Le emozioni spesso sperimentate dai clinici che hanno a che fare con i pazienti difficili sono senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento, che portano il terapeuta a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale.
Chi sono i pazienti difficili?
I pazienti difficili sono figure note tra i contesti clinici e la salute mentale pubblica (Foster, 2013). Nello specifico, i dati epidemiologici di paesi diversi mostrano che la prevalenza dei pazienti percepiti come difficili da parte del personale clinico varia dal 15% al 60% nei contesti sanitari generali (Hahn et al., 1996; Hahn, 2021; Jackson & Kroenke, 1999) e dal 6% al 28% nelle istituzioni psichiatriche (Koekkoek et al., 2011; Modestin, Greub & Brenner, 1986). Tale etichetta di paziente difficile, quando formulata, tende a rimanere incollata al paziente e influenza l’impostazione di un trattamento, in quanto anche i clinici attribuiscono a tale classificazione una persona che crea resistenze e che mina intenzionalmente il trattamento (Ekdawi, 1967). Nonostante l’esistenza riconosciuta di questi casi, non è chiaro che cosa renda difficile un paziente (Colson et al., 1985; Groves, 1978; Koekkoek et al., 2006). La conseguenza è che vengono definiti come pazienti difficili tutte quelle categorie di persone affette da disturbi che resistono in modo maggiore ai trattamenti: si pensi alle tossicodipendenze e ai pazienti psicotici (Sellers et al., 2012), alla depressione che resiste alle terapie farmacologiche (Greden, 2001; McCrone et al., 2018) e ai disturbi di personalità che, nei contesti di salute mentale, rappresentano una popolazione difficile da curare dai terapeuti che varia dal 32% al 46% (Koekkoek et al., 2011).
Secondo gli autori, alcune delle difficoltà riscontrate da parte dei terapeuti sono gli atteggiamenti definiti come aggressivi, esigenti, manipolativi o dipendenti che i pazienti mettono in atto (Beryl & Volm, 2018; Cleary et al., 2002; James & Cowman, 2007). Oltre ai pazienti, numerosi studi sono stati fatti per comprendere il punto di vista e le difficoltà che il clinico riscontra quando è di fronte a questi atteggiamenti, considerando che le percezioni possono esercitare un’enorme influenza su di sé, sul paziente e sul processo terapeutico (Colson et al., 1985). Riprendendo il concetto psicodinamico di controtransfert, cioè le risposte emotive che il paziente evoca nel terapeuta, i clinici riferiscono di sentire spesso degli atteggiamenti di chiusura, esigenti, impulsivi, autodistruttivi, non collaborativi e non aderenti alle raccomandazioni cliniche del trattamento (Bos et al., 2012).
Le emozioni spesso evocate nei terapeuti sono tendenzialmente negative, come senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento (Gallop & Wynn, 1987; Garcia et al., 2016) che portano il terapeuta stesso a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale (Bachrach et al., 1987; Colli et al., 2014; Colson et al., 1985; Mohr, 1995). Esistono numerosi studi che si concentrano sulla descrizione e sulla categorizzazione di tali pazienti, mentre un numero minore di ricerche si concentra sulla definizione di linee guida utili ad aiutare i terapeuti nel riconoscimento e nella regolazione di tali reazioni emotive (Fischer et al., 2019).
Il vissuto dei terapeuti davanti ai pazienti difficili
Fischer e colleghi (2019) hanno svolto uno studio per comprendere l’esperienza vissuta da parte di dieci terapeuti cileni attraverso delle interviste qualitative semi-strutturate. I terapeuti lavoravano nel servizio sanitario pubblico, avevano avuto esperienze con pazienti difficili e svolgevano una formazione continua sul trattamento dei disturbi di personalità. La trascrizione delle interviste è stata riportata utilizzando i principi generali della Grounded Theory (Strauss & Corbin, 1998) con alcune modifiche (Foster, Hays & Alter, 2013). I risultati dell’analisi sono organizzati in quattro dimensioni: le caratteristiche dei pazienti, gli atteggiamenti dei pazienti nei confronti dei terapisti o dell’equipe, gli effetti dei pazienti sui terapeuti e il contesto di trattamento.
Per quanto riguarda la prima dimensione, i terapeuti riportano disturbi di personalità spesso in comorbilità con disturbi da uso e abuso di sostanze, associati a storie traumatiche, neglect, povertà o mancanza di supporto sociale. Tali esperienze contribuiscono a difficoltà interpersonali mantenute da aggressività e deficit nelle relazioni sociali, difficoltà emotive e comportamenti autolesivi (Fischer et al., 2019). Alcuni terapeuti riportano un basso funzionamento cognitivo in questi pazienti. La sottocategoria degli atteggiamenti include le difficoltà legate ad una percepita mancanza di impegno per gli appuntamenti fissati o l’adesione al trattamento solamente nei momenti di crisi: secondo gli intervistati, questi pazienti si presentano al trattamento con un senso di scoraggiamento e sentendo che non sarà utile (Fischer et al., 2019). Molti pazienti presentano aspettative irrealistiche sul trattamento, facendo pressione o manifestando aggressività con il terapeuta.
L’effetto sul terapeuta da parte di questi pazienti include emozioni negative, come tensione e sentirsi esauriti o, al contrario, sensazione di noia (Fischer et al., 2019). Infine, per quando riguarda il contesto di trattamento, le sottocategorie citate sono il sovraccarico di lavoro, cioè la qualità terapeutica che diminuisce in relazione ad una maggiore quantità di pazienti, le scarse risorse, come la mancanza di personale, o i trattamenti inadeguati causati della bassa frequenza di sessioni e dal tempo insufficiente assegnato ad ogni incontro (Fischer et al., 2019).