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Caratteristiche psicopatologiche e tratti di personalità nell’ortoressia nervosa

L’Ortoressia Nervosa (ON) si riferisce a una preoccupazione eccessiva per l’alimentazione sana che implica l’evitamento di generi alimentari valutati «non salutari», un’eccessiva quantità di tempo dedicata ad acquisire informazioni sulla composizione del cibo e a preparare specifici alimenti sulla base di criteri percepiti come salutari (Novara et al., 2017).

 

Ortoressia nervosa e disturbi alimentari

In letteratura si evidenziano sovrapposizioni tra ortoressia nervosa e sintomatologia dei Disturbi Alimentari (ad es, Novara et al., 2021) e correlazioni moderate tra ortoressia nervosa e caratteristiche ossessivo-compulsive (Poyraz et al., 2015), perfezionismo non adattivo (ad es, Barrada & Roncero, 2018), ansia e depressione (ad es, Strahler et al., 2018).

Bratman (2017) considera l’ortoressia nervosa un fenomeno suddivisibile in due fasi: in un primo momento, la persona sceglie di seguire una dieta sana, successivamente, le abitudini alimentari sane si intensificano e diventano problematiche. Infatti, se adottare uno stile di vita sano e seguire una dieta equilibrata non è considerato un comportamento problematico, le cognizioni distorte potrebbero in seguito portare a dedicare una grande quantità di tempo a rigide abitudini salutari, aderendo così a una dieta rigorosa e inflessibile.

Ovviamente, non tutte le diete sono associate all’ortoressia nervosa; quando sono correlate ad altri fattori come l’eccessiva preoccupazione per il cibo, i problemi di funzionamento sociale, le carenze nutrizionali o la perdita di peso, possono essere considerate comportamenti alimentari problematici (Bratman, 2017). Sulla base di quanto descritto, la dieta potrebbe essere considerata un elemento centrale nell’eziologia della ortoressia nervosa nonostante le tendenze ortoressiche possono essere presenti anche in coloro che non seguono alcuna dieta.

L’obiettivo principale di uno studio di Novara e colleghi (2022) è stato quello di verificare se le persone ad alta tendenza ortoressica che seguono una dieta (HIGH-D) presentassero differenze nelle caratteristiche psicopatologiche (disturbi alimentari, sintomi ossessivo-compulsivi, perfezionismo, ansia e depressione) rispetto alle persone ad alta tendenza ortoressica che non seguono una dieta (HIGH) e alle persone con bassa tendenza ortoressica che seguono una dieta (LOW-D).

L’Ortoressia Nervosa è stata valutata attraverso la scala EHQ (Eating Habits Questionnaire), un questionario composto da 3 sottoscale che valutano le conoscenze rispetto all’alimentazione sana (Convinzioni), i relativi problemi associati (Problemi), le sensazioni e le emozioni correlate (Emozioni).

I risultati hanno dimostrato che il gruppo HIGH-D ha ottenuto un punteggio significativamente più alto rispetto agli altri gruppi nella sottoscala delle conoscenze rispetto all’alimentazione sana. Per quanto riguarda invece le scale “Problemi” ed “Emozioni”, non ci sono state differenze tra i gruppi con alte tendenze ortoressiche (HIGH e HIGH-D), ed entrambi hanno ottenuto punteggi più alti rispetto al gruppo LOW-D. Questi risultati sono coerenti con la letteratura che suggerisce che la dieta rappresenta un possibile fattore di rischio per l’ortoressia nervosa (Barthels et al., 2018). Tuttavia, i gruppi di persone con elevate tendenze ortoressiche – sia a dieta che non a dieta – mostrano differenze nelle caratteristiche ortoressiche, nei tratti di personalità, nelle caratteristiche dei disturbi alimentari e in altri aspetti. Di conseguenza, la dieta da sola non può spiegare le tendenze sopra descritte. Per questi motivi, sono stati indagati anche alcuni aspetti psicopatologici correlati all’ortoressia nervosa.

Per quanto riguarda il perfezionismo, il gruppo HIGH-D ha mostrato punteggi più alti rispetto al gruppo LOW-D. Gli standard personali elevati e un’organizzazione rigida potrebbero spiegare la stretta aderenza a un’alimentazione sana. Inoltre, il gruppo HIGH-D ha mostrato livelli più elevati di depressione rispetto al gruppo LOW-D; si potrebbe per cui pensare che l’eccessiva attenzione al cibo sano potrebbe compromettere il funzionamento sociale e portare così ad una deflessione dell’umore.

Sia il gruppo HIGH-D che il gruppo HIGH presentavano una sintomatologia ansiosa maggiore rispetto al gruppo LOW-D; questo risultato è coerente con gli studi che evidenziano la presenza di una maggiore ansia nei gruppi ortoressici (Strahler et al., 2018). Questi gruppi non hanno mostrato differenze nei tratti ossessivo-compulsivi.

Il gruppo HIGH ha mostrato punteggi più alti nelle sottoscale “Disregolazione emotiva”, “Perfezionismo” e “Ascetismo” del test EDI (Eating Disorder Invenotory) rispetto agli altri due gruppi. Queste dimensioni sono correlate con la sintomatologia dei disturbi alimentari, ma non ne rappresentano gli aspetti nucleari, evidenziando così una possibile coesistenza tra alte tendenze ortoressiche e alcuni aspetti secondari, ma comunque problematici, dei disturbi alimentari.

Ortoressia e tratti di personalità

I gruppi con alta tendenza ortoressica presentavano tratti di personalità più disfunzionali rispetto al gruppo LOW-D. In particolare, il gruppo HIGH-D aveva punteggi più alti nei domini “Affettività negativa” e “Distacco”.

L’affettività negativa è un tratto caratterizzato da esperienze intense e frequenti di alti livelli di emozioni negative e da manifestazioni comportamentali associate (APA, 2013). Questo potrebbe spiegare le intense emozioni negative provate ogni volta che viene meno la stretta aderenza a una dieta sana.

Il distacco si riferisce invece all’evitamento delle esperienze socioemotive, alla mancanza di relazioni interpersonali, alla difficoltà di dare/ricevere empatia (APA, 2013). I tratti legati a questa dimensione della personalità si manifestano in concomitanza con le convinzioni e i problemi legati alle maggiori tendenze ortoressiche nel gruppo HIGH-D, per cui l’atteggiamento di superiorità e l’insegnamento delle abitudini alimentari potrebbero portare al ritiro, all’isolamento e alla compromissione sociale.

Inoltre, entrambi i gruppi con alte tendenze ortoressiche hanno evidenziato livelli più elevati di “psicoticismo” che prevede pensieri incongruenti, bizzarri, eccentrici o insoliti e da disregolazione cognitiva e percettiva (APA, 2013). Come dimostrato anche nei disturbi alimentari, le persone con un’elevata tendenza ortoressica potrebbero presentare credenze bizzarre e insolite sull’alimentazione e sui cibi sani e distorsioni cognitive/pensieri disadattivi che potrebbero spiegare l’eccessiva fissazione sul mangiare sano.

In conclusione, lo studio dimostra che le persone con un’elevata tendenza ortoressica possono presentare abitudini alimentari disfunzionali, anche se non seguono alcuna dieta. Nell’insorgenza dell’ortoressia nervosa è fondamentale sottolineare il ruolo delle caratteristiche psicologiche; infatti, in linea con l’ipotesi dello studio presentato, i gruppi con maggiori tendenze ortoressiche hanno mostrato più caratteristiche psicopatologiche e tratti di personalità disadattivi rispetto al gruppo con minori tendenze ortoressiche.

 

Terapia di coppia e genitorialità in coppie LGBTQ+ – Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo Terapia di coppia e genitorialità in coppie LGBTQ+.

 

Quali sono le difficoltà di una coppia LGBTQ+? E com’è essere genitore LGBTQ+? Un bambinӘ che cresce con due genitori gay avrà problemi in futuro? Queste sono alcune delle domande e preoccupazioni che ci si pone quando si pensa alla famiglia LGBTQ+. Senza fronzoli ideologici o politici, in questo episodio del podcast sono analizzate le varie difficoltà che una famiglia LGBTQ+ vive a causa del minority stress, lo stress cronico che ogni persona LGBTQ+ esperisce a causa dell’interazione con episodi di discriminazione, o di vissuti interni come l’omonegatività interiorizzata.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologa, Educatrice Pedagogica, Collaboratrice presso il Centro Età Evolutiva delle Cliniche Italiane di Psicoterapia e Docente presso Sigmund Freud University Milan e dal Dott. Luca Daminato, Dottore in Psicologia, Dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Figli di Internet (2022) di M. Lancini e L. Cirillo – Recensione

“Figli di internet” è un libro divulgativo e stimolante pubblicato nel 2022 da Matteo Lancini e Loredana Cirillo, entrambi psicologi e psicoterapeuti, docenti e specialisti nel campo della psicologia dell’adolescente. 

 

 Viviamo in un’epoca in cui vita online e offline sembrano essersi intrecciate al punto da risultare quasi indistinguibili. Il ruolo di internet nello sviluppo dei giovani è ormai da tempo centrale sia in ambito clinico che in ambito di ricerca: come può internet influenzare la salute mentale dei ragazzi? In che modo si articola il rapporto tra i giovani e i nuovi media? E soprattutto, in che modo gli adulti possono aiutare i figli a sviluppare una relazione sana con questi mezzi? Sono queste le domande a cui Figli di Internet cerca di dare risposta.

Il volume si rivolge principalmente a genitori di ragazzi adolescenti e, in generale, a tutti quegli adulti che si interrogano su come gestire il rapporto tra i giovani, la rete, i social network e i device tecnologici. Non è un manuale di istruzioni per l’uso, poiché secondo gli autori non ci sono consigli adatti a tutti i casi: ogni adolescente ha una storia e delle caratteristiche particolari che lo rendono unico e irriducibile a precetti generalizzati. Dunque, ciò che tentano di fare gli autori è guidare gli adulti verso la riflessione, stimolando domande utili alla comprensione dell’adolescente con il quale si stanno relazionando, che tengano conto della complessità della realtà in cui viviamo e in cui vivono figli e studenti. Gli autori partono dal presupposto che, attraverso il comportamento che un giovane mette in atto, anche nel caso di Internet e strumenti tecnologici, si rivelino questioni complesse come gli ostacoli e i conflitti che sta affrontando in questa specifica fase evolutiva. Proprio con l’obiettivo di aiutarli in modo concreto e rappresentare per loro delle figure di riferimento, secondo gli autori è necessario imparare a capire quali significati comunicano le loro scelte, le loro ragioni e i loro comportamenti.

Figli di internet risponde soprattutto al bisogno dei genitori di ragazzi adolescenti che si stanno confrontando con i cambiamenti di questa fase di crescita, tentando di far comprendere cosa si cela dietro a determinati comportamenti dei loro figli e quali bisogni stanno cercando di soddisfare.

Nello stimolare la comprensione di questi aspetti della crescita, gli autori descrivono il contesto culturale attuale, con i relativi modelli predominanti e conseguenti implicazioni comportamentali da parte dei ragazzi, a lettori adulti in una realtà con caratteristiche diverse rispetto quella della loro gioventù. Nel libro, tale comprensione è guidata da domande a cui gli autori tentano di rispondere riguardo l’interpretazione e la gestione degli aspetti psicologici e affettivi coinvolti nel rapporto con i videogiochi, il sexting, i selfie, i social network, il cyberbullismo e tutti i vari rischi che si possono incontrare nel web.

 Tutte queste domande rappresentano i temi che vengono affrontati nei diversi capitoli del volume. Il manuale si apre contestualizzando l’adolescenza all’interno della cultura e della società odierne e delineandone le tappe evolutive. Viene dato ampio respiro alla tematica delle relazioni virtuali e del ruolo che i social network stanno avendo nel modificare il modo di entrare in relazione con l’Altro. Nello specifico, si sottolinea come internet e i social non rappresentino solo un pericolo, ma siano talvolta delle risorse fondamentali per permettere, ad esempio, a ragazzi più socialmente inibiti, di sperimentarsi all’interno di relazioni di varia natura. Un altro tema fondamentale che viene affrontato è quello della rappresentazione del corpo attraverso i selfie, che diventa uno strumento per esplorare la propria immagine, ma talvolta mina l’autostima. Viene poi preso in esame il fenomeno del sexting e di come questo sia percepito più sicuro e protettivo rispetto ai rapporti sessuali reali. Vengono illustrate le varie forme di bullismo e di cyberbullismo, con lo scopo di aiutare il lettore a comprendere chi sono i “veri” bulli e le vittime. Riguardo ai rischi del web viene approfondito il tema della challenge, talvolta pericolose e diventate un nuovo mezzo per assolvere al compito di mentalizzare il proprio corpo come mortale e delimitato nello spazio. Infine, viene affrontato il fenomeno del ritiro sociale, inteso come una reazione fobica nei confronti dei coetanei e del loro possibile giudizio. In questo caso, la rete viene descritta come “incubatrice psichica virtuale”, a indicarne la funzione difensiva che consente di ridurre l’angoscia e la solitudine provata. Rispetto a ciò, vengono forniti una serie di consigli rivolti ai genitori per capire come comportarsi quando il proprio figlio si ritira entro le mura della propria stanza.

Il principale punto di forza da sottolineare è il linguaggio chiaro e diretto utilizzato dagli autori, che permette di divulgare in maniera facilmente comprensibile anche temi clinicamente importanti e complessi come quello del narcisismo e del senso di inadeguatezza. I capitoli sono brevi e concisi, ricchi di esemplificazioni e disegni rappresentativi che hanno lo scopo di rendere più accessibili i contenuti e focalizzare l’attenzione del lettore su concetti chiave. Si aggiungono parti più “interattive” come questionari e schede di approfondimento affiancate a sezioni dedicate a strategie efficaci per i genitori per relazionarsi con il mondo dei social network in cui i loro figli sono immersi.

Figli di internet risulta quindi un valido aiuto per stimolare negli adulti la comprensione dei significati e dei bisogni che sottostanno ai comportamenti degli adolescenti di oggi, immersi in un contesto sociale in cui i modelli educativi e relazionali influenzano le loro scelte e le loro azioni. Anche rispetto all’utilizzo di Internet e dei device tecnologici, queste pagine offrono strumenti di riflessione che accompagnano il lettore verso una visione di tali fenomeni più completa e consapevole.

 

Dieta vegetariana e disturbi alimentari: un modo per controllare il peso?

La dieta vegetariana esclude l’uso di alimenti animali mentre la dieta vegana è un’espressione estrema del vegetarianismo, che esclude anche i derivati animali quali ad esempio latte, burro, uova, miele ecc (Appleby & Key, 2016). Queste diete potrebbero essere un modo socialmente accettabile per legittimare l’evitamento di un certo tipo di cibo: esiste dunque un’associazione tra diete vegetariane/vegane e disturbi alimentari?

 

La dieta vegetariana

 Negli ultimi anni, il numero di persone che optano per un’alimentazione vegetariana è sempre più alto; negli Stati Uniti è stato stimato che il 32% degli adolescenti tra gli 8 e i 18 anni dichiara di consumare almeno un pasto vegetariano alla settimana, mentre il 4% di questa fascia di età risulta seguire completamente una dieta vegetariana. Per quanto riguarda gli adulti (>18 anni) negli Stati Uniti, il 3,3% riferisce di essere vegetariano e la metà di loro segue un’alimentazione vegana. Le motivazioni maggiormente riferite in merito alla decisione di seguire diete vegetariane o vegane sono: iniziativa personale, motivi etici e/o fattori sociali (Segovia-Siapco et al., 2019).

Sebbene esista una correlazione tra dieta vegetariana e benefici per la salute, ad esempio per quanto riguarda la diminuzione del rischio di malattie cardiovascolari (Craig & Mangels, 2009; Key et al., 1999), l’eliminazione dei prodotti animali dalla dieta quotidiana potrebbe potenzialmente influenzare la salute, soprattutto quella degli adolescenti il cui sviluppo non è ancora completo. Inoltre esiste un’ampia controversia sugli effetti della dieta vegana sulla salute mentale (Beezhold et al., 2015). Il vegetarianismo è stato sempre più considerato come un modo per controllare il peso, in quanto la dieta si basa su una riduzione dei grassi animali (Bardone-Cone et al., 2012). I disturbi alimentari (anoressia nervosa, bulimia nervosa e disturbo alimentare non altrimenti specificato) sono solitamente associati a diete ristrette e sono più comunemente osservati negli adolescenti e nei giovani adulti.

Nei casi di disturbi alimentari, il disturbo stesso porta all’esclusione o alla restrizione di prodotti specifici. Secondo la letteratura disponibile, il 45-54% degli adolescenti e dei giovani adulti affetti da anoressia nervosa segue una qualche forma di dieta vegetariana, soprattutto le donne. Inoltre, in alcuni casi (circa il 6%), i pazienti hanno riferito di essere stati vegetariani diversi anni prima dell’insorgenza del disturbo alimentare (Bardone-Cone et al., 2012).

Alcuni autori hanno suggerito che, quando i soggetti con un disturbo alimentare (sospetto o diagnosticato) seguono una dieta vegetariana, gli operatori sanitari che li seguono dovrebbero preoccuparsi del fatto che questo comportamento possa essere usato come un modo socialmente accettabile per legittimare l’evitamento del cibo e di certi tipi in particolare (Gilbody et al., 1999).

Controversie nella relazione tra dieta vegetariana e disturbi alimentari

I risultati in letteratura sono controversi: una review di Sergentanis e colleghi (2020) ha analizzato l’associazione tra diversi tipi di dieta vegetariana e disturbi alimentari in adolescenti e giovani adulti.

I risultati di alcuni studi inclusi nella review hanno sottolineato la presenza di correlazioni tra il vegetarianismo e i disturbi alimentari, in particolare con l’anoressia nervosa. Soprattutto per gli adolescenti, il vegetarianismo e i comportamenti malsani ed estremi per il controllo del peso sembrano essere molto interconnessi. Le donne, inoltre, sembrano essere più inclini a tali comportamenti. Tuttavia, nella review sono presenti anche studi che non riportano alcuna correlazione tra disturbi alimentari e vegetarianismo.

La prevalenza delle ragioni alla base delle scelte vegetariane varia da uno studio all’altro. In media, la salute/nutrizione (37,5%) è la ragione più comune del vegetarianismo, seguita dal controllo del peso (18,8%) e dall’etica animale (14,6%).

 Per quanto riguarda le potenziali associazioni causali, molte persone con disturbi alimentari e una storia di vegetarianismo riferiscono che l’adozione di una dieta vegetariana ha seguito il loro disturbo. Sembra quindi che, in un paziente con disturbo alimentare e vegetarianismo, vi sia un’alta probabilità che il vegetarianismo possa rappresentare una modalità di restrizione delle abitudini alimentari, come parte della patologia. Non si può comunque escludere il perpetuarsi della patologia in un circolo vizioso in cui la restrizione genera restrizione. In ogni caso, è necessario che futuri studi prospettici facciano luce sull’aspetto della temporalità, corollario per la definizione di eventuali associazioni eziologiche.

Gli individui affetti da disturbi alimentari possono diventare vegetariani come mezzo per controllare il peso, come strategia di evitamento del cibo, ma anche per motivi non legati al peso. In particolare, visto lo stigma dei disturbi alimentari, nella pratica clinica può essere difficile identificare il motivo per cui si segue il vegetarianismo. Per un paziente con un disturbo alimentare, dichiarare di essere vegetariano per motivi legati ai diritti degli animali sembrerebbe socialmente più accettabile e meno scomodo che rivelare esplicitamente la volontà di perdita di peso come motivazione. In questo caso, la distorsione dell’accettabilità sociale indicherebbe che un paziente con disturbo alimentare darebbe apparentemente la priorità ai diritti/etici degli animali, mentre in realtà il comportamento potrebbe essere guidato dal desiderio di dimagrire.

Considerazioni conclusive

In conclusione, questa review evidenzia una potenziale associazione tra vegetarianismo e disturbi alimentari. Alla luce di questa associazione, emerge l’importanza di analizzare e valutare i comportamenti alimentari generali, per valutare la presenza di atteggiamenti estremi di controllo del peso e la cronicizzazione dei disturbi alimentari stessi. Il dibattito sulle diete vegetariane e sugli eventuali effetti sulla salute mentale rimane aperto, mentre la ricerca futura dovrebbe concentrarsi su studi prospettici per far luce sui modelli temporali della relazione tra vegetarianismo e disturbi alimentari.

 

Infortuni sul lavoro: un modello di prevenzione cognitivo-comportamentale applicata al mondo del lavoro

Le conoscenze del mondo industriale si possono integrare con le competenze di psicoterapia cognitivo-comportamentale, con l’obiettivo di ridurre gli infortuni sul lavoro e gli incidenti ambientali.

 

Gli infortuni sul lavoro

 In ambito lavorativo impiegatizio ed ancor più in quello operativo, gli incidenti e gli infortuni (o mancati) segnano giornalmente la vita di molti lavoratori e di molte aziende. Chi è legato alla Gestione del Personale e della Sicurezza, impegna numerose energie per la riduzione degli infortuni. È possibile farlo tramite una serie di interventi che hanno un aspetto psicologico di tipo cognitivo-comportamentale: la formazione, le azioni disciplinari, l’intervento di Sistemi di coinvolgimento, la premiazione, l’emulazione e così via in base ai budget economici, al tempo disponibile e all’interesse manifestato dai lavoratori.

Purtroppo e nonostante tutto, i lavoratori, come dimostrano le statistiche, spesso non assimilano il messaggio trasmesso durante la formazione e, come conseguenza, attuano dei comportamenti rischiosi che portano ad incidenti. È possibile proporre in azienda strumenti di gestione e valutazione finalizzati alla riduzione degli infortuni, degli incidenti, dei near miss, degli incidenti ambientali? Esistono strumenti utili per supportare sia le aziende che i lavoratori? È possibile integrare le conoscenze del mondo industriale con le competenze di psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, questo con l’obiettivo di ridurre gli infortuni e gli incidenti ambientali.

Questi strumenti si basano su un assunto facile da comprendere quanto difficile da raggiungere: il lavoratore deve “maturare cognitivamente”. Per meglio comprendere questo concetto va riportato l’esempio dell’adolescente che è statisticamente più propenso ad indossare slacciato il casco in motorino mentre, quando raggiunge un’età più matura lo porta allacciato. Questa modificazione del comportamento spesso non deriva ad esempio dal timore di punizioni, come una multa comminata dal vigile, ma da rinforzi e ricompense ricevute, da maggiore formazione effettuata negli anni, e anche da rimproveri ricevuti. Su questi fattori comportamentali si innesta la maturazione cognitiva che permette all’individuo di vedere la stessa situazione da un punto di vista differente. Quindi, la psicoterapia cognitivo-comportamentale, unita a strumenti di gestione della Sicurezza, conduce alla maturazione del lavoratore che, da quel momento, rispetta la Sicurezza per suo interesse personale.

Tuttavia, questo processo di maturazione è un problema complesso sia perché, nel mondo del lavoro, non si possono attendere anni per un risultato completo sia perché non si tratta con adolescenti, ma con lavoratori che hanno un’età tale per cui sono già maturati cognitivamente. Il che li può rendere più ragionevoli e disponibili al cambiamento, ma anche più rigidi nelle loro abitudini radicate. Per questo, infatti, nel mondo del lavoro si agisce con un insieme di strategie come ad esempio:

  • Contestazioni disciplinari e/o squadre di controllo: per meglio garantire il rispetto delle richieste aziendali in ambito Sicurezza ci sono sia lo strumento delle contestazioni disciplinari che il predisporre delle squadre di controllo che monitorino e verifichino i corretti comportamenti. Tuttavia, se spingiamo su controlli e contestazioni sappiamo che, quando il “Vigile” interiore si distrae, una parte del contesto trasgredisce, e sappiamo che le contestazioni effettuate inaspriscono l’atmosfera lavorativa. Inoltre nessun “Vigile”, benevolo o intransigente che sia, riesce ad essere sempre presente in tutti i punti dell’azienda contemporaneamente.
  • Premi: premiare i lavoratori (con denaro o altro) per rispettare la Sicurezza e l’Ambiente, sicuramente può portare risultati ma, spesso, come dimostrato da alcuni approcci, una volta interrotta l’applicazione della metodologia accade che spesso i lavoratori regrediscano parzialmente o totalmente verso il comportamento precedente, meno sicuro ed attento.
  • Formazione: in ambito lavorativo è effettuato un ammontare significativo di formazione Sicurezza e Ambiente, sia per obblighi di legge, che per desiderio delle aziende. Tuttavia, spesso sono gli stessi lavoratori che non l’apprezzano o non la metabolizzano studiandola accuratamente. Infatti, molte volte, non leggono attentamente o con eccessivo interesse il materiale didattico e tendono a tralasciare passaggi anche importanti.

 Quindi, chi opera in ambito Sicurezza ed Ambiente, spesso, si interroga su quale sia il miglior modo (anche riguardo a tempistiche e costi) che possa portare alla riduzione degli infortuni o mancati infortuni o incidenti ambientali. Una modalità adeguata potrebbe essere applicare uno strumento condiviso e volontario dove partecipano lavoratori, vertici aziendali, RSU (rappresentanti sindacali dei lavoratori), RLS (rappresentanti della sicurezza dei lavoratori) e Sindacati esterni. Il programma è basato su una sequenza standardizzata e semplificata di azioni che hanno l’obiettivo finale di far migliorare la Sicurezza e l’Ambiente incrementando lo sviluppo cognitivo dei lavoratori.

Alcuni passaggi per ridurre gli infortuni sul lavoro

Alcuni dei passaggi possono essere i seguenti:

  • Questionari: utilizzati per avere a disposizione la fotografia dello stato iniziale, monitorare l’andamento, stratificare e gestire i sotto-gruppi, ragionare su azioni da implementare per “dirigere” correttamente l’evoluzione.
  • Stratificare i gruppi in sotto-gruppi: questo, da un lato, permette di identificare la corretta allocazione dei lavoratori nei sotto-gruppi e dall’altro favorisce l’intervento mirato per la reale tipologia di necessità. Trattare tutti i lavoratori nello stesso modo sarebbe un dispendio di energie, costi, tempi e non porta ai reali risultati voluti. È come utilizzare un solo farmaco per decine di patologie differenti senza nemmeno comprendere e stratificare le singole patologie.
  • Impostazione “emotivamente visual” tramite una sequenza a spirale stringente che porta da un lato a ragionare sulle attività che vengono effettuate e dall’altro a fornire al contesto lavorativo un metodo di emulazione tra colleghi o di vincolo emotivo. Per questo non è stata prevista nel programma nemmeno la presenza o necessità di squadre di verifica in quanto sono gli stessi lavoratori inseriti nel progetto che vengono immersi nel processo di cambiamento e si auto-sostengono ed auto-verificano. Per meglio rendere l’idea basti pensare, ad esempio, al fumatore che entra in un locale (ovviamente non fumatori) dove all’interno vi siano tutti fumatori che, naturalmente, stanno rispettando il divieto. Se questo fumatore entra fumando sarà una parte degli stessi fumatori presenti a farglielo notare, senza necessità che intervenga un controllore o una sanzione. Il Sistema predisposto favorisce un insieme di azioni similari.
  • Cartellino al petto: ogni lavoratore che aderisce volontariamente si mette un cartellino al petto. Una specie di segnale, un semaforo che mostra a tutti la propria situazione relativamente alla Sicurezza ed Ambiente e crea una catena di azioni ed atteggiamenti consci ed inconsci finalizzati al coinvolgimento e alla canalizzazione delle informazioni. Questo consente ad ognuno di meglio comprendere il coinvolgimento nella Sicurezza ed Ambiente che ha il collega che gli lavora vicino. Se un collega che lavora al nostro fianco mostra che deliberatamente non lavora in Sicurezza noi ci preoccupiamo non solo perché possa lui avere un incidente lavorativo, quanto per il fatto che possa far male a noi e, a quel punto, ci sentiamo personalmente ed emotivamente ingaggiati nel rischio.
  • Formazione e addestramento: il Sistema supporta la formazione e l’addestramento volontari ma secondo un metodo che tende a coinvolgere i lavoratori tentando di farli interessare maggiormente. Una delle chiavi di lettura è far loro comprendere che possa anche essere utile nella vita personale, come ad esempio l’utilizzo di un cutter è similare al metodo con cui si taglia una pagnotta di pane. Entrambe le casistiche potrebbero portare, ad esempio, a ferirsi qualora il taglio venga effettuato dall’esterno verso il petto ed il coltello o il cutter sfuggisse dal controllo nell’azione del tagliare.
  • Minimalismo: lo Strumento è stato volontariamente impostato per essere poco dispendioso sia in termini economici che di ore di investimento. Questo perché, nella realtà dei fatti, diverse Aziende non desiderano investire troppo tempo, troppi costi, troppe energie, troppe persone, troppi consulenti. Le varie fasi sono state, quindi, impostate eliminando passaggi utili ma non indispensabili e concentrandosi solo su quelli indispensabili, questo per raggiungere l’unico obiettivo veramente indispensabile: far maturare cognitivamente lavoratori. Inoltre rende lo Strumento applicabile anche in gruppi lavorativi (sia industriali che non) di soli 3-5 lavoratori.

Questi programmi, con la metodologia a partecipazione volontaria, ma cognitivamente incanalata, permettono un incremento della cultura, della formazione, dell’interesse e permettono che le persone, man mano progredendo e comprendendo, facilitino quel balzo dell’adolescente che matura per il proprio interesse. Essi metabolizzeranno meglio le dinamiche del rischio e porranno maggiore attenzione per la propria salute (come l’adolescente che, da un certo punto della sua vita, allaccia il casco “semplicemente” perché è maturato cognitivamente e vede la stessa cosa da un punto di vista differente).

Le resistenze negli interventi per ridurre gli infortuni sul lavoro

Lo Strumento ha un ciclo di implementazione dell’intera sequenza di 4-6 mesi, poi ricomincia da capo come una canzone o una poesia e, ogni volta, più persone migreranno tra i vari sotto-gruppi fino a maturare cognitivamente e, ogni volta, saranno sempre più evidenti i resistenti indisciplinati o disinteressati che, per qualsiasi loro motivo, non aderiranno al Sistema. Ed è su questi lavoratori che vanno effettuati interventi one-to one per comprendere le reali motivazioni che possono essere le più disparate come, ad esempio, non comprendere bene l’italiano, non essere adeguatamente interessati o motivati, sentirsi già sicuri, pensare che si stiano chiedendo sempre le stesse cose. Infatti, solo comprendendo le reali motivazioni di queste persone “scremate” dallo Strumento potremo intervenire per mitigare o gestire quel reale tipo di comportamento che, a quel punto, è chiaro ed identificato. E, solo così, anche questi “resistenti” potranno essere supportati in maniera pertinente per un percorso di presa di coscienza e maturazione cognitiva. Ogni volta che lo Strumento riparte da zero è come se venisse inserito un setaccio a grana più fina che supporta “spintaneamente” (la i in spontaneamente è inserita di proposito) ulteriori lavoratori alla maturazione cognitiva.

La psicologia Cognitivo-Comportamentale supporta ogni step del processo evolutivo dello Strumento sperimentato con un percorso di presa di coscienza, maturazione individuale e supporto canalizzato. Ma dove apporta il massimo supporto è nell’azione one-to-one di quelli che permangono nel sotto-gruppo dei resistenti-ostili perché sono loro che hanno il massimo benefico derivante da percorsi strutturati ed efficaci quanto brevi, economici e risolutivi esattamente come serve al mondo industriale. In tal modo la psicologia Cognitivo-Comportamentale esce dal suo “canonico” ambito per aiutare concretamente i lavoratori e le aziende al fine di ridurre infortuni, near miss, incidenti ambientali, perseguendo anche un obiettivo etico, sociale, morale.

Ognuno di noi deve sempre utilizzare il massimo delle energie e degli strumenti a disposizione per ridurre giornalmente gli infortuni e gli incidenti ambientali e questi nuovi studi con base cognitivo-comportamentale, ma legati al mondo industriale in campo, sembrano andare verso una direzione di interesse sia per le aziende che per i lavoratori.

 

Articolo a cura di Fabio Falino, Plant Director – HSE Safety 361°.  Per informazioni e approfondimenti sui programmi: [email protected]

 

Privacy online: internet non dimentica?

La privacy indica la vita personale, privata, dell’individuo o della famiglia, costituisce un diritto e va perciò rispettata e tutelata; questa definizione vale anche per la privacy online ma con una piccola eccezione, dopo aver condiviso dei propri dati in rete non sono più in nostro possesso.

 

La privacy online è un tema delicato e attuale che, nonostante abbia acquisito molta rilevanza per i vari scandali che si sono susseguiti in questi anni (e.g., Cambridge Analytica), non ha prodotto nessuna effettiva modifica nei comportamenti degli utenti online. La poca attenzione data a una tematica così sensibile può provocare una serie di conseguenze negative dirette al futuro utilizzo di internet per ognuno di noi. A questo punto è importante chiedersi perché le persone tendono a dare poca importanza a un problema che le interessa direttamente?

Cosa si intende con privacy e con privacy online?

La privacy, secondo la Treccani (2022), indica la vita personale, privata, dell’individuo o della famiglia, in quanto costituisce un diritto e va perciò rispettata e tutelata. È possibile traslare questa definizione anche per la privacy online ma con una piccola eccezione, dopo aver condiviso dei propri dati in rete non sono più in nostro possesso. La tutela, il rispetto e il diritto vengono totalmente violati, ma con il nostro consenso.

Infatti, ogni qual volta accediamo su un sito o ci registriamo su una piattaforma ci compaiono delle scritte (e.g., “accetta le condizioni” o “accetta termini e condizioni” oppure “ accetta e chiudi”) che ci consentono di scegliere se accettare e continuare il nostro “navigare” oppure fermarci e leggere l’informativa sulla privacy. Chiaramente nessuno ha il tempo e la voglia di leggere articoli, commi e condizioni quindi tutti noi decidiamo di accettare e andare avanti.

Ogni volta che accettiamo non facciamo altro che dare il nostro consenso ai siti per i trattamenti dei nostri dati. Questi dati possono essere utilizzati dai siti che visitiamo per personalizzare la nostra esperienza (cookie di prime parti) oppure possono essere venduti e usati da altri siti (cookie di terze parti). Dopo lo scandalo di “Cambridge Analytica” ci sono stati dei cambiamenti in favore di una maggiore tutela dei dati degli utenti, ma si è ancora molto lontani dalla definizione citata inizialmente.

Navigare e visitare qualche sito non è l’unico modo di fornire dati. Ogni volta che condividiamo una foto, un video, un articolo o ci registriamo per ottenere la “carta fedeltà” non stiamo facendo altro che dare il consenso per l’utilizzo dei nostri dati a chi fornisce il servizio di cui vogliamo usufruire. Tutte queste informazioni, una volta condivise online, non ci appartengono più. Infatti, nonostante il cosiddetto diritto all’oblio (European Commission, 2014) la cancellazione dei dati non implica la completa eliminazione delle nostre informazioni da internet.

Per questo, prima di condividere qualcosa online, bisogna ricordare che internet non è altro che una rete fatta di una fitta unione di collegamenti e nodi che distribuiscono i dati in tutto il mondo online. Quindi anche se l’informazione non è più presente in una specifica sezione di internet, non vuol dire che non sia reperibile (in forma disgregata) in altre zone online.

Se l’uso di internet è così pericoloso perché, ancora oggi, tendiamo a prendere decisioni che vanno contro la nostra stessa sicurezza?

La risposta a questa domanda deriva dagli studi della psicologia e dell’economia decisionale.

Kahneman (2001) durante i suoi studi con Tversky e Smith ha descritto il nostro processo decisionale come diviso in due sistemi. Il sistema 1 (veloce e intuitivo) che ci consente di elaborare velocemente le informazioni, con un minimo consumo delle risorse cognitive, ma che non ci assicura sempre il miglior risultato e il sistema 2 (analitico) che è più lento, consuma molte più risorse, ma è completo nell’elaborazione. I due sistemi collaborano insieme per darci la possibilità di prendere le migliori decisioni ma non va sempre tutto nel verso giusto. Infatti, si possono presentare degli errori che vanno a precludere la correttezza delle decisioni.

In realtà, il processo decisionale è molto più complesso di come è stato descritto precedentemente, ma ciò che conta è capire che non siamo sempre analitici e razionali (sistema 2) durante la nostra quotidianità e tendiamo a prendere delle decisioni poco accurate senza tenere in considerazione tutte le informazioni necessarie (sistema 1). Per questo, ogni qual volta che ci viene chiesto online di accettare e chiudere o leggere e capire, preferiamo la prima opzione, perché è meno onerosa da un punto di vista di risorse cognitive e siamo maggiormente predisposti ad assecondare il nostro bisogno di navigare con un semplice tocco rispetto al dover posticipare il piacere per leggere e comprendere.

Un’ulteriore spiegazione alla nostra noncuranza deriva dallo studio di Tam et al (2009) che propone l’idea del compromesso di convenienza-sicurezza. Questo fenomeno descrive la propensione delle persone a preferire la convenienza alla sicurezza, in gran parte delle situazioni (e.g., preferiamo avere un login veloce rispetto a mettere tutti i dati necessari ogni volta che effettuiamo un accesso).

Chiaramente non siamo sempre attratti dalla convenienza, molto dipende dal grado di minaccia percepito dall’utente come già evidenziato da Rogers (1975) nella teoria della motivazione alla protezione. In realtà, conoscere il grado della minaccia è una condizione necessaria ma non sufficiente per reagire al pericolo. Infatti, a partire dallo studio di Johnston & Warkentin (2010) si è compreso come per l’applicazione di una buona sicurezza online è necessario avere un buon livello di autoefficacia (Bandura, 1997), cioè bisogna percepirsi come competenti e capaci nel gestire la privacy così da far fronte a qualsiasi minaccia si presenti durante la nostra navigazione.

Esiste una soluzione alla nostra difficoltà nel gestire la privacy online?

La soluzione unica e funzionale per gestire in maniera ottimale la privacy online non esiste, ma avendo visto alcune delle cause di questa nostra difficoltà è possibile intervenire durante la nostra attività quotidiana online. La soluzione, in questi casi, è la consapevolezza di ciò che si sta facendo, che può essere alimentata praticando e riconoscendo i propri errori. Infine, è vero che internet non dimentica, ma noi possiamo imparare a non fare gli stessi errori e cambiare il nostro modo di usare questo incredibile strumento che molto spesso viene sottovalutato diventando il nostro principale nemico. Infatti:

Il problema non è la tecnologia in sé, ma l’uso che se ne fa. Ogni cosa comporta dei rischi, l’importante è essere consapevoli e valutare se il prezzo che paghiamo (meno privacy) è adeguato a quanto riceviamo in cambio (Nasetti, 2021).

 

Prima della schizofrenia. La vulnerabilità schizofrenica in età evolutiva – Recensione

“Prima della schizofrenia. La vulnerabilità schizofrenica in età evolutiva: esperienze, fenotipi, traiettorie” è un libro di Michele Poletti edito da Fioriti Editore a dicembre 2021. 

 

L’autore è dirigente psicologo presso la AUSL di Reggio Emilia, è psicoterapeuta specialista in neuropsicologia dello sviluppo e svolge attività clinica e di ricerca.

Il libro di Poletti è un testo per gli specialisti che si occupa di un tema importante in ambito psichiatrico, vuole colmare un vuoto presente nella lettura del settore concentrandosi sull’evoluzione della schizofrenia.

Poletti conduce il lettore in un viaggio che parte dai fattori di rischio genetici ed ambientali presenti nell’infanzia e prosegue cercando le possibili correlazioni con il rischio schizofrenico che si manifesta in adolescenza. L’autore segue quindi un’ottica prospettica considerando sia gli aspetti fenomenologici della schizofrenia sia il vissuto dei giovani pazienti. Si tratta di un’opera corposa, che ha richiesto un lungo lavoro di stesura.

La schizofrenia è un disturbo caratterizzato, secondo i criteri diagnostici del DSM-5, dalla presenza, per un periodo di tempo significativo nell’ambito di un mese, di almeno due tra i seguenti sintomi: deliriallucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento grossolanamente organizzato o catatonico e sintomi negativi come, ad esempio, la riduzione dell’espressione delle emozioni. L’esordio può essere difficile da stabilire poiché la scarsa conoscenza dei sintomi può ritardare la diagnosi. L’esordio può avvenire in modo improvviso od essere preceduto da sintomi prodromici. La schizofrenia generalmente si manifesta in età adolescenziale, può manifestarsi anche in età più avanzata, ma i segnali iniziali possono essere presenti già dall’infanzia; tuttavia, l’esordio in età infantile è raro. La prognosi a lungo termine è variabile e fortemente condizionata dall’aderenza al trattamento farmacologico.

Come dichiarato da Poletti, durante un’intervista rilasciata al Gazzetino Santilariese:

sono disponibili numerose statistiche sul fenomeno, che è presente tanto nei paesi e nelle aree più industrializzate quanto nei paesi in via di sviluppo e nelle zone rurali, senza distinzione di classe sociale. Si stima che nella popolazione generale tra lo 0,4 e lo 0,7% presenti questo disturbo: sembra un numero basso, ma significa 4-7 individui ogni 1000, ovvero tra le 2000 e le 3600 persone nella sola provincia di Reggio Emilia. Se poi si allarga il dato a chi presenta una vulnerabilità ma non arriva alla forma del disturbo manifesta, il dato aumenta notevolmente.

Poletti distingue tra la schizofrenia che esordisce in età adulta, in adolescenza e quella che si manifesta in età infantile. La schizofrenia ad esordio adolescenziale presenta sintomi molto simili alla schizofrenia con esordio in età adulta, tuttavia la sua evoluzione clinica è più complessa. Quella ad esordio infantile ha caratteristiche peculiari che la rendono differente dalle altre forme. L’autore evidenzia come nella schizofrenia infantile i fattori genetici abbiano un peso rilevante, poiché in questi casi le alterazioni genetiche sono di maggiore gravità rispetto a quelle riscontrate nelle forme di schizofrenia ad esordio tardivo.

Anche i sintomi quali le allucinazioni, la disorganizzazione del pensiero ed i disturbi del comportamento si differenziano in funzione del periodo d’esordio della malattia. In particolare la disorganizzazione del pensiero, nella schizofrenia ad esordio precoce, non può essere considerata come nella schizofrenia che si manifesta in età adulta, dove il sintomo rappresenta un deterioramento di funzioni emotive, affettive e comportamentali presenti precedentemente. Al contrario nell’esordio precoce potrebbe manifestarsi con caratteristiche molto simili ai disturbi dello spettro autistico anche se, generalmente, l’autismo ha un esordio ancor più precoce ed alla disorganizzazione del pensiero si associano le difficoltà comunicative e le stereotipie.

L’opera di Poletti sistematizza molte delle conoscenze sulla schizofrenia con l’obiettivo di comprendere cosa succede in quei bambini e quegli adolescenti che da adulti presentano il rischio di sviluppare la schizofrenia, concentrandosi sui segnali importanti da riconoscere.

 

Le possibili difficoltà nella coppia quando uno dei partner ha un disturbo dello spettro autistico

Molte persone con un disturbo dello spettro autistico, avendo problemi di comunicazione e di comprensione dei segnali sociali, spesso hanno difficoltà nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni.

 

Le relazioni di coppia

Trovare un partner e avere una relazione romantica è considerato da molti uno dei principali obiettivi della vita. Le relazioni romaniche sono infatti esperienze importanti e possono fornire sicurezza, senso di appartenenza e influiscono positivamente sulla salute e sul benessere mentale e fisico, riducendo la mortalità, il rischio di depressione, e di sviluppare malattie croniche e malattie mentali (Karney 2014). Inoltre le relazioni forniscono sostegno sociale, intimità fisica, compagnia e hanno un impatto positivo sull’autostima e sulla fiducia in se stessi (Rhoades et al. 2011). Sostenere una relazione solida a lungo termine, può però essere impegnativo; alcuni degli indicatori che rendono una relazione di qualità sono la soddisfazione e la stabilità. Quest’ultima si riferisce alla sicurezza che ciascun individuo percepisce nella relazione, mentre la soddisfazione fa riferimento a quanto un partner è soddisfatto (Shafer et al. 2014). La comunicazione e la capacità di risolvere i conflitti sono quindi fondamentali per avviare e mantenere le relazioni così come la capacità di dimostrare empatia: entrambi i partner devono essere solidali e comprensivi delle mutevoli esigenze dell’altro.

Disturbo dello spettro autistico e relazioni di coppia

Molte persone con un disturbo dello spettro autistico, avendo problemi di comunicazione e di comprensione dei segnali sociali, spesso hanno difficoltà nello sviluppo e nel mantenimento delle relazioni che cominciano durante l’infanzia e persistono durante l’adolescenza e l’età adulta, momenti cruciali per la formazione di relazioni a lungo termine (APA, 2013). La maggior parte delle persone con autismo riferisce infatti di avere difficoltà a iniziare e sviluppare relazioni intime, tanto che per alcuni di loro le difficoltà nella comunicazione e nell’interpretazione dei segnali sociali possono tradursi in interazioni sociali limitate e minori opportunità di sviluppare relazioni sentimentali (Cunningham et al. 2016). Soltanto il 14% di loro, infatti, è sposato o ha una relazione a lungo termine, sebbene numerose ricerche abbiano dimostrato che desiderano impegnarsi sentimentalmente (Strunz et al. 2017). Talvolta accade che persone con diagnosi dello spettro autistico abbiano relazioni con partner che invece non presentano nessuna diagnosi; tali relazioni presentano diverse sfide a cui entrambi i membri della coppia devono adattarsi (Strunz et al. 2017). Le principali sono le difficoltà di comunicazione, evidenziate come una tensione centrale: i soggetti con autismo adottano uno stile di comunicazione più diretto, letterale e logico, che talvolta è mal interpretato. Alcuni studi hanno riportato che molte persone si aspettano che il partner con un disturbo dello spettro autistico cambi il modo di comunicare con il progredire della relazione, cosa che quest’ultimo spesso ritiene di non essere in grado di fare (Hode 2014). Una ricerca che ha esplorato la soddisfazione delle donne in una relazione con un partner con sindrome di Asperger, ad esempio, ha mostrato che le donne hanno sperimentato un declino nella loro salute e nel loro benessere generale, principalmente a causa dell’incapacità del compagno di comunicare in modo efficace, di fornire supporto emotivo e di impegnarsi in attività condivise (Bostock-Ling et al. 2012). Un ulteriore studio ha sottolineato l’importanza che entrambi i partner imparino ad adattarsi alle differenze dell’altro ma questo richiede delle competenze e delle conoscenze che non tutti hanno; molti infatti hanno bisogno di aiuto per affrontare queste sfide nella loro relazione (Lewis 2017).

Poiché non esistono ricerche che abbiano esplorato le relazioni sentimentali dal punto di vista del partner con diagnosi dello spettro autistico e i bisogni di ciascun membro della coppia, uno studio di Smith e colleghi del 2021 ha tentato di esplorare le sfide e i facilitatori sperimentati sia dai partner neurotipici (NT), sia da quelli autistici (neurodiversità; ND) in una relazione intima (relazione ND). Un ulteriore obiettivo era quello di esplorare le esperienze delle coppie ND in merito ai servizi di supporto alla relazione a cui hanno avuto accesso durante quest’ultima. Gli autori hanno quindi utilizzato un approccio fenomenologico per intervistare tredici persone che avevano una relazione di questo tipo. I risultati suggeriscono che queste relazioni iniziano e si sviluppano in tre fasi: luna di miele, inizio e fine, come proposto da Reese-Weber nel modello teorico di sviluppo delle relazioni (2015).

Le difficoltà nelle relazioni di coppia quando è presente un disturbo dello spettro autistico

Le principali sfide all’interno delle coppie sono risultate le difficoltà soprattutto iniziali di comunicazione tra i partner, sebbene con il progredire della relazione le coppie abbiano trovato modi più efficaci per comunicare. Inoltre sono emerse alcune caratteristiche idiosincratiche come la sensibilità alla luce ai suoni o al tatto che creavano problemi nella relazione. Un’ulteriore sfida è stata la grande differenza nell’interpretazione e nell’espressione delle emozioni. I facilitatori sono risultati invece il concentrarsi su aspetti positivi della relazione acquisendo comprensione reciproca e supportando l’altro nei contesti sociali e il ricevere una diagnosi, sebbene per i partecipanti dello studio sia avvenuto tardivamente: questa ha fornito a entrambi i partner una spiegazione per le caratteristiche idiosincratiche che erano sempre presenti nella relazione e nelle situazioni sociali. Infine è stato chiesto ai soggetti di raccontare le loro esperienze con i professionisti della salute e con i servizi di supporto alle relazioni a cui hanno avuto accesso in merito alle sfide affrontate nelle loro relazioni; tutte le coppie hanno riferito di aver cercato un supporto relazionale o gruppi di sostegno sia a livello locale che online, con scarso successo. In conclusione sembra che le relazioni ND si sviluppino nelle medesime fasi delle altre relazioni, ma includono una serie di sfide comunicative e sociali uniche in tutte queste fasi. Sono importanti quindi la comprensione e l’adattamento alle differenze di comunicazione e l’utilizzo dei punti di forza dell’altro. Infine i risultati mostrano una mancanza di supporto per le coppie ND e la necessità che gli operatori sanitari siano istruiti sulle difficoltà che possono emergere in queste relazioni, al fine di comprendere come sostenere al meglio entrambi i partner.

 

Disputing dei pensieri disfunzionali legati alla morte – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel sesto episodio si parla di disputing dei pensieri disfunzionali legati alla morte con il Dott. Sarracino.

 

 

Dove ascoltare il sesto episodio:

Mindfulness per i disturbi del comportamento (2022) – Recensione

“Mindfulness per i disturbi del comportamento” è un manuale che guida il clinico nella conduzione di un percorso terapeutico di gruppo basato sulla mindfulness, per i genitori e i loro figli in età evolutiva con difficoltà comportamentali.

 

 Il libro “Mindfulness per i disturbi del comportamento – Modelli di intervento e attività per bambini e genitori”, pubblicato nel 2022 ed edito da Erickson, è stato scritto da P. Muratori, didatta presso la Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale e la Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva, R. Ciacchini, psicologa e ricercatrice che si occupa di applicazione e verifica dell’efficacia degli interventi mindfulness-based in ambito clinico, C. Convesano e S. Villani, psicologi, psicoterapeuti e insegnanti di Mindfulness.

Qual è l’obiettivo del libro e a chi è rivolto

Il manuale illustra un percorso terapeutico basato sulla mindfulness in un setting gruppale per bambini con difficoltà di comportamento e per i loro genitori. Le problematiche comportamentali contemplate dagli autori riguardano la sintomatologia da deficit di attenzione e iperattività (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder [ADHD]), da disturbo oppositivo-provocatorio (DOP), da disturbo della condotta, oppure un’associazione tra i disturbi del controllo degli impulsi (DCI).

Il libro è stato pensato per essere usato da professionisti operanti nell’area della salute mentale, nello specifico per coloro che si occupano dei disturbi del comportamento. L’intento è quello di indicare al clinico un modo per supportare i bambini e i loro genitori, che possono trovarsi in difficoltà nella quotidianità a causa della disregolazione emotiva e comportamentale, e delle interazioni sociali dei propri figli. Secondo gli autori, un approccio basato sulla mindfulness per i genitori può essere utile non per ottenere un cambiamento del comportamento, bensì per fornire uno stimolo per osservare in modo nuovo e creativo le caratteristiche del proprio bambino, fronteggiare gli errori che inevitabilmente si compiono essendo genitori, e imparare a essere compassionevoli verso se stessi. Per i bambini, invece, può essere utile per conoscere un modo nuovo di approcciarsi alle proprie irrequietezze, alle emozioni intense, alle distrazioni e all’impulso incontenibile di reagire immediatamente a queste spinte.

Gli autori consigliano di utilizzare il manuale come spunto sulla base del quale creare un intervento mindfulness-based ad hoc in base alle esigenze del gruppo e del contesto clinico in cui opera il professionista che vuole applicare il programma. Tuttavia, la durata ideale di questi percorsi non dovrebbe essere inferiore ai due mesi. Inoltre, alcune attività descritte nel libro possono essere integrate in percorsi di terapia cognitivo comportamentale standard, sia di gruppo che individuale, oppure in percorsi di parent training standard.

Rispetto ai requisiti dell’insegnante, gli autori sottolineano l’importanza di una formazione specifica e pratica quotidiana della mindfulness come parte integrante della propria vita, per una maggiore efficacia del percorso.

Perché la Mindfulness?

È stato osservato che l’esercizio della mindfulness e delle pratiche meditative danno esito a cambiamenti significativi e positivi a carico del Sistema Nervoso Centrale e del Sistema Nervoso Autonomo in termini strutturali e funzionali, sia a breve sia a lungo termine. Tali modificazioni cerebrali sostengono il potenziamento di uno specifico set di funzioni, come il controllo attentivo, la regolazione emotiva e la consapevolezza del presente. Infatti, i programmi d’intervento basati sulla mindfulness contribuiscono allo sviluppo individuale della consapevolezza del momento presente e forniscono le fondamenta per lo sviluppo di un’osservazione non giudicante, diminuendo così i comportamenti attuati in modo automatico.

 Perciò, l’obiettivo del percorso proposto dagli autori è quello di favorire una nuova modalità attraverso la quale poter osservare e vivere nel presente le proprie difficoltà, senza sovraccaricarle di previsioni negative o di senso di inefficacia che proviene dal passato. Inoltre, incrementando l’accettazione delle proprie difficoltà e acquisendo nuove strategie di regolazione emotiva e comportamentale, il bambino potrà allenare la capacità di fermarsi prima di agire, per riflettere ed esplorare i propri pensieri, emozioni e sensazioni e scegliere con consapevolezza ed empatia l’azione migliore da mettere in atto. In generale, gli effetti principali che la mindfulness produce in chi la pratica, siano essi bambini o adulti, si concretizzano in una migliore qualità di vita, un incremento della capacità attentiva e una riduzione dello stress.

Com’è organizzato il libro

Il manuale consta di due capitoli teorici introduttivi, cui segue la descrizione dettagliata dei due percorsi d’intervento proposti (per i genitori e il loro bambino). Infine, viene inserita una sezione di appendice in cui sono contenute schede di approfondimento sulle tecniche yoga e un prontuario sulla meditazione.

Nel primo capitolo vengono descritti i profili e il funzionamento dei bambini con fragilità comportamentali, unitamente alle cause e alle sfide evolutive che queste comportano, oltre a cercare di delineare come i deficit prodotti dalle caratteristiche di tali disturbi del comportamento possono essere compensati attraverso le attività proposte.

Il secondo capitolo introduce la pratica della mindfulness e stabilisce che i protocolli di mindfulness pensati per i bambini hanno il fine di incrementare in loro le capacità di controllo e regolazione delle emozioni, nonché le capacità attentive. Contemporaneamente, attraverso protocolli ad hoc per i genitori, la pratica della mindfulness esercita un’influenza indiretta, poiché li aiuta a ridurre lo stress generato dalle difficoltà dei loro figli e insegna delle tecniche definite come mindful parenting.

Nella sezione dei due percorsi d’intervento gruppale, vengono illustrate tutte le attività da proporre durante i dodici incontri, chiamati “classi”, del percorso per i bambini e gli otto incontri del percorso per i genitori. Gli autori spiegano che, sebbene per tradizione sia stato usato il termine “classe”, che riflette l’intenzione di apprendere nuove modalità di percezione di se stessi ogni volta, con i bambini è consigliato utilizzare il termine “incontri”, per evitare di richiamare il concetto di scuola fatto di obblighi e giudizi. Il motivo per il quale il percorso per i bambini presenta più incontri rispetto a quello per i genitori consiste nel proporre un maggior numero di esempi di attività da fare insieme ai bambini, in quanto gli autori ritengono che la varietà sia un elemento importante da considerare quando si vuole avvicinare il bambino alla pratica della consapevolezza.

Tutti gli incontri sono dettagliatamente descritti e corredati da consigli e linee guida per il clinico, oltre alle schede che guidano alla pratica meditativa presentata nello specifico incontro e letture per bambini e genitori. Ad ogni classe vengono associate anche “assegnazioni pratiche a casa”, ovvero attività da svolgere in una dimensione quotidiana, per rinforzare le nuove consapevolezze e il nuovo atteggiamento che sta maturando.

Nello specifico, il percorso per i bambini comprende pratiche di meditazione e yoga, i cui obiettivi sono favorire uno stato di calma della mente e del corpo, l’acquisizione di un atteggiamento più consapevole del proprio mondo emotivo, dei meccanismi di autoregolazione emotiva, e degli effetti dello stress sulla qualità del sonno e della vita.

Invece, il percorso per i genitori si configura come tempo per il genitore da dedicare alla cura di sé e alla conoscenza del proprio funzionamento. Attraverso la proposta di pratiche di mindfulness e semplici esercizi yoga, l’obiettivo è quello di aiutare il genitore ad acquisire un atteggiamento più consapevole dei propri stati emotivi, dei meccanismi di autoregolazione emotiva e del funzionamento del sistema di attivazione dello stress. Si genera così una consapevolezza in grado di rompere schemi abituali e ormai automatici di risposta che permettono di vivere in modo nuovo ogni relazione, inclusa quella con il figlio. Coltivando la sensazione di essere connessi con il proprio bambino con uno sguardo presente e non giudicante, ci si apre a cambiamenti sostanziali che nutrono il processo di “genitorialità consapevole”, caratterizzato da consapevolezza, accettazione e compassione verso sé stessi.

A completare il volume vi è l’Appendice, in cui sono allegate schede sulle tecniche yoga e su come questa disciplina, attraverso esercizi e sequenze volti alla centratura mente-corpo, possa essere d’aiuto nel tentativo di ridurre lo stress e l’affaticamento cognitivo. Viene inoltre proposto un Prontuario per la meditazione, indirizzato all’operatore, con la spiegazione e le indicazioni delle tecniche meditative da presentare nel percorso per i genitori.

In conclusione, “Mindfulness per i disturbi del comportamento – Modelli di intervento e attività per bambini e genitori” si rivela essere uno strumento utile e versatile per il clinico che si occupa della gestione di bambini con disturbi comportamentali e i suoi genitori. Un approccio di tipo mindful può mostrare nuovi aspetti di sè stessi e delle problematiche stesse. Gli autori citano Emmanuel Carrère che a proposito del progetto basato sulla meditazione afferma che «[…] somiglia a un trekking, che a sua volta assomiglia alla vita, ci sono tappe, paesaggi che cambiano a mano a mano che si sale, c’è il sole, c’è la pioggia, ci sono giorni sì e giorni no… siamo tutti mutevoli, il mondo è mutevole, l’unica cosa che non muterà mai è il fatto che tutto muta in continuazione».

 

Sigarette e disturbi mentali: un legame pericoloso

Secondo i dati epidemiologici, alcune patologie si associano frequentemente ai disturbi mentali, tra queste l’obesità, l’osteoporosi e il tabagismo.

 

 Sono stati condotti diversi studi epidemiologici riguardo all’abitudine del fumo tra i pazienti psichiatrici (Emerson e Turnbull, 2005). Per quel che concerne l’abitudine al fumo e il tabagismo le ricerche rivelano che la percentuale di fumatori nelle patologie psichiatriche è alta, in particolare per gli individui psicotici e quelli depressi (Cooper et al., 2007), ma esiste anche una correlazione con i disturbi d’ansia (Galletti, 2021).

L’osservazione clinica porta a ritenere che esista un legame forte tra disturbi mentali e tabagismo.

Nei pazienti psichiatrici la dipendenza dal fumo rappresenta, oltre che un fattore di rischio per malattie polmonari, cardiovascolari e neoplastiche, con una riduzione dell’aspettativa di vita, anche un ostacolo all’effetto della terapia farmacologica (Prochaska, 2011)

Nel fumo di sigaretta sono contenute alcune sostanze che possono interferire con il metabolismo degli antipsicotici e degli antidepressivi, con conseguente diminuzione della loro concentrazione ematica. Il fumo determina l’induzione dell’isoenzima CYP1A2. L’aumento di  questo isoenzima determina un incremento del metabolismo di alcuni farmaci. Il farmaco che va incontro all’interazione più importante è l’antipsicotico clozapina, ma l’interazione esiste anche per alcuni antidepressivi e ansiolitici (Chiamulera e  Velo, 2013).

I dati disponibili in letteratura mostrano che gli schizofrenici tabagisti presentano un maggior tasso di ospedalizzazione e che le loro terapie richiedono alti dosaggi di farmaci antipsicotici, rispetto agli schizofrenici non fumatori. Inoltre il tabagismo, nei disturbi mentali, rappresenta un fattore di rischio per la comparsa di condotte suicidarie (Emerson, 2011).

Grazie all’uso di tecniche neuroradiologiche è stato possibile evidenziare che l’abitudine al fumo determina una riduzione delle molecole trasportatrici della dopamina, e sono interessati da questa alterazione anche i circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione dell’umore (Leroy et al., 2011).

 La presenza di disturbi mentali rende maggiormente complicata la risoluzione della dipendenza da tabacco (Prochaska, 2011). Tale risoluzione è ostacolata anche da alcune convinzioni di tipo socioculturale. L’idea che porta a ritenere che il problema del fumo sia l’ultima cosa di cui ci si debba preoccupare, nel quadro della malattia mentale, è piuttosto diffusa. Così come la convinzione che la nicotina possa essere una sostanza che il paziente usa come automedicamento (Lugoboni et al., 2011). Infine, si ritiene che i pazienti che soffrono di disturbi mentali non siano in grado di smettere di fumare. In realtà, i dati disponibili in letteratura indicano che per questi pazienti risolvere la dipendenza da fumo non è impossibile, anche se più complicato rispetto ai soggetti non psichiatrici (Gilbody et al., 2019).

Simon Gildody, docente di psichiatria all’Università di New York, ha condotto con i suoi collaboratori un lavoro di ricerca che ha coinvolto 500 pazienti psichiatrici adulti fumatori. Sono stati formati due gruppi, a uno di questi è stato fornito un trattamento farmacologico e psicologico volto a risolvere la dipendenza dal tabacco. In questo gruppo è stata evidenziata una riduzione della dipendenza, una maggiore motivazione a smettere di fumare e una migliore condizione fisica generale. I risultati raggiunti non sono stati però mantenuti a distanza di un anno. Secondo l’autore della ricerca è quindi possibile che i pazienti psichiatrici possano smettere di fumare, ma lo sforzo per mantenere il risultato raggiunto deve essere costante nel tempo (Gilbody et al., 2019).

 

Breve storia dell’inquadramento clinico dell’autismo

Con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) il Disturbo Autistico e quello di Asperger vengono accorpati all’interno della stessa etichetta diagnostica, ossia il Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD), che rientra nella nuova categoria dei Disturbi del Neurosviluppo.

AUTISMO E QUALITÀ DI VITA – (Nr. 1) Breve storia dell’inquadramento clinico dell’autismo

 

I coniatori: Kanner e Asperger

 Dal punto di vista storico, l’utilizzo del termine Autismo nel suo senso clinico trae origine negli Anni ’40, quando Leo Kanner (1943) e Hans Asperger (1944), in maniera totalmente indipendente l’uno dall’altro, definiscono due quadri sintomatologici apparentemente molto simili, ma con alcune differenze sostanziali. Kanner (1943) descrive i bambini da lui osservati e definiti autistici come caratterizzati da ecolalia, paura ossessiva dei cambiamenti ambientali e solitudine autistica, definita come una sorta di chiusura e ritiro, come se stessero felicemente in un guscio, ignorando gli stimoli che giungono loro dall’esterno. Ciò che differenzia la Sindrome osservata da Asperger (1944; la quale prenderà successivamente il suo nome; Wing, 1981), sono i seguenti elementi: un eloquio più scorrevole, una difficoltà nell’eseguire movimenti grossolani, ma non quelli fini, e una diversa capacità di apprendere (Jeffrey e Baker, 2013).

Inquadramento nelle varie edizioni del DSM

L’Autismo è stato poi associato alla schizofrenia fino all’arrivo della terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III; American Psychiatric Association [APA], 1980/1983), che lo distingue chiaramente da essa e lo classifica per la prima volta come entità nosografica indipendente in qualità di Disturbo Pervasivo dello Sviluppo (Jeffrey e Baker, 2013). Con la pubblicazione del DSM-IV (APA, 1994/1995), sono stati poi aggiunti a questa categoria altri disturbi, tra cui quello di Asperger. Tale distinzione diagnostica tra Disturbo Autistico e Sindrome di Asperger è stata mantenuta nel DSM-IV-TR (APA, 2000/2001) e nella decima edizione dell’International statistical Classification of Diseases and related health problems (ICD-10; World Health Organization [WHO], 2016) e ha a che fare principalmente con il ritardo globale del linguaggio e dello sviluppo cognitivo, necessario per la diagnosi di Autismo ma assente in quella di disturbo/sindrome di Asperger (APA, 1994/1995; 2000/2001; WHO, 2016).

Con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) avviene un’altra importante rivoluzione per l’Autismo: la categoria diagnostica dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo viene scomposta e ricostituita diversamente, perdendo il suo nome. Il Disturbo Autistico e quello di Asperger (insieme al Disturbo disintegrativo dell’infanzia e al Disturbo pervasivo dell’infanzia non altrimenti specificato, precedentemente inclusi nei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo) vengono accorpati all’interno della stessa etichetta diagnostica, ossia il Disturbo dello Spettro dell’Autismo (ASD), che rientra nella nuova categoria dei Disturbi del Neurosviluppo (Ozonoff, 2012; APA, 2013/2014). Questa classificazione è stata poi mantenuta nella versione Text Revision del DSM-5 (DSM-5-TR, recentemente pubblicata; APA, 2022) e adottata anche dall’ultima edizione dell’ICD (WHO, 2022).

Il passaggio dal DSM-IV al DSM-5: da un disturbo a uno “spettro”

Durante l’evoluzione del DSM dalla sua quarta edizione (APA, 1994/1995) alla quinta (APA, 2013/2014), la diagnosi di Autismo ha subìto notevoli variazioni, a partire dall’etichetta diagnostica. L’espressione “Disturbi dello Spettro Autistico” non è in realtà così recente: già nel 1991, infatti, Happé e Frith avevano suggerito questa denominazione diagnostica per definire i Disturbi Pervasivi dello Sviluppo. Questa terminologia, seppur inizialmente ignorata dall’APA, è stata rapidamente adottata dai professionisti e si è diffusa nel linguaggio comune (Ozonoff, 2012). Diversi autori si sono soffermati a studiare la relazione tra Autismo e Asperger e la maggior parte di questi (per esempio, Prior, 1998; Frith, 2004) non ha trovato differenze empiriche significative tra i due disturbi e, quando sono state trovate, si trattava di differenze di tipo quantitativo (es. intensità dei sintomi, grado di compromissione funzionale, cognitiva e linguistica), più che qualitativo (Ozonoff, 2012). Con il tempo, anche l’APA (come citato in Jeffrey e Baker, 2013) ha cominciato a sostenere che Autismo e Asperger rappresentassero due condizioni talmente simili, da costituire parti dello stesso continuum; il DSM-5 (APA, 2013/2014; 2022) recita pertanto: “le manifestazioni del Disturbo [dello Spettro Autistico] variano molto anche in base al livello di gravità della condizione autistica, al livello di sviluppo e all’età cronologica; da qui il termine spettro” (p. 61).

 Il secondo fondamentale cambiamento avvenuto con la pubblicazione del DSM-5 (APA, 2013/2014) concerne i sintomi necessari alla diagnosi, i quali, da tre domini (sociale, comunicativo e dei comportamenti ripetitivi), sono stati riformulati in due: (1) interazione e comunicazione sociale e (2) comportamenti ristretti o ripetitivi. L’unione dei domini “sociale” e “comunicativo” in un unico dominio sintomatologico è avvenuta a causa dello stretto legame empirico che si è dimostrato esserci tra i due e, inoltre, per migliorare la specificità e diminuire la sovrapposizione dei criteri diagnostici (King et al., 2014). Ciò che si è mostrato essere fondamentale per la diagnosi di ASD è la compromissione della componente pragmatica (e quindi sociale) della comunicazione, pertanto è stato aggiunto il deficit nella comunicazione come specificatore opzionale alla diagnosi (King et al., 2014). L’adeguatezza di tale modello, detto bi-fattoriale, è stata confermata da vari studi (es. Guthrie et al., 2013).

Sono stati, inoltre, accorpati i sintomi simili tra loro che costituivano causa di sovrapposizione e sono stati eliminati quelli non specifici dello spettro autistico, rendendo i criteri diagnostici più precisi e coerenti (APA, 2022; Ozonoff, 2012).

Infine, nella quinta edizione del DSM (APA, 2013/2014), sono stati introdotti diversi specificatori, in modo da cogliere meglio la natura del disturbo e le sue variazioni individuali, in termini di intensità dei sintomi, grado di compromissione e sofferenza causata (Ozonoff, 2012).

Tutte queste modifiche sono state apportate al fine di rendere la diagnosi e la definizione di Autismo più chiare, precise e adatte a tutti quei quadri sintomatologici che venivano diagnosticati attraverso diverse etichette categoriali durante gli anni passati, ma che in realtà si presentavano estremamente simili, se non, appunto, per la gravità della compromissione funzionale. La creazione di uno spettro diagnostico che raccolga questi disturbi permette di evitare sovrapposizioni diagnostiche e diagnosi differenti in base all’età del soggetto, alle strategie compensatorie apprese e al clinico che lo osserva. Dovrebbe, inoltre, consentire la diffusione di un linguaggio comune tra le diverse comunità scientifiche, tra i professionisti di ogni tipo e tra le varie associazioni, e permettere l’emissione di servizi più adeguati e l’avanzamento della ricerca nel campo dell’Autismo (Ozonoff, 2012; APA, 2013/2014; 2022).

Attuale definizione dell’ASD: DSM-5 e DSM-5-TR

Il DSM-5 (APA, 2013/2014) e il DSM-5-TR (APA, 2022) definiscono il Disturbo dello Spettro dell’Autismo come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da “compromissione persistente della comunicazione sociale reciproca e dell’interazione sociale (Criterio A), e pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi (Criterio B)” (APA, 2013/2014, p. 61). I sintomi limitano o compromettono il funzionamento quotidiano in diversi ambiti (Criterio D) e devono essere presenti durante la prima infanzia (Criterio C), ma è possibile che siano mascherati da strategie di compensazione apprese nel tempo o che non si manifestino finché le esigenze sociali non superano le capacità del soggetto. Tali alterazioni non sono altrimenti spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo (Criterio E; APA, 2013/2014; 2022).

Sono previsti degli specificatori al fine di una descrizione più completa del caso. Essi riguardano la presenza aggiuntiva di: compromissione intellettiva e/o del linguaggio, di una condizione medica, genetica o ambientale nota, di un altro disturbo mentale o comportamentale, di catatonia. Esistono, inoltre, tre livelli di gravità riferiti a entrambi i domini sintomatologici, che indicano la significatività del supporto necessario nell’area della comunicazione sociale e di quello necessario nell’area dei comportamenti ristretti e ripetitivi (APA, 2013/2014; 2022).

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (2022) – Recensione

Il lettore che decidesse di iniziare il libro La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro, di Ruggiero, Caselli e Sassaroli (2022), sappia che non si troverà di fronte a un’asettica illustrazione di concetti, ma a un vero e proprio dibattito tra esperti. 

 

 La formulazione del caso è qui intesa come un elemento costituente la terapia cognitivo comportamentale (Cognitive Behavioral Therapy; CBT), una parte necessaria per la buona pratica clinica. Fin dal principio gli autori sottolineano l’aspetto, forse prioritario, della formulazione del caso in CBT, cioè la condivisione con il paziente. Non parlano di un processo messo in atto esclusivamente dal clinico, ma di una procedura di co-costruzione e di continuo interscambio all’interno della coppia terapeutica, grazie alla quale l’individuo assume, fin da subito, un ruolo attivo nella comprensione e nel trattamento delle proprie difficoltà. La formulazione condivisa del caso ha la funzione di intervenire sia sugli aspetti specifici sia su quelli aspecifici del processo terapeutico. Per aspetti specifici si intendono quelli riguardanti le peculiarità della sofferenza del paziente, mentre gli aspetti aspecifici si riferiscono alla gestione dell’alleanza e della relazione terapeutiche, che fanno parte del processo terapeutico in sé più che del caso specifico. Gli utilizzi e gli scopi della condivisione della formulazione del caso risultano quindi essere molteplici: dichiarare un modello esplicativo della sofferenza emotiva del paziente; creare una base comune del razionale di strategia di trattamento; monitorare i progressi del trattamento, il che consente l’apporto di eventuali aggiustamenti e modifiche; gestire la relazione e l’alleanza terapeutiche.

Si può affermare che l’obiettivo primario del volume sia concettualizzare la “formulazione condivisa del caso clinico come intervento centrale e distintivo delle principali forme di CBT”. Si parla di forme al plurale per contraddistinguere le varie terapie di tipo cognitivo comportamentale, sottolineandone analogie e differenze non solo tra di esse, ma anche rispetto ad alcuni approcci non CBT di tipo relazionale e psicodinamico. Per fare questo, gli autori ripercorrono la storia e l’evoluzione della formulazione condivisa del caso, accompagnando il lettore a conoscerne la realizzazione nelle specifiche cornici cliniche, riportando anche descrizioni pratiche ed esempi di possibili interventi. La divisione del volume in capitoli dedicati alle varie terapie permette al lettore di averne una visione ben chiara, esaminando caratteristiche, confini e zone di sovrapposizione. Con questo tipo di strutturazione, gli autori perseguono l’ulteriore obiettivo di dividere gli approcci terapeutici in due categorie: una propone che la formulazione condivisa del caso sia possibile fin dall’inizio del lavoro, l’altra ritiene che sia un risultato da raggiungere nel corso del processo terapeutico. Alla fine di ogni capitolo sono, inoltre, aggiunte riflessioni di altri autori ben noti nel panorama della psicoterapia, che approfondiscono il capitolo stesso o che ne prendono spunto per aggiungere elementi di interesse.

Il primo capitolo è incentrato sulla Terapia Cognitiva standard di Beck (Cognitive Therapy; CT), dove la formulazione condivisa del caso è la mossa di apertura del processo terapeutico, che ne permette la gestione momento per momento. L’utilizzo del CCD (Cognitive Conceptualization Diagram), ovvero l’identificazione di credenze centrali, credenze intermedie e strategie di coping, permette al clinico e al paziente di trovare congiuntamente un’interpretazione psicopatologica e una ristrutturazione terapeutica delle situazioni problematiche riferite. Spazio viene dato a quella che forse è la principale critica rivolta alla CT, di basarsi cioè su un’eccessiva razionalità e di relegare il paziente a un ruolo di apprendimento passivo, il che offre l’opportunità di aprire, in risposta, un’ampia riflessione sull’empirismo collaborativo e sulla co-operazione intrinseca alla condivisione della concettualizzazione.

Il secondo capitolo si sposta sul Comportamentismo, che, sottolineano gli autori, ha il merito di aver per primo proposto la formulazione condivisa del caso, in particolare con il contributo di Meyer. La tradizione comportamentista propone l’uso della formulazione come un razionale di trattamento e pone l’enfasi sulla natura provvisoria dell’inquadramento del caso. Il focus è posto sulle funzioni esecutive volontarie, quali elementi cruciali del processo psicoterapeutico, in quanto forniscono al paziente la capacità di fare una scelta volontaria nel qui e ora e di distaccarla da qualsiasi fattore antecedente, incluso lo stesso ragionamento cognitivo. L’idea è che il paziente possa acquisire una consapevolezza del suo disagio da utilizzare nelle situazioni di vita quotidiana per attuare un comportamento differente.

Il terzo capitolo indaga la formulazione condivisa del caso nella Terapia Razionale Emotiva Comportamentale (Rational Emotive Behavior Therapy; REBT) di Ellis. Attraverso l’illustrazione della procedura di base ABC-DEF, viene mostrato come vi sia un continuo interscambio tra clinico e paziente, in particolare durante le fase di connessione pensieri-comportamento (B-C), di disputing (D) e di negoziazione dell’obiettivo emotivo (F). Si parla qui di formulazione condivisa del problema, più che del caso, per sottolineare che l’attenzione è rivolta alle molteplici situazioni difficili sperimentate dal paziente nell’attuale contesto di vita.

Il quarto capitolo discute la formulazione condivisa del caso negli approcci CBT più recenti focalizzati sui processi. Nello specifico, vengono prese in considerazione: la Acceptance and Commitment Therapy (ACT), in cui la valutazione e la condivisione con il paziente del suo funzionamento mentale si fonde con l’intervento terapeutico basato, appunto, sul funzionamento più che sul contenuto; la Process Based Cognitive Behavioral Therapy (PB-CBT), recente approccio, ancora in via di sviluppo, che nasce dallo sforzo di integrare la CT standard e gli approcci CBT basati sul processo, considerandoli come due possibili livelli differenti di un unico intervento; la Schema Therapy, in cui il caso è formulato in termini di modelli del sé che non sono puramente cognitivi; la Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy; MCT), che attribuisce grande importanza alla condivisione precoce con il paziente del modello di funzionamento, in quanto si concentra sulla funzione della scelta esecutiva cosciente dell’individuo, che può diventare disfunzionale a causa di distorsioni metacognitive.

Il quinto capitolo è dedicato agli approcci costruttivisti. Gli autori illustrano come, in questi modelli, la condivisione della formulazione del caso sia il risultato di un processo esplorativo più che la partenza della terapia. Un importante contributo del costruttivismo è aver introdotto, nel processo di inquadramento clinico, il concetto di significato soggettivo che le persone attribuiscono a se stesse, agli altri e agli eventi della loro vita. L’attenzione è quindi posta sull’esplorazione sistematica e attenta delle interpretazioni che il soggetto fa della sua esperienza. Uno spazio viene riservato anche al modello di Liotti, che risalta l’importanza della relazione sia per la comprensione della sofferenza del paziente, sia come campo prioritario di lavoro e cambiamento terapeutico, attraverso cioè la promozione di un atteggiamento cooperativo, il monitoraggio accurato e la gestione degli episodi di crisi relazionale. Tale visione rimanda al modello di Safran e Muran basato sui concetti di rotture e riparazioni della relazione terapeutica. La formulazione del caso sarebbe quindi il risultato della gestione di questi episodi di rottura e riparazione.

 Proseguendo il discorso, il sesto capitolo si occupa dei modelli di formulazione del caso che si basano sul ruolo della relazione terapeutica. In questi modelli la formulazione del caso è il risultato del processo terapeutico e avviene senza essere dichiarata e condivisa apertamente. Gli autori presentano la Psicoanalisi Relazionale di Mitchell e Aron, paradigma di tipo psicodinamico distaccatosi dalla tradizione classica, dove il focus diventa la costruzione di una nuova esperienza interpersonale significativa che permetterebbe al paziente di assimilare nuovi modelli relazionali. Viene poi illustrato il modello della Mentalization Based Therapy (MBT) di Bateman e Fonagy, dove la mentalizzazione è promossa e incoraggiata dal terapeuta senza che ve ne sia un’esplicita spiegazione al paziente. Il capitolo prosegue riprendendo il modello di Safran e Muran e spiega in modo più approfondito come la formulazione del caso non possa avvenire inizialmente, in quanto mancherebbe la condizione su cui si basa la terapia, ovvero la rottura della relazione e la sua gestione. L’idea della formulazione del caso come risultato, continuano gli autori, è applicabile anche alla Control Mastery Theory (CMT), che si concentra sui test relazionali, fattori interpersonali ed esperienziali innescati da processi relazionali, non pienamente rappresentabili nella coscienza del paziente ma percepiti emotivamente e motivazionalmente.

Il settimo capitolo presenta il modello di formulazione del caso LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased beliefs, elicitation and treatment), ideato dagli autori del volume, e ne sottolinea il carattere innovativo di integrazione tra elementi cognitivi della CT standard (credenze sul sé e coping strategies), elementi evolutivi, che giustificherebbero la vulnerabilità emotiva come esperienza appresa durante la storia di vita dei pazienti, ed elementi processuali, che giocano un ruolo di mantenimento patologico delle coping strategies. L’integrazione si traduce nel concepire la psicopatologia come una gestione rigida del disagio emotivo, verso cui il paziente ha una sensibilità, volta a ottenere la soppressione del dolore. La vulnerabilità individuale corrisponde a uno o più temi di vita appresi in esperienze e relazioni significative percepite come intollerabilmente dolorose. Per questo l’individuo mette in atto una rigida gestione della sofferenza attraverso strategie di coping evitanti, controllanti e/o impulsive, chiamate piani semi-adattivi. Temi di vita e piani semi-adattivi sono costantemente mantenuti attivi da aspetti processuali, di necessità e incontrollabilità percepite, e questo determinerebbe la psicopatologia.

L’ultimo capitolo è dedicato alla presentazione di nuovi scenari di psicoterapia nell’ambito della E-healt, che si riferisce all’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Information and Communication Technologies; ICT) per facilitare la prevenzione, la diagnosi, il trattamento, il monitoraggio e l’amministrazione nel sistema sanitario.

È doveroso sottolineare e apprezzare il tono esplorativo che contraddistingue l’intero testo e che denota l’intento di promuovere la conoscenza e la discussione critica della formulazione condivisa del caso all’interno del mondo della psicoterapia. La proposta di diverse visioni relative ai vari approcci terapeutici con relativi limiti e punti di forza, l’aggiunta di riflessioni di altri autori, nonché la presentazione di critiche e risposte, predispongono sicuramente la mente del lettore a quell’atteggiamento di apertura e curiosità fondamentale sia per lo sviluppo soggettivo individuale, sia per quello della globale comunità scientifica.

 

L’aggressività alla guida

Guidare è un’attività praticata quotidianamente da milioni di persone e può essere molto stressante (Karimi et al., 2021); infatti, accade spesso che, durante la guida, il conducente del veicolo esperisca delle sensazioni di rabbia.

 

 Sembra che i guidatori che esperiscono rabbia mentre guidano aumentino esponenzialmente il rischio di incidenti. Ad esempio, alcuni tendono a guidare più velocemente quando sono arrabbiati, oppure manifestano la loro rabbia con comportamenti aggressivi. Sembra che l’età sia una variabile importante in questo contesto. I guidatori più giovani, infatti, tendono a emettere comportamenti aggressivi alla guida e a infrangere le regole stradali molto più frequentemente rispetto a individui adulti.

Nel 2016, il numero di vittime causate da incidenti stradali è stato di 1,35 milioni e i numeri sono destinati ad aumentare (Brandenburg e Ohel, 2021). Ad esempio, in Germania comportamenti rischiosi e inadeguati attuati alla guida hanno mostrato una correlazione del 91% con gli incidenti mortali. Oltre a una guida più veloce, tra i comportamenti negativi causati dalla rabbia riscontrabili nell’attività della guida si annoverano il tagliare la strada, il fare sorpassi pericolosi e il tailgating, ovvero il “tallonare” inteso come l’atto di accorciare drasticamente e bypassare la distanza di sicurezza rispetto alla macchina davanti, cercando di causare agitazione nell’altro conducente.

L’espressione della rabbia alla guida

Sono state condotte numerose ricerche sui comportamenti aggressivi alla guida (Karimi et al., 2021). Deffenbacher e colleghi (1994) hanno sviluppato la Driving Anger Expression Inventory (DAX), che contiene 4 macro aree di espressione aggressiva: 3 aree si occupano di indagare le modalità aggressive con cui viene espressa la rabbia (aggressione verbale, aggressione fisica e utilizzo della macchina come mezzo per esprimere aggressività) e un’area indaga le modalità costruttive con cui esprimere aggressività e rabbia (Deffenbacher et al., 1994; Karimi et al., 2021). La DAX è uno strumento che è stato validato in molti paesi, come Francia, Turchia, Brasile, America e Nuova Zelanda (Karimi et al., 2021).

La DAX è risultata essere molto utile per misurare le conseguenze dei comportamenti aggressivi alla guida, poichè misura le frequenze di diversi tipi di risposta (Karimi et al., 2021). Inoltre, la DAX è utile anche perché riesce a individuare i guidatori che tendono a emettere più frequentemente comportamenti rischiosi alla guida (Karimi et al., 2021). In aggiunta, la DAX vede l’aggressività nella guida come un tratto di personalità associato a un’intensa e più frequente rabbia esperita mentre si guida (Brandenburg e Oehl, 2021).

Chi sperimenta rabbia alla guida?

 Nel loro studio, Brandenburg e Oehl (2021) hanno condotto una ricerca su un campione di popolazione di 1136 individui tedeschi somministrando la DAX insieme al State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI; Spielberger, 1999), con lo scopo di esaminare quali variabili demografiche possono influenzare l’esperienza della rabbia alla guida e di vedere se in Germania la tendenza a esperire rabbia alla guida è differente dagli altri paesi. I risultati hanno mostrato una moderata associazione tra l’espressione della rabbia alla guida e l’espressione della rabbia in generale, suggerendo l’ipotesi secondo la quale la rabbia esperita alla guida possa essere una caratteristica della personalità legata a come un individuo esperisce ed esprime la rabbia. Inoltre, l’esperienza della rabbia alla guida per la popolazione tedesca sembra essere differente dai guidatori di altri paesi. Infatti, i guidatori tedeschi hanno riportato una minore rabbia alla guida rispetto ai guidatori spagnoli o neozelandesi, livelli simili ai guidatori turchi e americani, e livelli maggiori rispetto ai guidatori francesi, australiani, inglesi e cinesi.

Tale ricerca è stata utile per tarare i livelli di rabbia alla guida nella popolazione tedesca, in modo da validare il test DAX in Germania (Brandenburg e Oehl, 2021). Sarebbe utile e interessante replicare la ricerca in Italia, per osservare i livelli di rabbia e aggressività alla guida tra i guidatori italiani e ottenere così uno strumento di valutazione specifico per il nostro Paese.

 

Social network, cognizioni e benessere – PARTECIPA ALLA RICERCA

Lo scopo dello studio è quello di indagare la relazione tra uso dei social network, pensiero ripetitivo e livelli di benessere psicologico. 

Social network

 Con il passare del tempo, il mondo dei social network si è arricchito, vedendo lo sviluppo di nuove piattaforme volte a soddisfare diverse esigenze, interessi e scopi: attraverso i social network, oggi è ad esempio possibile divertirsi, instaurare o mantenere relazioni, cercare lavoro o organizzare il proprio tempo libero. Queste molteplici possibilità sostengono l’intenso uso dei social network, che sono diventati parte rilevante della quotidianità di moltissime persone.

Pensiero ripetitivo

Col termine “pensiero ripetitivo” ci si riferisce a uno stile di pensiero analitico, astratto, perseverante e, per l’appunto, ripetitivo, che è incentrato su contenuti negativi (Borkovec, 1994; Caselli et al., 2011, 2017). A seconda dei contenuti dei pensieri e delle emozioni ad essi associate, è possibile distinguere quattro diverse forme di pensiero ripetitivo: la ruminazione depressiva, la ruminazione rabbiosa, il rimuginio ansioso, il rimuginio desiderante (Caselli et al., 2017).

 Il pensiero ripetitivo è un processo disfunzionale presente trasversalmente sia in diversi disturbi psicopatologici sia in condizioni non-patologiche. Inoltre, esso è considerato uno dei processi che maggiormente determina e mantiene la sofferenza psicologica (Caselli et al., 2017; Wells, 2018). Per tali motivi, l’indagine scientifica sul pensiero ripetitivo è urgente e in forte crescita.

Uso dei social network e pensiero ripetitivo: lo studio

La letteratura scientifica ha indagato il rapporto tra uso dei social network e pensiero ripetitivo, ma sono necessari ulteriori approfondimenti a tal proposito. Il presente studio ha dunque l’obiettivo di analizzare le associazioni tra l’utilizzo dei social network, il pensiero ripetitivo e i livelli di benessere psicologico.

Per partecipare alla ricerca basta compilare un questionario che richiede circa 10 minuti di tempo. Lo studio è rivolto a persone maggiorenni utenti di Facebook, Instagram, o TikTok. I dati verranno trattati in forma completamente anonima. I questionari non hanno alcuna finalità diagnostica o terapeutica.

 

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

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La funzione sociale dello psicoterapeuta (2020) di Luigi D’Elia – Recensione

Il volume La funzione sociale dello psicoterapeuta descrive vari casi clinici dando maggiore enfasi, rispetto a uno psicoterapeuta individuale, allo sfondo sociale in cui nasce il disagio.

 

 Avrei dovuto recensire il libro di Luigi D’Elia almeno un anno fa e sono in colpevole ritardo. Non è la pigrizia l’unica responsabile. Il ritardo è rivelatore: ero disorientato di fronte all’argomento perché, come molti di noi, non conosco a fondo la psicologia sociale e ancor meno quale sia la funzione sociale dello psicoterapeuta. Un’ignoranza inquietante, perché non generava curiosità ma confusione. La stessa che mi ha accompagnato in questi mesi in cui il libro giaceva sulla mia scrivania. Lo avevo lasciato lì a ricordarmi che prima o poi avrei dovuto decidermi a leggerlo.

Il libro di D’Elia parte dalla consapevolezza di questa lacuna e tenta di colmarla, istruendoci sugli aspetti sociali della nostra professione. Inizia con una panoramica della condizione dello psicoterapeuta italiano, della sua singolare condizione di figura professionale formata quasi sempre nel servizio privato e destinata a lavorare privatamente. Di qui la trascuratezza per l’aspetto sociale di questa professione. Da questa osservazione parte la riflessione di D’Elia sullo psicoterapeuta, la cui funzione sociale è quella di superare la dicotomia mondo-mente in termini che vadano al di là delle consuete opposizioni che rimangono individuali, anch’esse da superare ma al fondo più ristrette: mente-corpo, ragione-emozione e così via. Occorre andare sulla sponda sociale, magari per incontrare nuove opposizioni.

L’intento di D’Elia è di porre la sofferenza mentale al centro di un disagio che non è solo mentale e nemmeno è solo individuale. L’individuo soffre, scrive D’Elia, perché la società soffre, e la società soffre perché non è abbastanza sociale. Essa è deteriorata dalla tendenza all’individualismo e all’aggregazione puramente funzionale dell’organizzazione economica, non solo privata ma anche pubblica. D’Elia connette, per tutto il libro, il malessere emotivo a queste disfunzioni sociali: i disturbi di personalità sono espressione primaria di questo deterioramento ma anche le psicosi, pur colpite da un fattore biologico, presentano un decorso meno ottimale a causa del degrado della società. Lo psicoterapeuta ha quindi un mandato sociale, non può limitarsi a lavorare nel suo studio, ma deve andare negli ambienti dove è nato il disturbo e può farlo non solo quando gli è richiesto dal ruolo, ad esempio quando lavora in comunità o nei servizi sociali, ma anche quando potrebbe rinchiudersi nell’attività privata.

Dopo questo quadro iniziale, D’Elia descrive vari scenari lavorativi e sociali in cui lo psicoterapeuta potrebbe assumere questo ruolo sociale ed evadere dalla gabbia della psicoterapia individuale. Lo studio di psicoterapia diventa un osservatorio sociale privilegiato da cui cogliere le modificazioni individuali facilitate dal cambiamento sociale. La società atomizzata, lacerata e povera di basi comunitarie crea disagi psicologici specifici che D’Elia descrive con esattezza, dai disturbi alimentari ai casi di violenza giovanile fino agli hikikomori, tutti malesseri che partono dall’isolamento, dalla spersonalizzazione funzionale ed economica dei rapporti fino alla competizione sempre più aspra che può poi sfociare nella violenza fisica.

 Per questo D’Elia descrive vari casi clinici dando maggiore enfasi, rispetto a uno psicoterapeuta individuale, allo sfondo sociale in cui nasce il disagio. Ecco che conosciamo le difficoltà lavorative e aziendali di Doriana, Isabella e Luciano e quelle sociali e familiari di Pietro, Ivana e Nadia. Nella sezione successiva troviamo i casi dell’amore esitante, ovvero la difficoltà di tante persone, non solo pazienti, a impegnarsi in progetti affettivi a lungo termine, il cui contraltare apparentemente opposto ma complementare è quello delle coppie di quarantenni che iniziano a desiderare i figli in età avanzata in uno stile superficiale e naif che non sembra tenere conto dei limiti biologici. Infine, troviamo interessanti considerazioni sull’incagliarsi del femminismo, dopo i successi dell’inizio e degli anni ’60 del ‘900, in una incompiutezza della realizzazione individuale delle donne, spesso arenatesi in atteggiamenti evitanti e poco assertivi dopo aver ottenuto i diritti pubblici.

A tutto questo D’Elia risponde proponendo una impostazione che va oltre la diagnosi individuale per generare una formulazione sociale del caso che si fonda su un’analisi dei rapporti economici e politici del tardo capitalismo, incapace di assicurare quella parallela crescita sociale che fino agli anni ’60 accompagnava quella economica e, anzi, incancrenitosi in una crescita senza limiti che non fornisce progresso intellettuale e morale e al tempo stesso minaccia il clima e il benessere del pianeta. Come scrive D’Elia a pag. 59, “lo psicoterapeuta con formazione psicosociale legge il materiale del paziente non solo come elemento intrapsichico e relazionale (…) ma come elemento della realtà sociale”. I vari interventi sono riletti in questa luce sociale: ecco che l’ansia non è curata solo nei termini individuali della tolleranza dell’apprensione e dell’adattamento, ma anche come insegnamento all’assertività, nella rivendicazione dei propri diritti sociali compromessi dal degrado sociale e lavorativo, così come l’accettazione dei propri limiti diventa anche la capacità di sottrarsi alle sirene del successo individualistico vissuto in misura parossistica. L’ambiente sociale del paziente è analizzato con puntualità per comprenderne l’effetto sull’emotività del paziente stesso e per immaginare strade per fuoriuscirne. Il repertorio di interventi sociali proposto da D’Elia va ad arricchire l’armamentario dello psicoterapeuta.

Naturalmente limitarsi a sviluppare l’aspetto sociale dell’intervento psicoterapeutico sarebbe stato limitante per gli obiettivi del libro. Ecco che D’Elia, per rispondere a questo bisogno, propone un intervento sociale diretto che vada al di là della seduta e individua nella rete il mezzo sociale più potente messo a disposizione dalla società. D’Elia progetta un portale che: 1) colleghi la domanda e l’offerta di psicoterapia secondo logiche che non siano di mercato, bensì di aiuto sociale praticato a tariffe ridotte oppure finanziato dallo stato sociale; 2) stimoli l’intervento pubblico a incrementare l’investimento in psicoterapia, storicamente trascurato a favore di quello farmacologico e comunitario; 3) censisca gli operatori e le strutture che già propongono le tariffe ridotte. Il tutto è finalizzato a creare una sorta di contro-mercato sociale e non economico in cui la psicoterapia sia davvero intervento sociale a favore del debole e del bisognoso. Il progetto è iniziale ma non acerbo: il portale, consultabile cliccando qui, era giunto al suo secondo anno di vita al momento della pubblicazione del libro di D’Elia nel 2020 e ora è quindi al suo quarto anno di vita e continua a inseguire i suoi sogni.

 

Felicità, benessere soggettivo e comportamenti pro-sociali 

La maggior parte di noi desidera essere felice e nel tentativo di esserlo si ritrova alla ricerca costante di nuove modalità con cui raggiungere la propria felicità

 

 In Occidente, la ricerca della felicità è vista come un’impresa personale che richiede un’azione finalizzata al raggiungimento di obiettivi e programmi personali (Oishi et al., 2013). Tuttavia, la letteratura sembra dimostrarci che, piuttosto che focalizzarsi su sé stessi, il focus dovrebbe essere riposizionato, forse in modo controintuitivo: per essere veramente felici può essere necessario “dimenticarsi” di se stessi e preoccuparsi principalmente della felicità degli altri.

A sostegno di tale ipotesi, uno studio di Dunn e colleghi (2008) ha riscontrato che i soggetti che spendevano denaro per gli altri si sentivano più felici rispetto a quelli che spendevano la stessa somma di denaro per se stessi. Nelson e colleghi (2016) hanno dimostrato invece che l’essere gentili con gli altri porta a sperimentare più emozioni positive, meno emozioni negative e più benessere psicologico, rispetto agli atti di gentilezza focalizzati su se stessi.

La felicità nel Modello delle Attività Eudaimoniche

Questi risultati sono ben inquadrati nel Modello delle Attività Eudaimoniche (EAM; Sheldon et al., 2019), il quale ipotizza che i miglioramenti del benessere soggettivo e della felicità possono essere ottenuti attraverso l’impegno in attività eudaimoniche, come le attività legate alla crescita e allo sviluppo, alla promozione di valori intrinseci e alla pro-socialità. Pertanto, secondo l’EAM, rendere felici gli altri dovrebbe rivelarsi più efficace per il proprio benessere, poiché non mira direttamente alla felicità del soggetto in questione, ma porta a benefici attraverso il comportamento pro-sociale.

La domanda che sorge è quindi: qual è il meccanismo alla base di questi benefici?

Un risposta logica potrebbe essere il sentimento di connessione che si crea tra chi dona e chi riceve. Molte teorie propongono, e molti studi hanno riscontrato, che le relazioni strette sono un importante determinante del benessere delle persone (ad es., Lyubomirsky et al., 2005) e che le persone più felici di solito hanno reti sociali più ampie rispetto a quelle meno felici (Myers, 2000). La teoria dell’autodeterminazione (Self-Determination Theory; SDT) suggerisce che tutte le persone hanno bisogno di relazionarsi con gli altri, mostrando che i sentimenti di relazionalità, insieme ai sentimenti di competenza e di autonomia, sono importanti predittori di benessere (Reis et al., 2000; Sheldon et al., 1996). Inoltre, esaminando le tendenze prosociali, Martela e Ryan (2016b) hanno scoperto che la relazione tra comportamento pro-sociale e benessere può essere spiegata dal soddisfacimento dei bisogni psicologici di base. Sembra ragionevole che il tentativo di rendere felice un’altra persona ispiri sentimenti di vicinanza nella persona che compie il gesto. Questi sentimenti potrebbero quindi spiegare gli effetti positivi dell’attività focalizzata sull’altro sul benessere della persona.

Tuttavia, l’aumento del benessere non deriva da qualsiasi esperienza sociale, ma dalle esperienze in cui siamo concentrati sulla felicità degli altri piuttosto che sulla nostra.

Alcuni esperimenti sulla ricerca della felicità

Sulla base di quanto riportato, uno studio condotto da Titova e Sheldon (2021) ha analizzato l’effetto del “cercare di rendere felice se stessi” e “cercare di rendere felice un’altra persona” sulla felicità e il benessere percepiti in 5 progetti sperimentali differenti.

 Nei primi 3 studi i risultati hanno dimostrato che, sia retrospettivamente (quindi ricordando di aver cercato di rendere qualcun’altro più felice) che al momento attuale dello studio (facendo qualcosa per rendere più felice un’altra persona) impegnarsi per la felicità degli altri portava a un aumento del benessere soggettivo maggiore, rispetto al tentativo di rendere più felice se stessi o di passare del tempo a socializzare.

Nei successivi esperimenti gli autori hanno utilizzato una condizione di confronto diversa: essere resi più felici dagli altri. Anche in questo caso, i risultati hanno dimostrato che cercare di rendere felici gli altri è un modo più efficace per raggiungere la propria felicità, anche più di quando gli altri cercano di rendere felici noi.

Riassumendo, ciò che lo studio ha riportato sembra confermare l’ipotesi che rendere felici gli altri sia un modo più funzionale per raggiungere la propria felicità, anche rispetto all’essere resi felici dagli altri.

È interessante notare che non è necessaria un’azione faccia a faccia con l’altra persona: i partecipanti dello studio hanno comunque sperimentato benefici dal tentativo di rendere felici gli altri anche senza averli mai visti o senza mai averci parlato. Inoltre, nello studio presentato, le persone non si conoscevano tra loro, quindi anche il livello di familiarità con le persone oggetto dell’attività di aumento della felicità non è necessariamente importante per ottenere l’effetto indagato.

Le reazioni ottenute in tutte e cinque le condizioni sperimentali erano mediate dal soddisfacimento del bisogno di relazione. Come suggerito dalla STD, le persone hanno bisogno di soddisfare tutti e tre i bisogni fondamentali per vivere una vita soddisfacente (Ryan e Deci, 2000a; 2000b). Non sorprende che la soddisfazione del bisogno di relazione, in particolare, derivi da un’attività progettata per far sentire bene un’altra persona.

Sebbene questo studio non sia longitudinale, quindi non sono stati osservati cambiamenti nel tempo, sembra confermare l’ipotesi per la quale impegnarsi in azioni che puntano a migliorare l’umore e la felicità degli altri invece che la propria, aumenti il proprio benessere soggettivo. Lo studio presentato sembra inoltre supportare il Modello delle Attività Eudaimoniche, il quale afferma che lavorare per migliorare direttamente la propria felicità non è una strada percorribile per diventare più felici nella vita (Sheldon, 2016; Sheldon et al., 2019). Invece, concentrarsi su sforzi eudaimonici, che includono lo spostamento dell’attenzione da sé agli altri, è un modo funzionale per raggiungere il benessere personale.

 

Figli… che stress! Come la Mindfulness può aiutare nella sfida della genitorialità – Podcast

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Figli… che stress! Come la Mindfulness può aiutare nella sfida della genitorialità”.

 

Negli ultimi anni la mindfulness ha ricevuto crescente attenzione non soltanto come pratica meditativa in grado di migliorare la salute fisica e psicologica, ma anche come stile di vita e come mezzo per approcciarsi in maniera più consapevole al mondo del lavoro, dello studio e delle relazioni interpersonali. La mindfulness può essere descritta come “il processo di prestare attenzione in modo particolare, di proposito, al momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento” (J. Kabat-Zinn, 1994).

Il protocollo più diffuso e conosciuto è quello per la riduzione dello stress basata sulla mindfulness (Mindfulness Based Stress Reduction) validato da test e studi scientifici a partire dagli anni ’70, da cui si sono sviluppati diversi interventi e protocolli in ambito preventivo e clinico. Tra questi, per aiutare e sostenere i genitori nel difficile compito parentale, la psicologa e ricercatrice olandese Susan Bogels ha strutturato un protocollo molto efficace, validato da oltre un decennio di ricerca. La mindfulness nel parenting aiuta a divenire più consapevoli delle risposte stressanti, a gestire la naturale reattività di fronte alla frustrazione che la relazione con i figli genera e a diventare maggiormente capaci di scegliere risposte personali ai bisogni dei figli piuttosto che reagire allo stress o secondo schemi noti dalla nostra infanzia.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Nicoletta Serafini, Psicologa, Psicoterapeuta.

 

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