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Gli psicologi e la guerra

Anche gli psicologi, come tutti, sono rimasti attoniti di fronte al ritorno della guerra in Europa.

Di Luigi D`Elia

Pubblicato il 07 Mar. 2022

Aggiornato il 10 Mar. 2022 16:35

Se pensiamo che l’ultima volta fu negli anni ‘90, nella ex Jugoslavia (ma in quel preciso momento storico la Russia, appena reduce dal crollo dell’URSS, non era un’antagonista e il conflitto non aveva possibilità di estendersi a potenze atomiche), intere generazioni di colleghi non hanno avuto alcun sentore di cosa fosse una guerra in casa nostra.

 

Chi, come il sottoscritto, è nato negli anni ‘60, della guerra aveva avuto sentore eccome. Genitori sfollati e scampati da piccoli ai bombardamenti della seconda guerra mondiale; nonno giovane ardito nella guerra di trincea della prima guerra mondiale. I racconti atroci di cosa fosse la guerra in casa erano comuni e frequenti. Ma anche delle sue conseguenze in termini di fame, povertà, pericolo costante. E quindi poi, conseguentemente, di disturbi alimentari, traumi inelaborati, angosce pantoclastiche, e così via.

Il disturbo post traumatico per alcune generazioni è stato comune tanto quanto lo spettro narcisistico per noi oggi. Si conviveva con esso come se nulla fosse, ma questa traumaticità è stata motivo di una trasmissione transgenerazionale del lutto e del panico le cui conseguenze, latenti e sotterranee, sono per lo più sconosciute. Non si finisce mai di curare le ferite delle guerre del passato, sembra inverosimile ma in qualche modo ce ne occupiamo ancora oggi. La guerra non produce solo morte e distruzione nel qui ed ora, ma ferite psichiche incommensurabili che si tramandano per molte generazioni.

Molte delle strategie terapeutiche che oggi applichiamo sono nate proprio durante l’ultima guerra mondiale: la comunità terapeutica e la terapia di gruppo nascono contestualmente, se pensiamo ai noti esperimenti sui gruppi svolti nell’ospedale militare di Northfield da parte di Bion e soprattutto di Foulkes (Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica, 1948), proprio durante i massicci bombardamenti nazisti sull’Inghilterra. Il secolo che aveva prodotto il massimo della follia di massa che provava a rispondere a tale follia scoprendo le risorse terapeutiche del piccolo gruppo. Il veleno e il rimedio, entrambi nello stesso luogo: la gruppalità umana.

Ma veniamo all’attualità. Dicevamo degli psicologi attoniti. Dopo diversi giorni dall’inizio del conflitto russo-ukraino, nei gruppi professionali social nulla sembra trapelare, nessuno ne parla, si assiste ad una inquietante negazione di ciò che accade nel mondo come se un fatto del genere non riguardasse noi e il nostro lavoro. Sempre più forte la sensazione che esista un vulnus nelle nostre formazioni privatistiche che sembra proteggerci con un velo denegativo da ciò che accade “fuori”. L’implicito culturale e formativo, sembra essere sempre quello: il nostro compito è occuparci del mondo interno dei nostri clienti-committenti paganti, tutto il resto non ci interessa. Peccato che questa topologia dentro/fuori è un semplice artificio descrittivo che nulla dice della realtà psichica degli esseri umani e che, anzi, finisce per depistare ogni nostro atto professionale in quanto lo consegna ad una scissione irreparabile.

Psicologi in azione positiva (emergenziali) e in azione negativa (custodi del pensiero)

Ma per fortuna questo panorama desolante non corrisponde ai reali interessi e alle reali occupazioni di alcuni colleghi che, per vocazione personale e per applicazione professionale si occupano da sempre di eventi come la guerra. Mi riferisco in particolare a tutti coloro che sono impegnati nel sociale e ancor più nello specifico ai colleghi psicologi dell’emergenza che svolgono servizio nelle innumerevoli frontiere nazionali e internazionali: catastrofi naturali, emergenze politiche e sociali di varia natura, comprese situazioni di guerra.

Se fortunatamente esiste un ampio settore della psicologia sociale che ha sviluppato specifiche competenze e tecniche di intervento integrate con i compiti della protezione civile (la psicologia dell’emergenza, appunto) e che risponde con immediatezza ad una richiesta di azione, occorre immaginare che l’impegno della psicologia professionale non è soltanto di natura prettamente operativa, ma anche, specularmente e altrettanto importante, di “azione negativa”, cioè di recupero del pensiero. Lo psicologo è eminentemente il professionista dell’azione negativa del pensare, colui che sa prendersi il tempo e il modo per farlo.

La guerra non si limita a distruggere vite inermi e innocenti, ma aggredisce e distrugge anche il pensiero di chi sopravvive e di chi prova a farsene una qualche minima ragione. Ecco perché risulta urgente ed emergente il bisogno di creare uno spazio-tempo che permetta alla mente di contestualizzare gli accadimenti, di capirne le cause remote e prossime, di ordinare e governare, quanto possibile, le emozioni negative, di realizzare di continuo problem setting e problem solving sia nell’immediato che nei tempi lunghi.

Pensieri del passato sulla guerra

In passato tutti i grandi autori e padri dei nostri saperi si sono confrontati con questo tema.

Nel noto carteggio Freud-Einstein (Perché la guerra, in S. Freud, Opere, 1932), Freud riteneva piuttosto ineluttabile il destino pulsionale distruttivo e autodistruttivo dell’animo umano (chiamato istinto di morte), che può essere parzialmente mitigato dalla tensione civilizzatrice dell’identificazione con l’altro. Oggi chiameremmo questo concetto in termini di empatia, a cui Freud attribuiva una funzione di civilizzazione. Quanto è centrale questa riflessione per chi abbia voglia di negoziare la pace, soprattutto laddove identificazione-empatia non coincidono affatto con il concetto di simpatia. L’empatia con l’aggressore o il nemico (non la simpatia o la compiacenza) è il primissimo passo per evitare la guerra.

Anche C.G. Jung se ne occupa, (sia in Wotan, 1936, che in Dopo la Catastrofe, 1946, in Opere Comp. Boringhieri, Torino, 1985), rileggendo le colpe del popolo tedesco come forme di regressione spirituale verso culti primitivi. W. Reich parla invece di “peste emozionale” per indicare quel processo di alienazione degli individui e delle masse che, divenuti incapaci di amare autenticamente, diventano oggetti manipolabili al servizio di nazionalismi, autoritarismi e guerre.

Nell’immediato dopoguerra, la scuola filosofica di Francoforte cercò una primissima elaborazione culturale delle derive pantoclastiche del nazifascismo provando a descrivere ed esplorare la cosiddetta “personalità autoritaria” (T. Adorno et al. La personalità autoritaria, 1950), quella tendenza umana a sottomettersi e ad ubbidire all’autoritarismo corredata da specifiche caratteristiche di etnocentrismo (nazionalismo), antisemitismo, conservatorismo, convenzionalismo, disprezzo delle differenze, del confronto democratico, delle espressioni di fragilità e tenerezza, sessismo, misoginia, facilità ad accedere a risoluzioni violente e aggressive, etc.

Con E. Fromm troviamo un tentativo di elaborazione della distruttività umana (Anatomia della distruttività umana, 1973) che prova ad integrare i saperi psicoanalitici, ma epurati della teoria dell’istinto di morte, con quelli della nascente prospettiva etologica di K. Lorenz (istintivismo) e un’esplorazione antropologica delle società con minore o maggiore tensione distruttiva. Solo la specie umana, dice Fromm, aggiunge al naturale processo aggressivo di tipo difensivo e adattativo il bisogno assoluto di controllo e quindi di distruttività.

Ma è con un autore italiano, Franco Fornari (Psicoanalisi della Guerra, 1966), che probabilmente troviamo la teoria più compiuta (e a mio parere, più convincente) sulla guerra. Fornari sostiene l’ipotesi che la guerra sia un’elaborazione paranoicale del lutto e della depressione. L’esperienza del parto e della nascita rappresentano il paradigma della estrema vicinanza delle esperienze di vita e di morte. Nella mente umana si crea fin da qui l’esperienza, definita terrificante, di un nemico interno ineludibile contro cui l’invenzione del nemico esterno da controllare e uccidere diventa automaticamente compensatoria. Nella struttura coinemica della famiglia tale scissione rende possibile l’esportazione del vissuto paranoicale nella figura del padre dispotico e autoritario che si assume come compito la protezione della coppia madre-bambino e la protezione del parto e della nascita.

Qualche pensiero sparso su Putin e le sue fragilità

Dopo aver visto attentamente la lunga intervista del regista americano Oliver Stone (2015) al presidente russo Putin (nella quale sono rintracciabili tutte le attuali conseguenze), e dopo aver sentito, a seguire, le sue recentissime dichiarazioni di guerra all’Ucraina, non ho potuto non pensare a quanto la storia si stesse, tragicamente, ripetendo nello stesso solco e con le stesse conseguenze che il patto di Versailles del 1919 ebbe a carico della Germania sconfitta e a carico della fragile psiche di Adolf Hitler che di quel trattato fece, fino alla fine dei suoi giorni, la sua oscura bandiera rivendicatrice.

Le analogie tra le due vicende, dal punto di vista psicologico, sono a mio parere piuttosto impressionanti.

In entrambi i personaggi ci troviamo di fronte a funzionari militari che all’improvviso, vuoi per una sorta di revanscismo (Hitler), vuoi per un inaspettato vuoto di potere (Putin), si sono ritrovati a rappresentare senza alcuna preparazione politica un’intera nazione in situazione di gravissima crisi economica e politica. Entrambi si sono ritrovati ad essere sia destinatari delegati sia portatori di un sentimento popolare di rivincita a seguito di condizioni di umiliazione e sconfitta. Entrambi avevano una reale umiliazione alle loro spalle: il patto di Versailles (Hitler), l’emarginazione internazionale della Russia dopo il crollo del muro di Berlino e la conseguente assimilazione delle zone d’influenza verso l’Europa e la Nato (Putin).

Proprio come i re taumaturghi e apotropaici del medioevo, un po’ santi, un po’ maghi guaritori, investiti di una identificazione mistica e religiosa con le viscere più ancestrali del loro popolo e con la sua gloriosa storia mitologica vivente, sia Hitler che Putin, hanno vissuto sulla propria carne, con la stessa virulenza paranoicale descritta da Fornari, il dolore inflitto dalla storia ai loro popoli e alla loro supposta potenza e grandezza. Entrambi sono diventati, seguendo la medesima metafora fornariana, padri tirannici e dispotici a difesa del parto mistico, in questo caso una rinascita, della loro stessa patria.

La Deutschland Über Alles (nel culto di Wotan) e la Grande Santa Madre Russia sono le rinascite che i due padri tiranni devono operare.

Due creature destinate a morire già prima di nascere.

La storia si ripete, i destini dei tiranni pure.

Il tiranno paranoico, ormai maschera di se stesso, si sente autorizzato a muovere guerra. Egli lo fa perché si sente assediato ovvero perché si sente autorizzato a capovolgere l’umiliante condizione di soggezione (il “terrificante”) che l’offesa del tradimento o del maltrattamento subito illo tempore ha prodotto.

Anche i nemici interni, di cui il tiranno si sente (ed è realmente) circondato, sono ostacoli che si frappongono tra sé e la missione mistica di restituire l’onore al popolo ferito e alla sua presunta missione nella storia.

La Russia è grande, La Russia è santa e madre, la Russia ha un’anima speciale, la Russia non può essere ridimensionata e neanche vagamente minacciata, tanto meno offesa. Questo il discorso interno grandioso del tiranno. Ed è osservando questo genere di pensieri patriottici e nazionalistici che ringrazio il cielo che qui da noi in Italia sono davvero pochi coloro che si prendono così sul serio riguardo il patriottismo…

Peccato che la Russia è una nazione che, gas a parte, ha un’economia mediocre e non eccelle a livello globale quasi in nulla. Un gigante militare con un’oligarchia economica mafiosa (capitalismo mafioso, inefficiente, destinato a perdere contro le superpotenze cinesi e occidentali), che mantiene un’alleanza con un capo militare che garantisce in cambio una apparente stabilità politica. Ma su tutto il resto, diritti sociali, diritti civili, la Russia è una nazione oggettivamente molto meno che mediocre.

Muovere guerra, nel quadro qui descritto, è un atto di enorme debolezza. Occorre capire quale sia quella specifica di Putin. In tal senso il richiamo freudiano all’identificazione empatica con la condizione pietosa dell’altro ha molto senso.

Tutte informazioni essenziali per chi si ritroverà a negoziare la pace.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Adorno T. et al. La personalità autoritaria, 1950
  • Fornari F. Psicoanalisi della Guerra, 1966
  • Foulkes, S. Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica, 1948
  • Freud S. - Einstein A., Perché la Guerra, 1933
  • Fromm E. Anatomia della distruttività umana, 1973
  • Jung C. G. Wotan, 1936
  • Jung C. G. Dopo la catastrofe, 1946
  • Reich W. Psicologia di massa del fascismo, 1933
  • Stone O. Intervista a Putin, 2015 (Film)
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