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Linguaggio inclusivo nel rapporto terapeutico – Podcast

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘Linguaggio inclusivo nel rapporto terapeutico’.

 

 È disponibile sulle principali piattaforme Terapeuti al Lavoro, il podcast realizzato da State of Mind dedicato ai professionisti della salute mentale, che raccoglie i più interessanti webinar di formazione su vari temi della psicoterapia e della psicologia clinica

Lo scopo di questo episodio è quello di fornire suggerimenti per costruire un linguaggio inclusivo ed aiutare a migliorare il rapporto con gli altri.

Che impatto ha il linguaggio sulla salute mentale delle altre persone? Come si può far stare bene una persona con il solo uso del linguaggio? Scopo di questo episodio è quello di capire come il linguaggio, e la sua evoluzione, ha un ruolo importante sulla salute mentale di ogni persona. Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un forte cambiamento sociale che richiede a sua volta un adeguamento del linguaggio. Gli specialisti forniscono alcuni suggerimenti che possono essere facilmente messi in pratica per costruire un linguaggio più inclusivo che può aiutare a migliorare il rapporto con gli altri.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli e dal Dott. Luca Daminato.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

L’altruismo può migliorare il benessere degli adolescenti

Il benessere soggettivo al giorno d’oggi è molto importante anche per gli adolescenti, in quanto accresce la loro autostima e contribuisce a uno sviluppo ottimale della loro salute fisica e mentale.

 

Lo studio del benessere soggettivo

 Lo studio del benessere soggettivo (Subjective Well Being; SWB) è iniziato a partire da metà del XX secolo dopo che l’essere umano ha contemplato il concetto di felicità per moltissimi anni. Intorno agli anni ’70 il SBW è diventato uno dei principali obiettivi in economia e sociologia, sebbene gli studiosi abbiano opinioni differenti su tale concetto. I principali punti di vista sono tre. Il primo, adottato dai seguaci di Bradburn (1969), vede il benessere soggettivo come il risultato di un bilanciamento tra emozioni positive e negative, quando le emozioni positive sono maggiori, gli individui sperimentano maggiore benessere soggettivo. Il secondo vede invece il benessere soggettivo non solo come una forma di piacere e soddisfazione, ma anche come un’esperienza positiva all’interno della quale si utilizza il potenziale interno di ciascun individuo (Ryff, 1996). L’ultimo filone, abbracciato da Diener e i suoi successori, lo definiscono come un indicatore della soddisfazione della vita di ciascuno secondo determinati standard autodefiniti e della salute mentale (Diener & Suh, 2000).

Il benessere soggettivo a livello strutturale è composto principalmente dalle esperienze emotive, che comprendono sia quelle positive che quelle negative, e da una componente cognitiva che valuta queste ultime e la soddisfazione della propria vita per la maggior parte del tempo o in un determinato periodo di tempo (Cui, 2019). Altri studiosi hanno identificato invece tre componenti del benessere soggettivo: esperienze di emozioni positive, obiettivi stabiliti e partecipazione a svariate attività che arricchiscono la vita (Seligman, 2018).

La pressione, l’ansia e la depressione colpiscono molte persone oggi e ostacolano il miglioramento del benessere, soprattutto con il rapido sviluppo della società e la crescente concorrenza nel mondo del lavoro.

Come intervenire per migliorare il benessere soggettivo

Un possibile intervento per migliorare il benessere soggettivo delle persone è il metodo Positive Psychological Intervention (PPI) che include sia interventi focalizzati su un singolo fattore (per esempio, i punti di forza del carattere) sia su più fattori che possono contribuire ad accrescere il benessere personale (Schueller, 2014).

I ricercatori fino ad oggi hanno condotto numerosi studi per comprendere come può essere definita una vita felice, trovando che il materialismo, ovvero enfatizzare l’importanza di possedere cose materiali e grandi ricchezze, era sempre correlato negativamente al benessere soggettivo. Le persone che hanno più valori materialistici provano infatti più emozioni negative e sperimentano meno soddisfazioni durante il corso della propria vita (Dittmar & Hurst, 2018). Gli individui che sono concentrati sul denaro, l’immagine di sé e le preoccupazioni sullo status sociale non pensano al futuro e agli altri. Gli atti di altruismo possono invece essere un modo per incrementare il benessere soggettivo in quanto possono portare ad avere delle ricompense interne (Harman, 2014).

Benessere soggettivo e altruismo

L’altruismo implica prestare attenzione agli interessi degli altri senza considerare i propri interessi e senza cercare ricompense (Schlosser & Levy, 2016). Inoltre, costituisce la base del comportamento pro-sociale e ha tre principali caratteristiche: gli atti di altruismo sono destinati a dare agli altri qualcosa in termini di ricchezza, benessere emotivo, qualità della vita o salute fisica e mentale; non prevede la ricerca di ricompense e implica empatia, responsabilità sociale, fiducia interpersonale e socialità (Davis, 2015).

Il benessere soggettivo al giorno d’oggi è molto importante anche per gli adolescenti, in quanto accresce la loro autostima e contribuisce a uno sviluppo ottimale della loro salute fisica e mentale. Tuttavia, diversi studi hanno dimostrato che con l’età il benessere soggettivo tende a diminuire causando diversi problemi che spesso si protraggono anche in età adulta.

 Quindi, migliorare il loro benessere è molto importante e l’altruismo potrebbe contribuire a tale miglioramento, dato che in diversi studi è risultato correlare positivamente con il benessere soggettivo (Lu et al., 2019). Inoltre, alcuni studi hanno dimostrato che gli atteggiamenti e i comportamenti altruistici possono migliorare il sistema immunitario dei partecipanti e il loro benessere soggettivo. Haberman (2013) ha osservato che i livelli di benessere soggettivo erano più elevati tra gli anziani che partecipavano ad attività altruistiche, soprattutto intergenerazionali. Diverse ricerche hanno scoperto che l’altruismo degli adolescenti è un predittore significativo degli effetti del benessere soggettivo (Yang et al., 2019) e sembra che i comportamenti altruistici degli adolescenti messi in atto sulle piattaforme internet abbiano degli effetti positivi diretti e indiretti sul benessere soggettivo (Zheng et al., 2016).

Lu e colleghi, nel 2021, hanno condotto un Intervento Educativo Integrativo di Altruismo (IEIA) con l’obiettivo di verificare se potesse effettivamente migliorare il benessere degli adolescenti concentrandosi sui cambiamenti nel benessere soggettivo in due dimensioni: soddisfazione della vita ed esperienza emotiva. L’IEIA utilizzato era basato su diverse attività psicologiche integrate da attività pratiche, incontri di classe a tema, corsi e attività seguite da una formazione dei genitori e dalla creazione di piattaforme sociali per attività altruistiche. Il loro campione era costituito da 280 partecipanti (138 ragazzi e 142 ragazze; età media: 14,53 anni) a cui hanno somministrato la Multidimensional Students’ Life Satisfaction Scale (Huebner, 1994) che valuta cinque domini di soddisfazione della vita e la Scala della Felicità (Diener, 1984) per valutare le emozioni positive e negative prima e dopo l’intervento. I risultati del pre-test non mostrano differenze significative tra il gruppo di controllo, che non ha partecipato all’intervento, e quello sperimentale. Tuttavia, dopo l’intervento, la soddisfazione della vita e le emozioni positive del gruppo sperimentale in termini di amicizia, risultati accademici, libertà, risultati scolastici e sociali sono state valutate significativamente più alte di quelle del gruppo di controllo. Tali risultati mostrano quindi che un intervento sperimentale può migliorare la soddisfazione della vita e le emozioni positive degli adolescenti.

Conclusioni

In conclusione, l’altruismo può essere un modo efficace per migliorare il benessere soggettivo degli adolescenti. È necessario pertanto creare ambienti che favoriscano l’altruismo, arricchire i programmi di educazione altruistica, svolgere servizi di volontariato a beneficio degli altri ed esplorare costantemente nuove modalità di educazione altruistica che siano coerenti con le caratteristiche dello sviluppo fisico e mentale degli adolescenti; le risorse sociali possono essere un modo per aumentare la frequenza della partecipazione degli studenti in attività altruistiche.

 

Covid e stato mentale

Il Covid-19 sollecita ciascuna vulnerabilità in modo trasversale e colpisce tutte le psicologie: attiva il fobico, scompensa l’ossessivo, stimola il paranoide complottista, sfida il narcisista e confonde il rabbioso.

 

 Il contagio da Covid-19 è in primis di tipo psichico. Infatti, ad oggi diversi studi hanno documentato come la pandemia abbia avuto un significativo impatto psicologico, determinando un incremento della sofferenza, un peggioramento della qualità di vita, dei rapporti affettivi e interpersonali, sia nella popolazione clinica che in quella generale, (Femia et al., 2020; Wang et al., 2020; Qiu et al., 2020; Cullen et al., 2020; Giallonardo et al., 2020).

Ancora prima di contrarre il virus, ci suggestioniamo, ne sentiamo i sintomi, ci preoccupiamo, ci allarmiamo, ci iper-proteggiamo, attuiamo un comportamento iper-prudenziale con inibizione e controllo.

Nonostante sia questo lo stato mentale sperimentato, ancora non diamo la giusta importanza alle evidenti conseguenze psicologiche che viviamo e ai costi morali che stiamo in diversi modi pagando. Minimizziamo e tendiamo a negare lo stato psicologico di sofferenza e disagio; non vogliamo scoprirci deboli e sofferenti?

Trascuriamo forse l’impatto virale di questa pandemia sulle nostre menti: siamo allarmati, stanchi, demoralizzati e sempre attivi a controllare sintomi, contagi, contatti a rischio, contatti occasionali, monitoriamo in modo selettivo i nostri sintomi e le nostre sensazioni fisiche (stanchezza, tosse, spossatezza, sudorazione, confusione) un ragionamento emozionale quasi come avviene in alcuni quadri fobici ed ipocondriaci.

Non riusciamo a riprendere un ritmo di vita normale, un’ombra ci segue e questa rappresenta i nostri comuni timori: malattia, isolamento, morte, responsabilità, contagio, ostracismo sociale, abbandono, solitudine.

Il Covid-19 sollecita ciascuna vulnerabilità in modo trasversale e colpisce tutte le psicologie: attiva il fobico, scompensa l’ossessivo, stimola il paranoide complottista, sfida il narcisista e confonde il rabbioso.

Alcuni si confermano la credenza secondo cui il mondo è malevolo e il futuro nefasto, altri si convincono che vi sia un controllo supremo che vigila, gestisce, boicotta, controlla, e altri ancora si scoprono finalmente fragili e bisognosi.

Insomma, nessuno ne esce immune, persino chi mette in moto tutta la più abile resilienza. Sta durando da troppi anni e la sua cassa di risonanza è davvero potente.

In questi giorni in Cina vengono sacrificati animali, cani e gatti, vengono sequestrati e/o abbandonati ed uccisi: una crudeltà infinita che risponde tanto ad uno spietato bisogno di sopravvivenza quanto ad una irragionevole paura che dilaga e si espande, generando comportamenti di evitamento, lavaggio e aggressività. Questo virus stimola lo stato mentale del contaminato e la tendenza a vivere emozioni di colpa e disgusto con conseguenti ragionamenti di matrice ossessiva o comportamenti fobici e di evitamento.

Alla ricerca di immunità mettiamo in atto evitamenti, condotte di tipo preventivo e in taluni casi distruttive cercando di neutralizzare il rischio di contagio da Covid-19.

Questi comportamenti corrispondono ad un proliferare di problemi ulteriori: scarso contatto sociale, impoverimento dei rapporti affettivi, degli scambi e isolamento; condizioni, queste, che si sommano al problema primario senza riuscire ad annullare il rischio del contagio.

 Il lockdown ha funzionato senza alcun dubbio, il lavoro da casa altrettanto, eppure attualmente, ora che la maggior parte della popolazione è stata vaccinata, le eccessive misure di prevenzione sembrano avere più rischi che vantaggi; forse dovremmo ristrutturare le nostre credenze a riguardo e gestire in modo più funzionale le nostre paure e generalizzazioni.

Inoltre, il Covid-19 sembra determinare una stanchezza prolungata, una sorta di nebbia mentale che ci porta a sentirci deboli e vulnerabili.

In taluni casi sembra essere un vero e proprio fattore di scompenso. In tanti riportano un incremento o un esordio di disagio e sofferenza psicologica; riferiscono spesso emozioni negative di tristezza, ansia con problematiche di angoscia, solitudine, rabbia e correlati comportamentali disfunzionali fra cui insonnia e ritiro sociale.

Sarebbe dunque il caso di iniziare a studiare le conseguenze emotive e psichiche connesse al contagio e al virus Covid-19.

Questo virus ha certamente scosso le nostre menti, riattivato le nostre più sopite paure, sottoponendoci ad altissimi livelli di stress. Minaccia i nostri bisogni di base e i nostri scopi in generale, dal bisogno di vicinanza, al gioco, alla necessità di essere autonomi, forti e indipendenti.

La pandemia sembra avere generato uno stato mentale generalizzato e condiviso di allarme e disagio psicologico che ha messo tutti in contatto con le più profonde debolezze e per molti ha rappresentato elemento di rottura, cambiamento, fallimento.

Una variante dopo l’altra, insomma un’inarrestabile minaccia che ci colpisce in modo imprevedibile, alle volte scompare ed ecco che poi spunta nuovamente, colpendo i più fragili, scombussolando programmi, scomponendo equilibri, generando conflitti e in alcuni casi risorse e cambiamenti.

Rimaniamo accettanti e stoici, ma forse proprio per favorire l’elaborazione dell’evento doloroso, sarebbe opportuno riconoscersi le emozioni e le debolezze senza fingersi ironici, forti e potenti.

 

La funzione risoggettivante

Alcune modalità primitive di deflessione dell’angoscia fondate sull’attacco al legame e fenomenologie correlate di transfert antilibidico perverso: la funzione risoggettivante.

 

Sommario

La prima parte del presente lavoro tenta di raccogliere e commentare alcuni dei principali tipi di transfert considerati in linea di principio intrattabili o difficilmente trattabili, definiti come “antilibidici” ovvero “perversi” in quanto inconclusivi e deneganti l’Oggetto e con esso la figura dell’analista ed i suoi apporti, con particolare riferimento al problema della difficile conclusione del trattamento.

L’Autore tenta di unificare e connettere una serie di relazioni causali con i loro possibili sviluppi in una prospettiva interpretativa, ma anche in qualche modo predittiva, sebbene ancora embrionale.

Particolare attenzione è dedicata alla distinzione tra gli aspetti fenomenologico/descrittivi e quelli che sembrano rappresentare il vero tessuto profondo del problema, anche ricorrendo ad esempi clinici adatti ad un tentativo di tipizzazione.

Nella seconda parte viene proposto un approccio terapeutico atto a focalizzare il lavoro della coppia analitica sui movimenti specifici di “de-soggettualizzazione” e “de-oggettualizzazione” che caratterizzano tali situazioni, e si tenta di rispondere alla domanda: “E’ possibile parlare con il nostro paziente dei motivi che rendono impossibile la sua analisi?”

In tale contesto viene proposto di concettualizzare ed isolare una specifica funzione, definita “risoggettualizzante”, che comprende tutti gli interventi atti ad evidenziare il significato e le modalità con cui le parti scisse dell’ Io del paziente si oppongono attivamente alla vicinanza, per quanto riguarda la capacità di accettare la presenza mutativa di un oggetto-terzo con cui sviluppare una relazione non distruttiva o distrutta,  e la separazione, per quanto riguarda la capacità di tollerare la perdita dello stesso oggetto, finalmente concepito come altro avendo avuto accesso alla posizione depressiva.

Parole-chiave: Transfert, anti-libidico,  transfert perverso, attacco al legame, de-oggettualizzazione, de-soggettualizzazione,  separazione, analisi interminabile.

Introduzione

Nella prima parte del presente lavoro ho inteso raggruppare e commentare alcune delle principali tipologie di transfert considerate in linea di principio analiticamente difficilmente trattabili, da alcuni definite “anti – libidiche” o tout court “perverse”, in quanto inconclusive e deneganti l’oggetto, e, con esso, anche la figura del  terapeuta ed i suoi apporti.

Perfettamente consapevole di quanto possa essere lacunosa ed imprecisa una tipizzazione del genere, mi è sembrato tuttavia utile contribuire a fare il punto su quanto già conosciamo dell’argomento e tentare, a partire dallo studio della letteratura nonché dall’esperienza personale e quella di altri colleghi, di ricapitolare e connettere una serie di rapporti causali con i loro possibili sviluppi in una prospettiva interpretativa, ma anche in qualche modo predittiva, sia pure a livello ancora del tutto embrionale. Particolare attenzione ho voluto dedicare alla distinzione tra gli aspetti fenomenologico – descrittivi e quella che mi è apparsa invece la vera trama profonda del problema, anche ricorrendo ad alcuni esempi che per la loro non – eccezionalità meglio si prestavano ad un tentativo del genere.

Nella seconda parte cercherò invece di delineare un atteggiamento terapeutico volto a focalizzare il dialogo della coppia analitica sugli aspetti specifici di de-soggettualizzazione e/o de-oggettualizzazione che sembrano essere le chiavi di lettura di questi percorsi. La domanda cui tenterò di rispondere è la seguente: “È possibile parlare con il nostro paziente degli aspetti che rendono impossibile (ovvero interminabile) la sua analisi?”

Spero che questo modesto tentativo possa contribuire in qualche misura ad una migliore comprensione  dell’argomento, a mio avviso fondamentale per gli sviluppi futuri della nostra scienza e professionalità, e ad implementarne il dibattito. Spero altresì di sollecitare in questa direzione l’attenzione degli studenti e dei neofiti, aiutandoli in qualche modo a riconoscere per tempo alcune tra le situazioni più spinose e problematiche del nostro lavoro. La seconda parte del contributo, per forza di cose, è principalmente rivolta ai colleghi più esperti.

Definizione del problema

Nella letteratura concernente la terapia di casi difficilmente analizzabili sono ricorrenti le tematiche della  conclusione, sempre così asintotica e problematica, oltreché naturalmente degli esiti, spesso tutt’altro che attendibili, di questi trattamenti. La constatazione è indubbiamente vera, il problema sussiste ed ha una sua  pesante ricaduta sulla fiducia dei pazienti, sullo stress dei terapeuti e sulla rappresentazione collettiva della figura dello psicoterapeuta e dello psicoanalista, i quali logicamente, dal loro punto di vista, si pongono  il  problema di ben condurre e portare a buon fine il proprio compito. Tuttavia, al cospetto di problemi talmente  delicati ed importanti, io credo che dovremmo permetterci una riflessione di ordine più generale, rappresentabile come segue: a) In questi casi così complessi, il problema reale è davvero quello della conclusione del trattamento (e, più latamente, della terminabilità stessa dell’analisi), o non piuttosto quello della sua effettiva efficacia? La questione può essere approfondita, ed assumere la seguente forma: b) Se il concludere in queste situazioni è così difficile, cosa non siamo ancora riusciti a modificare nell’intimo dei nostri pazienti? Da ciò consegue una ulteriore domanda: c) Ciò che non siamo riusciti a modificare è davvero in sé inamovibile, o la sua apparente inamovibilità è dovuta ad una qualche nostra forma di cecità? E se quest’ultima ipotesi è vera, il ragionamento ci porta ad un’ultima questione, inevitabilmente anche in qualche misura provocativa: d) Tale cecità va addebitata ad una pura insufficienza della teoria o della tecnica, o non piuttosto ad una nostra visione unidirezionale e talvolta “perversa” di queste ultime?

Esposizione del problema

Le personalità che stiamo per prendere in esame, pur nelle loro diversità epifenomeniche, hanno fondamentali tratti profondi in comune. Tutte soffrono di un rapporto con l’oggetto interno severamente disturbato, governato da una profondissima invidia che determina per un verso una radicale sfiducia nell’esterno vissuto come persecutorio, e d’altro canto l’incostanza di qualunque forma di autostima, essendo danneggiate in maniera più o meno grave le strutture  primarie che danno l’impulso a vivere ed a relazionarsi. Nei casi in esame, queste parti difettuali rimangono celate, ed a lato di queste l’Io costruisce nel tempo una serie di strutture compensatorie che consentono al soggetto di vivere in apparenza normalmente e di avere una serie di rapporti apparentemente soddisfacenti, e, molto più spesso di quanto comunemente non si creda, anche di un certo successo, pur essendo sostanzialmente fittizi. Su un piano dinamico profondo, infatti, è negata ogni forma di separatezza, poiché nel passaggio verso la posizione depressiva la condizione di alterità si è evidentemente rivelata insostenibile. Il soggetto permane pertanto in una situazione di scissione autoerotica totipotente di refusione materna che difende strenuamente, e dalla quale l’oggetto/altro è bandito e rimpiazzato attraverso un feticcio. Sul piano transferale, ma prima ancora su quello umano e quotidiano, pertanto, il problema di questi pazienti è quello di evitare in ogni modo possibile una vicinanza “vera” che possa in qualche modo  modificare questo antico (dis -) equilibrio attraverso un rapporto mutativo con un oggetto – altro. In questa ottica, nel presente lavoro prenderemo dunque in considerazione cinque tipi di transfert, definibili, in una concezione allargata e non solo inerente la sessualità, come  “perversi”, e precisamente:

  • Transfert ostile/ antilibidico
  • Transfert  “osservativo”
  • Transfert dubbioso/confusivo
  • Transfert fondato sulla “dispersione dei sentimenti”
  • Transfert fondato sulle distorsioni del  Sé.

Il transfert Ostile/Antilibidico

Vorrei anzitutto prendere in esame questa configurazione transferale perché, a mio parere, essa esemplifica, comprende e sottende in qualche modo tutte le altre che seguiranno. Mi riferisco ad un tipo di atteggiamento pervicacemente ostile in pazienti peraltro assai tenacemente attaccati al terapeuta, che portano in seduta solo la rabbia, la lamentela e la recriminazione. Nella lunga e sempre complessa ricostruzione dei loro vissuti, queste persone si descrivono rapportarsi all’altro (che peraltro frequentano, spesso anche con apparente naturalezza) costantemente con riserva e sempre in attesa di disillusioni ed aggressioni, nel proprio intimo svalutandolo e aggredendolo ogni volta spietatamente. Specularmente, è sempre presente l’idea di essere perseguitati da un destino maligno ed avverso insieme ad un’autopercezione di piccolezza, indegnità ed impotenza, contrapposte a figure idealizzate onnipotenti e  irraggiungibili, e come tali odiate e pericolosissime, tra le quali viene naturalmente collocata in maniera più o meno evidente anche quella del terapeuta. La parte cosciente di questo complesso di sentimenti costituisce la fonte di maggior sofferenza da parte del paziente, e pertanto dovrà essere accolta con estrema attenzione e delicatezza in quanto rappresentante attuale di  precocissimi conflitti con figure genitoriali vissute come profondamente distanti, ostili e contraddittorie, odiate ma al contempo idealizzate. In ragione della qualità delle esperienze patite, delle fantasie su queste costruite, e delle circostanze contingenti, l’unica forma di espressione possibile da parte di questi soggetti è pertanto un interminabile “J’accuse” nei confronti delle figure significative, cui esibire continuamente la propria sofferenza ed i propri fallimenti, conseguenza del loro comportamento sbagliato e crudele di genitori incapaci. L’esperienza del dolore e della rabbia cosciente, tuttavia, non costituisce qui l’essenza ultima del problema, che invece si sustanzia e rivela piuttosto nel circulo vitioso che proprio per le sue caratteristiche intrinseche condanna il paziente ad una intima inflessibile conflittualità con i propri oggetti interni, e pertanto ad una sofferenza senza fine, in cui persino i successi vengono vissuti in chiave di rivendicazione maniacale di disprezzo, trionfo e dominio. Dal punto di vista del terapeuta si tratta sempre di un lavoro lungo e talora sfibrante, in cui il silenzio empatico non basta, e dove l’esortazione, la rassicurazione o, peggio, l’apologo ottengono effetti esattamente opposti a quelli desiderati, mentre il paziente rivendica a gran voce il suo diritto al dolore ed alla lamentela e ci rimprovera di essere incomprensivi e ipocriti, di tacere, di non averlo ancora  “guarito” e così via. Nel corso del tempo sono venuto a conoscenza di molte situazioni in cui il problema  è stato affrontato in termini di resistenza e come tale interpretato o “confrontato” al  paziente. L’unico risultato che in tal modo si è ottenuto è stato quello di farlo sentire profondamente incompreso, ancor più malato e sbagliato, e dal suo punto di vista assolutamente a ragione, giacché in tal modo è stata completamente fraintesa quella che era la sua vera “domanda”, e si è perso completamente di vista il fatto che il soggetto con questo tipo di problema è intrappolato in ungioco perverso la cui posta, del tutto inconsapevolmente, è proprio la ratifica dell’incompetenza del terapeuta (così come, originariamente, dei genitori) che gli consentirebbe di trionfare passivamente anche su di lui, inverando con ciò la sua “coazione di destino”. L’esperienza mi ha insegnato anche che, sia che si affronti direttamente il problema, sia che si adotti una linea attendista di puro ascolto empatico, è comunque sempre necessario molto tempo, a volte moltissimo, perché il discorso possa essere compreso a fondo, e con ciò sottrarsi alla tirannia del paradosso che lo governa per orientarsi in direzioni più proficue; e questo perché il soggetto ha appreso ad appagarsi (né d’altro canto avrebbe potuto fare diversamente) del beneficio, del tutto temporaneo ed ingannevole, dell’evacuazione della rabbia originaria proiettata sulle figure significative, ed oggi sul terapeuta.

Tra le tante modalità espressive di questo sentimento così dannoso assume particolare rilievo per il nostro tema la  c.d. “Sindrome di Penelope”, forse la più evidente tra le diverse manifestazioni dell’ostilità rigettante inconscia nei confronti dell’oggetto, ove il paziente distrugge ogni volta, di seduta in seduta, le nuove acquisizioni, quasi che gli fosse impossibile conservarle e renderle operanti, ovvero si rifiutasse di tenerne conto, ricominciando ogni volta da  capo.

Dopo diversi anni di lenta e faticosissima analisi, una paziente di circa cinquant’anni, al termine di una lunga  catena associativa osservò che il senso complessivo della prima parte della seduta poteva riassumersi in un  semplice “tanto non mi cambi”. Le dissi che anche io avevo colto lo stesso messaggio e le sottolineai garbatamente il problema senza aggiungere altro. L’argomento rimase sullo sfondo per diverse sedute, ed io mi limitai a sfiorarlo, in maniera attentamente non provocativa, quando il discorso lo consentiva, finché fu lei stessa a riprenderlo perché “voleva capirlo meglio”; e solo da quel momento in poi poté iniziare, assai lentamente, ad oggettivare questo suo aspetto ferocemente oppositivo ed immobilizzante, riattivando una serie di connessioni che precedentemente aveva colto più volte ma che non era mai riuscita ad utilizzare.

Rimanendo ancora nell’ambito del transfert ostile, una nota a parte, a mio parere, meritano quei soggetti che in seduta si lamentano con particolare accanimento di qualcuno (partner, figure parentali, colleghi, personaggi significativi del presente o anche del passato), ritenuto causa agente di tutti i loro problemi o malesseri. Nella mia esperienza, molte di queste situazioni traggono in inganno lo psicologo di primo livello e lo inducono a prescrizioni di terapie sistemico – relazionali del tutto inutili nei casi in oggetto, giacché il problema non è affatto quello che il paziente crede e vorrebbe farci credere, ma attiene piuttosto al tema qui in discussione, nel caso specifico complicato da un sovrapporsi di operazioni proiettive e di spostamento che non possono certo essere ridotte senza un’attenta ed approfondita analisi del transfert. Direi, anzi, che in circostanze del genere ci si offre l’opportunità di un importante differenziale patognomonico: in situazioni meno severe, di norma, dopo un periodo di ambientazione (e comunque sempre dopo essere stato attentamente ascoltato nelle sue lagnanze), il paziente riesce, sia pure con difficoltà, a convincersi che il vero motivo dell’incontrarsi non è una terapia di coppia o familiare in assenza delle controparti, e/o che il terapeuta non è un avvocato matrimonialista né un esperto in questioni lavorative o sindacali. Quando invece sembra che sia incapace a comprenderlo, e osserviamo ripresentarsi tali argomenti “evasivi” in coincidenza con temi per lui particolarmente implicanti e dolorosi, legittimamente dovremo pensare alle prime manifestazioni di una ben più complessa e strisciante reazione terapeutica negativa, e conseguentemente disporci ad affrontarla attraverso un’approfondita analisi del transfert. Se questa operazione riesce, nel corso del tempo il soggetto potrà iniziare – assai gradatamente – ad oscillare tra momenti in cui ancora prevalgono le parti scisse distruttive ed altri di relativa consapevolezza e talvolta persino di grata partecipazione, che ci segnalano il progressivo svincolarsi di elementi costruttivi dalla trappola dell’invidia. Sarà dunque in questi momenti più facile intervenire, mostrando al paziente i suoi differenti stati d’animo e consentendogli di riconoscere finalmente il suo funzionamento scisso, anche riconnettendolo alla sua storia personale.

Il Transfert Osservativo

Il Transfert Osservativo, che giustamente altri colleghi hanno paragonato ad una situazione di “supervisione” in cui la parte sana dell’Io si lega affettivamente al terapeuta mentre la parte scissa vi si sottrae rendendosi inanalizzabile attraverso l’intenzione profonda non di curare la parte malata, ma piuttosto di apprendere come gestirla ma con l’intima riserva di non dovervi rinunciare.

Questa configurazione evoca tipicamente la perversione sessuale, in particolare esibizionistico/ voyeurista, dove il piacere alimenta ed incoraggia la scissione escludendo l’incontro, evento temibile che sarebbe qui errato riferire all’angoscia di castrazione essendo invece imputabile principalmente alla negazione dell’oggetto – altro.

Da poco avevo accolto un paziente che aveva visto troncata la propria analisi a causa della morte improvvisa del terapeuta. Ciò che lo aveva convinto a riprendere il lavoro analitico era stato un sogno, avuto circa sei mesi dopo la drammatica interruzione, in cui si alzava da un letto su cui vedeva giacere un uomo nudo, morto, e frettolosamente si rivestiva per andarsene. Gli era stato subito chiaro che il morto era il suo analista, ed immediatamente si domandò il perché di quella rappresentazione così particolare. Cosa non era andato per il giusto verso nella loro relazione? Cosa faceva in quel letto, invece di analizzare? La cosa non lo convinceva affatto, e fu con questa domanda che si presentò al mio studio.

Personalmente, ritengo utile qui operare una ulteriore distinzione. Esistono persone ormai incallite nei loro contorti percorsi libidici profondi, i quali “giocano” con le loro perversioni in perfetta egosintonìa, le esibiscono con naturalezza e quasi le propongono al terapeuta, ed altri che invece le subiscono e sinceramente si dolgono di non riuscire a farne a meno. La differenza, anche dal punto di vista dell’aspettativa dei risultati, non è di poco conto.

Un mio paziente, anche lui sulla cinquantina, aveva avuto un percorso terapeutico alquanto complesso e discontinuo, e in più di un’occasione si era lamentato del fatto che i suoi precedenti analisti, arrivati ad un certo punto, “non erano stati in grado di indicargli la via”. Nella sua sofferta narrazione, peraltro puntuale ed onesta, raccontava di averli “provati un po’ tutti”: a suo dire, alcuni continuavano a riproporgli l’Edipo e l’angoscia di castrazione, mentre altri sembravano inerti e privi di strumenti di fronte alla sua depressione ed alle sue perversioni, sessuali e non. Si sentiva umiliato ed incurabile, e soprattutto incompreso nella sua volontà di  capire il problema e tentare di risolverlo, e non riusciva ad accettare l’idea che nessuno riuscisse ad indicargli, come diceva lui, “da che parte guardare”. Dopo diversi anni di lavoro, poiché lui stesso più volte aveva accennato ad una ricorrente percezione di non completa partecipazione alle cose, ed ad una sua peculiare forma di vergogna corporea accompagnata da un sottile “pudore dei sentimenti” che sperimentava in segreto con se stesso fin da bambino, gli proposi di indagare insieme su questi aspetti evitando di ricorrere a teoremi e definizioni già note. Dopo alcuni mesi avevamo raccolto una quantità di informazioni preziose, e fu lui stesso, ad un certo punto, a rendersi conto che, aldilà di tutti i suoi sinceri sforzi intellettuali, recava  in sé una profondissima riserva, una sempre vigile incapacità all’abbandonarsi, una ”distanza” che gli impediva una  piena alleanza terapeutica, e ciò gli consentì di osservarla e discuterla come essenza centrale, tragica, del suo problema.

Il Transfert Dubbioso/Confusivo

Il dubbio cronico, così come anche la confusione nel pensare e nell’esporre, costituiscono forme negate di aggressività distruttiva nei confronti di un oggetto primario percepito come inattendibile e crudele. La rabbia scissa è qui celata sotto le spoglie dell’incertezza, dove oggetto e soggetto vengono alternatamente incolpati ed assolti, distrutti e recuperati in una rimuginazione infinita che non  consente di pervenire ad un pensiero  chiaro e ad un’opinione certa e definitiva su questioni emotivamente e/o affettivamente significative, situazione che tende a contaminare tutto il vissuto ed è potenzialmente in grado di mutilare un’intera esistenza.

Una giovane donna proviene da una famiglia rigidamente gestita da una madre descritta da più parti come “un  carabiniere”, che a vent’anni ancora la “mette in punizione” e decide delle sue scelte in maniera inappellabile. Il padre è persona tutto sommato debole, e nella famiglia svolge un ruolo di puro procacciatore di risorse. Dopo un corso di studi superiori, la giovane inizia l’Università e conosce un uomo di sette anni più grande ma ancora senza un lavoro definito con cui intraprende una relazione assai intensa, ferocemente osteggiata dalla famiglia. In un primo tempo il rapporto sembra fiorire, ed in questo periodo la ragazza ha la prima esperienza  sessuale completa, e trova la forza per contrapporsi ai diversi ostacoli e divieti imposti dalla madre con la connivenza e la partecipazione del marito e dell’altro figlio; ma dopo un paio d’anni la spinta individuativa si esaurisce e il malessere tracima nella relazione iniziando a minarla mettendo in dubbio lo stesso sentimento. I rapporti sessuali si rarefanno o, quando hanno luogo, lei sostiene di “non sentire nulla”, anche se i due sembrano comunque ancora legati da un grande  affetto. A questo punto, però, il partner di lei commette un gravissimo errore: pur innamorato, ma esasperato da una relazione divenuta penosa e insoddisfacente, tradisce la donna e glielo confessa, sottraendole così l’unico punto certo cui aggrapparsi. Lei progressivamente vira sull’immagine idealizzata di un altro uomo “più nobile, più alto e più magro”, ed inizia a tradirlo a sua volta. La relazione nonostante tutto ancora non si estingue, ed alla fine i due addirittura si sposano. Lei cerca l’aiuto di un professionista, ma ben presto il dubbio si insinua anche lì, e la terapia viene interrotta. Un secondo tentativo con un clinico più esperto, ma probabilmente giunto troppo in ritardo, non riesce ad incidere più di tanto sulla comprensione del vero problema. La giovane abortisce per cinque volte nel corso di ben diciassette anni di relazione, di cui sette di matrimonio. Dopo ancora qualche anno i due si lasciano nella più completa reciproca incomprensione. A diversi anni di distanza ho avuto indirettamente notizie di questa persona: per quanto mi è stato dato sapere, ha avuto diversi partner ma non si è più sposata, non ha avuto figli e non ha nemmeno finito l’Università. Lui è diventato un professionista di riconosciuto valore.

Nel transfert, l’atteggiamento descritto si traduce in una sorta di silenziosa, corrosiva ed ingravescente intima riserva che impedisce la piena e fiduciosa adesione al progetto terapeutico e lo mina dall’interno in tutti i modi possibili, giacché il paziente cerca più un punto di vista certo e rassicurante, talora una vera e propria “assoluzione”, che non l’elaborazione del suo tema centrale. Nella mia esperienza, diversamente da altri tipi di transfert perverso che hanno bisogno di molto tempo per evidenziarsi e maturare, tale atteggiamento dovrebbe essere colto il più precocemente possibile per non dare il tempo a questo vero e proprio “sabotatore interno” di fare proseliti tra le parti sane dell’Io. Aldilà di questa precisazione puramente “strategica”, comunque, anche in questo caso come negli altri qui riassunti la questione non si esaurisce di certo liquidandola come resistenza, bensì problematicizzandola, esponendo cioè con chiarezza la situazione al paziente in maniera attiva e creativa, e chiedendo la sua partecipazione nel farsene carico e nel venirne a capo, a pena della non riuscita della terapia; mentre d’altro canto la consapevolezza da parte del paziente che il terapeuta ha colto la vera essenza del problema contribuirà a ripristinarne almeno in parte la fiducia. Io chiamo questo particolare aspetto della mia attività terapeutica, di cui peraltro mi avvalgo esclusivamente nei  casi in oggetto, e che adatto di volta in volta alla situazione obiettiva, “funzione  risoggettivante”,  argomento su cui riferirò meglio più avanti.

Il Transfert Promiscuo

Il transfert promiscuo è da taluno definito, a mio parere inesaustivamente, “di fuga”, fondato sulla continua  sostituzione dell’oggetto e sulla “dispersione dei sentimenti”. L’incostanza e la mutevolezza degli attaccamenti rende questo tipo di paziente difficilmente trattabile, giacché la sua personalissima coazione a ripetere consiste proprio nel distruggere ogni potenziale legame significativo prima che possa consolidarsi come tale. Nella storia di queste personalità è quasi sempre possibile rinvenire severe delusioni subìte precocemente da parte di genitori percepiti come indifferenti e più o meno inconsciamente sadici, tali da indurre il bambino a non affidarsi ed a non dipendere mai più da nessuno.

Una giovane e piacevole signora chiese il mio aiuto per una serie impressionante di fallimenti sentimentali. Viveva con un uomo ormai da parecchio tempo, ma dissapori ed incomprensioni iniziavano ormai a susseguirsi in maniera assai disturbante, sì da indurla a pensare di tornare a vivere da sola con la figlia. Iniziò a raccontare la sua storia, e ben presto si evidenziarono un padre completamente assente ed una conflittualità spietata con la madre, tale da indurla ad abbandonare la casa dei genitori all’età di quattordici anni. Aveva inizialmente vissuto di espedienti, ma dopo molti anni era finalmente riuscita ad approdare ad una condizione di relativo benessere aprendo una piccola attività: la vicenda sembrava dunque essersi finalmente risolta per il meglio, tranne per questi aspetti di inconcludenza ed insofferenza affettiva per i quali la signora era venuta in terapia e che le “distruggevano la vita”. Sembrava contenta di venire in seduta ed era spigliata e loquace, ma io percepivo che il suo raccontarsi aveva un che di sfuggente e sottilmente imprendibile, un che di distante che lasciava una sensazione come di “lavorare con la sabbia”, senza  riuscire a lasciare un segno stabile né un sedimentato del detto. Infastidito e preoccupato da questa sensazione così particolare e spiacevole, proposi la questione al mio supervisore di allora che mi suggerì di proporle di vederci con maggior frequenza per poterla seguire meglio in un momento talmente delicato della sua vita. Il provvedimento si rivelò ben presto un gravissimo errore. La reazione fu immediata, il clima delle sedute cambiò radicalmente e la donna si ritirò su posizioni esplicitamente difensive. Io stesso d’altro canto, all’epoca molto meno esperto, non trovai altra  soluzione se non quella di arroccarmi su argomentazioni tecniche, peggiorando ulteriormente le cose. Dopo altri due incontri la paziente mi avvertì che non sarebbe più venuta, cosa che infatti puntualmente accadde.

Avendo avuto in seguito più volte l’occasione di trattare situazioni simili, ed avendo sperimentato altre diverse  modalità di approccio, la mia netta impressione è che l’unico modo possibile per avvicinare questo tipo di  problematica sia esattamente l’opposto di quello che la tecnica generale raccomanderebbe – segnatamente, una cadenza più serrata delle sedute ed un particolare rigore nella gestione degli aspetti contenitivi del setting. E’ indubbiamente condivisibile che in situazioni meno severe ed in altri contesti storici e culturali certe logiche precauzioni possano o potessero raggiungere il loro scopo: di certo però, in questi casi, ed a maggior ragione in un tessuto socioculturale come quello attuale, in cui concetti quali “libertà” e “regola” sono interpretati in maniera talmente soggettiva e confusa, tali accorgimenti tecnici rischiano di ricalcare esattamente ciò che questo tipo di paziente teme di più, cioè essere ricondotto ed imprigionato all’interno di una situazione sadica e vessatoria, evocativa di quella dalla quale era riuscito a svincolarsi a prezzo di distorsioni e fratture interne dolorosissime. Per questi motivi mi sono convinto che l’unico modo possibile per approcciare questo tipo di personalità consista nell’offrire uno spazio espressivo in cui liberamente raccontarsi, sottoponendola al minor numero di condizioni possibile, senza peraltro fare “concessioni” che alterino la giusta asimmetria del rapporto, ma semplicemente adeguandosi alla situazione oggettiva, evitando di chiedere al paziente ciò che questi non è, almeno attualmente, in grado di dare. Il compito dell’analista in tali contigenze non si esaurisce tuttavia in queste misure precauzionali: se il paziente ce ne lascia il tempo, occorre essere pronti a cogliere i segni di un abbandono precoce della terapia (un sogno caratteristico di tali situazioni è la ripetuta rappresentazione di un litigio tra persone significative) interpretando il vissuto transferale in modalità insatura e chiarendone i risvolti anche in relazione alle prime vicende familiari del soggetto, e questo deve essere fatto al più presto e nella maniera più chiara e rassicurante possibile, con l’intendimento profondo di facilitare l’alleanza terapeutica ed evitando di mettere il paziente alle strette, assumendo piuttosto un atteggiamento “enzimatico” di riflessione e  poi di problematicizzazione.

Svalutazione del Sé / Falso Sé

Le reazioni transferali fondate sulle distorsioni del Sé sono a mio parere le più complesse e per certi versi le più interessanti e sorprendenti. Stupiscono e lasciano sovente “spiazzati” le modalità, a loro modo creative, con cui questi pazienti hanno appreso a proteggersi dalle irruzioni penetrative e violente delle persone per loro significative anche a costo di uscire temporaneamente fuori dai limiti del pensiero logico per poi rientrarvi con la massima naturalezza. Nell’esempio che segue si può ben cogliere il funzionamento scissionale del  soggetto, in questo caso singolarmente vicino al livello di coscienza.

Il paziente, un militare di circa quarant’anni, inviatomi da un collega psichiatra con una diagnosi di “personalità  infantile” con la puntualizzazione “non psicotica”, aveva subito in maniera annichilente il rapporto con il  padre, un uomo dalle idee chiare su tutto e che si era “fatto da sé” sotto ogni riguardo, soverchiando completamente  qualsiasi compensazione materna ed inducendo nel figlio un legame di rabbiosa quanto impotente sottomissione e dipendenza. In seduta, questo paziente tendeva ad esprimersi in terza persona, e solo dopo diversi anni aveva trovato il coraggio di farsi carico delle cose di cui parlava. La sua narrazione era tuttavia ancora elusiva, spersonalizzata e talvolta semidelirante: la sua infanzia era singolarmente ricca di  dimenticanze, di vuoti e di assenze, e lo stesso rapporto con la madre era stato completamente rimosso. Sorpreso nella prima giovinezza a masturbarsi, il ragazzino aveva strutturato la percezione di essere “immondo” (sic), ed un tale terrore del rimprovero paterno da inibirsi completamente qualsiasi tipo di rapporto  con l’altro sesso, tanto da essere ancora vergine alla sua età. Ma era andato ben oltre le pure faccende sessuali. Sentendosi – e ritengo a ragione – perennemente osservato e valutato a tutto campo dal padre, pur rendendosi perfettamente conto dell’illogicità di certe sue operazioni mentali, se da un lato lo aggrediva continuamente con domande reiterate sciocche e petulanti, dall’altro si “infilava nella sua mente” per carpire il segreto della sua forza, per ispirarsi a lui e per evitare i suoi terribili rimproveri anticipandone il pensiero. Infine, poiché doveva conciliare queste fantasie idealizzanti con la sua spaventosa angoscia di castrazione, si costringeva a pensare che il padre, come anche il sottoscritto,”veri uomini che non pensano a certe sciocchezze immorali”, non avessimo o non avessimo avuto una vita sessuale.

Quest’uomo aveva portato avanti sin da piccolissimo una sua silenziosa rivolta, ben esemplificata in un sogno di inizio analisi; anzi, era stato proprio in ragione di questo che avevo sperato in un esito positivo del trattamento. “Sono in  divisa, al cospetto del Presidente della Repubblica. Mentre lo guardo, intimorito, mi accorgo che i calzini che indossavo non erano d’ordinanza. Dovevo essermi sbagliato nel vestirmi per partecipare alla cerimonia”.

Nonostante le mie speranze, la rivolta, nata silenziosa, tale sarebbe rimasta ancora per lungo tempo, e, in barba a tutte le mie buone intenzioni, si sarebbe indirizzata anche contro il nostro lavoro sotto la forma di una negata, ostile e terrorizzata immobilità. Il paziente fingeva di non capire ciò che andavamo dicendo, ma, messo alle strette, ammetteva esplicitamente di aver capito perfettamente tutto e di star facendo, come diceva lui stesso, il “pesce in barile”. Ogni nuova acquisizione o scoperta veniva di volta in volta soffocata da fiumi di sintomi, e messa in discussione da contorsioni logiche al limite del delirante, della cui natura del tutto irrazionale il paziente si  dichiarava tuttavia perfettamente consapevole, rivendicandole al tempo stesso come “unica soluzione possibile”. Dopo diversi anni, approfittando del fatto che il padre gli aveva detto che il nostro lavoro lo aveva “molto migliorato”, cominciò ad accennare di voler concludere il trattamento, profondendosi in ringraziamenti per il mio aiuto e asserendo di essere “fermamente deciso ad abolire la sessualità dalla sua vita”, ma al contempo dichiarando con tranquilla naturalezza che sapeva benissimo che non era possibile e che quindi non ci sarebbe mai riuscito. Proprio alla fine di una seduta che pensavo sarebbe stata una delle ultime, ebbi un agito, e mi lasciai scappare un moto di stizza dicendogli: ”Ma Lei se ne frega proprio della ragione!” Mi guardò perplesso e fece un cenno di assenso con il capo, dopodiché se ne andò. La seduta successiva, sorprendentemente, il suo atteggiamento era mutato. La difesa stolida aveva ceduto, e il  paziente  iniziò a confidarmi i suoi reali timori e perplessità rispetto ad un eventuale cambiamento in maniera assai più ragionevole e concreta del consueto. La sua analisi è tuttora in corso… ma forse sarebbe meglio dire che è finalmente iniziata.

Devo confessare di essermi a lungo interrogato su questo caso, ed ancor oggi di non aver trovato una risposta  soddisfacente sul come avrei potuto diversamente, e con quali esiti, condurlo. L’impressione, chiarissima, è che le regole apparentemente complesse ma in realtà naturali e logicamente congruenti della teoria e della tecnica analitica fossero ogni volta aggirate da una parte di personalità rotta a tutte le strategie più mimetiche, e che sotto le spoglie di un’apparente stolidità agisse un acuto osservatore dotato di grande predittività tattica ed intelligenza che solo il mio involontario intervento di confrontazione, imprevedibile quanto violento, era riuscito a sorprendere, peraltro senza alcun merito specifico da parte del sottoscritto, ma in maniera una volta tanto significativa.

La “funzione risoggettivante”

È esperienza condivisa dalla collegialità psicoanalitica la constatazione della complessità, delicatezza ed aleatorietà implicita a percorsi terapeutici come quelli qui descritti, come già detto con particolare riguardo al tema della conclusione. Anche la stessa letteratura, di fronte a queste situazioni, si limita per lo più a rileggere  e descrivere, sin troppo spesso incorrendo in diligenti ricapitolazioni del noto in un’esegesi a volte assai raffinata ma che di rado riesce a suggerirci, se non altro in via ipotetica, qualcosa di più. Per tentare di chiarire queste difficoltà sono state chiamate in causa motivazioni diverse, dalla “debolezza” al “non – lavoro” dell’Io, tutte sostenute con  argomentazioni importanti e sottili che indubbiamente rappresentano un potente sforzo di comprensione. Tuttavia, il descrivere un fenomeno non conduce necessariamente a chiarire le personalissime ragioni del perché accada nella situazione data. Riprendendo quanto affermato in premessa al presente lavoro, a suo tempo mi sono chiesto invece se non fosse possibile, ed eventualmente in che modo, riattivare in funzione di pensiero le risorse del  paziente a favore del lavoro analitico.

L’origine di un tale interrogarsi risale all’inizio degli anni ’80, e nasce da una discussione con un mio supervisore di allora a proposito dell’interpretare o meno l’invidia primaria. Persona degnissima e di grande valore, egli sosteneva che l’invidia del paziente non dovesse essere interpretata, a pena di un’ulteriore implementazione di questa, con conseguenze catastrofiche sull’intero processo. Io obiettavo con forza che tuttavia un capitolo così ingombrante e potenzialmente immobilizzante del lavoro non poteva comunque essere lasciato all’intuizione del soggetto, e che una teorizzazione di tale importanza doveva invece essere indicata, spiegata e partecipata al paziente perché potesse avvalersene. La risposta fu che dovevo “decidere se fare il freudiano o il kleiniano”, il che, per inciso, contribuì non poco a ridimensionare, salutarmente, la mia idealizzazione giovanile della figura del didatta. Ho ritrovato situazioni analoghe assai spesso nel corso della vita: ogni volta sembrava che, in funzione dell’area di appartenenza, certi temi non potessero essere accolti e discussi, quasi fossero un tabù, e che seguire un filone di pensiero dovesse necessariamente escludere le scoperte dell’altro; e mi tornava continuamente alla memoria quell’affermazione straordinaria di Freud per la quale “ha diritto a chiamarsi psicoanalista chiunque lavori sul transfert e sulla resistenza, anche se arriva a risultati diversi dai miei”. Solo molto più tardi avrei compreso appieno quanto l’appartenenza possa pesare anche sulla riflessione scientifica, e quanto l’asseverazione ed il ribadimento delle certezze, o presunte tali, confluisca e diventi elemento  cementante il narcisismo secondario, entrando con ciò a far parte stabilmente del Sé adulto: un atteggiamento  certamente comprensibile e tutto sommato legittimo nelle questioni banali, ma che costituisce una formidabile  ipoteca nei confronti del nuovo, o perlomeno del nuovo non scelto da noi. Per avere un quadro complessivo e più preciso della questione ripresi attentamente in considerazione l’intera storia del movimento psicoanalitico, e  giunsi a pormi la domanda se certe divisioni e determinate apparenti inconciliabilità teoriche non fossero in gran parte da imputare più a difficoltà di comunicazione tra precursori che non a dati oggettivi. Da allora la mia ricerca personale culturale e teorica volge più al riconciliare che non a dividere: e così, ad esempio, arrivo al convincimento che la perversione sessuale sia epifenomeno di ben altre più intime e profonde “perversioni”, il cui vero senso è da ricercarsi in un Io mai stabilmente costituito ed anzi continuamente autoaggredito in quanto percepito come povero, inferiore e mutilato, irrimediabilmente sconfitto e pieno di vergogna e di rabbia. Se tali premesse sono corrette, non dovrebbe meravigliarci più di tanto che taluni dei nostri pazienti si attardino per anni a rimpiangersi ed a compiangersi, consumandosi nel corpo a corpo con un oggetto interno bramato ma al contempo rifiutante e rifiutato, né che altri, pur chiedendo disperatamente aiuto, non possano accoglierlo ed anzi tentino di prenderne in ogni modo possibile le distanze in quanto rappresentante di un altro che non riescono a far proprio non avendolo mai pienamente riconosciuto; o che, ancora, in queste disperate solitudini la mente cerchi le soluzioni più bizzarre pur di non entrare in contatto con la propria intima tragedia. Né dovrebbe stupirci, infine, che queste persone non riescano ad elaborare né una vera vicinanza né un distacco conclusivo dal proprio terapeuta, perché – volendo semplificare in modo estremo – si sta troppo bene, accuditi da un fantasma cui puoi dire tutto senza il timore del giudizio, che ti ascolta senza parlare più di tanto, con cui puoi anche litigare ma che sta sempre attento a non ferirti e che forse, chissà, ti vuole anche un po’ di bene, pur con tutti i tuoi ignobili difetti. Nella lamentata difficoltà a concludere questi trattamenti, destinata a concretizzarsi il più delle volte in una separazione imposta, io vedo piuttosto una conclusione assente, un non – esito dovuto ad una insufficiente elaborazione del tema ultimo, che consiste, per quanto ho potuto osservare, in una ferma opposizione di una parte scissa dell’Io a consentire l’accesso sulla  scena psichica del terzo separante, e ciò in ragione: 1) sul versante materno, delle circostanze specifiche che hanno perturbato e interrotto il naturale transito dalla dipendenza assoluta all’esperienza della continuità del Sé, al sano costituirsi come soggetto e sino alla rottura della relazione diadica primaria, e 2) della  presenza di un padre reale che non si è  prestato ai suoi compiti di accoglimento, di guida e di idealizzazione, ovvero si è mostrato disinteressato, anempatico o addirittura rigettante, tale da generare a sua volta nel bambino una reazione di ripulsa e di parziale refusione con l’oggetto primario, sebbene in  forma scissa.

Il compito dell’analista è di far sì che tutto questo coacervo di emozioni e sentimenti possa essere portato alla luce e diventi oggetto di pensiero, estraendolo dal magma indifferenziato e antichissimo che lo ha generato. Nel mio lavoro quotidiano, io ho trovato utile concettualizzare ed isolare una funzione specifica che ho denominato “risoggettivante”, che comprende tutto il complesso degli interventi che si propongono di evidenziare il senso e le modalità attraverso cui  la parte scissa dell’Io del paziente 1) si oppone attivamente ad una vera vicinanza,  non potendo accettare la  presenza “mutativa” di un oggetto – terzo con cui intessere una relazione non distrutta o distruttiva; e conseguentemente 2) non può nemmeno acconsentire ad una vera separazione, esito ultimo ed inevitabile del riconoscimento e dell’accoglimento della parte scissa in un Io finalmente integrato, permanendo invece in una sorta di “attaccamento evitante” viscerale e simbolico, destinato a protrarsi all’infinito. Mi propongo, in altri termini, di richiamare gradatamente alla coscienza e di implicare più direttamente quella parte dell’Io che si oppone all’integrazione cogliendone le segrete personalissime motivazioni, portandole alla luce ed aiutando il paziente ad elaborarle: riconsegnare cioè all’Io del soggetto una parte che, a mio modo di vedere,  non è né assente, né debole né sopita, ma anzi attivissima e ferocemente risoluta a non evolvere, che recita – anche qui semplificando – “Voglio stare nella fusione ed essere accudito fin quando mi parrà, perché mi sono state negate delle cose per me fondamentali e devo riaverle a qualunque costo”, senza mettere però in conto che si tratta di una fusione pericolosissima con un oggetto bramato ma al contempo odiato, distrutto e tossico, destinato a promuovere sofferenze inaudite che possono durare tutta una vita. Perdendo di vista questi aspetti e non intervenendovi, pertanto, l’analista potrebbe diventare persino una figura iatrogena, come talvolta abbiamo visto, purtroppo, accadere.

Sarebbe difficile in questo breve spazio enunciare un “metodo”, oppure elencare una serie di esempi su come porre in essere la “funzione risoggettivante”, ma confido che una riflessione attenta su quanto vado esponendo possa valere se non altro a introdurla con una certa efficacia, e mi limito dunque qui a ricapitolarne il nodo centrale, così come posta nell’incipit: “È possibile parlare con il nostro paziente degli aspetti che rendono impossibile (e/o interminabile) la sua analisi?” Affogare lo spazio analitico – così come del resto tutta la propria vita – in un mare di recriminazioni e di autocommiserazioni, sterilizzarlo nel dubbio ossessivo o nella rivolta rabbiosa, tenerlo a distanza pur giocando sadicamente al suo interno, o stravolgerlo attraverso spericolate acrobazie mentali, non possono a questo punto essere intesi come meri atteggiamenti difensivi quali erano originariamente e come si presentano nel paziente nevrotico, ma meriterebbero piuttosto, a mio parere, di essere considerati e trattati come veri e propri stati della vita psichica, di cui vanno enucleate le ragioni ed il senso, indicandoli e problematicizzandoli al paziente, perché possa, Deo concedente, sottrarsene.

L’atteggiamento terapeutico “risoggettivante” comporta da parte dell’analista un’acuta capacità di sintesi nel ricongiungere il pregresso al “qui ed ora”, estrapolando il significato complessivo di una storia e cogliendo il  senso del nostro intervenire, nel momento dato, in quella storia; e soprattutto, una acquisita abilità a cogliere quel che accade sotto e prima delle parole attraverso un’abitudine al “salto di livello” logico che si affina solo con l’esperienza ed il metodo, e che talora per essere compreso deve parzialmente prescindere persino dalle libere associazioni, o perlomeno dallo “strato superiore” di queste. Questo modo di procedere, che, ribadisco, adotto solo nei casi in oggetto, merita almeno due considerazioni, la prima riguardante la tecnica, e la seconda che coinvolge anche la rappresentazione che noi analisti abbiamo di noi stessi e della nostra professionalità. 1) La posizione di attesa del terapeuta, che pure è e rimane l’unica possibile nei trattamenti “classici”, ci colloca però in una situazione di cronico svantaggio rispetto alle segrete alchimie mentali della parte scissa dell’Io del paziente, laddove la funzione risoggettivante richiede invece una quantità discreta di iniziativa da parte dell’analista, e una certa dose di adduzione, comportante un aumentato margine di possibile errore rispetto alla classica interpretazione “di rimessa”; e, 2) La funzione risoggettivante mette in discussione, anche se solo in contingenze ben determinate, la visione dell’analista come puro ed ineffabile specchio opaco in attesa delle scoperte del suo paziente, o altrimenti in flagrante violazione del principio di astinenza se non addirittura in odore di manipolazione del transfert, ma introduce piuttosto nella terapia un momento attivo lucidamente  ponderato e dosato in cui scientemente il clinico propone alcune informazioni strutturanti, prodotto di una metariflessione mirata e specifica che, vorrei sottolineare, non si concretizza in roboanti pamphlet, né in sofisticate elucubrazioni metapsicologiche, quanto piuttosto in una maieutica, spesso riassunta in una frase, o in una spiegazione semplice e chiara, o meglio ancora in una confrontazione con aspetti profondi di cui il paziente non è consapevole ma che, se ben proposti, non tarda a riconoscere come propri.

Anche sulla questione del timing, cioè sul quando intervenire in maniera più attiva per confrontare ed illustrare al paziente le sue dinamiche profonde antilibidiche, o proporgli il problema, o, ancora, aiutarlo a comprendere,  non è possibile almeno per ora essere più precisi. Come ho tentato di spiegare nella prima parte del lavoro, vi sono situazioni in cui il tema può essere problematicizzato precocemente, altre in cui emerge lentamente, e altre in cui non emergerebbe mai, portando l’analisi avanti all’infinito, se non fossimo noi terapeuti ad accorgercene ed a proporlo. Come si può vedere, l’intera concettualizzazione è ancora assai grezza ed embrionale, anche se, avendola sperimentata per diversi anni, posso dire di aver osservato aspetti assai interessanti.

Il tema della legittimità dell’intervento attivo da parte dell’analista è complesso, e certamente, non possiamo aspettarci che argomentazioni talmente delicate possano essere prese in considerazione con sempre eguale disponibilità e simpatia. Ci consoleremo tuttavia pensando che, almeno per quanto ci consta, Freud era tutt’altro che impenetrabile e passivo nel condurre le sue sedute, e ricordando come già nel 1913, nei “Nuovi Consigli”,  paragonava lo svolgimento dell’analisi ad una partita a scacchi di cui si potevano postulare solo le prime mosse, confessando schiettamente il  timore che il neofita, pur applicando alla lettera i suoi suggerimenti, potesse egualmente “trovarsi ben presto nei guai”, per cui avvertiva di doversi limitare a tracciare le linee di “un trattamento mediamente appropriato”; ma non poteva astenersi dal precisare anche che “la straordinaria diversità delle costellazioni psichiche di cui siamo costretti a tener  conto, la plasticità di tutti i processi psichici e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti, sono  tutti elementi che si oppongono ad una standardizzazione della tecnica” (Ibidem).

Conclusioni

Credo fermamente che lo studio approfondito delle situazioni transferali solitamente ritenute intrattabili in analisi sia potenzialmente in grado di aprire nuovi straordinari orizzonti alla teoria ed alla tecnica. A mio parere, l’assunto dal quale dobbiamo comunque partire in questi casi così problematici è che chi detta legge non è l’Io cooperante ma le sue parti scisse, e che quindi, volenti o nolenti, siamo costretti a trovare un modo per venirvi a patti. Certamente per poter sconfiggere forze potenti e primitive quali quelle che hanno promosso la scissione dell’Io e la negazione dell’oggetto – altro dobbiamo poter contare su risorse fuori dal comune per ambedue i componenti la coppia analitica: pazienza, intelligenza, plasticità, desiderio incondizionato di conoscere e di comprendere; ma tutto questo da solo non basta, a meno di non affidarsi al caso e alle buone intenzioni. Più produttivo mi è apparso, invece, affrontare questi  temi così complessi a partire dalle risorse disponibili, e segnatamente dallo studio delle dinamiche di personalità, il che dà ragione della  prima parte del presente contributo. Su tali assunti, nella seconda parte ho tentato di suggerire una direzione, un “dove  guardare” atto, forse, a favorire, se e dove possibile, un avvicinamento ed una mediazione con le parti  dell’Io  rigettanti  o forcludenti.

Concludendo, osserviamo che, se utilizzate passivamente e senza rispetto per il divenire della conoscenza, alcune concettualizzazioni “storiche” del pensare psicoanalitico possono “pervertirsi” e limitare severamente le indicazioni all’uso dello strumento, rischiando anzi talvolta di contribuire nel ridurlo a feticcio. Temi fondanti, quali la resistenza al trattamento o la stessa reazione terapeutica negativa, se chiamate in causa semplicemente perché il paziente non reagisce come ci aspetteremmo, o come vorremmo che reagisse, indirettamente asseverano e ribadiscono che il trattamento è di per sé perfetto e imperfettibile, la qual cosa con ogni evidenza è infalsificabile ed antiscientifica, etichettando il soggetto come incurabile invece di porsi il problema di come curarlo. Non v’è dubbio che le modalità di non – rapporto con l’oggetto sopra descritte abbiano anche una potente valenza difensiva, ma limitarsi a rilevarne solo questo aspetto preclude la possibilità di indagarne e penetrarne la natura attuale di “status”, negandone al contempo la vera essenza tragica, che invece rappresenta, almeno a mio parere e per la mia esperienza, la reale “domanda” profonda del nostro paziente, al di là e prima delle sue perversioni e dei suoi comportamenti perversi.

 

Incantato. Dentro gli attacchi di panico (2022) – Recensione del libro

Incantato. Dentro gli attacchi di panico è uno spaccato quotidiano e autentico sul disturbo d’ansia, un romanzo pensato e composto per raccontare un punto di vista personale sul lento percorso di accettazione del proprio malessere psicologico.

 

 Il testo rappresenta un mattoncino importante nella lotta contro lo stigma sociale che circonda la salute mentale, a partire dal titolo che si serve della polisemia dell’aggettivo incantato per rimandare al blocco, nel quale spesso ci si ritrova arrestati quando si soffre di un disturbo d’ansia, e alla fascinazione derivata dai risvolti positivi che un malessere del genere può comportare.

Il protagonista è Lorenzo, un giovane insegnante la cui vita viene sconvolta dall’arrivo improvviso di attacchi di panico, invalidanti e ricorrenti, a cui si aggiungono un’ossessiva ruminazione mentale, in un turbinio di interrogativi esistenziali senza chiara risposta – Che senso ha la vita? Che cos’è il tempo? È possibile essere felici nel presente? –, e il terrore di essere sull’orlo della pazzia.

Lorenzo tenterà diverse strade e attuerà vari escamotage, con la credenza di potercela fare da solo e risolvere razionalmente ciò che definiva il suo “disordine emotivo”.

 Sarà lungo il percorso di accettazione e presa di coscienza della problematica psicologica che lo attanaglia, difficile la decisione di rivolgersi ad un professionista della salute mentale – inizialmente, uno psichiatra, soltanto dopo una psicoterapeuta – una scelta sofferta, elaborata dopo una serie di accertamenti medici e tante elucubrazioni mentali.

Ecco un breve stralcio della prima seduta psicologica:

Sì, ma non pensavo che la psicoterapia potesse davvero aiutarmi, così ho rimandato. Pensavo di poter risolvere il problema da solo.

E come ci hai provato? 

In tantissimi modi: ho ridotto le uscite, evitando determinati luoghi, ho cambiato un bel pezzo della mia alimentazione, diminuito l’alcol e l’uso di cannabis, e pensavo di non tornare più in classe.

Il percorso si rivelerà faticoso ma inaspettatamente utile per Lorenzo. Dovrà rielaborare un profondo vissuto di vergogna – non mi perdonavo per quello che mi stava accadendo – e affrontare un importante disorientamento identitario in base al quale si chiederà più volte dove sia finito il solito Lorenzo.

In conclusione, Incantato. Dentro gli attacchi di panico è un racconto scorrevole e di piacevole lettura, che offre una fotografia realistica sulla quotidianità stravolta dall’arrivo di un disturbo d’ansia, con le conseguenze psicologiche, socio-relazionali e lavorative che ne derivano.

 

Il ruolo dei disturbi alimentari nella relazione di coppia

Le coppie nelle quali è presente un disturbo alimentare hanno riportato uno stress relazionale significativo, oltre a una ridotta frequenza di interazioni definite positive, come una comunicazione efficace e assertiva o il passare del tempo insieme.

 

 La presenza di disturbi alimentari sta aumentando sempre più anche in individui di età adulta (Dick et al., 2013). Ciò aumenta il numero di coppie, sposate o non, in cui almeno uno dei due partner è affetto da un disturbo alimentare, prevalentemente persone di genere femminile. La presenza di un disturbo alimentare nella diade relazionale può causare una serie di problematiche che possono compromettere la qualità della relazione (Dick et al., 2013). Il legame tra rapporti sentimentali e disturbi alimentari è tuttora oggetto di indagine, in quanto molti clinici ritengono che la relazione tra donne con un disturbo alimentare e i loro partner possa avere un ruolo chiave riguardo all’esordio e al mantenimento dei sintomi (Arcelus et al., 2012).

I disturbi alimentari e le relazioni interpersonali

Gli individui con un disturbo alimentare riescono ad inserirsi a livello sociale similmente a coloro che non presentano tale diagnosi, ma faticano maggiormente a mantenere un legame con le altre persone (Kirby et al., 2015). Ciò è dovuto al fatto che il disturbo alimentare non provoca stress solamente in chi ne è affetto, ma anche nelle persone che lo circondano. Le coppie dove è presente un disturbo alimentare hanno riportato uno stress relazionale significativo, oltre a una ridotta frequenza di interazioni definite positive, come una comunicazione efficace e assertiva o il passare del tempo insieme.

È stato osservato che le coppie in cui almeno un membro è affetto da un disturbo alimentare tendono ad avere un numero maggiore di argomenti di discussione rispetto alle altre coppie (Dick et al., 2013). Tuttavia, le discussioni tra i partner sembrano essere emotivamente più intense, soprattutto su argomenti come la vita sessuale, il temperamento dell’altro o il livello di affetto dimostrato. Anche la comunicazione relazionale sembra essere più complicata, a causa del frequente senso di segretezza che ruota attorno ai disturbi alimentari, poiché l’individuo che ne soffre ha timore che parlando della propria problematica alimentare possano essere rivelati altri eventi particolari e/o traumatici (per esempio abusi in infanzia), o perché teme di esperire emozioni negative come la rabbia o la paura di essere umiliato.

Difficoltà nella coppia in base al tipo di disturbo alimentare

Le difficoltà relazionali causate dalla presenza di disturbi alimentari si configurano in modo differente in base alla loro tipologia di disturbo.

 Individui che soffrono di Anoressia Nervosa tendono ad essere emotivamente evitanti e faticano ad esprimere i propri sentimenti: ciò rischia di compromettere sia la loro capacità di esprimere i propri bisogni, sia la capacità di tollerare lo stress relazionale (Kirby et al., 2015). Le persone con Bulimia Nervosa mancano generalmente di skills di comunicazione costruttiva e tendono a essere spesso impulsivi, entrambi fattori che possono compromettere la stabilità relazionale. Partner che soffrono di Binge-Eating Disorder esperiscono emozioni in maniera intensa e riportano difficoltà con gli ambienti restrittivi tipici della relazione sentimentale, ciò può contribuire a percepire l’esperienza interpersonale come fortemente stressante. Caratteristica comune di tutti i disturbi alimentari è il forte senso di vergogna verso la propria immagine corporea, con conseguente aumento di ansia in situazioni intime in cui normalmente si mostrerebbe il proprio corpo.

Inoltre, i cambiamenti ormonali causati dai disturbi alimentari comportano una riduzione della libido, con conseguente diminuzione di interesse verso il rapporto sessuale e la possibilità di generare dubbi nel partner riguardo l’intenzione da parte dell’altro di essere ingaggiato nella relazione (Kirby et al., 2015).

Disturbi alimentari e vissuto dei partner

Spesso, anche i partner riferiscono difficoltà nel gestire una relazione con una persona che soffre di disturbi alimentari, in quanto la vita di coppia in questo caso viene vissuta come estremamente complicata (Kirby et al., 2015). Molti partner riportano sensazioni di impotenza nei confronti del proprio compagno e alcuni possono diventare timorosi rispetto alla possibilità di comunicare o fare qualcosa che possa essere percepito come dannoso o controproducente per l’altro. La voglia di aiutare il proprio partner con un disturbo alimentare, ma senza sapere come fare, viene frequentemente vissuta come un aspetto che rischia di causare un forte stress che può inficiare ancora una volta il benessere della coppia.

Proprio per il fatto che i disturbi alimentari e le relazioni sentimentali spesso si influenzano mutualmente, può essere utile cercare un supporto psicologico anche per il partner.

 

PTSD nei bambini terremotati. Il protocollo CBT – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel secondo episodio si parla del protocollo CBT per i bambini terremotati con la Dott.ssa Forresi.

 

Dove ascoltare il secondo episodio:

 

“Parla come mangi” non di come mangi. Effetti di diet talk e body talk

Diet Talk e Body Talk sembrano essere possibili fattori di rischio per lo sviluppo di Disturbi dell’Alimentazione.

 

“Ma tu mangi i carboidrati anche a cena?”

“Ma sei dimagrita? Come stai bene!”

“Questo non lo mangio, troppo calorico!”

“Starebbe meglio con qualche kg in più, è troppo magra!”

 Quante volte avete sentito queste frasi? Quante volte siete stati voi stessi a pronunciarle?

Questi, sono solo alcuni esempi di due fenomeni sempre più diffusi, il Diet Talk e il Body Talk. Con questi termini si intende la tendenza a fare riferimento, in modo frequente all’interno delle conversazioni, alla dieta, al controllo dell’alimentazione, del peso e della forma del corpo, propri e altrui, con un’accezione negativa, vale a dire dipingendoli come qualcosa da dover controllare e giudicare nell’ottica di raggiungere un determinato aspetto fisico e/o uno specifico stile alimentare.

Diet Talk e Body Talk nella società occidentale

Non stupisce il fatto che questi fenomeni si siano fatti negli anni sempre più frequenti, in quanto si inscrivono all’interno di una “cultura della dieta”, dalla quale la società occidentale è ormai ampiamente permeata: avere un fisico magro e/o muscoloso, riuscire a mantenere una dieta e delle regole alimentari ferree e praticare una rigida attività fisica viene generalmente visto come una dimostrazione di forza e determinazione e, di conseguenza, di valore personale (Rossi, 2021). L’importanza della magrezza e il giudizio negativo sull’eccesso di peso promuovono il controllo sull’alimentazione, reso ancora più popolare dalle innumerevoli alternative di diete per perdere peso proposte negli ultimi decenni (Faw et al., 2021).

Tuttavia, la dieta non è sempre una pratica benigna: il ruolo dannoso dell’iniziare una dieta per quanto riguarda i disturbi alimentari è stato riconosciuto in molti studi su campioni adolescenziali. La presenza di una dieta nella storia personale, sommata a un’insoddisfazione per il corpo, aumenta la proporzione di giovani a rischio di sviluppo di un disturbo dell’alimentazione (Hill, 2009). Il ruolo dei fattori socio-culturali nella patogenesi di queste problematiche è sempre più oggetto di interesse nella ricerca scientifica. Questi fenomeni sono stati in parte attribuiti all’idealizzazione della magrezza nella cultura occidentale, dove il cambiamento culturale degli ultimi decenni ha portato ad un aumento della tendenza ad ambire a controllare peso, forma del corpo e alimentazione (Nasser, 1988).

In questo senso, appare evidente come le pratiche verbali descritte siano potenzialmente dannose, in quanto propongono e rafforzano un’idea errata e potenzialmente pericolosa dell’alimentazione, rischiando di innescare un atteggiamento che guarda all’alimentazione e al proprio aspetto fisico con un’accezione negativa. Questo atteggiamento rischia di essere un fattore precipitante per lo sviluppo di un disturbo dell’alimentazione. In queste patologie, infatti, l’attenzione verso il peso e le forme del corpo, alla quantità e alla qualità degli alimenti introdotti viene portata patologicamente all’estremo e diventa tanto importante nella quotidianità dell’individuo, da rappresentare un vero e proprio (se non l’unico) metro di valutazione di sé come persona (Rossi, 2021).

Fattori di rischio per i disturbi dell’alimentazione

Nello specifico, i disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione e/o da comportamenti connessi all’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale (Dalle Grave, 2018).

Le cause specifiche dei disturbi dell’alimentazione non sono ancora note in modo chiaro; i dati ottenuti ad oggi dalla ricerca più recente sembrano suggerire che essi siano innescati dalla combinazione di una predisposizione genetica e fattori di rischio di tipo ambientale. Tuttavia, la ricerca ha individuato numerosi fattori di rischio potenziali.

Tra i fattori di rischio generali, vale a dire condizioni non modificabili, che aumentano in generale, per tutta la popolazione, il rischio di sviluppare i disturbi dell’alimentazione, vi è il vivere in una società occidentale ove si è verificata, a partire dagli anni ‘50, la trasmissione dell’ideale di magrezza. Uno studio ha dimostrato come l’Indice di Massa Corporea (IMC) delle modelle sia passato da un valore medio leggermente sotto il 20 negli anni ‘50 a un valore medio di 18 nel 2001 (la fascia di normopeso è compresa tra un IMC di 19 e un IMC di 24,9). Anche se non si può dimostrare un nesso causale tra evoluzione dell’ideale sociale di magrezza e sviluppo dei disturbi dell’alimentazione, la diminuzione del peso delle modelle è andato di pari passo con l’aumento dell’incidenza dell’anoressia nervosa. Non è inoltre infrequente che la perdita di peso e l’autocontrollo richiesto per seguire una dieta in modo ferreo, possano essere rinforzati da vari fattori sociali. Il messaggio martellante dei media è che la magrezza estrema sia un segno di bellezza, successo, autocontrollo e riconoscimento (Dalle Grave, 2018).

Tra i fattori di rischio individuali, vale a dire condizioni che colpiscono in modo specifico gli individui che sviluppano un disturbo dell’alimentazione, rientrano esperienze di derisione per il peso e la forma del corpo, preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e l’aver fatto una dieta. Su quest’ultimo, è stato dimostrato che la dieta negli adolescenti normopeso costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione. In un campione di studentesse di Londra di 15 anni quelle che facevano una dieta, rispetto ai controlli, avevano un rischio otto volte maggiore di sviluppare un disturbo dell’alimentazione nell’anno seguente. Risultati simili sono stati osservati in uno studio eseguito su adolescenti australiani in cui i soggetti a dieta, rispetto a quelli non a dieta, avevano un rischio 18 volte superiore di sviluppare un disturbo dell’alimentazione nei sei mesi seguenti. In questa ricerca è stato evidenziato che il rischio era elevato anche nei soggetti che seguivano una dieta lievemente ipocalorica (Dalle Grave, 2018).

Diet talk e body talk nei disturbi dell’alimentazione

Una meta-analisi condotta nel 2013 ha mostrato come i commenti e l’atteggiamento dei pari e della famiglia possano influenzare il comportamento alimentare, l’insoddisfazione per il corpo e sintomi bulimici sia in adolescenti maschi che femmine. Questo sottolinea il potente ruolo delle interazioni sociali nel condizionare le pratiche alimentari e le preoccupazioni per il peso e per la forma del corpo. In questo senso, il gruppo dei pari e i familiari possono modellare lo stile alimentare e l’atteggiamento verso la propria immagine corporea, in maniera negativa ma, anche, al contrario, incoraggiando un atteggiamento maggiormente benevolo (Marcos, 2013).

 Uno studio eseguito nello stesso anno, effettuato su un campione di 203 adolescenti, ha investigato come il Body talk, cioè i commenti sul corpo, sia in negativo che in positivo, e la co-ruminazione sul tema siano collegati all’immagine corporea percepita, a possibili distorsioni su di essa, a problematiche con l’alimentazione, al benessere psicologico generale ed infine alla qualità delle relazioni interpersonali. Lo studio ha dimostrato che il riferirsi al corpo con un’accezione negativa era correlato negativamente alla soddisfazione per il corpo stesso, ad alti livelli di autostima, ed era al contrario correlato positivamente all’importanza data all’apparenza fisica, a pensieri negativi sul corpo, a problematiche alimentari e a depressione. L’auto-accettazione e il “Positive Body talk” erano invece correlati negativamente a distorsioni cognitive rispetto al proprio corpo, e correlati positivamente a soddisfazione per il proprio corpo, ad un’autostima più elevata e ad una migliore qualità delle relazioni interpersonali. Infine, la co-ruminazione sul corpo era correlata alla presenza di distorsioni cognitive sul corpo stesso, a condotte alimentari problematiche e ad una migliore qualità delle amicizie (Rudiger & Winstead,2013). Quest’ultimo dato appare di particolare interesse in quanto potrebbe suggerire che la tendenza a riferirsi a peso, forma del corpo e alimentazione possa fungere da collante per le relazioni sociali tra adolescenti, costituendo così un’arma a doppio taglio, che da una parte favorisce la nascita di legami sociali, ma dall’altra questi ultimi affonderanno le proprie radici in tematiche potenzialmente dannose per il benessere fisico e psicologico degli individui stessi.

I risultati di questi studi, che sono solo alcuni di quelli effettuati negli ultimi anni sul tema, indicano la negatività del Diet talk e del Body talk, sia a livello del benessere individuale che delle relazioni interpersonali.

Questo sottolinea l’importanza di trattare con sensibilità questi aspetti, in primis in famiglia, che costituisce l’ambiente di apprendimento primario, ed inoltre di prestare attenzione a questi temi in ottica più allargata, disincentivando commenti o atteggiamenti che stressino l’attenzione su cibo e forma del corpo, così come la tendenza a fare commenti, anche benevoli, in questo ambito, nell’ottica di ridurre potenziali stimoli che inneschino il desiderio di raggiungere un peso non fisiologico e, soprattutto, di diminuire la centralità che quest’ultimo ha nell’autodefinizione di sé. Occorre inoltre prestare particolare attenzione alle modalità non adeguate con cui soprattutto le adolescenti possono cercare di controllare peso e forma del corpo.

La prevenzione risulta particolarmente importante in questo momento storico in cui l’ANSA segnala, complice la pandemia, una grossa crescita dei disturbi alimentari tra i più giovani, con circa 3 milioni di italiani che soffrono di anoressia e bulimia, di cui il 95% donne e soprattutto ragazze tra i 15 e i 19 anni.

Paura. Lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia – Recensione

L’etologo Daniel Blumstein ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso il mondo della paura, per comprendere meglio come e quanto la nostra paura e i nostri comportamenti di difesa condizionino non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri discendenti e delle generazioni successive.

 

Perché abbiamo più paura dell’attacco di uno squalo che di un incidente d’auto, quando ogni anno muoiono molte più persone a causa degli incidenti stradali di quante non siano attaccate da tutti i carnivori del pianeta?

Perché siamo attratti da sport estremi o abbiamo dovuto attendere che una legge ci imponesse l’obbligo prima di allacciare le cinture di sicurezza sulle nostre auto?

Perché siamo più colpiti da una singola storia drammatica rispetto a continue notizie di tragedie collettive ai vari angoli del mondo?

Per capire perché e come noi esseri umani reagiamo alle situazioni spaventose, dobbiamo comprendere la nostra storia evolutiva. Siamo i discendenti di progenitori che hanno saputo vincere le sfide della sopravvivenza e hanno permesso ai loro geni, e dunque ai nostri geni, di arrivare fino ad oggi.

Ogni specie ha la sua singolare storia evolutiva, ma condividiamo con gli animali numerosi meccanismi neurofisiologici, tanto che diversi fattori di stress e di predazione inducono nelle diverse specie, umani compresi, risposte molto simili.

L’etologo Daniel Blumstein ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso il mondo della paura, esplorando le risposte fisiologiche e i comportamenti evolutisi centinaia di milioni di anni fa, per comprendere meglio come e quanto la nostra paura e i nostri comportamenti di difesa condizionino non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri discendenti e delle generazioni successive.

L’autore propone interessanti riflessioni e ipotesi, supportate da un lungo lavoro di studioso sul campo e da una solida letteratura, su come si possa utilizzare la conoscenza del comportamento antipredatorio animale per imparare a convivere meglio con la nostra paura e per migliorare le nostre decisioni in condizioni di minaccia reale o percepita.

Vi siete mai chiesti se la paura ha un volto? O un odore, un suono?

Blumstein prende in esame studi ed esperimenti scientifici che, uniti alla sua lunga e prolifica carriera di etologo sul campo, ci insegnano come gli animali, nella loro storia evolutiva, abbiano imparato a riconoscere specifici segnali visivi, olfattivi e uditivi, che indicano la presenza effettiva o potenziale di un predatore e a modificare di conseguenza il loro comportamento.

La paura può essere scatenata da stimoli, anche apparentemente innocui o minimi, che in passato sono stati per la specie segnali attendibili di minaccia.

Perché, per esempio, basta la vista di un piccolo ragno a far saltare sulla sedia una buona quota di persone? Pare che la capacità di riconoscere la figura di un ragno come qualcosa di specifico e rilevante sia presente già nei neonati, che rispondono con attenzione e attivazione alla vista di un semplice disegno stilizzato che ricordi la forma di un ragno, cosa che non fanno di fronte a forme analoghe di altri oggetti, piante o animali.

Allo stesso modo certi suoni, come i rumori forti, le grida o in generale i suoni non lineari, inducono una reazione di paura tanto da influenzare perfino il successo riproduttivo degli individui. Vivere in un ambiente in cui sono presenti molti versi di predatori, infatti, induce nelle prede uno stress cronico e influisce negativamente sulla crescita, sull’accudimento dei piccoli e dunque sulla sopravvivenza della popolazione presente in quell’area.

Cosa ancora più interessante, questo non accade solo alla presenza di una minaccia reale, ma è un effetto della paura indotta dai segnali acustici, visivi o olfattivi. Numerosi studi, come riporta l’autore, hanno infatti dimostrato come sia sufficiente la paura di un predatore a innescare una serie di comportamenti antipredatori con effetti a cascata sulle generazioni successive e sull’intero ecosistema.

Quest’osservazione ha implicazioni molto importanti per noi umani. Anche noi siamo molto influenzabili e manipolabili dall’esposizione a immagini e suoni spaventosi. Pensiamo a cosa succede quando andiamo al cinema a vedere un film dell’orrore: la musica è appositamente studiata per indurre nel pubblico una reazione di paura. Ma se la paura è parte del piacere e addirittura ricercata nell’andare al cinema, le conseguenze dell’uso strumentale di una certa retorica, che sfrutta l’effetto spaventoso di suoni e immagini per influenzare l’uditorio, sono potenzialmente più pericolose.

L’ansia e la paura sono innate, e di solito adattative, ma certamente hanno un costo. Un animale troppo vigile, attento a ogni possibile minaccia, o che scappa al primo segnale di pericolo, perde un’importante occasione di alimentazione, di riproduzione o legata ad altre attività sociali fondamentali per il benessere dell’individuo e della specie. E’ necessaria una sottile e continua valutazione di costi e benefici, l’abilità di trovare il migliore equilibrio possibile tra il rischio di morire di fame e il rischio di essere mangiati.

La selezione naturale opera secondo una logica economica e gli animali che sono in grado di rispondere adeguatamente alle minacce utilizzando il minimo delle risorse necessarie, lasceranno una discendenza più numerosa di quelli che hanno una reazione eccessiva. Il comportamento ottimale è quello che produce la massima “fitness”, ossia il massimo successo riproduttivo in quello specifico ambiente, sia che si tratti di fuggire immediatamente, sia che si tratti di aspettare e valutare meglio la reale portata del pericolo.

Ma esiste una strategia di sopravvivenza migliore delle altre?

Gli animali che rischiano di più, ovvero che usano le loro energie per una crescita rapida e prematura, riproducendosi presto, hanno una maggiore probabilità di morire in giovane età.

Quelli che, invece, adottano strategie che rallentano la loro crescita, ritardano la riproduzione e dedicano una quota maggiore di energia alla crescita di ogni piccolo, aumentano la loro sicurezza e la percentuale di sopravvivenza.

Questo significa che una delle due strategie è intrinsecamente migliore delle altre?

Dipende. Come prima cosa dipende dal contesto. E, infatti, in natura le troviamo entrambe: in ambienti pericolosi e poveri di risorse la prima è certamente una strategia vincente, mentre in ambienti più sicuri e relativamente liberi dai predatori, troviamo più frequentemente il secondo tipo di strategia.

Lo stesso si riscontra nella nostra specie: si pensi alle differenze fra paesi in via di sviluppo, in cui i pericoli sono certamente maggiori, maggiore è la mortalità infantile e minore è l’aspettativa di vita, e paesi industrializzati, in cui è garantita una maggiore sicurezza all’individuo e alla popolazione con effetti sulle energie dedicate a ogni figlio, sull’età di riproduzione e sull’aspettativa di vita.

Come gli animali, anche noi cerchiamo di gestire costi e benefici, basandoci sulle nostre percezioni rispetto ai rischi e alle ricompense. In questo tipo di valutazione possiamo contare sull’esperienza dei nostri antenati, che hanno saputo prendere le giuste decisioni e hanno permesso alla nostra specie di prosperare sul pianeta, ma la nostra capacità di giudizio è fallibile e spesso commettiamo errori. Siamo fin troppo sensibili alla manipolazione di chi alimenta le nostre paure irrazionali, come quella verso chi è diverso da noi, o chi, per ottenere consensi politici, pone eccessiva enfasi su fatti veri ma meno rilevanti, sostenendo per esempio la nostra erronea percezione che gli autori di reati siano prevalentemente stranieri.

Siamo una specie straordinariamente irragionevole e le nostre valutazioni del rischio non sono per nulla obiettive, ma sono influenzate da vari fattori, come l’età, il fatto di essere soli o in gruppo, la probabilità che un evento occorra, l’entità dei danni e in generale il tipo di conseguenza, compresi i benefici attesi. La percezione del rischio, inoltre, è soggetta a veri e propri bias: siamo molto più colpiti dal perdere 100€ che dal guadagnare la stessa cifra (bias di avversione alla perdita); è più probabile che a farci paura sia qualcosa di ignoto, piuttosto che qualcosa per noi molto familiare; siamo più propensi ad accettare (e a sottovalutare) i rischi se li scegliamo volontariamente rispetto a quelli che ci sono imposti e siamo portati a sopravvalutare le nostre capacità di tirarci fuori da un problema.

La valutazione del rischio, inoltre, è influenzata dall’esperienza.

Il disturbo da stress post-traumatico è l’esempio più clamoroso di come sia sufficiente una sola brutta esperienza per influenzare profondamente il nostro senso di sicurezza e di benessere.

Anche l’apprendimento sociale è un potente amplificatore che permette la diffusione rapida e ampia di conoscenze che possono aumentare la probabilità di sopravvivenza.

Come ben argomenta Blumstein, gli animali, umani compresi, funzionano secondo una logica bayesiana (dal teorema del matematico Bayes), ovvero possiedono una qualche conoscenza a priori della probabilità che un evento accada e modificano poi questa previsione in base alle esperienze, adattando di conseguenza il loro comportamento. Ma animali ed esseri umani possono lasciarsi sopraffare dalla paura se imparano a temere le cose sbagliate e, se è vero che in linea di massima un approccio prudenziale e conservativo è adattativo, è anche vero che vedere un predatore in ogni cosa ha dei costi esorbitanti, che superano notevolmente i benefici. Pensiamo ad esempio alle malattie autoimmuni, in cui il sistema immunitario identifica come pericolosi stimoli innocui, attaccando il nostro stesso organismo, o le reazioni eccessive a una minaccia che portano all’intensificarsi progressivo di violenze sempre più fuori controllo e distruttive. Siamo molto sensibili a messaggi che fanno leva sulla nostra paura, che siano messaggi plausibili oppure no: la nostra percezione della verità può essere modificata dalla ripetizione continua di falsi messaggi, anche quando le persone sono consapevoli che si tratta di messaggi non veritieri. E’ il fenomeno della “verità illusoria” e ne siamo stati testimoni per esempio nel 2003 quando il governo statunitense accusò ripetutamente l’Iraq di Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa: non era vero, ma condusse comunque a una guerra devastante.

Forse mai come ora, almeno per chi di noi ha meno di 80 anni, sentiamo così forte e presente la paura. Da un paio d’anni è uno spettro con cui abbiamo dovuto convivere ogni giorno, che ha minato la sicurezza che la tecnologia aveva progressivamente garantito alla nostra specie.

Nelle ultime settimane, poi, le terribili notizie della guerra in Ucraina hanno ulteriormente destabilizzato il nostro fragile equilibrio e ci hanno portati a doverci necessariamente confrontare con la paura e la precarietà della nostra stessa sopravvivenza.

E’ un libro di forte impegno “politico”, quello di Blumstein, non nella sua accezione propagandistica, ma in quella più letterale e profonda, legata al promuovere valori e impegno sociale attraverso la diffusione di conoscenze e l’attivazione di una riflessione critica.

La paura è un forte motivatore in situazioni più lineari, ma occorre molta attenzione nelle situazioni più complesse, in cui siamo chiamati ad andare oltre il nostro desiderio di relazioni causali semplici e dunque soluzioni semplici.

Stiamo vivendo un’epoca piena di sfide complesse a cui la nostra storia evolutiva non ci ha preparati a rispondere. Il repentino e progressivo cambiamento climatico è un esempio di come il nostro comportamento abbia modificato l’ambiente in cui viviamo in un modo estremamente rapido, se valutato in termini evolutivi, e radicale. Non abbiamo gli strumenti per valutare appieno questo impatto sulle nostre vite e su quelle delle generazioni successive, perché la nostra specie non ha avuto abbastanza tempo per generare risposte adeguate a una molteplicità di nuove minacce che essa stessa ha creato. Tuttavia, rileva l’autore, se i nostri comportamenti sono stati la causa di questi nuovi problemi, possiamo cambiare i nostri i comportamenti nella direzione di nuove soluzioni.

A partire dallo studio del comportamento di altre specie, con cui condividiamo larga parte del nostro sistema neurofisiologico, Blumstein avanza le sue interessanti ipotesi su come si possa sfruttare la conoscenza delle risposte animali ad eventi spaventosi per imparare a convivere meglio con la nostra paura e a migliorare i nostri processi decisionali in condizioni di minaccia reale o percepita.

La paura è un elemento inevitabile e non eliminabile della nostra vita. Non solo è impossibile annullare i rischi o la paura che ne consegue, ma da qualche parte dentro di noi conserviamo il desiderio di sfidare noi stessi e andare alla ricerca di nuovi rischi che risveglino un po’ di adrenalina anche quando potremmo vivere una vita più sicura.

Dobbiamo dunque imparare ad accettare e a gestire le nostre paure, valutando i dati e le fonti d’informazione, invece di reagire secondo un riflesso condizionato. La paura, quando mediata dalla riflessione critica, può aiutarci a progettare sistemi resilienti e a trovare soluzioni intelligenti e innovative in situazioni complesse.

Può essere una compagna di viaggio fastidiosa e talvolta intollerabile, ma la paura è anche “una bussola che, se ben tarata, ci allontana dal pericolo e ci dirige verso l’opportunità” [p. 251].

Burnout tra psicoterapeuti: fattori di rischio e fattori protettivi

E’ stato ipotizzato che l’impegno verso i pazienti e l’empatia che si sperimenta in ambito sanitario potrebbero avere un ruolo nel burnout degli psicoterapeuti, mentre la percezione di avere le competenze per aiutare i pazienti potrebbe essere un fattore protettivo.

 

Il burnout nei professionisti della salute mentale

Il burnout è una reazione allo stress di lunga durata legata al lavoro che comprende tre diverse reazioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e riduzione della realizzazione personale (Maslach et al., 2001). Esso è associato a vari problemi di salute come depressione, insonnia e problemi cardiovascolari, rappresentando quindi un problema per gli individui, ma anche un onere economico per la società a causa dei costi sanitari, delle assenze per malattia e dell’elevato turnover (Lee et al., 2011).

In generale, i professionisti che si occupano di salute mentale sembrano essere molto esposti allo stress legato al lavoro: si stima che dal 40% al 70% abbia alti livelli di burnout (Johnson et al., 2020). I fattori di rischio che hanno predetto un maggiore burnout nei professionisti di salute mentale si sono dimostrati essere l’ambiente di lavoro, la quantità totale di ore lavorate e l’età più giovane (Lim et al., 2010).

Spesso, nei servizi pubblici, i bisogni dei pazienti sono superiori alle risorse o agli interventi a disposizione; i terapeuti che incontrano pazienti in difficoltà possono essere influenzati dai loro stati emotivi e possono provare frustrazione per non essere in grado di soddisfare i bisogni di ogni singolo paziente (Simionato & Simpson, 2018). In queste circostanze, è facile sentirsi inadeguati e sforzarsi di dare il più possibile, a scapito del proprio tempo e delle proprie energie.

Perciò, è stato ipotizzato che l’impegno verso i pazienti e l’empatia che si sperimenta in quest’ambito sanitario potrebbero avere un ruolo nel burnout (Simionato & Simpson, 2018). Infatti, in una meta-analisi di Lee e colleghi (2011) si è scoperto che l’eccessivo coinvolgimento era fortemente associato all’esaurimento emotivo, che è un aspetto centrale del burnout.

D’altra parte, un fattore protettivo contro il burnout è la percezione di avere le competenze per aiutare i pazienti (Simionato & Simpson, 2018). Nello studio di Lim e colleghi (2010), è stato dimostrato che i membri dello staff di età più avanzata hanno mostrato livelli più bassi di burnout, il che è stato ipotizzato essere associato a un senso di competenza che può venire con più anni di esperienza clinica (Lim et al., 2010).

Fattori di rischio e protettivi del burnout tra psicoterapeuti

Data la necessità di identificare meglio i fattori di rischio e protettivi per lo sviluppo del burnout tra gli psicoterapeuti, uno studio di Spännargård e colleghi (2022) ha analizzato il livello di burnout tra gli psicoterapeuti che lavorano in contesti clinici e ha indagato la relazione tra burnout e fattori legati alla persona (età, formazione, livello di istruzione, anni di professione e competenza percepita) e fattori legati al lavoro (tipo di contesto clinico, soddisfazione per la situazione lavorativa e accesso alla supervisione clinica).

I risultati hanno dimostrato che il 62% degli psicoterapeuti ha riportato livelli moderati o alti di burnout. Essere donna, percepire di avere bassa competenza e lavorare nel settore pubblico erano associati a livelli più alti di burnout. L’età, l’esperienza lavorativa e la formazione avanzata in psicoterapia si sono mostrati invece fattori protettivi. Tuttavia, quando analizzati insieme alla competenza percepita, gli effetti sono svaniti, suggerendo che la competenza percepita è il fattore essenziale comunemente associato a tutte queste variabili.

Il burnout è stato predetto da due variabili: la competenza percepita e il praticare nell’ambito clinico privato. Questo è in linea con i modelli che si focalizzano sull’importanza del controllo percepito (Rupert et al., 2012). La maggior parte di loro fa prima o poi esperienza di trattamenti non riusciti e di pazienti che non sono stati in grado di aiutare (Honda, 2014). Queste esperienze possono portare a frustrazione e sentimenti di inadeguatezza che possono a loro volta generare stress. La sensazione di avere il controllo può essere un fattore molto importante nello sviluppo dello stress, infatti, a favore della pratica privata come fattore protettivo, gli psicoterapeuti che lavorano privatamente hanno un livello di controllo maggiore sulle loro condizioni di lavoro rispetto ai terapeuti che lavorano in studi sanitari pubblici (Steel et al., 2015).

Come riportato sopra, il burnout associato alle esperienze di lavoro generali è stato significativamente più alto del burnout associato ai pazienti. Di conseguenza, le condizioni di lavoro, piuttosto che le sfide cliniche, potrebbero essere più importanti a questo proposito. Tuttavia, è anche possibile che i contesti clinici siano diversi tra gli studi privati e quelli pubblici, poiché una proporzione maggiore di pazienti impegnativi tende ad essere presente nel pubblico.

In conclusione, i livelli di burnout tra gli psicoterapeuti sono risultati alti e un’alta competenza percepita rappresenta un fattore protettivo contro il burnout, molto più dell’esperienza lavorativa, dell’istruzione o dell’età. In linea con ricerche precedenti, anche lavorare privatamente sembra essere un fattore protettivo contro il burnout, nonostante i risultati di Hammond e colleghi (2018) indichino che molti fattori di rischio per il burnout sono presenti anche per gli psicologi che esercitano privatamente.

Il controllo percepito dell’ambiente di lavoro è importante per ridurre lo stress per gli psicoterapeuti: i cambiamenti nel modo in cui il trattamento viene fornito, con un maggior numero di operatori privati che lavorano in circostanze simili a quelle degli operatori del sistema sanitario pubblico, è a portata di mano in molti paesi. Il carico di lavoro, e altri aspetti della situazione lavorativa, possono essere difficili da controllare, anche per chi lavora nella pratica privata. Essere donna è stato un fattore predittivo significativo del burnout personale e legato al lavoro. Tuttavia, sono necessari studi futuri per esplorare altri fattori di rischio per il burnout come i tratti di personalità, le convinzioni meta-cognitive sullo stress e come affrontare al meglio lo stress legato al lavoro e gli interventi su misura per gli psicoterapeuti per ottenere risultati ottimali sul burnout.

Il Corpo: la perdita dopo il Trauma/Strumento di cura

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

 

Abstract

La presente trattazione argomenta sul tema del trauma nelle sue molteplici complessità. Complessità che nascono dal riconoscimento diagnostico non sempre immediato, dalla diversificazione dei possibili eventi traumatici, dal multiedrico quadro psicopatologico. Questi elementi rendono difficile l’individuazione diagnostica e ancor di più l’intervento terapeutico.

Nello specifico dell’intervento terapeutico, il quadro mostra una lunga storia di trattamenti non efficaci e non sempre dignitosi. La complessa dinamica del trauma coinvolge le varie funzioni corticali e sottocorticali, meccanismi fisiologici, emotivi, comportamentali e cognitivi attivati da reazioni di sopravvivenza che si instaurano nell’immediato dell’evento traumatico. Queste reazioni, prolungate e cronicizzate, creano disregolazione emotiva, scissioni e dissociazioni dell’esperienza e dei vissuti corrispondenti, che si somatizzano, eludendo le funzioni cognitive più elevate, strutturando quadri psicopatologici complessi.

Tenendo conto della dinamica sottostante, del quadro psicopatologico e dell’accessibilità limitata attraverso medium verbali, il trattamento necessita di una mediazione corporea, attraverso tecniche psico-corporee, integrabili con le terapie di stampo più verbale e farmacologico.

Il trauma ed il corpo

La narrazione della propria storia è centrale nella vita di ogni individuo. Il racconto della realtà attraverso il linguaggio, genera la “scrittura” di una autobiografia personale che, intrecciandosi con le storie degli altri, conferisce un senso alle esperienze umane.

Esiste anche una biografia del corpo, ovvero la propria storia trascritta nel corpo, nella struttura, nell’espressività somatica, nella qualità energetica, nella sua declinazione spazio/tempo. Un po’ come i cerchi del tronco, per l’albero.

Il corpo è il primo elemento di confronto con il mondo fin dallo stadio fetale, attraverso il nutrimento, il contatto, il suono, il gusto, la vista, la propriocezione, le variazioni biochimiche introdotte dall’emotività della madre. Costituisce lo strumento con cui interagiamo per tutta la vita.

Noi siamo primariamente il nostro corpo, che nasce e cresce dentro un altro corpo, dopo l’unione di due corpi.

La relazione stessa si instaura e cresce attraverso l’accudimento del corpo, che ci fornisce un’idea di noi stessi. Attraverso come il nostro corpo viene trattato, accudito, toccato/evitato.

Il corpo è il primo a rispondere e a reagire a quanto avviene nell’interazione con il mondo esterno ed interno, primariamente rispetto a stimoli sub-liminari (Tauber e Green, 1995), che in quanto tali non sono coscienti, ma influiscono sul nostro vissuto e sulle nostre reazioni.

La funzione protettiva sub cosciente, si attiva in risposta alle nostre capacità di tolleranza e in risposta al tipo di stimolo. Si attiva massivamente nelle situazioni inusuali e traumatiche, dove la scissione e la dissociazione costituiscono le reazioni primarie.

I sensi sono immediati e veloci, legati ad aspetti più primitivi, mentre il pensiero razionale si è evoluto, filogeneticamente ed ontogeneticamente, in un tempo successivo con lo sviluppo della corteccia cerebrale. Le reazioni vegetative, ormonali e neuronali profonde sono presenti nel mondo animale fin dall’antichità, in quanto legate a meccanismi di sopravvivenza.

Quando si verifica un evento traumatico, vi sono una serie di stimoli che entrano prepotenti, si registrano nel corpo e negli strati più profondi del cervello e della psiche, le funzioni più razionali sono momentaneamente inattive, non è possibile dare un senso a quanto capitato. L’attivazione di meccanismi di difesa significativi quali la dissociazione, il congelamento, l’iperattivazione, uniti alla disregolazione emotivo/sensoriale, l’alterazione dei ritmi sonno-veglia, la tendenza all’acting, l’abuso di sostanze e/o psicofarmaci ecc., rendono ancor meno penetrabili i contenuti consci e razionali. (Fischer et al., 2011).

Bypassando le funzioni cognitive superiori, si attivano le parti più antiche e più istintive del cervello, con una serie di reattività emotive, somatiche e comportamentali non filtrate. Gli stimoli esterni escono dal circuito della prevedibilità e della coscienza, si scatenano risposte fisiologiche di sopravvivenza, che non possiedono confini, significati precisi e non terminano col cessare del pericolo. L’individuo continua a sentirsi attivato, ad avere un alto livello di arousal in uno stato di ipervigilanza e allerta per molto tempo, come se ci si attendesse che può succedere qualcosa da un momento all’altro.

Il corpo si ritrova in una condizione di rigidità, di anestesia, talvolta fino al death state, che lo rende un blocco unico, volto a filtrare sensazioni che potrebbero innescare una serie di reazioni a catena (Steel, Van de Hart, Boon, 2014; Van der Kolk, 2015; De Zulueta, 2009, Boon et al., 2017). C’è un congelamento del corpo e delle sensazioni che lo rendono poco recettivo alla moltitudine di stimoli esterni ed interni, che diversamente eleverebbero ulteriormente il grado di arousal già molto critico.

Questo spiega il motivo per cui spesso l’impiego delle sole terapie verbali, individuali e di gruppo, non sono sufficienti a curare e guarire i traumi. Ancor di più se quanto capitato è indicibile, come succede negli abusi o violenze avvenute in tenera età. Queste terapie non riescono ad accedere alle parti dissociate (Van der Kolk, 2015).

A livello emotivo si crea il senso di vergogna, di colpa, la vittima si sente responsabile di quanto avvenuto, si attiva l’identificazione con l’aggressore, il bisogno di ripristinare il controllo, di salvare la figura carica di legame affettivo. Le emozioni e i pensieri disfunzionali derivano dalla disregolazione di affetti e funzioni, dal meccanismo di dissociazione che crea una separazione fra parti di sé. L’evento traumatico viene riposto in uno spazio mentale separato da tutto il resto, ciò permette di tenerlo a bada o di credere che sia così e di concedere alle altre funzioni un livello sufficientemente adeguato (lavoro, studio, relazioni ecc.).

Il trauma può non emergere per molto tempo, pur continuando a pesare e ad influire sull’economia e sul benessere della persona.

Istintivamente le vittime di trauma cercano di allentare le tensioni del corpo e di spegnere i pensieri ripetitivi con alcool, droghe, abuso di farmaci o iperlavoro. In una ricerca condotta su 225 vittime scampate al crollo delle Torri Gemelli e su una parte dei loro soccorritori, è emerso che il primo tipo di aiuto a cui molti hanno fatto ricorso, riguardava il corpo con interventi come massaggi, yoga ecc. e solo una piccola parte a terapie verbali (Van der Kolk, 2015).

Dopo un evento traumatico si crea una disconnessione fra parti del cervello, fra pensieri, emozioni e sensazioni, l’evento non riesce ad essere inserito nella propria storia con una certa coerenza. Il danno è a tutti i livelli. Il corpo è irrigidito, i circuiti sottocorticali attivati in senso circolare, qualunque intervento che coinvolga gli strati superiori più evoluti della corteccia non riesce ad entrare in contatto con gli altri strati primariamente coinvolti.

Nel concreto, immaginiamo cosa possa succedere alla vittima a cui si chieda di raccontare l’evento, che può scatenare una serie di reazioni corporee e viscerali che attivano il segnale d’allarme. Non può esserci liberazione né insight, al contrario una ripetizione del trauma, fino alla rivittimizzazione.

Questo spiega e rende ragione di tutti quegli interventi mediati sempre più dal corpo e dagli strumenti che cercano di ricreare un collegamento fra le parti sconnesse.

Todd (1959) ci aveva mostrato precocemente che la funzione precede la struttura, ovvero lo stesso movimento ripetuto svariate volte, modella il corpo. Quando le contrazioni muscolari innescate da meccanismi difensivi inconsapevoli, si ripetono varie volte, si tramutano in pattern fisici (postura, atteggiamento energetico-somatico, movimenti stereotipati e ripetitivi, ecc.) che influenzano la struttura del corpo, che a sua volta pesa ulteriormente sulla funzione. Il corpo così “deformato” nella struttura e nella sua dinamica, va a mantenere l’inibizione sia emotiva che cognitiva, innescate dai meccanismi di protezione (Ogden et al., 2013, p.21).

Lowen (1978, 1982) ha trascorso la sua vita a mostrare l’effetto visibile delle pressioni ambientali costanti sulla strutturazione somatica in termini di postura, tensione muscolare, ma anche strutturazione ossea, definizione e uso della voce, stile corporeo-energetico ecc. Dando senso alla bioenergetica come terapia bio-psichica, mediata da esercizi, posture e consapevolezze corporee per permettere un cambiamento funzionale e strutturale.

Analogamente, Hobson (1994) ci ricorda che il movimento ha la precedenza in situazioni di emergenza, l’azione fisica precede le reazioni cognitive ed emotive. E’ vantaggioso aggirare la corteccia e attivare un pattern motorio, governato direttamente dal tronco dell’encefalo. Ed è da lì che è necessario ripartire anche per l’intervento terapeutico.

La terapia ed il corpo

Nonostante questi studi, la storia dei disturbi traumatici, ci mostra una tardiva individuazione terapeutica integrata, ma ancor prima anche una tardiva individuazione diagnostica. Infatti il primo passaggio terapeutico è costituito dall’adeguato riconoscimento diagnostico. I Veterani del Vietnam ne sono un esempio, hanno subito un riconoscimento tardivo del trauma, quale origine dei quadri sintomatici complessi, da cui etichette ed interventi inefficaci, che hanno cronicizzato oltre modo i sintomi.

Stessa confusione e misconoscimento diagnostico si è verificato per altri tipi di vittime, erroneamente catalogate con le più disparate categorie psichiatriche. La definizione ed il riconoscimento del Disturbo da Stress Post Traumatico – DPTS (DSM 5), ha permesso alle vittime un riconoscimento ed un approccio più adeguato alle loro necessità e ha fornito dignità alla loro condizione.

Progressivamente è accresciuta l’attenzione e la sensibilità verso varie forme di esperienza traumatica, quali l’abuso nell’infanzia, il neglet, la violenza sessuale, il terrorismo, la deportazione, la vittimizzazione da catastrofi naturali, forme più invisibili quali la perdita di un genitore per omicidio da parte dell’altro genitore, la violenza domestica, le relazioni perverse (relazioni asimmetriche, stalking, bullismo, mobbing), il trauma da diagnosi nefasta, l’ospedalizzazione “traumatica” (reparto chiuso, anestesia cosciente, trapianto d’organi, ecc.).

L’esperienza clinica poi ci ha suggerito la necessità di una differenziazione, in base ai tipi di trauma, sia in termini oggettivi che soggettivi, in termini di continuatività, di natura causale (di tipo umano/non umano), di contesto, periodo evolutivo e fattori protettivi. Ne emerge una descrizione del quadro sintomatico e del vissuto soggettivo molto più articolato e complesso di quanto descritto nel DPTS, costituito da elementi di autodenigrazione, autosvalutazione, sensi di colpa, atti impulsivi, aggressività, amnesia, atti autolesivi ecc., delineando così quello che viene definito un Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Emerson, 2015, pp. 16-19; ICD 11, 2018).

Parallelamente la ricerca e la clinica hanno lavorato nell’individuazione di strategie e terapie (farmacologiche, psicologiche, rieducative) più appropriate per intervenire su un quadro somatico, emotivo, esperienziale e cognitivo assai complesso (Van der Kolk, 2015).

Negli anni si sono sperimentate varie forme di intervento, combinazione farmacologica (antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, ansiolitici, benzodiazepine, antipsicotici) con terapie dell’area psico-sociale (psicoterapia individuale, di gruppo, gruppi di veterani, gruppi di auto-mutuo aiuto, volontariato, rieducazione specifica ecc.), ricovero, ospedalizzazione prolungata.

Attualmente le forme di intervento che sembrano incidere in modo più significativo sono rappresentate da interventi specifici sul ricordo traumatico come l’EMDR, la terapia verbale, le terapie corporee e l’ausilio variabile di farmaci (Van der Kolk, 2015).

Le terapie corporee impiegate includono la bioenergetica (Lowen), il metodo Alexander (Alexander, 1998: Gray 1994), il metodo Feldenkrais (2011), il metodo Hakomi (2015), la terapia sensomotoria (Ogden e Fischer, 2016) ecc., tutte forme utili per lavorare sul corpo e sui traumi “in-corporati”, “in-carnati”.

Il corpo ci suggerisce che il trauma non è passato neanche quando è passato (Ogden et al., 2013, p. 11). Il corpo non mente e traduce una corretta visione della propria biografia.

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

Il lavoro con le componenti NV (non verbali) permette di recuperare il “corpo”, la percezione somatica, sensoriale, il giusto peso emotivo, di dare accesso al trauma e alla successiva integrazione delle parti separate e disconnesse.

Lo yoga o altre forme di terapie corporee, unite ad esercizi immaginativi, meditazione o training autogeno, costituiscono spesso la porta d’accesso per la cura dei pazienti traumatizzati, in uno stato di dissociazione (De Zulueta, 2015; Emerson, 2015; Van der Kolk, 2015; West, et al., 2017). Si parte proprio da dove il trauma è passato, dai primi effetti e dai mezzi necessari per mantenere attive le difese, il senso di ovattamento e distacco emotivo: il corpo e le sue rigidità.

Lo yoga si concentra sul respiro e sullo scioglimento di rigidità corporee, allenta lo stato di allerta, migliora il ritmo sonno-veglia, riduce l’ansia e l’irrequietezza motoria. Questo primo lavoro permette la riduzione delle difese e delle rigidità corporee collegate. La vergogna stessa è relata al corpo, al mostrarsi, all’immagine di sé. Se la vittima di violenza riesce a coabitare con il proprio corpo, con ogni parte di esso e delle sue sensazioni, allora può anche provare a mostrarsi nel suo esterno e nel suo interno.

Varie ricerche dimostrano che lo Yoga utilizzato per disturbi quali ansia, depressione, disturbi alimentari, iperattività, schizofrenia, produce variazioni biochimiche e fisiologiche: modulazione dell’arousal, attivazione del GABA, decremento di cortisolo e catecolamine (alla base delle reazioni di stress) (Rocha et al, 2012; Sarang e Telles, 2006; Streeter et al., 2010).

Ancora più nello specifico, altre ricerche, con l’ausilio della neuroimaging, hanno verificato che dopo 20 settimane di pratica yoga, le donne cronicamente traumatizzate sviluppano una maggiore attivazione di strutture cerebrali implicate nell’autoregolazione quali l’insula e la corteccia prefrontale mediale (Van der Kolk, 2015, pp. 112-113).

Con 10 sedute di TSY, ovvero la Trauma Sensitive Yoga (Vand der Kolk et al. 2014), le pazienti traumatizzate, non rispondenti alle terapie tradizionali cominciavano a mostrare una riduzione dei segni dissociativi, un atteggiamento meno critico verso di sé, una maggiore connessione con emozioni e migliori relazioni interpersonali, compresa la relazione terapeutica. Dai risultati, l’effetto del TSY uguaglia o supera quello della terapia cognitivo-comportamentale.

Dalle verifiche strumentali, si è inoltre osservato che lo Yoga riattiva l’area prefrontale mediale sinistra e l’area di Broca (responsabile di gran parte delle funzioni linguistiche deputate ad esprime l’emotività), disattivate in seguito al trauma (Emerson, 2015, p. 22-23).

Negli adulti multi traumatizzati l’impiego della sola psicoterapia o solo della mindfulness non sono sufficienti a produrre cambiamenti, riscontrabili invece con l’intervento anche di terapie corporee quali lo Yoga (West et al., 2017, p. 174).

Lo Yoga, come altri interventi di tipo psico-corporei, non sono da considerarsi un sostituto della psicoterapia bensì un’integrazione, in quanto permette la combinazione fra un approccio bottom up e top down, fondamentale per riunire le parti dissociate (Emerson, 2015; Brendom et al., 2018).

I processi bottom up e top down sono le due vie attraverso cui valutiamo se un evento è pericoloso o meno, il primo, guidato dal cervello rettiliano, procede attraverso decisioni inconsapevoli e automatiche, il secondo, guidato dalla corteccia prefrontale, procede grazie ad una serie di valutazioni coscienti. Durante le situazioni traumatiche, altamente pericolose, i due sistemi, corteccia e sotto-corteccia, si scollegano a sfavore delle funzioni più evolute, prevalendo un’attività del sistema sottocorticale, più veloce e connesso con le reazioni di sopravvivenza.

Il respiro ed alcune posture sembrano essere gli unici elementi gestibili da parte di entrambe le funzioni e in quanto tali assumono il valore di mediatori di cura, fra le aree corticali e sottocorticali (Van der Kolk, 2015, pp.72-73).

La presenza nel qui e ora, l’attenzione al corpo e alle percezioni somatiche, la concentrazione sul respiro, la natura ritmica dello stesso, costituiscono strumenti di contatto con sé, con le proprie sensazioni, di riduzione di tensione e arousal (West, 2015).

Rispetto ad altre tecniche di tipo corporeo, il TSY non si occupa delle emozioni, dei pensieri o dei ricordi elicitati dal movimento, ma unicamente dell’intracezione, della percezione corporea (Emerson, 2015, pp- 10-14). A livello teorico si appoggia alle Teoria sul Trauma, alle ricerche mediate dalla Neuroscienza e alla Teoria dell’Attaccamento (Bowlby, 1978, 1983; Ainsworth, 1979).

Rispetto all’Hata Yoga, ovvero allo yoga tradizionale, il TSY non lavora sulle posizioni o àsana, non fornisce indicazioni e procedure per raggiungere la posizione finale, bensì suggerisce, se la persona “se la sente”, di sperimentare alcune posture. Inoltre, per motivi legati al trauma stesso, non lavora con il respiro come procede l’Hata Yoga. Dall’esperienza di Emerson e della sua equipe infatti, in certi casi questo costituisce una riattivazione traumatica. Ad es. i veterani di guerra, durante gli esercizi volti ad una respirazione più profonda, possono rivivere gli episodi traumatici, il respiro costituisce un trigger relativo al fuoco in battaglia. Parimenti, certe posizioni, quali quella del “bebè felice” diventano un trigger per le vittime di stupro, o di abuso infantile (Emerson, 2015, p. 4-7).

Le parole stesse sono calibrate con estrema attenzione, per esempio viene evitata la parola “Posizione”, classicamente usata nello yoga, in quanto attivante per le persone sessualmente abusate, preferendo il termine “Forma”, emotivamente più neutro.

L’importanza fornita alla volontà, disponibilità e percezione di “sentirsi pronti” ad eseguire una certa forma, costituisce un passaggio importante. Spesso le vittime di traumi non sanno cosa vogliono, non sono collegate con il proprio sentire, e formulare loro la domanda apre ad una possibilità e ad un “permesso” emotivo-cognitivo: il poter scegliere.

Seppur muovendo da analoghi principi teorici, parzialmente differente è la Terapia Sensomotoria di Ogden (Ogden et al. 2013; Ogden et al. 2016). Al contrario del TSY, qui vengono impiegate e integrate tecniche di stampo corporeo con altre di stampo verbale. Ogden infatti parte dall’analisi dei tre livelli di elaborazione dell’informazione, reciprocamente influenzanti:

  • l’elaborazione cognitiva
  • l’elaborazione emotiva
  • l’elaborazione senso-motoria

La capacità cognitiva si riferisce all’abilità di concettualizzare, ragionare, attribuire significati, risolvere problemi e prendere decisioni. Si tratta della modalità prevalente dell’adulto, che procede con modalità top-down, dove le aree corticali più alte agiscono come un centro di controllo e la corteccia orbitale domina l’attività subcorticale. Mentre eseguiamo i nostri piani, spesso ignoriamo emozioni e sensazioni, che sono presenti ma non vengono tenute in conto per le decisioni. Emozioni e sensazioni ci sono e influenzano il pensiero, ma le aree corticali superiori sono in grado di mantenere il controllo e, se necessario, di fornire un senso.

Ratey (2002) sostiene che i neuroni motori possono guidare il senso di auto-consapevolezza, infatti i circuiti mentali usati per le azioni fisiche sono gli stessi delle azioni mentali. Il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo dunque sono modellati dal corpo e viceversa.

Per il soggetto traumatizzato le emozioni e le sensazioni sono così primari da non poter dare spazio ai meccanismi top-down, i vissuti emotivi e senso-corporei spesso generano distorsioni cognitive e pensieri irrazionali “Sono cattivo”, “E’ colpa mia”, “Sono stato giustamente punito” ecc., rigidi e difficilmente modificabili, che a loro volta influenzano emozioni e percezioni.

L’emozione ci aiuta ad agire in maniera adattiva, in quanto piattaforma pre-motoria, che ci guida o ci trattiene dall’azione.

Le persone traumatizzate perdono questa capacità, soffrendo spesso di alessitimia, ovvero dell’incapacità di riconoscere e definire le emozioni. Nei confronti dei propri stati emotivi possono essere distaccati e disinteressati o, all’inverso, possono viverli come urgenti ed immediati. Nei ricordi non verbali degli eventi traumatici, viene riattualizzato il tenore emotivo che, in uno stato di arousal critico, può condurre ad azioni impulsive ed inefficaci. Si perde la capacità di pensare in modo lucido, di tradurre le emozioni e differenziare le emozioni dalle sensazioni corporee.

L’elaborazione emotiva adeguata infatti, prevede la capacità di sperimentare, descrivere, esprimere ed integrare gli stati affettivi.

L’elaborazione sensomotoria si articola nello strutturare l’esperienza, articolare e integrare la percezione fisica/sensoriale, le sensazioni corporee, l’arousal fisiologico ed il funzionamento motorio. Nei disturbi traumatici la disregolazione crea confusione e sovrapposizione fra emozioni e sensazioni corporee, che si attivano e accentuano a vicenda, come per esempio per la tachicardia ed il panico.

Nei bambini molto piccoli e nei soggetti con disturbo traumatico l’elaborazione è di tipo bottom-up, ovvero sensomotoria, guidata dalle percezioni tattili e cinestesiche, condotte dagli strati sottocorticali. Coincide con ciò che Piaget (1966) ha individuato come prima forma di intelligenza nel bambino piccolo, che esplora e conosce l’ambiente. Gli schemi motori circolari primari e secondari ripetuti, creano quelli terziari, prodromi del pensiero.

Nella pratica clinica la Terapia Sensomotoria procede con l’elaborazione di tre aspetti sensomotori: le sensazioni corporee interne (qualunque mutazione organica, dovuta ad aspetti ormonali, chimici, muscolari, ecc.), la percezione attraverso i cinque sensi ed il movimento.

La terapia sensomotoria mira a ridurre l’arousal, permettere di identificare, distinguere gli elementi sensomotori, le emozioni e fornire loro un adeguato significato. Infatti l’identificazione delle percezioni sensoriali-organiche modifica il modo in cui sono vissute e interpretate, influendo a sua volta sui connotati emotivi.

La terapia integra il trattamento top-down, che utilizza gli strati superiori, con trattamenti bottom-up, mira a raggiungere la percezione e la consapevolezza di quanto avviene nella persona ad ogni livello (sensoriale, emotivo, cognitivo) nel momento del ricordo dell’evento traumatico. Si usano l’esplorazione consapevole di ogni evento sensomotorio, l’attivazione di un atteggiamento/clima giocoso, il cambiamento di tendenze di orientamento (la direzione dell’attenzione rivolta al qui e ora), l’attenzione al transfert somatico e relativo controtrasfert ecc.

Favorire la capacità integrativa richiede la differenziazione e il collegamento delle componenti separate dell’esperienza interna e degli eventi esterni, tale da creare una connessione significativa.

Sono stati pensati e articolati interventi specifici anche per i bambini con trauma complesso, che richiedono ulteriori e specifiche attenzioni. La specificità infatti deve tener conto della fase evolutiva, della non completa maturità di alcuni strumenti e funzioni, della ridotta capacità espressiva del proprio mondo interno attraverso il canale verbale, della presenza di caregiver di riferimento che sono parte del sistema, talvolta loro stessi vittime, talvolta attuatori di violenza, ma strumento di cura, portatori di risorse e coping, talvolta al contrario limitatori delle stesse e fonti di stress.

Da non dimenticare, inoltre, i limiti degli interventi adottati per gli adulti. Ad esempio alcune ricerche mettono in luce la mancata efficacia dell’EMDR nei bambini con alcuni tipi di trauma complesso (Kazatzias T., 2007).

Paris Goodyear-Brown in Tennessee, USA (2019; 2021) ad esempio ha strutturato la Narture House, un luogo dedicato esclusivamente ai bambini e ai loro familiari. Una casa-clinica interamente dedicata al trattamento dei bambini con trauma, con spazi interni ed esterni dedicati a specifiche attività.

Il primo spazio è rappresentato da una stanza dei bisogni, tranquilla dove talvolta i bambini possono rifocillarsi, attraverso il riposo o semplicemente a livello alimentare. I bisogni primari costituiscono necessariamente il primo livello e talvolta bambini traumatizzati e/o appartenenti a ceti socio-culturali bassi, sono deprivati innanzitutto in questi bisogni fondamentali.

Vi sono poi gli spazi specifici di gioco, che permettono l’applicazione del trattamento TraumaPlay.

Alcuni giochi/oggetti sono ritenuti indispensabili: l’amaca sospesa e l’altalena, quali mezzi di autoconsolazione e di controllo simbolico sul movimento, riparatrici; la sabbiera, uno spazio dove il bambino può immergersi e modellare usando le mani, ma anche il resto del corpo; gli animali (di materiali rigidi e morbidi) di tutti i tipi costituiscono importante oggetto di proiezione; ovviamente materiale per colorare e tanti oggetti in miniatura, della vita quotidiana (es. la cucina e le sue suppellettili; kit del dottore, ecc.).

Infine gli strumenti musicali costituiscono per la dott..sa Goodyear un elemento fondamentale, mezzo per far uscire, emettere suoni portatori di vissuti, per esprimere quanto sta capitando al loro mondo interno, non traducibile in parole. Il ritmo stesso della produzione musicale spontanea, ci suggerisce lo stato di attivazione interna, del nostro piccolo paziente. L’emissione di suono attraverso uno strumento, in special modo con alcuni come la chitarra, le percussioni, ecc., e/o attraverso la voce, inoltre coinvolge il corpo tutto intero, diventando così uno strumento diagnostico e di intervento senso-motorio.

Tenendo conto di tutto questo, capiamo come l’impiego degli strumenti musicali all’interno di un certo setting, permette il ripristino dell’arousal e la normalizzazione della disregolazione emotiva.

E’ importante creare lo spazio esterno, il setting adeguato perché i bambini riescano a stare, sentendosi protetti e gradualmente a loro agio, fino a poter creare un setting interno ed un filo che conduca il vissuto all’espressione esterna. E’ necessario dare spazio al TraumaPlay, ovvero permettere al trauma di essere rappresentato attraverso un gioco e attraverso il gioco modificato e superato, grazie alla possibilità e capacità espressiva, condivisa con un adulto.

Specifici spazi di educazione ed espressione sono rivolti anche ai familiari, per poter veicolare e traghettare quanto capita dal bambino all’adulto, sia in termini di conoscenza che di acquisizione strumentale. Spesso i caregivers sono i narratori della storia del piccolo, permettono di integrare quanto capitato, per ricostruire la narrazione del trauma.

La Narture House spesso lavora anche con bambini adottati e in affidamento, per cui l’attaccamento ed il tipo di legame strutturato costituisce uno locus di lavoro primario per il recupero della storia, ma anche per il trattamento traumatico, che ha come oggetto la relazione stessa e l’abbandono.

Conclusioni

La storia degli eventi traumatici, del loro misconoscimento, dei progressi nella loro individuazione, dei fallimenti e delle conquiste terapeutiche, sottolineano l’importanza di questo lavoro di continuità e integrazione fra vari strumenti conoscitivi e clinici, all’interno di un approccio specifico e “sensibilizzato” al trauma.

Nella pratica personale si è sperimentato e si continua a sperimentare in modo permanente attività mirate e rivolte al corpo, che comprendono sia aspetti mediati dalla corteccia top-down che altri mediati da aree sottocorticali bottom-up.

Si tratta di un lavoro che attinge a riflessioni e tecniche del TSY, della terapia sensomotoria e ad altre (bioenergetica, hata yoga, shatsu, arteterapia, esercizi gestaltici ecc.). Seppur si tratti di un lavoro non corroborato da studi strumentali e misurabili scientificamente, nell’esperienza quotidiana l’integrazione di terapia verbale e non verbale, in dose diversa in base alle singole persone e in base al setting, individuale/gruppo, rappresenta uno strumento d’elezione in svariati tipi di disturbo: disturbi alimentari, d’ansia, psicosomatici, traumi semplici e complessi.

Si tratta di una modalità di lavoro che richiede un ascolto attento e flessibile da parte del terapeuta ed una continua ricerca della giusta lettura, dell’equilibrio di parti diverse dell’individuo e della relazione. Nella pratica clinica ad esempio abbiamo verificato l’utilità della rappresentazione corporea, attraverso le arti grafiche, mediatrici creative inconsce per l’accesso al corpo, all’emotività e ad i livelli successivi. Niente è scontato e non ci sono percorsi pre-costituiti.

Si tratta invero di un ambito dinamico sia in termini di forze, di risorse, di energie e di componenti creative. Si mira a riconquistare la “Bellezza” come inteso da Riefolo (2018), ovvero la capacità di elicitare risorse e strategie “impensate”, primariamente nell’individuo, ma anche nella relazione terapeutica e nella relazione fra curanti.

La creatività infatti riguarda anche la capacità di guardare il corpo, contemplarlo nel processo diagnostico e nel percorso di cura, all’interno delle possibilità offerte dal contesto, compreso i limiti imposti dai setting esterni. Non sempre, nei contesti privati e pubblici si possiedono ambienti e strumentazioni atte a dar spazio al lavoro con il corpo, parimenti non tutti i pazienti sono pronti per lavorarci.

Fra le restrizioni specifiche e situazionali, stiamo vivendo un evento sanitario-storico-sociale quale l’emergenza Covid-19 che ha messo distanza fra noi e gli altri, isolando in particolare il corpo e spesso lasciando il dialogo privo di un’espressività fondamentale come quella facciale, o all’inverso introducendo il filtro del video che accresce la distanza fisica e riduce l’impatto energetico dell’incontro, assottiglia la visibilità dei segnali espressivi più fini.

Non ultimo, non tutti i curanti sono contraddistinti dalla dimestichezza con il proprio corpo come medium diagnostico e terapeutico. La consapevolezza di tale limitazione ci permette di offrire al paziente altri supporti, che non siamo in grado di offrirgli in prima persona, oppure di addentrarci in una conoscenza di noi, non ancora esplorata.

Il trauma è una realtà umana dolorosa, che spaventa, che spesso misconosciamo, ma offre anche un accesso importante alla conoscenza dell’essere umano e all’incontro con i vari livelli di noi stessi e degli altri, con gli strati più primitivi, istintivi, aggressivi, violenti, con il giudizio e la negazione.

Dietro la mascherina: gli operatori sanitari durante la pandemia

Nel mese di maggio 2021 è stata condotta la seguente indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica durante il periodo di pandemia, per successivamente programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

 

Abstract

 Gli operatori della sanità, con diversi ruoli e mansioni, si sono trovati ad affrontare un’emergenza senza precedenti, fronteggiando quotidianamente un pericolo insidioso, invisibile, che ha sollecitato al massimo grado il SSN, aumentando i carichi di lavoro e la tensione fisica e psichica.

In un simile contesto l’incremento degli stressor ambientali espone ad un tangibile rischio di burnout con conseguenze sul piano cognitivo, comportamentale, fisico ed emotivo.

Pertanto, in considerazione dell’emergenza sanitaria in atto si è reputato utile condurre un’indagine conoscitiva al fine di valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica con l’obiettivo ultimo di programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

Lo studio è stato condotto come da protocollo. Il campione è formato da n.168 operatori appartenenti alle UU.OO. selezionate che hanno aderito allo studio. Sono state effettuate analisi descrittive e inferenziali (correlazioni tra indici e Anova multivariate). Risultano interessanti i risultati emersi.

Il test appositamente elaborato volto a valutare il disagio emotivo legato alla situazione di emergenza dovuta alla pandemia di COVID-19 correla fortemente e positivamente (p< 0,01) con la scala Depression Anxiety Stress Scale-21 (DASS–21) DASS-2, con il test Maslach Burnout Inventory (MBI) nelle sottoscale Esaurimento emotivo (EE)  e Depersonalizzazione (DP) e correla negativamente nella sottoscala Realizzazione personale (RP).

Inoltre, risultano differenze statisticamente significative tra le seguenti variabili: sesso, anni di lavoro e ruolo professionale agli indici dei test utilizzati.

Alla luce dei risultati ottenuti sono stati attivati interventi psicologici presso l’U.O. di Psicologia Clinica.

Il razionale dello studio

L’oncologia è da sempre un’area della medicina ad alto investimento psicologico. Lavorare con pazienti oncologici è, infatti, fonte di notevoli soddisfazioni umane e professionali ma comporta un alto costo emotivo (Poppito et al, 2014).

In questo contesto l’incremento degli stressor ambientali espone ad un possibile rischio di burnout. Attualmente non ci sono dati sul distress peritraumatico da COVID negli operatori sanitari specifici di area oncologica. Tuttavia, alcuni dati pubblicati su riviste internazionali suggeriscono che essi abbiano affrontato una enorme pressione emotiva personale e professionale. Che gli operatori sanitari possano riportare in corso di epidemie e pandemie influenzali problemi di salute mentale, anche in misura maggiore di quella riscontrata nella popolazione generale, è un fenomeno descritto in letteratura in merito alla SARS, la MERS e H1N1 e confermata dai recenti studi sul COVID-19 (Costantini, 2021). Nelle categorie sanitarie la prevalenza di disturbi psicologici e psicopatologici varia anche secondo la fase pandemica, e sono stati riscontrati picchi più elevati nei periodi iniziali quando “l’urto” può causare una risposta più elevata di stress.

In uno studio cinese su 1257 operatori sanitari, infermieri (60,8%) e medici (39,2%), che lavoravano in Ospedali di Wuhan (60,5%) o fuori Wuhan, e di cui il 41.5% erano nel front line, sono stati osservati sintomi depressivi (50.4%), ansia (44.6%), insonnia (34.0%) e distress (71.5%) (Lai e al, 2020).

Uno studio italiano effettuato dal 27 al 31 marzo 2020 su 1379 operatori sanitari di tutte le regioni usando una tecnica di campionamento a valanga, riporta sintomi di distress post traumatico misurati con il Global Psychotrauma Screen nel 49,38% dei casi, sintomi di depressione severa misurati con PHQ-9 nel 24,73% dei casi, di ansia misurata con GAD-7 nel 19,80%, di insonnia misurata con il 7-item Insomnia Severity Index nell’8,27%, e di elevato stress percepito misurato con il 10-item Perceived Stress Scale nel 21,90% dei casi. Il sesso femminile e l’età più giovane sono fattori rischio per tutti gli oucomes, essere stati esposti personalmente al contagio lo è per la depressione, lavorare nel front line è correlato in modo positivo a sintomi di stress post traumatico, il decesso di un collega, ospedalizzato o in quarantena, è risultato associato significativamente a livelli più elevati di insonnia, depressione e stress percepito, infine essere infermieri o operatori socio sanitari costituisce un fattore di rischio per insonnia severa (Rossi et al, 2020).

Pertanto, in considerazione all’emergenza sanitaria, nel mese di maggio 2021 è stata condotta la seguente indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica per successivamente programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

Obiettivi

Gli obiettivi dello studio sono stati:

  • Rilevare livelli di ansia, depressione e stress
  • Valutare la presenza dei disturbi post-traumatici
  • Rilevare il rischio di burnout
  • Valutare l’impatto emotivo della pandemia da Covid-19

Metodologia

Il Comitato Etico dell’A. O. Ospedali dei Colli (Napoli) ha approvato la ricerca. Lo strumento utilizzato per raccogliere i dati è stato Google Moduli e le informazioni sono state trattate in maniera anonima nel rispetto delle norme sulla privacy. I dati sono stati utilizzati per soli scopi di ricerca e non è possibile risalire all’identità dei partecipanti.

Inoltre, ogni partecipante allo studio ha compilato il modulo di adesione, dichiarando di aver letto e compreso tutte le informazioni riguardanti l’indagine. Nel messaggio di invito è stato riportato l’obiettivo dello studio e il consenso alla sua partecipazione.

Per raggiungere gli obiettivi prefissati sono stati utilizzati questionari validati ed è stata elaborata una scheda ad hoc per rilevare i seguenti dati socioanagrafici e lavorativi utili all’elaborazione dei risultati: sesso, età, stato civile, unità operativa di appartenenza, titolo di studio, ruolo professionale, rapporto di lavoro, anni di servizio, anni di servizio nell’attuale unità operativa.

Per valutare l’alessitimia è stata utilizzata la Toronto Alexithimia Scale (TAS-20) costituita da 20 item valutanti 3 scale fattoriali: DIF (Difficulty Identify Feelings), difficoltà ad identificare i sentimenti e a distinguere tra sentimenti e sensazioni fisiche; DDF (Difficulty Describing Feelings), difficoltà nel descrivere i propri sentimenti agli altri; EOT (Externally -Oriented Thinking), stile cognitivo orientato verso la realtà esterna. Il punteggio TAS-20 va da 20 a 100 con valutazione confermata di alessitimia per valori di 60 (cut-off) o maggiori, mentre per valori da 51 o inferiori non viene riscontrato alcun quadro alessitimico.

Per valutare il livello di burnout è stato utilizzato il Maslach Burnout Inventory (MBI), questionario di 22 item, ognuno con 6 gradi di risposta su scala Likert, che affronta tre diversi campi della professionalità: Esaurimento emotivo (EE), sensazione di esaurimento o esaurimento energetico; Depersonalizzazione (DP), maggiore distanza mentale dal proprio lavoro e sentimenti di cinismo; Realizzazione personale (RP), sensazione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Imm 1

Questionario Maslach Burnout Inventory-General Surevy (MBI-GS): score per il calcolo dei punteggi e la stratificazione del rischio di burn-out per ogni dominio della sindrome da burn-out

E’ stata utilizzata la Depression Anxiety Stress Scales (DASS-21) che consente di rilevare tre costrutti: Depression, Anxiety, Stress. I punteggi di cut-off raccomandati per le etichette di gravità convenzionali (normale, moderata, grave) sono i seguenti:

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Cut-off della Depression Anxiety Stress Scales

Lo stress soggettivo causato da eventi traumatici è stato invece misurato con la scala Impact of Event Scale-Revised (IES-R ) mentre per valutare la percezione dello stress è stata utilizzata la Perceived Stress Scale (PSS; Scala per lo Stress Percepito). In merito al distress legato alla situazione di emergenza COVID-19 è stato elaborato un questionario costituito da 12 domande dicotomiche.

E’ stato attribuito punteggio 1 per ogni risposta “Sì” e 0 per ogni risposta “No”. Dalla conversione dei punteggi totali la media risulta essere 3.55, la deviazione standard 1.9. Sono state ipotizzate due categorie: 0-4 nessun distress; ≥ 5 Rischio distress.

Elaborazione statistica

Sono state effettuate analisi descrittive (medie e deviazione standard), correlazioni bivariate e Anova multivariate, prodotte dalle analisi del programma SPSS25.

Per tutte le analisi, è stato utilizzato come indicatore di significatività statistica il valore di p inferiore a 0,05 (2-code). Sono state impiegate statistiche descrittive per illustrare le caratteristiche demografiche e cliniche del campione di studio. Il coefficiente di Pearson è stato utilizzato per esaminare le relazioni esistenti tra le variabili continue indagate.

L’analisi multivariata della varianza (MANOVA) è stata utilizzata per confrontare i gruppi di studio.

Descrizione del campione

Il campione è costituito da 168 operatori sanitari, di età compresa tra 24 e 60 anni (Media=45,36; Dev. Std.=11.45).

Di essi, le donne sono il 60,71%, gli uomini il 39,29; il 67 % degli operatori è coniugato, il 23% è nubile/celibe, il 2% vedovo, l’8% separato.

Per quanto riguarda i dati lavorativi, il campione è costituito da Infermieri Professionali (51%), Medici (26,8%), specializzandi (8.5%), Oss (7.3%), Tecnico sanitario di radiologia medica (3,7%), Fisioterapista 4,3%, Dietista (1,2%), altro (data manager, ingegnere biomedico, ecc) 4.7%.

Infine, il 6,7% del campione da quando è iniziata la pandemia ha intrapreso colloqui psicologici e una sola persona ha chiesto una consulenza psichiatrica (0.6%).

Per i diversi gruppi designati dal campione, analizzando le risposte al questionario autobiografico (Variabili Indipendenti), abbiamo eseguito un’analisi della varianza mista (ANOVA multivariata) con i risultati degli indici dei test in oggetto. Risulta significativa l’interazione tra gli indici dei diversi test e l’età lavorativa (F(3,167)=1,071; p=.013; η2=.435), come dimostrano i grafici che contengono i risultati medi delle risposte ai test per la variabile anni lavorativi.

Analizzando i risultati ottenuti dal questionario TAS-20 emerge che il 78,6% degli operatori comunica correttamente i propri affetti e sentimenti e non sono pertanto alessitimici, mentre il 16.07% è a rischio e il 5,3% possiede rischio alto (Tab.1).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 1

Tab. 1 Questionario TAS-20

Non c’è correlazione tra età, sesso e stato civile e livello di alessitimia, mentre i maggiori livelli di alessitimia sono presenti tra gli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 11 e 20 anni; minori livelli di alessitimia sono presenti nei medici che riescono maggiormente a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri. Come si evince dai grafici  n. 1, 2, 3, riportati in seguito, per gli indici dell’alessitimia emersi al test Tas-20, i maggiori livelli di alessitimia sono presenti negli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 11 e 20 anni.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 1

Grafico 1: Interazione significativa tra anni lavorativi e il totale TAS-20.

 

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 2

Grafico 2: Interazione significativa tra il gruppo anni lavorativi e il totale alla sottoscala DIF (le difficoltà dell’individuo a descrivere i propri sentimenti e a distinguerli dalle sensazioni del corpo).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 3

Grafico 3: Interazione significativa tra il gruppo anni lavorativi e il totale alla sottoscala DEF (difficoltà nei descrivere i propri sentimenti agli altri).

Sono stati calcolati le percentuali e i punteggi medi delle tre subscale del Maslach Burnout Inventory che rilevano, per ciascuna sottoscala, un livello di burnout inferiore a quello medio del campione normativo utilizzato nella taratura italiana dello strumento.

Nel nostro campione, in generale, ritroviamo valori medio bassi per quanto riguarda Esaurimento Emotivo e  Depersonalizzazione, e una buona Realizzazione Personale.

E’ emersa una differenza significativa alla sottoscala della Depersonalizzazione del test MBI, concernente la maggiore distanza mentale dal proprio lavoro e sentimenti di cinismo (F(1,167)=1,071; p=.012; η2=.467), ove le donne appaiono mostrare maggiore distacco mentale dal proprio lavoro (Grafico 4).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 4

Grafico 4: Interazione significativa tra il sesso e la sottoscala depersonalizzazione del test MBI

In merito agli indici dell’Esaurimento emotivo e Realizzazione personale dello stesso test, i maggiori livelli sono presenti negli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 1 e 10 anni; per la Depersonalizzazione i maggiori livelli sono espressi nel gruppo di operatori che lavorano da più di 30 anni. Per gli indici dell’Esaurimento emotivo e della Realizzazione personale, i maggiori livelli sono presenti negli Infermieri e medici, per la Depersonalizzazione i minori livelli vengono espressi dai medici specializzandi e gli Operatori Sociosanitari.

Passando ai dati della DASS-21 si osserva (Tab. 2) come il 17% presenti una Depressione Moderata, il 16% Ansia, il 30,9 Fatica.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 2
Tab. 2 Questionario DASS-21

Non ci sono differenze significative (p<=,069) tra il sesso e le tre sottoscale della Dass-21, anche se le donne presentano punteggi medi più alti (vedi grafico sottostante).

Per gli indici di Ansia, Depressione e Fatica emersi al test DASS-21, i maggiori livelli sono presenti nei dipendenti che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 1 e 10 anni  (F(3,167)=,061; p=.042; η2=.125).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 5Grafico 5: Interazione significativa tra gli anni lavorativi e la sottoscala depressione del DASS.

In merito al test IES-R si osserva che il 66% del nostro campione presenta un punteggio nella norma alla percezione dello stress (Tab. 3).Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 3

Tab. 3  Test IES-R

Per gli indici che valutano lo stress soggettivo causato da eventi traumatici, misurati dal test IES-R, i soggetti che maggiormente ne risentono sono quelli che lavorano dai 21 ai 30 anni.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 6

Grafico 6: Interazione significativa tra gli anni lavorativi e la scala di impatto dell’evento

In merito ai risultati al test PSS, alla scala dello stress percepito solo il 3% del nostro campione presenta livelli moderati di stress. In merito a questo test non abbiamo differenze significative tra i gruppi di dipendenti che lavorano da diversi anni.

Per valutare la relazione tra le dimensioni di rischio di stress collegato all’evento Covid-19 (questionario ad hoc per il Covid-19) e i diversi costrutti considerati (Tas-20 per l’alessitimia, IES-R scala di impatto dell’evento, MBI Maslach Bornout Inventory, DASS-21,  Depression Anxiety Stress Scales, Scala dello stress percepito) sono state eseguite analisi delle correlazioni (r di Pearson).

La Tabella 4 (Correlazioni bivariate) mostra una correlazione significativa e positiva (p < 0.01) tra il questionario ad hoc che esprime il rischio stress legato all’emergenza Covid-19 e tutte le sottoscale dei diversi test.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 4

Tab. 4  Correlazioni bivariate con gli indici del test ad hoc, per il rischio stress del Covid19,Tas-20 per l’alessitimia, IES-R scala di impatto dell’evento, MBI Maslach Bornout Inventory, DASS-21,  Depression Anxiety Stress Scales, Scala dello stress percepito.

Le uniche correlazioni negative emergono con la sottoscala RP del test MBI, che riguarda la realizzazione professionale e le altre sottoscale. Pertanto all’aumentare dello stress percepito per il Covid-19 diminuisce il desiderio di realizzazione personale.

Discussione e conclusioni

Che gli operatori sanitari paghino un alto tributo alle epidemie è un dato noto nella storia delle malattie infettive e testimonia sia la tendenza del personale sanitario ad assumere rischi per curare i pazienti, sia il fatto che spesso esso si trova a confrontarsi con le epidemie senza adeguati sistemi di sicurezza (Jones DS., 2020).

Dati al 23 aprile 2020 a cura dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano come l’11% dei casi totali di contagio in Italia si riferiscano ad operatori sanitari, con un’età mediana di 48 anni (verso età mediana di 62 anni dei casi totali), con una prevalenza di donne (69%), ed un tasso di letalità media dello 0,40% (Istituto Superiore di Sanità, 2020).

Da una revisione della letteratura, consultando la banca dati biomedica Pubmed negli ultimi anni, si evince come il livello di stress nel personale sanitario sia maggiore nei paesi che hanno gestito per primi l’emergenza pandemica e sono stati riportati punteggi significativi in stress, depressione, ansia, insonnia, paura, rabbia, ipereccitazione, dolore, reazioni post traumatiche, burnout professionale. L’analisi evidenzia come, tra i professionisti, il genere femminile sia maggiormente esposto a tali manifestazioni e come il personale infermieristico riporti livelli più elevati di stress, depressione ed ansia rispetto ad altri operatori.

I nostri risultati confermano l’impatto negativo che la pandemia di Covid-19 ha avuto sul benessere degli operatori sanitari con differenze statisticamente significative tra le seguenti variabili: sesso, anni di lavoro e ruolo professionale.

Alla luce dei risultati ottenuti nella nostra ricerca appare fondamentale attivare interventi psicologici dedicati ad operatori di area oncologica.

Tra essi, nei mesi iniziali di lockdown sono stati molto utili le help line telefoniche da remoto (Nicolò, 2021) “Esse prevedono l’accoglienza della motivazione della chiamata e comprenderne il senso. Ad esso segue un triage psicologico per raccogliere in breve tempo informazioni sulla natura e gravità del problema presentato, sulle risorse disponibili per affrontarlo. In alcuni casi può essere sufficiente un unico contatto che assume caratteristiche di counselling o un breve intervento sulla crisi. Tuttavia in presenza di sintomi persistenti, difficoltà marcate familiari, nel lavoro o nella vita sociale con rischio di complicanze e/o di suicidio o evidenza di disturbi psicopatologici maggiori viene effettuato un intervento strutturato di secondo livello con invio ad uno psicoterapeuta o psichiatra”.

Tuttavia, reputiamo più utile intervenire “a monte” sul benessere organizzativo e non dopo che il disagio si sia manifestato nell’operatore. E’ senz’altro utile offrire assistenza psicologica ai lavoratori che sviluppano, ad esempio, forti quote d’ansia legate proprio al contesto professionale e ai rischi ad esso connessi. Questo rientra nei compiti istituzionali degli psicologi ospedalieri (Vito, 2014). Tuttavia, come in medicina, anche in psicologia è decisiva la prevenzione e non solo la cura delle malattie. Ma è chiaro che per mettere mano all’organizzazione del lavoro occorre una visione sistemica che tenga conto sia della complessità inter e intra-istituzionale, sia della componente psicologica in gioco. Altrimenti, per quanto di buona volontà, può risultare perfino dannosa una lettura del disagio dell’operatore in relazione esclusivamente alle sue caratteristiche individuali. Il discorso ovviamente diviene molto ramificato. Entrare nel merito delle dinamiche organizzative comporta affrontare questioni politiche, sindacali, economiche che apparentemente non sembrerebbero di pertinenza della psicologia.

Il benessere degli operatori sanitari è garantito dal loro rispetto e dalla loro valorizzazione, che non passa solo attraverso riconoscimenti economici premiali. Da questo punto di vista, risultano essenziali, nel rispetto dei diversi ruoli presenti nelle grandi istituzioni sanitarie, la capacità di sviluppare il senso di appartenenza e il gioco di squadra.

 

Ayahuasca e autocompassione

Nell’ultimo decennio, gli effetti dell’ayahuasca hanno attirato sempre più l’attenzione dei ricercatori biomedici a causa dei suoi potenziali benefici clinici.

 

Che cos’è l’ayahuasca

 L’ayahuasca è una bevanda con effetti psichedelici particolarmente usata in Amazzonia durante rituali a scopi terapeutici (Dos Santos et al., 2017). Negli ultimi due decenni, l’uso dell’ayahuasca è notevolmente cresciuto nel mondo occidentale (Frecska et al., 2016).

L’infuso di ayahuasca è generalmente preparato decondizionando gli steli della vite Banisteriopsis caapi e combinandoli con le foglie di Psychotria viridis; questa preparazione derivata dalla pianta contiene N,N-dimetiltriptamina (DMT; González-Maeso & Sealfon, 2009).

La DMT è legata al neurotrasmettitore serotonina (5-idrossitriptamina) e induce brevi ma intense modifiche dello stato di coscienza (Strassman et al., 1994). I principali effetti sono cambiamenti percettivi, alterazione del contenuto del pensiero, intensificazione delle emozioni, introspezione, umore positivo e senso di benessere (Dos Santos et al., 2012).

Nell’ultimo decennio, gli effetti riportati dell’ayahuasca hanno attirato sempre più l’attenzione dei ricercatori biomedici a causa dei suoi potenziali benefici clinici (Frood, 2015). Diversi risultati hanno infatti riportato che l’ayahuasca e i suoi alcaloidi possono avere proprietà ansiolitiche, antidepressive e anti-dipendenza, oltre che migliorare la disregolazione emotiva (Domínguez-Clavé et al., 2016; Domínguez-Clavé et al., 2019).

Altri studi hanno invece valutato l’impatto di questa sostanza sulle capacità legate alla mindfulness (ad esempio accettazione, non reattività e decentramento); i risultati hanno dimostrato che sembra aumentare queste capacità provocando effetti simili a quelli osservati a seguito del mindfulness training (MT; Chiesa et al., 2014).

La pratica di mindfulness e l’autocompassione

Praticare la mindfulness aumenta l’autocompassione che, non solo è associata positivamente al benessere psicologico (MacBeth & Gumley, 2012), ma sembra anche fungere da strategia di regolazione delle emozioni, insegnando agli individui come affrontare il dolore e la sofferenza (Hölzel et al., 2011).

Il termine ”compassione” deriva dalla parola latina ”compati”, che significa ”soffrire con” (Strauss et al., 2016). La compassione è un aspetto fondamentale nella psicologia buddista, che non comporta solo l’essere in contatto con la sofferenza, ma anche un profondo impegno per alleviarla. La compassione può essere diretta non solo verso i nostri cari, ma verso tutto il genere umano, anche verso chi non conosciamo (Neff, 2003).

 L’autocompassione, invece, è intesa come l’atto di trasferire questi atteggiamenti verso gli altri, verso se stessi, processo che per alcuni individui è molto complicato (Jazaieri et al., 2013). L’autocompassione implica non essere giudicanti verso se stessi (a livello cognitivo), e anche essere in grado di sentire e connettersi con la propria sofferenza (a livello emotivo). Per Germer (2011) autocompassione significa prendersi cura di se stessi come si farebbe per una persona cara. Da una prospettiva buddista, Neff (2003) concettualizza l’autocompassione con tre componenti principali: gentilezza, umanità comune e consapevolezza.

Gli effetti dell’ayahuasca sull’autocompassione

Anche se nel contesto di ricerca in merito alle sostanze psichedeliche l’autocompassione ha ricevuto scarsa attenzione, diversi studi hanno dimostrato che gli individui che ricevono una psicoterapia assistita da psichedelici ottengono punteggi più alti sulle misure di accettazione e autocompassione (Malone et al., 2018). Altri studi hanno scoperto che una singola dose di ayahuasca può migliorare significativamente l’autocompassione (Sampedro et al., 2017) e che chi consuma regolarmente la sostanza sembra avere una visione più positiva del sé rispetto agli utenti ayahuasca-naive.

Sulla base di questi risultati, uno studio esplorativo di Domínguez-Clavé e colleghi (2021) ha cercato di esaminare l’effetto dell’assunzione di ayahuasca sull’autocompassione auto-riferita. I risultati hanno mostrato una differenza significativa tra i punteggi pre e post assunzione, confermando così l’ipotesi che a seguito dell’assunzione di questa sostanza è presente un miglioramento dell’autocompassione. Il miglioramento osservato sembra essere simile a quello ottenuto da uno studio di Montero-Marin (2020), che ha valutato l’effetto della Terapia della Compassione basata sull’Attaccamento (ABCT) sulla compassione verso sé stessi.

Dati questi risultati, l’aumento dell’autocompassione dopo una singola sessione di ayahuasca (contro 8 settimane di psicoterapia) è un risultato davvero promettente. L’ayahuasca potrebbe migliorare l’autocompassione più rapidamente di altri interventi; potrebbe potenzialmente essere combinata con la MT o con altre terapie specifiche basate sulla compassione (come l’ABCT) per migliorare ulteriormente questa dimensione.

A favore di quanto riportato, gli individui che fanno spesso uso di ayahuasca hanno riferito che questa sostanza ha la capacità di evocare un sentimento di amore e gentilezza verso se stessi, aumentando di conseguenza anche la componente compassionevole. In questo contesto, sembra più facile concepire l’ayahuasca come un potenziale agente per aiutare a rielaborare eventi altamente emotivi e potrebbe anche essere di interesse clinico per una potenziale nuova linea di trattamento per eventi passati traumatici o per il disturbo da stress post-traumatico. Future ricerche saranno necessarie per far luce sul ruolo dell’autocompassione nell’esperienza dell’ayahuasca, sulla sua possibile influenza sul benessere e la sua potenziale utilità clinica.

Stress e cancro: esiste una relazione?

La psiche e il sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono responsabili del mantenimento dell’omeostasi. A volte, di fronte a eventi impegnativi, la risposta dell’organismo non è adeguata in termini di intensità e durata dello stress, ciò altera l’equilibrio e determina la comparsa di diverse malattie.

 

 Il termine stress e i sintomi associati allo stress compaiono nella medicina intorno al 13° secolo. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA) è coinvolto nello stress, in particolare questo asse comprende l’ipotalamo, la ghiandola pituitaria e le ghiandole surrenali. Quando questi tre organi interagiscono insieme formano l’asse HPA, la parte più importante del sistema neuro-endocrino che controlla la reazione allo stress. Oltre a controllare lo stress, controlla anche altre importanti funzioni del corpo come: digestione, sistema immunitario, emozioni e sessualità. Oggi sappiamo che esistono molti tipi di stress e tutti hanno un effetto sull’asse HPA. La regolazione dell’asse HPA viene eseguita attraverso diversi neurotrasmettitori, ma i più importanti sono: la dopamina, la noradrenalina e la serotonina. Diverse ricerche stanno inoltre dimostrando che il neurotrasmettitore ossitocina, che è associato alle emozioni positive e al contatto sociale, ha un effetto di soppressione sull’asse HPA con conseguente riduzione dello stress. Ci sono studi che hanno dimostrato che gli ormoni dell’asse HPA possono essere associati a stress, malattie della pelle e tumori della pelle, questo succede quando si ha un’iperattività degli ormoni dell’asse HPA, nel cervello. Una condizione di stress cronico ha effetti negativi sui neuroni dell’ippocampo, provocando riduzione della neurogenesi e atrofia dei dentriti (Gregurek et al., 2015).

Negli ultimi anni sono stati pubblicati tre studi sulla relazione mente-cancro. Il primo condotto da un gruppo della Ohio University (USA), ha rilevato che un programma per la gestione dello stress riduce le recidive e migliora la sopravvivenza di persone colpite da cancro (Bottaccioli, 2014). Hanno partecipato allo studio 227 persone operate per cancro al seno, prima di iniziare le altre terapie previste sono state divisi in due gruppi: un gruppo ha seguito un programma per la gestione dello stress, l’altro invece no, l’intervento si è articolato in 26 sedute per 39 ore di lavoro. In ogni seduta sono state insegnate tecniche di rilassamento e discusse strategie di soluzione dei problemi. A 11 anni dall’inizio della malattia le persone che avevano frequentato il programma sono andate incontro a meno recidive e a una maggiore sopravvivenza rispetto al gruppo che aveva fatto solo i classici controlli medici. Anderson e collaboratori (2005) hanno inoltre notato come parecchi mesi prima della recidiva, il sistema immunitario andava incontro a un’alterazione in senso infiammatorio. Il sistema immunitario infatti è il fattore chiave dell’evoluzione della malattia tumorale.

Il secondo studio, guidato da un gruppo della Loyola University of Chicago (USA), evidenzia i cambiamenti in positivo che si realizzano nel sistema immunitario dei pazienti con cancro sottoposti a un intervento di gestione dello stress (Bottaccioli, 2014). A questo studio hanno partecipato 75 donne che erano state operate di cancro al seno (Witek-Janusek et al., 2008). Anche in questo studio le donne sono state divise in due gruppi: uno ha seguito un corso di 8 settimane, durante le sedute ha appreso tecniche antistress e meditative; l’altro invece no. Prima di iniziare l’esperimento è stata valutata la qualità della vita di queste donne, il loro livello di stress (misurando i livelli di cortisolo, principale ormone dello stress) e il livello del loro sistema immunitario (attraverso la misurazione di alcune citochine e l’attività di alcune cellule). In questa fase tutte le donne hanno riportato bassi punteggi in riferimento alla qualità della vita, alti livelli di stress e un sistema immunitario depresso. Già a metà del corso di meditazione ci sono stati cambiamenti importanti che si sono protratti fino alla fine del corso e a tre mesi dalla conclusione del programma. Le donne che avevano partecipato al corso hanno ottenuto un punteggio più alto in riferimento alla qualità della vita e i livelli di cortisolo erano più bassi rispetto alle donne che non avevano partecipato al corso di meditazione (Bottacioli, 2014).

Il terzo studio diretto dal gruppo di psicobiologia dell’Università di Londra, spiega invece che lo stress aumenta l’incidenza del cancro e aggrava la sopravvivenza. Anche questo studio ha sottolineato il ruolo fondamentale che riveste il sistema immunitario. In particolare questo studio ha dimostrato come le pazienti che meditavano riuscirono a recuperare il profilo immunitario “di una persona che è in grado di tenere a bada la spontanea formazione delle cellule neoplastiche” (Bottaccioli, 2014).

 Per decenni si è discusso sulla relazione mente-cancro. Vi erano coloro che sostenevano che “il cancro è tutto nella testa ed è da qui che bisogna cacciarlo per guarire” (Bottaccioli, 2014), e coloro che invece affermavano che il cancro altro non era che un fenomeno di genetica molecolare. Alla fine degli anni Novanta Spiegel, psichiatra della Stanford University coinvolse in un intervento per la gestione dello stress, delle donne trattate per cancro al seno; l’intervento ha migliorato sia la sopravvivenza che la qualità della vita di queste pazienti. Successivamente sono stati condotti altri studi con l’obiettivo di mettere in evidenza se la psicoterapia e la gestione dello stress sono implicati nell’incremento della sopravvivenza dei malati di cancro. Tuttavia su dieci studi, cinque risultarono favorevoli e cinque contrari (Bottaccioli, 2014). Spiegel (2002) ha spiegato questi risultati contraddittori, affermando che gli studi erano disomogenei: alcuni avevano usato la psicoterapia individuale, altri quella di gruppo e infine altri studi avevano messo insieme persone con tumori diversi a uno stadio della malattia.

La Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI)

Lo stress è il modo in cui l’organismo risponde a una sfida dell’ambiente, esterna o interna e può essere benefico o dannoso se la situazione persiste nel tempo. La Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) è definita come una scienza transdisciplinare che studia e analizza le interazioni tra la psiche e il sistema nervoso, endocrino e immunitario e le loro ripercussioni nella clinica. Nel 1984 si sviluppa la PNEI. Il sistema Psiconeuroendocrinoimmunologico comprende numerosi organi: cervello e ipotalamo (sistema nervoso), ipofisi (sistema endocrino), midollo osseo e timo (sistema immunitario) (Gonzalez et al., 2018).

Al giorno d’oggi quasi tutta la popolazione è esposta a situazioni stressanti per lungo tempo, il che causa lo squilibrio del sistema PNEI. Per questo motivo, lo stress è considerato una pandemia del nostro tempo che è correlata all’aumento dell’obesità, dell’ipertensione arteriosa e dell’aterosclerosi (Gonzalez et al., 2018). Molti pazienti a causa dello stress soffrono di manifestazioni psicosomatiche come forte mal di testa, disturbi del sonno, sensibilità ai rumori e alla luce. Atri possono soffrire di malattie infiammatorie che colpiscono diversi organi, ad esempio depressione, cancro, malattie cardiovascolari, infarti, morbo di Parkinson, malattie psichiatriche e grave affaticamento cronico (Gonzales et al., 2018). Ci sono meccanismi noti che collegano direttamente lo stress psicologico alla progressione del cancro. I cambiamenti psicologici influenzano il sistema immunitario e quindi causano un ambiente adatto per lo sviluppo del tumore e la sua progressione. Con lo sviluppo della PNEI, vi è anche un numero significativo di ricerche che stanno cercando di trovare i meccanismi di questa connessione fra il sistema immunitario e le alterazioni delle cellule maligne. Un meccanismo che potrebbe avere una stretta connessione con la genesi dei tumori è quello dell’immuno-sorveglianza. Una teoria sull’immuno-sorveglianza è stata pubblicata nell’anno 2001 e, secondo tale teoria, l’interferone-ɤ (INF- ɤ) e i linfociti prevengono lo sviluppo del tumore primario. Tra i linfociti coinvolti sono state rilevate le natural-killer (cellule NK). Le cellule NK giocano un ruolo importante nel distruggere le cellule tumorali. Alcune ricerche hanno dimostrato che lo stress può causare una caduta di INF- ɤ. Uno studio condotto tra gli studenti di medicina nei periodi di esame, Ha dimostrato che il loro livello ematico di INF- ɤ scendeva significativamente nei periodi di esame rispetto ad altri periodi dell’anno non così stressanti (Ruška et al., 2015).

Sebbene il processo patogeno dello stress non sia stato pienamente compreso fino ad ora, manifestazioni di stress cronico sono state riscontrate in condizioni diverse, ad esempio nel 70% dei pazienti con artrite reumatoide, in oltre l’80% dei pazienti con sclerosi multipla, tra il 57% e il 100% nei malati di cancro e tra il 37% e il 57% dei pazienti affetti da Parkinson. È necessario quindi sviluppare stili di vita più sani, eseguire attività fisica ed evitare situazioni di stress cronico (Gonzalez et al., 2018).

 

Master annuale: diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità – III Edizione online, Ottobre 2022

Tra ottobre 2022 e ottobre 2023 si terrà online la terza edizione del master Diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità con docenti nazionali e internazionali.

 

Perché un master sui disturbi di personalità

Secondo dati recenti, si stima che i Disturbi di Personalità abbiano una prevalenza pari al 10-12% nella popolazione generale, rappresentando una quota rilevante delle persone afflitte da una qualsiasi sofferenza psicologica. Inoltre, la comorbilità tra disturbi di personalità e disturbi sintomatologici aumenta la severità di questi ultimi e ne peggiora la prognosi. Nella pratica clinica, è frequente sperimentare difficoltà con questi pazienti: non si tratta solo di riuscire a comprendere e inquadrare fenomeni spesso molto complessi, ma anche e soprattutto di trovare una chiave relazionale che permetta il raggiungimento di obiettivi comuni. Questo pone un’importante sfida ai clinici: al di là di quanto specifica sia la richiesta o la sintomatologia emersa, è impossibile avviare, condurre e concludere una terapia senza una comprensione del funzionamento globale della persona. La personalità, quindi, non può essere un’area opzionale di indagine; essa rappresenta il tentativo incarnato dei nostri clienti di dare senso a se stessi e al mondo che li circonda. E dunque uno strumento cruciale per chi sia intenzionato ad aiutarli in modo efficace.

Attualmente esistono però numerosi sistemi per classificare e trattare i disturbi di personalità. Se prendiamo ad esempio il DSM-5 (2013) troviamo i dieci disturbi definiti in ottica categoriale (paranoide, schizoide, schizotipico, borderline, narcisistico, istrionico, antisociale, evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo) nella Sezione II del manuale, mentre nella Sezione III è presente un modello alternativo (AMPD – Alternative Model of Personality Disorders) dove si valuta il livello generale di funzionamento e i tratti disfunzionali. Nel sistema ICD-11 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità esiste un ulteriore modello dimensionale, e quasi tutte le psicoterapie più utilizzate (es. Mentalization Based Treatment, Terapia Metacognitiva Interpersonale, Schema Therapy, etc.) hanno poi loro terminologie e processi o fattori su cui impostare la diagnosi.

In breve, il clinico si confronta con una babele di linguaggi che, se danno un senso della complessità del tema oggetto di indagine, rischiano però di essere confusivi. Confrontandoci ogni giorno con le sfide che questi disturbi pongono, abbiamo deciso di proporre un programma formativo che fosse in grado di fornire ai professionisti dei solidi strumenti in termini teorici e tecnici per implementare trattamenti efficaci e evidence-based orientati alla personalità. Nel farlo abbiamo pensato al tipo di corso a cui noi per primi avremmo voluto partecipare: un percorso nel quale clinici e docenti esperti, nazionali e internazionali, illustrano in modo chiaro e replicabile le conoscenze a cui ogni giorno attingono per trattare i loro pazienti. Nel 2020-2021 è nato così il primo master italiano online sui Disturbi di Personalità organizzato da Tages Onlus, Centri Clinici Tages e Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC/SPC, attualmente alla sua terza edizione.

Piano didattico e docenti

Al master prendono parte come docenti dei clinici esperti, italiani ed internazionali, nell’ambito dei Disturbi di Personalità al fine di offrire una formazione di alto livello, basata sulle più recenti evidenze della letteratura scientifica ed in linea con gli standard delle Linee Guida Internazionali sull’argomento, con particolare riferimento alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda. La modalità didattica è interattiva e prevede, all’interno del programma, numerosi momenti di interscambio tra docenti e discenti ed esercitazioni su vignette o casi clinici portati sia dai partecipanti che dai docenti. Il master ha durata annuale e si svolgerà da Ottobre 2022 a Ottobre 2023. Le lezioni si terranno nelle giornate di sabato e domenica (1 weekend al mese per 12 mesi), ad eccezione di un paio weekend che prevedono anche il venerdì. Oltre alle ore dedicate alla didattica, sono previsti dei gruppi di discussione (con partecipazione facoltativa) durante i quali sarà possibile approfondire i temi del master e discutere di casi clinici.

La didattica (124 ore di formazione) è suddivisa in 4 moduli che aiutano in maniera progressiva e fortemente orientata alla pratica a concettualizzare e trattare un disturbo di personalità. Durante le lezioni si alterneranno alcuni tra i massimi esperti mondiali del settore come ad esempio: Barbara Basile, Anthony Bateman, Antonino Carcione, Veronica Cavalletti, Simone Cheli, Giancarlo Dimaggio, Francesco Gazzillo, Paul Hewitt, Chris Hopwood, Thomas Lynch, Cesare Maffei, Alessandra Mancini, Francesco Mancini, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Nicola Petrocchi, Raffaele Popolo, Elena Prunetti, Antonio Semerari, Carla Sharp, Susan Simpson.

Questa vasta compagine di esperti presenterà i protocolli più utilizzati nel trattamento dei disturbi di personalità, dando accesso al titolo di Master in Diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità, nonché a specifici accreditamenti da parte di società scientifiche internazionali.

 

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Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento (2021) – Recensione

Uno dei maggiori esperti nello studio della discalculia ne fornisce, nel testo Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento, un quadro descrittivo esauriente ed aggiornato, capace di analizzare tutti i principali aspetti del disturbo. 

 

 Dalla scienza all’insegnamento. L’arduo percorso anticipato dal titolo inizia con un’ampia descrizione eziopatologica, in cui viene evidenziata la presenza di un dominio cerebrale specificamente deputato all’elaborazione numerica. Importante risultante scientifico che, se da una parte contribuisce a rafforzare l’ipotesi di un’eziologia neurobiologica del disturbo, dall’altra convalida l’esistenza di una capacità numerica innata nell’essere umano.

Riprendendo un modello teorico già esposto in sue precedenti opere, Butterworth (1999) estende alla competenza numerica la connotazione di innatismo che Chomsky (1965) prospettò per la capacità linguistica, sostenendo come sia erroneo credere che il bambino, sin dalle prime fasi della vita, non possegga una strumentazione cerebrale in grado di percepire l’entità numerica, pur senza avere nessuna conoscenza- analogica, verbale o arabica- del numero.

Il mistero del modulo numerico

La conoscenza numerica è ospitata all’interno di uno specifico dominio cerebrale, una sorta di kit di partenza che consente di esercitare precocemente la capacità di subitizing, intesa come istinto percettivo del numero. Questo nucleo, denominato Modulo Numerico, si trova in corrispondenza del solco temporale, e costituisce la base indefettibile per la conoscenza semantica del concetto di quantità.

È grazie all’attivazione di questa area che il cervello è capace di suddividere il mondo in termini di numerosità e di attribuire agli oggetti la connotazione di identità separate. Ovviamente si tratta solo di una base di partenza: la capacità di comprensione del modulo numerico non va oltre il numero 3; il suo progressivo arricchimento sarà legato all’azione interattiva tra fattori individuali- inerenti caratteristiche genetiche e stadio evolutivo- e fattori socio-culturali, riferiti alla scolarizzazione e alla familiarizzazione con la dimensione aritmetica. Tanto più questa area cerebrale verrà attivata con stimolazioni mirate, tanto più riceverà uno sviluppo quantitativo e qualitativo, affinando le proprie competenze.  Al contrario, un esercizio deficitario o non continuativo comporterà una compromissione della competenza numerica e una parziale atrofia dell’area cerebrale corrispondente.

L’apprendimento matematico può essere stimolato già in età prescolare, mediante la somministrazione, da parte della famiglia, di stimoli specifici con cui il bambino può approcciarsi alla conoscenza rudimentale del numero. I genitori devono favorire la costruzione di un contesto comunicativo e interattivo che prenda in considerazione la dimensione matematica, dimostrandone le ricadute applicative nella realtà quotidiana. Certo questo non riesce ad evitare lo sviluppo di una discalculia, ove se ne presentino le condizioni biologiche specifiche, ma serve quanto meno ad agevolare la conoscenza matematica in tutti i casi in cui non esistano impedimenti all’apprendimento della stessa.

La disfunzionalità del modulo numerico

Affermare l’esistenza di una predisposizione innata all’intelligenza numerica implica riconoscere che, in alcuni soggetti, le aree deputate al processamento numerico possano risultare deficitarie, e dunque più vulnerabili rispetto alla media. L’autore identifica questo svantaggio con il termine di deficit nucleare, perché relativo alla disfunzionalità di quello stesso nucleo cerebrale che fornisce la chiave di lettura di ogni informazione a carattere numerico presente nella realtà, oltre che nei libri di matematica. Non è certo difficile immaginare come un discalculico mostri serie difficoltà non soltanto nell’apprendimento delle tabelline e nella scrittura delle cifre, ma anche nella lettura dell’orologio e nella memorizzazione dei numeri telefonici. Da qui una compromissione del processo evolutivo e della qualità della vita, che può condurre all’adozione di strategie compensatorie ancor più disfunzionali e dannose. L’autore riporta il caso paradossale di un ragazzo inglese che, pur di mascherare la propria incapacità di destreggiarsi con resti e pagamenti alla cassa, prese ad organizzare piccoli furti nei negozi, arrivando addirittura a farsi arrestare!!

 Il deficit nucleare può essere dovuto a molteplici cause, di cui il testo riporta precisa descrizione: una vulnerabilità genetica, che rende possibile una familiarità al disturbo, condizioni soggettive del neonato, come il basso peso, la sofferenza fetale, una nascita prematura; comportamenti inadeguati assunti durante la gestazione, quali ad esempio stress perinatale, alimentazione insufficiente o sregolata, assunzione di fumo, alcool o psicofarmaci. A tal proposito la FAS, sindrome generata dall’assunzione di alcolici durante la gravidanza, comporta un’esposizione al disturbo particolarmente elevata, dato come la sua presenza patologica provochi la disfunzionalità di quelle stesse aree cerebrali necessarie al processamento numerico, tra cui la sostanza bianca e i lobi parietali. Dal punto di vista neurologico viene citata la sindrome di Gertseman, in cui un’agnosia digitale compromette una rappresentazione mentale delle dita e la costruzione di un funzionale orientamento sx-dx. Possiamo solo immaginare quanto questo possa rivelarsi un fattore oppositivo all’apprendimento matematico, soprattutto nelle prime esperienze di conteggio, in cui l’utilizzo delle dita- counting on fingers – si mostra uno strumento di ausilio assolutamente indefettibile.

Dalla diagnostica alla politica sociale: il messaggio del testo

In ambito diagnostico l’autore evidenzia la necessità di operare una distinzione tra diagnosi orientata alla valutazione e diagnosi orientata al sostegno, la prima importante per identificare la presenza oggettiva del disturbo, e la seconda per favorire l’applicazione di programmi di recupero individuali, ciclici ed intensivi, modellati sulle caratteristiche della zona prossimale del soggetto.

Dal punto di vista didattico viene ribadita la necessità di costruire una didattica individuale e personalizzata, per questo più attenta ai bisogni e alla capacità dell’allievo che alle tempistiche didattiche; è necessario avanzare a piccoli passi, limitare il carico di memoria e traslare i numeri in una dimensione concreta, per strappare la matematica a quei connotati di inconoscibilità e di astrattezza che, specie per un discalculico, possono mostrarsi eccessivi. Il numero deve diventare un oggetto concreto, da manipolare e controllare, per ottenere sullo stesso quel feedback visuo-sensoriale così importante nelle prime fasi dell’apprendimento.

La flessibilità dello stile didattico può tradursi anche nell’impostazione di lezioni alternative rispetto a quelle canoniche, in cui vengono valorizzate le potenzialità interattive e creative degli allievi, in modo da favorirne l’interesse e la motivazione, anche mediante l’impiego di programmi digitali.

Tutto questo senza pretendere troppo né colpevolizzare eventuali regressioni, errori o incidenti di percorso. La paura del numero è controproducente all’apprendimento della matematica e di qualsiasi altra materia, oltre a trasmettere il messaggio, ben poco educativo, che spinge a colpevolizzare le difficoltà, anziché provare a limitarle.

Certo la scuola non può fare tutto da sola. I programmi di ausilio sono costosi, così come i cicli di potenziamento e i trattamenti di recupero. Grande impegno, sotto questo punto di vista, deve essere assunto dalle politiche istituzionali, chiamate a sostenere con contributi finanziari gli strumenti riabilitativi che si rendono di volta in volta necessari. Non solo impegno economico, tuttavia: le istituzioni devono impegnarsi nella creazione di politiche di sostegno volte a riconoscere il disturbo discalculico e a legittimarne l’esistenza, in vista di un più agevole inserimento socio-lavorativo.

È necessario che l’orientamento inclusivo trovi continuità nel contesto extra scolastico, affinché il discalculico possa attuare sul lungo termine quegli stessi progetti cui la scuola lo ha motivato, prospettandone la realizzabilità.

La discrasia tra modelli teorici ed attuazioni pratiche deve essere quanto più possibile ridotta. Nessuna vena polemica, da parte dell’autore, ma un appello esplicito a tutti quegli organismi istituzionali che possono rendere la gestione del disturbo discalculico in linea con una continuità di intenti e coerenza degli obiettivi che “parta dall’alto”.

Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento. Fino alle istituzioni, potremmo aggiungere.

Il testo lancia un messaggio diretto e concreto, in coerenza con uno stile espressivo altrettanto risoluto: la scienza e la didattica non devono percorrere binari paralleli, ma tracciare percorsi flessibili, destinati all’incontro e all’integrazione multidisciplinare. Questo avverrà se le scoperte scientifiche non resteranno mere dissertazioni da laboratorio, ma verranno effettivamente trasferite nel contesto scolastico e socio-istituzionale, ove potranno esplicare la propria efficacia attuativa. Perché una difficoltà non diventi un limite insormontabile è necessario un impegno collettivo, da parte del micro come del macro sistema. In vista dell’obiettivo finale, e tuttavia primario: valorizzare il discalculico come allievo e come persona.

Una breve panoramica sul comportamento aggressivo nel gaming

Rispetto al gaming patologico, gli adolescenti sono la categoria più esposta al rischio di sviluppare un comportamento aggressivo, specialmente il genere maschile, che sembra essere quello che gioca di più a videogiochi di tipo violento.

 

La socialità del gaming

 A discapito degli stereotipi esistenti sulla solitudine dei gamers, ovvero dei giocatori di videogiochi, più del 60% di loro pratica l’attività del gaming, ovvero l’attività di giocare ad un videogioco, con altri gamers (Hilvert-Bruce e Neil, 2020). Questa socialità è in realtà un fenomeno con due facce della stessa medaglia. Infatti, mentre sono presenti giocatori che condividono momenti di divertimento, felicità e tutti i sentimenti positivi che possono derivare dalla pratica di un videogioco online, esistono anche molte persone che durante il gioco non riescono a godersi pienamente le sensazioni positive ed esperiscono sentimenti negativi come la rabbia, l’eccessivo nervosismo e il tilt (inteso come la perdita di concentrazione prima, dopo o durante una partita), attuando comportamenti aggressivi nei confronti della community, rovinando quindi l’esperienza di gioco propria e di tutti gli altri giocatori. Il mondo del gioco online, detto multiplayer, è caratterizzato da fenomeni come il trash talking, letteralmente “discorsi spazzatura”, ovvero l’insieme di insulti, minacce e provocazioni nei confronti degli altri giocatori. L’obiettivo consiste nel provocare una reazione emotiva che possa compromettere la concentrazione dei giocatori avversari, o dei propri compagni di squadra, se questi vengono percepiti inutili.

Esistono molti studi scientifici sul legame tra videogiochi violenti e aumento dell’aggressività nei giocatori (Fischer et al., 2010). Infatti, sembra che i contenuti violenti e aggressivi nei videogiochi possano aumentare la frequenza di pensieri, emozioni e comportamenti aggressivi, oltre ad aumentarne l’intensità (Fischer et al., 2010). Questa aggressività sembra intensificarsi quando il gamer passa molto del suo tempo a giocare (Lemmens et al., 2011). Infatti, è stato dimostrato che spendere troppo tempo a giocare, oltre a incrementare l’aggressività, può inoltre favorire la comparsa di numerosi sintomi come sensazione di perdita di controllo, preoccupazione, ritiro sociale, conflitto interpersonale e intrapersonale (Lemmens et al., 2011).

L’aggressività nel gaming

 I comportamenti aggressivi sono associati al gaming patologico, in quanto essi ne sono una conseguenza, e ciò sta diventando un problema sempre più diffuso in molte famiglie (Lemmens et al., 2011). Esiste tuttavia una grande differenza tra il gaming eccessivo e il gaming patologico (Lemmens et al., 2011). Nonostante in entrambi i casi l’individuo dedichi molto del suo tempo al gioco, nel primo caso non si riscontrano effetti dannosi, invece nel secondo caso si parla proprio di incapacità di controllare il tempo che viene dedicato al gaming, anche se ciò può comportare problematiche emotive e sociali (Lemmens et al., 2011). Rispetto al gaming patologico, gli adolescenti sono la categoria più esposta al rischio di sviluppare tale comportamento, specialmente il genere maschile, che sembra essere quello che gioca di più a videogiochi di tipo violento (Lemmens et al, 2011). Una possibile spiegazione della forte aggressività associata al gaming patologico potrebbe essere il fatto che l’aggressività interpersonale è una caratteristica tipica di qualsiasi dipendenza, come per esempio la dipendenza da sostanze, la dipendenza da alcool e la dipendenza da gioco d’azzardo (Lemmens et al., 2011). É stato inoltre dimostrato che videogiochi con contenuti aggressivi aumentano l’associazione automatica tra l’aggressività e la percezione di sé stessi (Fischer et al., 2010). Infatti, è possibile che il giocare online con lo scopo di vincere sia una modalità che i giocatori utilizzano per soddisfare alcuni bisogni come quello di sentirsi competenti e quello dell’autonomia (Monge e O’Brien, 2022). Le persone sono molto motivate a soddisfare questi bisogni, tanto che una mancata realizzazione di essi può portare l’individuo ad esperire forte aggressività e frustrazione. Se il gamer vede la vittoria della partita come un passo per raggiungere la realizzazione dei suoi bisogni, è anche vero che i suoi compagni di squadra possono essere visti come un peso, qualora non dimostrassero delle skills sufficienti per aiutarlo a vincere. Di conseguenza, il giocatore potrebbe sentirsi giustificato ad attuare i comportamenti aggressivi citati in precedenza verso i propri compagni di squadra.

Conclusioni

In conclusione, l’eccessiva aggressività che viene riscontrata nel mondo del multiplayer è un fenomeno che è sempre più necessario monitorare, in quanto rovina l’esperienza di gioco di sempre più giocatori, arrecando danno alle communities. Sarebbe utile sensibilizzare i giocatori riguardo la regolazione delle emozioni e incrementare la loro consapevolezza rispetto agli effetti che i comportamenti aggressivi possono avere sugli altri (Sharma et al., 2022).

 

Mi scappa la pipì. L’Enuresi notturna nei bambini

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo ‘Mi scappa la pipì. L’Enuresi notturna nei bambini’ su come prevenire la cronicizzazione del disturbo e sostenere i genitori nel ristabilire un equilibrio familiare.

 

L’enuresi è un disturbo piuttosto frequente, ogni anno i bambini che soffrono di enuresi notturna sono circa 5-7 milioni. Fare pipì a letto è una condizione che interessa il 5-10% dei bambini di età pari a 7 anni e che tende a ridursi progressivamente nel corso del tempo. È bene sapere che il 3% dei maschietti e il 2% delle femminucce può continuare a fare la pipì a letto anche a 7-8 anni, fino a 10 anni. Ma l’aspetto più importante è il riconoscimento precoce di questo fenomeno e l’intervento ragionato dei genitori, al fine di evitare un’ingiusta e dannosa colpevolizzazione del bambino e tensioni all’interno del nucleo familiare. Tale disturbo può avere infatti conseguenze rispetto l’area psicologica, in particolar modo può influire sull’area sociale del bambino portandolo a ritirarsi e a sperimentare inadeguatezza e vergogna. A ciò possono aggiungersi vissuti di incomprensione ed emozioni di rabbia e talvolta disgusto da parte di chi accudisce il bambino. L’intervento cognitivo-comportamentale ha lo scopo di intervenire sia con il bambino che con i genitori per prevenire la cronicizzazione del disturbo e sostenere i genitori nel ristabilire un equilibrio familiare.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Martina Torresi, Psicologa, Psicoterapeuta.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

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