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Una nuova psichiatria (2021) di E. Arreghini e V. Casetti- Recensione

Nel loro volume Una nuova psichiatria. La Disruptive Psychiatry: innovazione e proposte concrete, Arrenghi e Casetti propongono la possibilità di un completo rimodellamento dei servizi pubblici psichiatrici.

 

 Il dibattito sulla necessità di rendere più moderna la psichiatria dei servizi pubblici italiani è senz’altro attuale ed effettivamente è più che legittimo interrogarsi sull’efficacia dei servizi di salute mentale, sui loro costi e sulla loro possibile evoluzione. Il libro pone dunque un tema rilevante, con riflessioni e prospettive operative per immaginare una possibile ristrutturazione nell’ambito della salute mentale nel nostro paese, secondo un modello che viene definito Disruptive Psychiatry.

Il termine “disruption” in sé non è nuovo ed è collegato al nostro modello di evolvere, di crescere e cambiare. Oggi è sempre più utilizzato nei convegni e nel dibattito nel mondo dell’economia. Il suo significato è «rottura» e indica cambiamenti improvvisi nel modo di fare, pensare o interpretare ciò che ci circonda. Il mondo scientifico usa da secoli la formula del «cambiamento di paradigma» per riferirsi a un insieme di teorie e assunti scientifici che non risulta più valido perché è intervenuto qualcosa che ha stravolto il senso dato fino a quel momento, mettendo in discussione le conoscenze e le prassi precedenti. Comunque, il successo attuale del concetto ed il suo utilizzo più frequente sono in riferimento alle innovazioni della tecnologia digitale. La disruptive innovation ad esempio, è l’effetto di una nuova tecnologia, o di un nuovo modo di operare in un modello di business, che conduce alla modifica radicale della logica fino a quel momento in vigore nel mercato, introducendo comportamenti e interazioni nuove e rivoluzionando quindi le logiche correnti. Nel mondo aziendale il termine fa quindi riferimento a cambiamenti in qualche modo inaspettati nel modo di funzionare di un business, dovuti soprattutto alle potenzialità offerte dalla tecnologia. Ne sono esempio Amazon, che diventa fornitore di contenuti televisivi mentre sinora era considerato un venditore di prodotti on-line; oppure WhatsApp, che muta il modo di comunicare tra le persone e rivoluziona il mercato dei gestori di telefonia. Tuttavia, l’impatto di una innovazione di rottura è, in qualche modo, imprevedibile: si può definire “disruptive” solo a posteriori, dopo che ne è stato riconosciuto in modo diffuso il valore. Tornando al nostro tema, dunque, di questo occorre tener conto ed è tutto da verificare se le proposte illustrate dagli autori avranno effettivamente il potere di suscitare un profondo mutamento operativo nella psichiatria italiana, oppure resteranno solo idee su carta.

Parlare quindi di Disruptive Psychiatry appare molto ambizioso, e forse un po’ esagerato, anche perché gli autori si propongono fautori di un vero e proprio nuovo paradigma, i cui riferimenti teorici evidentemente non possono essere contenuti in un’opera di poco meno di 100 pagine, ma è pur vero che il testo propone un completo rimodellamento dei servizi pubblici.

Tra le proposte contenute nel volume, la più importante è senz’altro rappresentata dalla conversione dei Centri di Salute Mentale (C.S.M.) in recovery colleges: essi andrebbero collocati all’esterno degli ospedali e dovrebbero essere completamente svuotati dei compiti di cura, sia ambulatoriale sia in Day Hospital, secondo il modello inglese. Da tali strutture dovrebbero essere assenti gli psichiatri e non dovrebbe essere erogato alcun trattamento medico-psichiatrico (pur essendo parte dell’organizzazione dei servizi psichiatrici). Secondo il modello proposto nel libro, la loro funzione sarebbe quella di offrire opportunità formative, quindi di educational support, con un accesso libero e scelto dai pazienti a seconda delle loro esigenze. Dovrebbero essere il luogo dove non siano gli psichiatri a decidere, surrettiziamente, quali siano i bisogni del paziente, ma dove offrire un modello formativo sui possibili bisogni del paziente, “limitandosi” a proporre strumenti e conoscenza perché il singolo persegua le proprie necessità.

 Ulteriore proposta innovativa riguarda i trattamenti medico-psichiatrici. Secondo il modello, essi devono tornare nei luoghi deputati alla cura di tutti i cittadini che si rivolgono ai servizi per qualsiasi specialità medica, ovvero gli ospedali e gli ambulatori delle aziende sanitarie. Gli ambulatori delle Unità Operative di Psichiatria dovrebbero essere suddivisi in sub-specialità per offrire trattamenti specializzati a pazienti con specifici disturbi con la collaborazione di diversi professionisti della salute mentale. Gli psicologi lavorerebbero anche come case-managers a seconda dei diversi casi in cura, offrirebbero il trattamento psicoterapico che ha ricevuto più evidenze per lo specifico disturbo da trattare, mentre gli assistenti sociali supporterebbero i pazienti nel loro percorso di recovery, difendendone i diritti di cittadinanza.

Riguardo al ricovero ospedaliero, esso, laddove necessario, potrebbe avvenire in due ambiti chiaramente separati. Il primo sarebbe il reparto ordinario di psichiatria, a cui afferisce la maggior parte dei pazienti che, analogamente ai degenti di tutti gli altri reparti, non potrebbero essere sottoposti, in rispetto alle norme giuridiche, ad alcuna forma di contenzione. Il secondo sarebbe costituito, invece, da una sezione distaccata, se possibile attigua ai reparti di medicina d’urgenza, in cui i pazienti in Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) sarebbero trattati in conformità alla legge finché le loro condizioni cliniche lo richiederanno.

L’ultima proposta riguarda le spese sanitarie e le risorse dei servizi di salute mentale che dovrebbero essere ripartite secondo criteri epidemiologici, privilegiando i disturbi clinici più frequenti e con maggiore impatto economico-sociale. Per gli autori, la vera emergenza è costituita dalla depressione, di cui soffrirebbero, nelle diverse forme, nel mondo circa 300 milioni di persone (OMS, 2017).

Completa il volume la descrizione di quattro casi clinici presentati sinteticamente: prima si racconta come sono trattati oggi e poi come potrebbero essere trattati in modo più efficace, secondo il nuovo modello della disruptive psychiatry.

La lettura del volume risulta interessante, anche se appare un po’ ambizioso il progetto di presentare, in circa ottanta pagine, un vero e proprio nuovo paradigma per la psichiatria pubblica. Inoltre, colpisce la praticamente inesistenza di contributi italiani, soprattutto recenti, nella pur estesa bibliografia.

Gli autori sono uno psichiatra, Ermanno Arreghini, e una psicologa, Valentina Casetti, entrambi operanti a Trento.

 

Funzioni esecutive, metacognizione e difficoltà emotive nei DSA – Report

Report della Presentazione del Forum di Ricerca in Psicoterapia 2022 dal titolo Funzioni esecutive e metacognizione: quali differenze in bambini e preadolescenti con DSA e non nello sviluppo di difficoltà emotive?

 

 Lo studio è stato condotto a San Benedetto come tesi di specializzazione: l’argomento oggetto d’indagine è la relazione tra le funzioni esecutive, la metacognizione e i disturbi d’ansia in un campione di soggetti con o senza DSA, che andavano dai 9 ai 13 anni.

La presentazione comincia con una spiegazione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) così come definiti dai criteri del DSM-5: i DSA comprendono la dislessia, la discalculia, la disgrafia e la disortografia. Le cause dei DSA vanno ricercate principalmente nelle disfunzioni neurobiologiche che interferiscono con il processo di acquisizione di lettura, calcolo e scrittura. Sono inoltre rilevanti nel loro sviluppo i fattori ambientali come il contesto familiare e scolastico, contribuendo al maggiore o al minor livello di disadattamento.

Gli autori pongono l’accento sull’importante relazione esistente tra funzioni esecutive, ovvero le abilità cognitive necessarie per programmare, mettere in atto e portare a termine un comportamento o un compito, DSA e fattori emotivi che incidono sullo sviluppo del disagio psicologico. Infatti, attualmente, la letteratura sottolinea come i bambini con DSA abbiano una visione significativamente negativa di loro stessi e una bassa autostima rispetto ai bambini senza questo disturbo.

Nel corso degli anni diverse ricerche hanno approfondito lo studio dei processi cognitivi in soggetti con DSA per prendere in esame anche i fattori emotivi che potenzialmente hanno rilevanza per lo sviluppo dell’individuo e che possono determinare situazioni di disagio. I bambini con DSA, così come riporta la letteratura, hanno una visione di se stessi peggiore rispetto ai bambini senza tale disturbo. Hanno inoltre la tendenza ad avere livelli più elevati di ansia. Una bassa autostima è un fattore di rischio per lo sviluppo di depressione o, nei casi meno gravi, sentimenti di inadeguatezza persistenti.

Gli autori proseguono con una breve spiegazione della metacognizione come struttura cognitiva sovraordinata di cui fanno parte la consapevolezza delle proprie capacità cognitive e l’abilità di controllarle e direzionarle. Il Self Regulatory Executive Function Model (S-REF) di Wells illustra come le credenze metacognitive, positive e negative, e i processi metacognitivi siano considerati cruciali nel determinare il benessere emotivo o gli stili di pensiero disfunzionali degli individui.

Processi quali il rimuginio, la ruminazione e il tentativo di sopprimere i propri pensieri attivano delle strategie di coping disfunzionali che determinano il mantenimento di uno stile specifico di elaborazione cognitiva, riconosciuto come Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS).

Studi recenti hanno cercato di ampliare il modello della metacognizione di Wells anche all’età evolutiva, applicandolo a bambini e adolescenti in età scolare. I risultati hanno mostrato che i disturbi internalizzati mostrati dai bambini, in adolescenza evolvono in una preoccupazione eccessiva e incontrollabile che permane in età adulta.

All’interno di questa cornice teorica, lo studio presentato si pone l’obiettivo di analizzare, in un campione di 40 bambini e preadolescenti tra i 9 e i 13 anni, con e senza diagnosi di DSA, quali siano le variabili che vanno a influenzare maggiormente lo sviluppo di difficoltà emotive. L’ipotesi è di rilevare punteggi migliori nei test finalizzati a valutare le funzioni esecutive nel gruppo di controllo, un livello significativamente maggiore di ansia nel gruppo sperimentale e una differenza significativa nell’area della metacognizione tra i due gruppi.

I soggetti hanno compilato due questionari self-report: lo Screen Child Anxiety Related Emotional Disorders (SCARED), per valutare la sintomatologia ansiosa e il Metacognition Questionnaire for Children (MCQ-C) per valutare i processi metacognitivi. Tutti i soggetti hanno inoltre completato alcuni test per la valutazione delle funzioni esecutive (e.g., Test della Torre di Londra, Test delle Campanelle Modificato).

 I risultati hanno mostrato differenze significative tra i due gruppi in diverse aree riguardanti le funzioni esecutive (e.g., memoria di lista immediata e differita, abilità di problem solving, attenzione selettiva e sostenuta). Per quanto riguarda la sintomatologia ansiosa, i bambini e gli adolescenti con DSA mostrano un punteggio totale significativamente maggiore del gruppo di controllo e un maggior punteggio nella sottoscala del disturbo d’ansia sociale. Per quanto riguarda la valutazione dei processi metacognitivi, il gruppo sperimentale ha ottenuto un punteggio significativamente maggiore del gruppo di controllo nelle sottoscale che indagano le credenze positive e le credenze di superstizione, punizione e responsabilità.

I risultati hanno inoltre mostrato che, nel campione preso in considerazione, all’aumentare delle metacredenze si riduce la prestazione nelle prove che valutano le funzioni esecutive, mentre aumenta il livello di ansia.

Le funzioni esecutive risultano essere più deboli nel gruppo DSA, questo potrebbe rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo di problematiche psicologiche, in quanto l’esecuzione di un compito richiede l’utilizzo di diverse risorse cognitive. Questo potrebbe innescare un circolo vizioso nel quale il bambino, riportando risultati negativi nello svolgimento di un compito, avrà la sensazione di essere incapace o impotente, peggiorando ancor più la prestazione e influenzando anche la motivazione e i livelli di ansia. L’ansia a sua volta inciderà sulla prestazione, sull’emotività e sul comportamento in maniera negativa.

I bambini con DSA, infatti, presentano un concetto di sé più negativo rispetto ai bambini senza il disturbo e tendono a sperimentare più ansia e minor autostima.

Per quanto riguarda la metacognizione, i risultati hanno confermato l’ipotesi iniziale degli autori: infatti nel gruppo sperimentale il livello di metacredenze è più elevato. Come mostrano le forti correlazioni tra le variabili oggetto d’indagine, le metacredenze come “preoccuparmi mi aiuta a sentirmi meglio” o “se me ne preoccupo adesso non dovrò farlo in futuro” incidono sia sulle funzioni esecutive sia sull’ansia sperimentata dal soggetto.

Per le ricerche future, concludono gli autori, si potrebbe porre maggiore attenzione al ruolo delle funzioni esecutive e della metacognizione nei piani di intervento e di trattamento per i DSA e potrebbe essere utile intervenire sui contenuti metacognitivi, così da favorire il miglioramento delle funzioni esecutive e una diminuzione dell’ansia.

 

Figli di Internet (2022) di M. Lancini e L. Cirillo – Recensione

Gli autori di Figli di Internet analizzano la relazione con internet da parte degli adolescenti in funzione della particolare fase evolutiva che stanno attraversando, tenendo presente gli ostacoli e i conflitti che affrontano in questo momento di crescita.  

 

 Il libro Figli di Internet di Matteo Lancini e Loredana Cirillo (Erikson, pag. 144) si propone come uno strumento di informazione e sostegno a genitori e personale educativo sul tema della relazione e utilizzo dei dispositivi elettronici da parte di preadolescenti e adolescenti. Non delle semplici istruzioni per l’uso, ma il tentativo di guidare verso una riflessione critica su un tema così complesso.

Gli autori propongono un atteggiamento esplorativo della relazione dei giovani con il mondo virutale che passa attraverso l’“attitudine a porsi delle domande che tengano conto della complessità in cui viviamo e in cui vivono i nostri figli e studenti”.

Sul fronte delle domande lasciano aperta la strada su come “leggere, interpretare, approcciare e gestire gli aspetti psicologici e affettivi implicati nel rapporto con i videogiochi” affrontando poi il tema del sexting, dei selfie, dei social network e del cyberbullismo.

Gli autori cercano di analizzare le questioni della relazione con internet da parte degli adolescenti in funzione della particolare fase evolutiva che stanno attraversando, tenendo presente gli ostacoli e i conflitti che  affrontano in questo momento di crescita.

Un approccio volto a capire come si pongono nei confronti di un particolare modo di entrare in relazione con il mondo mediatico, per comprendere i simboli e i significati che sottendono questi comportamenti.

La relazione con i dispositivi e il mondo virtuale è intersecata, infatti, non semplicemente con la sfera educativa e quindi “con il rispetto delle regole e con la buona o cattiva educazione impartita dai genitori e dal contesto”, ma con il loro percorso di crescita, la loro storia e gli eventi affettivi e relazionali nel contesto sociale dei pari, della famiglia, della scuola. Pertanto è fondamentale collocare questo tema nell’ambito del contesto sociale di riferimento e dei modelli educativi e relazionali che influenzano e condizionano i comportamenti dei preadolescenti e adolescenti nelle modalità di gestione di  Internet.

Gli autori iniziano il loro excursus dall’analisi dei compiti di sviluppo dell’adolescente per cercare di comprendere e interpretare, sino a gestire gli aspetti psicologici e affettivi nella relazione con i media.

Pertanto esortano gli adulti ad un atteggiamento di coerenza basato sulla comprensione, piuttosto che sul divieto.

L’adolescenza è un periodo della vita che si confronta con aspetti molto complessi dell’identità che portano il ragazzo e la famiglia ad affrontare conflitti inerenti al percorso di crescita personale. Oggi in questo percorso un aspetto determinante è la relazione nella rete ben espressa dagli autori come onlife: vita reale e virtuale oggi sono così intrecciate e connesse che è difficile delimitare dove inizia una e finisce l’altra. In particolare sono cambiati i modelli di riferimento, i soggetti di identificazione a volte sconosciuti agli stessi genitori perché su mondi virtuali lontani dai loro.

Il compito dei genitori diventa quindi un percorso di fruizione consapevole dove si costruisce insieme un equilibrio che coinvolge prima di tutto i genitori.

 Il primo lavoro coinvolge gli adulti come modello di un modo di entrare in relazione con il mondo virtuale: l’attenzione è verso il condizionamento che i ragazzi vivono osservando gli adulti vivere internet. Sottolineano che non è possibile sollecitare un uso regolato di internet se loro stessi sono totalmente assorbiti da questo mondo: i figli osservano una modalità di vivere uno strumento che è parte della vita e la vivono. Per questo è meglio considerarla una parte della vita e renderla un tema di cui parlarne in famiglia a partire dall’esperienza di ciascuno.

Non è pensabile, pertanto che l’uso di internet possa essere oggetto di divieti, bensì di mediazioni basate sulla comprensione delle sue funzioni, significati e finalità. L’obiettivo è quello stabilire un dialogo che coinvolga quella esperienza, tenendo presente che oggi è uno strumento e un contesto presente nella vita famigliare.

L’ultimo capitolo è completamente dedicato al tema del ritiro sociale, delle sue diverse forme, della vergogna, dei ragazzi definiti hikikomori, delle funzioni delle rete in queste situazioni. Parallelamente gli autori offrono degli strumenti per gestire queste situazioni e per prevenire queste forme di disagio psicologico.

Figli di internet è un libro accessibile e discorsivo, che permette ai genitori di comprendere gli aspetti psicologici e sociali che si intersecano attorno all’uso dei dispositivi e della vita on line e di toccare con mano il significato che ha essere nati e cresciuti “onlife”.

 

Una panoramica sull’Internet Gaming Disorder

La perdita del controllo del tempo passato ai videogames ha rivelato una serie di conseguenze negative; a causa del forte impatto che ha sulla salute mentale delle persone, questa perdita di controllo è stata definita Internet Gaming Disorder.

 

 Al giorno d’oggi, Internet è uno strumento fondamentale per la comunicazione, l’intrattenimento, lo studio e le relazioni sociali (Tas, 2017). L’insieme di queste caratteristiche, unitamente al fatto che il web è ormai accessibile a tutti, ha reso Internet un must per l’umanità. Tuttavia, grazie all’estrema facilità di accesso alla rete, sempre più persone trascorrono gran parte del loro tempo online per condurre varie attività, di lavoro o per il tempo libero. Una grande parte di popolazione, soprattutto di adolescenti, passa il proprio tempo libero giocando ai videogiochi online.

Internet Gaming Disorder e videogiochi

Infatti, il continuo sviluppo di internet ha coinvolto anche il mondo dei videogiochi, che oggi sono diventati un importante strumento di connessione con il resto mondo (Ko, 2014). I giocatori ora possono essere coinvolti sia socialmente sia competitivamente con molte altre persone, indipendentemente da dove si trovino (Ko, 2014). Tuttavia, la perdita del controllo del tempo passato ai videogames ha rivelato una serie di conseguenze negative. A causa del forte impatto che ha sulla salute mentale delle persone, questa perdita di controllo è stata definita Internet Gaming Disorder (IGD; Ko, 2014). Gli adolescenti che passano molto tempo online sono a rischio di sviluppare dipendenza dall’uso di internet e dei videogiochi (Tas, 2017). Ciò può comportare una serie di problematiche interpersonali e intrapersonali (Tas, 2017).

L’uso intensivo e incontrollato di internet e in particolare dei videogiochi può portare a problematiche fisiche, psicosociali e cognitive (Tas, 2017). Infatti, la dipendenza da videogiochi è stata associata alla presenza di significativi livelli di stress, ansia e sintomi depressivi (Loton et al., 2016). Inoltre, fenomeni come iperattività, problematiche emotive, psicosi e nevrosi sono risultati essere più frequenti negli individui con dipendenza da gaming (Tas, 2017). Nella letteratura riguardante l’Internet Gaming Disorder, è stato osservato come la dipendenza da internet impatti negativamente la carriera scolastica degli individui, creando situazioni problematiche a scuola, per esempio l’assenza di concentrazione in quanto l’attenzione è rivolta ai pensieri sul gaming (Tas, 2017). Di conseguenza, la condotta scolastica cala drasticamente e i voti peggiorano a causa della bassa performance (Tas, 2017). Inoltre, gli studenti, ricercando gratificazioni nel gaming, creano un circolo di eventi che va a rinforzare il legame tra dipendenza da Internet e bassa prestazione scolastica (Tas, 2017).

L’aspetto cognitivo dell’Internet Gaming Disorder

 L’abuso di internet può avere anche delle implicazioni a livello cognitivo (King e Delfabbro, 2014). Queste cognizioni maladattive si dividono in due sottotipi: i pensieri riguardo al sé e i pensieri riguardo al mondo. I pensieri riguardo al sé comprendono una serie di pensieri negativi sulla propria persona, come mettere in dubbio le proprie capacità e la percezione di sé stessi come poco efficaci, accompagnati anche da bassa autostima. L’individuo ha una visione di sé fortemente negativa e usa internet come mezzo per raggiungere una posizione sociale o ricevere dei feedback dagli altri. Alcuni pensieri possono essere “sono inutile nella vita reale, ma online sono qualcuno” oppure “sono capace solo online”. Le distorsioni cognitive riguardanti il mondo comprendono quei pensieri che possono essere legati al modo di essere in una società digitale. Alcuni pensieri possono essere “internet è l’unico posto dove posso sentirmi al sicuro” oppure “nessuno mi ama offline”. Entrambe queste tipologie di cognizioni distorte, insieme ai comportamenti disfunzionali, possono mantenere o addirittura intensificare la dipendenza dal gaming.

L’Internet Gaming Disorder è un psicopatologia che ha bisogno di ulteriori studi per poter essere definita come tale (Petri et al., 2015). Infatti, sebbene non esistano ancora dei trattamenti validati per l’Internet Gaming Disorder, alcuni approcci si sono dimostrati apparentemente efficaci (Gentile et al., 2017). Lo strumento che ha dimostrato maggiore efficacia sembra essere la terapia cognitivo comportamentale integrata con approcci diretti alla famiglia, includendo anche un percorso volto a esplorare la componente motivazionale (Gentile et al., 2017).

 

L’umorismo in terapia – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel terzo episodio si parla di umorismo in terapia con il Dott. Antonio Scarinci.

 

Dove ascoltare il terzo episodio:

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione (DOCR) nel rapporto genitore-figlio

I sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione nel rapporto genitore-figlio consistono in pensieri indesiderati, immagini intrusive o impulsi che riguardano difetti percepiti del proprio figlio.

 

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo da Relazione (DOCR)

 Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un disturbo psicologico invalidante caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni a vario contenuto (Abramowitz et al., 2017). Recentemente, una tipologia clinica del DOC, definita Disturbo Ossessivo-Compulsivo da Relazione (DOCR), ha ricevuto particolare attenzione sia in ambito di ricerca sia in ambito clinico (Doron et al., 2016). Il DOCR è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni che hanno come oggetto le relazioni significative: quella di coppia, quella tra genitore e figlio e quella tra individuo e Dio (Doron et al., 2014).

Prendendo in considerazione le ossessioni che si manifestano nella relazione di coppia (quella maggiormente indagata dalla letteratura) è possibile distinguere tra sintomi centrati sulla relazione e sintomi centrati sul partner (Doron et al., 2014). I primi consistono in dubbi e preoccupazioni circa i sentimenti del partner nei propri confronti, i propri sentimenti nei confronti del partner e l’adeguatezza della relazione stessa. I secondi riguardano, invece, preoccupazioni ossessive circa difetti percepiti nel proprio partner in sei principali ambiti: aspetto fisico, abilità sociali, moralità, stabilità emozionale, intelligenza e competenza (Doron & Derby, 2017; Doron et al., 2017).

I sintomi ossessivo-compulsivi che si presentano nel contesto del rapporto con il proprio figlio sono simili ai sintomi centrati sul partner che emergono nel contesto della relazione di coppia. Consistono in pensieri indesiderati (per es., “Mio figlio è abbastanza intelligente?”), immagini intrusive (per es., il ricordo di una situazione in cui il proprio figlio ha fallito) o impulsi (per es., di intervenire in un’interazione sociale in cui il bambino è coinvolto) che riguardano difetti percepiti del proprio figlio nei medesimi ambiti sopracitati (Doron et al., 2017). Tali esperienze intrusive sono egodistoniche: possono contraddire le convinzioni del genitore (per es., “Tutti i figli dovrebbero essere accettati, a prescindere dai loro difetti”) o la propria esperienza soggettiva (per es., “So che mio figlio ha molti amici, ma non posso smettere di preoccuparmi per le sue abilità sociali”), provocando senso di colpa e vergogna. Sono pertanto associate a comportamenti compulsivi. Ad esempio, il genitore può ricercare rassicurazioni riguardo le competenze del figlio, confrontarlo con altri bambini, o controllarne compulsivamente i comportamenti (Doron et al., 2017).

Strumenti di assessment del Disturbo Ossessivo-Compulsivo da Relazione

Esistono due strumenti self-report di valutazione dei sintomi del DOCR nel rapporto genitore figlio: il Partner Related Obsessive Compulsive Symptoms Inventory Parent-Child (PROCSI-PC; Doron et al., 2017) e il Parent-Infant Partner-focused Relationship Obsessive Compulsive Symptoms Inventory (PI-PROCSI; Ratzoni, Doron, & Frenkel, 2021). Il PROCSI-PC e il PI-PROCSI sono composti rispettivamente da 28 e 21 item, a cui si risponde utilizzando una scala Likert che varia da 0 (per niente) a 4 (moltissimo; Doron et al., 2017; Ratzoni et al., 2020). Il PROCSI-PC valuta le ossessioni e le compulsioni dei genitori nei confronti dei difetti percepiti del proprio figlio relativamente ad aspetto fisico, moralità, stabilità emozionale, intelligenza, abilità sociali e competenza. Esempi di item contenuti nel questionario sono: “Il pensiero che mio/a figlio/a non sia abbastanza intelligente mi infastidisce molto; Quando sono con mio/a figlio/a trovo difficile ignorarne i difetti fisici” (Doron et al., 2017). Il PI-PROCSI, invece, costituisce un adattamento degli item del PROCSI-PC affinché possano riferirsi ai figli neonati. Nel PI-PROCSI sono stati quindi aggiunti alcuni item con lo scopo di valutare le ossessioni circa i pattern di alimentazione, di sonno-veglia e di sviluppo del neonato (Ratzoni et al., 2021). I risultati dell’analisi fattoriale confermativa hanno messo in luce la presenza di due fattori generali di ordine superiore: le preoccupazioni ossessive per l’attuale sviluppo e le preoccupazioni ossessive per il futuro sviluppo del figlio. È poi emerso che lo strumento ha una struttura a sette fattori: cinque di questi si riferiscono alle preoccupazioni per l’attuale sviluppo (compulsioni legate allo sviluppo, distress associato alle ossessioni legate allo sviluppo, aspetto fisico, pattern di alimentazione e ritmi sonno-veglia, impulso di confrontare il proprio figlio con altri bambini) mentre i due rimanenti fanno riferimento alle preoccupazioni per il futuro sviluppo (moralità futura, competenza futura; Ratzoni et al., 2021).

Al fine di valutare se i sintomi del DOCR genitoriale potessero avere un impatto sui figli è inoltre stato sviluppato il Parent-Child Related Obsessive Compulsive Inventory for Children (PROCSI-SELF; Doron et al., in process), un questionario self-report composto da 28 item che valuta la presenza di ossessioni e compulsioni riguardo difetti percepiti su se stessi relativamente agli stessi sei ambiti di preoccupazione genitoriale misurati dal PROCSI-PC (Ben-Zvi et al., 2017).

Per nessuno di questi strumenti esiste, ad oggi, alcuno studio di validazione nel contesto italiano.

Conseguenze personali e relazionali del disturbo

L’età d’esordio del DOCR è sconosciuta (Doron et al., 2014). Tuttavia, da un recente studio (Ratzoni et al., 2021) è emerso che i sintomi del disturbo che si manifestano nel rapporto genitore-figlio possono emergere nel periodo del post-partum, andando ad impattare sul bonding materno e sulla qualità delle interazioni neonato-caregiver. In particolare, è stato riscontrato che le ossessioni e le compulsioni materne relative all’attuale sviluppo del figlio (misurate attraverso il PI-PROCSI) erano associate negativamente all’espressione di calore e di emozioni positive nei confronti del neonato (bonding). Inoltre, è stata riscontrata una relazione indiretta significativa tra le ossessioni e le compulsioni materne circa il futuro sviluppo del neonato e la diminuzione, nei figli, di comportamenti interattivi diretti nei confronti del caregiver. Più nello specifico, tali elevate preoccupazioni materne misurate a 4 mesi dalla nascita attraverso il PI-PROCSI, erano associate, a 10 mesi, ad una bassa frequenza di lodi dei comportamenti dei figli che, a loro volta, predicevano l’evitamento da parte degli stessi dei comportamenti interattivi nei confronti delle madri (Ratzoni et al., 2021).

 Uno studio condotto da Doron e colleghi (2017), che ha preso in considerazione un periodo successivo a quello del post-partum, ha riscontrato che i sintomi del disturbo sono associati, nei genitori, ad altri sintomi ossessivo-compulsivi e a sintomatologia depressiva. È inoltre emerso che i sintomi del DOCR correlano con lo stress genitoriale e che interferiscono con il funzionamento personale, occupano tempo e sono fonte di disagio significativo (Doron et al., 2017).

Ben-Zvi e colleghi (2017) hanno invece osservato che i sintomi del DOCR possono avere ripercussioni anche sulla salute mentale dei figli. L’elevata preoccupazione genitoriale nei confronti dei difetti percepiti nel proprio figlio è risultata infatti associata alla preoccupazione del figlio per i propri difetti nelle stesse aree oggetto di preoccupazione genitoriale. Tale effetto è stato riscontrato nella maggior parte dei domini oggetto di preoccupazione dei genitori. I risultati hanno mostrato una correlazione positiva moderata tra il punteggio totale del PROCSI-PC e il punteggio totale del PROCSI-SELF e correlazioni significative tra quattro sottoscale dei due strumenti: aspetto fisico (r = 0,53), moralità (r = 0,57), intelligenza (r = 0,25) e competenza (r = 0,25; Ben-Zvi et al., 2017).

Meccanismi di insorgenza e di mantenimento

È stato ipotizzato che specifici ambiti del sé con elevato valore per l’individuo (per es., la moralità) siano in relazione con il contenuto delle ossessioni (Bhar e Kyrios, 2007). È infatti più probabile che siano le intrusioni che minacciano il sistema di valori e l’autostima di un individuo a trasformarsi in ossessioni poiché in questo caso la persona è portata ad attivare cognizioni e comportamenti volti a compensare le carenze percepite (Bhar e Kyrios, 2007; Rachman, 1997). Per quanto riguarda il DOCR, Levy e colleghi (2020) hanno proposto che l’elevata sensibilità nei confronti di un dominio del sé con elevato valore per il genitore (per es., l’aspetto fisico) potrebbe determinare una maggiore vigilanza nei confronti del dominio stesso, facilitando la rilevazione di eventi che minacciano il dominio e l’insorgenza di pensieri intrusivi dominio-specifici relativi a sé stessi (per es., “sono brutto”) e agli altri (per es., “non ha un bell’aspetto”). La co-presenza di tale sensibilità e della dipendenza della propria autostima dal valore percepito del figlio, potrebbe aumentare la vulnerabilità ai sintomi del DOCR (Levy et al., 2020). A conferma di questa ipotesi, nello studio in questione è stata riscontrata un’interazione tra la vulnerabilità dei genitori in due domini del sé (aspetto fisico e intelligenza) e la dipendenza della propria autostima dal valore percepito del figlio nel predire ossessioni e compulsioni relative a difetti percepiti nei figli nel dominio dell’aspetto fisico e dell’intelligenza (Levy et al., 2020). In particolare, l’associazione tra vulnerabilità nei domini di aspetto fisico e intelligenza e sintomi del DOCR era significativa solamente nei genitori che presentavano un’alta dipendenza della propria autostima dal valore percepito del figlio (Levy et al., 2020). Sempre per quanto riguarda i meccanismi di insorgenza del disturbo, alcuni studi che hanno indagato il DOCR nel contesto della relazione sentimentale hanno riscontrato che l’attivazione delle convinzioni disfunzionali associate al DOC (in particolare, sovrastima del pericolo, intolleranza all’incertezza, importanza attribuita ai pensieri e al loro controllo e perfezionismo) ha un ruolo anche nello sviluppo di ossessioni e compulsioni del DOCR (Doron et al., 2014; 2012a; 2012b; Melli et al., 2018). È probabile che lo stesso avvenga anche per quanto riguarda il DOCR nel rapporto genitore-figlio (Doron et al., 2017; Levy et al., 2020). Alcune convinzioni disfunzionali relazione-correlate potrebbero poi contribuire in modo specifico allo sviluppo e al mantenimento del DOCR andando ad aumentare il disagio esperito al presentarsi delle intrusioni (Doron et al., 2012a). Tali convinzioni possono riguardare, ad esempio, il timore di essere inadeguati come genitori e la sovrastima dell’impatto che le singole esperienze quotidiane possono avere sul successivo sviluppo e successo dei figli (Doron et al., 2017). Come avviene per le altre tipologie cliniche del DOC, infine, le compulsioni e le risposte disfunzionali alle ossessioni svolgono un ruolo cruciale nel mantenimento del DOCR (Doron et al., 2014).

Indicazioni per il trattamento

La psicoterapia dovrebbe favorire nel paziente la consapevolezza dell’influenza che la percezione dei difetti del figlio ha sulla propria autostima e sostenere il senso di competenza nell’esercizio della propria genitorialità (Levy et al., 2020). Levy e colleghi (2020) mettono inoltre in luce l’appropriatezza dell’utilizzo di alcune tecniche cognitivo-comportamentali per intervenire clinicamente sulle ossessioni e compulsioni del DOCR. A tal proposito citano il perspective taking (per es., “Giudichi i tuoi amici sulla base del valore dei propri figli?”) e la messa in discussione di alcune convinzioni disfunzionali (come ad esempio quella relativa all’incapacità di tollerare l’imbarazzo associato alla percezione dei difetti del figlio) attraverso l’utilizzo di esercizi di esposizione. Il trattamento delle convinzioni disfunzionali associate al DOCR e delle vulnerabilità del sé, infine, potrebbe includere anche l’assegnazione di homework basati sull’impiego di applicazioni evidence-based come la GG relationship doubts (GGRO; Levy et a., 2020; Roncero et al., 2018; 2019).

 

L’arte tra bocca e cibo (2022) di Anna Maria Farabbi – Recensione

Il testo L’arte tra bocca e cibo fornisce un’affascinante lettura e parallelismo tra la bocca, come ricerca espressiva di parola, e la funzionalità primordiale del cibo e del nutrimento.

 

 Viene fornita una visione a cavallo tra le testimonianze personali ed artistiche di undici autori e il delicato argomento dei disturbi dell’alimentazione. L’elaborato, scritto in stile saggistico, si apre con l’autrice stessa, Anna Maria Farabbi, poetessa e narratrice. L’autrice racconta, in maniera esaustiva, lo scopo e il focus del testo, prendendo in considerazione aspetti non clinici del tema, ma ampliando il suo significato a condizioni etnoculturali e concependo il tutto in chiave descrittiva. Riferisce di aver ideato lo scritto come una ruota, con assenza di gerarchia tra autori ma con un occhio centrale attorno cui tutti ruotano, ovvero i disturbi dell’alimentazione. Il tutto è arricchito da contenuti artistici, sonate popolari, quadri o filmografia scaricabili tramite QR CODE a fine di ogni saggio.

L’interesse dell’autrice è partito dalla frequentazione di un centro di riabilitazione dei disturbi dell’alimentazione e dalla curiosità di riscoprire, attraverso la parole, l’universo in cui sono immersi i pazienti con tale disturbo. È da qui che nasce l’idea di elaborare un racconto che non si limiti ad un’autobiografia o ad un racconto episodico di eventi, ma che metta in campo le personali sofferenze degli autori che hanno avuto a che fare, per esperienza diretta o indiretta, con la problematica alimentare.

Una tra i primi autori è la Dott.ssa Paola Bianchini filosofa, psicologa e psicoterapeuta. La visione della scrittrice in esame si distanzia da quella clinica ma, con linguaggio solenne, apre lo scenario alla visione del dolore e della storia che i pazienti portano in quella che poi diventa la quotidianità del professionista. Anche in questo caso il focus è sulla parola e sull’abilità della stessa di comunicare anche quando non espressa e arricchita di silenzi.

Il riferimento al disturbo alimentare è espresso così: “è ossessione per il peso: la paura è nel peso della scelta ovvero nel peso dell’identità” e si mostra la ferita identitaria da cui nasce il disturbo, che si serve del corpo per poi manifestare il suo disagio.

Marco Bellini, poeta, esprime nei suoi versi l’ascolto empatico di dolore e di dignità emotiva della persona che ha scelto di raccontarsi a lui. Con versi decisamente forti di contenuto, come il titolo stesso “dita in gola”, apre lo scenario alla bulimia ed alla “donna trasparente piena di voce inascoltata.”

Si passa poi attraverso l’analisi del testo di sonata popolare , “La cena della sposa” ad opera di Giancarlo Palombini, docente di Etnomusicologia che descrive l’aspetto consumistico e transculturale del cibo attraverso l’abbondanza e la descrizione popolare della tradizione.

Il racconto intenso e travolgente di Sara Fruet, pittrice, medico coaching alimentare e biodinamica craniosacrale, che attraverso la pittura ed il suo tratto descrive le varie tappe del disturbo alimentare: dapprima perfezionistico e controllante, dai tratti precisi e colori scuri, fuori controllo, per poi diventare denso e colorato, libero e ricco di sfumature. Esemplificativo di ciò è la fig. 1.a e 1.b e il seguente estratto: “E mentre i confini del mio corpo iniziavano ad occupare più spazio, le tele diventavano sempre più grandi, i colori più brillanti, il gesto più ampio. Non più un sussurro. Ma un racconto a voce bella alta e sicura”. Il dettagliato racconto traspare di consapevolezza e dignità nel dolore ed apre le porte alla possibilità di cambiare e addentrarsi nel percorso di guarigione.

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L'arte tra bocca e cibo (2022) di Anna Maria Farabbi - Recensione del libro FIG 1.A

L’arte tra bocca e cibo – Fig. 1.a

L'arte tra bocca e cibo (2022) di Anna Maria Farabbi - Recensione del libro FIG 1.B

L’arte tra bocca e cibo – Fig 1.b

Ed è di carattere femminile anche il racconto di Mariafrancesca Garritano, ballerina, che ben descrive il processo di interiorizzazione dell’ideale di magrezza e della sensazione di inadeguatezza dettata dall’ambiente.

La testimonianza di Marco Pozzi, regista cinematografico che racconta la storia della nascita del suo film Maledimiele e la dispercezione corporea che lentamente si trascina verso l’essere invisibile.

 Invece Pietro Marchese, scultore e insegnante, porta nella scultura il suo messaggio di riflessione rispetto alle generazioni attuali con la scultura Light (fig.2). Nella sua carriera di insegnante è capitato di assistere a profondi dilemmi perfezionistici e correlati al Disturbo alimentare dell’anoressia. Riferisce di aver utilizzato una figura forte che mirasse a perturbare e notare l’ossimoro e che riportasse al problema attuale in maniera silenziosa, fa intravedere l’infelicità di chi pensa di non poter reggere il confronto con le icone della bellezza e di bravura.

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L'arte tra bocca e cibo (2022) di Anna Maria Farabbi - Recensione del libro FIG 2

L’arte tra bocca e cibo – Fig 2

L’arte della sofferenza è mostrata anche da Alberto Terrile, fotografo, che immortala il volto tirato di una donna che ha perso la figlia per anoressia, discendendo in una sofferenza condivisa ed estremamente realistica (fig.3).

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L'arte tra bocca e cibo (2022) di Anna Maria Farabbi - Recensione del libro FIG 3

L’arte tra bocca e cibo – Fig 3

Un’arte dal tratto diverso è anche quella che narrata da Ludovic Debeurme, fumettista, pittore e illustratore che, nell’intervista, spiega le ragioni che stanno alla base di “Lucille”, uno dei suoi ultimi lavori in cui il tema centrale è quello dell’anoressia. Il tema, caro all’autore, descrive il legame tra corpo e spirito e la complessa relazione tra il proprio corpo e lo spazio circostante in un momento delicato della vita quale essere l’adolescenza.

Come chiusura circolare del testo, posizionato probabilmente volutamente come ultimo capitolo, compaiono i racconti autobiografici di Sara Fruent, precedentemente citata, ed Elvira Aglini, narratrice e generosa testimone del progetto ideato da Anna Maria Farabbi, e del suo personale vissuto.

In conclusione il libro in esame, prende in considerazione molteplici dimensioni e declinazioni del disturbo alimentare che partono dalla persona per estendersi alla rete relazionale nella quale è immersa, offrendo importanti punti di vista diversi. Si articola in due parti principalmente: la prima, ovvero quella che offre una visione prettamente metaforica e artistica, e la seconda ovvero quella in cui vengono messe in campo le personali esperienze di due autrici che ben delineano l’acuzia del dolore ed il processo di presa di coscienza e consapevolezza di sé e del mondo. Si tratta di una lettura interessante ed inaspettata che coinvolge il lettore soprattutto nella sua dimensione dinamica e variegata, di lessico, di immagini ed esperienze. Ho trovato particolarmente interessanti le testimonianze e le varie interviste fatte agli autori, complessa invece, nel linguaggio e nel tono solenne, la prima parte, scritta in termini saggistici, che potrebbe deviare in parte dal tema centrale in cui si articola tutta la tematica alimentare.

Risulta, invece, ben definita e strutturata l’idea di trattazione circolare degli argomenti, in quanto l’autrice apre il testo con la prefazione che ben spiega il progetto ed il ruolo di ogni autore, chiudendosi poi con la testimonianza di un partecipante lì, dove tutto è iniziato, ovvero nell’associazione “Il Pellicano”.

Molto al passo con i tempi ed estremamente utile è anche il corredato multimediale, scaricabile tramite QRcode.

Considero il testo una lettura consigliata di livello medio alto, di più facile comprensione a coloro che hanno, o hanno avuto, esperienza diretta o indiretta in tale patologia. È arricchente e stimolante ed offre una visione poliedrica del disturbo dell’alimentazione che incuriosisce per aver considerato, probabilmente per le prime volte, l’aspetto più artistico della sua espressione.

 

Folie à deux: il disturbo psicotico condiviso in bambini e adolescenti

L’interazione tra la vulnerabilità genetica e l’impatto di vivere con un adulto che soffre di un disturbo psicotico sembra essere centrale nel disturbo psicotico condiviso.

 

La descrizione del disturbo psicotico condiviso

 I disturbi psicotici comprendono principalmente sintomi come deliri, allucinazioni, pensiero e linguaggio disorganizzati che indicano perdita di contatto con la realtà (APA, 2013). Il Disturbo Psicotico Condiviso (DPC), o folie à deux, è stato descritto per la prima volta nel 1877 e consiste nel trasferimento di credenze deliranti e/o comportamenti anormali da un caso “primario” (induttore) a uno o più “secondari” (indotto/i). Di solito si verifica in una persona o in un gruppo di persone (spesso in famiglia) che sono legate a un individuo con disturbo delirante o con schizofrenia (Vigo et al., 2019).

I tassi di incidenza del disturbo sono bassi, tra l’1,7 e il 2,6% (WHO, 1992). Molti casi, però, sono probabilmente sottodichiarati e quindi sottodiagnosticati, motivo per cui la sua reale prevalenza rimane difficile da stimare.

In letteratura si trovano diversi casi di folie à deux in famiglia, specialmente di delirio condiviso tra genitori e figli (Ilzarbe et al., 2015). Spesso, bambini e adolescenti coinvolti nel disturbo psicotico condiviso, adottano le credenze deliranti dei loro caregiver al fine di assicurare una coesistenza pacifica tra tutti i membri della famiglia (Vigo et al., 2019).

Il disturbo psicotico condiviso tra ambiente e genetica

I contributi genetici e ambientali di questo disturbo non sono ancora chiari. I primi studi si sono maggiormente concentrati sulle relazioni instaurate dalle persone coinvolte. Alcuni fattori di rischio possono essere: la presenza di un membro della famiglia dominante, relazioni familiari dipendenti e ambivalenti, frequenti crisi familiari, violenza domestica, comportamenti violenti e isolamento sociale (Gralnick, 1942; Tseng, 1969). Altri studi si sono focalizzati sulla storia psichiatrica e sulle comorbidità dei soggetti coinvolti. Molti hanno sottolineato un’alta prevalenza di schizofrenia in questa popolazione e un’elevata presenza di comorbilità psichiatrica nei soggetti indotti, concludendo che una predisposizione genetica alla schizofrenia o a disturbi psicotici fosse necessaria nello sviluppo della psicosi condivisa (ad es., Scharfetter, 1970; Silveira & Seeman, 1995). Così, le circostanze psicosociali potrebbero rappresentare un innesco di un episodio psicotico transitorio in un paziente vulnerabile ad alto rischio di psicosi.

Per meglio comprendere gli aspetti ancora poco chiari legati a questa patologia in bambini e adolescenti, una revisione sistematica di Vigo e colleghi (2019) si è concentrata sulla condizione della folie à deux nelle famiglie con minori di 18 anni, tenendo in considerazione il rischio genetico familiare associato e i fattori di rischio ambientale. I risultati hanno dimostrato che nella maggior parte delle famiglie con bambini e adolescenti coinvolti nella folie à deux vi era un’alta prevalenza di isolamento sociale, che poteva potenzialmente rafforzare la relazione patologica tra le persone coinvolte. Inoltre, molti di questi giovani non hanno contatto con un adulto sano all’interno della famiglia, elemento che è stato riportato in precedenza da Rutter e colleghi (1974) come un fattore protettivo. Nonostante l’isolamento sociale in queste famiglie sia stato ampiamente descritto in letteratura (ad es, Berner et al., 1986), rimane ancora poco chiaro se esso rappresenti una causa o una conseguenza della condizione. Una possibile spiegazione potrebbe essere che le famiglie che hanno sviluppato sintomi psicotici possono essere più sospettose, come tratto predisponente, e quindi meno propense a stabilire relazioni esterne.

Per quanto riguarda il contributo genetico, gli induttori hanno presentato tassi più alti di storia psichiatrica rispetto agli indotti, con diagnosi prevalente di schizofrenia (disturbo che mostra un’alta ereditarietà), ma nessuna differenza nella storia psichiatrica familiare; dovrebbe essere preso in considerazione che gli indotti sono spesso parenti di primo grado degli induttori, che nella maggior parte dei casi hanno ricevuto una diagnosi finale di disturbo dello spettro schizofrenico.

 Alla luce di quanto riportato, emergono ancora due domande chiave: gli indotti avrebbero sviluppato sintomi psicotici anche senza un contatto intimo con gli induttori? E ancora, i giovani con disturbo psicotico condiviso dovrebbero essere considerati soggetti con alto rischio di sviluppare la schizofrenia in futuro? È importante sottolineare che gli studi sui giovani ad alto rischio genetico di psicosi hanno riportato probabilità più alte di sviluppare psicosi rispetto alla popolazione generale (Myles‐Worsley et al., 2007), ma non tutti i giovani che fanno parte di queste famiglie (esposti a fattori di stress ambientale e portatori di vulnerabilità genetica) sviluppano sintomi psicotici. L’interazione tra la vulnerabilità genetica e l’impatto di vivere con un adulto che soffre di un disturbo psicotico sembra dunque essere centrale nella folie à deux. Distinguere gli effetti genetici da quelli ambientali in questi casi può aiutare a prevenire lo sviluppo di psicosi nelle persone più giovani che sono a rischio.

Inoltre, in contrasto con la letteratura precedente che ha dimostrato che le donne erano più spesso soggetti indotti (ad es, Silveira & Seeman, 1995), i risultati di questa revisione hanno mostrato che nei casi di delirio condiviso che coinvolgevano bambini e adolescenti, le donne sembrano essere per lo più induttori. Questo risultato può essere dovuto alla tendenza osservata per le famiglie monoparentali ad essere capeggiate da una donna (Silveira & Seeman, 1995) o alla relativa vulnerabilità dei bambini e dei giovani rispetto alle loro madri.

Il trattamento del disturbo psicotico condiviso

In conclusione, per quanto concerne il trattamento, studi precedenti raccomandavano la separazione fisica come trattamento di elezione (Mentjox et al., 1993). Tuttavia, nella revisione condotta da Layman e Cohen (1957) comprendente 140 casi di folie à deux, in un solo caso l’indotto si è ripreso spontaneamente dopo la separazione, coerentemente con altre revisioni più recenti, dove è stato mostrato che la separazione dal caso primario era un trattamento insufficiente (Arnone et al., 2006). Questo risultato è supportato anche dalla revisione qui presentata, che non mostra alcuna associazione statistica tra remissione dei sintomi e separazione. Quando sono coinvolti bambini o adolescenti, è opportuno tenere in considerazione che la separazione potrebbe addirittura essere traumatica (Drucker & Shapiro, 1982).

Mentjox e colleghi (1993) suggeriscono che l’intervento dovrebbe concentrarsi sulla separazione psicologica, piuttosto che fisica, promuovendo l’indipendenza tra i diversi membri e tenendo conto delle caratteristiche individuali delle persone coinvolte. Un approccio che coinvolge interventi psicologici può essere più adatto per i bambini e i giovani che presentano principalmente sintomi psicotici nel contesto della folie à deux.

 

Gioco d’Azzardo Patologico, comorbilità e metacognizione – Report

Report dalla presentazione del progetto di ricerca Gioco d’Azzardo Patologico, comorbilità e metacognizione tenutasi al Forum della Ricerca in Psicoterapia 2022.

 

 Recentemente si è svolto online il Forum Biennale di Ricerca in Psicoterapia, che ha visto protagonisti gli specializzandi delle Scuole del Gruppo Studi Cognitivi di tutta Italia con i loro progetti di ricerca, accompagnati da importanti ospiti internazionali.

La seconda presentazione della prima giornata di Forum, 6 maggio 2022, ha riguardato lo studio sul Gioco d’Azzardo Patologico (GAP), condotto dagli allievi di Studi Cognitivi di Genova N. Delfino, B. Giagnorio, F. Loffredo, E. M. Fiabane e dai didatti G. Caselli e G. Mansueto. La ricerca in questione si propone di esplorare il ruolo della metacognizione, del pensiero desiderante e della flessibilità psicologica rispetto al Gioco d’Azzardo Patologico e alle psicopatologie più frequentemente osservate in comorbilità.

Cos’è il gioco d’azzardo patologico?

Da circa due decenni il panorama scientifico ha iniziato a considerare le cosiddette “nuove dipendenze”, ovvero forme di dipendenza legate a comportamenti, come quelle relazionali, da internet o da gaming. Attualmente, il Gioco d’Azzardo Patologico è l’unica dipendenza non correlata a sostanze riconosciuta nel DSM-5 (APA, 2014). In Italia, il Report Drug del 2014, stilato dal dipartimento per le politiche antidroga, riporta che nella popolazione tra i 18 e i 79 anni il 4% ha un approccio problematico al gioco d’azzardo e circa il 2% sono giocatori patologici.

Nello specifico, il Gioco d’Azzardo Patologico implica un comportamento persistente e ricorrente di gioco d’azzardo maladattivo che comporta compromissione o disagio clinico per almeno 12 mesi, con sintomi come irritabilità nel momento dell’interruzione del gioco, preoccupazione per le passate esperienze di gioco, messa in atto di azioni connesse al gioco quando si è angosciati, oppure la richiesta di aiuto economico per problemi finanziari causati dal gioco. A livello metacognitivo, ovvero l’insieme di credenze riguardo la propria cognizione e le relative strategie di controllo, i comportamenti da Gioco d’Azzardo Patologico e la loro gravità sembrano associati a metacredenze negative, ovvero credenze circa gli effetti negativi di un comportamento cognitivo. Inoltre, alti livelli di distorsioni metacognitive sembrano essere associati a un aumento delle psicopatologie in comorbilità, che a loro volta sembrano predire alti livelli di Gioco d’Azzardo Patologico. Perciò, la terapia metacognitiva potrebbe essere un approccio promettente per il trattamento dei giocatori patologici.

Lo studio

In particolare, lo studio vuole verificare se i giocatori patologici mostrano maggiori sintomi psicopatologici e distorsioni metacognitive, nonché maggiore tendenza al pensiero desiderante (elaborazione verbale e immaginativa di una esperienza desiderata) e all’inflessibilità psicologica (reazione comportamentale caratterizzata da evitamento esperienziale), rispetto alla popolazione generale.

 Complessivamente, hanno preso parte al progetto 103 partecipanti, che non presentavano patologie neurologiche pregresse, d’età compresa tra i 21 e i 74 anni (età media 47). Il campione è stato suddiviso in due sottogruppi: uno clinico, che includeva persone con Gioco d’Azzardo Patologico, reclutate da servizi sanitari specifici per l’intervento sulle dipendenze; uno non clinico, rappresentato da individui non giocatori patologici, reclutati dalla popolazione generale e appaiati al campione clinico per età e scolarità, che fungeva da gruppo di confronto.

Sono stati somministrati dei questionari self-report per indagare i costrutti psicologici oggetto di studio, quali la sintomatologia psicopatologica (con la Symptom Checklist-90-R), il funzionamento metacognitivo (con il Metacognition Questionnaire 30), la tipologia e gravità del Gioco d’Azzardo Patologico (con la South Oaks Gambling Scale), la flessibilità psicologica (con l’Acceptance and Action Questionnaire-II), il pensiero desiderante (con il Desire Thinking Questionnaire).

Dalle analisi socio-demografiche è stato osservato che i partecipati inclusi nel gruppo clinico avevano un’età in media più elevata, un livello di scolarizzazione inferiore, un numero minore di lavoratori attivi e una percentuale maggiore di soggetti con problemi di alcool, rispetto al campione non clinico. Tali risultati sono in linea con il Report Drug (2014). Inoltre, secondo il Report le tipologie di gioco d’azzardo più diffuse tra i giocatori patologici sono il lotto, le lotterie, i gratta e vinci, le slot e il videopoker. Dunque, categorie di gioco meno legate all’abilità personale e più dipendenti dal caso, che sono state associate a una tipologia di pensiero detto “magico”, che fa riferimento alla convinzione di avere controllo su fattori totalmente casuali.

Rispetto ai comportamenti, alle credenze e alle variabili ambientali legate al Gioco d’Azzardo Patologico, è emerso che il 56,4% dei giocatori patologici ha affermato di aver vinto dei soldi quando in realtà aveva perso; il 76,9% è frequentemente tornato a giocare nel tentativo di recuperare i soldi persi; il 48,7% ha giocato somme che variano da 1.000 a più di 10.000 euro in un solo giorno; il 69,2% ha dovuto ricorrere a prestiti per giocare o pagare i debiti di gioco.

Inoltre, sono state osservate differenze all’interno dello stesso campione clinico, in base alla gravità della sintomatologia da Gioco d’Azzardo Patologico. Infatti, una maggiore gravità dei sintomi sono risultati associati a maggiori problemi interpersonali, disturbi del pensiero (come ideazione paranoide e psicoticismo), problematiche del sonno, tendenza all’immaginazione di situazioni di gioco d’azzardo (prefigurazione immaginativa), livello di pensiero desiderante. Tali risultati sono in linea con precedenti studi (per esempio, Mansueto et al., 2016), che indicano maggiori livelli di ansia, depressione, psicoticismo, difficoltà interpersonali, sintomi ossessivo-compulsivi e disturbi del sonno in pazienti con un quadro sindromico riconducibile a quello del Gioco d’Azzardo Patologico. Coerenti con altre ricerche condotte nel campo si dimostrano i dati emersi relativamente alle variabili della metacognizione, della flessibilità psicologica e del desire thinking, per le quali i giocatori patologici rivelano un maggiore bisogno di controllare i pensieri, una maggiore presenza del pensiero desiderante di tipo verbale e immaginativo, una maggiore inflessibilità cognitiva e una maggiore sfiducia nelle proprie capacità cognitive.

Concludendo la presentazione dello studio, gli autori individuano la condizione pandemica attuale come una criticità importante che ha potuto influire sui livelli sintomatologici indagati, sia nella popolazione generale che in quella con Gioco d’Azzardo Patologico. Pertanto, suggeriscono di ripetere lo studio in un altro periodo storico.

 

Giornata del Sollievo: l’impegno di AISLA – Comunicato Stampa

Giornata del Sollievo, l’impegno di AISLA in cure palliative, formazione e informazione. Umanizzare le cure, un dovere etico che deve trasformarsi in concrete pratiche cliniche

Comunicato stampa

 

 Milano, 25 maggio 2022 – Annualmente si celebra nel mese di maggio la “Giornata nazionale del Sollievo” con il proposito di sensibilizzare tutta la società civile al vissuto del sollievo dal dolore, sia fisico che emotivo. 

Fulvia Massimelli, presidente nazionale di AISLA, Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica, dichiara:

È fondamentale superare la retorica del dovere etico perché dobbiamo tutti impegnarci affinché si renda concreta la buona pratica clinica per una piena umanizzazione delle cure. È noto, infatti, che una malattia inguaribile porta con sé grande sofferenza, fisica, psicologica, sociale e spirituale. Questa condizione influisce pesantemente tanto sulla vita delle persone costrette a convivere con una malattia severa come la SLA, quanto su quella dei nostri cari che ci accudiscono quotidianamente. 

Promotrice dell’iniziativa è la Fondazione Ghirotti, insieme al Ministero della Salute e alla Conferenza delle Regioni.

La “Cultura del sollievo” è il cardine della giornata e della Legge 38/2010, una delle migliori leggi d’Europa e grazie alla quale per la prima volta viene garantito in Italia l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore nell’ambito dei Livelli Essenziali di Assistenza”. Stefania Bastianello, direttore tecnico di AISLA aggiunge:

La legge è ancora incompiuta. Manca ancora un decreto attuativo importante, che riguarda le tariffe da applicare uniformemente sul territorio nazionale. Il nostro Paese può contare su oltre 5mila volontari che integrano attivamente i servizi di cure palliative. Questo volontariato è particolare, significa avere competenze e capacità.

Il dato allarmante è che, nonostante siano passati oltre dieci anni dall’approvazione della legge nazionale, sono ancora troppo pochi i cittadini e le persone malate che conoscono le cure palliative e il loro diritto ad accedervi. Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Osservatorio per il monitoraggio della terapia del dolore e delle cure palliative, in Italia solo il 45% delle persone conosce la normativa, oltre il 65% non è consapevole che le strutture sanitarie sono tenute a misurare e riportare il dolore e il 40% non è a conoscenza delle cure attuabili, anche se la quasi totalità delle sindromi dolorose sono trattabili.

 Promuovere e testimoniare, attraverso l’informazione e tramite iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, la cultura del sollievo è un filo che unisce molte realtà impegnate nell’assistenza. Con questo spirito le rappresentanze AISLA di Pistoia e Prato, in collaborazione con la AUSL Toscana Centro, hanno organizzato un momento di confronto con la dott.ssa Sabrina Pientini proprio sul tema delle Cure Palliative e SLA. L’incontro è pubblico e si svolgerà nel pieno rispetto delle raccomandazioni COVID. L’appuntamento è per sabato 28 maggio alle ore 17.30 presso il circolo MCL di Valdibrana. Necessaria la prenotazione contattando i volontari di AISLA ai numeri 335 74560041 oppure 347 3586947.

Considerato il particolare momento vissuto negli ultimi due anni e le ripercussioni che l’epidemia da COVID-19 ha avuto sul nostro Sistema Sanitario, è fondamentale valorizzare l’impegno profuso da tutti gli operatori sanitari del SSN quale testimonianza della vicinanza alla persona sofferente, la cui centralità e dignità sono cardini della “cultura del sollievo”. Questo l’obiettivo della giornata nazionale del sollievo, istituita nel 2001 e che quest’anno si celebra il 29 maggio.

 

Lessico Famigliare (2014) di Natalia Ginzburg – Recensione del libro

Lessico famigliare è un famoso romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, vincitore, nel 1963, del premio Strega. L’autrice e voce narrante descrive dall’interno la vita della famiglia Levi, una quotidianità attraversata anche da eventi storici importanti e da personaggi di rilievo della cultura italiana. 

 

 I romanzi raccontano chi siamo, parlano di eventi ed emozioni universali che attraversano i popoli. È ampiamente condiviso che la letteratura ha un ruolo psicoeducativo importantissimo. Essa ci permette, attraverso le storie raccontate da altri, di narrare anche noi stessi grazie ad un riconoscimento emotivo sempre uguale ma anche sempre nuovo. Sempre uguale perché le emozioni e gli eventi che vengono narrati accomunano tutti gli esseri umani: il dolore della perdita, del lutto o dell’abbandono; la gioia e la rabbia che può attraversare un rapporto di amicizia o di fratellanza; il conflitto nelle relazioni e così via. La letteratura è transgenerazionale proprio perché può attraversare le generazioni mantenendo però un carattere contemporaneo.

Un esempio è Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale), un romanzo distopico di Margaret Atwood pubblicato nel 1985 e tornato alla ribalta ottenendo ancora più successo e consenso grazie alla omonima serie televisiva; tanto da aver avuto un seguito narrativo dopo più di trent’anni attraverso l’uscita de I testamenti.

Per contro la letteratura è sempre nuova perché le sfumature emotive che si rivelano, grazie alla storia raccontata, sono fortemente influenzate dal vissuto del singolo lettore nel qui ed ora, dalla sua particolare sensibilità rispetto alle vicende narrate e dall’aderenza che ritrova in esse.

Risulta evidente, dunque, che nella letteratura è possibile ritrovare le descrizioni delle dinamiche di accudimento con le figure significative nonché i tratti di personalità legati alle diverse organizzazioni di significato. Questo perché lo stile di accudimento, così come i tratti di personalità, rappresentano le basi e le fondamenta di ogni essere umano. Sono concatenate tra loro ed influenzano ogni tipologia di relazione. Per questo motivo i libri e le storie della letteratura sono un terreno fertile anche per la pratica clinica.

Di seguito mostreremo proprio l’emergere di tali contenuti all’interno di una narrazione che nulla ha che fare con la pratica clinica, ma dalla quale è possibile ricavare tutti gli elementi utili per creare un profilo di personalità e uno stile di accudimento.

Lessico Famigliare

Lessico famigliare è un famoso romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, vincitore, nel 1963, del premio Strega.

L’autrice e voce narrante descrive dall’interno la vita della famiglia Levi, una quotidianità attraversata anche da eventi storici importanti e da personaggi di rilievo della cultura italiana.

La narrazione procede come un fiume, in maniera spontanea, priva di una trama e senza una ripartizione equa tra tutti i personaggi. Domina su tutti i componenti della famiglia e su tutte le personalità narrate, per tutto l’intero racconto, la figura del padre della scrittrice, Giuseppe. Un padre che, senza nessuna ombra di dubbio, ha lasciato un segno nella vita dell’autrice.

La figura del padre che si delinea nel racconto mostra delle caratteristiche di parenting riconducibili al controllo privo di affetto che ritroviamo all’interno dell’attaccamento ansioso evitante e dei tratti di personalità tipiche di una organizzazione di tipo ossessiva.

Questo significa che troveremo nella narrazione della Gilzburg un padre che utilizza un controllo opprimente, che impone regole rigide e il rispetto della disciplina come unica modalità di interazione con i figli e spesso anche con la moglie. Manca la dimensione affettiva ed emotiva del legame di attaccamento che anzi è caratterizzato da insensibilità, rigidità e una forte incoerenza educativa. Come è tipico dell’organizzazione ossessiva di personalità, scorgeremo un bisogno costante di avere la certezza di reagire in modo giusto agli eventi, l’inflessibilità anche in situazioni banali, l’ostinazione nel seguire innumerevoli norme morali. Il perfezionismo e il continuo perseguire scelte di valore è, nei soggetti con uno stile ossessivo di personalità, un’adesione puramente formale verso regole astratte percepite come assolute. L’idea di giustizia, di equità e di verità fine a sé stessa e scollata dall’unicità delle situazioni. La preoccupazione primaria rimane l’adesione formale alle regole come strategia di mantenimento dell’unità del sé. La ricerca continua di certezza porta a dubitare di qualsiasi cosa e di chiunque. Le attività diventano ripetitive diventando il più delle volte veri atteggiamenti superstiziosi e aspettative magiche di controllo. Vediamo meglio, attingendo direttamente al racconto, la concordanza tra la parte teorica e gli episodi narrati.

 L’autrice stessa scrive “vivevamo sempre, in casa, nell’incubo delle sfuriate di mio padre, che esplodevano improvvise, sovente per motivi minimi, per un paio di scarpe che non si trovava, per un libro fuori posto, per una lampadina fulminata, per un lieve ritardo nel pranzo, o per una pietanza troppo cotta.” Quando Alberto e Mario, due dei fratelli, litigavano furiosamente l’intervento del padre era “come ogni sua azione, violento. Si buttava in mezzo a quei due e li copriva di schiaffi. Io ero piccola e ricordo con terrore quei tre uomini che lottavano selvaggiamente.” Come nel caso del padre, anche la rabbia e la violenza che esplodeva tra i fratelli si innescava per futili motivi, come la precedenza per andare a lavarsi. Queste modalità violente di risolvere i problemi vengono vissute dai fratelli come assolutamente normali, tanto che l’autrice racconta: “Una volta che Alberto comparve a scuola con la testa fasciata, un professore gli chiese cosa era successo. Lui si alzò e disse: – Mio fratello ed io volevamo fare il bagno.

Chiamava i figli “salami” e “negri” perché nessuno aveva ereditato la sua passione per la montagna vissuta in verità come una vera ossessione più che un libero piacere; escluso Gino, il figlio maggiore, che l’autrice definisce come il “prediletto” dal padre e che lo soddisfaceva in ogni cosa. In realtà il padre rimane comunque insoddisfatto, nonostante gli innumerevoli sforzi del figlio. Infatti la Ginzburg racconta che “Gino si iscrisse poi in ingegneria e quando tornava a casa dopo un esame, e aveva preso trenta, mio padre chiedeva: – Come mai hai preso trenta? Com’è che non hai preso la lode? E se aveva preso trenta e lode, mio padre diceva – Uh, ma era un esame facile.”

Manteneva nei confronti dei figli e della moglie un atteggiamento svalutante, privo di condivisione dei momenti di allegria e spensieratezza. L’autrice racconta che da bambini, insieme alla madre, amavano recitare insieme una poesia e il padre si arrabbiava e “diceva che facevamo teatrino e che eravamo incapaci di occuparci di cose serie”.

Professore universitario, esplicitava la sua riluttanza verso qualsiasi argomento venisse trattato, “gli unici argomenti che tollerava erano gli argomenti scientifici, la politica e certi spostamenti che avvenivano in facoltà”. Non tollerava le barzellette che Natalia, la madre e i suoi fratelli raccontavano. Accettava di discutere solo di argomenti antifascisti. Si sentiva e diceva di essere poverissimo “lo accompagnò per tutta la vita la preoccupazione di trovarsi, da un momento all’altro, sul lastrico; preoccupazione irrazionale, che abitava in lui unita ad altri malumori e pessimismi.

Diffidente e sospettoso nei riguardi degli estranei “temendo che si trattasse di gente equivoca; ma appena scopriva con loro una vaga conoscenza in comune si sentiva subito rassicurato”.

Egli aveva con il cibo un rapporto a dir poco bizzarro. Infatti Natalia racconta che il padre mangiava moltissimo e molto in fretta, tanto da avere il piatto sempre vuoto. Tuttavia era convinto di mangiare poco e aveva trasmesso questa sua convinzione anche alla moglie che lo supplicava di mangiare di più. Sosteneva invece che il resto della famiglia mangiasse troppo ed il modo che metteva in atto per esprimere questo suo punto di vista era tutt’altro che pacato. “Lui invece sgridava mia madre perché trovava che mangiasse troppo – non mangiare troppo! Farai indigestione!

Tutti noi secondo mio padre mangiavamo troppo e avremmo fatto indigestione. Delle pietanze che a lui non piacevano diceva che facevano male; delle cose che gli piacevano diceva che facevano bene. Se veniva in tavola una pietanza che non gli piaceva s’infuriava – perché fate la carne in questo modo! Lo sapete che non mi piace. Se solo per lui facevamo un piatto che gli piaceva s’arrabbiava lo stesso. – Non voglio cose speciali, io mangio tutto. Non sono difficile come voi altri!

– Non si parla sempre di mangiare, è una volgarità! Tuonava se ci sentiva parlare fra noi di una pietanza o dell’altra.

– Come mi piace il formaggio, diceva immancabilmente mia madre quando veniva in tavola il formaggio; e mio padre diceva: Come sei monotona! Non fai che ripetere sempre le stesse cose. A mio padre piaceva la frutta molto matura perciò quando capitava una pera un po’ guasta la davamo a lui. – Ah mi date le vostre pere marce, begli asini.

– Le noci fanno bene. Eccitano la peristalsi.

– Anche tu sei monotono, – gli diceva mia madre. – Anche tu ripeti sempre le stesse cose. Mio padre allora si offendeva: – Che asina! – diceva. Mi hai detto che sono monotono. Una bella asina sei!”

Il timore di una indigestione però, non si tramutava in un reale allarme davanti ad una vera e reale indigestione, in questo caso il signor Giuseppe “sospettava oscure storie di donne”.

L’organizzazione ossessiva del padre tiene lontana la Ginzuburg dalla scuola “mio padre diceva che a scuola si prendono i microbi. Anche i miei fratelli avevano fatto le elementari in casa per le stesse ragioni.” Altro tratto ossessivo emerge nella proibizione di mangiare caramelle e nello specifico l’autrice racconta “mio padre diceva che rovinavano i denti, e non c’era cioccolata, o altri dolci da mangiare in casa nostra, perché era proibito mangiare fuori pasto.” Gli unici dolci che, a tavola, potevano essere mangiati dalla famiglia era delle frittelle molto economiche da preparare ma che, oramai, tutti avevano a nausea.

La lista delle cose che il padre dell’autrice non tollerava appare lunghissima, tra questi anche i segreti, “non tollerava vedere la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano”.

La sorella Paola invece aveva timore del padre a tal punto da non tagliarsi i capelli per la “troppa paura”.

I segreti di famiglia

L’ambivalenza educativa portata avanti dal padre emerge prepotente quando l’autrice affronta il tema dei segreti di famiglia. In particolare sulla morte del fratello della madre, Silvio, aleggiava il mistero: “io ora so che si è ucciso ma non so il perché. Credo che quell’aria di mistero intorno alla figura del Silvio, la diffondesse soprattutto mio padre perché non voleva che noi sapessimo che in famiglia c’era un suicidio, e forse ancora per altre ragioni che ignoro.”

Oltre il suicidio di Silvio in casa vi era un’altra questione avvolta nel mistero che riguardava persone vicine alla famiglia e di cui spesso si parlava ed era il fatto che “Turati e Kuliscioff, non essendo marito e moglie, vivessero insieme. Anche in questa storia di mistero riconosco soprattutto l’intenzione e i pudori di mio padre, perché forse mia madre da sola non ci avrebbe pensato.” L’autrice racconta che sarebbe stato più facile mentire e dire che erano sposati invece le venivano date spiegazioni poco chiare sul perché questi loro due amici venivano nominati sempre in coppia. Così lei si chiedeva e chiedeva se fossero fratelli, marito e moglie, ma appunto le spiegazioni, lungi dall’essere chiare ed esaustive, la lasciavano sempre parecchio confusa rimandandole una sensazione di mistero e di non detto.

Conclusioni

I libri sono un (non) luogo in cui riconoscersi, al di là del tempo e dello spazio. Uno spazio indefinito in cui sperimentare l’empatia e il riconoscimento.

La narrazione di sé attraverso le storie narrate da altri, ma che possono diventare anche nostre. Possono interrogarci, permetterci di comprende dinamiche in cui noi siamo immersi e che a causa di tale profonda immersione non riusciamo a comprendere. Possono diventare chiavi per aprire mondi emotivamente sconosciuti.

Ecco perché diventa importante scegliere le storie giuste, per noi. Perché i libri possono essere un buon esercizio di consapevolezza.

 

Lo stigma dell’aborto per le ragazze adolescenti

Una recente ricerca che ha studiato le relazioni tra stigma, sostegno sociale, gravidanza e aborto tra adolescenti, ha dimostrato che le critiche della famiglia e l’isolamento sociale erano associati alla stigmatizzazione tra le adolescenti.

 

 Le ragazze minorenni oggi, in moltissimi Stati, per poter effettuare un aborto devono avere il consenso di un genitore o di chi ne fa le veci (Guttmacher Institute, 2013). Nei Paesi in cui tale consenso non è indispensabile, talvolta le adolescenti coinvolgono comunque un genitore, tipicamente la madre; altre volte, invece, decidono di farlo in autonomia poiché temono una reazione negativa dei loro genitori come l’abbandono, la violenza o una costrizione a continuare la gravidanza (Ehrlich, 2006). In Texas, ad esempio, le ragazze che non vogliono coinvolgere un genitore per abortire possono ottenere da un giudice un bypass del consenso se dimostrano che sono abbastanza mature e informate sulla loro decisione di interruzione della gravidanza. Questa procedura richiede però che abbiano la possibilità di parlare con un avvocato o con tutore ad litem nominato dal tribunale (un adulto che agisce nel migliore interesse del minore).

Lo stigma sull’aborto

Per comprendere il contesto sociale di alcuni Stati in cui le ragazze prendono la decisione di abortire è necessario esaminare le teorie dello stigma sull’aborto. Goffman (1986) propose che le persone che compiono o sono associate a comportamenti o identità ritenute “devianti”, nascondono la propria identità stigmatizzata per evitare di sperimentare discriminazioni. Un’adolescente che ha avuto o sta pensando di avere un aborto, per esempio, potrebbe sperimentare tre tipologie di stigma differenti: quello anticipato, causato dalla previsione di essere trattata diversamente dopo l’intervento; quello messo in atto, provando discriminazione e vergogna nei confronti degli altri, e infine quello interiorizzato, avendo appreso atteggiamenti sociali che vedevano l’aborto come una scelta deviante (Cockrill & Nack, 2013). La ricerca ha dimostrato infatti che alcune donne nascondono il loro aborto a causa dello stigma anticipato, altre invece si sentono giudicate quando rivelano il loro aborto a causa della vergogna o del giudizio. Uno studio di Kumar e colleghi (2009) ha ipotizzato che scegliere di interrompere una gravidanza può essere considerato “innaturale” in alcuni Stati poiché risulta essere contrario a tre norme di genere: la prima afferma che le donne sono di natura premurose e curative, la seconda che non devono avere desideri sessuali al di fuori della procreazione e l’ultima che tutte le donne diventeranno madri. Spesso le donne che scelgono l’aborto sono etichettate quindi come “irresponsabili” perché evitare la gravidanza è visto come una “responsabilità sessuale delle donne” (Luker, 1985).

 Oggi si hanno poche informazioni sul sostegno sociale ricevuto dalle adolescenti che scelgono di non coinvolgere un genitore nella decisione di interrompere una gravidanza. Diversi studi hanno dimostrato infatti che il sostegno sociale può aiutare a ridurre gli esiti psicologici negativi durante eventi di vita stressanti. L’aborto per alcune donne è categorizzato come un evento stressante a causa delle barriere di accesso e dello stigma. Alcuni autori hanno identificato quattro differenti tipologie di sostegno sociale: quello emotivo che nasce in seguito alle convalidazioni, quello informativo che si genera quando si condividono conoscenze, quello di compagnia tramite il trascorrere del tempo insieme e quello di materiale, grazie alla condivisione di risorse (Cohen e Wills, 1985). La mancanza di sostegno sociale sembra inoltre essere associata a una minore certezza decisionale e a emozioni negative (Sisson et al., 2017).

L’importanza del supporto sociale legato alla decisione di abortire

Durante il periodo dell’adolescenza il sostegno sociale di ogni ragazzo si amplia ma la famiglia sembra rimanere il nucleo necessario per un sano sviluppo adolescenziale. Una recente ricerca che ha studiato le relazioni tra stigma, sostegno sociale, gravidanza e aborto tra gli adolescenti, ha dimostrato che le critiche della famiglia e l’isolamento sociale erano associati alla stigmatizzazione tra le adolescenti (Wiemann et al., 2005). Un ulteriore studio ha scoperto che le ragazze in Ghana sperimentano un forte giudizio per l’attività sessuale, la gravidanza e l’aborto, che provocava segretezza su queste decisioni (Hall e al., 2018). I dati oggi indicano che quasi tutte le adolescenti che non includono i genitori coinvolgono almeno un’altra persona nella decisione di abortire, spesso le ragazze desiderano autonomia, ma cercano informazioni e consigli da persone di fiducia.

Dal momento che la maggior parte degli Stati richiede che le adolescenti minori coinvolgano un genitore per ottenere un aborto, e poco si sa sulle ragioni che le spingono a sceglierlo e sul sostegno sociale ricevuto da coloro che cercano di bypassare il consenso dei genitori, Coleman‐Minahan e colleghi nel 2020 hanno condotto una ricerca qualitativa per approfondire il tema tramite delle interviste. L’obiettivo degli autori era quello di esplorare perché le ragazze avessero scelto di abortire, se avessero coinvolto altre persone nella loro decisione e quali fossero le loro esperienze di sostegno sociale. I risultati mostrano che le partecipanti, nell’esplorare le loro opzioni di gravidanza, hanno coinvolto altre persone che le aiutassero a prendere una decisione. Inoltre, le ragazze hanno scelto di abortire perché la genitorialità avrebbe limitato le loro prospettive future e non avrebbero potuto soddisfare i bisogni di un bambino. Lo stigma che più ha influito nelle loro decisioni sembra essere quello anticipato, che ha fatto sì che le adolescenti nascondessero la propria scelta pur desiderando e necessitando sostegno emotivo e materiale. Alcune di loro, infatti, dopo aver rivelato la loro intenzione di abortire hanno sperimentato vergogna e abuso emotivo, aspetti che suggeriscono che le loro paure erano giustificate. In aggiunta, non tutti i partner maschili risultavano essere d’accordo con la decisione delle ragazze di abortire e alcuni non garantivano il loro sostegno; coloro che invece lasciavano che fossero le donne a prendere la decisione finale, venivano considerati come se evitassero la responsabilità di prendere parte al processo decisionale o di fornire sostegno emotivo.

In conclusione, in generale sembrerebbe che le adolescenti riflettano sulla loro decisione di abortire, coinvolgano gli altri e anticipino correttamente le reazioni dei loro genitori. Lo stigma sull’aborto influenza la rivelazione delle loro decisioni e limita il loro sostegno sociale. Le politiche statali che obbligano il coinvolgimento dei genitori possono non giovare al processo decisionale degli adolescenti e possono esporre loro ad abusi emotivi o fisici da parte dei genitori.

 

Le conseguenze psicologiche dopo la diagnosi da Sindrome di Rokitansky

A partire dalla diagnosi di Sindrome di Rokitansky, l’immagine di sé che si riformula è estremamente negativa, la ragazza si sente difettosa e imperfetta; questa considerazione di sé è fortemente legata alla rappresentazione simbolica dell’utero, segno di femminilità.

 

La Sindrome di Rokitansky

 La sindrome di Mayer-Rokitansky-Küster-Hauser, o più comunemente Rokitansky, è una rara malformazione congenita caratterizzata dalla mancanza dell’utero, che colpisce 1 donna su 4500, senza l’alterazione delle ovaie, genitali esterni e delle caratteristiche sessuali secondarie e del cariotipo. La sindrome si può presentare in due forme: o con la sola mancanza dell’utero, o associata a malformazioni di altri organi (Deng et al., 2019; Herlin et al., 2016).

La diagnosi ha serie ripercussioni sul benessere emotivo e psicologico della donna e questo fattore è influenzato anche dagli schemi mentali e dagli stereotipi di genere. L’identità sessuale viene messa in discussione e la vita sociale e sentimentale vanno a ridimensionarsi qualitativamente. L’aspetto più debilitante nel lungo periodo è l’infertilità, dovuta alla mancanza dell’utero (Deka e Sarma, 2010)

La diagnosi avviene quasi sempre durante l’adolescenza per via dell’assenza del menarca. Quest’ultimo, unito al periodo nel quale avviene la diagnosi e l’infertilità sono i fattori che maggiormente influenzano la salute psicosessuale della persona (Ragozzino et al., 2020).

A partire dalla diagnosi, l’immagine di sé che si riformula è estremamente negativa, la ragazza si sente difettosa e imperfetta; questa considerazione di sé è fortemente legata alla rappresentazione simbolica dell’utero, segno di femminilità. Il ruolo sociale di donna viene, in questo modo, messo in discussione ed è compromesso il senso di normalità e di appartenenza al gruppo delle coetanee (Holt e Slade, 2003)

Il menarca ha un ruolo centrale per la formazione e lo sviluppo dell’identità femminile poiché rappresenta la raggiunta maturità sessuale; quindi, l’assenza della prima mestruazione può far sentire le ragazze incomplete e diverse dalle loro coetanee (Holt e Slade, 2003; Patterson et al., 2016). L’assenza del menarca può essere percepita come la perdita di una parte del proprio corpo, crea una ferita narcisistica in una fase della vita dove la maturità cognitiva non è totalmente raggiunta. Questa, unita alla mancanza di esperienza e a una modalità di pensiero dicotomico, può portare la donna ad una autovalutazione negativa e ad un utilizzo di strategie di coping disfunzionali per affrontare questa nuova condizione (Gueniche et al., 2014; Wagner et al., 2016).

La comunicazione ai familiari nella diagnosi di Sindrome di Rokitansky

 Un altro aspetto rilevante è la risposta della famiglia alla diagnosi. Le reazioni della famiglia e dell’ambiente possono essere un ulteriore carico emotivo che aumenta lo stress dell’adolescente. Durante le visite mediche le pazienti possono sentirsi trascinate dagli eventi e per questo motivo alcune ragazze possono decidere di informare loro stesse famigliari e amici, sia per minimizzare l’effetto che la diagnosi può avere sulla famiglia, sia per riprendere il controllo della situazione e decidere cosa comunicare e a chi comunicarlo (Holt e Slade, 2003).

La comunicazione della diagnosi può avere un effetto anche sulle madri che possono diventare più premurose (Leithner et al., 2015) o prendere il controllo della situazione, sia durante le consultazioni mediche, sia per la divulgazione della diagnosi (Espie, 2012), mettendo in secondo piano le figlie. Inoltre, le madri potrebbero sentirsi in colpa e attribuirsi la responsabilità della condizione della figlia (Gueniche et al., 2014). Questo può influenzare significativamente l’atmosfera famigliare e il rapporto madre-figlia (Bargiel-Matusiewicz et al., 2013). Un’altra criticità che si può incontrare durante i colloqui è legata al tema della sessualità e dell’intimità, oltre all’utilizzo di termini tecnici che rendono maggiormente difficile la comprensione della patologia e le sue conseguenze (Holt e Slade, 2003).

Il tema dell’infertilità spesso è collegato a una perdita di attrazione fisica e fiducia tra partner. L’incapacità di concepire un bambino può comportare una distorsione dell’equilibrio psicologico sia della singola persona che della coppia e viene paragonata al lutto. Studi su donne sterili rivelano un aumento di sospettosità e ostilità che può influenzare la relazione con il partner (Malina et al., 2016). Per fare fronte a questo aspetto vengono proposte delle soluzioni mediche per l’infertilità quali la maternità surrogata, l’adozione e il trapianto dell’utero.

 

EMDR e dolore cronico (2021) di Mark Grant – Recensione del libro

Mark Grant nel suo libro EMDR e dolore cronico offre un attento inquadramento del dolore basato sul modello AIP (Modello di Elaborazione Adattiva dell’Informazione) e lo analizza secondo una revisione teorica del ruolo del trauma e dell’attaccamento traumatico collegato al dolore.

 

 Il dolore cronico rappresenta una sfida clinica persistente e trasversale a una varietà di disturbi e malattie. In Italia si stima che questa problematica interessi circa il 20-25% della popolazione. Viene a volte riconosciuto che il dolore cronico è causato da una combinazione di fattori fisici e psicologici e che il miglior approccio sia quello multidisciplinare, ma spesso l’intervento psicologico e  psicoterapeutico del dolore non viene considerato.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità considera la psicoterapia EMDR evidence-based e prima opzione terapeutica nell’ambito dei disturbi da stress post-traumatico (PTSD). Il PTSD è spesso associato al dolore cronico: circa il 50% dei pazienti affetti da PTSD soffre anche di dolore cronico. I tipi di dolore più comunemente associati al PTSD includono nausea, dolori muscolari, mal di testa, mal di schiena, mal di stomaco, dolori genitali e dolori cronici diffusi (Baker et al. 1997; Arguelles et al. 2006).

Il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali dell’American Psychiatric Association nell’ultima versione DSM-5 con il termine disturbi somatoformi si riferisce a sintomi che suggeriscono una malattia fisica o una lesione, che potrebbe non essere pienamente spiegata da una condizione medica, riconoscendo quindi che i fattori psicologici possono avere un ruolo nel dolore.

In seguito ad una analisi approfondita delle caratteristiche e della natura del dolore cronico, sono emersi importanti parallelismi con il PTSD.

La terapia EMDR, seguendo la sperimentazione con rigore scientifico, amplia il raggio di azione e applicazione, offrendo ai clinici valide alternative ad approcci tradizionalmente utilizzati. Il presente lavoro dimostra come l’EMDR può essere applicato ad un contesto considerato prioritariamente somatico, come il dolore cronico, evidenziando l’importanza di un approccio multidimensionale ai disturbi somatici. Le persone che soffrono di questo disturbo possono presentare una complessa interazione di problemi tra cui PTSD, difficoltà di regolazione emotiva, problemi di identità ecc.

 Mark Grant, in questa sesta edizione del manuale, offre un attento inquadramento del dolore basato sul modello AIP (Modello di Elaborazione Adattiva dell’Informazione) ed inoltre lo analizza secondo una revisione teorica del ruolo del trauma e dell’attaccamento traumatico collegato al dolore. Il modello AIP è anche coerente con la teoria della neuroplasticità. È noto che il trauma e il dolore cronico comportano cambiamenti nella chimica, nella struttura e nel funzionamento del cervello e un fallimento dei processi omeostatici.

Il dolore può essere sia nocicettivo (correlato a danni tissutali) sia neuropatico (correlato a una combinazione di danno tissutale e nervoso). Il dolore nocicettivo e il dolore neuropatico non sono mutualmente esclusivi, il dolore nocicettivo spesso porta a dolore neuropatico. Un’altra differenza fondamentale tra i due è che il dolore neuropatico è di solito meno spiegabile in relazione a una patologia fisica o lesione.

Non tutto il dolore è legato a eventi traumatici, tuttavia il disagio fisico e la disabilità causata da un dolore incontrollato possono essere devastanti.

Il dolore non è solo un’esperienza fisica, ma ha anche conseguenze esistenziali e gestire il dolore significa molto più che controllare il dolore.

La seconda parte del manuale descrive il protocollo per il trattamento del dolore cronico con EMDR che consiste in un processo in 8 fasi e comprende: Raccolta della storia, Preparazione, Assessment, Desensibilizzazione, Installazione, Scansione Corporea, Chiusura e Rivalutazione.

L’EMDR Pain Protocol è un adattamento del protocollo standard per il trattamento del trauma di Shapiro (1995). È stato testato dall’autore e da altri colleghi con una varietà di popolazioni cliniche affette da dolore cronico tra cui CLBP (chronic low back pain: dolore lombare cronico), mal di testa, dolore a seguito di incidenti, fibromialgia, disturbo di somatizzazione ecc.

Durante il percorso psicoterapeutico con l’EMDR, lo sviluppo di nuove competenze e il rafforzamento delle risorse e capacità di resilienza del soggetto, favoriscono una migliore modulazione della risposta allo stress, rendendo il corpo meno vulnerabile a condizioni infiammatorie o patogene.

La terza sezione del libro è costituita da risorse utili al trattamento. È disponibile materiale di pronto uso per il clinico coinvolto nella cura di tali sfidanti patologie e vi sono risorse utili per i pazienti. Le persone devono essere aiutate a capire e gestire il proprio dolore, aumentare la loro capacità di auto-cura, dormire meglio e gestire meglio gli aspetti fisici ed emotivi del loro dolore.

Oltre alle informazioni tecniche inerenti l’applicazione del protocollo, l’autore sottolinea l’importanza dello stile di vita della persona che soffre di dolore cronico, la dimensione del piacere, dell’attività fisica, il ruolo della resilienza.

L’esperienza ventennale di Mark Grant nell’ambito del dolore cronico, anche se rimane un problema impegnativo, suggerisce che l’EMDR risulta un metodo che può fare la differenza in molti casi. Gli psicoterapeuti EMDR troveranno sicuramente in questo testo un valido ampliamento delle proprie conoscenze cliniche e un pratico supporto nella loro attività terapeutica quotidiana.

 

Il Neuropsicologo del Benessere: intervista al Dott. R. E. Gavin, Scuola di Alta Formazione in Neuropsicologia del Benessere

Il Neuropsicologo del Benessere è un esperto in benessere psicologico, training neurocognitivo e performance, una figura professionale sempre più richiesta in numerosi ambiti d’intervento. Il dott. Roberto Emilio Gavin, responsabile scientifico della Scuola di Alta Formazione in Neuropsicologia del Benessere, ci spiega il valore che assume questa figura professionale nel mondo del lavoro.

 

Chi è il Neuropsicologo del Benessere?

Il Neuropsicologo del Benessere® è un professionista che applica le conoscenze in neuroscienze e neuropsicologia all’ambito della psicologia del benessere e della psicologia della performance.

È preparato sulle diverse tecniche di rilassamento, sulla mindfulness, sul biofeedback, coaching e training neurocognitivo.

Quali sono gli ambiti professionali dove opera il Neuropsicologo del Benessere?

Il Neuropsicologo del Benessere è in grado di operare in autonomia come libero professionista in strutture pubbliche, private e nel Sistema Sanitario Nazionale (SSN) per gli utenti, ma anche per il personale lavorativo. Essendo un operatore di training neurocognitivo, un esperto di salute e performance aziendale, personale e sportiva può offrire assistenza a professionisti e imprenditori in contesti di elevata competitività. È in grado di esercitare le sue competenze in consultori, aziende ospedaliere e comunità terapeutiche oltre che in studi professionali in qualità di Brain Trainer e Coach Motivazionale. Gli strumenti e le competenze che ha acquisito, inoltre, possono essere utilizzati come integrazione in percorsi clinici e di psicoterapia.

C’è differenza con il Neuropsicologo clinico?

È assolutamente necessario fare questa distinzione – afferma il dott. Gavin. Il Neuropsicologo del Benessere, infatti, non va confuso con la figura del Neuropsicologo dell’area clinica. Quest’ultimo si occupa principalmente di diagnosi e riabilitazione, mentre il Neuropsicologo del Benessere, con le competenze di cui sopra, trova spazio in un’area in forte espansione, quella della psicologia del benessere e della psicologia della performance.

Perché una Scuola di Alta Formazione in Neuropsicologia del Benessere e come formarsi in qualità di Neuropsicologo del Benessere?

La Scuola nasce con l’obiettivo di formare professionisti completi e autonomi. Per questo motivo, l’Alta formazione offerta dalla Scuola prevede esperienze pratiche accompagnate dallo studio di casi clinici, role playing ed esercitazioni su tecniche e strumenti utilizzati sul campo, con docenti altamente specializzati che operano nell’ambito della neuropsicologia del benessere da molti anni.

Per formarsi in quest’area è necessario seguire un percorso intenso articolato in 3 moduli per un totale di 210 ore. La scuola è accreditata dal Ministero della Salute e rilascia 150 ECM.

È l’unica Scuola di Alta Formazione in Italia che rilascia il titolo e l’attestato di “Neuropsicologo del Benessere®”, titolo depositato presso il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE).

Abbiamo visto che ogni anno assegnate una borsa di studio, ci dice qualcosa di più?

Fin dalla prima edizione abbiamo voluto dare la possibilità ai nostri studenti di poter accedere a una borsa di studio che copra parzialmente i costi della Scuola. Crediamo sia importante offrire opportunità formative a persone meritevoli che si dimostrano particolarmente interessati alle potenzialità offerte dalla Neuropsicologia del Benessere. Questo può aiutarci a diffondere il valore di una formazione in questa disciplina tra i giovani psicologi che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro.

Dove è possibile trovare informazioni sulla Scuola di Alta Formazione? Ci saranno nuove edizioni del percorso formativo?

È possibile accedere a tutte le informazioni relative alla scuola sul sito di APL – Psicologi della Lombardia. Qui potrete consultare il programma, il calendario del corso e i relativi costi. È prevista una nuova edizione del percorso formativo che partirà in autunno, per la quale è già possibile richiedere ed effettuare l’iscrizione.

Ci racconta i prossimi obiettivi della Scuola di Alta Formazione?

Visto il grande interesse per quest’area di intervento e la necessità di diffondere conoscenze e pratiche, abbiamo deciso di fondare la Società Italiana di Neuropsicologia del Benessere il cui obiettivo è quello di diffondere e promuovere cultura in ambito neuropsicologico. Stiamo inoltre collaborando con diverse realtà associative come la Federazione Italiana Mindfulness che riconosce ai nostri studenti le ore di formazione relative ai protocolli Mindfulness e ne prevede l’inserimento nell’Albo Nazionale Mindfulness. Il nostro obiettivo è creare un’ampia rete di società e associazioni sul territorio nazionale, oltre che avviare collaborazioni con docenti illustri e innovatori che possano dare importanti contributi e maggiore prestigio alla nostra Scuola e ai Neuropsicologi del Benessere.

 

Il fenomeno del cyberbullismo nel gaming online

Il cyberbullismo può causare molta sofferenza in chi lo subisce e, nonostante sia più frequentemente osservabile sui social network, può essere presente anche nell’ambiente del gaming online.

 

Cos’è il cyberbullismo

 Il cyberbullismo è una problematica che sta acquisendo sempre maggiore importanza, in quanto si tratta di un fenomeno che sta avendo una diffusione globale, poiché circa il 40% degli adolescenti riferisce di averlo subito almeno una volta (McInroy e Mishna, 2017). Mentre i social network hanno un’utenza composta maggiormente dal genere femminile, quello maschile domina l’ambiente del gaming, specialmente quello online. L’ambiente del gaming comprende una grande varietà di aspetti sociali che, in base anche alla tipologia di gioco (strategia, simulazione, di ruolo, fantasy), possono coinvolgere i giocatori in diversi modi. Ad esempio, la possibilità di giocare a un gioco multiplayer ingrandisce l’ambiente sociale a disposizione del giocatore. Con l’aumento dell’ambiente sociale, aumenta anche la possibilità di incontrare il fenomeno del cyberbullismo, descritto come l’atto di utilizzare dei dispositivi digitali per attuare il bullismo. Questo comportamento può essere espresso in diversi modi, come minacce e violenza verbale o psicologica.

Il cyberbullismo è un fenomeno che può causare molta sofferenza in chi lo subisce (McInroy e Mishna, 2017). Nonostante sia più frequentemente osservabile sui social network, il cyberbullismo può essere presente anche nell’ambiente dei videogiochi. È stato osservato che il cyberbullismo ha effetti altamente negativi sui gamers che ne sono soggetti, come bassa autostima, rischio di depressione e aumento d’ansia. Questo comportamento sembra essere perpetrato maggiormente dal genere maschile, specialmente nei casi in cui i videogiochi rendono possibile comunicare vocalmente con i propri compagni o nemici, attuando così comportamenti negativi come il trash talking (ovvero l’insieme di insulti, minacce e provocazioni nei confronti degli altri giocatori), con scopo intimidatorio. Inoltre, è stato osservato che questo fenomeno è frequentemente rivolto a persone di genere femminile o appartenenti alla comunità LGBTQ+.

Cyberbullismo nel gaming e comportamenti violenti

 Sono state trovate delle correlazioni tra il cyberbullismo nel gaming e comportamenti violenti nella vita reale (Fryling et al., 2015). Sembrerebbe infatti che le persone che subiscono cyberbullismo nell’ambiente del multiplayer online tendano a riportare un livello di ansia maggiore insieme ad aggressività e ostilità aumentate (Fryling et al., 2015). Ciò è comprensibile poiché la gran parte dei giocatori, al giorno d’oggi, investe molto tempo ed energie nel gaming e le vittime di comportamenti tossici e cyberbullismo possono risentire degli effetti di tali fenomeni anche mentre non stanno giocando (Kwak et al., 2015). I giocatori, infatti, riportano che il fenomeno meno preferito sia proprio il comportamento antisociale perpetrato da altri (Ballard e Welch, 2017).

Sembra che ci sia inoltre un collegamento tra il fenomeno del cyberbullismo e videogiochi violenti (Ballard e Welch, 2017). Anderson e Bushman (2002) hanno sviluppato il Modello dell’Aggressione Generale (General Aggression Model; GAM), secondo il quale suggeriscono che i videogiochi violenti forniscono dei modelli di aggressione che aumentano le possibilità di emettere comportamenti aggressivi sia fuori che dentro il contesto del videogioco. Ciò è dovuto al fatto che i videogiochi aggressivi: (1) forniscono e rinforzano modelli aggressivi; (2) incrementano l’affettività negativa e l’attivazione fisiologica dopo l’esperienza di gioco; (3) desensibilizzano la percezione della violenza (Anderson e Bushman, 2002). È importante evidenziare che, attualmente, il modello GAM non è stato ancora totalmente supportato da evidenze scientifiche.

Concludendo, il fenomeno del cyberbullismo nell’ambiente del gaming è una problematica importante, in quanto rovina frequentemente (spesso in modo grave) l’esperienza di gioco di molti gamers che vedono il gioco come momento di divertimento e relax (Fryling et al., 2015).

 

La CBT nel pubblico e nel privato – Report dal Forum di Ricerca in Psicoterapia

Diffondere la CBT nel pubblico e nel privato. Diverse esperienze in diversi paesi e sistemi: lo IATP, il sistema assicurativo USA e il progetto InTherapy – Report dal Forum della Ricerca in Psicoterapia 2022: Psicoterapia Efficace

 

 Durante la tavola rotonda che ha chiuso il Forum, i prof. Giovanni Maria Ruggiero, David Clark e Steven Hollon hanno portato importanti spunti di riflessione su cosa vuol dire una buona pratica terapeutica.

Il Forum della Ricerca in Psicoterapia è il consueto appuntamento biennale organizzato dalla rete di Studi Cognitivi Formazione che riunisce studenti, ricercatori e clinici delle diverse scuole radicate sul territorio italiano. Si tratta di un’importante occasione formativa e di scambio, non solo per la possibilità di discutere ricerche e casi clinici con professionisti di esperienza, ma anche per allacciare contatti con colleghi con diverse esperienze e background. Sia studenti che clinici affermati hanno avuto modo di presentare diversi lavori di ricerca.

Tra questi c’è stato spazio anche per gli interventi del prof. David Clark che ha parlato dello IAPT (Improving Access to Psychological Therapies, programma del servizio pubblico britannico per l’erogazione di CBT) e Steven Hollon, che ha approfondito la situazione statunitense, sicuramente meno strutturata rispetto ad altre realtà europee.

Proprio questi ultimi due, insieme al prof. Ruggiero, hanno tenuto la tavola rotonda che ha chiuso i due giorni del Forum. Le esperienze degli studiosi inglese e americano sono state rapportate all’esperienza italiana in generale e in particolare al progetto InTherapy.

Flessibilità e gruppo di lavoro nella buona pratica

Prima ancora di ragionare sulle migliori pratiche per diffondere la CBT nel pubblico come nel privato, va fatta una riflessione preliminare sul ruolo della formazione per lo psicoterapeuta.

Il percorso formativo degli psicoterapeuti è composto sia da una parte teorica che da una componente pratica, rappresentata dai vari tirocini e collaborazioni a vario titolo cui l’aspirante psicoterapeuta prende parte. Tuttavia c’è il rischio che una volta terminato il percorso formale di studi si finisca col lavorare isolati nel proprio studio. Chiudersi può portare a mancanza di aderenza rispetto alle pratiche cliniche più aggiornate e alla mancanza di riscontri esterni, di confronti costruttivi con colleghi.

Ed è per questo che è fondamentale considerare come parte integrante dell’esperienza del clinico fare training e supervisioni regolari con colleghi più esperti, usare scale di valutazione e revisione degli interventi attuati per monitorare costantemente il trattamento: proprio la misurazione apre gli occhi su cosa è efficace e quali strade è meglio intraprendere nel percorso terapeutico.

La pratica clinica è per definizione flessibile e dinamica, pur mantenendo l’esigenza di rimanere aderenti a protocolli e linee guida condivisi.

Come ricorda Hollon, il manuale di terapia cognitiva di Beck fu elaborato dal gruppo di lavoro della “Mood Clinic” di cui lui stesso fece parte; questo testo fu redatto a più mani e soprattutto integrando più idee, opinioni, osservazioni cliniche. I manuali sono fondamentali ma non sono che un punto di partenza per apprendere le procedure e avere un supporto mentre si applicano, prosegue Hollon, ma mai senza che la pratica sia condivisa e discussa con i colleghi con training, supervisioni, valutazioni come strumenti di apprendimento pratico da affiancare all’apprendimento mnemonico.

Anche secondo Clark i manuali sono necessari ma non sufficienti e non possono sostituire la pratica; devono, anzi, essere strumenti flessibili e non presi alla lettera con “to do list” sessione per sessione.

Clark, infatti, sostiene il cosiddetto approccio “learning by doing”, ovvero l’imparare attraverso il fare, attraverso l’esperienza diretta.

Rendere la CBT più accessibile: IAPT e InTherapy

Se da un lato gli psicoterapeuti devono mantenere un approccio flessibile, dall’altro lato emerge anche l’esigenza di avvicinare la CBT a persone che sono, per diversi e disparati motivi, lontani dal radar della presa in carico e che, invece, ne potrebbero beneficiare.

 Un discorso di questo genere tira in ballo anche le istituzioni che hanno il compito e il dovere di instradare i cittadini che ne hanno bisogno verso il giusto percorso di cura e, laddove necessario, supportandolo anche materialmente. Se esigenze di questo tipo non sono in alto nell’agenda delle autorità, bisogna portare evidenze e con dati alla mano mostrare quanto sia importante la psicoterapia: anche se sono ormai disponibili chiare prove empiriche della efficacia di varie psicoterapie per i disturbi mentali solo una minima parte di pazienti ne usufruisce.

L’esperienza di Clark nasce da questo tipo di riflessioni e ha portato allo IAPT (Improving Access to Psychological Therapies). Lo IAPT è un programma inglese che promuove l’accesso alla psicoterapia all’interno del Servizio Sanitario Nazionale: più di 500.000 pazienti all’anno ne usufruiscono con più di 10.000 terapeuti all’attivo formati in trattamenti evidence based per la terapia della depressione e dei disturbi d’ansia. Questo programma consente a un gran numero di persone di ricevere un trattamento psicologico, persone che altrimenti non ne avrebbero avuto l’opportunità, con ricadute positive a lungo termine sul Servizio Sanitario Nazionale stesso: oltre due terzi dei pazienti guarisce.

Collegandosi allo IAPT, il prof. Ruggiero introduce il progetto InTherapy, attivo su tutto il territorio italiano. Si tratta di una rete di psicoterapeuti formati che garantisce ai pazienti supporto, sia in presenza che online, nel trattamento di diversi disturbi (non solo depressione e ansia). La forza di InTherapy sta proprio nella rete di professionisti che collaborano sia in fase di diagnosi che di monitoraggio e supervisione delle psicoterapie; inoltre, vi è una formazione continua per i professionisti e questo garantisce la qualità e l’aderenza alle procedure evidence based. Grazie a un network di terapeuti formati su diversi disturbi e trattamenti, ogni paziente può essere indirizzato alla terapia più adatta al suo specifico caso: proprio come discusso con Hollon e Clark, nell’ottica di adottare un approccio flessibile al paziente e al contempo non far venir meno il rispetto dei protocolli e l’aderenza alle più recenti procedure validate.

InTherapy è un progetto che rappresenta un modello innovativo di diffusione della CBT nel contesto italiano, tuttora privo di realtà simili.

Premiazione e saluti

Per concludere i due giorni del Forum si è passati alla premiazione dei lavori e ai saluti finali.

Come di consueto vengono premiati il miglior poster e la miglior presentazione orale; ai vincitori spetta l’iscrizione al Congresso Nazionale della CBT Italia che quest’anno si terrà a Firenze il 4-5 Novembre.

Per quanto riguarda la sezione dei poster è stato premiato il lavoro di Elena Allegretti, Martina Bellomo, Martina Giacomoni, Rebecca Gilmozzi, Alice Nannini, Irene Pifferi e Annalisa Oppo della sede di Firenze col lavoro “Valutazione dell’efficacia di due tecniche di defusione sul contenuto del Sé in modalità online: uno studio sperimentale”.

Il premio come miglior presentazione orale va a Giulia Anchora, Viviana Cereda, Marta Fanfoni della sede di Milano con lo studio “Metacredenze e processi cognitivi influenzano i sintomi depressivi e ansiosi nella Malattia di Parkinson”.

Il Forum si conclude con i ringraziamenti a tutta l’organizzazione che ha consentito di riproporre il Forum dopo un anno di stop a causa della pandemia e con la promessa di rivedersi in presenza nell’edizione del 2024. Anche se per la prima volta online, l’essenza e lo scopo del Forum sono rimasti inalterati: formazione, condivisione, dialogo, discussione, tutti elementi chiave nella formazione di futuri professionisti psicoterapeuti.

 

Linguaggio inclusivo nel rapporto terapeutico – Podcast

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘Linguaggio inclusivo nel rapporto terapeutico’.

 

 È disponibile sulle principali piattaforme Terapeuti al Lavoro, il podcast realizzato da State of Mind dedicato ai professionisti della salute mentale, che raccoglie i più interessanti webinar di formazione su vari temi della psicoterapia e della psicologia clinica

Lo scopo di questo episodio è quello di fornire suggerimenti per costruire un linguaggio inclusivo ed aiutare a migliorare il rapporto con gli altri.

Che impatto ha il linguaggio sulla salute mentale delle altre persone? Come si può far stare bene una persona con il solo uso del linguaggio? Scopo di questo episodio è quello di capire come il linguaggio, e la sua evoluzione, ha un ruolo importante sulla salute mentale di ogni persona. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un forte cambiamento sociale che richiede a sua volta un adeguamento del linguaggio. Gli specialisti forniscono alcuni suggerimenti che possono essere facilmente messi in pratica per costruire un linguaggio più inclusivo che può aiutare a migliorare il rapporto con gli altri.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli e dal Dott. Luca Daminato.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

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