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Hikikomori: la storia di un prigioniero in una stanza

La parola giapponese Hikikomori significa “stare in disparte”, persone che vivono segregate in una stanza, per loro scelta, connesse al web e ai videogiochi

Di Marta Di Grado

Pubblicato il 07 Mag. 2021

Questa è la storia di Alessandro, un hikikomori.

 

Lo vedo per la prima volta a casa sua. Si è svegliato tardi, mi fa attendere un po’ in salotto. Si presenta proprio come immaginavo un hikikomori: in pigiama, trascurato, i capelli lunghi incollati al viso. Ho la sensazione, mentre si muove, che il suo corpo non gli appartenga: che lo abiti quasi per caso, e con fastidio. Ho difficoltà a intercettare i suoi occhi, ma quando riesco percepisco uno sguardo dolce, smarrito. Mi presento per un primo colloquio psicologico domiciliare in seguito alla chiamata di sua madre, che al telefono appariva sofferente, quasi arresa. Alessandro, 20 anni, vive auto-recluso in casa da 5. Uno dei circa 100.000 casi di Hikikomori oggi in Italia, secondo le stime di Hikikomori Italia: persone che vivono segregate in una stanza, per loro scelta, e connesse al web e ai videogiochi tutto il giorno. Da quella ombrosa stanza del silenzio a poco a poco gli Hikikomori rischiano di non uscire più, né per piacere né per dovere (sono in aumento gli abbandoni scolastici), e per nutrirli i genitori lasciano il vassoio dietro la porta.

La parola giapponese significa appunto “stare in disparte”. Il termine non è una diagnosi: si tratta infatti di un disagio sociale, non di una malattia. E quel vassoio solitario, per ore dietro la porta chiusa, col pane raggrinzito e la banana sempre più nera, ne è l’emblema più eloquente.

Nei primi tempi della terapia, Alessandro aveva difficoltà a fidarsi di me. I nostri colloqui sfioravano con cautela il suo dolore e il suo malessere. Erano più un viaggio tra i videogiochi che ama, l’informatica di cui è un vero esperto, le chat, i siti. Mi diceva che la “vita di fuori” non gli interessava, e che lì al computer aveva tutto quello che gli serve, pure gli amici.

Mi conduce nell’universo di World of Warcraft, il gioco che ama di più, e mentre me ne parla la sua voce cambia, si fa più alta e più vivace. Sento l’orgoglio del padrone di casa che ti guida fiero nella sua dimora, soddisfatto dello spazio che si è costruito. Mi lascio affascinare da questo mondo fantasy a tratti medievale, contaminato da mitologie nordiche e popolato da umani, troll, gnomi, orchi. Nel tempo ho appreso che WoW è un gioco molto amato generalmente dagli Hikikomori. C’è una parte di me del passato che lo capisce molto bene: pure io, in periodo adolescenziale, alla realtà deludente preferivo il mondo virtuale che costruivo con The Sims, videogioco in cui io ero il burattinaio onnipotente che governava le esistenze di tutti, e potevo assicurare agli abitanti di quel villaggio immaginario vite soddisfacenti in graziose villette a schiera, lavori gratificanti e arredamenti nuovi, man mano che la situazione economica ingranava con mia soddisfazione.

Col tempo, Alessandro mi permette di entrare nel suo mondo più privato. Mi racconta del bullismo che ha subito alle scuole medie, di come si senta sbagliato e inadeguato e di come tutt’ora abbia paura delle persone. “Non di te”, aggiunge, “tu si vede che sei buona”. Penso alla vita di Alessandro come un videogioco, buoni contro cattivi.

Mi racconta che in WoW il giocatore in media possiede tre “specializzazioni”. Mi parla molto accorato del “protettore”, ruolo che consente ai personaggi di sopportare grandi danni e concentrare su di sé l’attenzione dei nemici, facilitando e proteggendo gli altri alleati. Questa spiegazione mi colpisce profondamente.

Nel corso della terapia, guardando Alessandro in un’ottica “sistemico-relazionale”, mi pongo la domanda base, quella che viene prima di tutte, non solo nei casi di hikikomori ma di fronte a qualsiasi tipo di malessere: questo “sintomo” a cosa serve in questa famiglia? Ogni comportamento problematico infatti segnala il malessere dell’intero “sistema-famiglia”, ed è uno dei componenti di essa ad assumersi, inconsapevolmente, l’onere di farlo emergere. Incontro dopo incontro, affrontiamo dunque il disagio coniugale tra i genitori di Alessandro.

Un giorno, parlando di WoW, Alessandro mi dice che il personaggio, procedendo di missione in missione, sperimenta nuovi poteri come creare pozioni magiche. Io gli chiedo per quale scopo utilizzerebbe una pozione magica nella vita reale, e lui risponde sottovoce: “Per far andare d’accordo i miei”.

Da quando è cominciata la terapia si sono profilati nella mia mente diversi scenari relazionali: forse Alessandro sta tentando di “unire” i genitori veicolando l’attenzione su se stesso e sul proprio disagio. Forse in tal modo, distogliendoli dai loro litigi, li costringe a fare fronte comune. Forse è un modo, inconsapevole, per ritardare anche l’idea di una separazione coniugale.

Probabilmente per lui essere un hikikomori, ovvero stare sempre lì in casa, presente, è un modo per stare vicino e sorvegliare la madre, che lui percepisce fragile e vulnerabile agli “attacchi” del padre. Un modo per difenderla. E chissà se assumere il ruolo del figlio “malato” rintanato in casa non sia anche un modo per dare alla madre casalinga, che non si è mai concessa spazi personali, una funzione e un ruolo utile, in una fase in cui invece un figlio dovrebbe “prendere il volo”.

Rifletto sulla paura di separarsi e di lasciare un vuoto, che forse Alessandro ritiene insopportabile per la madre. Pioveva a dirotto quel giorno in cui ho avuto l’intuizione, e Alessandro guardava in silenzio le gocce ballare sulla ringhiera. Ecco perché il ruolo del “protettore” del videogioco mi tocca profondamente, e mi suona fortemente simbolico della sua vita! Alessandro si sentiva il protettore della madre.

C’è un termine, “Amae”, usato in Giappone per indicare la dipendenza dall’affetto altrui.

Lavoriamo quindi sui ruoli e sui confini familiari, provando a ritagliare in famiglia uno spazio che sia suo, che non “serva” a nessuno. Affrontiamo il tema della differenziazione, quindi dell’emergere dal sistema familiare nella propria unicità, senza temere di “tradire” la famiglia e conservando la propria appartenenza. Alessandro non sarà per sempre “figlio”, ma soprattutto non è a lui che compete tenere uniti i suoi genitori attraverso il suo malessere.

Il nostro viaggio insieme è una scoperta: del suo mondo, in cui mi accompagna inizialmente timoroso di un giudizio, e del mondo là fuori, che non è popolato da buoni contro cattivi, ma da persone tutte diverse, contraddistinte dalla propria complessità e contraddittorietà.

Con il supporto dell’ipnosi Alessandro impara un metodo per gestire l’ansia, a cui ricorrerà anche da solo sia nelle “crisi di astinenza”, quando i genitori gli impediscono di usare Internet, sia per prepararsi alle graduali uscite da casa che abbiamo progettato. Attraverso la terapia EMDR lavoriamo sulle ferite che gli sono state impresse negli anni di bullismo, abbassando l’impatto traumatico ed emotivo associato a questi episodi.

Oggi Alessandro attraversa la città non solo per andare in studio per la terapia, ma anche per andare al cinema (attendeva elettrizzato l’uscita dell’ultimo Star Wars) o raggiungere il parco. Ha un taglio diverso di capelli, semi-rasato, e t-shirt nuove. Il suo progetto da settembre è frequentare la facoltà di Informatica (ambito in cui è bravissimo) e iscriversi a un corso di cucina. Io l’ho incoraggiato, sono una fan dei suoi tiramisù.

Alessandro si sta gradualmente riappropriando di se stesso: sta riscoprendo chi è e cosa gli piace, in cosa è bravo, quali aspetti di sé apprezza o sono apprezzati dagli altri. Si sta liberando di un ruolo che aveva certi “vantaggi”, ma – se ne è accorto – era troppo faticoso. E’ un percorso che continua: a volte appare più accidentato, pietroso, a volte più leggero. Lui sa che siamo in cammino, e attraversiamo le radure, scopriamo le grotte, i torrenti dove imparerà a specchiarsi sereno.

E’ una strada che affrontiamo con coraggio e fiducia, che lo aiuta ad aggiungere giorno dopo giorno una piccola tessera al mosaico della sua autostima, a relazionarsi con gli altri, a comunicare i propri bisogni e a prendersi delle responsabilità. Sta imparando a sognare e a desiderare, tollerandone il rischio e la paura. Dismessa la divisa da prigioniero – il triste pigiama dei primi tempi – quel ragazzino impaurito può inoltrarsi nel mondo, libero tra la gente.

 

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