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Il cervello plastico – L’ABC della plasticità cerebrale

Anche il cervello adulto è soggetto a plasticità neurale infatti in determinate condizioni ha la possibilità di andare incontro a modifiche molto rilevanti

Di Sofia Allegra Crespi, Sara Cirillo

Pubblicato il 08 Mar. 2022

Aggiornato il 10 Mar. 2022 16:34

I meccanismi principali alla base della plasticità cerebrale coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi sia la creazione di nuove sinapsi.

 

Siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo
(Eric Kandel)

Cos’è la plasticità cerebrale

Il concetto di plasticità cerebrale è un concetto decisamente ‘cool’ di questi tempi e infatti riveste un grandissimo interesse, non solo tra i neuroscienziati, ma anche tra i curiosi di scienza. Il termine deriva dal greco plastos che significa plasmato/modellato.

La plasticità neurale si riferisce alla incredibile ed intrinseca capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che funzionale, in funzione dell’esperienza, al fine di apprendere informazioni sull’ambiente oppure, nel caso di danni cerebrali, per ripararli.

Eric Kandel, uno dei padri delle neuroscienze moderne, afferma: siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo. A dire che, se il nostro cervello non disponesse di questa speciale proprietà nel corso dello sviluppo, il nostro comportamento sarebbe rigido e stereotipato, non saremmo in grado di apprendere e diventeremmo esseri senza memoria.

Tale capacità è una componente chiave nei processi di sviluppo cerebrale durante l’età evolutiva, ma entra anche in gioco in risposta a cambiamenti fisiologici come l’invecchiamento oppure nei casi di patologie neurologiche e/o danni cerebrali (per es. demenze, tumori cerebrali e ictus).

I meccanismi principali alla base della plasticità coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi (ovvero i collegamenti tra i neuroni) sia la creazione di nuove sinapsi, attraverso un processo che viene definito plasticità sinaptica. L’esperienza esterna genera un cambiamento dell’attività elettrica (=nervosa) cerebrale che, a sua volta, modifica l’efficacia della trasmissione sinaptica, promuovendone un potenziamento o una riduzione. In quasi ogni struttura cerebrale, una coppia o un gruppo di neuroni possono rafforzare le loro interconnessioni quando sono attivi ripetutamente nello stesso momento, ovvero in maniera sincrona. Questo principio è noto anche come la legge di Hebb (1949), uno psicologo canadese che negli anni Quaranta del secolo scorso formulò il primo modello formale dei meccanismi dell’apprendimento.

In questo modo si determina, in risposta all’esperienza, la modificazione della funzionalità di un circuito neurale. Alcune modifiche sono rapide, transitorie e reversibili (modifiche a breve termine) e servono per ottimizzare le risposte comportamentali. Si pensi a quando è necessario ricordare un’informazione per svolgere un’attività nell’immediato: per esempio ricordare un numero di telefono implica recuperare l’informazione dal magazzino della memoria e ‘trasportarla’ per qualche istante nel magazzino della memoria di lavoro, dal quale sparirà appena non sarà più necessaria.

Se la modificazione dell’efficacia sinaptica risulta duratura nel tempo (modifiche a lungo termine), ne consegue un cambiamento duraturo a livello anatomico e funzionale dei circuiti stessi.

Il primo a parlare di plasticità fu però lo psicologo inglese William James, che, partendo dallo studio del comportamento umano, nella sua opera The Principles of Psychology (1890), descrisse il concetto di plasticità come la base del processo di apprendimento. Uno dei padri delle neuroscienze moderne Ramòn y Cayal (1892), già noto per i suoi contributi scientifici nello studio delle cellule nervose, pose invece l’accento sulla dinamicità dell’architettura corticale.

Negli anni altri importanti fisiologi e neurologi si occuparono di plasticità arricchendone il significato, ma bisogna aspettare fino agli anni ’50-60 del secolo scorso per passare da una fase di teorizzazioni a quella sperimentale vera e propria.

Plasticità cerebrale e influenze ambientali

Un concetto fondamentale connesso alla neuroplasticità, emerso dalle ricerche degli scienziati Hubel e Wiesel, Nobel per la medicina nel 1981, riguarda quello di periodo critico. Si tratta di una finestra temporale precisa, nel periodo di sviluppo del bambino, caratterizzata da alti livelli di plasticità cerebrale grazie alla quale l’esposizione a stimoli specifici e rilevanti per una certa funzione determina la rapida acquisizione e il raffinamento della funzione stessa. In questo periodo di tempo, l’esperienza agisce modificando attivamente la struttura e le funzioni dei circuiti nervosi in modo da renderli capaci di rappresentare il mondo esterno in maniera congrua e di rispondere agli stimoli mediante comportamenti adattivi.

Negli anni ’60 i due scienziati dimostrarono infatti che la privazione della vista durante lo sviluppo postnatale alterava in modo irreversibile la capacità di elaborare le immagini in gatti con un occhio cucito chirurgicamente, e quindi deprivato della vista, per un massimo di 3 mesi dalla nascita (Hubel and Wiesel, 1962). Il fenomeno veniva osservato anche nei bambini cresciuti con disturbi visivi, come ad esempio la cataratta congenita.

Questo dimostra che l’ambiente esterno gioca un ruolo cruciale nell’influenzare la plasticità del cervello in crescita. La neuroplasticità è infatti strettamente connessa ai processi di sviluppo del cervello nei primi anni di vita in quanto entra in gioco nell’elaborazione delle informazioni sensoriali (per es. visive, uditive, motorie) che sono alla base del meccanismo dell’apprendimento. Si pensi ad esempio ai meccanismi di discriminazione fonemica che il cervello di un neonato utilizza per sviluppare il linguaggio. Indipendentemente da dove il neonato nasce egli è in grado, attraverso un’esposizione appropriata per stimolazione e frequenza, di apprendere qualsiasi lingua e, nel caso di esposizione ad un ambiente bilingue, di apprenderne anche una seconda in modo naturale. Questa ‘facilità’ di apprendimento è un’altra dimostrazione dell’esistenza del periodo critico.

Oltre agli studi di Hubel e Wiesel, Mark R. Rosenzweig e i suoi collaboratori (Diamond et al., 1964) indagarono il ruolo dell’ambiente esterno nel modellare l’architettura corticale e nel potenziare la plasticità, introducendo un paradigma denominato ‘arricchimento ambientale’. Nei modelli animali, in particolare nei ratti, l’arricchimento ambientale consiste nell’impiego di una combinazione di stimoli animati, inanimati e sociali. Lo scopo è quello di fornire all’animale un livello maggiore di stimolazione multisensoriale, cognitiva, fisica e di favorire la massima interazione sociale.

Gli effetti benefici sul cervello dei ratti derivanti dall’arricchimento ambientale sono stati descritti a vari livelli. Qui riassumiamo solo i principali: effetti a livello molecolare (stimolazione dei livelli dei fattori neurotrofici che guidano la crescita neurale nella corteccia visiva, effetti significativi sui sistemi dei neurotrasmettitori che sono le sostanze che veicolano le informazioni tra i neuroni), a livello anatomico (aumento dello spessore corticale) e a livello comportamentale (aumento delle prestazioni di apprendimento e memoria). Adattando lo stesso paradigma sperimentale nell’uomo, si è osservato che il massaggio in neonati nati prematuramente accelera lo sviluppo cerebrale. In particolare, questa semplice azione, apparentemente del tutto insignificante, ha prodotto effetti inaspettati e sorprendenti tra cui una diminuzione del cortisolo, che è l’ormone dello stress, un aumento di peso, un aumento di produzione di fattori neurotrofici, una accelerazione dello sviluppo dell’attività elettrica del cervello, ed infine uno sviluppo precoce della visione.

Plasticità neurale in età adulta

Se prima degli anni ’90 si pensava che la riorganizzazione anatomo-funzionale del cervello fosse ristretta ai primi anni di vita, perdendo oltretutto la possibilità di far nascere nuovi neuroni, e si esaurisse definitivamente nell’età adulta, recentemente si è osservato che anche il cervello adulto, in determinate condizioni, ha la possibilità di andare incontro a modifiche molto rilevanti. Le evidenze a favore di questa nuova prospettiva sono molteplici.

In primis, oggi è noto che la rigenerazione neuronale (=neurogenesi) è presente anche nel cervello adulto, sebbene con un ritmo decisamente inferiore rispetto a quello del cervello in crescita. Questo fenomeno è stato riscontrato soprattutto nell’ippocampo, che è una struttura coinvolta nei meccanismi di apprendimento e di memoria. Famoso è l’esperimento che ha indagato la memoria visuo-spaziale nei tassisti londinesi, riscontrando una correlazione positiva tra il volume dell’ippocampo e gli anni di anzianità di servizio: i tassisti più esperti mostravano un volume ippocampale maggiore in quanto avevano memorizzato più informazioni visive e spaziali rispetto ai tassisti meno esperti (Wollett and Maguire, 2011; Confalonieri, 2011).

La seconda evidenza deriva dalla patologia e può essere riassunta in due parole: plasticità adattiva. Infatti, in seguito a lesioni cerebrali dovute ad insulti ischemici o tumori caratterizzati da una lenta crescita, anche un soggetto adulto è in grado di compensare una funzione persa oppure di massimizzare una funzione compromessa dalla malattia. Con l’impiego delle tecniche di neuroimmagine, quali la risonanza magnetica funzionale (fMRI), è stata dimostrata, nei soggetti colpiti da ictus, una riorganizzazione funzionale della corteccia motoria primaria, in cui aree motorie dell’emisfero controlaterale o aree motorie secondarie si attivano in modo da compensare la funzione compromessa (Rehme et al 2011). Tale potenzialità può essere sfruttata al meglio per favorire il recupero in seguito a danni cerebrali ed implementare programmi di riabilitazione personalizzati delle funzioni motorie e/o cognitive.

Il recupero funzionale delle funzioni danneggiate post-malattia è reso possibile da un semplice fatto: noi non smettiamo mai di apprendere. Nonostante la velocità e l’efficienza di apprendimento diminuiscano nell’età adulta e con l’invecchiamento, il nostro comportamento può essere sempre modificato dalle esperienze che viviamo. Questo fenomeno è noto come plasticità comportamentale ed è strettamente connesso all’abilità dell’individuo di essere flessibili ovvero alla capacità cognitiva di modificare strategie attentive, decisionali e comportamentali in un ambiente esterno nuovo o mutevole (Gaetano, 2018).

Plasticità e psicoterapia

Una situazione prototipica in cui entra in gioco la flessibilità cognitiva è quella della psicoterapia dove il terapeuta, con opportune tecniche cognitivo-comportamentali, favorisce nuovi apprendimenti sul piano del pensiero e delle emozioni (es. tramite la ristrutturazione cognitiva), che unitamente concorrono a modificare il comportamento. Pensiamo alla tecnica dell’esposizione graduale allo stimolo fobico per trattare un paziente affetto da fobia specifica. Avvicinarsi progressivamente allo stimolo temuto, unitamente al lavoro di ristrutturazione cognitiva fatto in seduta col terapeuta, permette al soggetto di entrare in contatto poco alla volta con lo stimolo e quindi con le emozioni e i pensieri connessi, ‘sperimentando di fatto una nuova esperienza’. Questa nuova esperienza, sul piano del comportamento, unitamente ai nuovi apprendimenti cognitivo-emotivi, rappresenta la possibilità di cambiamento mentale/psichico o di plasticità psichica, e in ultima analisi di diminuzione della sofferenza del paziente.

Le tecniche di cura come la psicoterapia infatti potenzialmente lavorano su tutti e tre i livelli di neuroplasticità, quella psichica e quella comportamentale, che sottendono la plasticità sinaptica.

In particolare per alcuni disturbi mentali, la psicoterapia può essere integrata con successo massimizzandone la sua efficacia nel lungo termine attraverso l’applicazione di tecniche innovative di neuromodulazione, quali la stimolazione magnetica transcranica (TMS).

Si stanno accumulando evidenze riguardanti sia la fattibilità che l’efficacia di protocolli di trattamento TMS per la depressione farmaco-resistente e per il disturbo d’ansia generalizzata, sebbene per ora gli studi siano ancora eterogenei in termini di parametri di stimolazione impiegati (es. frequenza di stimolazione, numero di sessioni) (Lefaucheur et al 2014, Parikh et al 2021, Fitzgerald et al. 2009).

Sulla base di queste iniziali evidenze si ipotizzava e oggi si comincia a dimostrare che, stimolando opportunamente alcune regioni cerebrali, si può agire sulla plasticità sinaptica ottenendo effetti benefici sul comportamento del soggetto (Ferro et al, 2021; Lamanna, Ferro, 2021).

Studi futuri sono necessari da una parte per dimostrare in modo rigoroso l’efficacia dell’uso combinato della psicoterapia e delle tecniche di neuromodulazione nell’ambito dei principali disturbi mentali ed emotivi e, dall’altra, per fare luce sulle enormi potenzialità di riorganizzazione funzionale del nostro cervello, partendo dai meccanismi molecolari di neuroplasticità fino ad arrivare alla loro connessione con la plasticità psichica.

 

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Glossario in ordine alfabetico

  • Fattori neurotrofici o Brain derived neurotrophic factor, BDNF: neurotrofina che agisce su determinati neuroni del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico, contribuendo a sostenere la sopravvivenza dei neuroni già esistenti e favorendo la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni e sinapsi.
  • Memoria di lavoro o working memory: è quel particolare tipo di memoria temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni per un tempo limitato, per consentire l’utilizzo dell’informazione stessa nell’immediato.
  • Neurotrasmettitore: sostanze liberate dai neuroni a livello sinaptico che servono a inviare messaggi chimici endogeni tra i neuroni.
  • Neurogenesi: processo di rigenerazione neuronale attraverso cui vengono generati nuovi neuroni da cellule immature. E’ possibile distinguere due tipi di neurogenesi: quella durante lo sviluppo, che dà origine alle cellule nervose e gliali destinate a formare i tessuti del sistema nervoso, quella presente nell’adulto, il cui significato è legato alla plasticità funzionale di determinate aree cerebrali.
  • Risonanza magnetica funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI): tecnica non invasiva di visualizzazione del cervello in vivo in risposta a specifici stimoli (uditivo, visivo, etc) o durante un compito cognitivo (produzione parole, riconoscimento emozioni).
  • Sinapsi: è una struttura altamente specializzata che consente la comunicazione delle cellule del tessuto nervoso tra loro (neuroni) o con altre cellule (cellule muscolari, sensoriali o ghiandole endocrine).
  • Stimolazione magnetica transcranica (Transcranic Magnetic Stimulation, TMS): tecnica non invasiva di neuromodulazione che si fonda sul principio dell’induzione elettromafgnetica. Il tessuto cerebrale viene opportunamente stimolato posizionando dei magneti (bobine) in prossimità della cute.

 

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