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Come si curano paura e pregiudizio

Molte ricerche confermano che la conflittualità fondata sul pregiudizio è superabile solo se si aiutano i gruppi a collaborare su finalità sovraordinate.

Di Luigi D`Elia

Pubblicato il 17 Giu. 2019

La conflittualità fondata sul pregiudizio e la stereotipizzazione dell’altro del gruppo estraneo è difficilmente affrontabile ed educabile con il semplice contatto o frequentazione tra gruppi, ma occorre che in qualche modo i gruppi conflittuali siano aiutati a collaborare su finalità sovraordinate. Perché un pregiudizio si sgonfi ci vuole molto tempo e soprattutto sono necessari tolleranza e integrazione.

 

Ci sono novità nelle nostre culture che, impensabili e irricevibili solo pochi anni fa, diventano non solo compatibili, ma anche auspicate, nei nostri stili di vita. E questo accade in ogni direzione: civile e costruttiva come incivile e disumanizzante.

Una sequenza di mutamenti socio-culturali è stata formalizzata in quella che viene definita “Finestra di Overton”, dal nome del suo inventore: un’idea, una consuetudine, in partenza socialmente ritenuta inaccettabile, impensabile, nel giro di pochi anni diventa prima un’idea radicale, poi accettabile e sensata, poi diffusa, infine legale e auspicata. Se pensiamo alla direzione civile-costruttiva di questa sequenza, basta guardare al mutato atteggiamento verso diritti sociali e civili che a noi appaiono oggi come scontati e acquisiti come il suffragio universale, il diritto allo studio delle donne, le leggi su divorzio e aborto, le relative giurisdizioni sull’affido condiviso, e così via. Tutte idee assolutamente impensabili e inaccettabili solo pochi anni fa.

Oppure possiamo osservare il cambiamento del clima culturale verso gruppi etnici o religiosi o connotati da orientamento o identità sessuale, e quindi osservare nell’arco di alcuni decenni ridursi i relativi fenomeni di apartheid o sentimenti xenofobi verso comunità straniere e il relativo cambiamento legislativo per la parità di diritti. Oppure verso l’omosessualità o la transessualità e i diritti di queste comunità. C’è dunque da essere orgogliosi se ad esempio oggi, in Italia, un ragazzino gay di 15 anni può essere perfettamente in grado di fare coming out sentendosi più che sereno (come ho potuto personalmente constatare in diverse occasioni).

Se pensiamo invece alla direzione opposta, quella incivile-disumanizzante, degli stessi mutamenti, purtroppo assistiamo nella storia, ma anche oggi, a tendenze regressive di inaudita portata. Basta ricordare il noto fenomeno storico della nazificazione della Germania, dove in capo a soli 10 anni, negli anni ’30, un intero popolo riuscì a disumanizzare vasti gruppi sociali fino alla follia della pulizia etnica. O quanto accaduto in Cambogia, in ancora meno tempo, tra il 1975 e il 1979, con il genocidio di una parte enorme della stessa popolazione cambogiana per ragioni politiche. Se invece vogliamo fare un altro esempio di mutamento di mentalità e opinione più vicino alla nostra epoca, pensiamo allo sdoganamento delle varie nuove dipendenze e ludopatie, socialmente accettate e impensabili solo pochissimi anni fa. Insomma spostare il manubrio della storia da una parte o dall’altra non è un caso, ma una precisa scelta educativa, politica e culturale.

Superare il pregiudizio è possibile!

Vi racconto ora un divertente siparietto che ha a che fare con quanto sto dicendo. Sabato scorso, mi ero dato un improbabile appuntamento con una persona amica durante il 25° Gay Pride. Decine di migliaia di persone festanti, musica, balli, slogan, striscioni, paillettes, colori. Una bellissima festa.

Al margine del corteo, che attraversava il quartiere multietnico dell’Esquilino, molte persone di etnie asiatiche o africane che osservavano interdette, qualcuno riprendeva divertito con il telefonino quel fiume carnevalesco ed eccessivo. Mi sono chiesto chissà come vivono questo shock culturale rispetto alle loro tradizioni. Magari nei loro paesi dichiararsi gay potrebbe essere punito con la galera o addirittura con la pena di morte, ed invece qui da noi tutto appare consentito. Chissà quale potrebbe essere la loro reazione a questo gap apparentemente incolmabile: forse qualcuno penserà che l’occidente è irrimediabilmente corrotto e in preda alle forze del male, forse qualcun altro, magari quelli che tra di loro sorridevano di più, penseranno che tutta questa libertà è un valore aggiunto al quale non rinunciano neanche loro. Chissà poi quale potrebbe essere la scena tra 2-3 generazioni e se anche i loro figli o nipoti un bel giorno potrebbero partecipare al gay pride.

Ma mentre ero assorto in questi pensieri e contemporaneamente scandagliavo nella folla alla ricerca della persona con la quale avevo il mio improbabile appuntamento, mi sento chiamare con tono enfatico: “professore!”. Mi giro e riconosco una persona conosciuta da poco sul lavoro. Lui vestito con coroncina e sciarpa arcobaleno, mi saluta con calore e affetto. Io ricambio il saluto con cordialità, ma con minore entusiasmo.

Immediatamente penso: solo 20 anni fa un fatto del genere mi avrebbe generato un po’ di ansie: partecipare al gay pride non è scelta neutrale ed essere riconosciuti ancor meno! Specie poi se non sei gay. Oggi un episodio del genere mi lascia del tutto indifferente e tollerare l’equivoco e l’eventuale gossip alle mie spalle circa un mio indefinibile orientamento sessuale non solo non mi genera alcuna ansia, ma al contrario mi diverte molto. Come è cambiata in me e nella società la percezione dell’omosessualità e il mio rapporto con essa. E questo anche grazie a manifestazioni come il gay pride. 25 anni di gay pride e 60 anni di movimenti gay sono la vera causa dell’assenza della mia ansia omofoba. Ma vediamo perché.

In psicologia sociale numerosi studi sulla natura del pregiudizio e della discriminazione dimostrano che alcune tendenze elementari a categorizzare l’estraneo della prima infanzia si consolidano in vero e proprio pregiudizio verso gruppi sociali estranei al proprio solo dopo i 10 anni (in Hogg e Vaughan, Psicologia Sociale, 2016, pagg. 215-18 riportano numerose ricerche a riguardo). Come a dire che il ruolo giocato dall’educazione, dalla cultura, dall’esempio familiare e dei propri ambienti più prossimi, e persino dalle proprie fantasie, è decisivo nella creazione del pregiudizio sociale. Ma ciò che la cultura aggroviglia, la cultura può sbrogliare, ma a determinate condizioni.

Infatti, molte ricerche confermano che la conflittualità fondata sul pregiudizio e la stereotipizzazione dell’altro del gruppo estraneo è difficilmente affrontabile ed educabile con il semplice contatto o frequentazione tra gruppi, ma occorre che in qualche modo i gruppi conflittuali siano aiutati a collaborare su finalità sovraordinate (in Hogg e Vaughan, Psicologia Sociale, 2016, pag. 234. In particolare le ricerche di Stephan e Stephan; Pettigrew; Sherif; e lo stesso Gordon Allport). Perché un pregiudizio si sgonfi ci vuole molto tempo e soprattutto ci vogliono perciò alcune precise condizioni di partenza senza le quali ogni tolleranza e integrazione appare impossibile: l’interazione tra gruppi rivali deve essere non casuale, prolungata, cooperativa, finalizzata a scopi comuni, dentro una cornice di senso istituzionalizzata, tra gruppi sociali omogenei, gli obiettivi sovraordinati comuni devono avere successo e non fallire.

In una ricerca del 2005, Gabriele Oettingen e collaboratori (Turning Fantasies About Positive and Negative Futures into Self-Improvement Goals, in Motivation And Emotion 29/4 236-266) dimostra come sia anche possibile modificare le fantasie negative xenofobe sui gruppi di immigrati aumentando tolleranza e integrazione purché ci si ponga obiettivi che siano percepiti come realistici e calibrati. Insomma, il ruolo dell’educazione e dell’ambiente culturale e politico pragmaticamente operativo nelle classi scolastiche, nei condomini, nei comitati di quartiere e in tutti gli spazi pubblici è ritenuto assolutamente centrale nel portare una naturale tendenza a rispondere emotivamente con paure e diffidenze all’estraneo, all’alterità minacciosa, verso una più realistica ed empatica convivenza tra esseri umani.

Mi domando cosa porti nelle nostre culture questa volontà all’integrazione, scientificamente supportata, seppure di difficile realizzazione, a convertirsi nel suo opposto. Chi specula sulle nostre paure e perché? Questa è la vera domanda.

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