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Intervenire con gli Hikikomori: il progetto Psicologo Fuori Studio per il ritiro sociale estremo

I ragazzi Hikikomori molto spesso rifiutano di definirsi come sofferenti e quindi rifiutano di farsi aiutare, come poter intervenire allora?

Di Tommaso Civiero, Francesca Perrone

Pubblicato il 17 Gen. 2022

Con i giovani Hikikomori, le modalità terapeutiche spesso tentate sono la psicoterapia individuale, la terapia familiare, la psicoeducazione, la farmacoterapia, la terapia EMDR. Spesso funzionano, ma altre volte no. Quando non si trova appiglio nelle risposte più tradizionali, diviene necessario trovare soluzioni nuove e creative.

 

Il ritiro sociale estremo, termine con cui si possono identificare i ragazzi Hikikomori, mette ogni clinico davanti ad un dilemma.

I ragazzi che si sottraggono alle relazioni sociali e alla scuola, e che possiamo definire come ritirati sociali, compiono questa “scelta” pacificamente e volontariamente: un Hikikomori non fa male a nessuno, non compie atti estremi, possibilmente cerca proprio di passare inosservato… Ma il buon clinico può notare, o meglio può intuire, anche dei segnali di sofferenza psicologica, significativa ed acuta, che meriterebbero di essere approfonditi. In fondo il ragazzo, nel momento in cui si ritira, lo fa per paura, ansia, o evitamento di una situazione attuale (gli amici, la scuola…), ma non ha piena consapevolezza di quanto della propria vita stia realmente sacrificando, nel presente e nel futuro. E noi non possiamo sapere quanto davvero, nel profondo, viva della fatica o del dolore legati alla propria vicenda esistenziale e relazionale.

Il dilemma è quindi tra accettare la volontarietà di questo atto, del ritiro sociale, lasciando il ragazzo alla sua vita isolata, oppure tentare di superare l’ostacolo di questa chiusura al mondo, per provare a lenire quella sofferenza.

Se si opta per la seconda possibilità, ci si trova a dover affrontare un fatto: i ragazzi Hikikomori molto spesso rifiutano di definirsi come sofferenti e quindi rifiutano di farsi aiutare, sono difficili da avvicinare e tendono a non fidarsi degli altri.

La psicoterapia individuale, la terapia familiare, la psicoeducazione, la farmacoterapia, la terapia EMDR sono modalità terapeutiche spesso tentate per aggirare questi ostacoli. Talvolta funzionano, ma molte altre volte no. Quando non si trova appiglio nelle risposte più tradizionali, diviene necessario trovare soluzioni nuove e creative.

Negli anni 2013 e 2014, all’interno del nostro percorso di formazione come terapeuti, abbiamo iniziato a confrontarci con situazioni di questo tipo, situazioni complesse che rimbalzavano da un esperto ad un altro, da un servizio specialistico al successivo, senza che nessuno riuscisse a trovare una soluzione efficace. Quando il paziente principale si rifiuta di recarsi in studio, o lo fa saltuariamente ma controvoglia, chiunque si può trovare ad oscillare tra la tentazione di gettare la spugna e la consapevolezza di dover tener duro e avere pazienza, anche se i risultati in un primo momento sono minimi.

Ci capitava di essere chiamati in campo da colleghi ben più esperti di noi, con l’idea di tentare un ultimo disperato approccio, ma senza che fosse chiaro quale fosse la specificità e l’obiettivo del nostro intervento domiciliare: l’importante era inviare a casa qualcuno, che provasse a fare qualcosa, non importa esattamente cosa, ma che tentasse di smuovere le acque e proponesse qualche attività, perché il ragazzo, o ragazza, rifiutava di recarsi in studio, ma certamente si trovava in uno stato di difficoltà.

In quegli anni, abbiamo quindi iniziato ad osservare come esistessero situazioni in cui nessuna delle “classiche” modalità terapeutiche sembrava ottenere risultati soddisfacenti. Spesso non riuscivano proprio a “raggiungere”, ad incontrare, questi ragazzi.

In poco tempo, invece, ci siamo accorti delle potenzialità di questa diversa modalità di intervento domiciliare e siamo stati incoraggiati anche dai primi, promettenti, risultati. Presto abbiamo però anche constatato quanto fosse necessario costruire un preciso modello che facesse da guida per il lavoro psicologico domiciliare. Non bastava infatti “fare qualcosa” o “offrire una relazione”. Non bastava nemmeno solo proporre delle attività. Abbiamo sentito la necessità di costruire un modo di lavorare che sfruttasse al massimo tutte le potenzialità del setting domiciliare, che fosse adeguato alle difficoltà delle situazioni che incontravamo e che fosse di reale aiuto ai nostri pazienti.

Abbiamo quindi iniziato a riflettere su un modello di intervento che fosse diretto a ragazzi e ragazze gravemente sofferenti, ma non motivati a percorrere un classico percorso psicoterapico. Quindi pensato non esclusivamente per gli Hikikomori, ma soprattutto per loro.

Il Progetto Psicologo Fuori Studio

In collaborazione con la Scuola di Psicoterapia Mara Selvini Palazzoli di Milano abbiamo quindi deciso di far diventare quest’idea un progetto di lavoro, il progetto Psicologo Fuori Studio.

Ad oggi, con questo intervento, abbiamo raggiunto oltre settanta ragazzi e famiglie, grazie anche al coinvolgimento di diversi giovani colleghi che sono stati formati e che collaborano con noi negli interventi domiciliari.

Il progetto ha raggiunto ragazzi e ragazze non solo a Milano e hinterland, ma anche nelle province lombarde di Pavia, Bergamo, Brescia, Como, Monza e Lecco, oltre che a Roma, a Faenza, a Vercelli e prossimamente a Torino.

L’obiettivo del progetto è duplice: in primis andare incontro (letteralmente) a questi ragazzi e ragazze, alla loro sofferenza e alle loro famiglie, costruendo un intervento terapeutico efficace e completo. In secondo luogo, abbiamo cercato di dare forma, definizione e dignità a un modello di lavoro psicologico domiciliare che abbiamo chiamato appunto Psicologo Fuori Studio.

Il nostro modello prevede azioni in due luoghi dell’intervento:

  • a casa e sul territorio un intervento individuale con il ragazzo, con una presenza intensiva (due volte alla settimana) e una commistione di livelli di lavoro, che vanno dalla condivisione pratica di attività quotidiane, alla costruzione di una relazione terapeutica, al lavoro clinico sulla sofferenza e sui sintomi.
  • in studio una psicoterapia familiare, o un percorso di sostegno ai genitori, con uno psicoterapeuta familiare e lo stesso Psicologo Fuori Studio.

A ciò si aggiunge un lavoro in rete con tutti gli altri professionisti coinvolti.

Crediamo sia importante che la presa in carico principale sia svolta da un unico professionista: lo Psicologo Fuori Studio, un professionista appositamente formato, supervisionato mensilmente da un referente e inserito in un’équipe di colleghi. Oltre che del percorso terapeutico egli si occupa di costruire le necessarie relazioni che permettano a tutti gli altri operatori coinvolti nel caso di essere in connessione tra loro e procedere in modo armonico. Nel tipo di situazioni in cui lavoriamo, spesso abbastanza complesse, risulta fondamentale avere un unico professionista che sia molto presente nella vita del ragazzo, poiché con competenze terapeutiche, valutative e osservative specifiche può divenire un referente sia per la famiglia che per l’équipe terapeutica, oltre che un catalizzatore del processo di cura nel suo insieme.

Come appare chiaro, il ruolo dello Psicologo Fuori Studio è definito e si distingue da altre figure più tradizionali, e conosciute, come quelle dell’educatore o del terapeuta domiciliare, poiché racchiude, come detto, diversi compiti e competenze in un’unica figura, un unico professionista di riferimento.

Ragazzi fuori dal mondo: qualche informazione sul fenomeno Hikikomori

Come ormai noto, il fenomeno del ritiro sociale estremo è stato inizialmente osservato in Giappone già a partire dalla fine degli anni Settanta. Lo psichiatra giapponese Saitō (1998) coniò il termine Hikikomori, letteralmente “stare in disparte”, per definire questa particolare forma di ritiro sociale.

Oggi si registra un costante aumento di casi in tutto il mondo Occidentale, soprattutto in Italia. Gli studi su questo fenomeno sono cresciuti esponenzialmente negli ultimi anni e si è osservato che spesso il ritiro sociale volontario si può associare a disturbi dell’area ansiosa, disturbi dell’umore, forme di natura psicotica, disturbi dell’attaccamento e disturbi post traumatici (Suwa et al., 2003; Suwa & Suzuki, 2013).

L’emergere di questo fenomeno si associa ad un significativo e preoccupante aumento della dispersione scolastica, lavorativa e, possiamo dire, sociale: basti pensare che i ragazzi non impegnati in un percorso formativo o di lavoro (NEET) sono oggi in Italia quasi 1 ogni 4 nella fascia 15-29 anni (ISTAT 2020), e probabilmente in aumento per effetto delle restrizioni legate alla pandemia di Covid-19.

Alcuni di loro diventano Hikikomori: ritirati sociali.

Per capire meglio di cosa si parla quando ci riferiamo ai termini “Hikikomori” o “ritiro sociale estremo” citiamo un nostro articolo, pubblicato nel 2019 sulla rivista specialistica Terapia Familiare.

Dalla nostra esperienza e da quanto emerge nella letteratura italiana e internazionale, l’insorgenza e lo sviluppo del ritiro sociale estremo possono essere descritti come segue.

Il ragazzo inizia a saltare sempre più di frequente la scuola, fino a non andarci più. Si ritrae gradualmente dalle relazioni sociali fino a restare con pochi amici, che comunque non vede, o con nessun amico. Sviluppa un senso sempre maggiore di vergogna, fino a temere gli altri per via del proprio aspetto, del proprio odore, dei propri comportamenti percepiti come inadeguati. Dopo alcune settimane di ritiro inverte il ritmo sonno/veglia. Spesso vive una condizione di forte depressione e/o ansia. Passa da periodi in cui mangia moltissimo ad altri in cui non mangia affatto. Alterna aggressività ad atteggiamenti fortemente dipendenti verso i genitori. Con il passare del tempo, dei mesi e degli anni l’auto-reclusione può portare a manifestazioni violente e allo sviluppo di sintomi ossessivo compulsivi, episodi psicotici o deliri persecutori. Nella maggior parte dei casi, benché avverta un disagio, il ragazzo non chiede aiuto. Non in tutti i casi è presente l’uso di internet o videogame, da considerare come minimi indicatori di apertura verso l’esterno e quindi come possibili strumenti di mediazione, utili per entrare in contatto con il ragazzo (Saito 1998; Li e Wong 2015; Ranieri 2015).

Come evidenziano Li e Wong (2015) in un’interessante revisione della letteratura sul tema, si possono identificare differenti forme di ritiro sociale sulla base di diversi criteri: assenza/presenza di comorbidità con altri disturbi psichiatrici (Hikikomori primario e secondario), legame di attaccamento, livello di socialità/asocialità, gravità e pervasività del ritiro.

Superare quella porta: il nostro intervento per il ritiro sociale

La domanda che sorge quindi spontanea è: come si può aiutare un ragazzo sofferente, che però non riconosce il suo malessere e rifiuta il mondo esterno, dunque anche un nostro aiuto?

Solitamente si suggerisce ai genitori di non “strattonare”, o cacciare, i ragazzi fuori dalla loro stanza o fuori di casa, di evitare azioni forti e aggressive: raramente queste soluzioni possono funzionare e, anzi, spesso peggiorano la loro condizione, incrementando l’isolamento o contribuendo allo sviluppo di una sintomatologia peggiorativa.

Questo perché quando si incontra un ragazzo ritirato bisogna avere bene in mente che l’isolamento dal mondo esterno è per lui una forma estrema di protezione, che gli permette di evitare il contatto con le parti di sé ferite e più sofferenti. Evitarle, chiudendosi, significa quindi avere la garanzia di non essere soverchiati da vissuti emotivi ingestibili: vergogna, senso di inadeguatezza, dolore profondo.

In primo luogo, è quindi necessario comprendere a fondo questa sofferenza e non esporla troppo bruscamente a nuovi traumi, ma tutto ciò non è sufficiente.

Bisogna prendersi cura di quella sofferenza, lentamente avvicinarla e lasciarla, molto gradualmente, emergere, per poter lenire pian piano le ferite. Occorre anche aprire degli spiragli tra il mondo chiuso del ragazzo e il mondo esterno. Piccole finestre dove sperimentarsi in relazione con il mondo, in sicurezza, con qualcuno di cui ci si fida.

Lo strumento principale in questo caso, come in ogni psicoterapia, non può essere altro che la relazione, il luogo dove questi passi graduali ma necessari si possono fare. Costruire una relazione di fiducia, un’alleanza, permette al ragazzo di percepire lo Psicologo Fuori Studio come quella che nella teoria dell’attaccamento si chiama “base sicura” (Bowlby, 1989), un luogo per vivere alcune esperienze senza sentirsi sopraffatti, un porto da cui partire e a cui ritornare in caso di necessità, dubbi o incertezze. Questa funzione della relazione è centrale per costruire un vero recupero e la costruzione graduale di un’autonomia serena e consapevole.

Con i ragazzi ritirati la costruzione di una buona relazione è inizialmente un obiettivo tutt’altro che scontato, un obiettivo che necessita di un certo tempo per essere raggiunto. Come detto, per proteggersi dalla sofferenza (personale, esistenziale, generazionale), i ragazzi Hikikomori cercano proprio di evitare la relazione con gli altri, compresi la maggior parte dei familiari e naturalmente anche lo psicologo.

In questa prima fase, molto delicata, per costruire un vero processo di terapia e cercare di avvicinarci sempre più al ragazzo, cerchiamo quindi di usare il tempo in modo graduale, concentrandoci sulla comprensione, la condivisione delle attività, la valorizzazione delle sue risorse.

Senza il giusto tempo non è possibile ottenere qualcosa. Non si può costringere nessuno a fidarsi contro la sua volontà, specialmente qualcuno che non si fida del mondo esterno. Ragione per cui gli interventi domiciliari devono essere intensivi, due volte alla settimana e della durata di due ore, e ci aspettiamo, per esperienza e conoscenza, che ci vogliano alcuni mesi di frequentazione assidua per poter raggiungere un consolidamento del rapporto di fiducia.

In questo tempo, e anche successivamente, lo Psicologo Fuori Studio si impegna nello sviluppare temi, argomenti, oltre che situazioni concrete, in cui sia possibile incrementare la condivisione di passioni, interessi, idee, pensieri, in un clima di comprensione e riconoscimento del valore del ragazzo. Solitamente i ragazzi ritirati si chiudono in una torre d’avorio proprio per evitare di sentirsi incompetenti o inetti davanti al difficile, ed esigente, mondo esterno: favorire l’emergere delle loro qualità, valorizzarle, farle esprimere è un passaggio centrale per potersi sentire in grado di mettere il naso fuori dal proprio spazio domestico, sicuro, e affrontare le proprie difficoltà.

Parlare non basta. A volte nemmeno si riesce: ci sono troppa resistenza, troppa sfiducia, troppa chiusura. Allora bisogna attivarsi sul piano del fare. La condivisione di un’attività piacevole e interessante è un generatore naturale di relazioni. Stare e fare insieme vanno spesso di pari passo. Camminare, cucinare, ascoltare musica, fare un gioco, visitare un luogo, andare al cinema sono attività che possono sembrare banali, ma per un ragazzo Hikikomori fare queste attività insieme a qualcun altro, in un clima armonico, è un’esperienza positiva e toccante. In quel momento sarà compito dello Psicologo Fuori Studio introdurre anche temi più personali e profondi, propri della psicoterapia.

Come detto, solo quando si è costruita una buona alleanza di lavoro e sarà in atto una graduale ripresa della fiducia in sé e delle proprie attività quotidiane, sarà possibile iniziare a prendersi cura della sofferenza acuta di cui abbiamo parlato.

Questo è l’obiettivo finale del lavoro di uno Psicologo Fuori Studio, un obiettivo che, come detto, richiede tempo, dedizione e cura.

L’accesso alle sofferenze più acute e profonde, e la loro cura, rientrano nelle normali competenze di ogni psicoterapeuta, è il percorso da fare per arrivarci che secondo noi fa la differenza. Arrivarci partendo da una comune esperienza di condivisione e vicinanza è un grande punto di partenza per un percorso che vuole andare a trovare e risolvere i nodi sofferenti, traumatici, disfunzionali del ragazzo.

La famiglia come protagonista

L’esperienza ci insegna che lavorare soltanto con il ragazzo spesso non è sufficiente. La famiglia è il contesto in cui ciascun Hikikomori vive ed è cresciuto e per questo siamo fortemente convinti che sia anche il miglior contesto possibile per favorire un recupero.

Per questo motivo chiediamo alla famiglia tenacia, continuità e attiva partecipazione al percorso terapeutico del figlio. Tutta la famiglia viene quindi coinvolta nel processo di cura, attraverso sedute familiari in studio condotte da una coppia di psicoterapeuti familiari, dei quali possibilmente uno è lo stesso Psicologo Fuori Studio.

Sappiamo per esperienza che la sofferenza acuta di cui tanto abbiamo parlato spesso è condivisa, con tutti o con alcuni familiari, e il più delle volte si attiva proprio nelle dinamiche relazionali della famiglia allargata. Un lavoro congiunto per un cambiamento di tali dinamiche è terapeutico non solo per i ragazzi ritirati, ma anche per i loro familiari.

Senza l’alleanza e la partecipazione attiva dei genitori, il percorso per qualsiasi ragazzo diventa assai più impervio ed incerto.

Guarire la sindrome Hikikomori

Il concetto di guarigione è, dal punto di vista teorico e clinico, piuttosto complesso. Quello che possiamo affermare è che nel seguire i casi cerchiamo di raggiungere non solo la remissione del sintomo e un recupero comportamentale (tornare a scuola, uscire di casa, riprendere le relazioni sociali con i pari), ma anche un’evoluzione psicologica del ragazzo ritirato e del suo contesto familiare, in modo da permettergli di intraprendere nella vita un cammino più stabile, completo e soddisfacente. I risultati ottenuti in questi anni ci incoraggiano a perseguire questo obiettivo e crederlo realizzabile.

 

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