriva al cuore del manuale: la TMI-G. La terapia metacognitiva di gruppo è un trattamento breve, di gruppo, strutturato in 16 sedute e manualizzato, che presenta sia aspetti psicoeducativi che esperienziali, applicabile sia in un contesto pubblico, sia in uno privato. È necessario fare un accenno alla terapia di gruppo come scelta: questa permette la creazione di uno spazio adeguato e semi-naturalistico per sperimentare la relazione con gli altri; il gruppo permette al singolo di confrontarsi con i feedback degli altri, di sperimentare il confronto e il senso di appartenenza, tutto all’interno di un ambiente protetto. Ritornando alla TMI-G, è stata ideata inizialmente per adolescenti e giovani adulti, per essere in seguito estesa a tutte le età. L’obiettivo principale è il miglioramento delle funzioni metacognitive dei pazienti, per esortarli poi ad applicare le conoscenze relative gli stati mentali nel contesto sociale e interpersonale. Sostanzialmente si mira ad allenare il paziente a definire le emozioni che prova in ogni situazione e a comprendere di conseguenza anche le emozioni degli altri, a creare e mantenere legami in cui possono percepire un maggior senso di valore personale o di appartenenza ad un gruppo, trovare il modo per formare e mantenere rapporti affettivi, accudire ed essere accuditi e dare un senso ai conflitti che ciascuno di noi vive nel contesto sociale.

Quindi, riassumendo, la TMI-G prevede una parte psicoeducativa ed una esperienziale che consiste nel role play. La psicoeducazione è un intervento finalizzato a portare i pazienti ad acquisire una maggiore conoscenza e consapevolezza del disturbo, attraverso una sua spiegazione semplificata e accessibile, fatta dagli psicoterapeuti. Mira a condurre i pazienti con DP ad interrogarsi sulle proprie capacità relazionali e ad esercitare le abilità cognitive in modo più efficace in seduta e poi nel mondo reale. Accanto all’intervento psicoeducativo troviamo il role play, una tecnica che permette al paziente di confrontarsi con le difficoltà che incontra nella vita quotidiana, affrontandole in un contesto sicuro e protetto, che permette di riflettere sui propri comportamenti.

Come funziona il Role Play? Il paziente racconta un avvenimento, questo viene messo in scena assieme agli altri partecipanti: ognuno con un ruolo specifico. L’obiettivo consiste nel riprodurre determinati stati d’animo, riviverli, per poi affrontarli e discuterli. La discussione con gli altri partecipanti permette al paziente di conoscere punti di vista e interpretazioni diversi. Nella TMI-G si chiede ad ogni partecipante di scrivere un episodio autobiografico, in seguito ne viene scelto uno e messo in atto.

Al di là degli aspetti più clinici e metodologici, la struttura del gruppo è l’aspetto chiave di questa terapia, perché è fondamentale che il gruppo e i partecipanti rispettino determinati parametri al fine di permettere un’esperienza positiva, proficua e soddisfacente per tutti. Gli autori danno indicazioni chiare a riguardo. Viene segnalato che i partecipanti devono essere minimo 5 e massimo 10, in modo tale da avere un buon numero per permettere confronti e interazioni, ma un gruppo non troppo grande da impedire di dedicare sufficienti attenzione e tempo a ogni partecipante. Possono prendere parte a questo gruppo coloro che hanno una diagnosi di disturbo di personalità inibito-coartate, cioè che presentano caratteristiche di difficoltà narrativa e di chiusura sociale. Il gruppo non viene costruito basandosi esclusivamente sulla diagnosi, ma considerando principalmente il funzionamento mentale dei partecipanti. Infatti, tra i criteri di esclusione troviamo il disturbo di personalità antisociale, il disturbo di personalità schizotipico, coloro che hanno una disabilità intellettiva medio-grave, i pazienti con un disturbo psicotico e quelli con una grave disregolazione emotiva.

Successivamente vengono descritte le caratteristiche che i due conduttori (psicoterapeuti) devono possedere secondo il protocollo. Entrambi conducono il gruppo e hanno pari importanza, devono essere formati al modello TMI-G e aver svolto un training formativo pratico. Un terapeuta conduce la parte psicoeducativa e deve essere un osservatore attivo e attento dei partecipanti durante il role play, mentre l’altro conduce la parte esperienziale (role play) e guida in maniera diretta il gruppo; nella fase finale di ogni seduta entrambi prendono parte alla discussione conclusiva. Viene evidenziata l’importanza di una comunicazione e di un’alleanza continua tra i terapeuti, i quali devono incontrarsi prima di ogni seduta per riassumere ciò che è accaduto nella seduta precedente, incontro che deve avvenire anche al termine di ogni seduta. È fondamentale che i conduttori assumano una posizione mentalizzante, curiosa, attenta verso gli stati mentali dei pazienti; devono essere in grado di creare una rappresentazione del funzionamento di ciascun paziente, devono essere calorosi, empatici, gioiosi e collaborativi. Un altro aspetto cruciale è dato dalle metacomunicazioni, tramite queste il terapeuta mostra la sua mente in azione: osservare in azione la mente autoregolata del terapeuta costituisce per il paziente un modello da esplorare e conoscere; una rappresentazione alternativa dell’altro che non è così reattivo o vulnerabile o critico o distaccato e indisponibile, come prevede lo schema interpersonale maladattivo del paziente; uno specchio, che riflette al paziente il suo funzionamento.

Chiaramente la partecipazione alla terapia è governata da regole specifiche, ad esempio la frequentazione tra partecipanti al di fuori del gruppo non è permessa se non per scambi informali e veloci prima dell’incontro, non ci devono essere scambi di messaggi, viene stabilito un tetto massimo di assenze, è richiesto rispetto dell’orario e della riservatezza (privacy). La trasgressione delle regole viene gestita di volta in volta a seconda della casistica, generalmente si affronta il discorso con il paziente sempre in modo comprensivo.

È prevista una fase di assessment, a questo punto il manuale offre una descrizione dei test e delle interviste più utilizzate, indicando le più adeguate. Viene raccomandato che il DP venga valutato con strumenti standardizzati che permettano una valutazione di tutti i tratti di personalità, del funzionamento sociale e metacognitivo, nonostante la scelta degli strumenti sia libera e condizionata anche dal contesto.

Come si svolgono le sedute nel dettaglio? Ogni paziente svolge 3 sedute individuali in 3 momenti specifici: una prima dell’inizio della terapia di gruppo, una intermedia e una alla fine.

La prima avviene nel momento in cui il paziente si mette in contatto con i conduttori, è finalizzata a raccogliere informazioni circa gli schemi interpersonali maladattivi, le difficoltà e i bisogni che persegue nelle relazioni; viene introdotto e descritto il protocollo e si esplorano le sensazioni del paziente. Nella seduta intermedia si fa un controllo del funzionamento, si cerca di valutare l’andamento del trattamento ed eventuali problemi, in particolare quanto gli schemi del paziente individuati all’inizio sono ancora presenti e influenzano le strategie relazionali, quanto la partecipazione al gruppo sia emotivamente impegnativa per il paziente. L’ultima seduta indaga come il paziente ha vissuto il trattamento.

Le sedute previste, come anticipato, sono 16 a cadenza settimanale, della durata di 2 ore. Nelle prime 15 vengono presentati gli SMI sociali sopracitati, mentre l’ultima seduta è dedicata al confronto tra i partecipanti. Ogni seduta è così strutturata: warm up, parte psicoeducativa, parte esperienziale. Con l’espressione “warm up” si intende il momento iniziale, quindi quando i partecipanti arrivano e si siedono in cerchio; ciò favorisce l’interazione sociale, la presentazione della seduta e la coesione del gruppo, i partecipanti sono liberi di esprimere le proprie emozioni e sensazioni. La parte psicoeducativa, già descritta in precedenza, è costituita dalla teoria, dalla presentazione di un power-point e di un video relativo al SMI della seduta e da una discussione formativa. Tra la parte psicoeducativa e quella esperienziale c’è una pausa: durante la pausa i partecipanti sono liberi di interagire, anche se è preferibile che non si confrontino relativamente alla prima parte della seduta. La pausa permette anche ai conduttori di uscire dal gruppo e riprendersi, per poter affrontare con più attenzione e concentrazione la seconda parte della seduta. Nel manuale la parte esperienziale relativa al role play viene affrontata in maniera estremamente dettagliata, viene spiegato ogni punto e ogni passaggio, dallo stimolare la scrittura autobiografica, a come scegliere l’episodio per poi inscenarlo e affrontarlo. Tutta la spiegazione è affiancata da esempi.

La parte finale del libro affronta l’applicazione del TMI-G con pazienti disregolati e con pazienti borderline.

Il libro è un manuale molto dettagliato, che spiega passo dopo passo come andrebbe applicata la TMI-G in ogni suo aspetto, al fine di fornire un protocollo manualizzato a qualsiasi psicoterapeuta che, a seguito di una formazione specifica, desidera avere una traccia dettagliata di come applicare e svolgere la terapia ed eventuali imprevisti. Ogni spiegazione è accompagnata da esempi clinici veri e propri in modo da rendere più chiari i concetti, i quali comunque vengono affrontati chiaramente e minuziosamente. I capitoli e gli argomenti affrontati nel manuale sono molti di più rispetto a quelli riportati in questa recensione.

 

Che cos’è una Consensus Conference? – La cura per ansia e depressione in Italia: Consensus Conference Nr. 1

In questo primo numero della Rubrica viene introdotto il concetto di Consensus Conference, contestualizzandolo nell’area medica, sono poi riportati i motivi della sua importanza all’interno dell’assistenza sanitaria, cui seguono cenni sulla sua storia, infine sono illustrati gli Attori coinvolti e il tipico iter di svolgimento.

LA CURA PER ANSIA E DEPRESSIONE IN ITALIA – CONSENSUS CONFERENCE – (Nr. 1) Che cos’è una Consensus Conference?

 

Con il termine Consensus Conference, letteralmente Conferenza di Consenso – da qui in avanti tali termini saranno utilizzati in modo intercambiabile –, si fa riferimento a un procedimento che implica una serie di riunioni promosse per raccogliere opinioni valide dal punto di vista scientifico (ovvero, evidence based) in merito ad argomenti nuovi, controversi e complessi in ambito scientifico (es., medico), tecnologico ed etico (Candiani et al., 2013). Nel caso della medicina, la conferenza di consenso rappresenta un prezioso e utile strumento che, attraverso un processo formale e regolamentato, consente di sintetizzare le conoscenze in merito al tema in esame, raggiungere un accordo tra diverse figure (professionisti e utenti) e proporre delle strategie concrete, dette “raccomandazioni”, nell’ottica di offrire alle persone una migliore qualità dell’assistenza sanitaria in rapporto alle risorse a disposizione.

In Italia esistono linee guida specifiche per la conduzione di un progetto di Consensus, raccolte in un manuale aggiornato al 2013, edito in collaborazione tra l’ISS, il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, il Centro per la Valutazione dell’Efficacia dell’Assistenza Sanitaria e l’istituto Mario Negri.

Il Manuale Metodologico: come Organizzare una Conferenza di Consenso (Candiani et al., 2013), indica che lo scopo di quest’ultima è proprio quello di produrre raccomandazioni evidence based che siano utili ad assistere operatori e pazienti nell’adeguata gestione di specifiche situazioni cliniche. In particolare, tali raccomandazioni vengono generate in base alle evidenze scientifiche disponibili riguardo al tema della conferenza, a seguito di una valutazione effettuata tramite una revisione della letteratura biomedica esistente. Difatti, nonostante le decisioni cliniche vengano effettuate prettamente considerando i risultati di studi empirici verificabili e riproducibili, non sempre risulta fattibile stabilire con certezza quale sia il percorso più affidabile da seguire nella pratica clinica. Da qui la necessità di organizzare delle conferenze che raccolgano e confrontino vari punti di vista rispetto alle aree di incertezza che si evidenziano tra ricerca e applicazione clinica, che richiedono un significativo sforzo di analisi, valutazione critica e sintesi delle conoscenze disponibili.

Cenni Storici

Tale strumento è stato creato e utilizzato per la prima volta nel 1977 dai National Institutes of Health statunitensi, con lo scopo di fornire “valutazioni imparziali, indipendenti e basate su prove scientifiche riguardo le questioni mediche più complesse” (Candiani et al., 2013). Nel corso del tempo, il metodo ha subito modifiche ed è stato utilizzato da istituzioni pubbliche, società scientifiche e gruppi professionali in diversi Paesi e in diverse aree applicative. In Italia sono attualmente impiegate in campo medico e psicologico, ne è un esempio la Consensus Conference sulla gestione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, che si trova al suo secondo aggiornamento e a cui sono seguiti concreti provvedimenti legislativi (L.170/2010) in linea con quanto emerso dalla conferenza. Sebbene le raccomandazioni espresse alla conclusione del processo di Conferenza godano di un buon grado di autorevolezza presso la popolazione e le istituzioni, non hanno tuttavia potere formale e immediatamente attuativo.

Gli Attori

Secondo il Manuale (Candiani et al., 2013) gli attori coinvolti nella realizzazione di una Consensus Conference devono possedere differenti profili professionali e competenze, per esempio, amministratori, differenti medici specialisti e rappresentanti della categoria degli utenti (in questo caso pazienti) o loro associazioni. Infatti, l’aspetto della multidisciplinarietà riveste un ruolo importante nella valutazione delle proposte in esame, grazie all’integrazione di punti di vista differenti in termini organizzativi, gestionali, etici, informativi, economici e clinici. Dunque, i partecipanti previsti per condurre una Consensus Conference sono il Comitato Promotore, il Comitato Tecnico-Scientifico, il Panel di Giuria, il Comitato di Scrittura, e i Gruppi di Lavoro. Nello specifico, il Comitato Promotore può coinvolgere enti pubblici e istituzioni, società scientifiche, associazioni di cittadini o pazienti, istituti di ricerca; si occupa di definire gli obiettivi della conferenza, organizzare e gestire le varie fasi, selezionare i componenti del Comitato Tecnico-Scientifico, dei Gruppi di Lavori e del Panel di Giuria. Il Comitato Tecnico-Scientifico, nominato dal Comitato Promotore, è composto da persone con comprovata esperienza riguardo il tema oggetto della conferenza; ha il ruolo di fornire ai Gruppi di Lavoro la metodologia necessaria per produrre le relazioni e assicurarsi che venga rispettata da tutti i gruppi. I comitati Promotore e Tecnico-Scientifico collaborano in molte fasi, quali la stesura del protocollo della conferenza e l’elaborazione delle domande che verranno sottoposte al Panel Giuria. I componenti di quest’ultimo afferiscono a professioni e discipline differenti; hanno il compito di stilare un regolamento sulle procedure da seguire, esaminare i documenti prodotti dai Gruppi di Lavoro e redigere il documento finale. All’interno della Giuria viene nominato un Comitato di Scrittura, che si occupa prettamente della stesura della relazione finale, e un Presidente, che coordina i lavori del panel e del Comitato di Scrittura e assolve la funzione di referente. Infine, gli Esperti che formano i Gruppi di Lavoro sono selezionati in base alle loro specifiche competenze inerenti al tema trattato; preparano una sintesi delle evidenze scientifiche e delle informazioni disponibili agli utenti sull’argomento; forniscono tali documenti alla giuria e presentano i risultati alla celebrazione finale della conferenza.

L’iter

La prima macro-fase è quella di preparazione alla Conferenza di Consenso, che include:

  • 1. un iniziale momento di avvio lavori, in cui viene definito il tema da trattare e costituiti il Comitato Tecnico-Scientifico e il Panel di Giuria;
  • 2. una serie di attività preparatorie, come la definizione del protocollo, l’elaborazione dei quesiti, la formazione dei Gruppi di Lavoro, la redazione del regolamento della Giuria e la definizione delle indicazioni metodologiche per i Gruppi di Lavoro;
  • 3. la preparazione del materiale per la giuria, ovvero la ricerca, la selezione e la valutazione della letteratura, l’analisi delle informazioni fornite al pubblico da fonti non specialistiche, e stesura della documentazione per la giuria;
  • 4. la lettura e l’analisi dei documenti redatti dai Gruppi di Lavoro (Candiani et al., 2013).

La seconda macro-fase riguarda la celebrazione della conferenza, così detta poiché implica:

  • 5. un incontro pubblico, in cui vengono presentate e discusse le relazioni al pubblico e alla Giuria;
  • 6. una riunione a porte chiuse, per discutere e definire le conclusioni, redigere e approvare il documento preliminare di consenso;
  • 7. la comunicazione delle conclusioni a tutti i partecipanti alla conferenza; la stesura e l’approvazione del documento definitivo di consenso;
  • 8. la diffusione delle raccomandazioni (Candiani et al., 2013).

In sintesi, l’iter di svolgimento prevede la formulazione di quesiti e la stesura di un documento redatto da esperti dell’area, successivamente sottoposto alla valutazione del Panel di Giuria, e infine diffuso attraverso tutti i canali disponibili ai cittadini e alle istituzioni.

 

Amore e disamore (2022) di Giorgio Nardone – Recensione

“Amore e disamore” è l’ultima pubblicazione del Prof. Nardone, scritta insieme alla sua équipe. Un testo che analizza e approfondisce in modo chiaro, preciso ed elegante, problemi e criticità presenti in amore, i principali problemi che si incontrano in studio e come condurre al cambiamento.

 

L’amore è la più saggia delle follie, un’amarezza capace di soffocare,
una dolcezza capace di guarire (William Shakespeare).

 Nardone e la sua équipe ci accompagneranno nell’approfondire quegli aspetti che consentono di vivere un amore felice e duraturo, quali il corteggiamento reciproco, che aiuta anche affinché il desiderio perduri nel tempo, la complicità relazionale, che, al di là dei falsi miti, non esclude l’essere in disaccordo, ma nel disaccordo rimanere comunque alleati. Una terza componente che permette di vivere un amore felice è l’esclusività della relazione, aspetto forte e importante che consente, anche di fronte a crisi o entrate in scena di una terza persona, di riuscire a scegliere di salvare la relazione. Ultimo aspetto descritto in riferimento all’amore è l’unione e l’alternanza tra simmetria e complementarietà della relazione. Infatti, l’autore e la sua équipe ricordano che la sola simmetria farebbe viaggiare i due della coppia su binari paralleli che non si incontrano mai, così come la sola complementarietà potrebbe creare morbosità (come nelle dinamiche relazionali tra vittima e aguzzino).

Il testo continua nell’approfondire anche gli elementi responsabili del disamore, inteso come distacco, disinvestimento, assenza di desiderio nei confronti della persona un tempo amata. Esempi possono essere: coppie che rimangono insieme per mutuo soccorso, non per desiderio, ma perché è garantita la certezza che l’altro/a non andrà via; oppure coppie che entrano in crisi per il salto da coppia a famiglia, dimenticando il partner o togliendo a quest’ultimo le attenzioni esclusive e vivendo insieme solo per i figli. Altro aspetto fautore del disamore è rappresentato dalla relazione della coppia con la famiglia di origine. Ciò che oggi si nota, ci raccontano gli autori del testo, sono dinamiche in cui i genitori tendono a essere sempre presenti, invadenti e iperprotettivi, ma anche coppie che tendono a sviluppare una dipendenza nei confronti della famiglia di origine, a volte non soltanto economica ma di comodo.

Dopo un’ampia panoramica e descrizioni degli aspetti sopra citati, si entra nel vivo di ciò che avviene all’interno dello studio del Prof. Nardone, attraverso il racconto di 14 casi differenti fra loro, al fine di comprendere meglio quanto espresso nella prima parte del testo e consentire al lettore di trovare spunti, situazioni e copioni simili ai propri drammi. Nei ritagli dei casi citati, l’autore e la sua équipe offrono al lettore non solo la possibilità di vederli all’opera nel loro fare psicoterapia, ma anche di osservare i problemi che possono intaccare le coppie, strategie e manovre terapeutiche per orientarle al cambiamento.

Un testo molto interessante, dalla lettura scorrevole, utile tanto agli addetti ai lavori quanto all’ampio pubblico.

Al “Festival delle Emozioni” 2022 il ruolo delle emozioni nei rapporti sociali 

Dal 23 al 26 giugno si è tenuto a Terracina l’ormai abituale appuntamento con le emozioni. Tra gli eventi proposti al Festival delle Emozioni uno in particolare si è soffermato sull’importanza delle emozioni nei rapporti sociali.

 

L’incontro si è basato su tre momenti: la funzione delle emozioni, l’atteggiamento con cui reagiamo ad esse e come possiamo imparare a riconoscerle e regolarle.

In conclusione si è tenuto un laboratorio volto a dimostrare come le emozioni siano una forte opportunità di condivisione e rappresentino un filo che ci unisce tutti.

Scopo del Festival delle Emozioni

Giunto alla sua nona edizione, il Festival delle Emozioni si avvale della partecipazione di professionisti in campo formativo, psicologico, artistico e della comunicazione che attraverso seminari e workshop distribuiti nell’arco di quattro giornate offrono approfondimenti sui vari aspetti della nostra sfera emotiva, nella convinzione che essa abbia un ruolo determinante nell’esistenza di ciascuno di noi.

Nella scorsa edizione del Festival delle Emozioni un doppio appuntamento aveva indagato sul rapporto tra emozioni e musica, sottolineando come la condivisione di uno stato d’animo attraverso l’ascolto di una canzone aiutasse nella gestione delle emozioni. Proseguendo su questo tema quest’anno si è dedicato un evento all’importanza delle emozioni nei rapporti sociali.

Premessa

Fin dai primi anni di vita le emozioni che proviamo sono in grado di modellare la nostra personalità, influenzando il nostro modo di pensare e di conseguenza le nostre abitudini, desideri e aspirazioni.

Se quello che diventiamo risente in grande misura dal rapporto che abbiamo con le emozioni, imparare a riconoscerle e a gestirle in modo corretto costituisce un grande aiuto per raggiungere un livello di vita sostenibile e appagante.

Per la parte teorica l’evento si è basato sul libro ”Conoscere le emozioni. Un viaggio alla scoperta di noi stessi”.

Emozioni: il filo che ci lega

Pensate che provare un’emozione sia un’esperienza individuale, intima, che riguarda solo noi stessi? Niente di più sbagliato! Anche se a volte ci sforziamo di fare in modo che sia così e cerchiamo di nascondere quello che stiamo provando a chi ci sta intorno, per pudore, vergogna o semplicemente perché riteniamo che gli altri non dovrebbero essere coinvolti nella nostra sfera emotiva.

Le emozioni sono invece uno dei principali canali di comunicazione non verbale che stabiliamo con chi ci sta intorno, il modo più immediato per dire chi siamo e cosa pensiamo. Ciascuna di esse ha una sua funzione specifica che può essere prepararsi ad affrontare una situazione potenzialmente rischiosa o destabilizzante, come può rappresentare una richiesta di essere accuditi quando ci sentiamo più vulnerabili, o un modo per manifestare scontento con lo scopo di indurre chi ci sta di fronte a cambiare atteggiamento.

Quando le emozioni sfuggono al nostro controllo possono generare sentimenti e stati d’animo dannosi. Un esempio? La tristezza può sfociare in un sentimento di insoddisfazione che a sua volta può dar luogo ad uno stato d’animo rinunciatario. Questo influenzerà il modo di valutare le situazioni e di conseguenza le nostre emozioni future.

È a questo punto che risulta essenziale la capacità di dialogare con la nostra parte interiore per diventare consapevoli delle nostre emozioni, del loro significato e della loro origine, di quello che vogliono dirci e del messaggio che fanno arrivare a chi ci è vicino.

Dobbiamo considerare che spesso è la società stessa a scoraggiarci dal manifestare le nostre emozioni. Pensiamo ad esempio alla tristezza, che viene molte volte declassata a emozione inutile, se non addirittura dannosa. Solo un segno di debolezza di cui non essere fieri e pertanto da rimuovere.

E invece proprio la tristezza è una delle emozioni che più di ogni altra ci avvicinano agli altri ed è in grado di farci capire l’importanza della condivisione e del vivere insieme.

Proprio per questo motivo l’evento si è concentrato in modo particolare sul nostro rapporto con la tristezza, sull’importanza del saperla accettare ed esserne consapevoli per utilizzarla in modo costruttivo.

Laboratorio, dall’esperienza individuale alla condivisione

Durante l’esposizione della parte teorica si sono tenuti degli stacchi di musica dal vivo, a cura dal cantautore Mico Argirò. Come avevamo già visto in passato, la musica può essere una preziosa alleata in questo percorso perché ci fornisce un canale semplice e immediato per rapportarci alla tristezza, accettarla e diventare capaci di superarla attraverso la condivisione.

Durante questi stacchi i partecipanti sono stati invitati a scrivere su alcuni foglietti parole o stati d’animo che li legavano a quel particolare aspetto dell’emozione presa in esame, seguendo le tappe del discorso. In seguito il capo di un gomitolo di filo colorato è stato dato ad uno dei partecipanti che ha letto ad alta voce le sue annotazioni per poi passare il gomitolo ad altri che avevano annotato i medesimi concetti. Di mano in mano il gomitolo è stato dipanato fino a legare tutti i partecipanti tra loro come in una ragnatela, a dimostrazione che le emozioni ci legano, ci fanno assomigliare e ci avvicinano.

Conclusioni

Nel periodo difficile che stiamo vivendo, in cui i rapporti interpersonali sono stati complicati da una pandemia e il potere distruttivo delle divisioni si è manifestato ancora una volta attraverso una guerra, il messaggio che si è voluto dare è stato proprio quello che, nonostante le differenze individuali, il nostro essere umani ci avvicina e ci offre una base comune su cui costruire la nostra identità e i rapporti con il prossimo.

 

Sentirsi soli peggiora la memoria o il declino cognitivo ci fa sentire più soli?

Sebbene numerose ricerche in letteratura abbiano esplorato l’associazione tra la solitudine e le funzioni cognitive negli anziani, ottenendo dei risultati contrastanti, poche tra queste hanno approfondito la solitudine come predittore del declino cognitivo.

 

L’aumento delle aspettative di vita e il senso di solitudine

 Nel tempo l’aspettativa di vita si è estesa notevolmente. Infatti, le previsioni indicano che l’aspettativa di vita di un uomo passerà da 89 anni per una persona nata nel 2007 a 91 per una nata nel 2030; lo stesso succederà per le donne, la cui vita si allungherà da 92 a 95 anni (Cracknell, 2010). È necessario specificare, però, che l’aumento dell’aspettativa di vita non corrisponde necessariamente ad anni vissuti in buona salute: l’invecchiamento della popolazione e i problemi di salute legati all’età stanno aumentando notevolmente e sono una priorità per la salute pubblica. Diversi studi hanno mostrato infatti che l’invecchiamento cerebrale porta a un declino delle funzioni cognitive che avviene gradualmente nel tempo (Wilbur et al., 2012). Negli anziani le prime funzioni maggiormente compromesse sono la memoria, la velocità di elaborazione e la fluidità verbale, successivamente, in età più avanzate, il vocabolario e la padronanza del linguaggio (Salthouse, 2010).

Il costrutto della solitudine ha effetti negativi sulla salute fisica e mentale e solitamente è sperimentata maggiormente con l’aumentare degli anni (de Jong-Gierveld, 1987). La solitudine è uno stato emotivo complesso in cui la percezione dell’adeguatezza dei contatti sociali o dell’intimità delle relazioni dell’individuo è al di sotto del livello desiderato. È stata concettualizzata come un’esperienza spiacevole, che si verifica quando la rete di relazioni sociali di una persona è insufficiente dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo, come una sensazione interiore di non essere connesso agli altri, di mancanza o perdita di compagnia.

Sebbene numerose ricerche in letteratura abbiano esplorato l’associazione tra la solitudine e le funzioni cognitive negli anziani, ottenendo dei risultati contrastanti (Boss et al., 2015), poche tra queste hanno approfondito la solitudine come predittore del declino cognitivo. Alcune hanno osservato che la solitudine è associata a una funzione cognitiva globale più deficitaria o a misure specifiche della funzione cognitiva, in particolare alla fluidità verbale e alla performance in diversi compiti di memoria (O’luanaigh et al., 2012). Gow e colleghi (2013) hanno rilevato invece che i sintomi depressivi spiegano gran parte dell’associazione tra funzioni cognitive e solitudine, sebbene esistano ricerche che hanno collegato quest’ultima a un declino cognitivo indipendentemente da sintomi psicologici come quelli depressivi (Tilvis et al., 2004).

Il legame tra solitudine e declino cognitivo

Sembrerebbe, però, che la solitudine e le funzioni cognitive possano influenzarsi vicendevolmente, la prima predicendo un declino più rapido di memoria e delle funzioni verbali, le seconde peggiorando gli effetti negativi della solitudine. Un recente studio di Yin e colleghi (2019) aveva come obiettivo quello di indagare la solitudine non solo come predittore della memoria e della fluenza verbale, ma anche come conseguenza di queste abilità cognitive nel corso di un periodo di follow-up di 10 anni, con misurazioni ripetute ogni 2 anni. Gli autori volevano offrire una conoscenza più approfondita dei duplici cambiamenti della funzione cognitiva e della solitudine nel tempo, nonché della potenziale causalità inversa, testando al contempo un’associazione bidirezionale.

I dati analizzati sono stati estrapolati da un campione di 5885 partecipanti all’English Longitudinal Study of Ageing (ELSA; Steptoe et al., 2013), di età pari o superiore a 50 anni, seguiti ogni 2 anni fino al 2014-2015. La funzione cognitiva dei soggetti è stata misurata con test di richiamo mnestico di parole e di fluenza verbale, mentre la solitudine con la versione abbreviata della UCLA Loneliness Scale (Hughes et al., 2004).

I risultati mostrano un’associazione bidirezionale tra solitudine e funzioni cognitive che si influenzano vicendevolmente: una maggiore solitudine infatti è stata associata a un declino più rapido della memoria e della fluenza verbale; inoltre una memoria migliore era legata a un peggioramento più lento della solitudine indipendentemente dall’età, dal sesso, dall’istruzione, dallo stato socioeconomico, dalla limitazione delle malattie di lunga durata e dai sintomi depressivi. Sia la memoria sia la fluenza verbale sono risultate quindi inversamente associate alla solitudine e sono state predittive dei cambiamenti della solitudine e dell’accelerazione di tali cambiamenti nel tempo. Tali risultati evidenziano quindi un’associazione tra i livelli di cognizione (alla baseline) e la solitudine, nonché tra la solitudine (alla baseline) e i cambiamenti in entrambi i domini cognitivi (memoria e fluenza verbale) nel tempo.

Cosa spiega la relazione tra solitudine e declino cognitivo

Tali risultati possono essere spiegati dal fatto che dal punto di vista biologico, la solitudine è considerata un fattore di rischio per l’infiammazione cronica, la compromissione del sistema immunitario e l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), che potrebbe successivamente portare a un processo di neurodegenerazione più rapido, con l’invecchiamento che contribuisce alla disfunzione cognitiva (Cacioppo e Hawkley, 2009). Inoltre, la ridotta capacità di autoregolazione è una delle conseguenze della solitudine, che porta a un aumento del rischio di adottare comportamenti di vita non salutari, come bere e fumare, che a loro volta comprometteranno le prestazioni cognitive con l’età. È necessario sottolineare, però, che la solitudine potrebbe anche essere considerata come una risposta comportamentale a un potenziale deterioramento delle funzioni cognitive nel tempo o al rischio di deterioramento cognitivo o di insorgenza di demenza. Infatti, la perdita di memoria è spesso caratterizzata da smemoratezza e disorganizzazione, che possono essere un segno precoce di disfunzione cognitiva in individui anziani senza demenza. Questo, a sua volta, può anche portare all’isolamento e alla solitudine a causa dello stigma del declino o della compromissione cognitiva.

L’associazione tra la solitudine e il declino cognitivo può avere quindi implicazioni per la salute pubblica: promuovendo iniziative volte a ridurre la solitudine, è possibile rallentare il declino delle funzioni cognitive che gli anziani affrontano con il rapido aumento dell’aspettativa di vita di oggi.

 

L’inquinamento digitale e il suo impatto sulla vita sociale – Psicologia Digitale

Essere sempre connessi può portare a quello che viene definito inquinamento digitale, che può avere un impatto negativo sul nostro benessere e sulla qualità delle nostre relazioni.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 31) L’inquinamento digitale e il suo impatto sulla vita sociale

 

L’uso dei dispositivi digitali occupa una fetta rilevante del nostro tempo: passiamo circa 6 ore connessi tra smart tv, smartphone e altri device (Report Wearesocial, 2020). Anche se ne facciamo usi diversi (giocare, ascoltare musica, guardare film, navigare sui siti, sfogliare i social, fare corsi online, ecc.), a prescindere da quale sia il mezzo, oggi siamo più connessi che mai.

Pensare che tutto questo tempo possa influenzare i nostri comportamenti e abitudini è un’ovvia conseguenza.

Tra tutti i dispositivi, lo smartphone è quello più rappresentato e usato. Nel nostro Paese ci sono più smartphone che abitanti, con circa 80 milioni di dispositivi attivi (Report Wearesocial, 2020) ed è facile capire come mai: un cellulare è piccolo e facilmente trasportabile, permette di essere connessi 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, racchiude in un solo strumento innumerevoli funzioni e consente di fare più cose contemporaneamente.

Le nostre abitudini con lo smartphone

Che l’utilizzo degli smartphone sia quantomeno un’abitudine non deve dircelo la ricerca, basta fare una rapida ricognizione di quante volte lo abbiamo controllato nell’ultimo giorno; stando all’ultimo Global Mobile Consumer Trend report di Deloitte (2020), molto probabilmente almeno 80 volte.

Questo perché la gamma di azioni e attività che è possibile fare oggi con uno smartphone è davvero variegata: chat, social, mail, news, ecc. Tutte le volte che controlliamo il telefonino è solo e sempre per una qualche utilità? In realtà no. Essendo un’abitudine può dipendere anche da situazioni e stati emotivi, per esempio quando ci annoiamo alla fermata del tram è fonte di intrattenimento e distrazione. Per noi non è un’abitudine problematica anche quando lo facciamo molto frequentemente.

Secondo Oulasvirta e Rattenbury (2012) gran parte dell’uso degli smartphone è rappresentata da comportamenti di check, cioè sessioni molto brevi, ripetute spesso e distribuite in modo più o meno uniforme nell’arco della giornata, in cui controlliamo rapidamente qualcosa (l’ora, una notifica, ecc.); a seguire vengono comportamenti diretti ad azioni più prolungate, come stare sui social.

Al netto dell’utilità pratica, perché lo facciamo? C’è dietro un meccanismo di ricompensa. Infatti, secondo Oulasvirta e Rattenbury (2012), sono tre i tipi di ricompensa che ci fanno stare incollati allo smartphone: informativa, interattiva e di consapevolezza.

La prima riguarda tutte quelle informazioni “statiche”, come l’ora o un feed di notizie, quelle di cui l’utente usufruisce senza compiere azioni. La seconda, viceversa, include le interazioni come rispondere a una chat. Quello di conoscenza si riferisce all’essere informati in tempo reale o quasi, per esempio come quando aggiorniamo la casella di posta elettronica per vedere se sono arrivati nuovi messaggi; implica l’esserci. E noi ci siamo, sempre.

Che cos’è la digital pollution, l’inquinamento digitale

Tutte le attività legate al funzionamento di Internet e dei device digitali lasciano un’impronta significativa sull’ambiente: inviare un messaggio, utilizzare i social, giocare, streaming, ecc., sono attività che hanno un impatto in termini di consumo di energia non rinnovabile, emissioni di CO2, smaltimento di materiali, ecc. Analogamente, Agrawal (2021) definisce “digital pollution”, inquinamento digitale, l’impatto negativo che possono avere su di noi, sull’ambiente familiare e sociale tutta una serie di attività digitali, come: chat e messaggi, video, social network (Facebook, Twitter, LinkedIn, WhatsApp, ecc.), giocare online, essere connessi in generale. Si manifesta con stanchezza, mancanza di concentrazione, dolore diffuso, deterioramento dei rapporti sociali (Agrawal, 2021).

Anche se difficilmente ce ne rendiamo conto, tutto questo deriva proprio dalla nostra abitudine a essere sempre connessi: per esempio, abbiamo quasi sempre il cellulare vicino a noi, lo controlliamo molto spesso anche prima di andare a letto e come prima cosa al mattino, perfino durante la notte se ci svegliamo, lo usiamo per ascoltare musica quando camminiamo o guidiamo.

La Digital Pollution Scale

In uno studio pubblicato lo scorso anno, Agrawal (2021) non ha solo definito a cosa ci riferiamo quando parliamo di inquinamento digitale, ma ha sviluppato la Digital Pollution Scale per misurare l’impatto dell’uso eccessivo di smartphone, computer e smartTV sulle interazioni familiari e sociali. Secondo il modello di Agrawal, all’aumentare dell’uso di questi device (e quindi dell’inquinamento digitale) va a diminuire la qualità delle interazioni. Dovrebbe essere controintuitivo, in quanto non solo sono mezzi che ci servono per essere connessi (mai come ora siamo potenzialmente connessi con chiunque), ma consentono molte attività che possono essere condivise, come giocare o guardare un film.

Lo studio ha mostrato, invece, che più ci dedichiamo ai device, più in realtà ci isoliamo dal mondo fisico circostante per andare a immergerci in quello virtuale a portata di click; soprattutto lo smartphone è il maggiore imputato in questo. Anche senza arrivare a vere e proprie dipendenze, l’uso eccessivo può causare conseguenze negative sul nostro benessere emotivo e sociale (Roberts e David, 2016).

Sempre più distratti dai dispositivi digitali e scollegati gli uni dagli altri, secondo Agrawal (2021) ci troviamo di fronte a “un disturbo emergente”, poiché l’atteggiamento e il comportamento causato dall’eccessivo coinvolgimento con i dispositivi digitali ha un impatto negativo significativo sulla nostra vita sociale.

 

DC:0-5. Classificazione diagnostica della salute mentale e dei disturbi di sviluppo nell’infanzia – Recensione

“DC:0-5. Classificazione diagnostica della salute mentale e dei disturbi di sviluppo nell’infanzia” è un’utile guida per il clinico per capire la condizione psicologica del bambino.

 

Capire il bambino e il suo comportamento, individuare degli aspetti patologici, distinguere questi da aspetti normali (o critici ma solo temporanei), costituisce un compito molto difficile. Il bambino infatti non riesce ad esprimersi verbalmente con la competenza di un adulto e, soprattutto, almeno fino ad una certa età, non ha le stesse capacità di astrazione e di comprensione della propria realtà interiore. Occorre quindi prudenza nella valutazione diagnostica dei più piccoli e, soprattutto, come terapeuti, avere una mente aperta alla complessità di quanto si osserva.

Questo, a dire il vero, è ciò che spesso non riescono a cogliere i manuali diagnostici e statistici più diffusi, che provano a includere il soggetto in una lista di tratti/criteri al di sopra o al di sotto dei quali esiste la normalità o la patologia. Bisogna dire che un passo avanti nel senso di aumentare la complessità della diagnosi psicologica, affinché tenga conto di aspetti dimensionali, temporali, contestuali, culturali e di adattamento/disadattamento ambientale è stato fatto con il DSM-5 (APA, 2013), sebbene quest’ultimo risulti comunque un po’ carente, o almeno non molto approfondito, per quanto riguarda gli specifici disturbi che possono caratterizzare i bambini, in particolare i bambini piccoli che si collocano nella fascia d’età 0-5 anni.

È proprio a partire dalla considerazione di questa lacuna che si può apprezzare fortemente un libro come “DC:0-5. Classificazione diagnostica della salute mentale e dei disturbi di sviluppo nell’infanzia”, edito da Fioriti nel 2018 e che ha visto già una prima ristampa nel 2020.

Il libro riprende il vecchio sistema degli assi (in questo caso 5), scomparso nell’ultima versione del DSM, ma che aveva costituito il fulcro delle versioni precedenti, descrivendo la condizione del bambino secondo le seguenti dimensioni: Disturbi clinici (asse I), Contesto relazionale (Asse II), Condizioni mediche associate o influenti per la diagnosi (asse III), Fattori psicosociali di stress (asse IV), Competenze di sviluppo (asse V).

Andando nello specifico, l’asse I, come avveniva nel DSM-IV (APA, 1994), include i principali disturbi che riguardano i bambini piccoli, individuando le grandi categorie dei disturbi del neurosviluppo, delle funzioni fisiologiche (sonno, alimentazione), dei disturbi d’ansia e dell’umore (nella versione depressiva e rabbioso/aggressiva), quelli ossessivo-compulsivi, quelli da traumi, quelli dell’attaccamento.

Molto importante è l’asse II, in cui è valutata, attraverso delle griglie di osservazione, la qualità della relazione di accudimento del bambino con i suoi caregivers, secondo vari criteri ormai confermati dalla ricerca come centrali nel definire una buona relazione genitore-bambino. Quest’asse è fondamentale, in quanto il benessere del bambino piccolo dipende moltissimo dalla qualità della relazione coi suoi genitori e non è possibile comprenderne il disagio o intervenire, senza una comprensione e un approfondimento del rapporto coi suoi genitori, degli atteggiamenti di questi ultimi verso il bambino e il proprio ruolo genitoriale.

Altrettanto interessanti sono gli altri tre assi, centrati sulla valutazione di altri elementi che influiscono pesantemente sul benessere del bambino (e della sua famiglia), che possono modulare l’entità del disturbo: la condizione medica del bambino (ad esempio se è affetto da qualche patologia), i fattori psicosociali di stress (condizioni economiche della famiglia, eventi traumatici, risorse presenti nel territorio, ecc.), e le risorse/competenze possedute dal bambino, che lo rendono capace di equilibrare la sua sofferenza psicologica. A tal proposito, sono presenti nel libro delle griglie che descrivono le principali competenze del bambino, in base all’età, nelle principali aree del suo funzionamento: cognitiva, emotiva, sociale-relazionale e motoria. Da considerare che tutte le schede osservative presenti nel libro si possono scaricare gratuitamente registrandosi nel sito dell’editore e quindi stamparle più comodamente.

Nel complesso si tratta di un manuale di facile consultazione (considerata la mole di altri manuali classificatori), fondamentale per chi lavora nel settore dell’età evolutiva, che ha il merito della chiarezza, della sintesi, del supporto di dati di ricerca aggiornati. Soprattutto ha il merito di far riflettere il clinico a considerare la complessità implicita nella diagnosi in età evolutiva, tenendo ampiamente conto di fattori che altri manuali analoghi almeno in parte trascurano, come gli aspetti culturali legati all’ambiente familiare, l’importanza di tutto ciò che ruota attorno al bambino nel determinare o modulare l’intensità della sua sofferenza, l’incapacità dei bambini piccoli, o della grande difficoltà dei bambini anche più grandi, di condividere e chiarire verbalmente il proprio malessere.

 

Emozioni negative, rimuginio e intolleranza all’incertezza

Britton, Neale e Davey (2018) hanno esaminato gli effetti della manipolazione sperimentale del rimuginio sull’intolleranza all’incertezza, le credenze negative e positive a proposito delle conseguenze del rimuginio stesso e le emozioni di ansia e tristezza.

 

Il rimuginio è stato definito da Borkovec e colleghi come una “catena di pensieri e immagini, carica di sentimenti negativi e relativamente incontrollabile” (1983, p.10). Il modello metacognitivo fa una distinzione tra rimuginio e valutazioni sul rimuginio, nonché su metacredenze positive (ad es. “preoccuparmi mi fa chiarire i pensieri e mi fa concentrare”) e metacredenze negative (ad es. “preoccuparmi mi rende teso e irritabile”). Il rimuginio viene attivato in risposta a stimoli che provocano ansia ed è collegato alle metacredenze positive, mentre le valutazioni sul rimuginio sono correlate alle metacredenze negative come “se ci penserò troppo, impazzirò” (Britton et al., 2018). Le metacredenze negative possono far attivare una serie di meccanismi per tentare di ottenere il controllo sul rimuginio stesso: alcuni di questi meccanismi sono la soppressione del pensiero e l’evitamento, che paradossalmente portano a un effetto contrario (Britton et al., 2018).

Rimuginio e intolleranza all’incertezza

L’intolleranza all’incertezza è definita come una “caratteristica che deriva da un insieme di credenze negative sull’incertezza, sulle sue connotazioni e sulle sue conseguenze” (Birrell et al., 2011, p.1200). Koerner e Dugas (2006) hanno identificato alcune credenze che supportano l’intolleranza all’incertezza, come “non è tollerabile, è pericolosa, non posso affrontarla”. Nel modello dell’intolleranza all’incertezza (Dugas et al., 1997; 2004) viene proposta la presenza del pensiero dubbioso “e se…?” quando le persone si ritrovano in condizioni di incertezza angoscianti, pensiero che spinge le persone a un orientamento negativo del problema, che accresce l’evitamento cognitivo e le emozioni negative. Diversi studi hanno dimostrato come l’intolleranza all’incertezza sia correlata al rimuginio (Buhr e Dugas, 2006), così come alle metacredenze positive e negative (Cartwright-Hatton e Wells, 1997).

Thielsch, Andor ed Ehring (2015) hanno valutato la preoccupazione, per un periodo di una settimana con sette misurazioni giornaliere, utilizzando l’Ecological Momentary Assessment. Gli autori hanno scoperto che l’intolleranza all’incertezza e le credenze negative sono significativamente correlate al rimuginio, a differenza delle credenze positive (Thielsch et al., 2015). Meeten e colleghi (2012) hanno mostrato sperimentalmente che l’intolleranza all’incertezza ha un effetto causale sul rimuginio: su un campione composto da soggetti non clinici, è stato chiesto di descrivere un evento che ha causato loro incertezza e di riconoscere se i livelli di intolleranza provati erano alti o bassi. I risultati hanno mostrato come il gruppo con la più alta intolleranza all’incertezza ha trascorso molto più tempo a rimuginare su un compito rispetto al gruppo con una bassa intolleranza (Britton et al., 2018).

Le evidenze suggeriscono anche che l’umore negativo ha una relazione bidirezionale con il rimuginio, con la valutazione di quest’ultimo (Buhr e Dugas, 2009; Johnston e Davey, 1997; McLaughlin et al., 2007), con l’intolleranza all’incertezza (Britton e Davey, 2014) e con le credenze positive e negative (Cartwright-Hatton e Wells, 1997).

Rimuginio ed emozioni negative

Britton, Neale e Davey (2018) hanno esaminato gli effetti della manipolazione sperimentale del rimuginio sull’intolleranza all’incertezza, le credenze negative e positive a proposito delle conseguenze del rimuginio stesso e le emozioni di ansia e tristezza. Tale studio ha voluto comprendere se l’umore negativo sia un potenziale mediatore tra il rimuginio e l’intolleranza all’incertezza (Britton et al., 2018).

Un campione non clinico è stato suddiviso in due gruppi: ai partecipanti del gruppo sperimentale (n=29) è stato chiesto di generare 20 potenziali preoccupazioni a proposito di uno scenario ipotetico, mentre al gruppo di controllo (n=28) è stato chiesto di generare due potenziali preoccupazioni a proposito dello stesso scenario. Prima della divisione casuale nei due gruppi, è stato somministrato il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) per valutare la frequenza e l’intensità del rimuginio nel campione. Dato che le misure dell’intolleranza all’incertezza e delle credenze positive e negative potrebbero essere non sufficientemente sensibili per registrare le modifiche risultanti da manipolazioni sperimentali, sono state selezionate delle domande dalla Intolerance of Uncertainty Scale – Short Form (IUS-12; Carleton, Norton e Asmundson, 2007) e dalla Consequences of Worry Scale per misurarle (COWS; Davey, Tallis e Capuzzo, 1996). Poiché i gruppi non differivano significativamente in termini di umore negativo, ansia e tristezza non sono state esplorate come possibili mediatrici, ma sono stati osservati gli altri dati ottenuti (Britton et al., 2018). I dati evidenziano come il gruppo sperimentale ha ottenuto dei punteggi più alti del gruppo di controllo nelle misurazioni sull’intolleranza all’incertezza e sulle credenze positive e negative. A differenza dei risultati ottenuti da Thielsch (2015) si è visto come l’intolleranza all’incertezza risulta positivamente correlata con le credenze positive e negative.

I dati sono in linea con le ricerche che mostrano la bidirezionalità tra i sintomi correlati all’ansia e ai costrutti clinici associati, nonché coerenti con un approccio che vede i sintomi ansiosi come parte di un sistema evoluto e integrato, per la gestione di minacce o di sfide e obiettivi, che possono essere raggiunti attraverso il coordinamento delle funzioni cognitive, comportamentali e affettive (Britton et al., 2018). Se tali implicazioni vengono considerate nella pratica clinica, l’effetto del rimuginio e le credenze innescate possono essere trattate focalizzandosi sul rimuginio stesso, con lo scopo di ridurre i sintomi ansiosi (Britton et al., 2018).

 

La soppressione del peso e le sue implicazioni

Per un breve periodo è possibile introdurre un controllo esogeno sul proprio peso (una dieta, regole alimentari…) ottenendo un cambiamento, ma, a lungo andare, questi meccanismi sono alla base di quello che viene definito recupero del peso.

 

La variazione del peso

La massima altezza a cui possiamo arrivare è “scritta” nel nostro DNA. È così per la forma e la lunghezza del naso, delle ciglia, delle dita della mano; per la misura del piede; per il colore dei capelli e degli occhi… ma per il peso?

Siamo abituati a pensare di poter modificare il nostro peso corporeo a piacimento, semplicemente mangiando di più se desideriamo che aumenti e di meno se, al contrario, desideriamo che diminuisca. Ma allora perché, una volta interrotti questi comportamenti atti alla sua modificazione, il peso tende a tornare al livello iniziale? Perché non è possibile cambiarlo in maniera “definitiva”?

La regolazione del peso corporeo è un meccanismo complesso che ha come obiettivo l’omeostasi, ovvero la tendenza biologica a conservare invariate le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne: in questo caso particolare, il peso percepito come sano dall’organismo.

Questo sistema di autoregolazione coinvolge diverse molecole che agiscono prevalentemente sull’ipotalamo e modificano tanto l’assetto metabolico quanto il comportamento dell’individuo proprio per garantire il mantenimento di questo status quo.

Possiamo dividere i segnali biologici in due categorie:

  • Segnali anoressizanti, ovvero in grado di ridurre la fame, sono prodotti in risposta ad un aumento del peso e del numero e/o volume degli adipociti. Tra essi troviamo l’ormone leptina, prodotto dal tessuto adiposo, il quale ha la funzione di ridurre l’appetito, stimolando la lipolisi e la termogenesi, e inducendo così sia una riduzione della fame sia l’aumento dei consumi energetici. Anche l’insulina, ormone prodotto dalle cellule beta del pancreas in risposta all’ingestione di cibo, è in grado di ridurre l’appetito;
  • Segnali oressizzanti, il cui scopo è quello di aumentare l’appetito, vengono prodotti quando il peso corporeo scende e quando numero e/o volume degli adipociti si riduce. Fanno parte di questa categoria il neuropeptide Y, sintetizzato a livello ipotalamico in risposta anche al digiuno, e la grelina, ormone prodotto dalle cellule dello stomaco per stimolare l’appetito.

Per un breve periodo, è possibile “silenziare” questi messaggi biologici introducendo un controllo esogeno (una dieta, regole alimentari…) e appellandosi alla volontà, ed ottenere in questo modo una modifica del peso ma, a lungo andare, questi meccanismi sono alla base di quello che viene definito weight regain – recupero del peso – così come anche della difficoltà nell’aumento ponderale degli individui con un peso biologicamente basso.

In entrambi i casi, il ritorno del peso allo status iniziale viene spesso attribuito erroneamente ad una mancanza di forza di volontà e può creare nell’individuo un grande senso di frustrazione.

Quanto maggiore è la differenza tra il peso per così dire biologico e quello raggiunto, tanto più importanti saranno le risposte dell’organismo per ristabilire lo stato di omeostasi e, di conseguenza, gli sforzi che l’individuo dovrà fare per mantenere il nuovo peso.

I meccanismi di regolazione del peso andrebbero sempre presi in considerazione da dietologi, dietisti e nutrizionisti che affiancano una persona che desidera dimagrire o aumentare in peso: ignorare la spinta biologica al ripristino dello status quo, infatti, significherebbe abbandonare il paziente a se stesso nel momento più difficile del percorso, ovvero il mantenimento dei risultati raggiunti.

Peso e obesità

In particolare, nel caso di pazienti affetti da obesità, occorre ricercare una perdita di peso che sia tollerabile per l’organismo ma, allo stesso tempo, sufficiente affinché si possa ottenere un miglioramento dello stato di salute.
Diversi studi hanno dimostrato che una perdita di circa il 5-10% del peso, sebbene spesso non permetta di rientrare in una classificazione di normopeso, determini significativi miglioramenti delle condizioni di salute e delle complicanze mediche associate all’obesità (Dalle Grave – “Il primo passo per perdere peso”) ed è perciò questo un peso ragionevole a cui puntare.

Il modo migliore per ottenerlo è sicuramente una terapia che punti alla modificazione dello stile di vita e che implichi un cambiamento a lungo termine di:

  • Alimentazione, attraverso l’introduzione di una dieta moderatamente ipocalorica, che consenta la perdita di circa 0,5-1 kg a settimana prima e il mantenimento poi;
  • Attività fisica, con la riduzione della sedentarietà e la creazione di abitudini più attive, da mantenere nel tempo;
  • Fattori di mantenimento, ovvero meccanismi psicologici e comportamentali che favoriscono il mantenimento della condizione di obesità.

Peso e anoressia nervosa

Un’altra situazione in cui il meccanismo del weight regain costituisce un problema da non ignorare è quello dell’anoressia nervosa: nel caso di questo disturbo del comportamento alimentare, il peso soppresso può essere di così tanti kg da spingere il corpo a meccanismi estremi per il recupero e l’autoconservazione.

Molti pazienti, infatti, dopo un periodo di restrizione e dimagrimento iniziano a sperimentare momenti di perdita di controllo sul cibo, fino ad avere in alcuni casi vere e proprie abbuffate.

Lo scopo di questi comportamenti è, metabolicamente parlando, proprio quello di evitare la morte per fame e permettere all’organismo di riottenere il peso di partenza.

Visti come comportamenti egodistonici, le perdite di controllo portano ad un aumento delle preoccupazioni e ad un senso di colpa tali che il paziente spesso arriva ad amplificare ulteriormente la propria restrizione alimentare e talvolta mettere in atto strategie di compenso (vomito autoindotto, esercizio fisico eccessivo, abuso di lassativi…).

Una corretta terapia per i disturbi alimentari dovrebbe dunque tenere conto della soppressione del peso e della necessità di un recupero di questo, proprio perché parte integrante dei fattori di mantenimento del problema. Educare a questi meccanismi e all’importanza di ottenere un peso salutare, ovvero quello che può essere mantenuto con uno stile di vita sano ed un’alimentazione varia e flessibile, può essere un passo importante per una buona compliance e la prevenzione delle ricadute.

 

L’imagery rescripting (2022) di Remco van der Wijngaart – Recensione

Nel testo, Remco van der Wijngaart, psicoterapeuta e supervisore/trainer di Terapia cognitivo-comportamentale e Schema Therapy, illustra in maniera dettagliata la tecnica dell’Imagery Rescripting.

 

 Come indica il termine stesso, si tratta della riscrittura in immaginazione: tutti siamo in grado di immaginare, ovvero di portare alla mente ricordi o fatti già accaduti o proiettati nel futuro.

L’immaginazione e la visualizzazione sono pratiche utilizzate fin dall’antichità, con fini disparati; solo recentemente esse sono impiegate nel contesto di cura, con finalità diagnostica, per indagare ed elaborare eventi traumatici pregressi o come metodo per affrontare paure relative a stimoli o situazioni temute futuri.

La ricerca ha dimostrato come “immaginarsi” in una determinata azione attivi le stesse aree cerebrali di quando svolgiamo realmente la medesima attività: “la rappresentazione e l’esperienza di un’informazione sensoriale in assenza di uno stimolo diretto esterno” (Pearson et al., 2015) coinvolge i diversi canali sensoriali, vista, udito, tatto, gusto, olfatto, motricità, attivi nella percezione.

Centrale nel processo di immaginazione è l’utilizzo della memoria autobiografica, ovvero la capacità di accedere ad elementi che risiedono nella nostra memoria: “quando la gente ricorda sta immaginando e quando immagina sta usando la memoria” (Conway and Loveday, 2015, pag. 574).

L’elemento fondante l’efficacia di tale tecnica è l’accesso all’emotività del paziente e diversi studi hanno sottolineato come l’elaborazione delle informazioni a livello immaginativo abbia un impatto maggiore sull’esperienza emotiva, rispetto all’elaborazione a livello puramente verbale.

Non è ancora chiaro quale sia l’effettivo meccanismo di funzionamento dell’Imagery Rescripting, che ne garantisce l’efficacia, ovvero se essa intervenga nella formazione di un ricordo ex novo, in competizione con quello immagazzinato in memoria, reso meno accessibile, o se, invece, intervenga nella modifica diretta del ricordo iniziale. Il fine è, comunque, la modifica, in immaginazione, del ricordo doloroso verso un esito maggiormente favorevole.

Sia se utilizzata con finalità diagnostica, sia come parte dell’intervento terapeutico, il terapeuta mira ad accedere ai bisogni emotivi fondamentali del paziente, ripetutamente frustrati.

I bisogni emotivi fondamentali individuati dalla Schema Therapy sono:

  • sicurezza, stabilità e protezione
  • vicinanza, cura, nutrimento ed empatia
  • libertà di esprimere emozioni, bisogni e opinioni
  • accettazione, stima e lode
  • autonomia, senso di competenza e di identità
  • limiti realistici e auto-controllo
  • spontaneità e gioco
  • coerenza del sé, lealtà/giustizia (quest’ultimo aggiunto da recenti studi di Arntz et al. 2021).

Una volta identificato il bisogno per il quale il paziente non ha ricevuto congrua risposta, l’obiettivo è creare un’esperienza correttiva dello stesso tramite imago: a tal fine non ci sono regole in immaginazione ed è possibile ricorrere a diversi escamotages per contrastare l’antagonista abusante, punitivo, assente, violento, imprevedibile, esigente, colpevolizzante.

L’autore presenta due casi clinici, Hans e Greg, e ciascun passaggio metodologico viene affrontato in chiave teorica e attraverso esemplificazioni di sedute, tali da chiarire il modus operandi, nonché le eventuali difficoltà che paziente e terapeuta possono incontrare.

Favorisce l’accesso all’esperienza emotiva il focalizzarsi sul qui ed ora e per tale motivo occorrerà utilizzare il tempo presente, tramite accurate domande quali:

  • Cosa vede?
  • Chi è presente?
  • Cosa sta facendo?
  • Come si sente?
  • Di cosa avrebbe bisogno adesso?

Il debriefing rappresenta una fase fondamentale dell’imagery rescripting perché permette di inquadrare l’esperienza appena vissuta su un piano cognitivo, consentendo di associare l’evento originale a un’emozione più positiva, rispondente al bisogno che ha trovato appagamento in immaginazione.

L’imagery rescripting non mira, e non può, cambiare il decorso degli eventi reali, ma persegue l’obiettivo di fortificare la parte Adulto sano del paziente, al fine di ascoltare il proprio Bambino vulnerabile e prendersene cura, nonché favorire un atteggiamento maggiormente funzionale verso eventi futuri temuti.

 Ampiamente utilizzata per il trattamento del Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD), nel testo viene descritto come applicare l’imagery rescripting nelle dipendenze, nel disturbo da incubi e nei flashforward, ovvero nelle immagini intrusive, indesiderabili e dolorose di eventi collocati nel futuro. I flashforward sono comuni nei Disturbi d’Ansia, nella Schizofrenia e nella Depressione e hanno per oggetto contenuti catastrofici: nella depressione, in particolare, il paziente può anche arrivare ad immaginare il momento del suicidio.

A seconda dello specifico disturbo e della fase trattamentale, il terapeuta guiderà il paziente nel rivivere l’esperienza dolorosa, riscrivendone il finale, per giungere ad uno stadio successivo in cui sarà il paziente stesso ad assumere parte attiva nel rescripting.

Oltre alla riscrittura degli eventi negativi, alla fine del testo viene presentata un’ulteriore forma di imagery: l’immaginazione positiva, caratterizzata dal fatto che si creano immagini positive sin dall’inizio della visualizzazione, senza intervenire prima su ricordi negativi. La sua efficacia è nota da decenni nel mondo dello sport, dove viene ampiamente praticata.

In appendice sono riportati, inoltre, i diversi passaggi metodologici, che possono rappresentare un utile canovaccio per il terapeuta, da seguire fintantoché non si è raggiunta un’expertise nella tecnica.

 

Una panoramica sulla paralisi nel sonno in Italia

La paralisi del sonno è un disturbo del sonno che comporta uno stato di immobilità involontaria, definita atonia muscolare, che avviene tipicamente durante il momento dell’inizio del sonno o subito prima al risveglio (Jalal et al., 2021).

 

Cos’è la paralisi del sonno

Questo disturbo del sonno è caratterizzato dal fatto che lo stato di immobilità ha una durata di tempo moderata e, nonostante sia impossibile per l’individuo muovere i muscoli, i movimenti oculari e respiratori sono intatti, come anche la capacità di percezione (Sharpless e Barber, 2011). È inoltre stato riscontrato come questi episodi accadano più frequentemente in individui che dormono in posizione supina (Sharpless e Barber, 2011).

Dato che durante la fase REM (Rapid Eye Movement) dello stato di sonno possono accadere sogni intensi, il nostro cervello paralizza il corpo durante tale fase, al fine di evitare che il corpo si muova durante questi sogni con il rischio che si faccia male (Jalal et a., 2021). La paralisi avviene tramite l’inibizione del tono muscolare scheletrico grazie ai neurotrasmettitori GABA e glicina. Tuttavia, durante questa fase, è possibile che avvengano delle percezioni allucinatorie che causano l’interruzione del sonno dell’individuo, che però si trova in una situazione di totale immobilità muscolare. Nel caso in cui le allucinazioni avvengano all’inizio del sonno, si parla di allucinazioni ipnagogiche; invece, nel caso in cui avvengano al risveglio, si tratta di allucinazioni ipnopompiche. Queste possono avvenire in tutte le modalità sensoriali, e alcune tra le esperienze più comuni riguardano l’udire passi e sussurri che non si verificano nella realtà, oppure esperire una sensazione di levitazione o autoscopia, ovvero un’esperienza dissociativa dove l’individuo vede il suo corpo dall’esterno.

Una sensazione terrificante che gli individui che soffrono di paralisi del sonno possono esperire, è quella di percepire o, addirittura vedere, nel buio una presenza/sagoma buia con fattezze simil-umane che scivola sul corpo dell’individuo, una sorta di intruso la cui visione terrorizza la persona che dorme. In Italia, la figura oscura che viene incontrata durante l’esperienza di paralisi nel sonno è stata chiamata “Pantafica”, una figura spettrale appartenente al folklore abruzzese e marchigiano (Jalal et al., 2021).

Gli episodi di paralisi del sonno sono stati studiati e interpretati in molte culture e con diverse spiegazioni, dalle motivazioni scientifiche a quelle spirituali e sovrannaturali (Sharpless e Barber, 2011). Questo fenomeno è stato collegato a diverse condizioni mediche, come la narcolessia, l’ipertensione e disturbi epilettici, ma sono associati anche a disagi riguardanti la qualità del sonno, jet lag, mancanza di sonno e più generalmente una condizione di stress. Quando l’esperienza di paralisi del sonno si verifica solamente una volta o sporadicamente, si parla di paralisi del sonno isolata.

Le allucinazioni nella paralisi del sonno

Jalal e colleghi (2021) hanno ipotizzato che in Italia, in particolare nella regione Abruzzo, le persone esperissero episodi di paralisi del sonno più frequentemente, con un periodo di immobilità maggiore e una paura più intensa, rispetto alle culture dove non viene considerata così tanto la figura della “presenza oscura”, come per esempio in Danimarca (Jalal et al., 2021). Sono stati reclutati 67 individui che hanno esperito almeno una volta nella vita la paralisi del sonno. Ai partecipanti è stato somministrato lo Sleep Paralysis Experiences and Phenomenology Questionnaire (SP-EPQ; Jalal et al., 2015), uno strumento che indaga una serie di elementi che sono legati all’esperienza della paralisi del sonno, ovvero la presenza, il tempo di durata, la posizione tenuta durante il sonno, le sensazioni somatiche associate, l’esperienza allucinatoria, il significato culturale dell’allucinazione, la ricerca di aiuto e le fonti di informazione usate per comprendere l’episodio. I risultati hanno riportato che la popolazione italiana osservata sembra avere un periodo di paralisi muscolare più prolungato rispetto ad altre culture (la durata media è di circa 5 minuti). Inoltre, il 42% dei partecipanti ha riportato una intensa paura di morire. In aggiunta, sembra che la componente culturale abbia avuto un ruolo centrale in questa ricerca, dato che circa un terzo dei partecipanti ha riferito di essere convinto che l’esperienza della paralisi del sonno è stata causata dalla creatura denominata “Pantafica”.

I risultati di questa ricerca suggeriscono che sia possibile che l’aspetto culturale possa in qualche modo intervenire sull’esperienza del fenomeno, incrementando la sensazione di terrore (Jalal et al., 2021). Sarebbe interessante esplorare se il fenomeno della paralisi del sonno possa essere vissuto in modi diversi in Italia, e come questa esperienza possa essere in qualche misura correlata con la psicopatologia, considerando nello specifico ansia e depressione.

 

La mente bugiarda, come i bias cognitivi ci mentono sulla realtà

I bias cognitivi sono presenti e ineliminabili in ognuno di noi, sono indipendenti dalla cultura e dall’intelligenza individuale, sono la dotazione base di ogni cervello umano che ha sviluppato questi meccanismi nel corso della sua evoluzione con il fine di adattarsi il meglio possibile ad un ambiente complesso e pericoloso.

 

Il funzionamento della mente

Il termine inconscio indica genericamente tutte le attività mentali che si svolgono senza che l’individuo ne sia cosciente, più precisamente, nell’accezione moderna si riferisce a pensieri, emozioni, rappresentazioni, modelli comportamentali che sono alla base dell’agire umano di cui il soggetto non è consapevole.

Sebbene il termine sia stato coniato dal filosofo romantico Friedrich Schelling nel XVIII secolo, le sue origini concettuali si possono rintracciare già nei filosofi greci; Platone parlava di un sapere nascosto all’interno dell’anima umana; successivamente Leibniz, in opposizione alla dottrina cartesiana che identificava la coscienza con la totalità della vita pensante evidenziava l’esistenza di pensieri di cui non siamo coscienti, le “percezioni insensibili”, ma è certamente con Freud ed i successivi psicologi del profondo che questo concetto è stato portato a livelli di diffusione mai raggiunti prima.

Purtroppo tale diffusione ha caratterizzato il significato del termine connotandolo come il contenitore dei contenuti psichici rimossi che tendono a riaffiorare in forma simbolica nei sogni, nei lapsus o negli atti mancati, quali espressioni di una serie di istinti e di desideri il cui contenuto non si manifesta in forma cosciente.

Sebbene già lo psicanalista Alfred Adler abbia utilizzato il termine in modo più riduttivo rispetto a Freud, più per designare quegli automatismi del pensiero e del comportamento che sono stati interiorizzati al punto da non essere più riconosciuti dalla coscienza che per definire una zona psichica vera e propria, collocandosi quindi come un antesignano del cognitivismo (non a caso fu l’autore di riferimento di Albert Ellis), è soltanto negli ultimi decenni che si è potuta sviluppare una concezione scientifica che ha reciso i legami teorici con la psicoanalisi portando nel 1987 lo psicologo cognitivista J.F. Kihlstrom ad introdurre il concetto di inconscio cognitivo che definisce l’interesse delle scienze cognitive volto a comprendere le dinamiche interne delle attività mentali come la percezione, il ragionamento, la comprensione del linguaggio, dei processi decisionali ecc. studiandone i meccanismi procedurali e le strutture categoriali.

L’inconscio cognitivo e i bias cognitivi

Ma quindi oggi concretamente quando parliamo di inconscio cognitivo a cosa ci riferiamo? Quali implicazioni concrete ha questa modalità di funzionamento?

Dobbiamo tener presente che l’approccio alla teoria dell’elaborazione delle informazioni prevede una memoria permanente sufficientemente ampia, una memoria di lavoro, molto più piccola, in cui buona parte dell’informazione proveniente dai canali sensoriali viene elaborata e di componenti funzionali, cioè di meccanismi necessari a far funzionare il modello procedurale.

In sostanza l’ipotesi è che la memoria a lungo termine per funzionare debba possedere degli schemi per elaborare l’informazione al fine di poter disporre rapidamente di conclusioni operative fondate prevalentemente sulle esperienze passate; vedremo più avanti il motivo di questa condizione.

L’idea suggerita è che i bias, al pari delle euristiche, non sono delle percezioni errate o pregiudizi cognitivi, ma dei veri e propri procedimenti mentali intuitivi che strutturano e definiscono la nostra percezione della realtà inducendoci a costruire una idea, anche indefinita o generica, su un argomento, per giungere rapidamente a delle conclusioni che ci consentano di agire.

Sono quindi delle vere e proprie “regole generali” che ognuno di noi utilizza per interpretare le nostre esperienze.

Prendiamo ad esempio il bias del pensiero dicotomico, la tendenza cioè ad interpretare il mondo in bianco o nero. Tale modello concettuale tende ad essere applicato automaticamente in moltissime situazioni; se una persona ci appare simpatica generalizzeremo questa impressione assumendo che lo sarà sempre, in quasi tutte le situazioni, parimenti se ci appare antipatica ci aspetteremo un comportamento coerente con la nostra visione e conseguentemente saremo propensi a rilevare e ad interpretare i comportamenti dell’altro in modo da confermare la nostra visione.

È evidente che tali procedure, attuandosi in modo sistematico, producono necessariamente una distorsione della realtà, nessuno è antipatico o simpatico sempre o per tutti; assumendo e concettualizzando le informazioni in questo modo si determinano nel tempo pensieri e convinzioni altamente disfunzionali, poco realistiche, che possono causare una vasta gamma di disagi e di sofferenze emotive.

I vantaggi dei bias

Ma perché allora ci affidiamo a questi processi che sfuggono alla nostra coscienza, che si attuano automaticamente, che inoltre appaiono grossolani ed imprecisi?

La prima risposta ci viene dall’evoluzione, la coscienza così come la conosciamo si è evoluta lentamente, affiancandosi gradualmente alle procedure “intuitive” che necessariamente dovevano essere utilizzate per decidere quali comportamenti attuare. Edelman propone che la coscienza di ordine superiore sia stata preceduta da una coscienza primaria dove si è mentalmente consapevoli delle cose del mondo, in cui si hanno immagini mentali del presente, ne sono dotati gli essere umani e anche animali privi di capacita linguistiche. “La coscienza primaria è coscienza di una scena composta da risposte ad oggetti ed eventi, non tutti collegati necessariamente da una relazione di causalità. Un animale dotato di coscienza primaria può discriminare e collegare tali oggetti ed eventi mediante la memoria della esperienze precedenti.” Ecco il perché della comparazione delle nuove esperienze con quelle che le hanno precedute, che risulta essere il modo più semplice e diretto per dare velocemente un senso agli avvenimenti; paragonare le nuove esperienze con situazioni simili già avvenute ci consente di disporre di soluzioni già sperimentate.

Teniamo presente che il primo livello di analisi di uno stimolo esterno effettuato dal nostro sistema nervoso riguarda le proprietà fisiche dello stimolo. Se ci viene chiesto di dire quale tra due oggetti è il più vicino a noi possiamo farlo senza difficoltà, ma non siamo in grado di spiegare quali operazioni siano state svolte per arrivare a quella conclusione, di fatto abbiamo un accesso cosciente al risultato della computazione, ma non a quest’ultima.

Questo a ben vedere non deve apparirci strano, il nostro cervello per decine di migliaia di anni si è visto costretto ad elaborare delle procedure che lo aiutassero a comprendere ed organizzare la complessità del mondo. Tutti gli atti percettivi ad esempio sono condizionati dalle procedure adottate per raggruppare gli stimoli in dati interpretabili ed anche in questo caso il confronto avviene con i modelli memorizzati. Prendiamo ad esempio l’illusione di Muller-Lyer.

Bias cognitivi cosa influenza la nostra percezione della realta Imm 1

Classico esempio di errore dello stimolo, l’errore percettivo che consiste nel vedere le cose del mondo non secondo le loro mere caratteristiche fisiche, ma secondo le specifiche conoscenze che gli individui dispongono al riguardo.

Infatti nel caso citato assumiamo automaticamente che la linea che presenta l’apertura verso l’esterno sia più lunga perchè gli angoli interni vengono confrontati con il modello a disposizione che ci suggerisce che la loro presenza caratterizza una maggiore lontananza, mentre al contrario gli angoli esterni appaiono generalmente più vicini.

Bias cognitivi cosa influenza la nostra percezione della realta imm 2

Il dato rilevante è che la “convinzione“ che le due linee siano diverse permane anche dopo che le abbiamo misurate più volte, a dimostrazione del fatto che i dati percepiti (ed elaborati), inconsapevolmente mantengono una costante resistenza all’esame di realtà.

Se la sterminata mole di evidenze scientifiche ci ha portato ad accettare l’idea che molte attività percettive importanti vengono svolte “automaticamente” dal nostro cervello non deve poi stupirci se troviamo modalità analoghe anche nel sistema concettuale.

Pensare consapevolmente richiede infatti molto tempo e molto impegno, se dovessimo essere consapevoli di tutte le nostre attività procedurali saremmo così tanto indaffarati ad elaborare informazioni da non riuscire a fare altro.

Quindi la tendenza alla semplificazione, all’utilizzo cioè di bias, che ci consentono di attivare risposte rapide senza perdere troppo tempo nell’attività computazionale e lo svolgimento di tale attività in modo automatico, si dimostra un ottimo modo di funzionamento, almeno nella maggior parte delle situazioni.

Immaginate che mentre camminate in una foresta vedete sul sentiero una forma snella e curva, solo la corteccia può capire se si tratta di un bastone o di un serpente, ma per svolgere questa analisi deve raccogliere ulteriori informazioni, magari si deve avvicinare alla sagoma ecc. L’amigdala invece, la ghiandola deputata a mantenere l’archivio emozionale sulla base della elaborazione primaria, si attiva subito senza avere il problema di capire esattamente se lo stimolo percepito è realmente un serpente, per il suo modello stereotipato è sufficiente che gli somigli, che possa essere potenzialmente un pericolo per attivarsi ed indurre la paura e la fuga.

Di fatto, in genere, tale comportamento risulta più efficace dell’eventuale analisi dettagliata svolta dalla corteccia.

Dal punto di vista della sopravvivenza è meglio reagire alle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero piuttosto che non reagire affatto.

A lungo termine confondere un’ombra con un orso è molto più conveniente del contrario.

Il processo automatico è così radicalizzato che il significato emotivo di uno stimolo può essere valutato dal cervello prima che i sistemi percettivi abbiano finito di elaborarlo. Il cervello utilizza infatti un’estensione del falso positivo; generalizzando a dismisura le situazioni potenzialmente pericolose cerca di salvaguardare la nostra vita anche a scapito del nostro benessere.

Le conseguenze dei bias cognitivi

Una delle conseguenze più perturbanti è che la nostra mente non ha fra i suoi compiti quello di immagazzinare la realtà come fosse una macchina fotografica, o un registratore di suoni; tale compito gli è impedito dai limiti sensoriali della nostra specie, noi non abbiamo la capacità di percepire tutti gli stimoli presenti nella realtà, tant’è che dobbiamo applicare una selezione anticipatoria che ci porta a cogliere solo alcuni degli aspetti rilevabili, in genere in base alle nostre esperienze convinzioni o aspettative. Essa infatti si è sviluppata per svolgere un compito molto più complesso, adattarsi cioè rapidamente a situazioni nuove o impreviste, valutarle rapidamente sulla base delle nostre necessità e garantire una risposta veloce, anche se i dati a disposizione sono pochi o incompleti; questo non ci garantisce necessariamente l’emissione della risposta migliore, piuttosto quella più rapida finalizzata a commettere l’errore meno dannoso.

L’idea secondo cui abbiamo un accesso limitato al funzionamento della nostra mente è difficile da accettare, poiché è ovviamente estranea alla nostra esperienza; assumere l’idea che molte delle nostre azioni e delle nostre emozioni siano innescate da eventi di cui non siamo consapevoli, meccanismi psichici che agiscono su di noi a nostra insaputa, che hanno effetti tangibili e spesso indesiderabili utilizzando delle procedure “automatiche” che non conosciamo, ci appare particolarmente gravosa perché apparentemente indebolisce il senso di continuità e solidità della nostra personalità, percepita come un continuum lineare e coerente.

Questa visione non rende però completamente giustizia alla nostra complessità ed anche alle nostre potenzialità; se è vero infatti che nell’elaborazione primaria il processamento dell’informazione per soddisfare il criterio della velocità si vincola il prima possibile ad una particolare interpretazione a scapito di tutte le altre possibili interpretazioni producendo errori piuttosto gravi di comprensione e giudizio, va evidenziato che siamo in grado di recuperare le linee di pensiero tagliate fuori, di ampliare e migliorare le connessioni concettuali, di sviluppare strategie ed interpretazioni più articolate e complesse.

Possiamo quindi affrancarci da questi processi distorsivi a condizione però di accettare che i bias cognitivi sono presenti e ineliminabili in ognuno di noi, che sono indipendenti dalla cultura e dall’intelligenza individuale che, in quanto strutturali, sono la dotazione base di ogni cervello umano che ha sviluppato questi meccanismi nel corso della sua evoluzione con il fine di adattarsi il meglio possibile ad un ambiente complesso e pericoloso.

Per farlo dobbiamo confrontarci con la principale di tutte le illusioni cognitive: il bias del punto cieco, un termine introdotto dalla psicologa Emily Pronin dell’Università di Princeton, che si riferisce alla difficoltà di rilevare i nostri stessi pregiudizi.

Questa distorsione consiste nell’attribuire a se stessi un’oggettività e un’affidabilità superiore a quella riconosciuta alle altre persone, riguarda cioè la nostra incapacità di prendere atto dei nostri pregiudizi cognitivi e la tendenza a pensare di essere meno prevenuti degli altri. Pensiamo di vedere le cose in modo più oggettivo e razionale, come sono veramente “nella realtà” a differenza degli altri ai quali attribuiamo un giudizio limitato, ritenendo che le nostre esperienze e circostanze di vita ci abbiano dato una prospettiva più ampia, ricca e saggia rispetto a quella sviluppata dalle altre persone.

Quanto sia diffusa questa tendenza ce lo indica chiaramente una recente ricerca condotta dall’Università di Stanford secondo la quale l’87% delle persone riteneva di avere una visione della realtà superiore alla media e il 63% giudicava se stesso oggettivo e privo di pregiudizi.

Accettare la nostra parzialità, accettare l’idea che non vediamo le cose come sono ma per come siamo, che tendiamo a creare una propria realtà soggettiva non necessariamente corrispondente all’evidenza data è il primo e più importante passo da compiere per poterci liberare, almeno parzialmente, dal dominio delle distorsioni cognitive.

Dobbiamo abbandonare il realismo ingenuo che ci induce a credere che vediamo il mondo intorno a noi in modo obiettivo, che esista una realtà oggettiva e da noi percepibile, che i nostri sensi ci garantiscono di percepire la realtà direttamente per come è senza alcun processo interposto. Dovremmo inoltre sforzarci anche di accettare di non essere in grado di pensare razionalmente, che i nostri processi di ragionamento si fondano su schemi intuitivi piuttosto che su modelli logici che utilizzano regole precise e che portano a conclusioni incontrovertibili, come invece siamo portati comunemente a credere, e che sviluppare la nostra limitata capacità razionalizzante rappresenta per noi un impegno particolarmente gravoso.

Solo così facendo potremmo lavorare fattivamente su un miglioramento dei nostri sistemi concettuali sviluppando euristiche più articolate e funzionali, abbastanza complesse da riuscire a definire ed affrontare efficacemente la complessità della realtà.

A ognuno quel che si merita (2022) di Dennett e Caruso – Recensione

Libero arbitrio, si o no? Nel libro “A ognuno quel che si merita” ne discutono i due autori.

 

Siamo responsabili delle nostre azioni? Oppure è l’ambiente che ci circonda ad indirizzarci, senza lasciarci la possibilità di scegliere diversamente? E dunque, è giusto essere puniti se le nostre azioni sono considerate moralmente sbagliate, oppure meritiamo le attenuanti di chi non può essere considerato pienamente responsabile?

Il punto di partenza

Il libro è impostato come un dialogo che intercorre tra i due autori, Dennett e Caruso, ed è un confronto sul tema del libero arbitrio partendo da posizioni divergenti.

Per cominciare si introducono alcuni concetti base: il determinismo, secondo il quale ogni evento presente è determinato da altri eventi accaduti in passato, e l’indeterminismo, che considera gli eventi che si verificano non determinati da condizioni sufficienti al loro verificarsi.

Tra queste due correnti si posizionano i compatibilisti, che ritengono il libero arbitrio conciliabile con il determinismo. Di questo avviso è Dennett, in contrapposizione a Caruso.

Nel corso del libro i due autori sostengono ed argomentano le loro diverse posizioni.

Il merito di base

Uno dei primi temi introdotti è quello del merito di base, secondo il quale chi ha agito scorrettamente merita di essere rimproverato e punito solo in quanto ha agito per motivi moralmente cattivi, al contrario chi ha agito correttamente merita elogi e ricompense solo per aver agito per motivi moralmente buoni. Questa valutazione sembra quindi non basarsi su altre considerazioni, quali la previsione di vantaggi futuri.

La discussione che ne consegue si basa sull’assunto che le punizioni sono legate ad un concetto di merito che va oltre il merito di base e sono utili per benefici futuri quali una migliore convivenza tra gli individui.

Libero arbitrio e responsabilità morale

Se per Caruso il nostro comportamento è fortemente influenzato da fattori che sfuggono al nostro controllo, Dennett sostiene che crescendo assumiamo l’identità di agenti autonomi, dotati quindi di capacità decisionale che ci rende pienamente responsabili delle nostre azioni.

Come motivazione della necessità di infliggere punizioni si introduce il concetto di giustificazione retributiva, secondo la quale chi si comporta in modo scorretto è meritevole di essere punito. Questo si rende necessario perché tutti dipendiamo dalla possibilità di far conto sul comportamento degli altri, che deve quindi rientrare in ciò che è considerato moralmente corretto, e tutti capiamo che saremo chiamati a rendere conto di ciò che facciamo, essendo pertanto consapevoli delle conseguenze negative a cui possiamo andare incontro.

Al contrario di Dennett, Caruso sostiene il ruolo determinante della fortuna nelle nostre vite. La domanda che si pone è sostanzialmente questa: “Abbiamo la libertà o la capacità di volere, o di scegliere diversamente?”. Condizioni sociali, economiche, talenti naturali, concorrono a farci vivere situazioni molto differenti e indipendenti da una scelta personale. Sarebbero quindi queste condizioni, e non una nostra scelta, a determinare il nostro comportamento. Tesi che Dennett non respinge in assoluto ma che mitiga sostenendo che l’effetto della fortuna si neutralizza nel lungo periodo. La sua idea è che la vita somigli più ad una maratona che ad uno sprint e che, quindi, sulla lunga distanza, le predisposizioni individuali contino più dei fattori ambientali. Ritiene inoltre che il determinismo non escluda la capacità di fare scelte, correggersi e cambiare il proprio modo di agire.

Le argomentazioni

Caruso sostiene che sia possibile avere una società che possa ritenersi sicura senza che questa si basi su un sistema di merito da usare per incolpare o punire i suoi individui, che si trovano ad agire spinti da manipolazioni esterne di cui sono spesso inconsapevoli e che non possono contrastare. Dennett obietta che nessuno nasce moralmente responsabile ma che la formazione orienta il proprio modo di agire rendendoci consapevoli, e quindi responsabili, di quello che facciamo.

Secondo Caruso le circostanze in cui ci si trova determinano il modo di essere, se ne deduce che nessuno può essere ritenuto ultimamente responsabile del suo modo di essere e di quello che fa. Sia il nostro comportamento, che un’eventuale decisione di modificarlo, sarebbero quindi da imputare a fattori esterni. Sintetizzando potremmo dire che se non abbiamo merito nell’essere nati in una società moderna, relativamente stabile e con determinati valori, così non abbiamo colpe nel nascere in una realtà violenta dove i delitti sono all’ordine del giorno. Il nostro modo di agire sarà molto probabilmente diverso a seconda della realtà in cui ci troveremo, ma il nostro grado di responsabilità non cambierà.

Dennett ribatte asserendo che la vita non è sempre giusta e non ci sono garanzie che la sfortuna non si metterà sulla nostra strada, ma se in una gara vince il meno forte perché il migliore è stato sfortunato, questo non mette in discussione il risultato finale.

La differenza fondamentale tra le due posizioni è che per Caruso “la fortuna inghiotte tutto”, mentre per Dennett formazione ed educazione permettono di andare oltre gli effetti che essa può esercitare.

Pena, morale, merito

Se in alcuni momenti le posizioni dei due autori sembrano avvicinarsi, resta una divergenza di base sul concetto di pena, morale e merito e di conseguenza sul modello da adottare per regolare al meglio la vita nella società.

Interessante notare il modello della quarantena di salute pubblica proposto da Caruso. Se un individuo contrae una malattia contagiosa e pericolosa per il suo prossimo è legittimo limitare la sua libertà con un sistema di quarantena obbligatoria, non per punirlo di una colpa che non ha, ma per tutelare il suo prossimo. Ma, secondo l’autore, è importante notare che alla base della necessità di una quarantena c’è il fallimento del sistema di salute pubblica nella sua funzione primaria. E su questa sarebbe quindi opportuno intervenire per evitare che si verifichino diseguaglianze. Stesso discorso varrebbe quindi per altri aspetti a cui si rivolge la giustizia penale. Il fulcro del discorso è che il diritto di difendere se stessi e gli altri (sia in caso di epidemie che di comportamenti potenzialmente dannosi) va attuato infliggendo la minima afflizione necessaria per ottenere una protezione adeguata. La quarantena non è una pena poiché non cerca intenzionalmente di causare danni. Il concetto di pena implica invece che i danni a chi la subisce siano intenzionalmente inflitti, inoltre a una funzione stigmatizzante che funziona da messaggio e ammonimento per tutti.

Dennett è contrario ad una politica generale di scusanti, porta ad esempio il bambino che cresce con genitori che lo giustificano e non puniscono i suoi cattivi comportamenti e accusa questi stessi genitori di essere responsabili di creare un adulto moralmente incapace, concludendo con un passaggio che invita a riflettere:

È interessante il fatto che noi in realtà troviamo spazio per ammonire o punire in totale segretezza i nostri figli, segnatamente sulla base del fatto che in questo modo ne proteggiamo la reputazione con i coetanei e con gli altri, dando loro una seconda (o terza, o decima) possibilità di migliorarsi prima di assumere la piena responsabilità morale. Questi accordi privati dovrebbero sempre portare con sé una tacita comprensione del fatto che viene concessa una possibilità di scelta: “Vuoi la mia pietà o il mio rispetto? Fammi sapere quando sei pronto per il secondo. Nella misura in cui io ti scuso, esigendo meno da te in termini di comportamento morale e autocontrollato, esprimo il giudizio che non sei ancora un agente morale affidabile, che non sei ancora qualcuno su cui si può contare”:

 

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