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Contrastare il fenomeno del bullismo omofobico: il possibile ruolo della Psicologia della Salute

Il bullismo omofobico riguarda atti di prepotenza e abuso che si fondano sull’omofobia, rivolti a "omosessuali lesbiche bisessuali transessuali o transgender"

Di Giuseppe Massaro

Pubblicato il 01 Feb. 2019

Aggiornato il 30 Giu. 2022 18:24

Il bullismo omofobico può manifestarsi in diversi modi: vi possono essere comportamenti di tipo verbale (deridere insultare, prendere in giro ripetutamente o minacciare una violenza fisica), prepotenze indirette (come escludere qualcuno dai gruppi di aggregazione), violenze fisiche a sfondo sessuale, fino a violenze sessuali di gruppo.

 

Secondo un’indagine effettuata dall’Agenzia Internazionale per i Diritti Fondamentali nel 2009, l’attuale situazione sociale per lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender (LGBT) rappresenta un problema per l’Unione Europea. Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender sono vittime di discriminazione, bullismo e molestie in tutta l’UE. Tutto ciò spesso si traduce in affermazioni umilianti, ingiurie, insulti, nell’utilizzo di un linguaggio offensivo nonché, cosa che suscita maggiori preoccupazioni, in aggressioni fisiche. Come hanno mostrato i risultati dell’indagine Eurobarometro sulla discriminazione, condotta nel luglio 2008, in media oltre la metà dei cittadini dell’UE ritiene che la discriminazione basata sull’orientamento sessuale sia diffusa nel proprio paese.

La discriminazione, l’omofobia e la transfobia incidono sull’esistenza e sulle scelte delle persone LGBT in tutti gli ambiti della vita sociale. Fin dai loro primi anni, gli epiteti dispregiativi utilizzati nei confronti di gay e lesbiche all’interno delle scuole insegnano loro a rimanere invisibili. Spesso sono vittime di molestie e discriminazione sul posto di lavoro; in molti paesi non hanno modo di tutelare giuridicamente il proprio rapporto di coppia; di rado si riscontrano rappresentazioni positive delle persone LGBT nei media; quando hanno bisogno di cure per se stessi o per il loro partner, esitano a rivelarsi in contesti in cui si dà per scontata l’eterosessualità; nelle case di riposo è scarsa la comprensione e la consapevolezza delle loro esigenze. E nel caso in cui si tratti di rifugiati in cerca di asilo dalla persecuzione che subiscono in paesi terzi a causa del loro orientamento sessuale o identità di genere, le loro parole vengono spesso messe in dubbio o, cosa peggiore, vengono semplicemente respinti, anche se nel paese che hanno lasciato l’omosessualità costituisce un reato punito con la pena di morte.

In questo stesso report è stato messo in evidenza come in tutta l’UE si possano riscontrare episodi di bullismo e molestie nei confronti delle persone LGBT all’interno degli istituti scolastici. L’ omofobia e la transfobia verbali sono all’ordine del giorno e il termine “gay” è comunemente utilizzato in modo dispregiativo. Il bullismo e le molestie hanno conseguenze significative per i giovani LGBT, influenzandone il rendimento scolastico e il benessere. Tali esperienze possono condurre all’emarginazione sociale, a cattive condizioni di salute o all’abbandono della scuola. La ricerca esistente e le interviste con le ONG per i diritti delle persone LGBT, dimostrano che le autorità scolastiche in tutta l’UE prestano poca attenzione all’omofobia e al bullismo omofobico. La ricerca, inoltre, dimostra che gli insegnanti non possiedono la consapevolezza, gli stimoli, le abilità e gli strumenti per riconoscere e affrontare tali problemi.

L’obiettivo che qui ci proponiamo di perseguire, è l’analisi della condotta omofobica, del bullismo e delle possibiltà di contrasto a questi dilaganti fenomeni sociali, nella cornice teorico-applicativa della Psicologia della Salute.

Il bullismo omofobico

La parola “bullismo” rappresenta la traduzione letterale del termine “bullying”, comunemente utilizzato nella letteratura internazionale per descrivere il fenomeno delle prepotenze tra pari, in contesti di gruppo quali ad esempio quello scolastico. Il bullismo consiste in atti di aggressione perpetrati in modo persistente e organizzato secondo un determinato copione relazionale, ai danni di uno o più compagni di scuola che non hanno la possibilità di difendersi a causa dell’asimmetria di status o potere (Prati, Coppola & Saccà; 2010). Come l’aggressività, può manifestarsi mediante tre principali modalità: può essere, infatti, di tipo fisico, includendo atti di vessazione fisica, materiale o sottrazione di proprietà; di tipo verbale, che si sostanzia in modo diretto attraverso insulti di vario genere, derisione o diffusione di maldicenze; di tipo manipolativo/relazionale, volto cioè a colpire i rapporti di amicizia della vittima, con l’obiettivo di isolarla.

In linea generale, i ricercatori che si sono occupati dello studio di questo fenomeno, sono concordi sul fatto che si possa parlare di bullismo quando sono soddisfatti tre criteri (Fonzi, 1997; Fedeli, 2007): intenzionalità (permette di distinguere un comportamento involontario da un’aggressione deliberata), sistematicità (nella dimensione comportamentale tende a ripetersi con una certa organizzazione) e relazionalità (prima ancora che rapprasentare un insieme di comportamenti aggressivi, il bullismo è un atto relazionale per mezzo del quale il bullo soddisfa il proprio desiderio di vessazione nei confronti di uno o più coetanei). Attraverso queste tre modalità, il bullismo viene generalmente esercitato ai danni di persone appartenenti a gruppi socialmente stigmatizzati (persone affette da obesità, disabilità, appartenenti a minoranze sessuali o etniche).

Per quanto riguarda il contesto italiano, solo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso le scienze sociali e psicologiche hanno iniziato a guardare al fenomeno con una certa attenzione. Diverse sono state le indagini che hanno confermato la presenza di gravi fenomeni di prepotenza nella scuola italiana (Fonzi, 1997). Da uno studio condotto nel 2006 (Fonzi, 2006) sulle scuole di otto regioni italiane, è emerso che 4 alunni su 10 nella scuola elementare, e 8 alunni su 10 nella scuola media, sono stati vittime di bullismo da parte dei pari.

Le forme di bullismo basate sul disperezzo dell’omosessualità possono anch’esse manifestarsi in diversi modi: vi possono essere comportamenti di tipo verbale (deridere insultare, prendere in giro ripetutamente o minacciare una violenza fisica) o, in taluni casi, prepotenze indirette, come escludere qualcuno dai gruppi di aggregazione; vi possono essere violenze fisiche a sfondo sessuale, fino a violenze sessuali di gruppo (Prati Pietrantoni, Buccoleri & Maggi, 2010).

Il bullismo omofobico riguarda tutti gli atti di prepotenza e abuso che si fondano sull’ omofobia, rivolti a persone percepite come omosessuali o atipiche rispetto ai convenzionali ruoli di genere. Questo fenomeno riguarda in misura maggiore i maschi per due ragioni. Prima di tutto i maschi sono più omofobi, in quanto il ruolo di genere maschile è definito in modo più puntuale e le sue deviazioni sono maggiormente sanzionate nella nostra società. L’essere gay viene erroneamente associato al non essere uomini, per cui l’omosessualità va a costituire una minaccia all’identità sessuale maschile; in secondo luogo il bullismo, come fenomeno sociale più ampio, risulta essere prevalentemente presente all’interno del genere maschile (Prati, Pietrantoni & Saccinto, 2016). In generale le ricerche hanno mostrato che gli adolescenti omosessuali o bisessuali tendono a riportare di aver subito maggiori episodi di molestie e violenze rispetto ai pari eterosessuali (Prati et al., 2009; Prati et al., 2010). Per esempio, è emerso che tra gli studenti gay, lesbiche o bisessuali, l’81% aveva subito frequenti aggressioni verbali, il 38% minacce di violenza, il 16% molestie sessuali, il 15% aggressioni fisiche e il 6% aggressioni con un’arma (D’Augelli, 2002). Le vittime di bullismo omofobico nelle scuole italiane sembrano essere numerose. Un recente studio condotto su un campione di circa 900 studenti delle scuole secondarie di secondo grado, di diverse parti d’Italia, ha mostrato che circa uno studente su 20 (in maggioranza maschi) è stato vittima di bullismo omofobico nei mesi precedenti la conduzione dell’indagine (Prati 2010).

In quest’ottica si delinea la centralità rivestita dall’istituzione scolastica nel creare le condizioni per un clima di rispetto e apertura nei confronti delle diversità sessuali. Non si tratta di una scelta improvvisata, quanto del risultato di un percorso che si concretizza nell’attuazione di specifiche linee politico-istituzionali ed educative.

Nelle scuole italiane gli interventi strutturati di prevenzione o riduzione del bullismo omofobico sono spesso inglobati all’interno di progetti più vasti che affrontano il bullismo in generale, l’educazione alle diversità, l’educazione sessuale o socio-affettiva. Prati e colleghi (2009) distinguono tre modelli di interventi educativi sulle tematiche dell’omosessualità/omofobia e del bullismo omofobico:

  1. il modello del silenzio, in base al quale l’omosessualità rimane un argomento tabù, troppo delicato, inaffrontabile (si assume che tutti siano eterosessuali);
  2. il modello dell’uguaglianza/diversità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con altri progetti sulle differenze e le diversità, volti ad aumentare l’inclusione sociale e l’equità (a volte anche nei rari percorsi di educazione sessuale);
  3. il paradigma della sicurezza/ legalità in cui l’intervento sull’omofobia si interseca con quelli volti a contrastare la violenza e il bullismo e a tutelare la sicurezza personale e la legalità.

Se il primo paradigma perpetua eterosessismo e omofobia, anche il secondo e il terzo possiedono punti di forza e punti di criticità. Gli interventi educativi ispirati al paradigma della diversità/uguaglianza potrebbero essere problematici perché con l’intento di “normalizzare”, evitano di menzionare la variabilità di pratiche, stili di vita e forme socializzative delle persone LGBT. Secondo gli autori, gli interventi educativi che si ispirano al paradigma della sicurezza/legalità potrebbero invece focalizzarsi sul ruolo di gay come vittime, trascurando la resilienza e le strategie di fronteggiamento attive intraprese da chi vive una condizione di marginalità e ostilità sociale.

La psicopromozione nella scuola

Negli anni ’70 del secolo scorso la Psicologia della Salute si afferma formalmente come disciplina con uno statuto autonomo, attraverso la nascita e la costituzione della divisione di “Health Psychology” all’interno dell’ American Psychological Association (APA). In quella stessa sede, nel 1980, ne fu data una definizione e chiariti scopi e obiettivi: “La psicologia della salute è l’ insieme dei contributi specifici (scientifici, professionali, formativi) della disciplina psicologica, miranti” (Bertini, 2012):

  • alla promozione e mantenimento della salute;
  • alla prevenzione e trattamento della malattia;
  • all’identificazione dei correlati eziologici, diagnostici della salute, della malattia e delle disfunzioni associate.

Il tema specifico della promozione, che rappresenta in linea generale l’impalcatura e la finalità massima del “Modello Salute”, viene così definito nella conferenza di Ottawa del 1986:

La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana e non come il fine della vita. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere.

Alla luce di quanto fin qui detto, potrebbe risultare utile chiedersi in che misura, e attraverso quali modalità, la Psicologia della Salute possa rispondere al complesso problema del bullismo omofobico nel contesto scolastico.

Secondo Mario Bertini (2012), docente della Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università di Roma “Sapienza”, nonché massimo esponente della psicologia della salute nel contesto scientifico italiano:

[…] la scuola come dimensione contestuale complessa, dove passano indistintamente tutti i cittadini e in un arco di età relativamente significativa (…), offre migliori opportunità di affrontare il tema della promozione del benessere. A differenza degli interventi di terapia o di prevenzione, l’approccio sistematico di promozione veicola un messaggio di grande significato: un’assunzione di responsabilità della scuola nell’assecondare lo sviluppo individuale e sociale di tutti gli alunni, dalla “materna” alla “secondaria superiore”.

Nel corso degli anni, diverse agenzie internazionali in collaborazione con l’OMS, hanno stilato delle linee guida che connoterebbero a chiare lettere quelle scuole che potremmo definire ad approccio psicopromotivo. A livello europeo, i seguenti valori fondamentali sono stati riconosciuti come i valori alla base dell’approccio delle cosiddette Scuole che Promuovono Salute:

  • Equità. Un accesso equo per tutti all’istruzione e alla salute.
  • Sostenibilità. Salute, istruzione e sviluppo sono correlate tra loro, con attività e programmi implementati in modo sistematico nel lungo periodo.
  • Inclusione. La diversità viene valorizzata. Le scuole sono comunità di apprendimento nelle quali tutti si sentono accolti e rispettati.
  • Empowerment. Tutti i membri della comunità scolastica sono coinvolti attivamente.
  • Democrazia. Le Scuole che Promuovono Salute si fondano sul valore della democrazia.

Tendenzialmente, la promozione della salute nel contesto scolastico mira a due obiettivi fondamentali: migliorare il rendimento scolastico (studenti «in salute» hanno maggiori probabilità di imparare in modo più efficace) e facilitare l’attuazione di azioni in favore della salute, attraverso lo sviluppo di conoscenze e competenze in ambito cognitivo, sociale e comportamentale (gli studenti possono imparare a scuola stili di vita più salutari, abilità personali e sociali, che poi possono mettere in pratica, nella propria vita, per migliorare la propria salute).

In un clima sociale, come quello attuale, dove la cultura e l’istruzione si innestano in una dimensione esistenziale (individuale e sociale) ben più ampia della mera trasmissione delle conoscenze, promuovere la salute a scuola richiede un approccio globale, che includa:

  1. un’educazione alla salute di tipo partecipativo e orientata all’azione;
  2. lo sviluppo di politiche scolastiche che promuovano la salute e il benessere (documenti e prassi condivise da ogni singola scuola, che divengano parte integrante della sua identità);
  3. lo sviluppo di un sano ambiente scolastico fisico e sociale: edifici, aree verdi, relazioni tra il personale stesso e tra il personale e gli studenti, etc;
  4. lo sviluppo di competenze personali e sociali trasversali, comuni a tutti i possibili temi riguardanti la salute;
  5. lo sviluppo di competenze utili per la vita (life skills);
  6. la creazione di legami efficaci con la famiglia e la comunità (istituzioni, enti locali, associazioni, servizi sanitari, ecc…).

In questa rinnovata e attualissima cornice contestuale, fatta di nuovi bisogni e nuovi scenari, vanno ad inserirsi interventi di psicopromozione (o, per meglio dire, di salutogenesi) molto importanti ed efficaci, quali ad esempio le Life Skills Education.

Le “Life Skills Education” come intervento proprio della Psicologia della Salute: quale utilità per il contrasto al bullismo omofobico nelle scuole?

Agli inizi degli anni ’90, l’OMS definisce le Life Skills come “competenze di vita” e “per la vita” che consentono di gestire efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana, e possono quindi essere considerate alla radice di ogni processo di sviluppo e, quindi, di promozione della salute (Bertini, 2012).

Il termine Life Skills (LS) viene generalmente riferito ad una gamma di abilità cognitive, emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul piano individuale che sociale. Contiene un ancoraggio pragmatico, orientato all’operazionalità (skills), ma con un’apertura di orizzonte assai ampio (life) che consente di riflettere sul significato di queste abilità, rispetto alla loro matrice originaria e alla loro finalità biopsicosociale (Bertini, Braibanti & Gagliardi; 2006).

Nell’ ultimo ventennio, diversi studi hanno messo in luce la correlazione esistente tra le differenze socioeconomiche e la salute sociale e personale (Coburn, 2000; Wilkinson, 1999; Weick, 1999; Zani & Cicognani, 2000), segnalando inoltre che il rapporto tra reddito e salute risulta mediato dalla qualità delle relazioni sociali e da tutti quegli “strumenti” che permettono ai soggetti di accedere alle risorse sociali per la salute. Complessivamente, questo scenario ci induce a ritenere indispensabile un’attenzione formativa, da parte dell’istituzione scolastica, alle competenze psicosociali. Tale compito, nel panorama internazionale dell’istruzione, viene generalmente affidato alle Life Skills Education (LSE), che possono trovare nella scuola il contesto di implementazione più consono e fertile. Le LS trovano spazio e si possono esaminare in tutti i contesti di sviluppo e di relazione. Esse, tuttavia, sollecitano nei contesti di apprendimento un impegno specifico che mette in luce l’intreccio tra gli aspetti cognitivi e tutte le altre dimensioni psicosociali dello sviluppo.

Al di là della rappresentazione delle singole abilità nei processi educativi, l’approccio generale delle LS nella scuola trova fondamento nei recenti studi sulla socializzazione, secondo i quali l’attuale formulazione didattica non appare più adatta a sostenere i rapidi mutamenti della nostra società, mentre occorre riservare molto spazio allo sviluppo e alla capacità dei soggetti di rispondere come individui e orientarsi in modo adattivo e co-costruttivo ad un contesto di valori complessi e spesso contraddittori (Bertini, Braibanti & Gagliardi, 2006). La prospettiva delle LSE si basa su un dimensione educativa olistica che fa propri i pilastri teorico-applicativi della psicologia della salute, ovvero: l’approccio dinamico-evolutivo (cammino di sviluppo in cui domina il cambiamento), l’approccio sistemico (lo studente cresce nella misura in cui tutte le altre componenti crescono) e l’approccio co-costruttivo (riconoscimento delle competenze di ciascuna componente, diversamente motivata alla realizzazione degli obiettivi).

Nei programmi LSE, che possono essere sviluppati all’interno di interventi di promozione, protezione e prevenzione, vengono individuate 5 aree o competenze di vita:

  1. pensiero creativo e pensiero critico;
  2. comunicazione efficace e relazioni interpersonali;
  3. autoconsapevolezza e empatia;
  4. gestione delle emozioni e gestione dello stress;
  5. capacità di prendere decisioni e capacità di risolvere i problemi.

L’obiettivo dei programmi di intervento LSE è di aiutare ogni scuola ad elaborare una definizione di sviluppo personale e sociale nonché, una gamma equilibrata di attività e abilità multivalenti che dimostrino una coerente evoluzione interna e senso di continuità. Pertanto, per il raggiungimento di quest’ obiettivo, tali programmi propongono alle scuole di partire dalla piramide dei bisogni, di fare costantemente riferimento al modello di sviluppo LS e, in fase operativa, di ricorrere ai diversi materiali didattici, come guida essenziale e pratica per realizzare, all’ interno dell’ attività educativa, percorsi di sviluppo delle competenze psicosociali (Bertini, Braibanti & Gagliardi; 2006).

Nel modello “Competenze di vita” l’obiettivo può essere raggiunto, se tutte le componenti del sistema scolastico (studenti, insegnanti, organizzazione scolastica, famiglia e comunità) vengono coinvolte direttamente nel processo stesso, riconoscendone la piena importanza in qualità di agenti propositivi di cambiamento.

Sulla base di quanto fin qui detto, quello che in ultima istanza appare chiaro è che le LSE, nate come risposta flessibile e peculiare alla complessificazione dei bisogni della nostra società e dell’istituzone scolastica con tutti i suoi attori, risultano oggi uno degli strumenti di psicopromozione più adeguato per il contrasto al bullismo omofobico nel sistema scolastico. In tal senso quindi, non sarebbe del tutto illogico immaginare una Psicologia della Salute che, per mezzo dell’istituzione scuola e del modello LSE, possa assurgere all’arduo ma lungimirante compito di porre le basi per una società migliore, fatta di cittadini capaci di essere in armonia con se stessi e con gli altri, consapevoli del proprio ruolo e della propria importanza nel mondo.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bertini, M., Braibanti, P., Gagliardi, M.P. (2004). La promozione dello sviluppo personale e sociale nella scuola: il modello «skills for life» 11-14 anni. Con CD-ROM (Vol. 6). FrancoAngeli.
  • Bertini, M. (2012). Psicologia della salute. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Coburn, D. (2000). Income inequality, social cohesion and the health status of populations: the role of neo-liberalism. Social science & medicine, 51(1), 135-146.
  • D’Augelli, A.R. (2002). Mental health problems among lesbians, gay, and bisexual youths ages 14 to 21. Clinical Child Psychology and Psychiatry, 7(3), 433–456.
  • Fedeli, D. (2007). Il bullismo: oltre. Vannini.
  • Fonzi, A. (1997). Il bullismo in Italia: il fenomeno delle prepotenze a scuola dal Piemonte alla Sicilia: ricerche e prospettive d'intervento. Giunti.
  • Prati, G., Pietrantoni, L., Norcini Pala, A. (2009). Determinanti del comportamento prosociale in caso di bullismo omofobico. Psicologia della salute, 3(2), 237-254.
  • Prati, G., Pietrantoni, L., Buccoliero, E., Maggi, M. (2010). Il bullismo omofobico: Manuale teorico-pratico per insegnanti e operatori. Angeli.
  • Prati, G., Coppola, M., Saccà, F. (2010). Report Finale della ricerca nazionale sul bullismo omofobico nelle scuole superiori italiane. Arcigay, Associazione lesbica e gay italiana, 1-92. DOWNLOAD
  • Prati, G., Pietrantoni, L., Saccinto, E. (2016). DI BOLOGNA, Gabinetto del Sindaco-Comune; DI BOLOGNA, Comune. Responsabile del progetto.
  • Weick, K.E., Quinn, R.E. (1999). Organizational change and development. Annual review of psychology, 50(1), 361-386.
  • Wilkinson, R.G. (1999). Health, hierarchy, and social anxiety. Annals of the New York Academy of Sciences, 896(1), 48-63.
  • Zani, B., Cicognani, E. (2000). Psicologia della salute. Il mulino.
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