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Disturbi Alimentari e uso di sostanze nei giovani

Gli anni dell’università, spesso ricondotti al passaggio dall’adolescenza alla giovane età adulta, comportano un elevato rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari e uso di sostanze stupefacenti (Sawyer et al., 2018).

 

Studi sperimentali infatti dimostrato che i disturbi alimentari insorgono generalmente prima dei 25 anni (ad es., Silén et al., 2020) e, allo stesso modo, il consumo di sostanze, fatta eccezione per la marijuana, si sviluppa generalmente dopo l’inizio dell’università e può continuare fino all’età adulta (Arria et al., 2017). Entrambe le condizioni comportano gravi conseguenze per i giovani: i disturbi alimentari, ad esempio, sono spesso associati a complicazioni di salute fisica (Demmler et al., 2020), a comorbilità psichiatriche (Udo e Grilo, 2019) e a una diminuzione del rendimento scolastico (Eisenberg et al., 2009). Il consumo di droghe è associato a lesioni e overdose non intenzionali, autolesionismo e suicidio, malattie infettive, disturbi cognitivi e diminuzione dei risultati accademici e lavorativi (Hall et al., 2016). In forma grave, entrambi possono portare alla morte (Centers for Disease Control and Prevention, 2018).

Tra gli studenti universitari, le stime di prevalenza dei sintomi di disturbi alimentari sono comprese tra il 9 e il 29% per le donne, tra il 3 e il 16% per gli uomini (Ganson et al., 2020) e circa il 14% per gli studenti transgender (Lipson e Sonneville, 2017). Analogamente, circa il 30% degli adulti in età universitaria (19-28 anni) riferisce di fare uso di sostanze stupefacenti (Schulenberg et al., 2019). Spesso i disturbi alimentari e i disturbi da uso di sostanze si presentano in comorbilità, complicando il trattamento e, spesso, portando a scarsi risultati (Udo e Grilo, 2019).

È stato ipotizzato che l’associazione tra i due risieda in aspetti biologici, psicologici e sociali, tra cui la storia familiare, le caratteristiche di personalità, le difficoltà di regolazione delle emozioni (Gregorowski et al., 2013).

L’associazione tra disturbi alimentari e uso di sostanze tra gli studenti universitari

Uno studio di Ganson e colleghi (2021) è tra i pochi ad aver esplorato le associazioni presenti tra i disturbi alimentari (misurati sia attraverso strumenti di screening che attraverso diagnosi auto-riferite) e il consumo specifico di droghe in un campione ampio e diversificato di studenti universitari.

Complessivamente, i risultati hanno mostrato che i partecipanti con disturbi alimentari avevano maggiori probabilità di fare uso di droghe. In particolare, tra le sostanze più utilizzate era presente la marijuana. L’uso della marijuana non desta particolare stupore data la facile reperibilità e l’uso ormai comune di questa sostanza. Infatti, nonostante essa sia classificata come sostanza illegale, l’uso di marijuana a fini ricreativi e medici è legale in molti Paesi negli Stati Uniti. Dal 2014 al 2019 il consumo di marijuana è aumentato costantemente tra i giovani adulti, con oltre un quarto (26,7%) che ne ha riferito l’uso nel 2019 (Schulenberg et al., 2019). Tuttavia, l’utilizzo di marijuana da parte di persone con disturbi alimentari incuriosisce visti i comuni effetti collaterali dell’aumento dell’appetito. Saranno necessarie ulteriori ricerche per esplorare la relazione tra sintomi di disturbi alimentari (ad esempio, abbuffate) e uso di marijuana.

È stata inoltre riscontrata una forte associazione tra disturbi alimentari e uso di oppioidi, di benzodiazepine ed ecstasy: le probabilità di farne uso tra persone con disturbi alimentari è oltre due volte maggiore rispetto a persone senza disturbi alimentari.

Anche la cocaina e le metanfetamine si sono rivelate particolarmente utilizzate in questo campione; in particolare, coloro che sono risultati positivi allo screening per i disturbi alimentari avevano una probabilità quasi quattro volte maggiore di consumare tali sostanze. Alla base dell’utilizzo di queste sostanze potrebbe esserci la ben dimostrata e tipicamente precipitosa perdita di peso associata all’uso di queste due sostanze dati i loro effetti collaterali di soppressione dell’appetito (Bruening et al., 2018). Visti gli esiti di perdita di peso associati all’uso di specifiche droghe (ad esempio, stimolanti, cocaina, metanfetamine), la ricerca futura dovrebbe indagare l’uso di sostanze stupefacenti tra i soggetti con disturbi alimentari nelle diverse categorie di BMI (Body Mass Index [Indice di massa corporea]).

L’impulsività come punto in comune tra i disturbi alimentari e l’uso di sostanze

L’associazione tra disturbi alimentari e consumo di sostanze stupefacenti può essere spiegata a livello teorico e biologico. Ad esempio, è stato proposto che gli individui che soffrono di disturbi alimentari, in particolare di bulimia nervosa e disturbo da alimentazione incontrollata, e quelli che fanno uso di sostanze condividono il tratto comune dell’impulsività (Dawe e Loxton, 2004). Allo stesso modo, le difficoltà di regolazione delle emozioni sono comuni tra le persone che soffrono di disturbi alimentari e fanno uso di sostanze, questi comportamenti possono essere utilizzati come meccanismi di coping (Aldao et al., 2010).

Esistono anche fattori di rischio genetici che sono associati sia ai disturbi alimentari sia all’uso di sostanze (Munn-Chernoff et al., 2020). Pertanto, è probabile che esistano fattori multipli che collegano i disturbi alimentari e il consumo di sostanze stupefacenti. Tuttavia, ciò che potrebbe essere meno chiaro è la direzione di questa relazione. Ad esempio, è possibile che i comportamenti alimentari disfunzionali insorgano per primi e portino solo in seguito all’uso di droghe. In questo caso, l’uso di droghe può essere un mezzo per regolare ulteriormente le emozioni o per sostenere i comportamenti disfunzionali nell’alimentazione (per esempio, sopprimere l’appetito). Allo stesso modo, è possibile che l’uso di droghe avvenga prima e che il ricorso ad alcuni comportamenti (per esempio, abbuffate e purghe) avvenga successivamente a causa della mancanza di controllo dell’impulsività.

Saranno necessarie ricerche longitudinali per comprendere meglio la natura della relazione esistente tra disturbi alimentari e uso di sostanze. È importante che nella pratica clinica i professionisti effettuino valutazioni approfondite per i giovani che si presentano in strutture sanitarie per comportamenti alimentari disfunzionali o per uso di droghe, per garantire l’identificazione e il trattamento adeguati del problema. Inoltre, la prevenzione nei confronti dei disturbi alimentari dovrebbe essere accompagnata da contenuti relativi all’uso di sostanze, poiché se si cerca di prevenire uno solo di questi problemi si rischia di non affrontare la natura co-occorrente di questi comportamenti potenzialmente ad alto rischio.

 

Le metacredenze influenzano i sintomi depressivi e ansiosi nel Parkinson

Al Forum di Ricerca in Psicoterapia è stato presentato il lavoro delle Dott.sse Viviana Cereda, Giulia Anchora, Marta Fanfoni e Cristina Ferretti dal titolo “Metacredenze e processi cognitivi influenzano i sintomi depressivi e ansiosi nella Malattia di Parkinson”.

 

La Malattia di Parkinson (MP) è una patologia neurodegenerativa ad andamento lento e progressivo e di eziologia multifattoriale. È caratterizzata da sintomi motori, tremore che esordisce a riposo, bradicinesia e rigidità muscolare, e non motori, tra i quali disturbi vegetativi, deficit cognitivi, depressione e ansia, che sono il focus dello studio presentato.

Depressione e ansia nella malattia di Parkinson

La depressione è presente in circa il 40% dei pazienti con malattia di Parkinson, anche se la diagnosi è complicata dal fatto che diversi sintomi tipici della depressione, come la fatica, l’insonnia, le alterazioni dell’appetito, l’alessitimia e il rallentamento psicomotorio, si sovrappongono a sintomi della malattia di Parkinson. Anche per quanto riguarda l’ansia l’occorrenza è elevata, in quanto si presenta nel 30% circa dei pazienti. I disturbi d’ansia più frequenti nella malattia di Parkinson sono l’ansia generalizzata, gli attacchi di panico e le fobie.

I sintomi ansiosi e depressivi possono presentarsi in diverse fasi della malattia: possono essere prodromici, quindi precedenti alla comparsa di sintomi motori, reattivi alla diagnosi oppure possono comparire lungo il decorso di malattia.

Ansia e depressione si associano a una prognosi più sfavorevole. Un’area di ricerca non ancora del tutto compresa è quella che indaga l’impatto dei processi psicologici, come ruminazione e rimuginio, sulla sintomatologia di questi pazienti.

Lo studio presentato si è basato sulla formulazione teorica di Adrian Wells, fondatore della Terapia Metacognitiva (MCT), che ha posto al centro del suo modello la metacognizione, ovvero il pensiero applicato al pensiero, che monitora, controlla e valuta il processo e il prodotto della coscienza, ponendo come centrale nei disturbi affettivi la presenza di un pensiero perseverante e pervasivo chiamato Sindrome Cognitivo Attentiva (CAS).

Malattia di Parkinson e metacredenze: lo studio

La ricerca presentata ha indagato nella malattia di Parkinson la relazione tra sintomi depressivi e ansiosi, processi di ruminazione e rimuginio e metacredenze, partendo da due ipotesi fondamentali: i sintomi depressivi nella malattia di Parkinson sono associati alla presenza di metacredenze e processi ruminativi, e i sintomi ansiosi nella malattia di Parkinson sono associati alla presenza di metacredenze e processi rimuginativi. Il fine ultimo dello studio era il corretto inquadramento dei sintomi affettivi caratterizzati da componenti cognitive nella malattia di Parkinson, all’interno della pratica clinica.

È stato condotto uno studio osservazionale, correlazionale e multicentrico nel quale i soggetti hanno compilato una batteria testale comprendente BDI-II, BAI, RRS, PSWQ, MCQ-30. Sono state poi condotte analisi descrittive, correlazionali e regressioni multiple.

È emersa un’associazione positiva tra metacredenze, processi (ruminazione e rimuginio) e sintomatologia ansioso-depressiva, con una forte influenza delle metacredenze negative sui sintomi affettivi.

Data la prevalenza della depressione e dell’ansia nella malattia di Parkinson è utile riflettere sulla relazione tra sintomatologia, metacredenze e ruminazione. Si tratta del primo studio che esamina il ruolo di processi, metacredenze e sintomi affettivi nella malattia di Parkinson. Emerge il ruolo predominante della CAS nell’ingravescenza e nel mantenimento dei sintomi depressivi e ansiosi aprendo quindi al possibile utilizzo di un nuovo protocollo CBT sui sintomi affettivi nella malattia di Parkinson, comprendente il trattamento di processi e metacredenze, come la Terapia Metacognitiva.

Riassumendo, questo studio ha dimostrato una forte correlazione tra i sintomi depressivi e ansiosi e le metacredenze negative. Le componenti cognitive di questi disturbi dell’umore caratterizzano la gravità dei sintomi stessi e pertanto possono diventare l’obiettivo principale del trattamento cognitivo-comportamentale. Al fine di ridurre la sintomatologia depressiva e ansiosa nella Malattia di Parkinson, potrebbe essere utile stilare un protocollo specifico sui processi e le metacredenze associati alle caratteristiche depressive e ansiose.

 

La Sindrome Premestruale nei paesi in via di sviluppo e la sua relazione con lo stile di vita e le variabili psicosociali

La donna, prima delle mestruazioni, necessarie per il rinnovamento del rivestimento uterino ai fini di una gravidanza, può sperimentare la Sindrome Premestruale (Premenstrual syndrome; PMS).

 

La Sindrome Premestruale

 La Sindrome Premestruale è un disturbo che include sintomi comportamentali, fisiologici ed emotivi che si manifestano durante l’ultima settimana della fase luteale, di solito dopo il tredicesimo giorno del ciclo mestruale. I sintomi possono insorgere in qualsiasi periodo dell’età riproduttiva e possono influenzare negativamente la vita delle donne per diversi giorni (Begum et al., 2016). La Sindrome Premestruale è stata descritta per la prima volta come una “tensione premestruale” (Frank, 1931), termine che poi è stato modificato in “sindrome” in quanto alcuni studiosi hanno notato come comportasse molti più sintomi di una tensione emotiva (Richardson, 1995). I sintomi infatti possono essere più di 100 e i più comuni sono sbalzi d’umore, irritabilità, cefalea, crampi addominali, gonfiore addominale, gonfiore e tensione mammaria, e variazioni dell’appetito. A seconda dell’intensità, delle caratteristiche e della gravità dei disagi che una donna esperisce nella fase premestruale si distinguono: la Sindrome Premestruale di grado lieve, la Sindrome Premestruale di grado moderato, la Sindrome Premestruale grave e infine il Disturbo Disforico Premestruale (DDPM). Quest’ultimo è caratterizzato da irritabilità, disforia e ansia, accompagnate da sintomi comportamentali e fisici che hanno un effetto negativo sul lavoro o sul funzionamento sociale; la qualità della vita di una donna può quindi peggiorare drasticamente, compromettendo le sue capacità relazionali e sociali (APA, 2013). Poiché non esiste un biomarcatore chimico oggettivo della PMS, la diagnosi della Sindrome Premestruale dipende dai sintomi e dalla relazione con la fase luteale.

Sebbene ci siano diverse teorie inerenti l’eziologia della Sindrome Premestruale, nessuna tra queste è scientificamente provata (Thys-Jacobs, 2006); si è riscontrato, però, che fattori sociodemografici e psicosociali possono influenzarla, così come l’indice di massa corporea (BMI) che spesso può influire sulla presenza della PMS

Diversi studi mostrano che la Sindrome Premestruale colpisce un numero molto elevato di giovani donne: una ricerca sulla prevalenza della PMS nei vari Paesi ha riportato che il 47,8% delle donne in tutto il mondo ne soffre; tra queste, le stime epidemiologiche indicano che il 75% in età riproduttiva manifesta alcuni dei sintomi, mentre dal 3% all’8% riportano sintomi estremamente gravi (Steiner, 2000). Non tutte le donne quindi soffrono di Sindrome Premestruale con la stessa intensità: coloro che soffrono di PMS lieve o moderata presentano sintomi soprattutto fisici e poco invalidanti; mentre nella Sindrome Premestruale grave si riscontra una ciclica comparsa di tristezza e irritabilità associate asintomi somatici durante la tarda fase luteale e premestruale. Inoltre, le donne tra i 30 e i 40 anni sono colpite più intensamente in quanto spesso hanno impegni che comportano maggiori carichi di stress, tra i quali famiglia e lavoro. 

Alcuni sintomi della PMS possono essere gestiti tramite diversi cambiamenti nello stile di vita, tra cui le abitudini alimentari, imparare a gestire lo stress, registrare quotidianamente i sintomi, fare esercizio fisico, pratiche di rilassamento e igiene del sonno (Malik e Bhat, 2018). Oltre a ciò, ci sono alcune sostanze come sale, caffeina, cioccolato, tabacco e alcol che, se ridotti o eliminati, portano a un miglioramento della sintomatologia. 

La Sindrome Premestruale nei Paesi in via di sviluppo

La letteratura sulla PMS dimostra che spesso tale problema è molto trascurato, soprattutto in alcuni Paesi in via di sviluppo dove le circostanze economiche, politiche e sociali hanno un forte impatto sullo stato psicosociale delle donne che può influire sulla loro salute. Uno studio trasversale del 2021, di Abu Alwafa e colleghi, ha tentato quindi di colmare questa lacuna indagando la prevalenza della Sindrome Premestruale tra le studentesse universitarie palestinesi e la sua relazione con la depressione, l’ansia, lo stress e lo stile alimentare. L’obiettivo dei ricercatori era quello di sottolineare l’esigenza di preparare e implementare programmi di supporto ed educativi per le donne con Sindrome Premestruale da parte di università, centri comunitari e altri enti. 398 studentesse sono state quindi incluse per partecipare allo studio e sono state loro sottoposte l’Arabic Premenstrual Scale (A-PMS; Algahtani e Jahrami, 2014) per valutare la Sindrome Premestruale; il Depression Anxiety and Stress Scale (DASS-21; Moussa et al., 2017) per valutare alcune variabili psicosociali e un questionario che comprendeva domande sulle informazioni personali e sulle abitudini alimentari. I risultati mostrano che tutte le partecipanti (100%) soffrivano di qualche sintomo della Sindrome Premestruale: ciascuna di loro (100%) aveva sintomi fisici, di cui più della metà moderati (53%), mentre il 18% aveva sintomi fisici gravi. In aggiunta, l’85% aveva sintomi psicologici e comportamentali. I sintomi più frequenti sono stati quindi: letargia o affaticamento o calo di energia; dolori muscolari, articolari, addominali e alla schiena; mancanza di interesse, sensazione di rabbia e senso di colpa.

Tutti i sintomi della Sindrome Premestruale sono risultati significativamente associati allo stato psicosociale delle studentesse, mentre il seguire una dieta è risultato significativamente correlato ai sintomi fisiologici e comportamentali. Il consumo di tisane è risultato essere utilizzato per alleviare i sintomi più intensi, sembra infatti che anch’esso sia significativamente correlato ai sintomi fisici e comportamentali del campione. Infine, non è stata riscontrata nessuna associazione tra le categorie di BMI delle partecipanti e i sintomi della PMS. Allo stesso modo, non è stata trovata alcuna relazione significativa tra le ore di attività fisica e i sintomi della sindrome premestruale; eccezion fatta per le ore di cammino, queste erano significativamente correlate ai sintomi comportamentali. 

In conclusione, sembra quindi che la prevalenza della PMS tra le ragazze nei paesi in via di sviluppo come la Palestina sia elevata e richieda aiuto e sostegno per coloro che ne soffrono. Si ritengono necessari interventi educativi tradizionali o innovativi per una sensibilizzazione nei confronti di tale sindrome (Abu Alwafa et al., 2021).

 

Dal campo analitico al campo archetipico (2021) – Recensione del libro

Il testo Dal campo analitico al campo archetipico si inserisce nel solco dell’integrazione tra punti di vista differenti e propone una riflessione condivisa proprio attorno a uno dei più interessanti trait d’union tra le psicoterapie.

 

 Se si osserva la storia della psicologia è difficile non notare momenti di conflitto e divergenza di vedute. Ne sono esempi le storiche scissioni tra quelli che, a torto o a ragione, vengono considerati i padri della moderna psicologia. Per fortuna, spesso questi conflitti hanno permesso di ampliare la nostra gamma di conoscenze circa il funzionamento della psiche umana, tracciando strade sempre nuove anche se talvolta lontane, almeno in apparenza.

Perché spesso accade che, osservando più da vicino il diverso da sé, si scopre che le assonanze sono più forti delle differenze.

Tra i punti di contatto tra le diverse scuole di psicoterapia, uno è sicuramente l’importanza data alla relazione terapeutica. Si pensi, ad esempio, che l’alleanza di lavoro è considerato uno dei migliori indici predittivi del trattamento (Gabbard, 2015). È indubbio, inoltre, che l’intervento psicoterapico si articola sempre all’interno di una relazione, per poi tararsi maggiormente sugli automatismi del pensiero, sul conflitto, sul tempo passato o presente, sulle modalità comunicative e interattive, sulle relazioni familiari e quant’altro, a seconda dell’orientamento e della visione del terapeuta.

Il testo Dal campo analitico al campo archetipico. Dialoghi e trasformazioni nei luoghi di ricerca della cura, si inserisce nel solco dell’integrazione tra punti di vista differenti e propone una riflessione condivisa proprio attorno a uno dei più interessanti trait d’union tra le psicoterapie.

 Nel volume edito da Liguori, il campo, inteso come lo spazio relazionale tra terapeuta e paziente, è al centro di un percorso che permette al lettore di conoscere più da vicino i capisaldi della prospettiva junghiana, per scoprire le numerose consonanze con le idee di studiosi afferenti ad altri ambiti della cura psicologica.

Nel testo, temi di derivazione junghiana come archetipo, inconscio collettivo, funzione trascendente, vengono messi in parallelo con le intuizioni di altri profondi conoscitori della psiche, da Bion, a Merlau-Ponty, a Lacan, accostandosi a concetti come funzione alfa, protomentale, significante. Non mancano, poi, riferimenti ad autori più vicini alla prospettiva sistemica, sebbene si intravedano più da lontano.

Scarpelli e Testa, pur costeggiando un’ottica analitica e psicodinamica, hanno curato questa collettanea con l’ambizioso proposito di esplorare le convergenze tra prospettive diverse, entro un dialogo stimolante ed utile tanto al lettore appassionato che voglia approfondire alcuni aspetti centrali della psicoterapia e dell’analisi, quanto agli addetti ai lavori interessati alla loro applicazione clinica e all’esplorazione di nuove linee di ricerca.

 

Presentazione del libro ‘Percorsi Clinici’ – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel quarto episodio la presentazione del libro ‘Percorsi Clinici’ presentato dalla Dott.ssa Rebecchi.

Dove ascoltare il quarto episodio:

 

 

“Se tu sei grassa allora io sono enorme”: esplorazione del fat talk

Il fat talk si riferisce alle normali conversazioni in cui molte donne e ragazze adolescenti si impegnano, caratterizzate da discorsi negativi su cibo, peso o corpo.

 

 Negli ultimi anni le ricerche si sono sempre più interessate al tema della consapevolezza del corpo, con i disturbi ad esso correlati (Feusner, Deshpande e Strober, 2017). Una percezione alterata del proprio corpo è un sintomo frequente nei pazienti con disturbi alimentari, infatti questo sintomo è spesso osservato e descritto nell’anoressia nervosa (AN) e nella bulimia nervosa (BN), ma recentemente anche nel disturbo da alimentazione incontrollata – binge eating disorder (BED) (Feusner, Deshpande e Strober, 2017). Sebbene l’insoddisfazione corporea sia oggetto di ricerche approfondite da decenni, i ricercatori hanno iniziato solo di recente a indagare su un fenomeno noto come fat talk, letteralmente “parlare di grasso”, che sembra contribuire a mantenere o aumentare il malcontento provato verso il proprio corpo (Nichter e Vuckovic, 1994).

Cos’è il fat talk

Il fat talking è un fenomeno sociale, per definizione uno scambio diadico o di gruppo (cioè non semplicemente un dialogo interiore privato e negativo) e si può ragionevolmente presumere che sia legato alla cultura (ovvero si verifica maggiormente nelle culture che idealizzano i corpi sottili). Generalmente, è limitato a un particolare gruppo demografico, ovvero la popolazione femminile. Il fat talk si riferisce ora in modo più ampio alle normali conversazioni in cui molte donne e ragazze adolescenti si impegnano, caratterizzate da discorsi negativi su cibo, peso o corpo. Sia donne che uomini vedono questo tipo di conversazione come un dialogo normativo nel mondo femminile e si aspettano, persino, che la risposta di una donna che si ritrova in una conversazione legata al peso sarà una di tipo auto-denigrante (Feusner, Deshpande e Strober, 2017). Queste “chiacchiere” però, sebbene normative, non sono innocue. Infatti il fat talking è positivamente correlato a punteggi elevati di patologia alimentare (Clarke, Murnen e Smolak, 2010) e la frequenza del fat talk ha differenziato un campione di studentesse universitarie in due gruppi distinti: soggetti con disturbi alimentari e soggetti senza (Ousley, Cordero e White, 2008). Non sorprende, quindi, che le donne che mostrano più angoscia per i loro corpi si impegnino più frequentemente in questa pratica (Ousley, Cordero e White, 2008). Il fat talk è quindi una forma di auto-degradazione in quanto colei/colui che la pratica in genere critica il proprio peso corporeo, l’alimentazione o la forma fisica. Esempi comuni di fat talk includono affermazioni come “sono così grassa” o “le mie cosce sembrano enormi con questi jeans” (Nichter, 2000). Gli argomenti comunemente associati ai discorsi sul grasso includono l’auto-confronto con le abitudini alimentari e esercizi ideali, le paure di diventare sovrappeso, il confronto tra le proprie abitudini alimentari e di esercizio con quelle degli altri, la valutazione dell’apparenza degli altri, i sostituti dei pasti e le strategie di costruzione muscolare (Ousley, Cordero e White, 2008).

Il lavoro originale di Nichter e Vuvkovic (1994) sul fat talking era principalmente etnografico e si concentrava sulle ragazze delle scuole medie e superiori. Successivamente Nichter (2000) ha ipotizzato che il fat talking possa essere visto come una richiesta di affermazione e di rassicurazione sul fatto di non essere grassi, come una richiesta di sostegno sociale da parte dei coetanei. I fat talks possono essere visti come una manifestazione comportamentale della vergogna del proprio corpo e dell’ansia per il modo in cui il proprio corpo non è all’altezza dell’ideale della società. Si sostiene dunque che commenti autocritici sul proprio corpo o peso possono effettivamente servire a placare la colpa o la vergogna, come se non avere un corpo perfetto possa essere qualcosa da riconoscere in modo che le altre persone siano meno dure nelle loro potenziali critiche (Ousley, Cordero e White, 2008).

Fat talk e confronto sociale

Alcuni ricercatori, come per esempio Corning e Gondoli (2012), indicano come fattore centrale del fat talking il confronto sociale. Il confronto sociale è il processo di utilizzo delle informazioni sugli altri per trarre conclusioni sul sé (Festinger, 1954). Nonostante sia comunque un processo che più o meno tutti attuano (perlopiù inconsciamente), alcune persone sono molto più inclini a operarlo (Corning e Gondoli, 2012). Le persone che si confrontano molto con gli altri in genere sono più insicure di se stesse e quindi hanno una bassa autostima e più ansia sociale, nevroticismo e sensibilità ai comportamenti delle altre persone (Corning e Gondoli, 2012). Inoltre, soggetti con sintomi di disturbo alimentare hanno una maggiore tendenza a utilizzare il confronto sociale rispetto ai loro coetanei (Corning e Gondoli, 2012). Il confronto sociale in questo senso viene indicato come parte integrante del processo di fat talking, in quanto esso è intrinsecamente un’affermazione sulla propria forma corporea percepita rispetto ad altri reali o immaginari. In effetti, nella maggior parte dei casi, quando i soggetti si impegnano in fat talk, lo fanno letteralmente scambiandosi dichiarazioni comparative. Uno scambio tipico di fat talking veicolato dal confronto sociale potrebbe essere il seguente: Soggetto 1: “Le mie braccia sono così grasse e flaccide: non importa quello che faccio, sono così imbarazzanti.” Soggetto 2: “Almeno puoi indossare un normale costume da bagno in piscina. Devo indossare pantaloncini lunghi per coprire le mie cosce enormi”. In una conversazione di questo tipo si possono dedurre altri sottotemi di comparazione sociale, dove il primo soggetto, attraverso le sue parole, fa intendere che le sue braccia siano “peggiori” di quelle degli altri, mentre il secondo sposta il focus su un’altra parte del corpo sottolineandone l’inadeguatezza.

 I ricercatori che si occupano dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione stanno recentemente ponendo grande attenzione alle conseguenze generate dal fat talk sulla soddisfazione del corpo. Tale preoccupazione è giustificata perché l’insoddisfazione del corpo è stata dimostrata predittiva di patologie di carattere nutrizionale e alimentare (Stice e Shaw, 2002). Gli studi di correlazione, fino ad oggi effettuati, sull’associazione tra fat talking e immagine corporea problematica hanno mostrato relazioni significative e positive tra queste variabili. In particolare è stato dimostrato che il fat talk è correlato a una maggiore vergogna e preoccupazione per il proprio corpo e a una peggiore stima del proprio aspetto fisico (Clarke et al., 2010). La maggior parte della ricerca esistente sul fat talk si è concentrata sull’analisi di questo fenomeno in gruppi di pari; tuttavia, questa linea di ricerca è stata recentemente ampliata per includere anche i contesti familiari, coerentemente con gli studi a sostegno dell’importanza della famiglia nella prima infanzia nell’influenzare l’immagine corporea successiva (Rodgers, 2012). In uno studio qualitativo che ha coinvolto 27 individui (26 donne e un uomo) negli Stati Uniti, di età compresa tra 17 e 64 anni, prevalentemente caucasici, si è scoperto che il fat talk, in particolare tra i membri della famiglia, è un potenziale fattore di rischio per un’alimentazione disordinata (Rodgers, 2012). I discorsi su corpo, alimentazione ed esercizio fisico nell’ambiente familiare erano correlati all’insorgenza di disturbi alimentari. Alcuni partecipanti hanno indicato che sentivano di essere diventati più critici nei confronti del proprio corpo a causa del fat talk di altri membri della famiglia. Non è raro che i genitori si impegnino in fat talking quando sono con i loro figli; ascoltando i genitori che sottolineano l’importanza dell’apparenza e di avere un tipo di corpo magro, i figli possono sviluppare insoddisfazione corporea e alimentazione disordinata (Rodgers, 2012).

Come intervenire sul fat talk

Sebbene il fat talk sia stato identificato come un fattore importante nello sviluppo dei disturbi alimentari, pochissimi interventi hanno cercato di trattare specificamente il fenomeno. Un programma che include un focus sulla riduzione della frequenza del fat talk è il Body Project (Becker e Stice, 2017). Il Body Project è un intervento di gruppo, targato per ragazze delle scuole superiori e donne in età universitaria, che fornisce una opportunità di confronto e psicoeducazione su temi quali ideali di bellezza irrealistici, corpo e alimentazione. Lo scopo principale delle attività proposte dal programma è sviluppare un’immagine corporea sana e rinforzare l’autostima. Il Body Project è uno dei programmi più ampiamente studiati, supportati e progettati per affrontare le norme socio-culturali disadattive (come appunto il fat talking) e l’insoddisfazione corporea (Becker e Stice, 2017). Il Body Project comprende molteplici attività che mettono in discussione il fat talk e identificano le conseguenze negative del coinvolgimento in questa pratica creando dissonanza, aiutando i partecipanti a ridurre la frequenza con cui si impegnano in fat talk. Un’attività di esempio inclusa nel Body Project sono i giochi di ruolo in cui i partecipanti si esercitano su come potrebbero mettere in discussione o rispondere alle affermazioni di fat talk di altre persone. La ricerca futura potrebbe includere un’analisi delle componenti e variabili per identificare le attività specifiche nel Body Project, che guidano la riduzione della frequenza del fat talk. Queste attività specifiche potrebbero quindi essere utilizzate come un breve intervento per ridurne la frequenza tra individui e gruppi.

Conclusione

L’insoddisfazione corporea sta emergendo come una preoccupazione centrale per la salute pubblica a causa del suo ruolo nello sviluppo dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (Stice, 2002), così come la sua associazione con una serie di altri esiti negativi, tra cui umore basso, bassa autostima, eccesso/diminuzione di esercizio fisico, obesità e pratiche malsane di controllo del peso. Una comprensione dei percorsi eziologici che guidano l’insoddisfazione del corpo è essenziale per lo sviluppo di interventi preventivi teoricamente ed empiricamente supportati. L’insoddisfazione corporea è tipicamente concettualizzata come derivante da pressioni socioculturali che promuovono la magrezza da una serie di fonti, come mass media, membri della famiglia e coetanei (Stice e Shaw, 2002). Elemento di questa pressione socioculturale, che ha ricevuto un’attenzione crescente, il fat talk è un fenomeno trasversale per tutte le culture, i generi e le fasce di età, nonostante sia più comune osservarlo nelle ragazze caucasiche adolescenti e giovani adulte. Sebbene sia socialmente accettato, il fat talk non è privo di rischi e conseguenze per la salute psicofisica sia di chi lo mette in atto sia di chi partecipa anche soltanto attraverso l’ascolto. Infatti il fat talk è associato fortemente all’insoddisfazione corporea con conseguenze psicologiche numerose, come sintomi o patologie della nutrizione e dell’alimentazione, diminuzione dell’autostima e aumento dell’ansia sociale (Stice, 2002). Sebbene la maggior parte della ricerca esistente sul fat talk si sia concentrata sull’analisi di questo fenomeno in gruppi di pari, questa linea di ricerca è stata recentemente ampliata per includere anche i contesti familiari. Numerose ricerche hanno infatti identificato il contesto familiare, in cui i discorsi negativi sono incentrati sul corpo, sulla dieta e sull’attività fisica, come un fattore importante nel rischio di sviluppo di disturbi dell’immagine corporea e di un’alimentazione disordinata tra bambini, adolescenti e giovani adulti (Rodgers, 2012). Questi discorsi nell’ambiente familiare, dunque, possono essere particolarmente dannosi e meritano un’attenzione speciale. A causa della natura diffusa di questo stile di conversazione all’interno dell’ambiente familiare e dell’importante ruolo dei caregiver nell’impatto sull’immagine corporea e sui comportamenti alimentari (Rodgers, 2012), affrontare questo tema potrebbe aiutare nel portare consapevolezza nel riconoscimento di questa espressione disadattativa di immagine corporea, al fine di stimolare la prevenzione anche all’interno di questo specifico contesto. Scoprire le cause profonde del fat talk, comprendere perché è diventato così pervasivo e socialmente accettabile e indagare su cosa si possa fare per contrastare questa norma sociale malsana è importante dal punto di vista scientifico, etico e clinico. Se vista alla luce della sua associazione con noti fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari, la natura normativa e reciproca del fat talk è particolarmente allarmante. In quanto tale, è importante ricercare il motivo per cui le persone si impegnano in tali discorsi e cosa si può fare per diminuirli.

Le fate ignoranti. Lutto, amore, amicizia e resilienza – Recensione

Carica di emotività, Le fate ignoranti si presta a riflessioni e considerazioni di matrice clinica; si osservano: la tristezza, la gelosia, la rabbia e le fasi del lutto sino all’elaborazione e al reinvestimento che, salvifico, scioglie il dolore negato, favorendo l’accettazione di un dolore consapevole.

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler

 

 Le fate ignoranti, serie TV che ripercorre le tracce del celebre film di Ferzan Ozpetek, diretta dallo stesso regista, ne ricostruisce i momenti più salienti, i dettagli trascurati dalla pellicola originaria, delineando i personaggi nel profondo della loro psicologia e storia, e stimolando riflessioni psicologiche ad ampio raggio.

La serie offre una fotografia di come il mondo degli affetti sia cambiato: attraverso l’immediatezza dei suoi personaggi, aiuta lo spettatore ad empatizzare e conoscere l’intimità psichica delle vicende narrate.

Così come avviene durante la psicoterapia, il regista consente di ricostruire lo stato mentale e partecipare al mondo emotivo di ciascun personaggio. Proprio per questa ragione, riflettere a partire da dipinti cinematografici ci allena a sentire, integrare e dunque comprendere.

Fra tutti i temi trattati in modo collaterale nella serie TV in questione, certamente il nucleo pulsante della storia è l’Eros come amore, sentimento, poesia, sessualità. Quest’ultima viene rappresentata con delicatezza e gioia, libera da pregiudizi, tabù e sovrastrutture mentali. Il mero piacere sessuale passa in secondo piano, superato da una forza affettiva che, anche se nata dal desiderio, si mostra libera di bypassare le paure, gli ancoraggi culturali, i pregiudizi e il concetto di identità di genere.

Una sorta di intervento di normalizzazione ben riuscito quello del regista.

Un antidoto all’ignoranza spregiudicata, una sberla creativa destinata a coloro che ancora additano la diversità, praticano psicoterapie riparative e predicano omofobia, ipocrisia e stigma: vince l’amore in ogni sua forma.

Carica di emotività, Le fate ignoranti certamente si presta a riflessioni e considerazioni di matrice clinica; si osservano: la tristezza, la gelosia, la rabbia e le fasi del lutto sino all’elaborazione e al reinvestimento che, salvifico, scioglie il dolore negato, favorendo l’accettazione di un dolore consapevole.

Erotismo e perdita come temi centrali che si snodano in un crocevia di avventure esistenziali, bisogni di base e scenari temuti che si alternano: il bisogno di appartenenza, di amore e accudimento, la paura di esser soli al mondo, inadeguati e non accettati, l’amore, il tradimento e la morte.

Proprio la perdita sembra innescare la ricerca dell’antagonista, dell’avversario, dell’amante, in qualche senso “dell’altro” che svela parti di sé.

Antonia ricerca la fata ignorante del marito morto in un incidente stradale e insiste a volerlo conoscere fino in fondo, per partecipare alla sua vita, sino a scoprire quanto siano affini, fino a sfiorarlo, ad amarlo cercando di elaborare l’assenza, il silenzio, i ricordi.

La morte, come ogni fine, contiene anche un inizio. Per una storia che finisce, un’altra sta per cominciare, ed è la storia di un incontro tra due persone che pensano di non avere niente in comune, ma poi scopriranno di assomigliarsi moltissimo. (Ozpetek, 2022)

La fata ignorante sembra rappresentare i bisogni primitivi, la mancanza di regole e convenzioni, il desiderio che esplode e irrompe, scompone quei fragili equilibri, rompe lo status quo e pretende attenzione.

 Le relazioni diventano centrali, fra amicizia ed eros. Sono trattati i temi della solitudine, di quel tentativo di riempire vuoti emotivi con moti sessuali, oltre che del perfezionismo e della ricerca di approvazione e riconoscimento che, seppure in modo collaterale, appaiono cruciali nella psicologia di alcuni dei personaggi proposti.

Il tutto in un’ottica positiva in cui i protagonisti risolvono i loro dilemmi e le loro paure attraverso condivisione, riflessione e collaborazione.

Tre osservatrici popolari attendono la vita degli altri, da una panchina sorvegliano i movimenti dei protagonisti con ironia e semplicità popolana, senza cattiveria ma con affetto.

Inganno e angoscia da separazione come trame che si muovono dietro le quinte; la pittura come mestiere creativo e psicologico che ricostruisce sentimenti e ricordi.

La pittura svela segreti, ritrae desideri e paure.

Tutti abbiamo un segreto, una parte di noi che dedichiamo solo a noi stessi. A volte per egoismo, a volte per vigliaccheria. (Ozpetek, 2022)

In generale, vince il gruppo che consola e ironizza, dimensione centrale della serie, una famiglia allargata che contiene e provoca e, proprio nella sua identità gruppale, protegge.

La famiglia supplementare che elargisce affetto e cure. La mamma istrionica che svaluta in modo maldestro la figlia, ambivalente nel suo modo di fornire cura, ma sorprendente nella sua capacità di recupero. Il gruppo come elemento di trasformazione e poi l’amicizia come valore portante ed assoluta resilienza che tutto tiene e consola.

Abbandono – perdita – lutto – e scoperta del tradimento mediante una pittura che ritrae la fata ignorante che disvela la bisessualità del personaggio principale: controverso e maledettamente persuasivo.

La psichiatra, sensibile e vulnerabile, in coppia con una donna astrologa che si rivolge alle stelle e ai pianeti per spiegarsi la realtà e si rimprovera per non essere madre, ma si scopre tradita e in conflitto fra voglia di recuperare il rapporto o scappare in cerca di evasione. Da qui la crisi di coppia che si ricompone e richiede cambiamento e apertura. La transizione di ruolo come fattore che rigenera e scompone equilibri. L’amante, l’esule, una sommatoria di lutti, rifiuti temuti, traumi che si ricompongono, si risolvono. Si evidenzia la resilienza, le risorse e la positività della vita.

Il tema della famiglia biologica e della famiglia logica, l’omosessualità e la mancanza dei figli nelle coppie gay come tema trasversale che batte sulle sponde della storia principale.

Gli episodi proposti: amore, assenza, segreto, tradimento, famiglia, mondo fuori, viaggio, altrove, forniscono fotografie dettagliate di stati d’animo, sentimenti – emozioni, pensieri, credenze, sofferenza psicologica, risorse e fattori di protezione.

Una scenografia a tratti radical-chic in cui si muovono personaggi carichi di emotività e vita, complessi, contemporanei, fortemente rappresentativi di una realtà che viviamo. Il confine fra fiction e realtà si confonde; la rappresentazione fornita dal regista riflette talmente bene la realtà dei sentimenti trattati che certamente si mostra un utile esercizio per spiegarsi al meglio la complessità della psicologia e delle differenze individuali, e nello specifico le motivazioni e le paure delle storie raccontate che spesso si riscontrano nella nostra pratica clinica.

 

LE FATE IGNORANTI – Guarda il trailer della serie TV:

Alessitimia: quale relazione con traumi infantili e rischio suicidario

Gli individui con alta alessitimia sperimentano deficit nel controllare il loro eccitamento emotivo e sono più inclini ad utilizzare strategie di coping meno adattive come autolesionismo e tentativi di suicidio.

 

 Il suicidio è un problema di salute pubblica globale che comporta oltre 800.000 morti ogni anno (OMS, 2014). La ricerca attuale suggerisce che il trauma infantile e le esperienze avverse giocano un ruolo importante nella suicidalità (Alli et al., 2019; Fjeldsted et al., 2019); a loro volta, il trauma e le esperienze avverse mostrano associazioni con lo sviluppo di alessitimia (Terock et al., 2018).

L’alessitimia è un costrutto multidimensionale che comprende difficoltà nell’identificare e descrivere i sentimenti, nel distinguere i sentimenti dalle sensazioni corporee, una diminuzione della fantasia e pensiero concreto e scarsa introspettività (Taylor, 1984).

Studi empirici hanno dimostrato che l’alessitimia è positivamente correlata con livelli più elevati di rischio suicidario (De Berardis et al., 2017a). Alcuni autori ipotizzano che questo costrutto possa mediare la relazione tra trauma e suicidio (Bucci, 2007; Di Trani et al.,  2018).

Questa ipotesi è in linea con la Teoria dei Codici Multipli, la quale sottolinea che gli individui con alta alessitimia sperimentano deficit nel controllare il loro eccitamento emotivo e sono più inclini a utilizzare strategie di coping meno adattive come autolesionismo e tentativi di suicidio (Bucci, 2007; Di Trani et al., 2018). A testare questa ipotesi di mediazione è stato uno studio di Xie e colleghi (2021), che ha selezionato un campione di studenti suddivisi in studenti con left-behind experience (LBE) e studenti senza left-behind experience (NLBE).

Alessitimia e left-behind experience

Cosa si intende però per “left-behind experience”? Questo fenomeno nasce nel contesto del rapido sviluppo economico della Cina e della migrazione di un gran numero di lavoratori dalle campagne alle città. Proprio a causa di queste situazioni lavorative, alcuni bambini vivono separazioni dai genitori (o da almeno uno dei due caregiver) e crescono nelle aree rurali del paese accuditi da altri membri della famiglia, come i nonni (Jia e Tian, 2010). Questo “abbandono” delle figure genitoriali è associato a un aumento di problemi di salute mentale nei bambini cinesi (Zhao e Yu, 2016) con punteggi di trascuratezza fisica e psicologica più alti rispetto ai bambini che non vivono questa separazione. I bambini e ragazzi LBE, inoltre, mostrano punteggi più alti per quanto riguarda l’ideazione suicidaria e per l’alessitimia rispetto agli studenti NLBE (Xie et al., 2021).

Sulla base di queste differenze tra i due gruppi, gli autori dello studio hanno ipotizzato che l’effetto mediatore dell’alessitimia potesse essere diverso per gli studenti LBE rispetto agli studenti NLBE. I risultati dimostrano che gli studenti LBE, cresciuti con figure vicine alla famiglia (es. i nonni) oppure unicamente dalle madri, mostrano punteggi totali più alti sulla scala del trauma infantile rispetto agli studenti NLBE. Questa differenza si rifletteva principalmente nelle tre dimensioni di abuso emotivo, trascuratezza fisica e trascuratezza emotiva. La letteratura indica che le donne che rimangono a casa a prendersi cura dei figli, tendono a sfogare la loro insoddisfazione su di essi perché non sono state in grado di soddisfare i loro personali bisogni economici, emotivi e fisiologici (Jingzhong e Huifang, 2010). Questa potrebbe essere una valida spiegazione per l’alto punteggio di abuso emotivo di questi bambini. Inoltre, anche se i nonni amano i propri nipoti, i bisogni emotivi dei bambini sono spesso trascurati a causa del divario generazionale e delle vite impegnate degli adulti (Hu et al., 2014).

 Gli studenti LBE hanno ottenuto punteggi più alti anche per l’alessitimia. Ciò non sorprende, dato che la capacità di regolazione degli affetti è facilitata, nei primi anni di vita, dall’esperienza di condivisione e dal rispecchiamento delle espressioni affettive con il caregiver primario (Krystal, 1988); inoltre, per i genitori che lavorano fuori casa tutto l’anno può essere difficile dare ai figli l’attenzione e le cure necessarie.

Per quanto riguarda il rischio suicidario, gli studenti LBE hanno ottenuto punteggi più alti rispetto agli studenti NLBE e questo potrebbe essere dovuto a due fattori: livelli più elevati di trauma infantile e alessitimia (entrambi fattori di rischio per il suicidio) e scarso supporto interpersonale. Di conseguenza, rispetto agli studenti NLBE, il rischio di suicidio di questo gruppo deve essere seriamente valutato e trattato.

Alessitimia e rischio suicidario

I risultati mostrano inoltre un’associazione positiva tra alessitimia e rischio di suicidio per l’intero campione, indipendentemente dal fatto che appartenessero al gruppo LBE. Tuttavia, un effetto di mediazione dell’alessitimia sul trauma infantile e il rischio di suicidio è stato riscontrato solo negli studenti non LBE. La ragione di questo risultato potrebbe essere dovuta all’alta resilienza degli studenti LBE. Uno studio di Liang e colleghi (2018) ha scoperto infatti che la resilienza degli studenti LBE era notevolmente più alta rispetto ad altri gruppi di studenti e questo costrutto, a sua volta, gioca un ruolo nel mediare l’alessitimia e l’ideazione suicidaria agendo come un buffer contro l’alessitimia, che ha un effetto negativo sull’ideazione e il comportamento suicidario.

Questo risultato appare coerente anche con la Teoria dei Codici Multipli: con la resilienza come strategia di controllo, l’arousal può funzionare come motivazione per il raggiungimento di obiettivi personalmente rilevanti (Bucci, 2007). Pertanto, anche se gli studenti LBE hanno ottenuto punteggi più alti per l’alessitimia, il percorso dall’alessitimia al rischio di suicidio potrebbe essere stato distorto dalla resilienza caratteristica del gruppo.

In conclusione, lo studio conferma che l’alessitimia media la relazione tra trauma infantile e rischio di suicidio negli studenti NLBE ma non negli studenti LBE, probabilmente a causa dell’elevata resilienza. Per questi ultimi è necessaria una maggiore assistenza psicologica e un supporto per aumentare la consapevolezza delle loro emozioni. La ricerca futura potrebbe concentrarsi su soggetti di età differenti, come gli studenti della scuola primaria e secondaria, senza tralasciare l’influenza del genere e dei diversi tipi di trauma.

 

Suicidio in carcere e psicoterapia

È chiaro che un detenuto sofferente che finisce in carcere invece che in una REMS vede moltiplicarsi il suo rischio di suicidio. Come mai questi detenuti sono finiti nel luogo sbagliato?

 

I suicidi in carcere dipendono da una serie di fattori, non ultimi le pessime condizioni e la sovrappopolazione delle strutture. All’interno della popolazione carceraria a noi preme soprattutto segnalare il disagio di chi soffre di disturbi emotivi e mentali, con particolare attenzione a quei disturbi che aumentano il rischio suicidario come il disturbo di personalità borderline. Com’è noto, chi soffre di queste patologie non andrebbe indirizzato al carcere ma a una REMS, una Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, strutture che dal 2014 sono andate a sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari.

È chiaro che un detenuto sofferente che finisce in carcere invece che in una REMS vede moltiplicarsi il suo rischio di suicidio. Come mai questi detenuti sono finiti nel luogo sbagliato? Come riporta il Post, le REMS al momento sono poche e i posti disponibili sono meno di quelli necessari. Inoltre, e questo è in teoria un merito, le REMS sono a numero chiuso per impedire i fenomeni di sovrappopolazione che già affliggono le carceri. La conseguenza di questa correttezza è che, tuttavia, i detenuti sofferenti di disturbi mentali e in sovrannumero rispetto ai posti delle REMS finiscono in carcere.

La soluzione è ovviamente moltiplicare al più presto le REMS e dotarle dei mezzi di cura necessari per non ridurle a essere dei neo-manicomi con pazienti sedati e imbottiti di farmaci. Per la verità, le norme che stabiliscono i requisiti strutturali ed organizzativi delle REMS paiono rigorose: esse prescrivono che, oltre la già citata accoglienza di un massimo di 20 pazienti, nelle REMS il personale va organizzato come équipe di lavoro multi professionale, comprendente medici psichiatri, psicologi, infermieri, terapisti della riabilitazione psichiatrica/educatori e operatori socio-sanitari che seguono procedure scritte riguardanti i compiti di ciascuna figura professionale, le modalità di accoglienza del paziente, la definizione di programmi individualizzati, i criteri per il monitoraggio e la valutazione periodica dei trattamenti terapeutico-riabilitativi.

I detenuti sofferenti (o internati) presso le REMS ricevono, entro 45 giorni dall’ingresso, sulla base del Progetto Terapeutico Riabilitativo Integrato (PTRI) formulato dal Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di competenza territoriale, un Progetto Terapeutico Riabilitativo (PTR) concordato con l’Ospite e il Centro di Salute Mentale (CSM) competente che descrive gli obiettivi ed i trattamenti e tempi necessari per realizzarli.

Si tratta di un percorso decisionale rigoroso che dovrebbe facilitare l’adozione di trattamenti di provata efficacia per i problemi dei detenuti, come la Terapia Dialettico Comportamentale che è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato specificamente per pazienti cronicamente suicidari con diagnosi di Disturbo Borderline di personalità ed è stata la prima terapia a rivelarsi efficace per questo rischio (Linehan, 1983). L’opportunità di questa scelta è confermata dal dato che i pazienti psichiatrici forensi rappresentano la più a rischio di comportamenti aggressivi di tutte le popolazioni psichiatriche ospedaliere (Bowers et al., 2011).

È confortante apprendere che questa procedura facilita l’adozione di trattamenti confermati scientificamente, come ad esempio è avvenuto nelle R.E.M.S. “CASTORE” di Subiaco e “MEROPE” di Palombara Sabina dove è stato adottato un protocollo di Terapia Dialettico Comportamentale in pazienti autori di reato internati (Ortenzi, 2016). I risultati di quello studio confermano i dati presenti in letteratura sull’efficacia della Terapia Dialettico Comportamentale, rispetto al trattamento psichiatrico usuale a base di farmaci antipsicotici. Questo vale per l’aggressività, l’impulsività e la disregolazione emotiva nelle popolazioni psichiatriche forensi delle due REMS. La conclusione è che l’inserimento negli ospedali psichiatrici forensi di trattamenti empiricamente confermati aiuta la realizzazione dell’obiettivo principale di queste strutture, ovvero la riabilitazione e il reinserimento nella società. È Importante che tutte le figure presenti collaborino e che non si dia – come a volte accade – maggiore valore soltanto ad alcune figure, come gli psichiatri. È tranquillizzante osservare che l’organizzazione dei PTR delle REMS già consente queste scelte cliniche efficienti; forse occorrerebbe renderne ancora più obbligatoria l’adozione invece di limitarsi a facilitarla come accade ora. Questo ulteriore passo avanti, insieme all’ancora più necessaria moltiplicazione del numero delle REMS, aiuterebbe ad contrastare la tragedia dei suicidi dei detenuti.

 

Musica e marketing. Come ciò che ascoltiamo influenza le nostre scelte

Se risulta indubbio l’effetto positivo della musica sulla propensione all’acquisto, va però detto che la scelta della musica da utilizzare è determinante e pertanto non può essere lasciata al caso.

 

 Immaginiamo questa scena: siamo in un negozio, osserviamo le merci esposte, scegliamo un prodotto e ci dirigiamo alla cassa. Probabilmente siamo convinti che la nostra scelta sia assolutamente dipendente da una nostra libera decisione. Ma spesso non è così. E non solo: in genere non ci rendiamo minimamente conto che non sia così.

Tra i fattori capaci di influenzare le nostre scelte può intervenire anche la musica, che diverse ricerche hanno dimostrato essere capace di stimolare i nostri desideri, orientare le nostre scelte e la nostra propensione all’acquisto.

Come la musica ci influenza

Quello che spinge ad effettuare un acquisto non è solo una necessità, ma molto spesso è un desiderio indotto da fattori esterni, dall’ambiente che ci circonda, in generale da condizioni in grado di modificare la nostra predisposizione ad acquistare. A questo scopo è determinante che l’esperienza dei clienti, che viene definita con il termine shopping experience, sia il più piacevole possibile. Chi si occupa di marketing investe molto su questo aspetto e, come vedremo, è stato dimostrato che anche la musica può risultare un fattore estremamente utile per ottenere questo risultato.

I motivi sono essenzialmente di due tipi:

  • il nostro cervello si collega automaticamente alle frequenze che ascoltiamo e ne viene influenzato, come visto in precedenza la struttura della musica determina le nostre reazioni;
  • l’ascolto della musica crea un ambiente di lavoro più piacevole, influenza in modo positivo l’umore e questo aumenta la produttività.

L’importanza della scelta musicale

Se risulta indubbio l’effetto positivo della musica sulla propensione all’acquisto, va però detto che la scelta della musica da utilizzare è determinante e pertanto non può essere lasciata al caso. Innanzi tutto bisogna considerare qual è il risultato che si vuole raggiungere.

Stiamo progettando una campagna pubblicitaria per un brand? Vogliamo che il nostro prodotto si identifichi con la musica in modo da renderlo più facile da ricordare?

Forniamo dei servizi e desideriamo mettere a proprio agio i nostri clienti e allungare la loro permanenza? O magari, al contrario, puntiamo a far sì che non si protragga troppo a lungo?

In tutti questi casi la nostra scelta dovrà basarsi essenzialmente sul ritmo di quello che andremo a far ascoltare ai nostri potenziali clienti. Ronald Milliman, professore di marketing, nelle sue ricerche ha scoperto come i ritmi lenti abbiano l’effetto di prolungare la sosta dei clienti nel negozio con la conseguenza di favorire notevolmente le vendite. Da non trascurare anche il volume della musica, che, come vedremo, dovrà tenere conto delle diverse esigenze e non risultare mai importuno.

Musica e pubblicità

Quando si parla di pubblicità, va detto che la scelta della musica si deve accompagnare al messaggio che si vuole comunicare, ad esempio musica classica abbinata ad un brand di lusso, come gioielli, profumi e automobili. Una musica country sarà perfetta abbinata a prodotti caseari e via dicendo.

Meglio scegliere una musica più o meno nota? Dipende, se una canzone famosa può ottenere lo scopo di attirare l’attenzione, la scelta del jingle può essere pericolosa perché distoglie l’attenzione dal marchio e perché, essendo inflazionata e soggetta alla moda del momento, può successivamente risultare fastidiosa.

La musica negli esercizi commerciali

Se pensiamo all’utilizzo della musica in un esercizio commerciale, un negoziante punterà a protrarre la permanenza del cliente nel punto vendita, così da dargli modo di osservare meglio i prodotti esposti e stimolare il suo desiderio di acquisto.

A questo scopo la musica dovrà essere rilassante, soffusa, in grado di dare un senso di benessere. Controproducente sarebbe invece una musica invasiva, che risultasse fastidiosa con l’effetto di far affrettare il cliente anche a costo di sacrificare l’acquisto.

Se immaginiamo di trovarci in un ristorante elegante, una musica soffusa aiuterà a creare l’atmosfera giusta per favorire una sensazione gratificante, rilassarsi e conversare piacevolmente con chi condivide il nostro tavolo, con il risultato di spingerci a ordinare una portata in più.

 Il discorso cambia completamente se ci troviamo in un fast food: in questo caso il nostro ordine sarà completato prima di raggiungere il tavolo e ciò significa che se la nostra permanenza al tavolo si protrarrà oltre il tempo necessario per consumare quanto acquistato, questo andrà a discapito di altri potenziali clienti che troveranno i tavoli occupati. Meglio dunque per il gestore puntare su una musica veloce, un volume alto, che non favorisca la conversazione e l’eccessivo rilassamento.

Pensiamo invece di essere in una palestra: è noto il legame esistente tra musica e sport e in questo caso si punterà su una musica vivace, ritmata ed energica. Una musica piacevole e rilassante ci accompagnerà invece in un centro benessere.

Rapporto tra musica e vendite

Abbiamo appurato che la musica può incidere sulle vendite, ma siamo in grado di quantificare fino a che punto? Wired ha pubblicato una ricerca svolta alcuni anni fa dal direttore del dipartimento di marketing dell’Università Bocconi di Milano, secondo la quale ascoltare musica mentre facciamo acquisti può portare ad un aumento del nostro scontrino compreso tra il 2% e il 10%. Un risultato tutt’altro che irrilevante!

Una musica per ogni prodotto

Oltre a favorire la propensione all’acquisto in generale, l’ascolto di un certo tipo di musica può indirizzare la nostra scelta verso un determinato tipo di prodotti.

Alcuni ricercatori del dipartimento di psicologia dell’Università di Leicester (North, Hargreaves e McKendrick) hanno svolto una ricerca tra le corsie di un supermercato e hanno rilevato che quando in sottofondo veniva diffusa una musica francese, si verificava un incremento dell’acquisto di vini francesi. La stessa cosa si verificava con i vini tedeschi quando ai clienti veniva fatta ascoltare musica tedesca.

Un aspetto curioso sottolineato dai ricercatori è stato che i clienti sottoposti a loro insaputa a questo esperimento, non ricordavano quale musica avessero ascoltato durante i loro acquisti, segno che il condizionamento era avvenuto in modo per loro del tutto inconsapevole.

La parola, il corpo e la macchina (2022) di G.M. Ruggiero – Recensione

L’incontro con “La parola, il corpo e la macchina” di G. M. Ruggiero è stato molto stimolante: ho letto il libro in pochi giorni e, mano a mano che leggevo, mi sono annotato diverse cose che mi hanno colpito e che provo qui a riassumere.

 

Questo è un libro sulla psicoterapia con un taglio più epistemologico che storico: costituisce idealmente una lettura da affiancare alla “Storia critica della psicoterapia” di Foschi e Innamorati (che viene citata più volte nel libro), sia per il taglio differente che per l’approfondimento dettagliato delle varie vicissitudini del movimento cognitivo-comportamentale, che nel libro di Foschi e Innamorati era trattato più sinteticamente.

Il punto di partenza è un paradosso: l’essere umano è descritto metaforicamente come una macchina e la psicoterapia come il repertorio di conoscenze e tecniche che dovrebbe permetterci di ripararlo come si fa con una macchina, appunto. Ma, per citare l’autore: “chi pretenderebbe di aggiustare un’auto parlandoci?” o, provando a tradurre: come si aggiusta una metafora?

Provo a seguire la sollecitazione: il presupposto di questa premessa è la convinzione che alla regolazione degli stati mentali immateriali corrisponda una modificazione della materia o del funzionamento degli ingranaggi, perché se un cambiamento non avviene nella materia, non è scientificamente fondato. Quindi quella che sembrava una metafora si fa carne, sangue e ingranaggi nella ricerca di un correlato anatomo-fisiologico dell’intervento psicoterapeutico, almeno nelle aspirazioni.

A questo punto c’è un altro passaggio logico: la “macchina” non è qualcosa su cui noi possiamo operare direttamente, ma ci serviamo di una sorta di mediatore che fa il lavoro per noi e che noi possiamo guidare o istruire: la “mente”.

La percezione emotiva dei bisogni e la pianificazione dei comportamenti sono i due parametri che ogni modello psicoterapeutico ha utilizzato per descrivere il funzionamento della mente e la teoria della malattia e della cura.

I diversi modelli psicoterapeutici differiscono tra loro per il livello di complessità della mente e per la scelta selettiva dei bisogni la cui insoddisfazione rende ragione della sofferenza; un discorso a parte va fatto per i modelli costruttivisti o esistenziali, rivolti non a un bisogno prevalente, ma al sistema che regola i bisogni e che può essere più o meno rigido: la sofferenza può essere quindi ascritta alla frustrazione di un bisogno ritenuto principale oppure come costitutiva dell’esistere e dell’impossibilità di soddisfarli tutti contemporaneamente.

Un’altra osservazione preliminare è che, in questa lettura del percorso epistemologico delle psicoterapie, è fondamentale inserire i modelli terapeutici nel milieu filosofico che li ha accolti: quello tedesco (o, per usare una fortunata definizione, “continentale”) con la prevalenza di un’istanza teoretica di conoscenza e penetrazione del reale, e quello anglosassone dove prevalgono pragmatismo e utilitarismo.

L’autore passa in rassegna dapprima il mondo psicoanalitico, partendo da Freud e dal suo modello, che da un lato ha una struttura di tipo meccanico-idraulico, quindi compatibile con la metafora della macchina, ma che è tenuto insieme dall’assunto a priori che il “guasto” sia correlato a cause inconsce e che la terapia consista nel renderle nuovamente consce.

Nella psicoanalisi freudiana il bisogno frustrato è quello sessuale, che nell’evoluzione della psicoanalisi viene affiancato o sostituito dal bisogno di amore/vicinanza affettiva.

Jung e Adler, in modi differenti, abbandonano il paradigma medico meccanicistico ed esplorano spazi incerti: il primo quello dell’ombra e del sacro, il secondo quello dell’affermazione di sé. Entrambi, proprio perché meno interessati al modello medico, non tratteggiano una teoria organica, ma lasciano più domande che risposte e tracciano vie che altri percorreranno (spesso senza riconoscerne il debito).

Gli sviluppi della psicoanalisi seguono alcune linee evolutive:

  • il passaggio dalla priorità del bisogno di soddisfazione sessuale a quella del bisogno di contenimento emozionale: questo cambio di paradigma è ben esplicitato nelle celebre frase di Fairbairn “la libido non è la ricerca del piacere ma la ricerca dell’oggetto”;
  • l’addomesticamento della psicoanalisi ad opera di Winnicott;
  • le contaminazioni con il mondo della ricerca (Bowlby) fino a lambire i lidi del cognitivismo con la mentalizzazione (Fonagy).

Viene quindi descritta con pennellate impressionistiche ed evocative la svolta relazionale, come una successione di storie (biografie e modelli) che alla fine acquistano un senso compiuto e formano una gestalt nell’opera di Mitchell.

L’autore passa poi a tratteggiare la nascita e lo sviluppo del cognitivismo nelle sue varie declinazioni, fratture epistemologiche ed evoluzioni. Il punto di partenza è, anche qui, epistemologico: dall’interesse verso l’hardware, si passa a quello per il software. Seguendo la nostra metafora iniziale, noi non ci occupiamo più della macchina dal punto di vista meccanico, ma lavoriamo ad un livello cognitivo: il modello è quello dell’intelligenza artificiale. I punti di forza sembrano essere lampanti: da un lato i modelli che nascono da questi presupposti sono verificabili secondo i parametri dell’Evidence Based Medicine, dall’altro in alcuni casi sono talmente specifici da poter essere manualizzabili.

Viene descritto nel dettaglio il percorso umano e professionale di Beck e il suo modello incentrato sugli schemi cognitivi come programmi da sistemare, poi si passa ad Ellis e alla REBT, nella quale non si interviene a monte sullo schema cognitivo disasdattivo, ossia sull’errata conoscenza di sé, ma solo sull’inferenza disfunzionale valutativa alla base della sofferenza, con un approccio maieutico.

 A questo cognitivismo “forte”, fa quasi subito da controcanto un cognitivismo con un’altra epistemologia. Ossia quello costruttivista: qui la metafora della macchina inizia a mostrare dei limiti, l’essere umano viene descritto come immerso in un flusso di significati e in una realtà che crea (almeno in gran parte) da sé. Il sé diventa narrativo, così come i sintomi. Il pantheon filosofico è capeggiato da Vaihinger e Husser ed è comune a quello delle terapie esistenziali ed esperienziali.

Il legame con il cognitivismo classico sembra labile e a tratti opportunistico, nel senso che i vari approcci costruttivisti beneficeranno dell’aura di scientificità del cognitivismo “classico” pur non avendo apportato elementi propri significativi nell’ambito della ricerca.

Nel costruttivismo possiamo individuare alcune correnti principali:

  • un costruttivismo radicale (Guidano), che si caratterizza per la teorizzazione di un sé narrativo e per un approccio all’essere umano di natura più speculativa e filosofica che psicologica;
  • un costruttivismo moderato (Liotti, Bara, Dimaggio) che si caratterizza per concepire il sé come  relazionale (dialogando con la psicoanalisi relazionale), per la centralità del trauma come organizzatore psicopatologico (dialogando con psicoanalisti come Broomberg) e per l’apertura agli approcci corporei;
  • un costruttivismo razionale (Kelly, Sassaroli, Mancini) per il quale il sé è definito dalla presenza di costrutti personali bipolari più o meno rigidi correlati a particolari stili di conoscenza e di attaccamento.

Fino a qui, i vari modelli incontrati condividono i presupposti da cui è partito l’autore, ossia fondamentalmente la centralità del costrutto di mente (prevalentemente inconscia nella psicoanalisi, conscia nelle varie declinazioni del cognitivismo) come sede dell’intervento psicologico e come centro di comando dell’individuo. Ma questo modello non è accettato implicitamente da tutti: il primo modello forte che si pone al di fuori della mente è proprio il Comportamentismo: secondo questo modello la mente è una “scatola nera” della quale non possiamo sapere nulla e non ha senso occuparsi. L’unico oggetto di studio sono i comportamenti e solo su questi si può intervenire. Un aspetto interessante è il concetto di “rinforzo disfunzionale”: il fatto cioè che un sintomo, se persiste, ha dei meccanismi di rinforzo e conseguentemente ha un’utilità per il sistema. Questa concezione funzionalista getta un ponte con la concezione del sintomo come adattamento creativo della terapia della gestalt.

La messa in discussione della centralità della mente ha investito anche il cognitivismo, in quella che è nota come terza ondata della CBT: il presupposto di questi modelli è che i pensieri non sono tanto utili in sé, ma solo per le loro conseguenze. Se nella psicoanalisi e nel cognitivismo era centrale conoscere “cosa” (cause inconsce o pensieri disadattivi), qui è centrale il come, in due direzioni: top down (come gli stati mentali regolano altri stati mentali) e bottom up (come il lavoro sul corpo ha un effetto regolativo sul piano emotivo e cognitivo). L’obiettivo qui non è un particolare bisogno, ma la fluidità del processo.

Infine l’autore affronta il tema delle terapie umanistiche, esperienziali e corporee: gruppo eterogeneo, accomunato dalla concezione organismica dell’essere umano (o, per dirla in termini fenomenologici, dal suo essere nel mondo come “corpo vivo”) e da un’epistemologia di tipo fenomenologico-esistenziale. Qui la metafora della macchina mostra dei limiti, in quanto il presupposto di tutti questi vari modelli è la caratteristica dell’essere umano di esistere prima di essere (tant’è che, leggendo il libro, la prima immagine che mi è venuta in mente pensando ad una macchina antropomorfizzata, e che mi ha accompagnato piacevolmente per tutta la lettura, è quella di Herbie, il maggiolino dotato di autocoscienza di un vecchio film della Disney).

All’interno di questo insieme di modelli le differenze sono più accentuate di quanto non sembri dal libro: c’è un gruppo di terapie più marcatamente di matrice esistenziale (Rogers, May, Perls), un filone di derivazione più marcatamente psicodinamica (Berne), uno collegato a Reich (Lowen e Perls, terapia sensomotoria, molto collateralmente EMDR).

Viene riconosciuta l’importanza di Rogers nell’aver codificato per primo le caratteristiche di un buon impianto relazionale (anche se per lui non era solo una premessa, ma di per sé il principale mediatore terapeutico). Viene anche acutamente riconosciuto un legame tra Gestalt e funzionalismo comportamentale (tant’è che più di qualcuno ha definito la gestalt come comportamentismo fenomenologico). Vengono infine rilevati i principali limiti di questi approcci, come il problema della riproducibilità degli interventi e della ricerca sull’efficacia, anche se per la verità ci sono interessanti tentativi di superamento, come ad esempio quello di Leslie Greenberg.

Il libro si conclude con un’amara e intellettualmente onesta riflessione sullo stato della ricerca in psicoterapia: all’età dell’oro della riproducibilità tecnica delle psicoterapie in modelli standardizzati e manualizzati, segue la constatazione scientificamente dimostrata che i principali fattori che correlano con l’efficacia terapeutica sono quelli aspecifici o “relazionali” (termine ambiguo che assume nel nostro campo una polisemia talmente vasta da renderlo quasi inutilizzabile). Ma ovviamente questa, come si intuisce dalla lettura delle conclusioni, non può essere che una constatazione provvisoria di una storia che ha ancora molta strada da fare.

 

Neglect infantile: impatto sul funzionamento in adolescenza?

Data la prevalenza del neglect, è importante chiarire e migliorare la comprensione del suo impatto sullo sviluppo del bambino e dell’adolescente.

 

Il neglect infantile

 Il Neglect è un termine molto utilizzato per indicare la trascuratezza verso i bisogni primari di un’altra persona, siano essi emotivi o fisici. La definizione di neglect fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è: l’incapacità dei genitori/caregiver di soddisfare i bisogni del bambino in qualsiasi area dello sviluppo, laddove sono in grado di farlo (Krug et al., 2002).

Il neglect rappresenta una forma altamente diffusa di maltrattamento infantile, che si stima colpisca quasi un bambino e un adolescente su cinque (Cohen et al., 2017). Nonostante la sua prevalenza, è stato poco studiato rispetto ad altre forme di maltrattamento (Hobbs e Wynne, 2002).

La letteratura a oggi mostra che il neglect in famiglia è spesso accompagnato da altre forme di maltrattamento (ad es., Brown et al.,  2019), per cui atti di violenza fisica e sessuale sui bambini hanno ricevuto più attenzione e preoccupazione, rendendo la trascuratezza emotiva e fisica secondaria e soprattutto rendendo gli effetti isolati della trascuratezza più difficili da identificare.

Eppure, nonostante la scarsa ricerca a riguardo, è noto che le conseguenze del neglect possono essere dannose e durature. Ad esempio, gli individui che hanno vissuto esperienze di neglect presentano deficit cognitivi fino all’età adulta (Geoffroy et al., 2016). Il neglect, inoltre, correla negativamente con la qualità dell’attaccamento tra pari; ciò sembra essere più che plausibile dato che la mancanza di mentalizzazione da parte del caregiver priva il bambino della comprensione del proprio mondo interno, influenzando lo sviluppo della regolazione delle emozioni, dell’empatia e del successivo funzionamento interpersonale (Howe, 2005).

Essere stati trascurati emotivamente o fisicamente sembra possa addirittura aumentare il rischio di problemi nella condotta, infatti sono state riscontrate associazioni con tutte le forme di reato, comprese quelle violente, non violente e sessuali (Malvaso et al., 2016).

Data la prevalenza del neglect, è importante chiarire e migliorare la comprensione del suo impatto sullo sviluppo.

L’adolescenza è una fase evolutiva rilevante da esplorare in relazione al neglect e al funzionamento interpersonale, perché durante questo periodo di vita è presente uno spostamento dell’attenzione dalle relazioni familiari a quelle tra pari e romantiche, nonché dei cambiamenti nel funzionamento socio-emotivo (Lam et al., 2014). I fattori che influenzano lo sviluppo di difficoltà nel funzionamento interpersonale a seguito di trascuratezza emotiva o fisica sono complessi. Recenti evidenze suggeriscono che la tempistica, la cronicità e la gravità del maltrattamento hanno un impatto maggiore rispetto al tipo di maltrattamento (Malvaso et al., 2016).

Gli effetti del neglect sul funzionamento interpersonale

Una revisione sistematica di Haslam e Taylor (2022) ha incluso studi che si sono focalizzati sull’impatto che il neglect ha sul funzionamento interpersonale degli adolescenti; in particolare, gli autori si sono occupati della relazione tra neglect e funzionamento interpersonale all’interno delle relazioni tra pari, romantiche e non. Gli autori sostengono l’ipotesi secondo cui il neglect influenza il funzionamento interpersonale, soprattutto per quanto riguarda il nostro modo di essere e agire con i pari, dato che le persone hanno maggiori probabilità di sviluppare stili di attaccamento disadattivi al di fuori delle relazioni familiari (Howe, 2005). Inoltre, l’impatto dimostrato che il maltrattamento ha sulla regolazione emotiva e sulle difficoltà, sia internalizzanti che esternalizzanti, probabilmente compromette ulteriormente le capacità nelle relazioni sociali con i coetanei (Maguire et al., 2015).

 La letteratura mostra risultati più consistenti per il neglect emotivo rispetto al neglect fisico. Sette articoli di questa revisione hanno trovato risultati non significativi relativi al neglect e alle relazioni con i coetanei: i punteggi di bullo e vittima dei bambini trascurati non differivano significativamente da quelli dei bambini non maltrattati, mentre i punteggi dei bambini abusati sì, suggerendo che l’effetto della trascuratezza sulle relazioni tra pari è minimo. È anche possibile che la tempistica, la cronicità e la gravità del maltrattamento siano più importanti del tipo di maltrattamento in relazione agli esiti del funzionamento interpersonale negli adolescenti (Witt et al., 2019).

I risultati di questa revisione hanno inoltre mostrato una relazione positiva tra neglect emotivo e affiliazione a gang, molto più alta rispetto ad altre forme di maltrattamento. Questo risultato può significare che la mancanza di cure e supervisione durante l’adolescenza influenza la vulnerabilità di un individuo al coinvolgimento in una gang. Sebbene le evidenze trovate in questi studi suggeriscano che l’appartenenza a una gang riguardi solo una minoranza dei giovani trascurati, è necessario comprendere il percorso che porta dalla trascuratezza al coinvolgimento in una gang e all’affiliazione a pari devianti, poiché la vicinanza a gruppi devianti aumenta il rischio di violenza influenzando gli esiti relazionali e di salute mentale (Iratzoqui, 2018).

In questa revisione inoltre erano presenti solo due studi che hanno indagato la relazione tra neglect e violenza nelle relazioni di coppia, che hanno prodotto però risultati contraddittori. Ciò differisce dai risultati di ricerche più ampie sulle relazioni sentimentali tra adolescenti e giovani adulti, le quali mostrano che il maltrattamento infantile aumenta il rischio di violenza da parte del partner nelle relazioni di intimità e una peggiore qualità della relazione (Karsberg et al., 2019).

In conclusione, le ricerche condotte finora presentano molte incongruenze e debolezze metodologiche; data l’importanza delle relazioni tra pari nello sviluppo degli adolescenti e gli effetti deleteri della trascuratezza emotiva e/o fisica su molteplici esiti, l’argomento di questa revisione merita di essere approfondito. È necessario proseguire gli sforzi per comprendere l’impatto di questa forma molto diffusa di maltrattamento anche al fine di migliorare la pratica clinica.

 

La psicologia del traffico. Un modo diverso di fare psicologia

In questo breve articolo verrà descritto uno dei tanti volti della psicologia che in pochi conoscono, ma che in futuro potrà avere un ruolo rilevante tra le discipline che si occuperanno della promozione della salute pubblica, la psicologia del traffico.

 

Cos’è la psicologia del traffico?

 La psicologia del traffico è una branca della psicologia applicata che si occupa di analizzare il rapporto che intercorre tra persona-ambiente e persona-veicolo con lo scopo di prevenire e promuovere la salute pubblica e la mobilità. Tutto ciò è possibile mediante la valutazione dei processi cognitivi ed emotivi coinvolti durante la guida e la valutazione del tipo di infrastrutture presenti nell’ambiente stradale. I dati raccolti, attraverso questa metodica, consentono di comprendere il comportamento e le dinamiche attuate durante la guida.

È davvero necessaria la figura dello psicologo del traffico?

Il rapporto dell’Istat sugli incidenti stradali nell’anno 2019 (Istat, 2020) ha evidenziato come le principali cause dei sinistri stradali sul territorio nazionale italiano sono riconducibili a fenomeni di distrazione, di mancato rispetto della precedenza ed eccessiva velocità.

Il denominatore comune di questi elementi causali è quello che in gergo tecnico prende il nome di fattore umano. Con fattore umano si intende proprio l’insieme dei comportamenti e dei processi umani che influenzano l’aspetto della sicurezza di un lavoro o di una procedura.

La conoscenza delle caratteristiche umane (sia cognitive che emotive), quindi, consente di poter prevenire e ridurre gli incidenti e promuovere la salute pubblica mediante l’applicazione di alcuni accorgimenti di carattere psicologico. Inoltre, la figura dello psicologo, così come quella del medico, è rilevante nelle autoscuole anche se al momento esistono poche realtà di questo tipo.

Lo psicologo in queste importanti strutture di conoscenza teorica e pratica della guida è prezioso sia per il futuro conducente che per il formatore che può aggiungere alla propria conoscenza tecnica, una conoscenza psicologica di base associata al compito di guida.

La figura dello psicologo del traffico è tutelata a livello normativo?

La normativa che include la figura dello psicologo del traffico nelle dinamiche del mondo della motorizzazione è ampia ma poco conosciuta e rispettata. Secondo il codice della strada, art 119 comma 9 (D.Lgs. n. 285/1992), oltre alla valutazione medica in specifiche situazioni, il medico può richiedere una valutazione psicodiagnostica.

 Allo stesso modo, l’aspetto diagnostico è indicato anche nell’articolo 324 del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada (d.P.R. n. 495/1992) in cui viene regolamentato l’intervento dello psicologo, iscritto regolarmente all’Albo, per prove di attenzione e percezione, per la valutazione dei tempi di reazione e di personalità (nei casi di trattamento terapeutico è necessaria l’abilitazione in psicoterapia).

Nonostante ciò, ad oggi, esistono poche realtà di questo tipo che passano molto spesso in secondo piano. Per questo è importante promuovere questa risorsa professionale che potrebbe migliorare la salute pubblica.

In Europa esiste la figura dello psicologo del traffico?

In Europa, lo psicologo del traffico è riconosciuto e standardizzato mediante la certificazione “EuroPsy” che definisce i crediti formativi necessari per poter esercitare la professione. Infine, da un punto di vista storico la figura dello psicologo del traffico in Europa si è sviluppata a partire dai primi studi in Francia della psicologia del lavoro e dell’ergonomia, andando poi a diffondersi in tutta Europa (Gaymard, S., 2017) anche se ad oggi, in Italia, non è ancora molto conosciuta.

Conclusione

Concludendo, la psicologia del traffico è sicuramente una delle applicazioni della psicologia che è meno conosciuta, ma che può offrire un importante supporto alla promozione del benessere pubblico lavorando su aspetti sia psicologici (cognitivi ed emotivi) sia più tecnici (competenze associate alla guida) consentendo così di poter lavorare su più fronti. Sarà interessante come si svilupperà questa disciplina negli anni a seguire nel nostro paese e nel mondo e se riuscirà ad apportare dei miglioramenti per quanto riguarda la mobilità e il benessere degli utenti della strada.

Neuropsicologia delle differenze individuali (2022) – Recensione

Neuropsicologia delle differenze individuali, edito da Unicopli, è un volume che propone un contributo innovativo all’applicazione delle teorie, dei metodi e delle procedure della neuropsicologia nello studio della personalità.

 

 Il libro è suddiviso in sei capitoli attraverso i quali si struttura un percorso guidato che porta il lettore allo studio della variabilità delle manifestazioni normali e patologiche della personalità intesa come assetto stabile di processi comportamentali, cognitivi ed emotivi caratteristici del singolo individuo. Particolare rilevanza viene data ai processi neuropsicologici di memoria a lungo termine, di cognizione sociale ed esecutivi. Nel volume, la neuropsicologia viene integrata con la letteratura della teoria dell’attaccamento e dei sistemi comportamentali al fine di interpretare le differenze individuali, non solo rispetto a contenuti specifici, ma anche rispetto alle strutture cerebrali e ai processi comportamentali, cognitivi ed emotivi che li sottendono.

Il primo capitolo affronta il tema delle neuroscienze delle reti neurali a larga scala, un paradigma utile per comprendere le basi neurofisiologiche dei fenomeni comportamentali, affettivi e cognitivi. Vengono, quindi, trattate le reti bottom up che sono implicate nell’elaborazione automatica degli stimoli, la rete di default che elabora le rappresentazioni consapevoli delle informazioni relative al sé e le reti top down, coinvolte nei processi di attenzione, controllo e autoregolazione.

Il secondo capitolo tratta la memoria a lungo termine dove sono depositate tutte le informazioni che un individuo acquisisce nel corso della sua vita. In base ai livelli di coscienza con cui sono rappresentate tali informazioni, è possibile distinguere le rappresentazioni di schemi di risposta automatici, contenute nella memoria implicita, le rappresentazioni di conoscenze generali ed astratte, contenute nella memoria semantica e le rappresentazioni di specifici eventi vissuti da un individuo che sono contenute nella memoria episodica. Tutte queste informazioni contribuiscono alla formazione del sé attraverso i processi che sono alla base della memoria autobiografica.

Il terzo capitolo si sofferma sulla cognizione sociale, definita come l’insieme della capacità indispensabili a comprendere i fenomeni sociali e a comportarsi in modo funzionale nelle situazioni sociali. La cognizione sociale, dunque, consente l’elaborazione dei segnali sociali che avviene su più livelli, uno implicito ed uno esplicito. Il primo livello si basa su meccanismi di percezione e imitazione e consente un’elaborazione rapida ed immediata. Il secondo livello si basa su meccanismi di riflessione e comprensione e consente un’analisi più accurata e consapevole delle dinamiche sociali. Entrambi i livelli prevedono l’elaborazione sia delle componenti “fredde”, che riguardano i comportamenti e gli stati mentali propri ed altrui, che delle componenti “calde”, che si riferiscono agli stati emotivi ed affettivi propri ed altrui.

 Il quarto capitolo descrive le funzioni esecutive, quei processi di controllo alla base della autoregolazione. In base ad una classificazione di tipo gerarchico, nel volume le funzioni esecutive vengono suddivise in funzioni esecutive di primo e secondo ordine. Le funzioni esecutive di primo ordine sono responsabili della regolazione del comportamento, attraverso il controllo inibitorio di risposte automatiche e l’elaborazione di rinforzi per apprendere o modificare un comportamento, e della regolazione dei processi cognitivi al fine di raggiungere un obiettivo attraverso la flessibilità cognitiva, l’inibizione attentiva e la working memory. Le funzioni esecutive di secondo ordine si riferiscono a processi di controllo più elaborati quali la regolazione emotiva e il problem solving.

Il quinto capitolo, studia le emozioni da una prospettiva neuropsicologica considerandole come schemi comportamentali caratterizzati da specifiche azioni e reazioni fisiologiche che divengono rappresentazioni più o meno accessibili alla coscienza. Nel testo gli autori revisionano la letteratura relativa alle emozioni primarie e secondarie sottolineando per ognuna gli stimoli attivatori, le caratteristiche fenomenologiche e la funzione che assumono in termini si sopravvivenza nell’ambiente fisico e sociale.

Il sesto capitolo tratta probabilmente l’aspetto più interessante del volume perché apre il lettore alla conoscenza del Modello Bidimensionale dei Sistemi Comportamentali (MBSC). I sistemi comportamentali, sono sistemi che regolano l’attivazione e la cessazione di un comportamento con l’obiettivo di aumentare le probabilità di sopravvivenza di un individuo nel proprio ambiente. Nel modello vengono considerati il sistema di attaccamento, che ha come obiettivo la richiesta di cure e conforto, il sistema di accudimento, che ha come obiettivo il fornire cure e conforto, il sistema agonistico, il cui obiettivo è il raggiungimento e il mantenimento del potere, il sistema sessuale, il cui obiettivo è il piacere nel rapporto sessuale e l’intimità nel legame affettivo e il sistema cooperativo, il cui obiettivo è il raggiungimento di una meta comune attraverso la reciprocità. Per ogni sistema, il MBSC individua quattro prototipici stili di attivazione, funzionale, iperattivato, inibito e problematico, che descrivono le differenze individuali in base a due dimensioni, l’iperattivazione e la deattivazione. L’integrazione della neuropsicologia permette agli autori di distinguere tre diversi livelli di funzionamento dei sistemi comportamentali: il livello automatico, il livello riflessivo e il livello strategico. Il livello automatico descrive il funzionamento individuale in base alle azioni che un individuo compie ed è sotteso dai processi di memoria implicita, cognizione sociale implicita e di regolazione comportamentale attraverso le reti bottom-up. Il livello riflessivo descrive un individuo in base alle specifiche rappresentazioni che ha di sé stesso, degli altri e del mondo ed è sotteso dalla memoria semantica personale e dai processi di cognizione sociale esplicita mediati dalla rete di default. Il livello strategico descrive un individuo rispetto alle sue capacità di ricordare gli eventi e alle sue abilità di autocontrollo e autoregolazione che si basano sui processi di recupero della memoria episodica e regolazione cognitiva ed emotiva mediati dalle reti top-down. In base a questa tassonomia, per ogni sistema vengono individuati specifici contenuti sia a livello automatico che a livello riflessivo, che permettono di descrivere in maniera completa la fenomenologia delle differenze individuali.

Concludendo, Neuropsicologia delle differenze individuali è un volume curato in ogni suo dettaglio ed estremamente interessante in quanto offre una chiave di lettura innovativa ed ad ampio spettro del funzionamento neuropsicologico e della personalità. Il testo riporta all’attenzione del lettore costrutti fondamentali quali la memoria a lungo termine, la cognizione sociale, le funzioni esecutive e le emozioni, costituendo un’occasione di studio per i giovani lettori ed un’occasione di riscoperta per i lettori più esperti. Il testo, nato dall’esperienza degli autori, restituisce a chi lo legge un’articolata riflessione e spunti utili al lavoro clinico dello psicologo e dello psicoterapeuta. Suggerisco una lettura completa del lavoro che merita grande attenzione.

 

Effetti degli influencer sul consumo di cibo ipercalorico dei bambini

Molti bambini dichiarano di fidarsi molto di più delle opinioni e raccomandazioni di un influencer rispetto a quelle di una pubblicità televisiva, motivo per cui spesso i vlogger sono pagati da alcuni marchi per far apparire i loro prodotti sui social media.

 

Introduzione

 Gli aumenti globali dell’obesità infantile sono generati, tra le altre cause, anche da un eccessivo marketing di alimenti non salutari, soprattutto per i bambini. Diversi studi mostrano il forte impatto che il marketing di alimenti ad alto contenuto di grassi, sale e/o zuccheri (High in saturated Fat, Salt, and/or free Sugars; HFSS) ha sulla salute e sull’alimentazione dei bambini (Norman et al., 2016). Sebbene la pubblicità televisiva tradizionale sia stata ampiamente esplorata, i tipi di marketing alimentari digitali a cui i bambini possono essere esposti, e come questo possa influenzare il loro comportamento, rimangono poco studiati. I media digitali sono infatti molto comuni anche tra i più piccoli e alcune ricerche hanno visto che i siti Internet maggiormente visitati dai bambini non sono quasi mai specifici per un pubblico infantile, ma piuttosto piattaforme che attirano un’ampia gamma di età, come i social media (Ofcom, 2017).

L’affidabilità attribuita agli influencer dai bambini

Accade spesso, infatti, che, sebbene alcune piattaforme social consentano l’iscrizione solo agli utenti che hanno più di 13 anni, queste regole non vengano rispettate e anche i bambini vi abbiano accesso facilmente. Per esempio, l’80% dei bambini tra i 5 e i 15 anni, nel Regno Unito, utilizza regolarmente YouTube. Su tale canale diversi video blogger (vlogger) hanno ottenuto molto successo tanto da essere definiti influencer per le loro abilità persuasive sul pubblico. Molti bambini dichiarano di fidarsi molto di più delle opinioni e raccomandazioni di un influencer rispetto a quelle di una pubblicità televisiva, motivo per cui spesso i vlogger sono pagati da alcuni marchi per far apparire i loro prodotti sui social media. Ciò accade anche per gli alimenti; infatti, uno studio ha dimostrato che alcuni post di vlogger su Instagram nei quali apparivano alimenti HFSS (cibi composti da High Fats, Sugars and Sodium), ha aumentato di gran lunga il consumo di questi ultimi da parte dei bambini di età compresa tra i 9 e gli 11 anni (Coates et al., 2019).

Una spiegazione possibile dei motivi per cui questo accade può essere data dalla teoria dell’apprendimento sociale (Bandura, 2001), secondo la quale il gradimento di un personaggio da parte dei bambini aumenta le probabilità che questi imitino le sue azioni. Tra gli studi che dimostrano che le sponsorizzazioni da parte di influencer aumentano l’assunzione e le preferenze di alimenti HFSS, uno di Boyland e colleghi (2013) ha esaminato gli effetti dell’esposizione dei bambini a uno spot televisivo di una celebrità su un alimento HFSS. I risultati mostrano che i bambini hanno consumato quantità significativamente maggiori di alimenti del marchio sponsorizzato da testimonial famosi rispetto al marchio alternativo.

 Il modello della reattività agli spunti alimentari incorporati nelle pubblicità sostiene che il livello di elaborazione influenza l’effetto dell’esposizione agli spunti alimentari (Folkvord, 2016). Questo implica che, mentre le pubblicità televisive hanno un intervallo a loro dedicato tra un programma e un altro, il marketing digitale è incorporato in un contenuto online; molti degli spunti alimentari che appaiono nei contenuti dei media necessitano quindi di un’elaborazione cognitiva minima, che non consente ai bambini di riconoscere quando sono esposti a una pubblicità e rende più difficile resistere a queste tipologie di marketing (Freeman e Chapman, 2007). Il marketing non televisivo deve quindi rispettare alcuni codici di autoregolamentazione, che prevedono l’obbligo di indicare chiaramente l’intento commerciale tramite alcune sigle, tra cui “#ad”, che devono comparire sullo schermo o nel titolo di un contenuto condiviso da un influencer.

Influencer, marketing e alimentazione

Un altro fattore che può influenzare l’effetto del marketing è la conoscenza della persuasione, ovvero la comprensione da parte dei consumatori dei tentativi di persuasione del marketing; alcuni studi dimostrano che più la conoscenza aumenta, più gli effetti della persuasione diminuiscono e possono essere contrastati (Wright et al., 2005). Tale conoscenza si sviluppa però durante l’adolescenza, perciò è possibile che non influenzi le risposte cognitive o affettive dei bambini relativamente a un marchio promosso. Il modello di difesa del marketing alimentare (Harris et al., 2009) afferma infatti che devono essere soddisfatte quattro condizioni affinché i bambini possano contrastare gli effetti del marketing: la consapevolezza della pubblicità, la comprensione del suo intento persuasivo, la capacità e la motivazione a resistere. Per resistere agli effetti di persuasione alimentare i bambini devono quindi essere motivati a farlo: non avendo quasi mai preoccupazioni per la salute ed essendo propensi a fare scelte alimentari basate sul gusto, potrebbero non essere motivati a resistere al marketing alimentare digitale HFSS anche quando sono consapevoli dell’esposizione (Bruce et al., 2016).

Una ricerca di Coates e colleghi del 2019 aveva come obiettivi quelli di esaminare se l’esposizione a un video di YouTube con un influencer di uno snack non salutare influisse sull’assunzione di quest’ultimo da parte dei bambini e se l’inclusione di una dichiarazione pubblicitaria moderasse questo effetto. 151 bambini (di età compresa tra i 9 e gli 11 anni) sono stati esposti a un video di un influencer con o senza una dichiarazione pubblicitaria di un prodotto non alimentare, lo stesso è avvenuto con un alimento: uno snack non salutare. È stata poi paragonata l’assunzione dello snack commercializzato con quella di una marca alternativa dello stesso snack. I risultati mostrano che i bambini esposti al marketing alimentare con o senza dichiarazione pubblicitaria hanno consumato una quantità maggiore (kcal) dello spuntino commercializzato rispetto a quello alternativo. I bambini che hanno visto il marketing alimentare con dichiarazione pubblicitaria (e non quelli senza) hanno però consumato il 41% in più dello snack commercializzato. Questi risultati potrebbero essere dovuti al fatto che, come afferma il modello di difesa del marketing alimentare, per i bambini non è sufficiente il riconoscimento della pubblicità per difendersi dagli effetti dell’influenza, ma sono necessarie anche motivazione e capacità di resistere (Harris et al., 2009).

 

L’ansia in età evolutiva – Podcast Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘L’ansia in età evolutiva: come riconoscerla e trattarla’.

 

 I disturbi d’ansia sono i disturbi psichiatrici più diffusi al mondo. In più della metà dei casi esordiscono in età evolutiva, talora determinando una significativa compromissione del funzionamento del bambino nei principali contesti di vita. Bambini e adolescenti possono sviluppare vari tipi di disturbi d’ansia, che si presentano spesso associati tra loro o in associazione a disturbi dell’umore. Le manifestazioni cliniche dei disturbi d’ansia in età evolutiva hanno alcune caratteristiche peculiari rispetto all’età adulta e talora si associano ad altri sintomi che possono confondere nel processo di inquadramento diagnostico. I test psicodiagnostici ed i questionari somministrati ai genitori ed agli insegnanti rappresentano pertanto importanti strumenti a supporto del clinico.

In alcuni casi, l’esordio di un disturbo d’ansia in età evolutiva rappresenta un fattore predisponente per altri disturbi nelle successive fasi dello sviluppo: appare evidente, quindi, la necessità di strategie preventive nelle forme sottosoglia e di un trattamento tempestivo nei casi sintomatici. I genitori hanno un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella cura di tali disturbi: se da un lato è fondamentale che siano informati rispetto ai primi segnali di disagio che possono cogliere nei propri figli, dall’altro è molto importante che essi siano parte attiva del percorso di trattamento.

Questo incontro si prefigge l’obiettivo di condividere gli elementi necessari al fine di poter porre una diagnosi differenziale all’interno dei disturbi d’ansia in età evolutiva, nonché di illustrare gli aspetti epidemiologici degli stessi. Al termine del corso il partecipante avrà avuto l’opportunità di conoscere la modalità di assessment, nonché i principali strumenti di valutazione per poi poter procedere al trattamento. Verranno inoltre illustrati alcuni possibili interventi finalizzati alla cooperazione famiglia e scuola finalizzati in particolare alla compliance al trattamento ed alla prevenzione delle ricadute.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Silvia Chiaro, Medico specialista in Neuropsichiatria Infantile, abilitata all’esercizio della Psicoterapia.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Il disagio giovanile contemporaneo: NEET e Hikikomori

La gioventù contemporanea si trova ad affrontare pressioni sociali ed economiche estranee alle generazioni precedenti: Hikikomori e NEET sono l’esempio di come l’oppressione sociale e le difficoltà occupazionali possano condurre i giovani a vivere condizioni di disagio.

 

 Sempre più spesso non ci si rende conto di come la gioventù contemporanea sia costretta ad affrontare una serie di pressioni sociali ed economiche estranee alle generazioni precedenti. La percezione di dover essere quanto più produttivi ed efficienti possibili per entrare nel mondo del lavoro, può aumentare una sensazione di ansietà tale da condurre ad un immobilismo sociale. Hikikomori e NEET sono l’esempio di come l’oppressione sociale e le difficoltà occupazionali possano condurre i giovani a vivere condizioni di disagio.

Introduzione

La cultura occidentale ha sempre sperato in una storia dell’umanità che andasse inevitabilmente progredendo: la tecnologia e le scienze continuano inesorabilmente a migliorarsi e ad accrescere il bagaglio di conoscenze attraverso nuove scoperte. Nonostante ciò, però, queste conoscenze sono incapaci di sopprimere la sofferenza umana, alimentando la tristezza e il pessimismo. Viviamo in un eterno paradosso: mentre le tecnoscienze progrediscono nella conoscenza del reale, continuiamo a essere incapaci di superare le nostre incapacità e i problemi che ci minacciano, a causa di un progresso che non è completamente in grado di darci felicità. Il sentimento di incertezza che caratterizza la società contemporanea, vessata da tensioni geopolitiche o crisi economiche, non ha fatto quindi altro che rendere il futuro imprevedibile e noi persone succubi di un’impotenza assoluta (Benasayag & Schmit, 2003).

Il fenomeno NEET

Il mondo del lavoro attuale è sempre più competitivo e richiede sempre più certificazioni e competenze. Coloro che non hanno questi attributi di “capitale umano”, ritenuto importante dai datori di lavoro, affrontano difficoltà non solo per trovare lavoro, ma nel sostenere qualsiasi tipo di carriera soddisfacente. Tale polarizzazione tra “chi ha” e “chi non ha” in termini di capitale umano, aumenta l’esclusione sociale di una sempre più sostanziale minoranza di persone.

In questa situazione già di per sé difficile, in cui è richiesta anche una sempre maggiore esperienza sul campo prima dell’assunzione, vivere una condizione di NEET (“Not in Employment, Education or Training” cioè giovani che non sono impegnati in attività lavorative, educative o formative) non fa che aggravare una storia di fallimento educativo, riducendo ulteriormente le prospettive di occupazione o di acquisizione di capitale umano attraverso l’istruzione o la formazione. In questo senso l’esperienza NEET può diventare una situazione stazionaria cronica che può aumentare gradualmente la difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro o la possibilità di esclusione sociale (Bynner & Parson, 2002).

I percorsi di carriera sono più individualizzati e meno prevedibili e potenzialmente mettono più responsabilità sui giovani per trovare la propria strada. Tre fattori contemporanei hanno intensificato le preoccupazioni perenni sui giovani NEET: la crisi del 2008 e il successivo aumento di disoccupazione giovanile; la precarizzazione del lavoro; lo svantaggio economico-lavorativo più duraturo con un conseguente impatto dannoso sulla salute mentale (Robertson, 2018).

Sono infatti presenti condizioni in cui giovani NEET si ritrovano ad affrontare una serie di stati psicologici negativi, incluse l’insoddisfazione per la vita e una perdita del senso di controllo su questa, con implicazioni anche sul piano identitario: tali difficoltà psicologiche, che spaziano da una mancanza di benessere psicologico a una sensazione di ansietà e malessere, raramente vengono riconosciute, con una conseguente negazione della loro esistenza (Bynner & Parson, 2002).

Nel 2020 in Italia abbiamo assistito ad un aumento della percentuale di NEET, raggiungendo il 23,3% (+1,1% rispetto al 2019). Il trend risulta essere accentuato al Sud, con una media di NEET del 32,6% nella fascia 15-29 anni, e colpisce maggiormente le donne a livello nazionale con una media che aumenta all’aumentare dell’età, arrivando a superare il 60% nella fascia 30-34 anni (IlSole24Ore, 2022).

Questo a testimonianza di come i giovani NEET rimangano una preoccupazione per i governi e l’obiettivo per gli interventi di politica attiva del mercato del lavoro. In Italia, per esempio, è stato a tal proposito introdotto il “Piano Neet 2022” (Dipartimento per le politiche giovanili, 2022) anche se la mancanza di chiarezza sulla loro natura può ostacolare l’efficace targeting delle politiche pubbliche (Robertson, 2018).

Fattori psico-sociali e individuali negli Hikikomori

La frequente situazione di incertezza che caratterizza la società contemporanea, è constatabile anche dall’analisi del fenomeno degli Hikikomori. Esploso negli anni ’80 in Giappone, nonostante un iniziale tentativo di ignorare la questione, il governo si sentì costretto ad avviare uno studio che potesse riconoscerli ufficialmente.

Una prima definizione di Hikikomori venne offerta nel 2003 quando il Ministero della Salute giapponese pubblicò lo studio, indicando i criteri secondo i quali questi soggetti erano in casa da almeno 6 mesi, non avevano relazioni intime se non con i familiari e il ritiro sociale doveva essere da qualsiasi attività sociale e non associato a disturbi psicotici (Saito, 2007).

Studi successivi hanno evidenziato come la sfiducia nelle persone o l’incapacità di fidarsi siano un tratto caratteristico di questi soggetti. Senza fiducia, i pazienti tendono a sentirsi insicuri o non protetti e sopprimono sentimenti o pensieri autentici nelle relazioni interpersonali per paura del rifiuto o di ricevere critiche. Hattori (2008) collegò tutto ciò alla possibilità che queste persone potessero aver subito un trauma emotivo per l’inibizione di un Sé autentico finalizzato ad assumere un ruolo adattivo in famiglie disfunzionali: ciò significherebbe aver ignorato i propri autentici sentimenti e pensieri in cambio delle cure genitoriali, ricoprendo un ruolo accondiscendente con genitori violenti o di caregiver di genitori bisognosi. La loro incapacità di fidarsi o di sentirsi al sicuro potrebbe essere quindi legata al senso di sfiducia verso i genitori, che ha creato una condizione di abbandono emotivo; questo renderebbe a sua volta difficile un intervento terapeutico gruppale, in quanto la soppressione emotiva che i soggetti effettuerebbero non farebbe che alimentare un’identità di pura facciata.

Quando questi giovani non vengono considerati malati, sono etichettati come giovani viziati che hanno abbandonato lo spirito di gruppo e il senso del dovere. Gli Hikikomori sono differenti da altre realtà adolescenziali come i NEET o i Freeter – coloro che rifiutano un posto fisso, preferendo lavori parti-time o freelance. Negli Hikikomori il rifiuto diventa totale, come totale è il ritiro che praticano o la forma di disagio e ribellione che stanno provando e, sebbene NEET e Freeter siano realtà accettate poiché in un certo qual modo si mantiene una qualche forma di interazione o partecipazione, l’Hikikomori è visto con una disapprovazione sociale per il suo voler evitare il gruppo (Ricci, 2008).

Spesso infatti l’Hikikomori è associato a patologie con le quali non ha nulla a che fare, generando grande confusione. Questa realtà è associata a una dipendenza da internet, ma va considerato che il fenomeno esplose quando internet non era ancora parte della vita quotidiana delle persone. In questo caso non è il computer o il videogioco a impattare negativamente sulla vita del soggetto o a creare una mancanza di interesse: la perdita di senso o significato è a monte e internet va solo a colmare un vuoto. Tolto quello, il vuoto rimane. Altra informazione fuorviante è che la condizione di Hikikomori sia associabile alla depressione: sebbene ci siano sintomi depressivi, queste persone si isolano per fuggire dalla sofferenza che provano nella società. Preferiscono una condizione di isolamento alla vita sociale. Non sono nemmeno dei fobici o degli schizofrenici: stiamo parlando infatti di soggetti con una visione molto critica e negativa della società (arrivando al punto da scegliere di non farne parte) che risultano capaci di operare ragionamenti approfonditi e complessi su di sé e gli altri (Crepaldi, 2019).

 Osservando la questione da un’ottica psicosociale, il comportamento di questi giovani può essere interpretato come un modo per evitare le pressioni della società, della scuola e dei genitori o la difficoltà di accesso al mercato del lavoro causata dai cambiamenti economici che penalizzano le giovani generazioni. Il comportamento degli Hikikomori sarebbe quindi un atto di ritiro dai vincoli di tempo e spazio socialmente condivisi tali da raggiungere una forma di protesta silenziosa contro la società, che li porterebbe a rinunciare al proprio status sociale (Ranieri, 2018).

Nel contesto giapponese, si è notato come famiglie troppo protettive siano diventate disfunzionali nel preparare i propri figli ad affrontare i moderni contesti sociali ed economici. In un contesto nel quale si richiede una maggiore resilienza individuale da parte dei giovani, le famiglie offrono un sempre maggiore sostentamento socio-economico ai figli a causa di una mancanza di sostegno statale per i giovani, che costringe loro a dipendere da altri fino a tarda età.

I periodi di transizione e di crescita già di per sé comportano un dover ritrovare un senso di orientamento: nel contesto di incertezza contemporaneo in cui i percorsi di vita non sono sempre così chiari, i giovani possono perdersi nel cercare di ristabilire un senso di orientamento, rischiando di ristagnare nella loro età e andare alla deriva senza superare un vero e proprio processo di crescita personale. I cambiamenti del mondo del lavoro ai quali abbiamo assistito possono essere una componente del fenomeno-hikikomori che, per assenza delle tradizionali opportunità che creano insicurezze, si ritirano dalla vita sociale ed economica per evitare l’ansia che ciò comporterebbe (Furlong, 2008).

Da un punto di vista individuale, gli Hikikomori sembrano aver vissuto periodi di mancata integrazione nel gruppo dei pari, con altrettanti episodi di bullismo che condurrebbero i soggetti a ritirarsi volontariamente per evitare l’accentuazione del senso di angoscia e irritazione. Proprio per la difficoltà ad entrare in contatto con gli altri, a causa del fallimento di reali rapporti personali, coinvolgere in una relazione terapeutica il giovane può rappresentare una vera e propria sfida. Il ritiro è dunque vissuto come un meccanismo di difesa che consente di creare uno spazio mentale (e fisico) dove poter rimanere calmi, dove l’assenza di rapporti con altri evita situazioni di allerta e dove la possibilità di creare un ambiente sul quale avere un controllo onnipotente può ridurre la frustrazione e i rischi di frammentazione dell’Io e di ansie depressive (Ranieri, 2018).

Una modalità di attaccamento genitoriale di tipo ambivalente può inoltre condurre il soggetto a difficoltà ad affrontare nuove sfide o situazioni sociali, anche a causa della loro paura di fallimento e rifiuto. Il loro essere concentrati eccessivamente sul mantenimento della vicinanza dei caregivers non li rende pronti a relazioni che vanno al di là della relazione genitore-figlio, con minori comportamenti esplorativi ed adattivi in situazioni con i pari. Questa incapacità ad entrare in contatto con i pari può essere vissuta come traumatica, specialmente se immersi in un contesto culturale collettivista (come le società orientali), per la maggiore importanza che viene assegnata all’appartenenza al gruppo (Krieg & Dickie, 2011).

L’inadempienza dei genitori all’educazione emotiva dei figli non ha fatto altro che aumentare i problemi emotivi di questa generazione. Per questo i giovani d’oggi si sentono più soli, più depressi, più rabbiosi, più impulsivi e quindi più impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per avviare comportamenti di autoconsapevolezza, autocontrollo, empatia, senza i quali non sapranno mai risolvere i conflitti (Galimberti, 2007).

La perdita dell’attaccamento sicuro si è vista anche collegata ad un’inibizione del Sé con i genitori: descrivendo la propria infanzia come oppressa, i partecipanti ad uno studio hanno dichiarato che non erano in grado di mostrare la loro vera identità ai loro genitori per paura del rifiuto. Questo comportava una mancanza di supporto o di richiesta di aiuto in momenti in cui si affrontavano angosce, traumi scolastici o altri tipi di preoccupazioni. A causa di ciò, il rapporto con i caregivers era caratterizzato da sentimenti di rabbia che, particolarmente in adolescenza, veniva sfogata con veri e propri attacchi fisici. Questi agiti, per quanto violenti, potevano però rappresentare una modalità di comunicare ai genitori un malessere che altrimenti non avrebbero colto, poiché il rapporto familiare era incentrato maggiormente sull’ossessione del tornare il prima possibile a scuola o a lavoro e non era finalizzato a comprendere la difficoltà in un modo che fosse più emotivamente disponibile (Hattori, 2008).

In base a quanto detto, l’Hikikomori sembra essere al centro di un circolo vizioso che coinvolge non solo lui in quanto membro di una famiglia, ma anche il suo rapporto con la società. Approcciarsi ad essi in un modo meno coercitivo, evitando di accusare il giovane di inoperatività, potrebbe quindi rappresentare un primo tentativo di ristabilire una comunicazione significativa affinchè possa espandere i suoi contatti prima con la famiglia e poi con la società, attraverso un graduale superamento delle difficoltà (Saito, 2014).

In Italia

Nel 2017 nasce l’associazione Hikikomori Italia: dopo una stima di circa 100.000 giovani italiani in auto-reclusione, l’associazione si è posta l’obiettivo di far aumentare la presa di coscienza del fenomeno alla popolazione nazionale, superando l’idea che questa fosse una condizione vissuta esclusivamente da giapponesi. L’associazione guarda al giovane Hikikomori non come un singolo che vive una difficoltà individuale, quanto un problema che coinvolge anche il nucleo familiare e la società alla quale appartiene. Intervenire sul singolo, quindi, non può che rivelarsi uno sforzo inconcludente in quanto si andrebbe ad agire solo su una variabile del problema (Crepaldi, 2019).

L’etichetta Hikikomori

Diversi autori considerano la condizione di Hikikomori come una sindrome psicopatologica: alcuni psichiatri attribuiscono il ritiro a categorie diagnostiche preesistenti; per altri la condizione di Hikikomori è una forma di depressione dei giorni nostri; per altri ancora, poiché non è possibile classificarla come un disturbo psichiatrico già incluso nel DSM-5 o nell’ICD-10, sarebbe necessario valutare se sia opportuno inserire questa condizione in una sindrome legata alla cultura o definirla come una nuova forma di disturbo psichiatrico (Ranieri, 2018).

Circa la necessità di etichettare qualsiasi tipo di condizione che “devii la norma”, Cipriano (2016) parla di come questa esigenza venga dal contagio del fascino nosografico, che fa correre il rischio di costruire l’identità altrui attraverso le etichette che vengono poste alle persone, senza comprendere in che modo queste vivano nel mondo. Si va così perdendo una figura medica di riferimento che non sia attenta tanto al caso che la persona porta con sé, quanto alla relazione io-tu con l’altro.

Per dirla con le parole usate da Basaglia nell’intervista di Sergio Zavoli, si deve essere interessati più al malato che alla malattia (Zavoli, 1968).

Come una bussola senza il suo Nord (2021) di V. Satti – Recensione

Come una bussola senza il suo Nord. Altrove, oltre i tagli nella mia pelle è la storia di una ragazza che soffre di una delle tante “malattie invisibili” che fanno paura perché non si conoscono.

Recensione a cura dei professionisti del CIP Disturbi di Personalità di Modena

 

 Veronica, tramite un racconto in parte autobiografico, delinea uno spaccato crudo, sincero e realistico della profondità del dolore emotivo e del peso insostenibile del vivere quotidiano di chi soffre di queste infide malattie silenziose.

“Sono frenetica, euforica, mi guardo il braccio e mi infliggo questa profonda punizione con più forza, non sento male ma solo il dolore che se ne va…” Scarlet così perde i sensi e mette a rischio la sua vita – di nuovo – e viene ricoverata in una clinica psichiatrica privata. Quest’ultima volta incontra 4 compagne di percorso che tra sbalzi emotivi, pensieri che schiacciano come massi e insicurezze creano il gruppo delle Disorders Girl, ragazze che lottano contro disturbi di personalità, autolesionismo, anoressia, tossicodipendenza, depressione, disturbo ossessivo compulsivo e cleptomania. Scarlet, McKenna, Cara, Winnie e Zelda si aiuteranno a vicenda nella speranza di sconfiggere quei mali che stanno distruggendo le loro vite e il loro futuro, attraversando momenti di sconforto e ricordi dolorosi che riaffiorano. Ciascuna di loro affronta una faticosa lotta contro il proprio disturbo, ma restano unite nel supporto reciproco, imparando a fidarsi l’una delle altre, camminando verso la consapevolezza di loro stesse e ritrovando la voglia di guarire e di riprendere in mano la propria vita.

 La semplicità con cui è scritto questo racconto permette al lettore, con altrettanta semplicità, di immedesimarsi in queste ragazze così sensibili e al contempo così disregolate che sognano solo di eliminare il loro dolore. La sofferenza soggettiva delle protagoniste che traspare tra le righe del libro è palpabile e tagliente e lo sono, allo stesso modo, anche la forza ed il coraggio dell’autrice di raccontare la sua esperienza e combattere contro lo stigma e il pregiudizio. Veronica sottolinea che queste malattie devono essere conosciute e curate e che coinvolgono non solo chi ne soffre ma anche il suo ambiente relazionale. Leggere il racconto di chi ha vissuto queste sofferenze è uno strumento per sentirsi meno soli, perché tutti noi abbiamo bisogno di essere ascoltati, compresi, accettati e amati per quello che siamo. Poche pagine per aiutare anche altre persone a riconoscere quanto si può essere forti e quanto la vita può valere – in fin dei conti chiunque ha “Una vita degna di essere vissuta” (Linehan, 1993).

 

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