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L’esperienza disumanizzante della guerra tra le pagine de “La lunga attesa” di Wilfred Bion

Nella sua autobiografia 'La lunga attesa', Bion ci parla dell’esperienza più dura della sua vita: la partecipazione come soldato alla Prima Guerra Mondiale

Di Lorenzo Bertuzzi

Pubblicato il 25 Set. 2019

La Lunga Attesa, la prima parte della autobiografia di Wilfred Bion, è un’opera incompiuta e impressionistica che narra i primi 24 anni di vita dell’analista britannico, cercando di mescolare “Due correnti di verità: quella che proviene dai fatti, la verità storica, e quella che proviene dalla psicologia, la verità psicoanalitica”. 

 

Sono dell’idea che tutti, non solo i pochi fortunati addetti ai lavori della psicologia che vi ci si possono imbattere, dovrebbero leggere La Lunga Attesa, la prima parte della autobiografia di Wilfred Bion.

Un’opera incompiuta e impressionistica, pubblicata postuma nel 1986, che in questo volume – il racconto prosegue e rapidamente si interrompe ne “A ricordo di tutti i miei peccati” – narra i primi 24 anni di vita dell’analista britannico, cercando di mescolare “Due correnti di verità: quella che proviene dai fatti, la verità storica, e quella che proviene dalla psicologia, la verità psicoanalitica”.

Partendo dall’infanzia in India, si risale e si attracca nell’Inghilterra vittoriana dove Bion trascorse la sua adolescenza, per culminare nel racconto dell’esperienza più sconfinata che egli sperimentò nella sua vita: la partecipazione come soldato, ufficiale carrista, alla Prima Guerra Mondiale.

Quasi 200 delle 300 pagine sono risucchiate dal tumulto di quei 4 anni.

In questo libro – recita la prima riga della prefazione – la mia intenzione è stata quella di essere veritiero.

Non ci è riuscito del tutto Bion. Nella rievocazione della sua storia egli ha sacrificato alcuni aspetti di sé per dare voce, soprattutto, alle parti più tormentate e dolorose. Come se scrivendo si sentisse libero di restituire un po’ di riconoscimento alle correnti pulsionali che negli anni della sua affermazione come uomo e come psicoanalista aveva dovuto imparare a riconoscere e a gestire, senza riuscire completamente ad integrare.

Il suo testo tracima di cinismo e disincanto. Bion lascia riaffiorare soprattutto la vergogna, la paura, il senso di inettitudine e di fallimento che per tutta la vita, come un borsone pesante, aveva avuto l’impressione di trascinarsi appresso:

Ora ero assai cosciente di me stesso, ma quel me stesso di cui ero cosciente, pavido e imbronciato, non era all’altezza del valore che attribuivo alla mia persona…Quello mi piaceva pensare era il mio vero aspetto, non l’oggetto triste e deprimente che vidi per tanti anni. Mai mi capitò di vedere qualcosa di diverso. 

Il flusso torbido e unilaterale di emotività finisce con l’inficiare la sua aspirazione, un po’ chimerica, alla Verità. Ma forse è proprio abbandonandosi a questo flusso che Bion ha potuto riesumare con così grande dettaglio e coinvolgimento il drammatico ingorgo esistenziale che fu per lui l’esperienza di soldato.

La generazione di chi scrive è vissuta all’infuori della guerra. Ne ha sentito parlare, magari nei ricordi frammentati di qualche anziano in famiglia o a scuola; si è lasciata avvincere da ricostruzioni cinematografiche o romanzesche più o meno grossolane; ha assistito, di solito più per caso che per intenzione, a qualche filmato di telegiornale che immortalava lumi di fuochi artificiali comparire e svanire nei cieli notturni del Kosovo, dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Siria.

Ma la mia generazione non sa nulla di ciò che sia davvero la guerra. E questa è un’ignoranza pericolosa, perché ciò che non si conosce si può solo ipotizzare, fantasticare o ricostruire. E nel gioco forzoso della ricostruzione rischiano di venir meno pezzi del passato determinanti nei momenti in cui, nel nostro quotidiano, operiamo le scelte che definiscono il nostro futuro.

La guerra che noi ascoltiamo, leggiamo o guardiamo su uno schermo, è sempre permeata di una razionalità, di un’anima che non le appartiene. Ma la guerra, come manifestazione più pura della distruttività umana o di quella che Freud ha chiamato Pulsione di morte o Thanatos, è in sé impermeabile agli strumenti più evoluti dell’intelligenza umana. La ragione precede o segue una guerra, ma non può mai fondarne lo sviluppo, non può mai costituirne la materia essenziale.

Ciò che a noi può arrivare di intellegibile è sempre una rilettura postuma, frutto della propensione umana a ricostruire narrativamente tutto ciò che accade.

Ma rileggendola in tale maniera, la guerra si riempie di caratteri impropri di razionalità. Ci sono vincitori e vinti, attaccanti e difensori, buoni e cattivi. Ci sono manovre dotate di significato, intenzioni e strategie. La guerra, nei limiti entro cui noi la possiamo raccontare, diventa necessariamente una storia dotata di senso.

Per questo tutti dovrebbero leggere un libro come La lunga attesa.

Perché Bion, che la guerra l’ha vissuta davvero, ci sbatte in faccia tutta un’altra storia. E ci trascina dentro uno scenario che a noi, assuefatti al senso e alla ragione, non può che sembrare alieno, incomprensibile, ai confini di quello che si può considerare reale.

Ciò che emerge con più violenza dal suo racconto è la totale insensatezza della guerra. Ma non una insensatezza morale od etica, qualcosa come una condanna – La guerra genera sofferenza. Gli uomini non dovrebbero farsi la guerra -. Bion su questo evita esplicitamente di prendere una posizione:

Anche la guerra era una faccenda complicata. La mia esperienza in proposito fino a quel momento avrebbe ben potuto permettermi di trarre qualche conclusione, ma per quanto mi riguardava non avevo imparato proprio nulla.

La scelta di sospendere il giudizio sorge dalla necessità di spogliare il testo di ogni posticcia contaminazione razionale, per ricercare un contatto puro con la dimensione emotiva di quello che fu il suo sé ventenne. E Bion, calandovisi dentro, non può evitare di riesumare anche le meschinità, i piccoli egoismi e i timidi sogni di gloria che animavano quel ragazzo e che gli impedivano una condanna assoluta del conflitto:

Ero furioso. Perché? Non mi rendevo ben conto del fatto che in realtà ero lì per combattere. Ero dominato dall’idea romantica che il mio ruolo adesso fosse quello dell’eroe, del decorato, che trascorre il resto della sua esistenza crogiolandosi al tepore dell’approvazione altrui…Sentivo che da parte mia era stato bello “guadagnarmi” quella medaglia…penso proprio che già cominciassi a credere di essermela guadagnata.

Ma allora, se non è una questione di giusto o di sbagliato, perché è insensata la guerra?

Il messaggio che trapela dalla narrazione aggira il più delle volte le valutazioni consce del giovane Bion, troppo indaffarato a restare vivo e a colmare la distanza infinita tra il suo sé ideale e quel grosso bamboccione inetto che sentiva al tempo stesso di essere. Ma si intrufola nell’intreccio degli avvenimenti, nell’impressione estenuante di distorsione, di irrealtà e di caos che ne caratterizza l’avvilupparsi:

Restammo lì in attesa che accadesse qualcosa. Non avevamo nemmeno cominciato a renderci conto che in guerra non succede nulla, oppure (che in fin dei conti è quasi la stessa cosa) che in guerra nessuno sa cosa stia succedendo.

Vivere una guerra vuol dire ritrovarsi sballottati in un groviglio incomprensibile di situazioni prive di logica e direzione, che muovono gli individui senza che questi possano afferrarne il senso o rivendicare su di esse alcuna intenzionalità. Viene cancellato lo spazio potenziale per l’epicità, l’eroismo, la tragedia o qualsiasi altra categoria concettuale con cui noi siamo soliti Rileggere una guerra, e ciò che rimane è una sequela infinita di frammenti un po’ grotteschi tra loro impossibili da legare:

Se avessi saputo da che parte era il nemico, o anche solo la Germania, avremmo potuto sparare in quella direzione. Tirai fuori la bussola. A malapena riuscii a credere ai miei occhi quando vidi che eravamo rivolti nella direzione sbagliata.

Ciò che estrania di più il lettore però non è la stolida irragionevolezza delle azioni belliche – Non ricordo che a nessuno di noi fosse passato per la testa, anche per un solo momento, che un carro armato da 40 tonnellate potesse galleggiare; il fango doveva essersi infiltrato in quel luogo dove avrebbe dovuto esserci il cervello. – ma la precarietà delle stesse, l’assoluta inconsistenza dell’Azione in generale. I tentativi di fare qualcosa inciampano con la casualità delle conseguenze, impedendo all’individuo di tracciare la linea causale che porta da ciò che si è fatto a ciò che quindi accadrà. Con il risultato che persino la veridicità degli eventi si ritrova costantemente in discussione:

(Cercando su una mappa la posizione del suo battaglione) Ovviamente non poteva essere a ovest; ci saremmo trovati dietro le linee tedesche. E nemmeno a Est, perché avrebbe voluto dire che non eravamo entrati in azione. Però, ora che ci pensavo, non ero affatto certo che fossimo davvero entrati in azione.

La realtà presto inizia a vacillare e si tramuta in un gigantesco e indecifrabile pantano in cui l’individuo non solo non riesce a distinguere la cosa accaduta da quella non accaduta, ma fatica a discernere i compagni dagli avversari, gli attaccanti dai difensori, i morti dai vivi. L’ambiente esterno si confonde in un marasma da cui ognuno prova a scappare, rincorrendo le uniche possibili certezze negli stati emotivi e nelle sensazioni che sgorgano dall’interno di sé:

Dalla sera prima avevamo dovuto sostenere sei assalti nemici contro le nostre posizioni. Non dirò che li avevamo respinti. Li avevamo affrontati; gli avevamo sparato. Perché avessero insistito e come mai alla fine si fossero fermati, non lo so. Forse i loro incubi erano peggiori dei nostri, in quanto ai loro era frammista la speranza, mentre i nostri non erano turbati da qualcosa di così snervante.

Rabbia, inquietudine e terrore, così come fame, sonno, caldo o freddo, diventano gli unici segmenti di realtà di cui ci si possa fidare. Ma sono segmenti penosi, che logorano con estenuante lentezza o che divampano in improvvise esplosioni che valicano le possibilità individuali di contenimento e comprensione:

La nostra marcia era malinconica, irritante, irragionevole, quasi dovessimo rispettare un appuntamento con le illustrazioni di un settimanale popolare, dalle didascalie intese a suscitare una languida curiosità…per quanto ci riguardava, sembrava improbabile che la nostra marcia potesse in qualche modo ottenere un risultato. Avrebbe rappresentato soltanto una seccatura, se non fosse stata rovinata da orrendi, informi, grumi di paura.

Qual è l’assurdità dell’esperienza di guerra? Ciò che Bion pare volerci suggerire, è che pur attraversandola, pur ritrovandosi immersi dentro di essa, della guerra non è possibile fare esperienza.

Fare esperienza di qualcosa significa, per noi uomini, viverla nella sua interezza, in un percorso interiore che dalle sensazioni più immediate della percezione risale attraverso l’innescarsi di emozioni e sentimenti, di associazioni e memorie che si inerpicano fino agli strati più alti della coscienza, là dove l’integrazione di ogni parte trova il suo compimento.

Io so chi sono, io so cosa sento, io so cosa sta succedendo, io so cosa farò.

Ma la guerra è una non-esperienza perché rende impossibile questo concatenarsi di passaggi.

Dati sensoriali estremi, ai limiti della sostenibilità fisica, si mescolano a emozioni ingovernabili, angosce primitive di morte e annichilimento che sopraffanno la capacità del singolo e del gruppo di elaborazione razionale. E il risultato è una scissione costante tra il sopra e il sotto, tra uno strato stravolto da orrendi, informi, grumi di paura e una sovrastante coscienza rattrappita, orfana di dati organizzabili, che sbanda e smarrisce le sue capacità di guidare l’agire.

L’individuo si ritrova perciò prigioniero in un limbo di non-esistenza dove l’unico, reale combattimento diviene quello per preservare la sua integrità e non crollare nel baratro della frammentazione.

La bellezza del testo sta proprio nella maestria con cui Bion è riuscito infondervi questo senso di precarietà, di smarrimento, di – sfibrante caracollare sull’orlo del precipizio – in una maniera così vivida e autentica che si impressiona nella mente di chi legge più di qualsiasi lezione morale sulle ingiustizie e le sofferenze che può causare una guerra. Ciò che ci rimane dentro è l’immagine di un colossale e frastornante teatrino dell’assurdo, in cui nulla può essere preso sul serio e nemmeno gli eventi più tragici possono rivendicare alcuna pretesa di dignità. Perché nella rigida compartimentazione che si genera e disconnette i segmenti della nostra psiche, qualsiasi emozione, per quanto feroce o impetuosa, si riduce ad un lapillo che arde brevemente e si poi spegne senza lasciare nulla di decifrabile dietro il suo passaggio. Restando così aliena non solo alla comprensione individuale, ma pure ad ogni forma di commozione e condivisione con l’altro.

Pensai che avrei potuto scambiare un’ultima parola con Bonsey, sulla via del ritorno, ma era rimasto ucciso. Requiescat in pace. “Ci vediamo in tempo di pace, vecchio mio”. Ne fui scosso; e fui scosso nello scoprire che non me ne importava. Dovevo ancora familiarizzare con l’intensità del cameratismo del tempo di guerra, quando ogni dettaglio, un gesto o un’intonazione, si imprimeva nella mente in modo apparentemente indelebile. Trascorsa una settimana tutto era passato, e allo stesso tempo non era passato.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bion W. R. (1986), La lunga attesa, Roma, Astrolabio.
  • Bion W. R. (2001), A ricordo di tutti i miei peccati, Roma, Astrolabio.
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