L’omofobia è l’avversione irrazionale o ideologica nei confronti di omosessualità, bisessualità e transessualità e si può presentare nella forma di sentimenti, pensieri, pregiudizi, comportamenti, che spesso diventano abusi sulla persona e veri e propri crimini.
Cos’è l’omofobia
L’omofobia è l’avversione irrazionale o ideologica nei confronti di omosessualità, bisessualità e transessualità e si può presentare nella forma di sentimenti, pensieri, pregiudizi, comportamenti, che spesso diventano abusi sulla persona e veri e propri crimini. L’omofobia viene equiparata dall’Unione Europea al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo e, nella maggior parte dei paesi occidentali, esistono leggi per contrastarla (omofobia.org)
Weinberg (1972) ha definito l’ omofobia come la paura di essere in stretto contatto con omosessuali uomini e donne così come la paura irrazionale, l’odio e l’intolleranza da parte di individui eterosessuali nei confronti di uomini e donne omosessuali.
Secondo Hudson e Ricketts (1980) il significato del termine omofobia è stato generalizzato a causa della sua espansione in letteratura, per includere ogni atteggiamento negativo, credo, o azione negativa nei confronti dell’omosessualità.
L’ omofobia è stata anche definita come una risposta affettiva che comprende emozioni di paura, ansia, rabbia, disagio e avversione suscitate dall’interazione con persone omosessuali, senza che vi sia necessariamente una componente cognitiva consapevole di questa discriminazione.
Omofobia e vittimizzazione delle persone omosessuali
Nella letteratura scientifica, è molto presente e documentato l’effetto che comportamenti omofobi, cioè discriminanti sulla base degli orientamenti sessuali, hanno avuto in passato e hanno tuttora sul benessere psichico di chi vive un orientamento diverso dall’eterosessualità.
Una meta-analisi (Katz-Wise, Hyde, 2012) condotta tra gli anni 1999 e 2009 su 500.000 partecipanti, ci dice che per gli individui LGB la presenza di episodi di vittimizzazione segnalati è sostanziale (e.g., 55% di molestie verbali e il 41% di comportamenti discriminatori).
Inoltre le persone LGB mostrano livelli di vittimizzazione più alti dei soggetti eterosessuali testati a parità di età e condizioni socio-economiche, e in particolare gli uomini sembrano subire in maniera maggiore delle donne alcuni tipi di violenze (e.g. aggressione con arma da fuoco, essere derubati).
Il panorama mondiale delle violenze e dei diritti violati è ben noto e consultabile sul sito dell’International Lesbian, Gay, Trans and Intersex Association (ILGA), in cui viene descritta la partecipazione o meno della maggior parte dei paesi del mondo, alla costruzione dei diritti delle persone LGBT.
Molti stati prevedono ancora la pena di morte per aver compiuto atti omosessuali, ancora più stati considerano l’ omosessualità illegale. Solo una minoranza di stati inizia a riconoscere le unioni gay, a consentire la possibilità di sposarsi e di adottare figli. Qualcuno in più ha finalmente delle leggi che puniscono invece atti discriminatori verso persone omosessuali, mentre molti ormai hanno leggi che puniscono la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale nei luoghi di lavoro.
Al di là degli infiniti e grandi temi correlati a questo episodio, sembra tuttavia interessante una ricerca pubblicata quest’anno sull’utilizzo nel linguaggio comune del termine gay (o di tutte le altre sue declinazioni), spesso con accezione negativa (Nicolas, Skinner, 2012).
Sebbene l’uso sia molto diffuso, in contesti anche molto lontani da quelli esplicitamente omofobi, i ricercatori hanno dimostrato che l’utilizzo frequente di tali espressioni possa nel lungo periodo incrementare i bias cognitivi legati a credenze anti-gay e “lavorare” così nella nostra coscienza su un piano implicito, ma spesso molto evidente negli atteggiamenti più comuni che emergono.
Insomma, come spesso accade le parole ripetute molto spesso tendono a perdere il loro significato originario, ma insieme ad esso si rischia di perdere forse anche un po’ di consapevolezza su quello che stiamo in effetti dicendo.
Società eterosessista e omofobia interiorizzata
La società odierna è ancora permeata da eterosessismo, ovvero quel sistema ideologico che rifiuta, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di tipo non eterosessuale (Proietti, 2018) che viene appreso ed acquisito fin dalla nascita. E’ infatti fin dalle prime fasi di vita, e dunque ancor prima della scoperta della propria identità sessuale, che ha luogo l’acquisizione, mutuata dall’ambiente circostante ed interiorizzata, delle convinzioni di base riguardo ai ruoli di genere. Molto prima di avere una reale comprensione di cosa significhi essere omosessuale, i bambini hanno ricevuto un set d’informazioni eterosessiste che vengono codificate nella convinzione che un orientamento non eterosessuale sia qualcosa di sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune (Montano, 2010).
Questi atteggiamenti, pregiudizi e opinioni discriminatori, a volte casuali, ma comunque denigratori, basati su stereotipi, usati in modo non del tutto consapevole, sono in grado di fissarsi nella mente di un bambino o adolescente come convinzioni di base (core beliefs), in una fase di crescita in cui l’individuo ricerca l’integrazione in un mondo regolato da molteplici dettami a cui conformarsi. L’omofobia ostacola e mette in pericolo la formazione di un adolescente sano capace di costruirsi un’identità affermativa adulta. In una società fortemente eterosessista è difficile riconoscere e sviluppare un positivo orientamento sessuale e poterlo svelare normalmente agli altri. Le persone omosessuali possono provare sentimenti negativi verso loro stessi perché hanno interiorizzato che l’eterosessualità equivale alla normalità e dunque il loro orientamento sessuale li può porre nella condizione di sentirsi ‘sbagliati’ (Fregoni, 2018).
Soprattutto per i soggetti che si trovano ai primi stadi del processo di formazione d’identità omosessuale, la percezione di un ambiente familiare e sociale repressivo può portare ad interiorizzare pensieri e sentimenti negativi nei confronti dell’omosessualità. Tali vissuti possono esprimersi sul piano psicologico attraverso la vergogna, il senso di colpa, la bassa autostima e la scarsa accettazione di sé (Fregoni, 2018).
L’omofobia interiorizzata è una componente importante nel disagio vissuto quotidianamente da persone omosessuali e gioca un ruolo cruciale come fattore patogeno, essendo determinante nell’insorgenza di diversi disturbi emotivi. Essa può incidere sia sull’evoluzione di malattie fisiche e mentali, che sulle scelte di prevenzione e cura. L’omofobia interiorizzata può essere una determinante importante di condizioni psicopatologiche e la psicoterapia con i clienti omosessuali deve includerne di routine l’assessment e il trattamento. Solo attraverso il superamento delle assunzioni che fanno ritenere che l’omosessualità sia qualcosa di anormale e per questo censurabile, è possibile affrontare ed elaborare l’omofobia interiorizzata (Fregoni, 2018).
All’origine dell’omofobia tra attrazione e minaccia
Per capire cosa si nasconde dietro all’ omofobia, Adams, Wright e Lohr (1996) hanno indagato il ruolo della risposta sessuale in uomini eterosessuali (omofobi e non-omofobi) alla presentazione di stimoli omosessuali.
Sia omofobi che non omofobi hanno mostrato una risposta sessuale a video con scene a carattere eterosessuale e a donne omosessuali. Ma solo gli uomini omofobi hanno mostrato un aumento dell’erezione del pene in risposta alla presentazione di immagini a carattere omosessuale fra uomini.
Secondo questo studio, troverebbero una spiegazione empirica le numerose teorie psicoanalitiche secondo le quali l’ omofobia sarebbe il risultato di un’omosessualità repressa o latente, definita come l’eccitazione omosessuale che l’individuo nega o di cui non è consapevole (West, 1977).
La teoria che dietro all’ omofobia possa celarsi una particolare attrazione, seppur repressa, proprio per persone dello stesso sesso è supportata anche da uno studio (Weinstein N. et al. 2012) pubblicato su Journal of Personality and Social Psychology.
Secondo i ricercatori gli individui omofobi vivrebbero un forte conflitto interno tra la propria attrazione verso persone dello stesso sesso e l’imperativo a reprimerla a causa di un’ educazione familiare repressiva e autoritaria in questo senso; nel momento in cui queste angosciose preferenze e tendenze vengono riconosciute nel confronto di persone omosessuali, tale conflitto verrebbe esternalizzato, prendendo la forma di atteggiamenti omofobi e discriminatori.
Lo studio comprende quattro esperimenti separati, condotti negli Stati Uniti e in Germania, e ogni studio coinvolge una media di 160 studenti universitari.
I risultati forniscono nuove prove empiriche a sostegno della teoria psicoanalitica che la paura, l’ansia e l’avversione che alcune persone, apparentemente eterosessuali, hanno verso i gay e le lesbiche possano svilupparsi proprio dai loro desideri repressi; i risultati supportano anche la più moderna teoria dell’auto-determinazione, sviluppata da Ryan e Edward Deci alla University of Rochester, che collega lo stile genitoriale controllante alla scarsa accettazione di sé e alla difficoltà di valutare se stessi in modo incondizionato.
Un’altra spiegazione di questi dati si trova infatti in Barlow, Sakheim, e Beck (1983), secondo cui è possibile che la visione di stimoli omosessuali provochi forti emozioni negative negli uomini omofobi ma non negli uomini non-omofobi. Poiché è stato dimostrato che l’ansia aumenta l’eccitazione e di conseguenza l’erezione (Barlow, 1986), questa teoria prevedrebbe che l’aumento dell’erezione negli uomini omofobi di fronte alla presentazione di stimoli omosessuali sia una funzione della condizione di minaccia percepita piuttosto che di un’eccitazione sessuale vera e propria.
Potremmo infine ipotizzare che alla base di questa discriminazione vi sia fondamentalmente l’ignoranza sessuale, intesa come “non conoscenza” dei meccanismi alla base del processo di differenziazione sessuale. Se adottassimo questa spiegazione potremmo supporre che l’individuo non a conoscenza di questi fondamenti abbia in sé la credenza irrazionale che l’omosessualità possa essere trasmessa magicamente attraverso la vicinanza o il semplice sguardo.
Sarebbe da chiedersi in questo caso se sia più appropriato utilizzare il termine xenofobia (inteso non come paura dello straniero o della persona lontana dalla nostra abitazione, ma come paura del diverso da noi, di ciò che non comprendiamo e di coloro che non hanno le nostre stesse abitudini), piuttosto che omofobia (termine che avrebbe in sé la contraddizione del sottolineare il timore per ciò che è uguale a sé anziché per ciò che è diverso). Se adottassimo invece la spiegazione delle credenze morali, il discorso si farebbe ancora più ampio e delicato, rischiando di toccare punti di difficile esplorazione.
La domanda che ci dovremmo porre è se si è fermamente ed intimamente convinti della propria eterosessualità, senza che si abbia il dubbio che gli omosessuali possano convincerci delle loro ragioni, perché allontanarli da noi? E ancora, visto che l’omosessualità non può essere considerata scientificamente come una semplice scelta o addirittura come una moda, cosa porta alcuni individui a considerarla una colpa o ad attribuirvi un’intenzione malevola?
Credenze e pregiudizi nell’omofobia
Tre ricercatori dell’università del Tenesse nel 2015 hanno cercato di capire come le convinzioni di una persona circa l’orientamento sessuale possano influenzare il modo in cui vengono viste le minoranze sessuali. I loro risultati suggeriscono che la convinzione che l’orientamento sessuale sia innato non è un deterrente contro l’ omofobia.
Per lo studio hanno intervistato due gruppi di studenti universitari: uno di genere misto (n= 379) e l’altro di sole donne (n= 266). Come strumento di indagine hanno utilizzato la Sexual Orientation Beliefs Scale (SOBS), la quale ha lo scopo di fotografare una vasta gamma di credenze.
Ciò che è emerso è che la maggior parte degli intervistati riteneva che l’orientamento sessuale fosse innato e immutabile, ma vi erano ulteriori credenze che differenziavano le opinioni delle varie persone.
In particolare gli autori, hanno esaminato con maggior attenzione i partecipanti che mostravano atteggiamenti omofobi. Tra questi, anche coloro che credevano che le persone omosessuali ‘sono nate così’ o ‘sono tutte uguali e agiscono allo stesso modo’ mostravano anche atteggiamenti fortemente pregiudizievoli nei confronti di omosessuali o bisessuali.
Ciò suggerisce che considerare l’orientamento sessuale come innato non sia di per sé una credenza in grado di contrastare l’omofobia.
Il presente studio può però aiutare gli attivisti, educatori e ricercatori a capire meglio che le credenze delle persone sulla natura dell’orientamento sessuale devono essere considerate nel contesto di altre credenze, dal momento che è la somma delle loro credenze che plasma gli atteggiamenti verso le minoranze sessuali.
Capire questo aiuterà i sostenitori a promuovere in modo più efficace l’accettazione delle minoranze sessuali e a creare una società più sicura e più accogliente.
Omofobia e bullismo omofobico nel contesto scolastico
Vista l’importanza della scuola come supporto alla costruzione dell’identità sessuale e personale, come viene vissuta l’omosessualità a scuola e quali criticità presenta? La scuola e il gruppo dei pari costituiscono il luogo privilegiato per sviluppare una positiva immagine di sé, particolarmente instabile nell’età adolescenziale.
Uno dei più grossi limiti è l’adesione incondizionata a modelli eterosessisti, dati per scontati quale norma, con atteggiamenti omofobi di condanna (Hardin, 2008), da cui la possibile tendenza a nascondere la propria sessualità per paura del rifiuto.
In una cornice omofobica di questa natura, possono essere perpetrate forme di violenza nei confronti delle persone omosessuali: i tipi di comportamento adottato variano dalle aggressioni fisiche (spinte, calci, mozziconi di sigarette spenti sul corpo) fino all’esclusione sociale, che si è dimostrata più efficace di quella fisica (Rivers e Smith, 1994). Sembra esservi una differenziazione della discriminazione a seconda degli indirizzi di studio: mentre si evidenziano attitudini più positive nei confronti delle differenze negli indirizzi artistici, gli studenti omosessuali degli istituti tecnici o professionali sarebbero i più discriminati (D’Ippoliti e Schuster, 2011).
La discriminazione può portare a vivere la scuola con disagio, aumentando l’insicurezza personale e relazionale, con mancato proseguimento degli studi e maggiore difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro. La discriminazione omofobica portata avanti da scuola e società espone a un maggior rischio di disturbi dell’umore, uso di sostanze, oltre che suicidio: ammonta a un terzo il numero dei giovani omosessuali che si toglie la vita ogni anno, con una frequenza dei tentati suicidi doppia, e la causa è spesso da attribuirsi alla stigmatizzazione sociale (Ganci, 2019).
Come in ogni percorso educativo riuscito, è necessario incoraggiare il bambino o l’adolescente a sentirsi bene con se stesso, resistendo alla tentazione di denigrarsi a sua volta (omofobia interiorizzata), valutando negativamente i propri pensieri e sentimenti, solo perché diversi da quelli della maggioranza. In questo senso la scuola dovrebbe essere un luogo privilegiato nel percorso di accettazione della propria sessualità e di socializzazione dei propri vissuti (Ganci, 2019).
Insieme alle esperienze dirette, poi, il ruolo degli insegnanti è indispensabile per aiutare gli allievi nella ricerca, definizione e accettazione della propria identità: a tal fine sarebbe importante offrire un’educazione sessuale ad ampio spettro e comprensiva di tutti gli orientamenti, già a partire dalla scuola elementare e media.
Omofobia e omogenitorialità
Con l’ omogenitorialità si toccano diversi temi interessanti come la definizione di famiglia, la natura dell’omosessualità e l’impossibilità biologica di concepire autonomamente un figlio. Si fa riferimento alla scienza (quasi parlando per essa) sostenendo che i bambini abbiano bisogno di entrambe le figure, altrimenti svilupperanno patologie e problematiche psicologiche. Addirittura ci si preoccupa di rispondere in qualche modo alle domande che questi giovani potranno fare rispetto al genitore biologico mai conosciuto, più di quanto si sia mai fatto per le adozioni da parte di coppie.
In Italia possono fare ricorso alle tecniche di fecondazione assistita solo persone coniugate o coppie di fatto (quindi esclusivamente eterosessuali); possono adottare solo persone coniugate (quindi eterosessuali). A differenza di ciò che accade in altre parti del mondo, le coppie omosessuali in Italia non sono riconosciute come famiglia e non sono legittimate ad avere figli, anche se oltre il 49% vorrebbe poter adottare un bambino (ricerca finanziata dell’Istituto Superiore di Sanità). Spesso per giustificare questa realtà, ci si appella alla scienza: ma cosa dice la scienza in proposito?
Nel 2005 l’APA (American Psychological Association) sulla base delle ricerche condotte sulla omogenitorialità sentenzia che non esiste un solo studio che abbia rilevato che i figli di coppie omosessuali sono svantaggiati in qualche aspetto significativo rispetto ai figli di genitori di eterosessuali (APA, 2005); nel 2012 ha confermato che non ci sono evidenze scientifiche che l’efficacia parentale sia correlata all’orientamento sessuale: i genitori omosessuali sono alla pari di quelli eterosessuali nel fornire un ambiente supportivo e sano ai loro bambini.
Purtroppo molti degli studi considerati sono stati supportati da programmi politici e presentano importanti difetti metodologici (Beltrami, Galletti, 2016):
– i campioni sono poco numerosi, sono omogenei e dunque scarsamente rappresentativi della popolazione di riferimento; la maggior parte delle famiglie che prendono parte agli studi hanno a capo madri lesbiche bianche, ben istruite, relativamente benestanti (…);
– difficilmente si hanno a disposizione gruppi di figli adulti (quasi sempre si tratta di bambini o ragazzi) e scarseggiano gli studi longitudinali; questo impedisce considerazioni a lungo termine;
– capita che i figli inclusi nei gruppi sperimentali siano stati adottati e dunque siano più a rischio di sviluppare problematiche psicosociali (difficile è la costituzione di gruppi di controllo);
– spesso manca un gruppo di controllo adeguato: ad es. gli omosessuali che decidono di diventare genitori sono molto motivati, quindi non dovrebbero essere messi a confronto con genitori biologici;
– spesso vengono utilizzate misure “self-report” (questionari compilati dai genitori): spinti a dimostrare che gli omosessuali sono capaci di crescere bambini sani e felici, alcuni potrebbero desiderare di presentare se stessi e le loro famiglie nella miglior luce possibile; secondo le madri, i figli delle madri lesbiche sono migliori a scuola e mostrano meno problemi rispetto ai pari;
– è difficile controllare variabili quali l’instabilità di coppia e lo stress ambientale, fattori che non dipendono dalle scelte sessuali ma dal contesto; ecc.
Anche tenendo conto di questi elementi complessivamente gli studi rivelano che ad oggi l’unico dato che si pone a sfavore dell’ omogenitorialità sembrerebbe essere rappresentato dall’impatto negativo che le esperienze di stigmatizzazione omofoba (Tasker, 2010) potrebbero avere sul benessere psicologico dei bambini. Tali esperienze, tuttavia, non dipendono strettamente dal omogenitorialità, ma dalla sensibilizzazione e dall’accettazione sociale.
In particolare si evidenziano i seguenti fattori (Beltrami, Galletti, 2016):
– l’impatto del cosiddetto “minority stress” sul benessere individuale, dovuto alla stigmatizzazione subita dalla comunità LGBT. L’esposizione a tale stress risulta significativamente correlata a maggiori difficoltà rispetto all’esperienza dell’essere genitori. Infatti, le coppie omosessuali riferiscono sicurezza rispetto alle proprie competenze genitoriali, esprimendo la convinzione che l’aspetto importante risiede nella qualità della relazione e non nell’orientamento sessuale; tuttavia riportano alcune difficoltà tra cui: il mancato riconoscimento del partner (e dei suoi diritti) come genitore biologico del bambino e il bisogno di fornire spiegazioni rispetto alla propria famiglia; la sensazione di essere privati dallo Stato di alcuni fondamentali diritti (riconoscimento della coppia e matrimonio, tutela rispetto a discriminazioni lavorative e fiscali, maternità/paternità, ecc.).
– Un fattore in grado di far scricchiolare il benessere psicologico dei figli di coppie omogenitoriali è la stigmatizzazione sociale. Gli episodi di discriminazione preoccupano molto anche i genitori, soprattutto i papà (forse indeboliti dalla lotta con stereotipi squalificanti che li descrivono come meno portati alla genitorialità).
I bambini cresciuti da coppie dello stesso sesso, quindi, non svilupperebbero problematiche legate all’orientamento sessuale dei genitori, ma potrebbero soffrire a causa di esperienze dirette o indirette di stigmatizzazione omofobica.
Omofobia e terapie riparative
Le terapie riparative (o di conversione) sono un metodo che mira a cambiare l’orientamento sessuale da omosessuale a eterosessuale, o quantomeno ridurre ed eliminare i desideri e i comportamenti omosessuali. I suoi sostenitori, come Joseph Nicolosi e Charles Socarides, ipotizzano che il “danno da riparare” sia avvenuto durante lo sviluppo evolutivo, nel periodo di separazione-individuazione, quando nel maschio omosessuale si determinerebbe un’identificazione con la madre. In più, la relazione disfunzionale col padre provocherebbe un deficit di mascolinità e assertività.
Secondo questi autori, la persona omosessuale cercherebbe di rafforzare temporaneamente la propria mascolinità attraverso il proprio partner, ma in modo insufficiente, determinando così la promiscuità. Questo tipo di approccio si basa su vecchie concezioni della psicoanalisi ortodossa , che è ormai superato dalla storia, un ramo morto della psicologia. Già lo stesso Freud (1920) sosteneva che [blockquote style=”1″]L’impresa di trasformare un omosessuale in un eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori dell’impresa opposta.[/blockquote]
Per far fronte ai desideri e comportamenti omosessuali e incrementare quelli eterosessuali, una psicoterapia di tipo riparativo prevede per esempio: la tecnica della covert sensitization, con cui si insegna al paziente ad immaginare qualcosa di spiacevole per contrastare i desideri omoerotici indesiderati (per esempio contrarre l’HIV); l’uso di sexual surrogates del sesso opposto; la proibizione della masturbazione; incoraggiare la frequentazione di persone eterosessuali dello stesso sesso; la lettura della Bibbia e la preghiera.
Già da questa sintetica descrizione emerge come le terapie riparative si configurino come interventi parziali (si considerano solo uomini gay e non lesbiche o persone bisessuali), direttivi e suggestivi in cui gli aspetti ideologici, morali e religiosi prevalgono su quelli scientifici.
Le ricerche scientifiche internazionali hanno infatti rilevato l’inutilità, se non gli effetti negativi sull’equilibrio psichico dei pazienti che vi si sottopongono (depressione, bassa autostima, vergogna, difficoltà relazionali, disfunzioni sessuali e tentati suicidi). Il risultato al limite è che i soggetti diventino astinenti nel comportamento sessuale, acquisiscano strumenti per reprimere e dissociare le proprie pulsioni, ma non cambino certo i loro desideri profondi, l’attrazione affettiva e sessuale che provano.
Le terapie riparative sono state identificate quindi come scientificamente infondate, inutili al cambiamento dell’orientamento sessuale, dannose per l’equilibrio psichico dei pazienti ed eticamente scorrette dalle principali associazioni dei professionisti della salute mentale a livello internazionale (ad esempio l’American Psychological Association nel 2009), e a livello nazionale dall’Ordine degli psicologi italiani (art. 4 del Codice deontologico) e dagli ordini regionali (ad esempio l’Ordine degli psicologi del Piemonte).
Recentemente le terapie riparative hanno subìto un’evoluzione 2.0, diremmo un approccio “post-riparativo”: non si afferma più che l’omosessualità sia una malattia (posizione ormai indifendibile), ma che, se vi sono persone che chiedono aiuto perchè soffrono a causa del proprio orientamento sessuale, prevale il principio di autodeterminazione del paziente.
Le terapie riparative sono un tipo di trattamento direttivo-suggestivo in cui il terapeuta rinuncia alla sua posizione di neutralità, diventando mero esecutore di una richiesta (indotta) e propugnatore di norme esterne: un tecnico che prende la domanda così com’è e la agisce direttamente. Ma il conflitto interno del paziente non si elabora eliminando una delle parti e alleandosi nel disprezzo dell’altra (collusione).
Le terapie riparative non funzionano perchè:
– incoraggiano i pazienti a fondare su un’autorità esterna le proprie scelte di vita, anzichè svilupparne di proprie;
– rinforzano solo un polo del conflitto del paziente e lo agiscono, anziché esplorarlo, nella relazione terapeutica;
– non producono l’attesa “riconversione”, ma, anziché coltivare una maggiore consapevolezza e accettazione di sé, spesso peggiorano le condizioni psichiche della persona.
Il principale strumento del terapeuta è la domanda, non la risposta.
I terapeuti riparativi hanno degli obiettivi ortopedici, di riparare qualcosa di rotto, di riportare il paziente dentro i confini di un modello pre-stabilito considerato “normale” e desiderabile (dalla persona stessa, dallo psicologo, dal contesto sociale e culturale più ampio). Se invece il terapeuta si pone nell’ottica di analisi della domanda, si pone degli obiettivi di sviluppo autentico della persona. E la psicoterapia non è più riparativa, ma diventa affermativa.
L’omosessualità non è una malattia, nè una scelta: non c’è nulla di rotto, nulla da riparare. Lo studio dello psicologo può diventare il luogo per smettere di farsi le domande degli altri e individuare le proprie.