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Burnout tra psicoterapeuti: fattori di rischio e fattori protettivi

E’ stato ipotizzato che l’impegno verso i pazienti e l’empatia che si sperimenta in ambito sanitario potrebbero avere un ruolo nel burnout degli psicoterapeuti, mentre la percezione di avere le competenze per aiutare i pazienti potrebbe essere un fattore protettivo.

 

Il burnout nei professionisti della salute mentale

Il burnout è una reazione allo stress di lunga durata legata al lavoro che comprende tre diverse reazioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e riduzione della realizzazione personale (Maslach et al., 2001). Esso è associato a vari problemi di salute come depressione, insonnia e problemi cardiovascolari, rappresentando quindi un problema per gli individui, ma anche un onere economico per la società a causa dei costi sanitari, delle assenze per malattia e dell’elevato turnover (Lee et al., 2011).

In generale, i professionisti che si occupano di salute mentale sembrano essere molto esposti allo stress legato al lavoro: si stima che dal 40% al 70% abbia alti livelli di burnout (Johnson et al., 2020). I fattori di rischio che hanno predetto un maggiore burnout nei professionisti di salute mentale si sono dimostrati essere l’ambiente di lavoro, la quantità totale di ore lavorate e l’età più giovane (Lim et al., 2010).

Spesso, nei servizi pubblici, i bisogni dei pazienti sono superiori alle risorse o agli interventi a disposizione; i terapeuti che incontrano pazienti in difficoltà possono essere influenzati dai loro stati emotivi e possono provare frustrazione per non essere in grado di soddisfare i bisogni di ogni singolo paziente (Simionato & Simpson, 2018). In queste circostanze, è facile sentirsi inadeguati e sforzarsi di dare il più possibile, a scapito del proprio tempo e delle proprie energie.

Perciò, è stato ipotizzato che l’impegno verso i pazienti e l’empatia che si sperimenta in quest’ambito sanitario potrebbero avere un ruolo nel burnout (Simionato & Simpson, 2018). Infatti, in una meta-analisi di Lee e colleghi (2011) si è scoperto che l’eccessivo coinvolgimento era fortemente associato all’esaurimento emotivo, che è un aspetto centrale del burnout.

D’altra parte, un fattore protettivo contro il burnout è la percezione di avere le competenze per aiutare i pazienti (Simionato & Simpson, 2018). Nello studio di Lim e colleghi (2010), è stato dimostrato che i membri dello staff di età più avanzata hanno mostrato livelli più bassi di burnout, il che è stato ipotizzato essere associato a un senso di competenza che può venire con più anni di esperienza clinica (Lim et al., 2010).

Fattori di rischio e protettivi del burnout tra psicoterapeuti

Data la necessità di identificare meglio i fattori di rischio e protettivi per lo sviluppo del burnout tra gli psicoterapeuti, uno studio di Spännargård e colleghi (2022) ha analizzato il livello di burnout tra gli psicoterapeuti che lavorano in contesti clinici e ha indagato la relazione tra burnout e fattori legati alla persona (età, formazione, livello di istruzione, anni di professione e competenza percepita) e fattori legati al lavoro (tipo di contesto clinico, soddisfazione per la situazione lavorativa e accesso alla supervisione clinica).

I risultati hanno dimostrato che il 62% degli psicoterapeuti ha riportato livelli moderati o alti di burnout. Essere donna, percepire di avere bassa competenza e lavorare nel settore pubblico erano associati a livelli più alti di burnout. L’età, l’esperienza lavorativa e la formazione avanzata in psicoterapia si sono mostrati invece fattori protettivi. Tuttavia, quando analizzati insieme alla competenza percepita, gli effetti sono svaniti, suggerendo che la competenza percepita è il fattore essenziale comunemente associato a tutte queste variabili.

Il burnout è stato predetto da due variabili: la competenza percepita e il praticare nell’ambito clinico privato. Questo è in linea con i modelli che si focalizzano sull’importanza del controllo percepito (Rupert et al., 2012). La maggior parte di loro fa prima o poi esperienza di trattamenti non riusciti e di pazienti che non sono stati in grado di aiutare (Honda, 2014). Queste esperienze possono portare a frustrazione e sentimenti di inadeguatezza che possono a loro volta generare stress. La sensazione di avere il controllo può essere un fattore molto importante nello sviluppo dello stress, infatti, a favore della pratica privata come fattore protettivo, gli psicoterapeuti che lavorano privatamente hanno un livello di controllo maggiore sulle loro condizioni di lavoro rispetto ai terapeuti che lavorano in studi sanitari pubblici (Steel et al., 2015).

Come riportato sopra, il burnout associato alle esperienze di lavoro generali è stato significativamente più alto del burnout associato ai pazienti. Di conseguenza, le condizioni di lavoro, piuttosto che le sfide cliniche, potrebbero essere più importanti a questo proposito. Tuttavia, è anche possibile che i contesti clinici siano diversi tra gli studi privati e quelli pubblici, poiché una proporzione maggiore di pazienti impegnativi tende ad essere presente nel pubblico.

In conclusione, i livelli di burnout tra gli psicoterapeuti sono risultati alti e un’alta competenza percepita rappresenta un fattore protettivo contro il burnout, molto più dell’esperienza lavorativa, dell’istruzione o dell’età. In linea con ricerche precedenti, anche lavorare privatamente sembra essere un fattore protettivo contro il burnout, nonostante i risultati di Hammond e colleghi (2018) indichino che molti fattori di rischio per il burnout sono presenti anche per gli psicologi che esercitano privatamente.

Il controllo percepito dell’ambiente di lavoro è importante per ridurre lo stress per gli psicoterapeuti: i cambiamenti nel modo in cui il trattamento viene fornito, con un maggior numero di operatori privati che lavorano in circostanze simili a quelle degli operatori del sistema sanitario pubblico, è a portata di mano in molti paesi. Il carico di lavoro, e altri aspetti della situazione lavorativa, possono essere difficili da controllare, anche per chi lavora nella pratica privata. Essere donna è stato un fattore predittivo significativo del burnout personale e legato al lavoro. Tuttavia, sono necessari studi futuri per esplorare altri fattori di rischio per il burnout come i tratti di personalità, le convinzioni meta-cognitive sullo stress e come affrontare al meglio lo stress legato al lavoro e gli interventi su misura per gli psicoterapeuti per ottenere risultati ottimali sul burnout.

Il Corpo: la perdita dopo il Trauma/Strumento di cura

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

 

Abstract

La presente trattazione argomenta sul tema del trauma nelle sue molteplici complessità. Complessità che nascono dal riconoscimento diagnostico non sempre immediato, dalla diversificazione dei possibili eventi traumatici, dal multiedrico quadro psicopatologico. Questi elementi rendono difficile l’individuazione diagnostica e ancor di più l’intervento terapeutico.

Nello specifico dell’intervento terapeutico, il quadro mostra una lunga storia di trattamenti non efficaci e non sempre dignitosi. La complessa dinamica del trauma coinvolge le varie funzioni corticali e sottocorticali, meccanismi fisiologici, emotivi, comportamentali e cognitivi attivati da reazioni di sopravvivenza che si instaurano nell’immediato dell’evento traumatico. Queste reazioni, prolungate e cronicizzate, creano disregolazione emotiva, scissioni e dissociazioni dell’esperienza e dei vissuti corrispondenti, che si somatizzano, eludendo le funzioni cognitive più elevate, strutturando quadri psicopatologici complessi.

Tenendo conto della dinamica sottostante, del quadro psicopatologico e dell’accessibilità limitata attraverso medium verbali, il trattamento necessita di una mediazione corporea, attraverso tecniche psico-corporee, integrabili con le terapie di stampo più verbale e farmacologico.

Il trauma ed il corpo

La narrazione della propria storia è centrale nella vita di ogni individuo. Il racconto della realtà attraverso il linguaggio, genera la “scrittura” di una autobiografia personale che, intrecciandosi con le storie degli altri, conferisce un senso alle esperienze umane.

Esiste anche una biografia del corpo, ovvero la propria storia trascritta nel corpo, nella struttura, nell’espressività somatica, nella qualità energetica, nella sua declinazione spazio/tempo. Un po’ come i cerchi del tronco, per l’albero.

Il corpo è il primo elemento di confronto con il mondo fin dallo stadio fetale, attraverso il nutrimento, il contatto, il suono, il gusto, la vista, la propriocezione, le variazioni biochimiche introdotte dall’emotività della madre. Costituisce lo strumento con cui interagiamo per tutta la vita.

Noi siamo primariamente il nostro corpo, che nasce e cresce dentro un altro corpo, dopo l’unione di due corpi.

La relazione stessa si instaura e cresce attraverso l’accudimento del corpo, che ci fornisce un’idea di noi stessi. Attraverso come il nostro corpo viene trattato, accudito, toccato/evitato.

Il corpo è il primo a rispondere e a reagire a quanto avviene nell’interazione con il mondo esterno ed interno, primariamente rispetto a stimoli sub-liminari (Tauber e Green, 1995), che in quanto tali non sono coscienti, ma influiscono sul nostro vissuto e sulle nostre reazioni.

La funzione protettiva sub cosciente, si attiva in risposta alle nostre capacità di tolleranza e in risposta al tipo di stimolo. Si attiva massivamente nelle situazioni inusuali e traumatiche, dove la scissione e la dissociazione costituiscono le reazioni primarie.

I sensi sono immediati e veloci, legati ad aspetti più primitivi, mentre il pensiero razionale si è evoluto, filogeneticamente ed ontogeneticamente, in un tempo successivo con lo sviluppo della corteccia cerebrale. Le reazioni vegetative, ormonali e neuronali profonde sono presenti nel mondo animale fin dall’antichità, in quanto legate a meccanismi di sopravvivenza.

Quando si verifica un evento traumatico, vi sono una serie di stimoli che entrano prepotenti, si registrano nel corpo e negli strati più profondi del cervello e della psiche, le funzioni più razionali sono momentaneamente inattive, non è possibile dare un senso a quanto capitato. L’attivazione di meccanismi di difesa significativi quali la dissociazione, il congelamento, l’iperattivazione, uniti alla disregolazione emotivo/sensoriale, l’alterazione dei ritmi sonno-veglia, la tendenza all’acting, l’abuso di sostanze e/o psicofarmaci ecc., rendono ancor meno penetrabili i contenuti consci e razionali. (Fischer et al., 2011).

Bypassando le funzioni cognitive superiori, si attivano le parti più antiche e più istintive del cervello, con una serie di reattività emotive, somatiche e comportamentali non filtrate. Gli stimoli esterni escono dal circuito della prevedibilità e della coscienza, si scatenano risposte fisiologiche di sopravvivenza, che non possiedono confini, significati precisi e non terminano col cessare del pericolo. L’individuo continua a sentirsi attivato, ad avere un alto livello di arousal in uno stato di ipervigilanza e allerta per molto tempo, come se ci si attendesse che può succedere qualcosa da un momento all’altro.

Il corpo si ritrova in una condizione di rigidità, di anestesia, talvolta fino al death state, che lo rende un blocco unico, volto a filtrare sensazioni che potrebbero innescare una serie di reazioni a catena (Steel, Van de Hart, Boon, 2014; Van der Kolk, 2015; De Zulueta, 2009, Boon et al., 2017). C’è un congelamento del corpo e delle sensazioni che lo rendono poco recettivo alla moltitudine di stimoli esterni ed interni, che diversamente eleverebbero ulteriormente il grado di arousal già molto critico.

Questo spiega il motivo per cui spesso l’impiego delle sole terapie verbali, individuali e di gruppo, non sono sufficienti a curare e guarire i traumi. Ancor di più se quanto capitato è indicibile, come succede negli abusi o violenze avvenute in tenera età. Queste terapie non riescono ad accedere alle parti dissociate (Van der Kolk, 2015).

A livello emotivo si crea il senso di vergogna, di colpa, la vittima si sente responsabile di quanto avvenuto, si attiva l’identificazione con l’aggressore, il bisogno di ripristinare il controllo, di salvare la figura carica di legame affettivo. Le emozioni e i pensieri disfunzionali derivano dalla disregolazione di affetti e funzioni, dal meccanismo di dissociazione che crea una separazione fra parti di sé. L’evento traumatico viene riposto in uno spazio mentale separato da tutto il resto, ciò permette di tenerlo a bada o di credere che sia così e di concedere alle altre funzioni un livello sufficientemente adeguato (lavoro, studio, relazioni ecc.).

Il trauma può non emergere per molto tempo, pur continuando a pesare e ad influire sull’economia e sul benessere della persona.

Istintivamente le vittime di trauma cercano di allentare le tensioni del corpo e di spegnere i pensieri ripetitivi con alcool, droghe, abuso di farmaci o iperlavoro. In una ricerca condotta su 225 vittime scampate al crollo delle Torri Gemelli e su una parte dei loro soccorritori, è emerso che il primo tipo di aiuto a cui molti hanno fatto ricorso, riguardava il corpo con interventi come massaggi, yoga ecc. e solo una piccola parte a terapie verbali (Van der Kolk, 2015).

Dopo un evento traumatico si crea una disconnessione fra parti del cervello, fra pensieri, emozioni e sensazioni, l’evento non riesce ad essere inserito nella propria storia con una certa coerenza. Il danno è a tutti i livelli. Il corpo è irrigidito, i circuiti sottocorticali attivati in senso circolare, qualunque intervento che coinvolga gli strati superiori più evoluti della corteccia non riesce ad entrare in contatto con gli altri strati primariamente coinvolti.

Nel concreto, immaginiamo cosa possa succedere alla vittima a cui si chieda di raccontare l’evento, che può scatenare una serie di reazioni corporee e viscerali che attivano il segnale d’allarme. Non può esserci liberazione né insight, al contrario una ripetizione del trauma, fino alla rivittimizzazione.

Questo spiega e rende ragione di tutti quegli interventi mediati sempre più dal corpo e dagli strumenti che cercano di ricreare un collegamento fra le parti sconnesse.

Todd (1959) ci aveva mostrato precocemente che la funzione precede la struttura, ovvero lo stesso movimento ripetuto svariate volte, modella il corpo. Quando le contrazioni muscolari innescate da meccanismi difensivi inconsapevoli, si ripetono varie volte, si tramutano in pattern fisici (postura, atteggiamento energetico-somatico, movimenti stereotipati e ripetitivi, ecc.) che influenzano la struttura del corpo, che a sua volta pesa ulteriormente sulla funzione. Il corpo così “deformato” nella struttura e nella sua dinamica, va a mantenere l’inibizione sia emotiva che cognitiva, innescate dai meccanismi di protezione (Ogden et al., 2013, p.21).

Lowen (1978, 1982) ha trascorso la sua vita a mostrare l’effetto visibile delle pressioni ambientali costanti sulla strutturazione somatica in termini di postura, tensione muscolare, ma anche strutturazione ossea, definizione e uso della voce, stile corporeo-energetico ecc. Dando senso alla bioenergetica come terapia bio-psichica, mediata da esercizi, posture e consapevolezze corporee per permettere un cambiamento funzionale e strutturale.

Analogamente, Hobson (1994) ci ricorda che il movimento ha la precedenza in situazioni di emergenza, l’azione fisica precede le reazioni cognitive ed emotive. E’ vantaggioso aggirare la corteccia e attivare un pattern motorio, governato direttamente dal tronco dell’encefalo. Ed è da lì che è necessario ripartire anche per l’intervento terapeutico.

La terapia ed il corpo

Nonostante questi studi, la storia dei disturbi traumatici, ci mostra una tardiva individuazione terapeutica integrata, ma ancor prima anche una tardiva individuazione diagnostica. Infatti il primo passaggio terapeutico è costituito dall’adeguato riconoscimento diagnostico. I Veterani del Vietnam ne sono un esempio, hanno subito un riconoscimento tardivo del trauma, quale origine dei quadri sintomatici complessi, da cui etichette ed interventi inefficaci, che hanno cronicizzato oltre modo i sintomi.

Stessa confusione e misconoscimento diagnostico si è verificato per altri tipi di vittime, erroneamente catalogate con le più disparate categorie psichiatriche. La definizione ed il riconoscimento del Disturbo da Stress Post Traumatico – DPTS (DSM 5), ha permesso alle vittime un riconoscimento ed un approccio più adeguato alle loro necessità e ha fornito dignità alla loro condizione.

Progressivamente è accresciuta l’attenzione e la sensibilità verso varie forme di esperienza traumatica, quali l’abuso nell’infanzia, il neglet, la violenza sessuale, il terrorismo, la deportazione, la vittimizzazione da catastrofi naturali, forme più invisibili quali la perdita di un genitore per omicidio da parte dell’altro genitore, la violenza domestica, le relazioni perverse (relazioni asimmetriche, stalking, bullismo, mobbing), il trauma da diagnosi nefasta, l’ospedalizzazione “traumatica” (reparto chiuso, anestesia cosciente, trapianto d’organi, ecc.).

L’esperienza clinica poi ci ha suggerito la necessità di una differenziazione, in base ai tipi di trauma, sia in termini oggettivi che soggettivi, in termini di continuatività, di natura causale (di tipo umano/non umano), di contesto, periodo evolutivo e fattori protettivi. Ne emerge una descrizione del quadro sintomatico e del vissuto soggettivo molto più articolato e complesso di quanto descritto nel DPTS, costituito da elementi di autodenigrazione, autosvalutazione, sensi di colpa, atti impulsivi, aggressività, amnesia, atti autolesivi ecc., delineando così quello che viene definito un Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Emerson, 2015, pp. 16-19; ICD 11, 2018).

Parallelamente la ricerca e la clinica hanno lavorato nell’individuazione di strategie e terapie (farmacologiche, psicologiche, rieducative) più appropriate per intervenire su un quadro somatico, emotivo, esperienziale e cognitivo assai complesso (Van der Kolk, 2015).

Negli anni si sono sperimentate varie forme di intervento, combinazione farmacologica (antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, ansiolitici, benzodiazepine, antipsicotici) con terapie dell’area psico-sociale (psicoterapia individuale, di gruppo, gruppi di veterani, gruppi di auto-mutuo aiuto, volontariato, rieducazione specifica ecc.), ricovero, ospedalizzazione prolungata.

Attualmente le forme di intervento che sembrano incidere in modo più significativo sono rappresentate da interventi specifici sul ricordo traumatico come l’EMDR, la terapia verbale, le terapie corporee e l’ausilio variabile di farmaci (Van der Kolk, 2015).

Le terapie corporee impiegate includono la bioenergetica (Lowen), il metodo Alexander (Alexander, 1998: Gray 1994), il metodo Feldenkrais (2011), il metodo Hakomi (2015), la terapia sensomotoria (Ogden e Fischer, 2016) ecc., tutte forme utili per lavorare sul corpo e sui traumi “in-corporati”, “in-carnati”.

Il corpo ci suggerisce che il trauma non è passato neanche quando è passato (Ogden et al., 2013, p. 11). Il corpo non mente e traduce una corretta visione della propria biografia.

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

Il lavoro con le componenti NV (non verbali) permette di recuperare il “corpo”, la percezione somatica, sensoriale, il giusto peso emotivo, di dare accesso al trauma e alla successiva integrazione delle parti separate e disconnesse.

Lo yoga o altre forme di terapie corporee, unite ad esercizi immaginativi, meditazione o training autogeno, costituiscono spesso la porta d’accesso per la cura dei pazienti traumatizzati, in uno stato di dissociazione (De Zulueta, 2015; Emerson, 2015; Van der Kolk, 2015; West, et al., 2017). Si parte proprio da dove il trauma è passato, dai primi effetti e dai mezzi necessari per mantenere attive le difese, il senso di ovattamento e distacco emotivo: il corpo e le sue rigidità.

Lo yoga si concentra sul respiro e sullo scioglimento di rigidità corporee, allenta lo stato di allerta, migliora il ritmo sonno-veglia, riduce l’ansia e l’irrequietezza motoria. Questo primo lavoro permette la riduzione delle difese e delle rigidità corporee collegate. La vergogna stessa è relata al corpo, al mostrarsi, all’immagine di sé. Se la vittima di violenza riesce a coabitare con il proprio corpo, con ogni parte di esso e delle sue sensazioni, allora può anche provare a mostrarsi nel suo esterno e nel suo interno.

Varie ricerche dimostrano che lo Yoga utilizzato per disturbi quali ansia, depressione, disturbi alimentari, iperattività, schizofrenia, produce variazioni biochimiche e fisiologiche: modulazione dell’arousal, attivazione del GABA, decremento di cortisolo e catecolamine (alla base delle reazioni di stress) (Rocha et al, 2012; Sarang e Telles, 2006; Streeter et al., 2010).

Ancora più nello specifico, altre ricerche, con l’ausilio della neuroimaging, hanno verificato che dopo 20 settimane di pratica yoga, le donne cronicamente traumatizzate sviluppano una maggiore attivazione di strutture cerebrali implicate nell’autoregolazione quali l’insula e la corteccia prefrontale mediale (Van der Kolk, 2015, pp. 112-113).

Con 10 sedute di TSY, ovvero la Trauma Sensitive Yoga (Vand der Kolk et al. 2014), le pazienti traumatizzate, non rispondenti alle terapie tradizionali cominciavano a mostrare una riduzione dei segni dissociativi, un atteggiamento meno critico verso di sé, una maggiore connessione con emozioni e migliori relazioni interpersonali, compresa la relazione terapeutica. Dai risultati, l’effetto del TSY uguaglia o supera quello della terapia cognitivo-comportamentale.

Dalle verifiche strumentali, si è inoltre osservato che lo Yoga riattiva l’area prefrontale mediale sinistra e l’area di Broca (responsabile di gran parte delle funzioni linguistiche deputate ad esprime l’emotività), disattivate in seguito al trauma (Emerson, 2015, p. 22-23).

Negli adulti multi traumatizzati l’impiego della sola psicoterapia o solo della mindfulness non sono sufficienti a produrre cambiamenti, riscontrabili invece con l’intervento anche di terapie corporee quali lo Yoga (West et al., 2017, p. 174).

Lo Yoga, come altri interventi di tipo psico-corporei, non sono da considerarsi un sostituto della psicoterapia bensì un’integrazione, in quanto permette la combinazione fra un approccio bottom up e top down, fondamentale per riunire le parti dissociate (Emerson, 2015; Brendom et al., 2018).

I processi bottom up e top down sono le due vie attraverso cui valutiamo se un evento è pericoloso o meno, il primo, guidato dal cervello rettiliano, procede attraverso decisioni inconsapevoli e automatiche, il secondo, guidato dalla corteccia prefrontale, procede grazie ad una serie di valutazioni coscienti. Durante le situazioni traumatiche, altamente pericolose, i due sistemi, corteccia e sotto-corteccia, si scollegano a sfavore delle funzioni più evolute, prevalendo un’attività del sistema sottocorticale, più veloce e connesso con le reazioni di sopravvivenza.

Il respiro ed alcune posture sembrano essere gli unici elementi gestibili da parte di entrambe le funzioni e in quanto tali assumono il valore di mediatori di cura, fra le aree corticali e sottocorticali (Van der Kolk, 2015, pp.72-73).

La presenza nel qui e ora, l’attenzione al corpo e alle percezioni somatiche, la concentrazione sul respiro, la natura ritmica dello stesso, costituiscono strumenti di contatto con sé, con le proprie sensazioni, di riduzione di tensione e arousal (West, 2015).

Rispetto ad altre tecniche di tipo corporeo, il TSY non si occupa delle emozioni, dei pensieri o dei ricordi elicitati dal movimento, ma unicamente dell’intracezione, della percezione corporea (Emerson, 2015, pp- 10-14). A livello teorico si appoggia alle Teoria sul Trauma, alle ricerche mediate dalla Neuroscienza e alla Teoria dell’Attaccamento (Bowlby, 1978, 1983; Ainsworth, 1979).

Rispetto all’Hata Yoga, ovvero allo yoga tradizionale, il TSY non lavora sulle posizioni o àsana, non fornisce indicazioni e procedure per raggiungere la posizione finale, bensì suggerisce, se la persona “se la sente”, di sperimentare alcune posture. Inoltre, per motivi legati al trauma stesso, non lavora con il respiro come procede l’Hata Yoga. Dall’esperienza di Emerson e della sua equipe infatti, in certi casi questo costituisce una riattivazione traumatica. Ad es. i veterani di guerra, durante gli esercizi volti ad una respirazione più profonda, possono rivivere gli episodi traumatici, il respiro costituisce un trigger relativo al fuoco in battaglia. Parimenti, certe posizioni, quali quella del “bebè felice” diventano un trigger per le vittime di stupro, o di abuso infantile (Emerson, 2015, p. 4-7).

Le parole stesse sono calibrate con estrema attenzione, per esempio viene evitata la parola “Posizione”, classicamente usata nello yoga, in quanto attivante per le persone sessualmente abusate, preferendo il termine “Forma”, emotivamente più neutro.

L’importanza fornita alla volontà, disponibilità e percezione di “sentirsi pronti” ad eseguire una certa forma, costituisce un passaggio importante. Spesso le vittime di traumi non sanno cosa vogliono, non sono collegate con il proprio sentire, e formulare loro la domanda apre ad una possibilità e ad un “permesso” emotivo-cognitivo: il poter scegliere.

Seppur muovendo da analoghi principi teorici, parzialmente differente è la Terapia Sensomotoria di Ogden (Ogden et al. 2013; Ogden et al. 2016). Al contrario del TSY, qui vengono impiegate e integrate tecniche di stampo corporeo con altre di stampo verbale. Ogden infatti parte dall’analisi dei tre livelli di elaborazione dell’informazione, reciprocamente influenzanti:

  • l’elaborazione cognitiva
  • l’elaborazione emotiva
  • l’elaborazione senso-motoria

La capacità cognitiva si riferisce all’abilità di concettualizzare, ragionare, attribuire significati, risolvere problemi e prendere decisioni. Si tratta della modalità prevalente dell’adulto, che procede con modalità top-down, dove le aree corticali più alte agiscono come un centro di controllo e la corteccia orbitale domina l’attività subcorticale. Mentre eseguiamo i nostri piani, spesso ignoriamo emozioni e sensazioni, che sono presenti ma non vengono tenute in conto per le decisioni. Emozioni e sensazioni ci sono e influenzano il pensiero, ma le aree corticali superiori sono in grado di mantenere il controllo e, se necessario, di fornire un senso.

Ratey (2002) sostiene che i neuroni motori possono guidare il senso di auto-consapevolezza, infatti i circuiti mentali usati per le azioni fisiche sono gli stessi delle azioni mentali. Il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo dunque sono modellati dal corpo e viceversa.

Per il soggetto traumatizzato le emozioni e le sensazioni sono così primari da non poter dare spazio ai meccanismi top-down, i vissuti emotivi e senso-corporei spesso generano distorsioni cognitive e pensieri irrazionali “Sono cattivo”, “E’ colpa mia”, “Sono stato giustamente punito” ecc., rigidi e difficilmente modificabili, che a loro volta influenzano emozioni e percezioni.

L’emozione ci aiuta ad agire in maniera adattiva, in quanto piattaforma pre-motoria, che ci guida o ci trattiene dall’azione.

Le persone traumatizzate perdono questa capacità, soffrendo spesso di alessitimia, ovvero dell’incapacità di riconoscere e definire le emozioni. Nei confronti dei propri stati emotivi possono essere distaccati e disinteressati o, all’inverso, possono viverli come urgenti ed immediati. Nei ricordi non verbali degli eventi traumatici, viene riattualizzato il tenore emotivo che, in uno stato di arousal critico, può condurre ad azioni impulsive ed inefficaci. Si perde la capacità di pensare in modo lucido, di tradurre le emozioni e differenziare le emozioni dalle sensazioni corporee.

L’elaborazione emotiva adeguata infatti, prevede la capacità di sperimentare, descrivere, esprimere ed integrare gli stati affettivi.

L’elaborazione sensomotoria si articola nello strutturare l’esperienza, articolare e integrare la percezione fisica/sensoriale, le sensazioni corporee, l’arousal fisiologico ed il funzionamento motorio. Nei disturbi traumatici la disregolazione crea confusione e sovrapposizione fra emozioni e sensazioni corporee, che si attivano e accentuano a vicenda, come per esempio per la tachicardia ed il panico.

Nei bambini molto piccoli e nei soggetti con disturbo traumatico l’elaborazione è di tipo bottom-up, ovvero sensomotoria, guidata dalle percezioni tattili e cinestesiche, condotte dagli strati sottocorticali. Coincide con ciò che Piaget (1966) ha individuato come prima forma di intelligenza nel bambino piccolo, che esplora e conosce l’ambiente. Gli schemi motori circolari primari e secondari ripetuti, creano quelli terziari, prodromi del pensiero.

Nella pratica clinica la Terapia Sensomotoria procede con l’elaborazione di tre aspetti sensomotori: le sensazioni corporee interne (qualunque mutazione organica, dovuta ad aspetti ormonali, chimici, muscolari, ecc.), la percezione attraverso i cinque sensi ed il movimento.

La terapia sensomotoria mira a ridurre l’arousal, permettere di identificare, distinguere gli elementi sensomotori, le emozioni e fornire loro un adeguato significato. Infatti l’identificazione delle percezioni sensoriali-organiche modifica il modo in cui sono vissute e interpretate, influendo a sua volta sui connotati emotivi.

La terapia integra il trattamento top-down, che utilizza gli strati superiori, con trattamenti bottom-up, mira a raggiungere la percezione e la consapevolezza di quanto avviene nella persona ad ogni livello (sensoriale, emotivo, cognitivo) nel momento del ricordo dell’evento traumatico. Si usano l’esplorazione consapevole di ogni evento sensomotorio, l’attivazione di un atteggiamento/clima giocoso, il cambiamento di tendenze di orientamento (la direzione dell’attenzione rivolta al qui e ora), l’attenzione al transfert somatico e relativo controtrasfert ecc.

Favorire la capacità integrativa richiede la differenziazione e il collegamento delle componenti separate dell’esperienza interna e degli eventi esterni, tale da creare una connessione significativa.

Sono stati pensati e articolati interventi specifici anche per i bambini con trauma complesso, che richiedono ulteriori e specifiche attenzioni. La specificità infatti deve tener conto della fase evolutiva, della non completa maturità di alcuni strumenti e funzioni, della ridotta capacità espressiva del proprio mondo interno attraverso il canale verbale, della presenza di caregiver di riferimento che sono parte del sistema, talvolta loro stessi vittime, talvolta attuatori di violenza, ma strumento di cura, portatori di risorse e coping, talvolta al contrario limitatori delle stesse e fonti di stress.

Da non dimenticare, inoltre, i limiti degli interventi adottati per gli adulti. Ad esempio alcune ricerche mettono in luce la mancata efficacia dell’EMDR nei bambini con alcuni tipi di trauma complesso (Kazatzias T., 2007).

Paris Goodyear-Brown in Tennessee, USA (2019; 2021) ad esempio ha strutturato la Narture House, un luogo dedicato esclusivamente ai bambini e ai loro familiari. Una casa-clinica interamente dedicata al trattamento dei bambini con trauma, con spazi interni ed esterni dedicati a specifiche attività.

Il primo spazio è rappresentato da una stanza dei bisogni, tranquilla dove talvolta i bambini possono rifocillarsi, attraverso il riposo o semplicemente a livello alimentare. I bisogni primari costituiscono necessariamente il primo livello e talvolta bambini traumatizzati e/o appartenenti a ceti socio-culturali bassi, sono deprivati innanzitutto in questi bisogni fondamentali.

Vi sono poi gli spazi specifici di gioco, che permettono l’applicazione del trattamento TraumaPlay.

Alcuni giochi/oggetti sono ritenuti indispensabili: l’amaca sospesa e l’altalena, quali mezzi di autoconsolazione e di controllo simbolico sul movimento, riparatrici; la sabbiera, uno spazio dove il bambino può immergersi e modellare usando le mani, ma anche il resto del corpo; gli animali (di materiali rigidi e morbidi) di tutti i tipi costituiscono importante oggetto di proiezione; ovviamente materiale per colorare e tanti oggetti in miniatura, della vita quotidiana (es. la cucina e le sue suppellettili; kit del dottore, ecc.).

Infine gli strumenti musicali costituiscono per la dott..sa Goodyear un elemento fondamentale, mezzo per far uscire, emettere suoni portatori di vissuti, per esprimere quanto sta capitando al loro mondo interno, non traducibile in parole. Il ritmo stesso della produzione musicale spontanea, ci suggerisce lo stato di attivazione interna, del nostro piccolo paziente. L’emissione di suono attraverso uno strumento, in special modo con alcuni come la chitarra, le percussioni, ecc., e/o attraverso la voce, inoltre coinvolge il corpo tutto intero, diventando così uno strumento diagnostico e di intervento senso-motorio.

Tenendo conto di tutto questo, capiamo come l’impiego degli strumenti musicali all’interno di un certo setting, permette il ripristino dell’arousal e la normalizzazione della disregolazione emotiva.

E’ importante creare lo spazio esterno, il setting adeguato perché i bambini riescano a stare, sentendosi protetti e gradualmente a loro agio, fino a poter creare un setting interno ed un filo che conduca il vissuto all’espressione esterna. E’ necessario dare spazio al TraumaPlay, ovvero permettere al trauma di essere rappresentato attraverso un gioco e attraverso il gioco modificato e superato, grazie alla possibilità e capacità espressiva, condivisa con un adulto.

Specifici spazi di educazione ed espressione sono rivolti anche ai familiari, per poter veicolare e traghettare quanto capita dal bambino all’adulto, sia in termini di conoscenza che di acquisizione strumentale. Spesso i caregivers sono i narratori della storia del piccolo, permettono di integrare quanto capitato, per ricostruire la narrazione del trauma.

La Narture House spesso lavora anche con bambini adottati e in affidamento, per cui l’attaccamento ed il tipo di legame strutturato costituisce uno locus di lavoro primario per il recupero della storia, ma anche per il trattamento traumatico, che ha come oggetto la relazione stessa e l’abbandono.

Conclusioni

La storia degli eventi traumatici, del loro misconoscimento, dei progressi nella loro individuazione, dei fallimenti e delle conquiste terapeutiche, sottolineano l’importanza di questo lavoro di continuità e integrazione fra vari strumenti conoscitivi e clinici, all’interno di un approccio specifico e “sensibilizzato” al trauma.

Nella pratica personale si è sperimentato e si continua a sperimentare in modo permanente attività mirate e rivolte al corpo, che comprendono sia aspetti mediati dalla corteccia top-down che altri mediati da aree sottocorticali bottom-up.

Si tratta di un lavoro che attinge a riflessioni e tecniche del TSY, della terapia sensomotoria e ad altre (bioenergetica, hata yoga, shatsu, arteterapia, esercizi gestaltici ecc.). Seppur si tratti di un lavoro non corroborato da studi strumentali e misurabili scientificamente, nell’esperienza quotidiana l’integrazione di terapia verbale e non verbale, in dose diversa in base alle singole persone e in base al setting, individuale/gruppo, rappresenta uno strumento d’elezione in svariati tipi di disturbo: disturbi alimentari, d’ansia, psicosomatici, traumi semplici e complessi.

Si tratta di una modalità di lavoro che richiede un ascolto attento e flessibile da parte del terapeuta ed una continua ricerca della giusta lettura, dell’equilibrio di parti diverse dell’individuo e della relazione. Nella pratica clinica ad esempio abbiamo verificato l’utilità della rappresentazione corporea, attraverso le arti grafiche, mediatrici creative inconsce per l’accesso al corpo, all’emotività e ad i livelli successivi. Niente è scontato e non ci sono percorsi pre-costituiti.

Si tratta invero di un ambito dinamico sia in termini di forze, di risorse, di energie e di componenti creative. Si mira a riconquistare la “Bellezza” come inteso da Riefolo (2018), ovvero la capacità di elicitare risorse e strategie “impensate”, primariamente nell’individuo, ma anche nella relazione terapeutica e nella relazione fra curanti.

La creatività infatti riguarda anche la capacità di guardare il corpo, contemplarlo nel processo diagnostico e nel percorso di cura, all’interno delle possibilità offerte dal contesto, compreso i limiti imposti dai setting esterni. Non sempre, nei contesti privati e pubblici si possiedono ambienti e strumentazioni atte a dar spazio al lavoro con il corpo, parimenti non tutti i pazienti sono pronti per lavorarci.

Fra le restrizioni specifiche e situazionali, stiamo vivendo un evento sanitario-storico-sociale quale l’emergenza Covid-19 che ha messo distanza fra noi e gli altri, isolando in particolare il corpo e spesso lasciando il dialogo privo di un’espressività fondamentale come quella facciale, o all’inverso introducendo il filtro del video che accresce la distanza fisica e riduce l’impatto energetico dell’incontro, assottiglia la visibilità dei segnali espressivi più fini.

Non ultimo, non tutti i curanti sono contraddistinti dalla dimestichezza con il proprio corpo come medium diagnostico e terapeutico. La consapevolezza di tale limitazione ci permette di offrire al paziente altri supporti, che non siamo in grado di offrirgli in prima persona, oppure di addentrarci in una conoscenza di noi, non ancora esplorata.

Il trauma è una realtà umana dolorosa, che spaventa, che spesso misconosciamo, ma offre anche un accesso importante alla conoscenza dell’essere umano e all’incontro con i vari livelli di noi stessi e degli altri, con gli strati più primitivi, istintivi, aggressivi, violenti, con il giudizio e la negazione.

Dietro la mascherina: gli operatori sanitari durante la pandemia

Nel mese di maggio 2021 è stata condotta la seguente indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica durante il periodo di pandemia, per successivamente programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

 

Abstract

 Gli operatori della sanità, con diversi ruoli e mansioni, si sono trovati ad affrontare un’emergenza senza precedenti, fronteggiando quotidianamente un pericolo insidioso, invisibile, che ha sollecitato al massimo grado il SSN, aumentando i carichi di lavoro e la tensione fisica e psichica.

In un simile contesto l’incremento degli stressor ambientali espone ad un tangibile rischio di burnout con conseguenze sul piano cognitivo, comportamentale, fisico ed emotivo.

Pertanto, in considerazione dell’emergenza sanitaria in atto si è reputato utile condurre un’indagine conoscitiva al fine di valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica con l’obiettivo ultimo di programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

Lo studio è stato condotto come da protocollo. Il campione è formato da n.168 operatori appartenenti alle UU.OO. selezionate che hanno aderito allo studio. Sono state effettuate analisi descrittive e inferenziali (correlazioni tra indici e Anova multivariate). Risultano interessanti i risultati emersi.

Il test appositamente elaborato volto a valutare il disagio emotivo legato alla situazione di emergenza dovuta alla pandemia di COVID-19 correla fortemente e positivamente (p< 0,01) con la scala Depression Anxiety Stress Scale-21 (DASS–21) DASS-2, con il test Maslach Burnout Inventory (MBI) nelle sottoscale Esaurimento emotivo (EE)  e Depersonalizzazione (DP) e correla negativamente nella sottoscala Realizzazione personale (RP).

Inoltre, risultano differenze statisticamente significative tra le seguenti variabili: sesso, anni di lavoro e ruolo professionale agli indici dei test utilizzati.

Alla luce dei risultati ottenuti sono stati attivati interventi psicologici presso l’U.O. di Psicologia Clinica.

Il razionale dello studio

L’oncologia è da sempre un’area della medicina ad alto investimento psicologico. Lavorare con pazienti oncologici è, infatti, fonte di notevoli soddisfazioni umane e professionali ma comporta un alto costo emotivo (Poppito et al, 2014).

In questo contesto l’incremento degli stressor ambientali espone ad un possibile rischio di burnout. Attualmente non ci sono dati sul distress peritraumatico da COVID negli operatori sanitari specifici di area oncologica. Tuttavia, alcuni dati pubblicati su riviste internazionali suggeriscono che essi abbiano affrontato una enorme pressione emotiva personale e professionale. Che gli operatori sanitari possano riportare in corso di epidemie e pandemie influenzali problemi di salute mentale, anche in misura maggiore di quella riscontrata nella popolazione generale, è un fenomeno descritto in letteratura in merito alla SARS, la MERS e H1N1 e confermata dai recenti studi sul COVID-19 (Costantini, 2021). Nelle categorie sanitarie la prevalenza di disturbi psicologici e psicopatologici varia anche secondo la fase pandemica, e sono stati riscontrati picchi più elevati nei periodi iniziali quando “l’urto” può causare una risposta più elevata di stress.

In uno studio cinese su 1257 operatori sanitari, infermieri (60,8%) e medici (39,2%), che lavoravano in Ospedali di Wuhan (60,5%) o fuori Wuhan, e di cui il 41.5% erano nel front line, sono stati osservati sintomi depressivi (50.4%), ansia (44.6%), insonnia (34.0%) e distress (71.5%) (Lai e al, 2020).

Uno studio italiano effettuato dal 27 al 31 marzo 2020 su 1379 operatori sanitari di tutte le regioni usando una tecnica di campionamento a valanga, riporta sintomi di distress post traumatico misurati con il Global Psychotrauma Screen nel 49,38% dei casi, sintomi di depressione severa misurati con PHQ-9 nel 24,73% dei casi, di ansia misurata con GAD-7 nel 19,80%, di insonnia misurata con il 7-item Insomnia Severity Index nell’8,27%, e di elevato stress percepito misurato con il 10-item Perceived Stress Scale nel 21,90% dei casi. Il sesso femminile e l’età più giovane sono fattori rischio per tutti gli oucomes, essere stati esposti personalmente al contagio lo è per la depressione, lavorare nel front line è correlato in modo positivo a sintomi di stress post traumatico, il decesso di un collega, ospedalizzato o in quarantena, è risultato associato significativamente a livelli più elevati di insonnia, depressione e stress percepito, infine essere infermieri o operatori socio sanitari costituisce un fattore di rischio per insonnia severa (Rossi et al, 2020).

Pertanto, in considerazione all’emergenza sanitaria, nel mese di maggio 2021 è stata condotta la seguente indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica per successivamente programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

Obiettivi

Gli obiettivi dello studio sono stati:

  • Rilevare livelli di ansia, depressione e stress
  • Valutare la presenza dei disturbi post-traumatici
  • Rilevare il rischio di burnout
  • Valutare l’impatto emotivo della pandemia da Covid-19

Metodologia

Il Comitato Etico dell’A. O. Ospedali dei Colli (Napoli) ha approvato la ricerca. Lo strumento utilizzato per raccogliere i dati è stato Google Moduli e le informazioni sono state trattate in maniera anonima nel rispetto delle norme sulla privacy. I dati sono stati utilizzati per soli scopi di ricerca e non è possibile risalire all’identità dei partecipanti.

Inoltre, ogni partecipante allo studio ha compilato il modulo di adesione, dichiarando di aver letto e compreso tutte le informazioni riguardanti l’indagine. Nel messaggio di invito è stato riportato l’obiettivo dello studio e il consenso alla sua partecipazione.

Per raggiungere gli obiettivi prefissati sono stati utilizzati questionari validati ed è stata elaborata una scheda ad hoc per rilevare i seguenti dati socioanagrafici e lavorativi utili all’elaborazione dei risultati: sesso, età, stato civile, unità operativa di appartenenza, titolo di studio, ruolo professionale, rapporto di lavoro, anni di servizio, anni di servizio nell’attuale unità operativa.

Per valutare l’alessitimia è stata utilizzata la Toronto Alexithimia Scale (TAS-20) costituita da 20 item valutanti 3 scale fattoriali: DIF (Difficulty Identify Feelings), difficoltà ad identificare i sentimenti e a distinguere tra sentimenti e sensazioni fisiche; DDF (Difficulty Describing Feelings), difficoltà nel descrivere i propri sentimenti agli altri; EOT (Externally -Oriented Thinking), stile cognitivo orientato verso la realtà esterna. Il punteggio TAS-20 va da 20 a 100 con valutazione confermata di alessitimia per valori di 60 (cut-off) o maggiori, mentre per valori da 51 o inferiori non viene riscontrato alcun quadro alessitimico.

Per valutare il livello di burnout è stato utilizzato il Maslach Burnout Inventory (MBI), questionario di 22 item, ognuno con 6 gradi di risposta su scala Likert, che affronta tre diversi campi della professionalità: Esaurimento emotivo (EE), sensazione di esaurimento o esaurimento energetico; Depersonalizzazione (DP), maggiore distanza mentale dal proprio lavoro e sentimenti di cinismo; Realizzazione personale (RP), sensazione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Imm 1

Questionario Maslach Burnout Inventory-General Surevy (MBI-GS): score per il calcolo dei punteggi e la stratificazione del rischio di burn-out per ogni dominio della sindrome da burn-out

E’ stata utilizzata la Depression Anxiety Stress Scales (DASS-21) che consente di rilevare tre costrutti: Depression, Anxiety, Stress. I punteggi di cut-off raccomandati per le etichette di gravità convenzionali (normale, moderata, grave) sono i seguenti:

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Imm 2

Cut-off della Depression Anxiety Stress Scales

Lo stress soggettivo causato da eventi traumatici è stato invece misurato con la scala Impact of Event Scale-Revised (IES-R ) mentre per valutare la percezione dello stress è stata utilizzata la Perceived Stress Scale (PSS; Scala per lo Stress Percepito). In merito al distress legato alla situazione di emergenza COVID-19 è stato elaborato un questionario costituito da 12 domande dicotomiche.

E’ stato attribuito punteggio 1 per ogni risposta “Sì” e 0 per ogni risposta “No”. Dalla conversione dei punteggi totali la media risulta essere 3.55, la deviazione standard 1.9. Sono state ipotizzate due categorie: 0-4 nessun distress; ≥ 5 Rischio distress.

Elaborazione statistica

Sono state effettuate analisi descrittive (medie e deviazione standard), correlazioni bivariate e Anova multivariate, prodotte dalle analisi del programma SPSS25.

Per tutte le analisi, è stato utilizzato come indicatore di significatività statistica il valore di p inferiore a 0,05 (2-code). Sono state impiegate statistiche descrittive per illustrare le caratteristiche demografiche e cliniche del campione di studio. Il coefficiente di Pearson è stato utilizzato per esaminare le relazioni esistenti tra le variabili continue indagate.

L’analisi multivariata della varianza (MANOVA) è stata utilizzata per confrontare i gruppi di studio.

Descrizione del campione

Il campione è costituito da 168 operatori sanitari, di età compresa tra 24 e 60 anni (Media=45,36; Dev. Std.=11.45).

Di essi, le donne sono il 60,71%, gli uomini il 39,29; il 67 % degli operatori è coniugato, il 23% è nubile/celibe, il 2% vedovo, l’8% separato.

Per quanto riguarda i dati lavorativi, il campione è costituito da Infermieri Professionali (51%), Medici (26,8%), specializzandi (8.5%), Oss (7.3%), Tecnico sanitario di radiologia medica (3,7%), Fisioterapista 4,3%, Dietista (1,2%), altro (data manager, ingegnere biomedico, ecc) 4.7%.

Infine, il 6,7% del campione da quando è iniziata la pandemia ha intrapreso colloqui psicologici e una sola persona ha chiesto una consulenza psichiatrica (0.6%).

Per i diversi gruppi designati dal campione, analizzando le risposte al questionario autobiografico (Variabili Indipendenti), abbiamo eseguito un’analisi della varianza mista (ANOVA multivariata) con i risultati degli indici dei test in oggetto. Risulta significativa l’interazione tra gli indici dei diversi test e l’età lavorativa (F(3,167)=1,071; p=.013; η2=.435), come dimostrano i grafici che contengono i risultati medi delle risposte ai test per la variabile anni lavorativi.

Analizzando i risultati ottenuti dal questionario TAS-20 emerge che il 78,6% degli operatori comunica correttamente i propri affetti e sentimenti e non sono pertanto alessitimici, mentre il 16.07% è a rischio e il 5,3% possiede rischio alto (Tab.1).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 1

Tab. 1 Questionario TAS-20

Non c’è correlazione tra età, sesso e stato civile e livello di alessitimia, mentre i maggiori livelli di alessitimia sono presenti tra gli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 11 e 20 anni; minori livelli di alessitimia sono presenti nei medici che riescono maggiormente a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri. Come si evince dai grafici  n. 1, 2, 3, riportati in seguito, per gli indici dell’alessitimia emersi al test Tas-20, i maggiori livelli di alessitimia sono presenti negli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 11 e 20 anni.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 1

Grafico 1: Interazione significativa tra anni lavorativi e il totale TAS-20.

 

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 2

Grafico 2: Interazione significativa tra il gruppo anni lavorativi e il totale alla sottoscala DIF (le difficoltà dell’individuo a descrivere i propri sentimenti e a distinguerli dalle sensazioni del corpo).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 3

Grafico 3: Interazione significativa tra il gruppo anni lavorativi e il totale alla sottoscala DEF (difficoltà nei descrivere i propri sentimenti agli altri).

Sono stati calcolati le percentuali e i punteggi medi delle tre subscale del Maslach Burnout Inventory che rilevano, per ciascuna sottoscala, un livello di burnout inferiore a quello medio del campione normativo utilizzato nella taratura italiana dello strumento.

Nel nostro campione, in generale, ritroviamo valori medio bassi per quanto riguarda Esaurimento Emotivo e  Depersonalizzazione, e una buona Realizzazione Personale.

E’ emersa una differenza significativa alla sottoscala della Depersonalizzazione del test MBI, concernente la maggiore distanza mentale dal proprio lavoro e sentimenti di cinismo (F(1,167)=1,071; p=.012; η2=.467), ove le donne appaiono mostrare maggiore distacco mentale dal proprio lavoro (Grafico 4).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 4

Grafico 4: Interazione significativa tra il sesso e la sottoscala depersonalizzazione del test MBI

In merito agli indici dell’Esaurimento emotivo e Realizzazione personale dello stesso test, i maggiori livelli sono presenti negli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 1 e 10 anni; per la Depersonalizzazione i maggiori livelli sono espressi nel gruppo di operatori che lavorano da più di 30 anni. Per gli indici dell’Esaurimento emotivo e della Realizzazione personale, i maggiori livelli sono presenti negli Infermieri e medici, per la Depersonalizzazione i minori livelli vengono espressi dai medici specializzandi e gli Operatori Sociosanitari.

Passando ai dati della DASS-21 si osserva (Tab. 2) come il 17% presenti una Depressione Moderata, il 16% Ansia, il 30,9 Fatica.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 2
Tab. 2 Questionario DASS-21

Non ci sono differenze significative (p<=,069) tra il sesso e le tre sottoscale della Dass-21, anche se le donne presentano punteggi medi più alti (vedi grafico sottostante).

Per gli indici di Ansia, Depressione e Fatica emersi al test DASS-21, i maggiori livelli sono presenti nei dipendenti che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 1 e 10 anni  (F(3,167)=,061; p=.042; η2=.125).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 5Grafico 5: Interazione significativa tra gli anni lavorativi e la sottoscala depressione del DASS.

In merito al test IES-R si osserva che il 66% del nostro campione presenta un punteggio nella norma alla percezione dello stress (Tab. 3).Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 3

Tab. 3  Test IES-R

Per gli indici che valutano lo stress soggettivo causato da eventi traumatici, misurati dal test IES-R, i soggetti che maggiormente ne risentono sono quelli che lavorano dai 21 ai 30 anni.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 6

Grafico 6: Interazione significativa tra gli anni lavorativi e la scala di impatto dell’evento

In merito ai risultati al test PSS, alla scala dello stress percepito solo il 3% del nostro campione presenta livelli moderati di stress. In merito a questo test non abbiamo differenze significative tra i gruppi di dipendenti che lavorano da diversi anni.

Per valutare la relazione tra le dimensioni di rischio di stress collegato all’evento Covid-19 (questionario ad hoc per il Covid-19) e i diversi costrutti considerati (Tas-20 per l’alessitimia, IES-R scala di impatto dell’evento, MBI Maslach Bornout Inventory, DASS-21,  Depression Anxiety Stress Scales, Scala dello stress percepito) sono state eseguite analisi delle correlazioni (r di Pearson).

La Tabella 4 (Correlazioni bivariate) mostra una correlazione significativa e positiva (p < 0.01) tra il questionario ad hoc che esprime il rischio stress legato all’emergenza Covid-19 e tutte le sottoscale dei diversi test.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 4

Tab. 4  Correlazioni bivariate con gli indici del test ad hoc, per il rischio stress del Covid19,Tas-20 per l’alessitimia, IES-R scala di impatto dell’evento, MBI Maslach Bornout Inventory, DASS-21,  Depression Anxiety Stress Scales, Scala dello stress percepito.

Le uniche correlazioni negative emergono con la sottoscala RP del test MBI, che riguarda la realizzazione professionale e le altre sottoscale. Pertanto all’aumentare dello stress percepito per il Covid-19 diminuisce il desiderio di realizzazione personale.

Discussione e conclusioni

Che gli operatori sanitari paghino un alto tributo alle epidemie è un dato noto nella storia delle malattie infettive e testimonia sia la tendenza del personale sanitario ad assumere rischi per curare i pazienti, sia il fatto che spesso esso si trova a confrontarsi con le epidemie senza adeguati sistemi di sicurezza (Jones DS., 2020).

Dati al 23 aprile 2020 a cura dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano come l’11% dei casi totali di contagio in Italia si riferiscano ad operatori sanitari, con un’età mediana di 48 anni (verso età mediana di 62 anni dei casi totali), con una prevalenza di donne (69%), ed un tasso di letalità media dello 0,40% (Istituto Superiore di Sanità, 2020).

Da una revisione della letteratura, consultando la banca dati biomedica Pubmed negli ultimi anni, si evince come il livello di stress nel personale sanitario sia maggiore nei paesi che hanno gestito per primi l’emergenza pandemica e sono stati riportati punteggi significativi in stress, depressione, ansia, insonnia, paura, rabbia, ipereccitazione, dolore, reazioni post traumatiche, burnout professionale. L’analisi evidenzia come, tra i professionisti, il genere femminile sia maggiormente esposto a tali manifestazioni e come il personale infermieristico riporti livelli più elevati di stress, depressione ed ansia rispetto ad altri operatori.

I nostri risultati confermano l’impatto negativo che la pandemia di Covid-19 ha avuto sul benessere degli operatori sanitari con differenze statisticamente significative tra le seguenti variabili: sesso, anni di lavoro e ruolo professionale.

Alla luce dei risultati ottenuti nella nostra ricerca appare fondamentale attivare interventi psicologici dedicati ad operatori di area oncologica.

Tra essi, nei mesi iniziali di lockdown sono stati molto utili le help line telefoniche da remoto (Nicolò, 2021) “Esse prevedono l’accoglienza della motivazione della chiamata e comprenderne il senso. Ad esso segue un triage psicologico per raccogliere in breve tempo informazioni sulla natura e gravità del problema presentato, sulle risorse disponibili per affrontarlo. In alcuni casi può essere sufficiente un unico contatto che assume caratteristiche di counselling o un breve intervento sulla crisi. Tuttavia in presenza di sintomi persistenti, difficoltà marcate familiari, nel lavoro o nella vita sociale con rischio di complicanze e/o di suicidio o evidenza di disturbi psicopatologici maggiori viene effettuato un intervento strutturato di secondo livello con invio ad uno psicoterapeuta o psichiatra”.

Tuttavia, reputiamo più utile intervenire “a monte” sul benessere organizzativo e non dopo che il disagio si sia manifestato nell’operatore. E’ senz’altro utile offrire assistenza psicologica ai lavoratori che sviluppano, ad esempio, forti quote d’ansia legate proprio al contesto professionale e ai rischi ad esso connessi. Questo rientra nei compiti istituzionali degli psicologi ospedalieri (Vito, 2014). Tuttavia, come in medicina, anche in psicologia è decisiva la prevenzione e non solo la cura delle malattie. Ma è chiaro che per mettere mano all’organizzazione del lavoro occorre una visione sistemica che tenga conto sia della complessità inter e intra-istituzionale, sia della componente psicologica in gioco. Altrimenti, per quanto di buona volontà, può risultare perfino dannosa una lettura del disagio dell’operatore in relazione esclusivamente alle sue caratteristiche individuali. Il discorso ovviamente diviene molto ramificato. Entrare nel merito delle dinamiche organizzative comporta affrontare questioni politiche, sindacali, economiche che apparentemente non sembrerebbero di pertinenza della psicologia.

Il benessere degli operatori sanitari è garantito dal loro rispetto e dalla loro valorizzazione, che non passa solo attraverso riconoscimenti economici premiali. Da questo punto di vista, risultano essenziali, nel rispetto dei diversi ruoli presenti nelle grandi istituzioni sanitarie, la capacità di sviluppare il senso di appartenenza e il gioco di squadra.

 

Ayahuasca e autocompassione

Nell’ultimo decennio, gli effetti dell’ayahuasca hanno attirato sempre più l’attenzione dei ricercatori biomedici a causa dei suoi potenziali benefici clinici.

 

Che cos’è l’ayahuasca

 L’ayahuasca è una bevanda con effetti psichedelici particolarmente usata in Amazzonia durante rituali a scopi terapeutici (Dos Santos et al., 2017). Negli ultimi due decenni, l’uso dell’ayahuasca è notevolmente cresciuto nel mondo occidentale (Frecska et al., 2016).

L’infuso di ayahuasca è generalmente preparato decondizionando gli steli della vite Banisteriopsis caapi e combinandoli con le foglie di Psychotria viridis; questa preparazione derivata dalla pianta contiene N,N-dimetiltriptamina (DMT; González-Maeso & Sealfon, 2009).

La DMT è legata al neurotrasmettitore serotonina (5-idrossitriptamina) e induce brevi ma intense modifiche dello stato di coscienza (Strassman et al., 1994). I principali effetti sono cambiamenti percettivi, alterazione del contenuto del pensiero, intensificazione delle emozioni, introspezione, umore positivo e senso di benessere (Dos Santos et al., 2012).

Nell’ultimo decennio, gli effetti riportati dell’ayahuasca hanno attirato sempre più l’attenzione dei ricercatori biomedici a causa dei suoi potenziali benefici clinici (Frood, 2015). Diversi risultati hanno infatti riportato che l’ayahuasca e i suoi alcaloidi possono avere proprietà ansiolitiche, antidepressive e anti-dipendenza, oltre che migliorare la disregolazione emotiva (Domínguez-Clavé et al., 2016; Domínguez-Clavé et al., 2019).

Altri studi hanno invece valutato l’impatto di questa sostanza sulle capacità legate alla mindfulness (ad esempio accettazione, non reattività e decentramento); i risultati hanno dimostrato che sembra aumentare queste capacità provocando effetti simili a quelli osservati a seguito del mindfulness training (MT; Chiesa et al., 2014).

La pratica di mindfulness e l’autocompassione

Praticare la mindfulness aumenta l’autocompassione che, non solo è associata positivamente al benessere psicologico (MacBeth & Gumley, 2012), ma sembra anche fungere da strategia di regolazione delle emozioni, insegnando agli individui come affrontare il dolore e la sofferenza (Hölzel et al., 2011).

Il termine ”compassione” deriva dalla parola latina ”compati”, che significa ”soffrire con” (Strauss et al., 2016). La compassione è un aspetto fondamentale nella psicologia buddista, che non comporta solo l’essere in contatto con la sofferenza, ma anche un profondo impegno per alleviarla. La compassione può essere diretta non solo verso i nostri cari, ma verso tutto il genere umano, anche verso chi non conosciamo (Neff, 2003).

 L’autocompassione, invece, è intesa come l’atto di trasferire questi atteggiamenti verso gli altri, verso se stessi, processo che per alcuni individui è molto complicato (Jazaieri et al., 2013). L’autocompassione implica non essere giudicanti verso se stessi (a livello cognitivo), e anche essere in grado di sentire e connettersi con la propria sofferenza (a livello emotivo). Per Germer (2011) autocompassione significa prendersi cura di se stessi come si farebbe per una persona cara. Da una prospettiva buddista, Neff (2003) concettualizza l’autocompassione con tre componenti principali: gentilezza, umanità comune e consapevolezza.

Gli effetti dell’ayahuasca sull’autocompassione

Anche se nel contesto di ricerca in merito alle sostanze psichedeliche l’autocompassione ha ricevuto scarsa attenzione, diversi studi hanno dimostrato che gli individui che ricevono una psicoterapia assistita da psichedelici ottengono punteggi più alti sulle misure di accettazione e autocompassione (Malone et al., 2018). Altri studi hanno scoperto che una singola dose di ayahuasca può migliorare significativamente l’autocompassione (Sampedro et al., 2017) e che chi consuma regolarmente la sostanza sembra avere una visione più positiva del sé rispetto agli utenti ayahuasca-naive.

Sulla base di questi risultati, uno studio esplorativo di Domínguez-Clavé e colleghi (2021) ha cercato di esaminare l’effetto dell’assunzione di ayahuasca sull’autocompassione auto-riferita. I risultati hanno mostrato una differenza significativa tra i punteggi pre e post assunzione, confermando così l’ipotesi che a seguito dell’assunzione di questa sostanza è presente un miglioramento dell’autocompassione. Il miglioramento osservato sembra essere simile a quello ottenuto da uno studio di Montero-Marin (2020), che ha valutato l’effetto della Terapia della Compassione basata sull’Attaccamento (ABCT) sulla compassione verso sé stessi.

Dati questi risultati, l’aumento dell’autocompassione dopo una singola sessione di ayahuasca (contro 8 settimane di psicoterapia) è un risultato davvero promettente. L’ayahuasca potrebbe migliorare l’autocompassione più rapidamente di altri interventi; potrebbe potenzialmente essere combinata con la MT o con altre terapie specifiche basate sulla compassione (come l’ABCT) per migliorare ulteriormente questa dimensione.

A favore di quanto riportato, gli individui che fanno spesso uso di ayahuasca hanno riferito che questa sostanza ha la capacità di evocare un sentimento di amore e gentilezza verso se stessi, aumentando di conseguenza anche la componente compassionevole. In questo contesto, sembra più facile concepire l’ayahuasca come un potenziale agente per aiutare a rielaborare eventi altamente emotivi e potrebbe anche essere di interesse clinico per una potenziale nuova linea di trattamento per eventi passati traumatici o per il disturbo da stress post-traumatico. Future ricerche saranno necessarie per far luce sul ruolo dell’autocompassione nell’esperienza dell’ayahuasca, sulla sua possibile influenza sul benessere e la sua potenziale utilità clinica.

Stress e cancro: esiste una relazione?

La psiche e il sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono responsabili del mantenimento dell’omeostasi. A volte, di fronte a eventi impegnativi, la risposta dell’organismo non è adeguata in termini di intensità e durata dello stress, ciò altera l’equilibrio e determina la comparsa di diverse malattie.

 

 Il termine stress e i sintomi associati allo stress compaiono nella medicina intorno al 13° secolo. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA) è coinvolto nello stress, in particolare questo asse comprende l’ipotalamo, la ghiandola pituitaria e le ghiandole surrenali. Quando questi tre organi interagiscono insieme formano l’asse HPA, la parte più importante del sistema neuro-endocrino che controlla la reazione allo stress. Oltre a controllare lo stress, controlla anche altre importanti funzioni del corpo come: digestione, sistema immunitario, emozioni e sessualità. Oggi sappiamo che esistono molti tipi di stress e tutti hanno un effetto sull’asse HPA. La regolazione dell’asse HPA viene eseguita attraverso diversi neurotrasmettitori, ma i più importanti sono: la dopamina, la noradrenalina e la serotonina. Diverse ricerche stanno inoltre dimostrando che il neurotrasmettitore ossitocina, che è associato alle emozioni positive e al contatto sociale, ha un effetto di soppressione sull’asse HPA con conseguente riduzione dello stress. Ci sono studi che hanno dimostrato che gli ormoni dell’asse HPA possono essere associati a stress, malattie della pelle e tumori della pelle, questo succede quando si ha un’iperattività degli ormoni dell’asse HPA, nel cervello. Una condizione di stress cronico ha effetti negativi sui neuroni dell’ippocampo, provocando riduzione della neurogenesi e atrofia dei dentriti (Gregurek et al., 2015).

Negli ultimi anni sono stati pubblicati tre studi sulla relazione mente-cancro. Il primo condotto da un gruppo della Ohio University (USA), ha rilevato che un programma per la gestione dello stress riduce le recidive e migliora la sopravvivenza di persone colpite da cancro (Bottaccioli, 2014). Hanno partecipato allo studio 227 persone operate per cancro al seno, prima di iniziare le altre terapie previste sono state divisi in due gruppi: un gruppo ha seguito un programma per la gestione dello stress, l’altro invece no, l’intervento si è articolato in 26 sedute per 39 ore di lavoro. In ogni seduta sono state insegnate tecniche di rilassamento e discusse strategie di soluzione dei problemi. A 11 anni dall’inizio della malattia le persone che avevano frequentato il programma sono andate incontro a meno recidive e a una maggiore sopravvivenza rispetto al gruppo che aveva fatto solo i classici controlli medici. Anderson e collaboratori (2005) hanno inoltre notato come parecchi mesi prima della recidiva, il sistema immunitario andava incontro a un’alterazione in senso infiammatorio. Il sistema immunitario infatti è il fattore chiave dell’evoluzione della malattia tumorale.

Il secondo studio, guidato da un gruppo della Loyola University of Chicago (USA), evidenzia i cambiamenti in positivo che si realizzano nel sistema immunitario dei pazienti con cancro sottoposti a un intervento di gestione dello stress (Bottaccioli, 2014). A questo studio hanno partecipato 75 donne che erano state operate di cancro al seno (Witek-Janusek et al., 2008). Anche in questo studio le donne sono state divise in due gruppi: uno ha seguito un corso di 8 settimane, durante le sedute ha appreso tecniche antistress e meditative; l’altro invece no. Prima di iniziare l’esperimento è stata valutata la qualità della vita di queste donne, il loro livello di stress (misurando i livelli di cortisolo, principale ormone dello stress) e il livello del loro sistema immunitario (attraverso la misurazione di alcune citochine e l’attività di alcune cellule). In questa fase tutte le donne hanno riportato bassi punteggi in riferimento alla qualità della vita, alti livelli di stress e un sistema immunitario depresso. Già a metà del corso di meditazione ci sono stati cambiamenti importanti che si sono protratti fino alla fine del corso e a tre mesi dalla conclusione del programma. Le donne che avevano partecipato al corso hanno ottenuto un punteggio più alto in riferimento alla qualità della vita e i livelli di cortisolo erano più bassi rispetto alle donne che non avevano partecipato al corso di meditazione (Bottacioli, 2014).

Il terzo studio diretto dal gruppo di psicobiologia dell’Università di Londra, spiega invece che lo stress aumenta l’incidenza del cancro e aggrava la sopravvivenza. Anche questo studio ha sottolineato il ruolo fondamentale che riveste il sistema immunitario. In particolare questo studio ha dimostrato come le pazienti che meditavano riuscirono a recuperare il profilo immunitario “di una persona che è in grado di tenere a bada la spontanea formazione delle cellule neoplastiche” (Bottaccioli, 2014).

 Per decenni si è discusso sulla relazione mente-cancro. Vi erano coloro che sostenevano che “il cancro è tutto nella testa ed è da qui che bisogna cacciarlo per guarire” (Bottaccioli, 2014), e coloro che invece affermavano che il cancro altro non era che un fenomeno di genetica molecolare. Alla fine degli anni Novanta Spiegel, psichiatra della Stanford University coinvolse in un intervento per la gestione dello stress, delle donne trattate per cancro al seno; l’intervento ha migliorato sia la sopravvivenza che la qualità della vita di queste pazienti. Successivamente sono stati condotti altri studi con l’obiettivo di mettere in evidenza se la psicoterapia e la gestione dello stress sono implicati nell’incremento della sopravvivenza dei malati di cancro. Tuttavia su dieci studi, cinque risultarono favorevoli e cinque contrari (Bottaccioli, 2014). Spiegel (2002) ha spiegato questi risultati contraddittori, affermando che gli studi erano disomogenei: alcuni avevano usato la psicoterapia individuale, altri quella di gruppo e infine altri studi avevano messo insieme persone con tumori diversi a uno stadio della malattia.

La Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI)

Lo stress è il modo in cui l’organismo risponde a una sfida dell’ambiente, esterna o interna e può essere benefico o dannoso se la situazione persiste nel tempo. La Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) è definita come una scienza transdisciplinare che studia e analizza le interazioni tra la psiche e il sistema nervoso, endocrino e immunitario e le loro ripercussioni nella clinica. Nel 1984 si sviluppa la PNEI. Il sistema Psiconeuroendocrinoimmunologico comprende numerosi organi: cervello e ipotalamo (sistema nervoso), ipofisi (sistema endocrino), midollo osseo e timo (sistema immunitario) (Gonzalez et al., 2018).

Al giorno d’oggi quasi tutta la popolazione è esposta a situazioni stressanti per lungo tempo, il che causa lo squilibrio del sistema PNEI. Per questo motivo, lo stress è considerato una pandemia del nostro tempo che è correlata all’aumento dell’obesità, dell’ipertensione arteriosa e dell’aterosclerosi (Gonzalez et al., 2018). Molti pazienti a causa dello stress soffrono di manifestazioni psicosomatiche come forte mal di testa, disturbi del sonno, sensibilità ai rumori e alla luce. Atri possono soffrire di malattie infiammatorie che colpiscono diversi organi, ad esempio depressione, cancro, malattie cardiovascolari, infarti, morbo di Parkinson, malattie psichiatriche e grave affaticamento cronico (Gonzales et al., 2018). Ci sono meccanismi noti che collegano direttamente lo stress psicologico alla progressione del cancro. I cambiamenti psicologici influenzano il sistema immunitario e quindi causano un ambiente adatto per lo sviluppo del tumore e la sua progressione. Con lo sviluppo della PNEI, vi è anche un numero significativo di ricerche che stanno cercando di trovare i meccanismi di questa connessione fra il sistema immunitario e le alterazioni delle cellule maligne. Un meccanismo che potrebbe avere una stretta connessione con la genesi dei tumori è quello dell’immuno-sorveglianza. Una teoria sull’immuno-sorveglianza è stata pubblicata nell’anno 2001 e, secondo tale teoria, l’interferone-ɤ (INF- ɤ) e i linfociti prevengono lo sviluppo del tumore primario. Tra i linfociti coinvolti sono state rilevate le natural-killer (cellule NK). Le cellule NK giocano un ruolo importante nel distruggere le cellule tumorali. Alcune ricerche hanno dimostrato che lo stress può causare una caduta di INF- ɤ. Uno studio condotto tra gli studenti di medicina nei periodi di esame, Ha dimostrato che il loro livello ematico di INF- ɤ scendeva significativamente nei periodi di esame rispetto ad altri periodi dell’anno non così stressanti (Ruška et al., 2015).

Sebbene il processo patogeno dello stress non sia stato pienamente compreso fino ad ora, manifestazioni di stress cronico sono state riscontrate in condizioni diverse, ad esempio nel 70% dei pazienti con artrite reumatoide, in oltre l’80% dei pazienti con sclerosi multipla, tra il 57% e il 100% nei malati di cancro e tra il 37% e il 57% dei pazienti affetti da Parkinson. È necessario quindi sviluppare stili di vita più sani, eseguire attività fisica ed evitare situazioni di stress cronico (Gonzalez et al., 2018).

 

Master annuale: diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità – III Edizione online, Ottobre 2022

Tra ottobre 2022 e ottobre 2023 si terrà online la terza edizione del master Diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità con docenti nazionali e internazionali.

 

Perché un master sui disturbi di personalità

Secondo dati recenti, si stima che i Disturbi di Personalità abbiano una prevalenza pari al 10-12% nella popolazione generale, rappresentando una quota rilevante delle persone afflitte da una qualsiasi sofferenza psicologica. Inoltre, la comorbilità tra disturbi di personalità e disturbi sintomatologici aumenta la severità di questi ultimi e ne peggiora la prognosi. Nella pratica clinica, è frequente sperimentare difficoltà con questi pazienti: non si tratta solo di riuscire a comprendere e inquadrare fenomeni spesso molto complessi, ma anche e soprattutto di trovare una chiave relazionale che permetta il raggiungimento di obiettivi comuni. Questo pone un’importante sfida ai clinici: al di là di quanto specifica sia la richiesta o la sintomatologia emersa, è impossibile avviare, condurre e concludere una terapia senza una comprensione del funzionamento globale della persona. La personalità, quindi, non può essere un’area opzionale di indagine; essa rappresenta il tentativo incarnato dei nostri clienti di dare senso a se stessi e al mondo che li circonda. E dunque uno strumento cruciale per chi sia intenzionato ad aiutarli in modo efficace.

Attualmente esistono però numerosi sistemi per classificare e trattare i disturbi di personalità. Se prendiamo ad esempio il DSM-5 (2013) troviamo i dieci disturbi definiti in ottica categoriale (paranoide, schizoide, schizotipico, borderline, narcisistico, istrionico, antisociale, evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo) nella Sezione II del manuale, mentre nella Sezione III è presente un modello alternativo (AMPD – Alternative Model of Personality Disorders) dove si valuta il livello generale di funzionamento e i tratti disfunzionali. Nel sistema ICD-11 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità esiste un ulteriore modello dimensionale, e quasi tutte le psicoterapie più utilizzate (es. Mentalization Based Treatment, Terapia Metacognitiva Interpersonale, Schema Therapy, etc.) hanno poi loro terminologie e processi o fattori su cui impostare la diagnosi.

In breve, il clinico si confronta con una babele di linguaggi che, se danno un senso della complessità del tema oggetto di indagine, rischiano però di essere confusivi. Confrontandoci ogni giorno con le sfide che questi disturbi pongono, abbiamo deciso di proporre un programma formativo che fosse in grado di fornire ai professionisti dei solidi strumenti in termini teorici e tecnici per implementare trattamenti efficaci e evidence-based orientati alla personalità. Nel farlo abbiamo pensato al tipo di corso a cui noi per primi avremmo voluto partecipare: un percorso nel quale clinici e docenti esperti, nazionali e internazionali, illustrano in modo chiaro e replicabile le conoscenze a cui ogni giorno attingono per trattare i loro pazienti. Nel 2020-2021 è nato così il primo master italiano online sui Disturbi di Personalità organizzato da Tages Onlus, Centri Clinici Tages e Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC/SPC, attualmente alla sua terza edizione.

Piano didattico e docenti

Al master prendono parte come docenti dei clinici esperti, italiani ed internazionali, nell’ambito dei Disturbi di Personalità al fine di offrire una formazione di alto livello, basata sulle più recenti evidenze della letteratura scientifica ed in linea con gli standard delle Linee Guida Internazionali sull’argomento, con particolare riferimento alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda. La modalità didattica è interattiva e prevede, all’interno del programma, numerosi momenti di interscambio tra docenti e discenti ed esercitazioni su vignette o casi clinici portati sia dai partecipanti che dai docenti. Il master ha durata annuale e si svolgerà da Ottobre 2022 a Ottobre 2023. Le lezioni si terranno nelle giornate di sabato e domenica (1 weekend al mese per 12 mesi), ad eccezione di un paio weekend che prevedono anche il venerdì. Oltre alle ore dedicate alla didattica, sono previsti dei gruppi di discussione (con partecipazione facoltativa) durante i quali sarà possibile approfondire i temi del master e discutere di casi clinici.

La didattica (124 ore di formazione) è suddivisa in 4 moduli che aiutano in maniera progressiva e fortemente orientata alla pratica a concettualizzare e trattare un disturbo di personalità. Durante le lezioni si alterneranno alcuni tra i massimi esperti mondiali del settore come ad esempio: Barbara Basile, Anthony Bateman, Antonino Carcione, Veronica Cavalletti, Simone Cheli, Giancarlo Dimaggio, Francesco Gazzillo, Paul Hewitt, Chris Hopwood, Thomas Lynch, Cesare Maffei, Alessandra Mancini, Francesco Mancini, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Nicola Petrocchi, Raffaele Popolo, Elena Prunetti, Antonio Semerari, Carla Sharp, Susan Simpson.

Questa vasta compagine di esperti presenterà i protocolli più utilizzati nel trattamento dei disturbi di personalità, dando accesso al titolo di Master in Diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità, nonché a specifici accreditamenti da parte di società scientifiche internazionali.

 

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Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento (2021) – Recensione

Uno dei maggiori esperti nello studio della discalculia ne fornisce, nel testo Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento, un quadro descrittivo esauriente ed aggiornato, capace di analizzare tutti i principali aspetti del disturbo. 

 

 Dalla scienza all’insegnamento. L’arduo percorso anticipato dal titolo inizia con un’ampia descrizione eziopatologica, in cui viene evidenziata la presenza di un dominio cerebrale specificamente deputato all’elaborazione numerica. Importante risultante scientifico che, se da una parte contribuisce a rafforzare l’ipotesi di un’eziologia neurobiologica del disturbo, dall’altra convalida l’esistenza di una capacità numerica innata nell’essere umano.

Riprendendo un modello teorico già esposto in sue precedenti opere, Butterworth (1999) estende alla competenza numerica la connotazione di innatismo che Chomsky (1965) prospettò per la capacità linguistica, sostenendo come sia erroneo credere che il bambino, sin dalle prime fasi della vita, non possegga una strumentazione cerebrale in grado di percepire l’entità numerica, pur senza avere nessuna conoscenza- analogica, verbale o arabica- del numero.

Il mistero del modulo numerico

La conoscenza numerica è ospitata all’interno di uno specifico dominio cerebrale, una sorta di kit di partenza che consente di esercitare precocemente la capacità di subitizing, intesa come istinto percettivo del numero. Questo nucleo, denominato Modulo Numerico, si trova in corrispondenza del solco temporale, e costituisce la base indefettibile per la conoscenza semantica del concetto di quantità.

È grazie all’attivazione di questa area che il cervello è capace di suddividere il mondo in termini di numerosità e di attribuire agli oggetti la connotazione di identità separate. Ovviamente si tratta solo di una base di partenza: la capacità di comprensione del modulo numerico non va oltre il numero 3; il suo progressivo arricchimento sarà legato all’azione interattiva tra fattori individuali- inerenti caratteristiche genetiche e stadio evolutivo- e fattori socio-culturali, riferiti alla scolarizzazione e alla familiarizzazione con la dimensione aritmetica. Tanto più questa area cerebrale verrà attivata con stimolazioni mirate, tanto più riceverà uno sviluppo quantitativo e qualitativo, affinando le proprie competenze.  Al contrario, un esercizio deficitario o non continuativo comporterà una compromissione della competenza numerica e una parziale atrofia dell’area cerebrale corrispondente.

L’apprendimento matematico può essere stimolato già in età prescolare, mediante la somministrazione, da parte della famiglia, di stimoli specifici con cui il bambino può approcciarsi alla conoscenza rudimentale del numero. I genitori devono favorire la costruzione di un contesto comunicativo e interattivo che prenda in considerazione la dimensione matematica, dimostrandone le ricadute applicative nella realtà quotidiana. Certo questo non riesce ad evitare lo sviluppo di una discalculia, ove se ne presentino le condizioni biologiche specifiche, ma serve quanto meno ad agevolare la conoscenza matematica in tutti i casi in cui non esistano impedimenti all’apprendimento della stessa.

La disfunzionalità del modulo numerico

Affermare l’esistenza di una predisposizione innata all’intelligenza numerica implica riconoscere che, in alcuni soggetti, le aree deputate al processamento numerico possano risultare deficitarie, e dunque più vulnerabili rispetto alla media. L’autore identifica questo svantaggio con il termine di deficit nucleare, perché relativo alla disfunzionalità di quello stesso nucleo cerebrale che fornisce la chiave di lettura di ogni informazione a carattere numerico presente nella realtà, oltre che nei libri di matematica. Non è certo difficile immaginare come un discalculico mostri serie difficoltà non soltanto nell’apprendimento delle tabelline e nella scrittura delle cifre, ma anche nella lettura dell’orologio e nella memorizzazione dei numeri telefonici. Da qui una compromissione del processo evolutivo e della qualità della vita, che può condurre all’adozione di strategie compensatorie ancor più disfunzionali e dannose. L’autore riporta il caso paradossale di un ragazzo inglese che, pur di mascherare la propria incapacità di destreggiarsi con resti e pagamenti alla cassa, prese ad organizzare piccoli furti nei negozi, arrivando addirittura a farsi arrestare!!

 Il deficit nucleare può essere dovuto a molteplici cause, di cui il testo riporta precisa descrizione: una vulnerabilità genetica, che rende possibile una familiarità al disturbo, condizioni soggettive del neonato, come il basso peso, la sofferenza fetale, una nascita prematura; comportamenti inadeguati assunti durante la gestazione, quali ad esempio stress perinatale, alimentazione insufficiente o sregolata, assunzione di fumo, alcool o psicofarmaci. A tal proposito la FAS, sindrome generata dall’assunzione di alcolici durante la gravidanza, comporta un’esposizione al disturbo particolarmente elevata, dato come la sua presenza patologica provochi la disfunzionalità di quelle stesse aree cerebrali necessarie al processamento numerico, tra cui la sostanza bianca e i lobi parietali. Dal punto di vista neurologico viene citata la sindrome di Gertseman, in cui un’agnosia digitale compromette una rappresentazione mentale delle dita e la costruzione di un funzionale orientamento sx-dx. Possiamo solo immaginare quanto questo possa rivelarsi un fattore oppositivo all’apprendimento matematico, soprattutto nelle prime esperienze di conteggio, in cui l’utilizzo delle dita- counting on fingers – si mostra uno strumento di ausilio assolutamente indefettibile.

Dalla diagnostica alla politica sociale: il messaggio del testo

In ambito diagnostico l’autore evidenzia la necessità di operare una distinzione tra diagnosi orientata alla valutazione e diagnosi orientata al sostegno, la prima importante per identificare la presenza oggettiva del disturbo, e la seconda per favorire l’applicazione di programmi di recupero individuali, ciclici ed intensivi, modellati sulle caratteristiche della zona prossimale del soggetto.

Dal punto di vista didattico viene ribadita la necessità di costruire una didattica individuale e personalizzata, per questo più attenta ai bisogni e alla capacità dell’allievo che alle tempistiche didattiche; è necessario avanzare a piccoli passi, limitare il carico di memoria e traslare i numeri in una dimensione concreta, per strappare la matematica a quei connotati di inconoscibilità e di astrattezza che, specie per un discalculico, possono mostrarsi eccessivi. Il numero deve diventare un oggetto concreto, da manipolare e controllare, per ottenere sullo stesso quel feedback visuo-sensoriale così importante nelle prime fasi dell’apprendimento.

La flessibilità dello stile didattico può tradursi anche nell’impostazione di lezioni alternative rispetto a quelle canoniche, in cui vengono valorizzate le potenzialità interattive e creative degli allievi, in modo da favorirne l’interesse e la motivazione, anche mediante l’impiego di programmi digitali.

Tutto questo senza pretendere troppo né colpevolizzare eventuali regressioni, errori o incidenti di percorso. La paura del numero è controproducente all’apprendimento della matematica e di qualsiasi altra materia, oltre a trasmettere il messaggio, ben poco educativo, che spinge a colpevolizzare le difficoltà, anziché provare a limitarle.

Certo la scuola non può fare tutto da sola. I programmi di ausilio sono costosi, così come i cicli di potenziamento e i trattamenti di recupero. Grande impegno, sotto questo punto di vista, deve essere assunto dalle politiche istituzionali, chiamate a sostenere con contributi finanziari gli strumenti riabilitativi che si rendono di volta in volta necessari. Non solo impegno economico, tuttavia: le istituzioni devono impegnarsi nella creazione di politiche di sostegno volte a riconoscere il disturbo discalculico e a legittimarne l’esistenza, in vista di un più agevole inserimento socio-lavorativo.

È necessario che l’orientamento inclusivo trovi continuità nel contesto extra scolastico, affinché il discalculico possa attuare sul lungo termine quegli stessi progetti cui la scuola lo ha motivato, prospettandone la realizzabilità.

La discrasia tra modelli teorici ed attuazioni pratiche deve essere quanto più possibile ridotta. Nessuna vena polemica, da parte dell’autore, ma un appello esplicito a tutti quegli organismi istituzionali che possono rendere la gestione del disturbo discalculico in linea con una continuità di intenti e coerenza degli obiettivi che “parta dall’alto”.

Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento. Fino alle istituzioni, potremmo aggiungere.

Il testo lancia un messaggio diretto e concreto, in coerenza con uno stile espressivo altrettanto risoluto: la scienza e la didattica non devono percorrere binari paralleli, ma tracciare percorsi flessibili, destinati all’incontro e all’integrazione multidisciplinare. Questo avverrà se le scoperte scientifiche non resteranno mere dissertazioni da laboratorio, ma verranno effettivamente trasferite nel contesto scolastico e socio-istituzionale, ove potranno esplicare la propria efficacia attuativa. Perché una difficoltà non diventi un limite insormontabile è necessario un impegno collettivo, da parte del micro come del macro sistema. In vista dell’obiettivo finale, e tuttavia primario: valorizzare il discalculico come allievo e come persona.

Una breve panoramica sul comportamento aggressivo nel gaming

Rispetto al gaming patologico, gli adolescenti sono la categoria più esposta al rischio di sviluppare un comportamento aggressivo, specialmente il genere maschile, che sembra essere quello che gioca di più a videogiochi di tipo violento.

 

La socialità del gaming

 A discapito degli stereotipi esistenti sulla solitudine dei gamers, ovvero dei giocatori di videogiochi, più del 60% di loro pratica l’attività del gaming, ovvero l’attività di giocare ad un videogioco, con altri gamers (Hilvert-Bruce e Neil, 2020). Questa socialità è in realtà un fenomeno con due facce della stessa medaglia. Infatti, mentre sono presenti giocatori che condividono momenti di divertimento, felicità e tutti i sentimenti positivi che possono derivare dalla pratica di un videogioco online, esistono anche molte persone che durante il gioco non riescono a godersi pienamente le sensazioni positive ed esperiscono sentimenti negativi come la rabbia, l’eccessivo nervosismo e il tilt (inteso come la perdita di concentrazione prima, dopo o durante una partita), attuando comportamenti aggressivi nei confronti della community, rovinando quindi l’esperienza di gioco propria e di tutti gli altri giocatori. Il mondo del gioco online, detto multiplayer, è caratterizzato da fenomeni come il trash talking, letteralmente “discorsi spazzatura”, ovvero l’insieme di insulti, minacce e provocazioni nei confronti degli altri giocatori. L’obiettivo consiste nel provocare una reazione emotiva che possa compromettere la concentrazione dei giocatori avversari, o dei propri compagni di squadra, se questi vengono percepiti inutili.

Esistono molti studi scientifici sul legame tra videogiochi violenti e aumento dell’aggressività nei giocatori (Fischer et al., 2010). Infatti, sembra che i contenuti violenti e aggressivi nei videogiochi possano aumentare la frequenza di pensieri, emozioni e comportamenti aggressivi, oltre ad aumentarne l’intensità (Fischer et al., 2010). Questa aggressività sembra intensificarsi quando il gamer passa molto del suo tempo a giocare (Lemmens et al., 2011). Infatti, è stato dimostrato che spendere troppo tempo a giocare, oltre a incrementare l’aggressività, può inoltre favorire la comparsa di numerosi sintomi come sensazione di perdita di controllo, preoccupazione, ritiro sociale, conflitto interpersonale e intrapersonale (Lemmens et al., 2011).

L’aggressività nel gaming

 I comportamenti aggressivi sono associati al gaming patologico, in quanto essi ne sono una conseguenza, e ciò sta diventando un problema sempre più diffuso in molte famiglie (Lemmens et al., 2011). Esiste tuttavia una grande differenza tra il gaming eccessivo e il gaming patologico (Lemmens et al., 2011). Nonostante in entrambi i casi l’individuo dedichi molto del suo tempo al gioco, nel primo caso non si riscontrano effetti dannosi, invece nel secondo caso si parla proprio di incapacità di controllare il tempo che viene dedicato al gaming, anche se ciò può comportare problematiche emotive e sociali (Lemmens et al., 2011). Rispetto al gaming patologico, gli adolescenti sono la categoria più esposta al rischio di sviluppare tale comportamento, specialmente il genere maschile, che sembra essere quello che gioca di più a videogiochi di tipo violento (Lemmens et al, 2011). Una possibile spiegazione della forte aggressività associata al gaming patologico potrebbe essere il fatto che l’aggressività interpersonale è una caratteristica tipica di qualsiasi dipendenza, come per esempio la dipendenza da sostanze, la dipendenza da alcool e la dipendenza da gioco d’azzardo (Lemmens et al., 2011). É stato inoltre dimostrato che videogiochi con contenuti aggressivi aumentano l’associazione automatica tra l’aggressività e la percezione di sé stessi (Fischer et al., 2010). Infatti, è possibile che il giocare online con lo scopo di vincere sia una modalità che i giocatori utilizzano per soddisfare alcuni bisogni come quello di sentirsi competenti e quello dell’autonomia (Monge e O’Brien, 2022). Le persone sono molto motivate a soddisfare questi bisogni, tanto che una mancata realizzazione di essi può portare l’individuo ad esperire forte aggressività e frustrazione. Se il gamer vede la vittoria della partita come un passo per raggiungere la realizzazione dei suoi bisogni, è anche vero che i suoi compagni di squadra possono essere visti come un peso, qualora non dimostrassero delle skills sufficienti per aiutarlo a vincere. Di conseguenza, il giocatore potrebbe sentirsi giustificato ad attuare i comportamenti aggressivi citati in precedenza verso i propri compagni di squadra.

Conclusioni

In conclusione, l’eccessiva aggressività che viene riscontrata nel mondo del multiplayer è un fenomeno che è sempre più necessario monitorare, in quanto rovina l’esperienza di gioco di sempre più giocatori, arrecando danno alle communities. Sarebbe utile sensibilizzare i giocatori riguardo la regolazione delle emozioni e incrementare la loro consapevolezza rispetto agli effetti che i comportamenti aggressivi possono avere sugli altri (Sharma et al., 2022).

 

Mi scappa la pipì. L’Enuresi notturna nei bambini

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo ‘Mi scappa la pipì. L’Enuresi notturna nei bambini’ su come prevenire la cronicizzazione del disturbo e sostenere i genitori nel ristabilire un equilibrio familiare.

 

L’enuresi è un disturbo piuttosto frequente, ogni anno i bambini che soffrono di enuresi notturna sono circa 5-7 milioni. Fare pipì a letto è una condizione che interessa il 5-10% dei bambini di età pari a 7 anni e che tende a ridursi progressivamente nel corso del tempo. È bene sapere che il 3% dei maschietti e il 2% delle femminucce può continuare a fare la pipì a letto anche a 7-8 anni, fino a 10 anni. Ma l’aspetto più importante è il riconoscimento precoce di questo fenomeno e l’intervento ragionato dei genitori, al fine di evitare un’ingiusta e dannosa colpevolizzazione del bambino e tensioni all’interno del nucleo familiare. Tale disturbo può avere infatti conseguenze rispetto l’area psicologica, in particolar modo può influire sull’area sociale del bambino portandolo a ritirarsi e a sperimentare inadeguatezza e vergogna. A ciò possono aggiungersi vissuti di incomprensione ed emozioni di rabbia e talvolta disgusto da parte di chi accudisce il bambino. L’intervento cognitivo-comportamentale ha lo scopo di intervenire sia con il bambino che con i genitori per prevenire la cronicizzazione del disturbo e sostenere i genitori nel ristabilire un equilibrio familiare.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Martina Torresi, Psicologa, Psicoterapeuta.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

Affrontare la diagnosi di diabete in età evolutiva

Una volta pronunciata la diagnosi di diabete, essa si ripercuoterà ad ampio raggio in tutti i contesti in cui il paziente, in questo caso il “piccolo paziente”, vive e vivrà; il nucleo familiare perciò, come conseguenza diretta, subisce una riorganizzazione volta ad accogliere i cambiamenti che la malattia porta con sé.

 

Introduzione

Il diabete mellito, definito nel linguaggio comune “diabete”, è una malattia cronica che si verifica quando il pancreas non produce abbastanza insulina o quando il corpo non può utilizzare efficacemente l’insulina che produce (WHO, 2021). Esistono vari tipi di diabete, diversificabili a seconda della tipologia di fattori intervenienti, di ordine genetico ed ambientale.

Nel presente lavoro ci si soffermerà in particolare sul diabete di tipo 1, che colpisce la fascia d’età infantile, adolescenziale e dei giovani adulti. In bambini e adolescenti, in Italia, si ha una incidenza media di 12,26 nuovi casi/100.000/anno, con variazioni anche importanti tra le varie regioni (Bruno G., et al, 2010). Verranno trattate le fasi psico-comportamentali che si devono affrontare per arrivare all’accettazione della malattia, sia dal punto di vista del piccolo paziente, che dei caregiver di riferimento. Inoltre, attenzione verrà data in particolare al ruolo fondamentale dello Psicologo in ambito ospedaliero, il quale mette a disposizione il proprio sapere al fine di “accompagnare” sia il paziente che tutta la sua famiglia nel difficile percorso che inizia dalla diagnosi e si predispone per un’intera vita. La famiglia, infatti, risulta essere bersaglio indiretto della malattia, dovendo procedere a una riorganizzazione sul piano della quotidianità per tutti i suoi membri.

L’attenzione nazionale alla malattia diabetica: il PND

Nel 2013 il Ministero della Salute ha emanato il “Piano Nazionale sulla malattia diabetica”, dove sono state sottoscritte linee guida clinico organizzative da osservare su tutto il territorio nazionale, insieme agli obiettivi, generali e specifici, da perseguire. All’interno del documento vengono affrontati argomenti che vanno dalla prevenzione alla gestione della malattia, passando per la diagnosi precoce e al miglioramento dell’assistenza. In linea generale, il Piano esplicita i principali punti dell’assistenza alla malattia cronica in un’ottica multidisciplinare e multiprofessionale, raggruppando così le diverse figure verso pratiche e obiettivi condivisi. L’obiettivo è quello di avere, progressivamente negli anni, un miglioramento del benessere e della qualità di vita delle persone con una malattia cronica come il diabete. Si consolida l’abbandono della vision strettamente medica, per favorire una presa in carico ad ampio spettro.

Il percorso di cura e assistenza non è costituito quindi solamente dal ricovero in ospedale, ma diventa continuo, con la necessità nel tempo di rivalutazioni, educazione, supporto al cambiamento nello stile di vita, i quali possono essere effettuati in ambulatori o day-hospital, oppure in strutture dedicate sul territorio.

Nello specifico, in riferimento all’età evolutiva, il Ministero della Salute si pronuncia così: l’attività di un singolo pediatra diabetologo, senza un supporto dedicato ed esperto in diabetologia pediatrica (infermieristico, psicologico, dietologico, socio-sanitario, ecc.), non è coerente con le funzioni assistenziali richieste per gestire tale complessa patologia pediatrica (Commissione Nazionale Diabete, Ministero della Salute, 2013).

Il bambino con una malattia per tutta la vita

Per malattia cronica si intende una patologia che durerà dal momento del suo esordio per tutto il corso della vita. Più specificatamente, sono condizioni che interferiscono con il funzionamento quotidiano per più di tre mesi all’anno o che richiedono ospedalizzazione per almeno un mese all’anno (Perrin J. M., 1985). In questo tipo di malattie non si osserva una completa guarigione, bensì, soprattutto nel caso specifico del diabete, un adattamento dello stile di vita ad esso, con una conseguente soddisfacente qualità di vita.

Una volta pronunciata la diagnosi di diabete, essa si ripercuoterà ad ampio raggio in tutti i contesti in cui il paziente, in questo caso il “piccolo paziente”, vive e vivrà (Balbo V., 2016); il nucleo familiare perciò, come conseguenza diretta, subisce una riorganizzazione volta ad accogliere i cambiamenti che la malattia porta con sé.

Il diabete necessita di una consistente attenzione, soprattutto per quanto riguarda il trattamento: il paziente, infatti, è responsabile per il 95% della propria terapia (Ciechanowski P. S., et al, 2002). Tramite questo 95% si comprende la rilevazione più volte al giorno dei tassi glicemici, l’autosomministrazione dei farmaci, le particolari attenzioni al piano alimentare e la regolamentazione dell’attività fisica. Si tratta di pratiche difficili da seguire in piena autonomia, almeno per i primi tempi, per un bambino.

Una delle conseguenze a livello psicologico derivante dall’avere una malattia cronica consiste nel mutamento dell’immagine di sé: soprattutto nella fase d’esordio viene percepita una sostanziale perdita di controllo nella gestione del proprio corpo, e più in generale della propria vita, andando a minare, di conseguenza, il benessere soggettivo (Musacchio N., et al, 2013).

La malattia può dunque incidere sulla qualità di vita direttamente tramite gli effetti dello stato di malattia e/o dei trattamenti, o indirettamente tramite i cambiamenti conseguenti nel funzionamento psicosociale (Snell C., et al, 2010).

In età evolutiva l’insieme di tutti questi nuovi aspetti non sempre può risultare chiaro, il bambino infatti si può ritrovare emotivamente coinvolto, sotto shock per gli improvvisi cambiamenti, spaventato per la sua situazione di salute, incerto del suo futuro. Differentemente che in età adulta, in età evolutiva gli aspetti maturativi non sono ancora completi e possono subire delle perturbazioni a causa della malattia tanto da interferire nella formazione e nella percezione della propria immagine (De Carlo N.A., et al, 2012). Spesso, successivamente alla diagnosi, affiorano paure tipiche, come quella di morire, della perdita dell’autonomia, o dell’avere danni irreversibili all’incolumità fisica. Diventa quindi indispensabile un supporto multidisciplinare al bambino, e nel complesso a tutta la famiglia, a partire dalle prime fasi della malattia, sottolineando l’importanza del sostegno psicologico che, grazie a specifiche metodologie e all’insegnamento di determinate strategie e tecniche, può accompagnare il nucleo verso la conoscenza e accettazione della diagnosi, fino ad un adattamento alla nuova quotidianità. Infatti, in base alle indicazioni delle società scientifiche tra cui l’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), la Società Italiana di Diabetologia (SID) e la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), l’intervento psicologico è parte integrante del modello multidisciplinare di risposta ai bisogni di salute delle persone con diabete (Tomai M., et al, 2018).

L’esordio: il primo contatto con l’ospedale

Nel corpo di un bambino, dopo un periodo in cui la malattia è ancora silente, il deficit insulinico a poco a poco inizia a manifestarsi attraverso i sintomi specifici. Due sono le possibilità di contatto ospedaliero: con carattere d’urgenza, attraverso quindi il pronto soccorso durante una situazione di acutizzazione estrema dei sintomi; oppure attraverso il ricovero programmato (solitamente in situazioni di esordio in cui vengono eseguiti accertamenti preventivi alla fase acuta) (Favalli V., et al, 2017).

Il ricovero in ospedale è, sia per il bambino che per la famiglia, un evento con potenziale traumatico. Il bambino si trova improvvisamente in un corpo che non riconosce più, un corpo che gli provoca dolore e che l’ha portato a trascorrere un periodo in un ambiente diverso dalla sua quotidianità e con persone estranee. I genitori, dall’altro lato, devono sommare ai normali carichi gestionali quotidiani (casa, lavoro, famiglia), il peso di vedere il proprio figlio sofferente e con una malattia che durerà per tutta la vita.

Dopo la diagnosi di diabete, il rischio primario per il piccolo paziente è lo sviluppo di problemi psicologici riguardanti l’adattamento: non è semplice accettare continui prelievi ematici, rilevazioni dei livelli glicemici, visite specialistiche e l’inizio di una terapia. Il bambino proverà la paura oltre che della malattia stessa, anche dell’ospedale, conseguenza della costretta separazione dal suo ambiente quotidiano (Capurso M., 2008). Questa nuova esperienza, inoltre, avviene in modo veloce e il susseguirsi degli eventi non sempre gli permette un’adeguata elaborazione, anche calibrata in base alla giovane età. È utile quindi soffermarsi sul suo vissuto di dolore per il tempo necessario affinché abbia una corretta comprensione di ciò che gli sta accadendo. I vissuti d’irrequietezza e di ansia, che nella maggior parte dei casi compaiono in associazione al ricovero ospedaliero, derivano anche dal fatto che le abitudini giornaliere vengono stravolte: ad esempio, il bimbo dovrà dormire in un letto che non è il suo, dovrà rispettare determinati orari e seguire precisi trattamenti, non sarà sempre insieme ad entrambi i genitori, difficilmente giocherà con bambini di sua conoscenza, si dovrà relazionare per la maggior parte del tempo con medici e infermieri, con fatica troverà un suo spazio accettato come “intimo e privato”. Il bambino sperimenta una sorta di violazione del proprio corpo da parte di persone estranee, che devono attuare procedure necessarie collegate alla sua malattia; la percezione della sua integrità corporea viene così inevitabilmente minata. L’insieme di queste pratiche ha quindi effetti secondari sul bambino di natura psicologica, proprio per questo motivo la figura dello Psicologo è fondamentale per spiegare al bimbo, alla famiglia, ma anche a tutta l’équipe ospedaliera, la strategia migliore per affrontare questo momento.

La famiglia gioca un ruolo importante in questo momento così delicato: le risorse presenti al suo interno devono essere individuate e utilizzate strategicamente con l’obiettivo comune di creare una “squadra” unita che lavora per il benessere del piccolo. Per i genitori stessi, la fragilità del proprio bambino, sia perché piccolo di età, sia per l’immaturità affettiva, rende l’esordio del diabete particolarmente drammatico (Zito E., et al, 2012).

Soprattutto durante i primi giorni in cui il bambino si trova ricoverato in ospedale, è essenziale, per tutto il team, riuscire a creare un clima di fiducia sia con la coppia genitoriale, attraverso una comunicazione chiara e semplice, che con il piccolo, evitando ad esempio l’attuazione delle procedure tramite l’inganno o la non spiegazione di ciò che gli sta accadendo con un linguaggio adatto ad un bambino. Se l’intero nucleo avrà la percezione di trovarsi in un ambiente a misura di bambino, con persone competenti, che sono disponibili al dialogo e comprensive della situazione extra-ordinaria in cui si trova la famiglia, si riusciranno a gettare le basi per costruire una sana relazione terapeutica. Una relazione terapeutica di qualità è determinante al fine dell’adesione al trattamento (Miselli V., 2011). Quella che in inglese viene detta “compliance” o “adherence” alle cure, altro non è che l’obiettivo che l’équipe diabetologica persegue attraverso il lavoro in stretta collaborazione per creare piani di trattamento personalizzati su ogni paziente. Gli aspetti psicologici incidono sull’accettazione e gestione della patologia e, per favorire la compliance, è auspicabile che la consulenza psicologica diventi parte dell’iter terapeutico fin dall’esordio (Falco G., et al, 2015).

L’impatto della diagnosi sul sistema famiglia

La diagnosi di diabete viene comunicata alla famiglia e, successivamente, al bambino, dall’équipe medica. È importante che questa comunicazione sia il più possibile chiara, ma anche rassicurante e realistica per quanto riguarda il percorso da intraprendere e ciò che fondamentalmente diventerà la nuova quotidianità. I genitori attraverseranno, da qui, vari momenti in cui prevarranno diversi sentimenti: potrebbero passare dalla rabbia, dal sentirsi incompresi, dalla solitudine, da un senso di irrealtà, dallo sconforto; cercheranno una maniera per sfuggire alla diagnosi, magari chiedendo un diverso parere medico, inizieranno a fare ricerche personali per informarsi su tutto ciò che riguarda questo nuovo mondo. Mamma e papà hanno cercato con preoccupazione una risposta alla loro domanda sul “perché mio figlio sta male?”, ma proprio quando i medici hanno risposto con una diagnosi, questa diventa di difficile accettazione.

La diagnosi si immette nel ciclo di vita della famiglia come evento disorganizzante, mettendo a dura prova il senso di continuità e minando, almeno al momento della sua ricezione, il progetto di vita futuro. I genitori di un figlio che ha una diagnosi di malattia cronica non sono preparati ad affrontare la malattia del figlio e spesso possono essere spaventati dall’interferenza della malattia sul ciclo vitale (Catastini P., et al, 2000).

Il momento successivo alla diagnosi è per la coppia genitoriale particolarmente carico di vissuti di colpa irrazionali, quasi come se la causa della malattia del figlio fosse quella di non essere stati in grado di generare un figlio sano, ma al contrario, di averlo fatto nascere con qualcosa di sbagliato, che gli provoca sofferenza (sentimento provato soprattutto dalla madre). Entrambi i genitori, ancora, sperimenteranno il senso di fallimento delle loro cure, non essendo stati genitori sufficientemente bravi nella protezione del figlio, causandone la malattia. Tra padre e madre saranno comunque diversificati i tempi di reazione e i comportamenti annessi: ognuno di loro avrà la propria reazione all’evento, chi prima, chi dopo, pur provando entrambi un forte dolore.

Una famiglia funzionale deve attuare un bilanciamento tra le proprie risorse e le proprie vulnerabilità, in relazione alle numerose richieste che la malattia impone nel corso del tempo (Moi G., 2013). Il fine ultimo del percorso che la famiglia inizierà dal momento della comunicazione della diagnosi è costruire insieme un nuovo modello di normalità.

Ruolo importante è rivestito anche dall’eventuale presenza di fratelli e/o sorelle. L’esordio diabetico fa sì che, almeno per un primo momento, la concentrazione e la preoccupazione dei genitori siano tutte rivolte verso il figlio malato. Fratelli e/o sorelle possono esperire vissuti di “abbandono”, percependo i genitori affettivamente lontani; possono subentrare sentimenti di rabbia, gelosia, aggressività rivolti al fratello malato, in quanto è diventato il centro delle attenzioni della famiglia creando scompiglio nella quotidianità. È a volte osservabile anche l’insorgenza di meccanismi come il senso di colpa, per essere il fratello e/o sorella ingiustamente sano/a, le somatizzazioni, per i vissuti non detti e non elaborati, i comportamenti ritirati per non “infastidire” i genitori, già sufficientemente impegnati ad occuparsi di chi sta più male di loro. Si rende quindi necessario spiegare ai genitori che le possibili reazioni di diversa natura dei fratelli e/o sorelle sono gli effetti normali di una situazione verificatasi all’improvviso (Luciano E., 2013).

È importante che anche i fratelli e/o sorelle partecipino alle comunicazioni che avvengono tra lo staff medico e il paziente/famiglia. Lo scopo è far sentire loro parte integrante del nucleo, favorendo la costruzione di una relazione di fiducia, dove possono sentirsi liberi di porre domande ed essere ascoltati e compresi. Se i fratelli vengono coinvolti nel percorso di cura e viene spiegato loro cosa sta accadendo, capiranno che il loro fratello ha esigenze particolari e accetteranno sin da giovanissimi le sfide poste a loro e alla loro famiglia; così facendo, inoltre, il fratello si sentirà sicuro e capace di gestire eventuali emergenze sanitarie nel caso dovessero verificarsi (Commodari E., et al, 2019).

L’équipe sanitaria ha l’importante compito di tenere insieme le fila della famiglia, in quanto ogni suo componente ricopre un ruolo importante affinché possa ristabilirsi (dopo una fase iniziale di shock) un clima di serenità, dato dal ritorno alla normalità quotidiana. Questo, di conseguenza, ha significativi effetti benefici anche sulla salute stessa del paziente, per una positiva ed efficace gestione della malattia.

Accettare la malattia

Accettare di avere un figlio malato, o di essere un bambino malato, non è semplice ed immediato. La convivenza con una malattia cronica richiede innanzitutto un periodo per adattarsi strategicamente ad essa; bisogna tenere in considerazione che nel tempo essa può anche evolvere, possono intervenire eventi critici con conseguente messa in discussione e ripianificazione della quotidianità, e ancora, e ancora.

Gfeller R. e Assal J. P. (1979), hanno descritto il processo adattivo che avviene nelle persone con diagnosi di diabete mellito dividendolo in sei fasi. Queste non hanno mai una netta demarcazione e la durata ed intensità di ognuna è imprevedibile. Nello specifico:

  • Fase di shock: la diagnosi della malattia per il paziente potrebbe diventare un evento traumatico. Viene persa la coscienza identitaria, minata dalla perdita della visione del proprio corpo in piena salute. L’impatto primario è quello di stupore, seguito dal sentimento di disorientamento. L’intero nucleo famigliare risente della notizia ed essa ha un forte impatto su tutti i suoi componenti: inizialmente prevarrà l’angoscia dell’incerto, di ciò che non si conosce, portando inevitabilmente a pensare al peggio. Le reazioni tipiche possono essere la rabbia, oppure al contrario un isolamento inerte. Questa è la fase in cui non c’è ancora un controllo da parte del paziente alla sua malattia, il quale si affida totalmente alle scelte dell’équipe medica per quanto riguarda il trattamento.
  • Fase di negazione: in questa fase avviene il rifiuto della diagnosi, della malattia in sé. Solitamente si presenta dopo la fase di shock, ed è contraddistinta da frasi come “non è possibile”, “non ci credo, vi sbagliate”, che possono provenire sia dal paziente stesso, che dalla coppia genitoriale. In questo momento la malattia cronica non è tollerabile dal punto di vista dell’accettazione, perciò viene attuato nei suoi confronti il netto distacco, tendendo ad escluderla inconsapevolmente dalla propria coscienza. La negazione viene letta come un tentativo per guadagnare il tempo necessario affinché tutto il sistema attui una riorganizzazione.
  • Fase di ribellione: superata la fase di negazione, con il trascorrere del tempo si sviluppa una presa di coscienza della realtà, che porta all’esplosione di emozioni come la paura e la rabbia. La prevalenza di questi due sentimenti porta a reazioni di attacco, come l’assunzione di atteggiamenti oppositivi, o di fuga, come l’evitamento delle cure. La rabbia può essere diretta agli operatori sanitari, alla famiglia, e anche contro il proprio corpo. In questa fase è decisivo il supporto psicologico da parte dell’équipe sanitaria, in quanto è il momento in cui si manifesta la massima vulnerabilità, appellando una richiesta di aiuto implicita. La famiglia, messa a dura prova in questa fase, deve dimostrare una forte tolleranza e comprensione della situazione, affinché, insieme al paziente, si possa arrivare all’obiettivo dell’accettazione della malattia.
  • Fase della contrattazione: a partire da questo momento, il paziente tenta di scendere a compromessi con il personale sanitario e la famiglia attuando un negoziato in merito ai comportamenti da assumere e le terapie da seguire per avere uno stile di vita che gli consenta di convivere in maniera accettabile con il diabete. Si possono manifestare anche tentativi di manipolazione delle relazioni e dei messaggi provenienti dall’équipe medica, assumendo talvolta un carattere provocatorio. In questa fase il bambino inizia a prendere coscienza della “anormalità” della sua situazione, esaminando passo per passo che cosa sarà in grado di fare.
  • Fase della tristezza meditativa: in questa fase il paziente inizia ad accettare di perdere alcuni aspetti che fino a prima aveva considerato parte della propria identità. La negazione e l’opposizione alla diagnosi fin qui portate avanti lasciano il posto alla tristezza che deriva anche da un senso di sconfitta. Sopraggiungono il pianto e l’abbassamento del tono dell’umore, prevalgono i momenti in solitudine raccolti nel silenzio, alla ricerca di sé stessi, di un nuovo equilibrio. Si inizia da qui a pensare a una proiezione della propria vita nel futuro e alla riorganizzazione della quotidianità. Da sottolineare che questo è un momento di transizione, di durata variabile e soggettiva, ma da non confondere con esordio depressivo, che risulta essere l’estremo patologico del fallimento del passaggio alla prossima fase.
  • Fase dell’accettazione: questa fase contrassegna il passaggio ad una piena elaborazione di ciò che è accaduto nella propria vita e ad una sua conseguente accettazione. Il paziente giunge alla comprensione che con la malattia si può convivere, che si possono riprendere le normali attività, seppur modificandone alcuni particolari, che il nuovo assetto di vita non preclude la crescita e sviluppo personale. La persona ha acquisito una nuova capacità di far fronte ai cambiamenti, attraverso un adattamento attivo che gli permetterà di essere protagonista principale delle scelte sulla propria vita. Quest’ultima fase dona inoltre una nuova visione della realtà, meno superficiale rispetto a prima, offrendo nuovi spunti di riflessione e inducendo anche un cambiamento di prospettiva nel pensiero di vivere “nonostante” il diabete, piuttosto che vivere ora “con” il diabete. La comunicazione con il personale sanitario e con la famiglia viene qui riattivata, dando la possibilità di instaurare rapporti di fiducia e collaborativi. Qui inizia il percorso per cui tutti lavorano verso lo stesso obiettivo: il benessere della persona con diabete.

In tutte le fasi sopra elencate, per i molteplici aspetti che riguardano la vita del paziente, si rende necessaria quindi la presenza costante della figura dello Psicologo a supporto del piccolo e della sua famiglia, al fine di accompagnare il nucleo dall’esordio di diabete alla dimissione dall’ospedale e nei seguenti follow-up.

Lo Psicologo in ospedale

Gli interventi terapeutici al paziente diabetico sono di tipo multidisciplinare: il piccolo avrà frequenti contatti con diverse figure sanitarie, ognuna partecipante, per quanto riguarda la sua professionalità, alla gestione del suo trattamento. Per evitare la percezione di frammentarietà delle varie prese in carico, da diversi anni all’interno degli ambienti sanitari si usa strategicamente il lavoro in équipe, dove viene perseguito l’obiettivo comune dell’alleanza terapeutica. È così che Diabetologi, Dietisti, Pediatri e Psicologi lavorano in sinergia per ogni singolo bambino. La futura adesione alle cure viene determinata soprattutto dalla qualità dell’investimento posto nella relazione terapeutica.

Nel caso di piccoli pazienti, il lavoro relativo alla fiducia si rende ancora più delicato: essenziale sarà trovare le giuste modalità di approccio ponderate in base all’età per far comprendere innanzitutto il perché della loro presenza in ospedale. Affinché si instauri un rapporto di fiducia è necessario non mentire mai al bambino: il fatto che sia “piccolo” non implica che non possa capire, bensì è necessario fornirgli adeguate modalità di comprensione per la sua fase di sviluppo. Bisogna porre la giusta attenzione anche alle promesse che vengono fatte al bambino, perché lui riporrà in queste molte aspettative.

Importanti mediatori di questa alleanza risultano essere i genitori: il figlio, soprattutto se molto piccolo, si fiderà innanzitutto dei comportamenti agiti da mamma e papà. Attraverso le loro espressioni ed emozioni, il bimbo capirà se potersi fidare (e affidare) delle persone estranee che tentano di entrare in una prima relazione con lui. Il lavoro dello Psicologo è di intervenire per il raggiungimento dell’adesione alle cure attraverso l’orientamento dei sanitari verso la modalità comunicativa più consona per il nucleo in oggetto.

Il diabete esige molto dalla famiglia in cui esordisce, per questo il supporto psicologico è un percorso indispensabile per accompagnare il piccolo e la sua famiglia verso la sua accettazione.

La relazione terapeutica che si instaurerà con un bambino, oltre all’uso del colloquio clinico come avviene per gli adulti, dovrà essere provvista di altre metodologie su misura del piccolo paziente che mirano alla comprensione di ciò che sta avvenendo nel suo corpo: brevi racconti, favole, giochi, disegni e altro ancora. Il mondo del bambino è spensierato e colorato, così deve esserlo un ospedale infantile attento ai suoi pazienti.

Le tipologie di intervento utilizzate dagli Psicologi sono per la maggior parte concentrate sul rinforzo delle risorse già presenti in famiglia e sull’acquisizione di abilità e competenze (skills) nuove e funzionali ad una migliore autogestione delle cure. In ambiente ospedaliero gli interventi mirano specialmente alla conoscenza del mondo interno del paziente e della famiglia (lavoro sulle emozioni), alla modificazione di alcuni aspetti comportamentali disfunzionali legati alla gestione della malattia, e alla riduzione di eventuali conflitti presenti in famiglia, promuovendo l’informazione e l’adozione di stili comunicativi più funzionali in vista della convivenza con il diabete per tutta la vita, supportando il nucleo in questo difficile percorso.

Il colloquio è lo strumento d’elezione a disposizione dello Psicologo per entrare in relazione con il paziente e i suoi caregivers. In ambito ospedaliero le consulenze sono centrate sul qui-e-ora per poter offrire uno spazio esclusivo volto alla riflessione in merito ai vissuti legati alla malattia. Gli ambiti presi in considerazione, solitamente, riguardano: l’informazione e l’esplicitazione di eventuali difficoltà, ansie, timori, paure, legate all’ospedalizzazione e al percorso di cura; le limitazioni alla quotidianità che il bambino dovrà affrontare; eventuali difficoltà familiari; possibili altre patologie intervenienti o preesistenti; l’indagine sull’esistenza di eventi stressanti cui il nucleo ha già dovuto far fronte. Ci si dovrà soffermare ed esplorare il significato che il diabete rappresenta per ciascun membro, non dimenticando mai che l’impatto di una malattia cronica colpisce la ridefinizione della routine quotidiana anche di fratelli o sorelle, se esistenti.

Ogni fascia d’età implica una diversa modalità di approccio dello Psicologo al bambino: sotto ai 2 anni il colloquio consisterà sostanzialmente in un’osservazione clinica dei comportamenti agiti dal paziente e dalla sua famiglia, sommata al colloquio clinico orientato sui genitori per avere un chiaro quadro di anamnesi evolutiva del figlio. La relazione con il bimbo verrà creata tramite attività come giochi strutturati creati apposta per il suo stadio di sviluppo o racconti di fiabe. Tra i 2 e i 7 anni il colloquio con il bambino avverrà mediante l’osservazione clinica di attività di gioco strutturate, la produzione di disegni, la lettura di favole prodotte appositamente per essere utilizzate durante l’educazione terapeutica. Attraverso queste tecniche, lo Psicologo lavora sul versante della psicoeducazione sia sul bambino, che, indirettamente, sulla famiglia. Dai 7 ai 10 anni, il piccolo paziente è in grado di sostenere un colloquio clinico con domande tarate per la sua età. In età adolescenziale il colloquio clinico sarà condotto tramite domande aperte ed ascolto attivo: le aree di indagine saranno più vaste e profonde rispetto a quelle prese in considerazione durante l’infanzia, si esploreranno gli stili di coping, le aspettative e i timori rispetto al futuro, le immaginazioni rispetto a come sarà il rientro a casa e tra la cerchia dei pari.

A supporto dei colloqui clinici si prende in considerazione anche l’uso di eventuale materiale psicodiagnostico con tarature in base all’età. L’utilizzo di test psicometrici è prevalente nei colloqui di follow-up, per misurare l’impatto della malattia al rientro a casa e il livello di riorganizzazione funzionale adottato. Il colloquio di follow-up solitamente viene pianificato in contemporanea con il controllo in diabetologia: lo Psicologo, finché lo riterrà necessario, continuerà a programmare gli incontri psicologici-psicodiagnostici di supporto al paziente e alla famiglia. L’obiettivo dei colloqui di follow-up è arrivare alla piena comprensione dello stato di malattia e ad un adattamento strategico, comprensivo dell’autogestione della terapia calibrata in base all’età.

Il colloquio clinico con i genitori del paziente è finalizzato alla conoscenza del nucleo e della propria storia precedente allo stato di malattia, ad eventuali eventi stressanti sopravvenuti in passato e all’attuale modalità di funzionamento e di comunicazione. Compito dello Psicologo è anche predisporre il contesto extra-ospedaliero al rientro del piccolo: importanti sono le informazioni alla famiglia in merito a servizi socio-sanitari che offre il territorio (eventuale contatto con Associazioni di zona che si occupano di diabete in età pediatrica), da non dimenticare, infine, la predisposizione del rientro a scuola e nella cerchia di pari. A questo proposito gli alunni con malattie croniche riferiscono di sentirsi aiutati quando compagni e insegnanti sono portati adeguatamente a conoscenza della loro malattia e quando vengono sostenuti dai docenti nell’integrazione sociale e nelle attività disciplinari (Capurso M., 2006).

Conclusioni

In linea generale, le tecniche comunicative con il bambino si sostanziano di diverse modalità di approccio, sempre tenendo conto dell’età del piccolo. Durante i primi contatti con il nucleo, è fondamentale spiegare al bambino in termini rassicuranti e positivi il perché della sua permanenza in ospedale, chi sono tutte le figure estranee che si occupano di lui, anticipare, infine, le procedure cui sarà sottoposto per permettergli di porre domande e non avere paura dell’incerto. Non sarà necessario scendere in particolari superflui, che potrebbero avere l’effetto contrario di creare confusione e ansia in quanto non comprensibili a pieno.

Una patologia entra nel sistema famiglia come evento disorganizzante: è sconvolgente pensare che il proprio figlio è malato, ancor più se la diagnosi è composta dalle parole “malattia cronica”. L’accettazione di una malattia per tutta la vita non è cosa facile, nemmeno immediata: per questo insieme di motivi il lavoro dello Psicologo si rende imprescindibile durante tutto il percorso in ospedale, e anche fuori, se necessario.

Il benessere del piccolo è il fine ultimo del lavoro di tutta l’équipe, sia dal punto di vista prettamente organico, che dal punto di vista emotivo-cognitivo.

 

Cos’è il craving nella sfera alimentare?

Il food craving è definito come il desiderio incontenibile di cibo, ove è presente l’inabilità o la difficoltà di gestione alimentare da parte della persona (Holtzman, 2019).

 

L’assunzione incontrollata di cibo è stata indagata in studi che si focalizzano su cibi ipercalorici: in termini fisiologici e psicologici, si ipotizza che l’impatto dello zucchero su determinate aree cerebrali contribuisca ad un’attivazione simile a quella fornita da sostanze come l’eroina e altri oppiacei (Davis & Carter, 2014; Drewnowski, 1992; Rodriguez-Martin & Maule, 2015; Tanda & di Chiara, 1998) o che tale tipologia di craving sia innata, probabilmente perché in passato avere accesso ad un tipo di cibo più nutriente era un rinforzo elevato (Gearhardt et al., 2012; Ventura & Mennella, 2011).

L’eziologia del food craving

I modelli che includono i fattori culturali nell’eziologia del craving ipotizzano l’esistenza di un desiderio innato nei confronti di determinate sostanze (come cibi ipercalorici) che, se consumate, vengono vissute in modo ambivalente a causa di restrizioni per la salute o per rispecchiare un determinato canone corporeo (Holtzman, 2019). Mintz (1985) ha scritto un rendiconto storico sulla divulgazione dello zucchero in Europa, dimostrando che il desiderio di dolcezza è una spiegazione insufficiente per spiegare il suo utilizzo e la sua diffusione, in quanto sono presenti anche molti fattori culturali, politici ed economici potenzialmente influenti. Un recente lavoro sulle differenze alimentari cross-culturali dimostra l’esistenza universale di diverse credenze e pratiche riguardo al cibo, non solo in termini di alimenti, bensì anche riguardo a come si mangia, a ciò che ha un determinato sapore e ai sentimenti che sono la causa e la conseguenza dell’assunzione di cibo (Batsell et al., 2002; Berzok, 1991; Duruz, 1999; Harbottle, 1997, Holtzman, 2019).

Alcune teorie in questo ambito si strutturano sulla polarità esistente tra il desiderio di mangiare cibi golosi e la necessità di evitarli. Di conseguenza, sono presenti dei limiti sulla comprensione del food craving su cibi salutari oppure sull’incontrollabilità sperimentata all’interno di società dove non viene posta l’enfasi sulle restrizioni nei confronti di determinati alimenti (Holtzman, 2019).

Nello specifico, Hormes e Rozin (2010) hanno osservato come in molte lingue non esista un termine che traduca la parola “craving”, portando gli autori a domandarsi che cosa sia una “naturale” esperienza culinaria umana rispetto ad un’esperienza costruita in termini culturali, come la restrizione o il desiderio di assunzione (Hormes & Niemic, 2017). Le abitudini alimentari giapponesi possono essere un interessante punto di confronto: nonostante l’elevato consumo di alimenti specifici o abitudini precise da anni (come le bacche di gogji o l’educazione sull’assunzione di cibo salutare), i dati sanitari indicano nel 2005 un incremento del tasso di obesità, circa del 3,2% (OECD, 2005).

Il food craving nella cultura orientale

Holtzman (2019) ha svolto una ricerca per comprendere la connotazione orientale di desiderio verso il cibo. È stato somministrato un questionario ad un campione composto da 130 Giapponesi residenti a Tokyo (con un’età compresa tra i 19 e i 78 anni) per comprendere la frequenza, le caratteristiche e le rappresentazioni esistenti riguardo al food craving in Giappone (Holtzman, 2019). Nello specifico, ai soggetti è stato chiesto di valutare la frequenza di assunzione, il gradimento provato e il livello di desiderio nei confronti di 116 cibi e bevande comunemente disponibili. I dati ottenuti sono stati confrontati con altri, raccolti attraverso la somministrazione del Food Craving Inventory (White et al., 2001) e del Food Preference Questionnaire (Geiselmann et al., 1998), per facilitare un confronto con studi precedentemente svolti in popolazioni non giapponesi. È interessante notare come il food craving è riportato dal 63,1% del campione, mentre il 74,6% riporta il desiderio di consumare solo determinati alimenti, e come i cibi assunti in modo incontrollato variano notevolmente da quelli consumati in occidente, maggiormente densi di chilocalorie e meno salutari. I dati ottenuti dalla ricerca di Holtzman (2019) mostrano come l’elemento più desiderato in Giappone sia il riso (43,8%), seguito da bevande energizzanti (35,4%) e the caldo (24,6%). Altri prodotti alimentari citati sono insalata (18,5%), ramen (17,7%), riso al curry (16,9%), kaarage (cioè pollo fritto cinese, 13,1%) e sashimi (16,2%). Oltre a fornire un confronto interculturale, questo studio suggerisce una ridefinizione concettuale del craving alimentare stesso e un maggior approfondimento sulla gamma di fattori motivazionali e delle sensazioni che lo elicitano (Holtzman, 2019).

 

Le lacrime di gioia come espressione emotiva del senso della vita – Intervista al Dr B. Paoli

Le lacrime di gioia come espressione emotiva del senso della vita, l’intervista video a Bernardo Paoli sulla ricerca recentemente pubblicata.

 

Il pianto di gioia, un’esperienza emotiva a tutt’oggi poco esplorata e conosciuta, ed ecco che uno dei ricercatori coinvolti, durante i suoi viaggi tra India e Giappone, comincia ad indagare il rapporto che intercorre tra lacrime di gioia e senso della vita.

Nata dal lavoro di Bernardo Paoli, Rachele Giubilei ed Eugenio De Gregorio, la ricerca viene poi pubblicata in lingua inglese sulla rivista scientifica Frontiers in Psychology.

Una ricerca qualitativa molto originale, che a partire dal ruolo adattivo delle emozioni e dall’influenza culturale sulle stesse, ha provato a mettere a fuoco tre dimensioni mediante la realizzazione di un’intervista semistrutturata presente e consultabile nell’appendice della ricerca (i link e riferimenti alla fine dell’articolo):

  • Lacrime di gioia (TOJ – Tears of joy);
  • Significato della vita (MOL – Meaning of life);
  • Caratteristiche personali.

I risultati della ricerca in questione sono stati da me poi approfonditi con uno degli autori, Bernardo Paoli (Fig. 1), psicologo, psicoterapeuta, formatore e divulgatore attivo sul web in merito a tematiche inerenti la psicologia, scrittore ed autore di diversi libri e pubblicazioni, che ringrazio per la disponibilità offertami per la realizzazione della video intervista.

Lacrime di gioia e senso della vita Intervista a Bernardo Paoli Fig 2

Fig. 1: Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta

Il primo quesito rivolto a Bernardo Paoli ha riguardato proprio la nascita di tale ricerca.

La sua ricerca, racconta, doveva essere più ampia, ma come ci spiega lo stesso, un privilegio della ricerca qualitativa è anche quello di partire con un’idea e lasciare poi che le cose accadano.

Nata dall’indagare su come la cultura incida sul vissuto e l’espressione delle emozioni nelle persone, si è man mano focalizzata in particolar modo su come le persone vivessero le lacrime di gioia, spinti anche dalla scarsa letteratura in merito ed il considerare la stessa come una sottocategoria della gioia, una gioia talmente grande che per autoregolarsi spinge il nostro organismo ad attivarsi al fine di per autoregolare tale esplosione di gioia.

Bernardo Paoli continua a raccontarci che la sua intuizione da psicoterapeuta ha guidato la strutturazione della ricerca, mettendo insieme il pianto di gioia ed il senso della vita.

L’ipotesi iniziale, dunque, è stata quella di considerare che il pianto di gioia possegga una sua specificità, ossia di sottolineare le esperienze che si collegano al senso della vita delle persone e nello specifico al raggiungimento di obiettivi molto importanti da una parte, ed il senso di connessione profonda con gli altri dall’altra.

Ho chiesto inoltre di spiegare alcuni punti divulgati dallo stesso, in merito ai risultati della ricerca in oggetto, di seguito riportati:

  • Chi non piange di gioia tende a descriversi in modo “duro”, come una persona molta sicura di sé.
  • Si piange di gioia anzitutto raggiungendo un importante traguardo personale.
  • L’inattesa felicità del pianto di gioia si rende più facilmente accessibile a chi desidera con forza raggiungere un obiettivo, ma non è del tutto sicuro delle proprie capacità.
  • Il profilo tipico che è emerso durante le interviste, è quello di un essere umano che piange di gioia poche volte nella vita, ritiene che la vita abbia senso, e che il senso della vita corrisponda anzitutto nell’aiutare gli altri e ritiene che vi sia una forte connessione fra il senso della propria vita e gli episodi in cui ha pianto di gioia.

Spiega Bernardo Paoli che una delle caratteristiche del pianto di gioia sembra essere che lo stesso nasca come qualcosa di inaspettato. I termini infatti più utilizzati dagli intervistati in merito al pianto di gioia, racconta l’autore, sono stati: Felicità, Inaspettato e Raggiungimento.

Continua a spiegare Bernardo Paoli, che un ulteriore risultato che è stato messo in risalto consiste in un collegamento stretto tra il non piangere di gioia e la rigidità rispetto al proprio vissuto emotivo. I giapponesi, cultura che non facilita l’espressione delle emozioni, sembra tendono a piangere molto meno, mai o una sola volta nella vita (media età del campione 42-43 anni), a differenza degli indiani, età media del campione 24-26 anni, che tendono a piangere 3-4 volta nella vita.

Sembra dunque, dai dati di tale ricerca, che i soggetti che descrivono se stessi in maniera molto “dura” tendano a piangere meno di gioia, all’opposto invece chi vive di più il pianto di gioia per situazioni come la nascita del figlio, il conseguimento e completamento di un percorso di studio, il matrimonio, il senso di connessione con il proprio gruppo. La cosa inoltre sorprendente per i ricercatori è stata la descrizione di un non riconoscimento delle proprie abilità che Bernardo Paoli legge come qualcosa di estremamente positivo per il benessere psicologico dell’individuo in quanto questo livello di incertezza è anche quello che consente di elevare la performance ed al tempo stesso di vivere questa gioia traboccante quando si arriva a raggiungere un risultato importante.

Bernando Paoli aggiunge inoltre la lista dei termini con cui le persone hanno descritto l’esperienza del pianto di gioia:

  • Istantanea
  • Istintiva
  • Inattesa
  • Incomprensibile
  • Significativa
  • Potente
  • Emozionante
  • Scioccante
  • Travolgente
  • Rilevante
  • Estesi
  • Di vittoria
  • Di conquista
  • Ho avuto un insight
  • Ho avuto una comprensione profonda
  • Mi sono sentito libero
  • Mi sono sentito amato, speciale…
  • Mi sono sentito sulla strada giusta
  • Mi sono sentito felice
  • Ha avuto un grosso impatto su di me

Quanto emerso dalla ricerca, ha spinto e sostenuto sempre di più l’ipotesi di partenza dunque, ossia che il pianto di gioia è un qualcosa di più che una sottocategoria della gioia, mettendolo in relazione per l’appunto quest’ultimo con il senso della vita.

 

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La radicalizzazione violenta: fattori di rischio e linee di intervento

La radicalizzazione è una strategia finalizzata a convincere le persone ad abbracciare opinioni e idee radicali con l’ausilio dei social media e del web.

 

Sono trascorsi oltre 20 anni dagli attacchi terroristici che colpirono gli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Tali eventi avviarono una “scia di sangue” che si è propagata anche nel nostro continente attraverso una lunga serie di attentati (28 fra il 2004 e il 2019) nelle principali capitali e città europee. In tale contesto, la comprensione delle motivazioni che possono spingere un individuo a compiere simili gesti è quanto mai necessaria per poter definire le misure di prevenzione e di mantenimento della sicurezza nazionale.

Una nuova strategia di reclutamento

La struttura organizzativa dei gruppi terroristici è profondamente diversa rispetto a quella che era stata conosciuta nei primi anni del nuovo millennio (Sageman, 2004). La reazione della comunità internazionale ha, infatti, reso necessaria l’attuazione di nuove modalità di funzionamento che, attraverso una fitta rete di “cellule operative e silenti” in varie aree del mondo, hanno consentito di progettare e di finalizzare azioni criminali contro obiettivi civili o militari e di mantenere, al contempo, un adeguato standard di reclutamento incentrato sul complesso fenomeno della radicalizzazione (McGilloway et al, 2015). Quest’ultima è una strategia di alimentazione finalizzata a convincere le persone ad abbracciare opinioni e idee diffuse con l’ausilio dei social media e del web (European Union Agency for Law Enforcement Cooperation, 2018), a mantenere il proprio impegno radicale, a compiere azioni violente di natura terroristica (Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio, 2005) contro il proprio ambiente sociale o a fuggire per riunirsi ad altri militanti in aree di guerra (Campelo et al., 2018). Questa è una tendenza crescente in Europa, infatti secondo le Autorità circa 5.000 cittadini hanno lasciato il nostro continente per raggiungere la zona di conflitto iracheno-siriano di cui almeno 2.500 hanno deciso di combattere per Daesh.

Cosa accresce la vulnerabilità degli individui?

Gli adolescenti ed i giovani adulti (di cui una su tre è una donna) sono particolarmente esposti al rischio di radicalizzazione poiché attraversano una fase turbolenta dell’esistenza (Oppetit et al., 2019) in cui sono alla ricerca di una identità (Feddes et al., 2015), più inclini all’imitazione e più vulnerabili alle influenze esterne. La provenienza da un ambiente familiare problematico rappresenta un importante fattore di rischio perché accresce la fragilità agli stress e facilita il consolidamento del convincimento di non possedere le capacità di affrontare gli eventi della vita e di integrarsi nel proprio contesto sociale. Inoltre, il COVID-19 ha aumentato la dipendenza dai social media e ha diffuso l’idea di dover affrontare un futuro sfavorevole o irto di difficoltà. Per questo motivo, una parte importante della letteratura ritiene che la presenza di una malattia psichiatrica sia la principale causa di un impegno radicale e della partecipazione ad attività violente. Nel panorama scientifico non esiste, tuttavia, una uniformità di vedute. Una fronda emergente di esperti sta riconsiderando queste affermazioni, ritenendo che la presenza di una patologia non rappresenti la conditio sine qua non per poter giustificare la scelta di compiere crimini di natura terroristica (Schulten et al., 2019). Una precaria salute mentale, infatti, può incidere con modalità diversificate da caso in caso sulla condotta di un individuo. Inoltre, se è comune identificare problemi sanitari negli estremisti solitari (Zeman et al., 2018), tale quadro tende a modificarsi fra gli individui che agiscono in gruppo (Misiak et al., 2019), attestandosi a livelli statistici di massima vicini a quelli riscontrati nell’ambito della popolazione generale. Le “dinamiche del branco”, peraltro, agevolano il superamento delle difficoltà connesse con l’isolamento sociale, facilitano la gestione dello stress e delle emozioni, sostengono i processi di decision making o problem solving (Thijssen et al., 2021), offrono un quadro di valori e di relazioni che è di supporto alla resilienza e fornisce agli individui una visione più chiara e positiva di sé.

La religione è un fattore determinante?

È un comune convincimento che esista un rapporto di causa-effetto che lega il terrorismo alla religione. Ciò ha indotto gli esperti a ritenere che il contrasto all’estremismo religioso sia la linea d’azione da preferire per contrastare il dilagante fenomeno della violenza. Tale scelta ha consentito il proliferare di stereotipi negativi che hanno alimentato la paura e la discriminazione nei confronti di ciò che è considerato “diverso”. L’estremismo religioso, tuttavia, non è un argomento riconducibile ad una mera valutazione binaria “buono – cattivo” e richiede un esame multidimensionale per poter identificare le condizioni che rendono più probabile il ricorso ad azioni violente. In tale prospettiva, è necessario chiarire che la religione non rappresenta un rischio se vissuta come una libera espressione del culto di un Dio i cui precetti sono rivolti a creare un cambiamento positivo (Esposito, 2002) e a ricercare la pace e la fratellanza dei popoli. Diversamente, la situazione può diventare critica quando prevalgono indicatori politici (es. l’allineamento delle norme giuridiche ai precetti religiosi), sociali (es. il rifiuto di una coesistenza pacifica con altri gruppi religiosi), teologici (l’imposizione di un Dio autoritario che ordina e punisce i peccatori) e rituali (es. il mancato riconoscimento della libertà di culto) che descrivono la fede come  un mezzo per affermare un potere politico, per reprimere le libertà individuali, i diritti universalmente riconosciuti e la democrazia.

In conclusione

Non sono ancora noti tutti i meccanismi che spingono un individuo a compiere atti di natura terroristica. È possibile che simili comportamenti derivino da una interazione fra psicopatologia ed estremismo religioso (Vermeulen, 2022), ma è altresì probabile che questo processo risenta della propaganda dei centri jihadisti o dell’influenza esercitata da gruppi familiari o di amici. La multidimensionalità (Wibisono et al., 2019) di queste cause, la validazione di tecniche di indagine e di strumenti di valutazione (Barracosa, March, 2022) coniugati a interventi di social support risultano necessari per poter individuare situazioni potenzialmente a rischio (Bronsard et al., 2022), sostenere la popolazione nei momenti di difficoltà, infondere fiducia per il futuro, limitare la dipendenza dai social media e, conseguentemente, l’efficacia dei meccanismi della radicalizzazione.

 

Meditare con la vita (2022) di A. Montano e V. Iadeluca – Recensione

Meditare con la vita racchiude in sé una duplice natura: un manuale teorico che spiega cosa sia la mindfulness e una guida pratica per approcciarsi alla pratica. Edito da Erickson rappresenta il lavoro a quattro mani di Antonella Montano e Valentina Iaddeluca nato da anni di pratica e formazione sul tema.

 

La pratica della mindfulness è sempre più frequente negli ultimi tempi ma chi si è mai approcciato alla pratica, soprattutto agli inizi, avrà pensato cosa si debba fare per meditare con consapevolezza. Per tutti quelli che si vogliono approcciare alla mindfulness o per chi, dopo alcuni tentativi iniziali, vuole impegnarsi con costanza, Meditare con la vita è il volume da avere nella libreria.

Il titolo “Meditare con la vita” evoca il concetto proprio della pratica rappresentato dal vivere e dall’instaurare una relazione vera e autentica con la realtà, sperimentando la pratica in maniera incarnata, ovvero in prima persona. Composto da 11 capitoli, 248 pagine totali, le autrici definiscono il libro uno strumento per avvicinarsi alla mindfulness per chi ha deciso di dedicarsi ad apprendere quell’arte del vivere che la meditazione di consapevolezza rappresenta.

Oltre all’indice consueto di ogni volume, un secondo indice appare tra le prime pagine, elencando una lista di tredici esercizi di consapevolezza e nove indicazioni per la pratica. Il primo esercizio di consapevolezza si trova già nell’introduzione al volume. Il libro è suddiviso in tre sezioni principali che affrontano tematiche diverse inerenti la mindfulness, al suo interno appare costellato da numerose citazioni estratte dal lavoro di maestri che, come definiscono le autrici, si identificano guerrieri della quiete.

La prima sezione del libro è dedicata all’introduzione del concetto di mindfulness (presentata con la parola respiro), alle sue caratteristiche e al suo sviluppo nel corso del tempo. Segue una riflessione sul modo in cui la pratica della mindfulness si sia inserita nel mondo occidentale, termine che utilizzo in questa recensione per distinguerlo dalle zone orientali del mondo da cui la pratica coglie principi che diventano poi laici. Questa sezione appare estremamente importante per rendere consapevole il lettore di quale significato e quale base teorica la pratica presenti, ricordando che il volume nasce principalmente per chi si approccia per la prima volta alla pratica e dunque ne deve capire l’origine e i principi.

La seconda parte del libro introduce e guida il neo-praticante sulla strada dell’avvicinamento alla mindfulness nelle sue diverse forme. Viene affrontata per prima la meditazione seduta, passando per quella camminata, generalizzando infine alle pratiche informali e non strutturate ovvero quelle che è possibile svolgere quotidianamente in tutti i momenti della giornata.

L’ultima sezione appare diversa dalle precedenti, affronta infatti il tema del ruolo della pratica all’interno delle professioni di cura. Questa sezione appare dedicata non solo ai professionisti interessati, ma a chiunque voglia capire il modo in cui la mindfulness si declina nell’aiuto delle persone. Vengono infatti presentati protocolli specifici per la riduzione dello stress in generale e il modo in cui questi protocolli standard pensati per l’età adulta possano declinarsi anche per le fasce d’età più piccole.

L’idea di base da possedere prima di iniziare il percorso guidato dal volume è che si debbano sperimentare gli esercizi per scoprirne il significato, il potere e l’utilità. Le autrici suggeriscono di tenere con sé un taccuino per annotare, qualora se ne senta il desiderio, le emozioni e le sensazioni che fluiscono dalle pratiche con la duplice finalità di costruire un diario del percorso da rileggere in un secondo momento.

Dal punto di vista della lettura, il linguaggio e lo stile di scrittura appaiono divulgativi e dedicati ad un ampio pubblico, seppur presenti al suo interno delle digressioni scientifiche e una sezione completamente dedicata a professioni scientifiche (le indicazioni bibliografiche sono fornite per permettere l’approfondimento personale).
Nota di merito per le illustrazioni presenti nella seconda sezione e per la decisione di riquadrare gli esercizi della pratica così che siano facilmente identificabili e fruibili.

Il volume si conclude con una parte dedicata alle informazioni sull’Istituto Beck di Roma – di cui la Montano è fondatrice e direttrice – e su centri buddisti, associazioni e istituti presenti all’interno del panorama nazionale e interazione che si occupano di pratica meditativa e di mindfulness a diversi livelli.

Concludendo, Meditare con la vita rappresenta un volume guida per muovere i primi passi nella pratica profonda della mindfulness presentandola in tutti i suo aspetti storici, teorici e scientifici, fino ad arrivare alle indicazioni pratiche per svolgere le sessioni formali e informali. Consigliato a chi non ha mai praticato mindfulness e vi si approccia per la prima volta, ma anche per chi, incuriosito, desidera sviluppare autonomamente la pratica di consapevolezza, nonché ai professionisti che scorgono nei protocolli basati sulla mindfulness una tecnica di aiuto maggiore per i propri pazienti.

 

Ruminazione e suicidio

Rogers e colleghi (2021) hanno svolto una ricerca per comprendere se alcune caratteristiche del pensiero ruminativo (come frequenza, durata, controllo percepito e contenuto) siano correlate ad un incremento di ideazioni, piani e tentativi di suicidio.

 

Impatto del suicidio

Nel 2014, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riportato, come ogni anno, che più di 800.000 persone sono morte a causa di un suicidio. Il suicidio è la morte causata da un atto di autolesionismo intenzionale, ideato per essere letale (Moutier, 2021). Il comportamento suicidario comprende il suicidio compiuto (atto intenzionale di autolesionismo letale), il tentato suicidio (atto intenzionale, con o senza lesioni, orientato al decesso ma che non è risultato letale) e l’ideazione suicida (atti preparatori, che includono pensieri, comportamenti e pianificazioni relative al suicidio) (Moutier, 2021).

Nel 2019, i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (Disease Control and Prevention; CDC) in America hanno mostrato un aumento delle persone che tentano il suicidio a causa di un incremento dei pensieri e dei comportamenti associati alle ideazioni suicidarie. Oltre alla sofferenza associata ai suicidi, l’onere economico è sbalorditivo, in America ammonta circa a 44,6 miliardi di dollari all’anno (CDC, 2019).

Suicidio e ruminazione

Indagando i pensieri alla base delle tendenze suicide, si è visto come la ruminazione – stile di pensiero ripetitivo, orientato al passato e focalizzato sulle emozioni negative e sulle potenziali cause, sul significato e sulle conseguenze del proprio disagio e della propria sofferenza (Nolen-Hoeksema et al., 1991; 2008) – sia potenzialmente collegata alla messa in atto di comportamenti fatali (Morrison & O’Connor, 2008; Rogers & Joiner, 2017; Rogers et al., 2021). La letteratura ha esaminato se questo stile di pensiero negativo può informare sui possibili esiti correlati al suicidio (Fresco et al., 2002; McEvoy et al., 2013). Si ipotizza che una mancanza di controllabilità percepita sulla propria ruminazione, a lungo termine, possa portare ad una progressione lungo un “continuum suicida” (ad esempio, passare dall’ideazione suicidaria a dei veri e propri piani, oppure dai piani ai tentativi; Rogers et al., 2021).

Rogers e colleghi (2021) hanno svolto una ricerca per comprendere se alcune caratteristiche del pensiero ruminativo (come frequenza, durata, controllo percepito e contenuto) siano correlate ad un incremento di ideazioni, piani e tentativi di suicidio. Il campione era composto da un totale di 548 partecipanti: il 39,4% riportava di aver avuto delle ideazioni suicidarie nel corso della vita, il 15,7% riportava di aver avuto dei piani e il 12,6% riferiva di aver messo in atto dei veri e propri tentativi di suicidio. La Beck Scale for Suicide Ideation (Beck & Steer, 1991) evidenziava come circa due quarti del campione (26,6%) mostrasse la presenza di ideazioni suicidarie ricorrenti. Oltre alla scala per valutare l’ideazione suicidaria, sono state poste delle domande per indagare il contenuto ruminativo (“Quali sono le cose successe in passato che creano preoccupazione o su cui rumini?”), la controllabilità percepita (“Quanto spesso senti che la tua ruminazione su eventi passati sia difficile da controllare?”), la durata (“Quanto tempo spendi a ruminare su eventi successi in passato?”) e la frequenza (“Quanto spesso ti preoccupi o rumini su eventi accaduti in passato?”). La Lifetime Suicide Plans/Attempts è stata somministrata per verificare la presenza di piani e tentativi di suicidio, mentre il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) per misurare la gravità del rimuginio e della preoccupazione generale. I risultati ottenuti hanno messo in luce una correlazione significativa tra tutte le variabili tranne qualche eccezione: la durata della ruminazione non era significativamente correlata ai tentativi di suicidio durante l’arco della vita, il contenuto ruminativo riguardo alla salute non era correlato ai piani o ai tentativi di suicidio, e il contenuto ruminativo sugli sforzi quotidiani non era correlato all’ideazione suicidaria attuale e ai piani o ai tentativi durante il corso della vita (Rogers et al., 2021).

Dato che la controllabilità percepita è associata all’ideazione suicidaria, ai piani e ai tentativi di suicidio durante il corso della vita, tale elemento potrebbe essere un fattore chiave di rischio lungo un continuum suicidario. Per validare quest’ipotesi, gli autori suggeriscono di replicare lo studio in futuro, utilizzando disegni longitudinali e una varietà di metodologie su popolazioni diverse (Rogers et al., 2021).

 

Emergenza Ucraina: gli psicologi volontari operativi ad Ugovizza – Comunicato Stampa

Emergenza Ucraina: due psicologi sul confine italiano ogni settimana da un mese, già dieci partiti e tornati e altri due in servizio per la sesta settimana consecutiva. È questa la missione a cui SIPEM SoS Federazione partecipa su richiesta del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile

Comunicato stampa redatto da SIPEM SoS Federazione (Società Italiana di Psicologia dell’Emergenza – Social Support)

 

Due psicologi sul confine italiano ogni settimana da un mese, già dieci partiti e tornati e altri due in servizio per la sesta settimana consecutiva. È questa la missione a cui SIPEM SoS Federazione, la Società Italiana di Psicologia dell’Emergenza Social Support, partecipa su richiesta del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile. Il team socio-sanitario presidia dal 4 aprile il campo di Ugovizza (UD) della Protezione Civile Friuli Venezia Giulia, dove transitano i rifugiati ucraini che hanno appena superato il confine con l’Italia, diretti nel nostro paese dopo essere fuggiti dalla guerra.

La SIPEM che fa parte della Protezione Civile, mette a disposizione volontari psicologi formati nella gestione degli eventi emergenziali e fornisce assistenza psico-sociale a chi, dopo giorni estenuanti di viaggio, arriva per trovare la pace.

Il team SIPEM cambia ogni settimana, con il passaggio di consegne che avviene prima online assieme al Coordinamento Nazionale Maxi Emergenze e poi in presenza la domenica o il lunedì tra i volontari in arrivo da tutta Italia. Fino ad ora hanno partecipato otto regioni (Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche,Toscana e Veneto) ma la previsione è di continuare per tutto il mese di maggio.

Il team socio-sanitario è stato costituito dal Dipartimento per mettere a disposizione del Friuli Venezia Giulia e le Forze dell’Ordine, oltre agli psicologi anche assistenti sociali, infermieri e soccorritori coadiuvati da un interprete. In uno spazio ristretto e in tempi limitati l’intervento degli psicologi è diretto ad adulti e bambini, provati dalla guerra e dal viaggio che giunti alla loro meta finale mostrano segni di sofferenza psichica e scompensi emotivi, se non addirittura i primi sintomi di disturbi da stress e trauma.

È bastato poco, come rendere più accogliente il presidio con un muro di disegni fatti dai bambini: le parole in ucraino lasciano ai successivi passanti un segno tangibile che quello è finalmente un posto sicuro. Laddove non arrivano le parole infatti, arrivano le immagini e la gentilezza di una mano che offre tè caldo (chai, in ucraino, hanno imparato a dire tutti).

La situazione è complessa ma potenzialmente molto bella e forte – racconta Massimo Crescimbene, storico volontario della sezione Lazio che ha partecipato alla terza missione – Polizia, Esercito, UNHCR, volontari del Friuli e del Servizio Nazionale di Protezione Civile fianco a fianco per aiutare e accogliere. Un’esperienza nuova e inedita anche per chi come me ha alle spalle tante esperienze di protezione civile. I nostri interventi sono brevi, mirati e intensi. Un breve scambio di battute in inglese con una signora di circa 70 anni che mentre aspetta di misurare la pressione, sulla panca fuori dell’infermeria, mi dice piano: “La mia casa… La mia casa non c’è più. Non la rivedrò mai… La mia terra è distrutta”. Non rispondo, non potrei dire nulla al riguardo, ma l’abbraccio e le sorrido. Piano le dico: “la nostra terra ti accoglie. Puoi essere tranquilla, la tua casa, la tua terra sono con te”

 

IMMAGINI DELLA MISSIONE SIPEM SoS FEDERAZIONE:

 

 

 

 

Lo psicologo nel mondo delle organizzazioni – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel primo episodio si parla del ruolo dello psicologo nel mondo delle organizzazioni con la Dott.ssa Roberta Stoppa.

 

Dove ascoltare il primo episodio:

 

Totem, tabù e satira: analisi freudiana sulla Stand Up Comedy

Al di là degli aspetti legali e culturali che caratterizzano la libertà di espressione di un artista, per comprendere cosa si nasconde dietro il meccanismo della satira e della Stand Up Comedy, è interessante affidarsi ad alcune analisi in chiave psicologica. 

 

Il lavoro del comico è sicuramente una professione difficile. Basti pensare ai tanti esempi che nel panorama culturale mondiale legano questo ruolo ad una serie di situazioni difficili e rischiose.

La recente notte degli Oscar è un esempio emblematico per evidenziare come una battuta (riuscita o meno) possa rappresentare il centro di un vivo dibattito capace di coinvolgere e dividere l’opinione pubblica a livello globale (Chas Danner and Margaret Hartmann, 2022): quello schiaffo rappresenta una scena emblematica che ci obbliga a porci delle domande circa la legittimità di una battuta – di un modo di fare comicità chiamato Stand Up Comedy – nei confronti di tematiche serie e difficili da affrontare, come la condizione medica dell’attrice statunitense Jada Pinkett Smith verso cui la battuta è stata indirizzata.

La cronaca è ricca di episodi che coinvolgono il difficile ruolo del comico, orientando l’opinione pubblica verso accese forme di dibattito. Un recente articolo della CNN riporta la difficile situazione in India, dove il comico Nalin Yadav, dopo uno spettacolo di Stund Up Comedy, si è trovato ad affrontare 35 giorni di carcere con l’accusa di aver volontariamente infangato alcune tematiche religiose e culturali (Rhea Mogul, 2022). Oppure come non citare la leggendaria performance di George Carling “Seven Words You Can Never Say on Television”, nella quale il comico americano, il 27 maggio del 1972 dal palco del Santa Monica Civic Auditorium, recita un monologo riguardante la necessità assurda di censurare 70 parole, tra le 600.000 in lingua inglese, perché ritenute “pericolose” per il pubblico. Verrà arrestato con l’accusa di “profane humor”, e coinvolto in una battaglia legale destinata a cambiare profondamente l’attuale sistema legale americano (Tim Ott, 2020).

Al di là degli aspetti legali e culturali che caratterizzano la libertà di espressione di un artista, per comprendere cosa si nasconde dietro il meccanismo della satira e della Stand Un Comedy, è interessante affidarsi ad alcune analisi in chiave psicologica.

Infatti non è raro, di fronte a questo tipo di performance, essere invasi da sentimenti contrastanti che vanno dalla piacevolezza e divertimento, fino a toccare imbarazzo e forte contrarietà: non a caso l’episodio dello schiaffo agli Oscar ha suscitato reazioni fortemente polarizzate in entrambe le direzioni.

La censura e, come vedremo, il tabù, sono l’arma più semplice per contrastare tali sentimenti sul nascere, ed evitare che “infastidiscano” la sensibilità dell’audience. Fare luce sugli elementi alla base di tali sentimenti significa comprendere meglio alcuni meccanismi psicologici, sociali e culturali che contraddistinguono l’essere umano fin da epoche lontanissime.

Capire meglio il difficile ruolo della Stand Up Comedy, quindi, ci porterà a capire meglio come funzioniamo oggigiorno, come individui e come società.

Esistono tanti esempi performativi di Stand Un Comedy americana: per addentrarci nell’argomento è utile analizzare un episodio specifico che rappresenta il simbolo e l’apice di questa modalità comica performativa. Per indagare quali meccanismi governano il rapporto tra comico e pubblico partiremo quindi dal momento più dissacrante mai registrato di Stand Up Comedy. Questo episodio, come una lente di ingrandimento, ci permette di osservare una gigantografia dei meccanismi psicologici alla base della nascita di quei sentimenti tanto contrastanti che sembrano caratterizzare questo tipo di comicità rispetto alle altre forme.

The Aristocrats: la Stand Up più difficile del mondo

Siamo a New York, fine settembre 2001.

Il famoso comico americano Gilbert Gottfried, celebre interprete nel film “Piccola Peste” (1990), tiene il discorso finale dello spettacolo televisivo del Friars’ Club che in quella serata dedica l’evento al roast del celebre fondatore della rivista Playboy Hugh Hefner. I soldi raccolti durante la serata sarebbero stati devolti a favore delle vittime del 9/11: l’attentato alle Torri Gemelle.

Un roast, che letteralmente significa “arrostire”, “rosolare”, è una forma di intrattenimento anglosassone nella quale un personaggio d’onore, una celebrità del panorama culturale, viene bersagliato da battute e insulti volti a umiliare -in modo intelligente e ironico- il protagonista della serata.

Così, mentre il comico Gottfried continua ad “abbrustolire” l’ospite d’onore, ad un certo punto si ferma ed afferma di essere nervoso -molto nervoso- perché il volo per Los Angeles che avrebbe dovuto prendere dopo lo spettacolo, non era un diretto, ma aveva uno scalo: con l’Empire State Building.

La folla inizia ad agitarsi. Il pubblico inizia a fischiare. Qualcuno dalla platea grida: «Too soon! Too soon!». La tragedia delle Torri Gemelle è ancora troppo vicina per questo tipo di battute.

La situazione si fa decisamente pesante, e tra i fischi del pubblico e i comici sul palco che lo fissano sbigottiti, Gottfried allarga le braccia, distendendole sul podio, mentre con le mani stringe i bordi del leggio.

Lascia che i fischi terminino, mentre con diversi movimenti di spalle e collo sembra voler riscaldare i muscoli contratti dal nervosismo: forse è agitato, forse no, ma sicuramente questa è la preparazione di chi si presta ad un gesto atletico assurdo. Gottfried sta per raccontare una barzelletta.

La folla sta ancora mormorando quando il comico si avvicina al microfono e dice:

«Un talent scout è seduto nel suo ufficio, quando un’intera famiglia americana entra nell’ufficio, tutta bella, biondi, occhi azzurri, composta da padre madre, figlia, figlio e un cane. Entrati tutti quanti l’agente dice “bene vediamo cosa sapete fare”».

Questo, che sembra l’incipit di una normale barzelletta, è in realtà l’inizio di quella che viene considerata la barzelletta più oscena del mondo, alla quale nel 2005 viene dedicato un documentario dal titolo “The Aristocrats” (Penn Jillette, Paul Provenza, 2005).

Non c’è bisogno di assistere alla scena per conoscere l’epilogo della faccenda. Censurata da Comedy Central, e tagliata per motivi di tempistica dal documentario “The Aristocrats” (la barzelletta ha una durata molto estesa), la battuta recitata da Gottfried sul palco del Friers’ Club Roast segna il momento più dissacrante e politicamente scorretto della storia dello show americano: show, questo, che fa del political correct il suo bersaglio principale.

Le ragioni dell’importanza storica di questo episodio sono principalmente due: la prima si rifà alla storia di questa battuta leggendaria; la seconda, come vedremo, prende in considerazione un meccanismo psicologico dell’arte performativa noto fin dal secolo scorso.

La nascita storica della barzelletta The Aristocrats

Questa barzelletta è considerata una vera leggenda: citata nell’opera del 1968 “Rational of the Dirty Joke” dal critico culturale americano Gershon Legman, sembra abbia goduto di molta della sua fama grazie a Chevy Chase, Michel O’ Donoghue e John Belushi (Legman, Gershon, 2007) personaggi di spicco all’interno dell’ambiente del Nation Lampoon Magazine, un giornale comico satirico che, a cavallo tra gli anni 70’ e 90’, ha accolto molti giovani talenti comici, tra i quali Bill Murray e Harold Ramis, entrambi membri nel film Ghost Busters (Reitman, 1984).

Si dice che in questo habitat si sia sviluppata, durante le feste organizzate dal collettivo, l’abitudine di recitare questa battuta in una sorta di competizione: dati gli elementi (che devono sempre essere composti da una bella famiglia americana tradizionale, dal talent scout e dal cane), e il Set Up (lo studio di un talent scout) bisognava trovare il modo più assurdo per arrivare alla Punch Line finale, che vede il talent scout, scioccato o incuriosito dalla scena a cui ha appena assistito, domandare: «Come si chiama questa cosa che avete appena fatto?», e il padre di famiglia: «Si chiama Gli Aristocratici».

Tra l’incipit e il finale sta al comico il compito di trovare quelle trame assurde e oscene che i soggetti devono compiere. Il meccanismo è tutto qua: il comico deve descrivere -dettagliatamente o meno a seconda dell’effetto che vuole sortire nel pubblico- le ragioni per cui la famiglia si trova su quel palco, e questo deve essere frutto di un totale abbandono verso l’improvvisazione. «Improvvisare sullo schifo- dichiara un personaggio nel documentario The Aristocrats- fa di te il John Coltrane della situazione» (Penn Jillette, Paul Provenza, 2005).

Freud, funzione catartica e Motto di Spirito Tendenzioso

Per capire il secondo aspetto fondamentale dell’episodio concentriamoci adesso sui meccanismi psicologici alla base dello humor e della satira.

Siamo nel 2001, o meglio, siano alla fine del mese di settembre del 2001 quando lo show viene registrato nel Fries’Club di New York. L’alba di quella che può essere considerata la più grande tragedia della storia degli Stati Uniti d’America è ancora vicinissima e il dolore, la paura, nel popolo americano è più viva che mai (Schuster, 2001). In questo clima di terrore e incertezze la comicità sembra non potersi fare strada: la tragedia che il mondo ha davanti a sé è ancora scottante, altamente complessa e profondamente seria.

Ma è proprio dalla serietà monolitica di un evento che nasce la risata: quando un comico riesce a far dissolvere quella complicatezza cognitiva con cui credevamo di dover fare i conti, assistiamo allora al fenomeno che Freud (1905) chiamerà «risparmio energetico di risorse». Tutte quelle energie che di norma sarebbero state spese dalla persona per gestire un problema complesso, si trovano adesso libere di agire su altri sistemi: l’essere umano, con tutte le sue paranoie e complicazioni, viene semplificato. Nasce la risata: come sfogo, liberatorio, delle energie risparmiate.

Non è un caso che Sigmund Freud nel suo “Il Motto di Spirito” (1905), ritagli al fenomeno del risparmio del dispendio energetico un ruolo particolare all’interno di tutti i vari tipi di comicità: la risata è una reazione strettamente connessa con ciò che Freud chiama meccanismo del piacere.

Il piacere è descritto da Freud come «il soddisfacimento di qualcosa che sarebbe dovuto rimanere insoddisfatto» (Freud, 1905). La causa che blocca il piacere è semplicemente definita ostacolo: ogni motto di spirito, ogni battuta, ogni barzelletta, quindi non è altro se non il rapporto tra un desiderio di soddisfazione di un impulso verso l’esterno e una forza che ostacola tale sfogo.

Quando tale ostacolo è di natura interna si riferisce all’indole naturale di chi ascolta la battuta (per esempio possedere un’indole timida). Quando invece l’ostacolo da superare è di natura esterna, si parla di tutti quei caratteri convenzionali assunti dalla società durante un determinato momento storico: essi si riferiscono al senso del pudore, alla morale, e a tutta la gamma di tabù a cui sarebbe meglio non riferirsi in determinate circostanze (magari non in pubblico!).

Per soddisfare determinati desideri e oltrepassare questi ostacoli l’uomo ha inventato un meccanismo efficace chiamato il Motto di Spirito Tendenzioso e questo può essere di natura ostile o oscena a seconda del desiderio che riesce ad esprimere.

Nel motto ostile l’essere umano diviene capace di soddisfare une delle pulsioni più primitive e profonde della sua costellazione psichica, quella ostilità brutale a cui ha dovuto rinunciare durante le ancestrali fasi di assestamento del contratto sociale tra individui. Grazie all’invettiva verbale (alla parolaccia) possiamo quindi trovare finalmente uno sfogo esterno.

Nel motto osceno è l’impulso sessuale a trovare lo spazio per fuoriuscire all’esterno, veicolato da una battuta sconcia, da un’osservazione oscena, o da un’allusione sessuale. Trova finalmente soddisfazione l’impulso sessuale represso dalla società contemporanea, che Freud chiama soddisfazione libidica primaria e che traduce poi come «sessualità bruta»: la società condanna la sessualità bruta, oscena, animale, per le stesse ragioni per cui vieta l’ostilità. La storia della specie umana ha visto consolidarsi, ad un certo punto del suo sviluppo, quella forma di contratto sociale del vivere comune che ha reso possibile l’inizio della civiltà così come la conosciamo. Adesso, come in un sogno, quei fenomeni banditi dal nucleo sociale tornano ad infastidire la coscienza dell’individuo, luogo, questo, che in realtà non hanno mai abbandonato del tutto. Il riferimento al sogno, poi, non è casuale: sia la battuta che il sogno godono infatti di meccanismi di azione del tutto simili (Freud, 1905).

Totem, tabù e catarsi

Abbiamo apparentemente trovato una spiegazione all’oscenità e all’ostilità delle battute comiche. Esse fanno ridere perché permettono «l’espressione di qualcosa che non dovrebbe essere espresso».

Ma torniamo adesso alla barzelletta “The Aristocats”: quale è lo scopo della battuta più oscena del mondo?

Per rispondere alla domanda è necessario ricercare quali elementi effettivi rendono questa battuta la più sporca battuta del mondo: occorre, quindi, indagare il tema dei tabù come norme sociali atte a limitare le azioni del cittadino rispetto a determinate circostanze. Come scrive Freud (1905) esistono degli ostacoli -interni ed esterni- che impediscono la produzione della risata in determinate circostanze: nel nostro esempio è facile identificare tali ostacoli come una serie di tabù sociali. La barzelletta “The Arisocrats”, infatti, spesso fa ampio ricorso ad immagini oscene e grottesche che spaziano dal sadismo, all’incesto, fino a toccare temi come necrofilia, coprofagia e zoofilia.

Cosa sono, quindi, i tabù? Il termine deriva dalla lingua polinesiana, e viene descritto dal celebre antropologo James Frazer (1911) come uno dei rari casi di parola presa in prestito dalla lingua dei primitivi come riferimento al divieto morale, etico, sociale e religioso di mettere in atto determinati comportamenti:

«Il Tabù […] ha contribuito in larga misura, sotto molti differenti nomi e sotto molti differenti dettagli, a costruire la complessa fabbrica della società in tutti i suoi vari aspetti ed elementi, che noi descriviamo come religione e società».

Ad essere sottoposti a precisi divieti e regolamentazioni sono sia persone fisiche -come re, governatori, soldati, schiavi, sacerdoti, donne, cacciatori e individui in lutto- sia diversi comportamenti quali il mangiare e il bere, il vestirsi, l’economia domestica della casa, il radersi la barba, l’approcciarsi con uno sconosciuto.

Aggiungerà Frazer nel capitolo V (Frazer, 1911) che l’importanza del tabù è finalizzato -da una parte- alla difesa di coloro esposti al pericolo, e -dall’altra- a limitare l’azione di coloro definiti pericolosi. Il «pericolo» va inteso in senso spirituale: soggetti come re, preti e governatori, come anche «omicidi, donne gravide, cacciatori e pescatori, ragazze in pubertà» (Frazer, 1911) sono tutti potenziali vittime -o potenziali trasmettitori- di questo tipo di pericolo spirituale. Il tabù, come legge e divieto, funge da «isolante elettrico» protettivo per evitare che le forze spirituali di questi determinati individui vengano trasmesse al resto dei cittadini della collettività.

Nell’opera “Totem e Tabù” (1913) Freud descrive il termine come «una serie di restrizioni alle quali questi popoli primitivi si sottopongono […] essi non sanno perché, ne viene loro in mente di porre una domanda; si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, e sanno che calpestare uno di questi divieti comporterebbe una punizione durissima» (Freud, 1913).

Tali tabù nascono dal fondo di credenze spirituali primitive, legate alla paura dell’uomo verso potenze demoniache nascoste dietro l’oggetto tabù, ma in seguito se ne distaccano e, diventando indipendenti dal demonismo, si ritrovano imposte dal costume, dalla tradizione e dalla legge di un popolo. Dal tabù nasce la coscienza morale, come una forma di coscienza assoluta, interna, «assolutamente certa di sé medesima» che esprime «la sensazione di riprovazione che determinati impulsi di desiderio suscitano in noi» (Freud, 1913).

Le prime forme di tabù all’interno dei nuclei sociali si sviluppano su due versati specifici: «non uccidere il padre della comunità (il Totem)» e «non avere rapporti sessuali con i membri del nucleo totemico». Questo secondo divieto, il tabù dell’incesto, sarà alla base del passaggio da una forma di società del tipo orda primordiale ad una di tipo sociale, chiamata “fratrie” (Freud, 1913): non avere rapporti sessuali con i membri della propria unità totemica (e non solo con la propria madre o sorella) porta al consolidarsi dell’esogamia, caratteristica che spinge l’appartenente di una tribù a stringere legami sessuali solo al di fuori della sua stessa comunità, creando le istituzioni sociali dei clan totemici, sotto-fratrie e fratrie.

Oltre a ciò, l’orrore dell’incesto è alla base di tutta una serie di leggi, divieti e tabù, ancora osservabili presso popolazioni lontane e ancestrali: come scriverà Freud «i popoli selvaggi sentono ancora i desideri incestuosi dell’uomo – destinati a cadere in seguito nella sfera dell’inconscio- come una minaccia incombente da cui difendersi con l’adozione di regole improntate al massimo rigore».

Alla luce di quanto evidenziato, è facile adesso analizzare perché “The Aristocrats” sia la battuta più sporca del mondo: il comico che descrive la scena non solo espone pubblicamente un tema inviolabile e sacro, ma lo denuda rendendolo plateale nei suoi minimi dettagli, evocando reazioni dal pubblico che possono arrivare a registrare forti risposte fisiologiche. Come testimonierà Phillis Dyller «ho sentito la battuta, ma non ricordo cosa ci fosse di così sbagliato. Mi ricordo solo di essere svenuta» (Penn Jillette, 2005).

Le ragioni, la risata e l’ambivalenza emotiva

Torniamo ora alla domanda iniziale, cioè quale possa essere stato lo scopo del monologo “The Aristocrats” e poniamoci un’altra domanda: come è possibile far ridere un pubblico che due settimane prima a poco più di 12 chilometri di distanza dal Friars’Club (siamo sulla 55th avenue nel cuore di Manhattan), aveva assistito incolume allo shock dell’attentato alle Torri Gemelle?

Il comico abbiamo detto essere un manipolatore dell’ostacolo freudiano. Abbiamo poi chiamato questo ostacolo tabù e abbiamo analizzato la sua importanza per la nascita delle prime forme di civiltà umana. L’oggetto tabù (il recente attacco alle Torri Gemelle) sappiamo quanto evochi nei cittadini un reverente stato di rispetto, timore e obbedienza civile. Ebbene: se il pubblico nega al comico la possibilità di giocare col loro ostacolo -ancora troppo sacro forse per permetterne una manipolazione scherzosa- cosa gli rimane da fare?

La risposta più semplice -forse- è abbandonare quello specifico tabù: come abbiamo fatto notare, quando il comico inizia il suo monologo ed evoca il tema dell’11 settembre, la battuta non funziona. «Too soon!» gli urlano dalla platea. E infatti Gottfried dal palco non toccherà più quell’oggetto demoniaco nel suo monologo.

Ma il fatto interessante è un altro: infatti alla scelta di abbandonare il tema tabù dell’attacco alle Torri Gemelle, segue, da parte del comico, la decisione di recitare il monologo più dissacrante del mondo. È come se il comico, dopo aver ceduto di fronte alla necessità del pubblico di avere uno spazio di sacro rispetto e inviolabilità, facesse pagare a caro prezzo questo compromesso. Egli affida alla barzelletta più sporca del mondo il compito di svelare a tutti i presenti il nucleo della coscienza morale collettiva insita in ognuno di noi; utilizza questa battuta per esporre e manipolare in pubblico non uno ma tutti i principali tabù della società occidentale, cristallizzati nei diversi “imperativi categorici” (Freud, 1905) chiamati in causa e dissacrati dai personaggi descritti dalla barzelletta.

Per capire le ragioni di questo gesto possiamo fare affidamento sul concetto di ambivalenza emotiva. Secondo Freud, tanto più energico è il divieto espresso dal tabù verso determinate azioni, tanto maggiore sarà stata in origine la volontà di compiere quelle stesse azioni: infatti “non c’è bisogno di proibire ciò che nessuno vuole fare, e comunque ciò che è proibito nella maniera più energica deve essere oggetto di intenso desiderio” (Freud, 1913). Questo descrive il rapporto di ambivalenza emotiva dell’individuo verso l’azione tabù: «egli vuole sempre eseguire questa azione -toccare l’oggetto- […] e al tempo stesso ne ha orrore».

Come abbiamo detto, Freud (1913) definisce la coscienza morale -nata dal tabù- come: «la sensazione di riprovazione che determinati impulsi di desiderio suscitano in noi». Anche in questo caso, quindi, la coscienza morale si fonda su un rapporto ambivalente di elementi in apparente contrasto, rappresentati da un lato da una sensazione di riprovazione, e dall’altro da un impulso di desiderio vietato e interdetto.

Ogni atto che sfida la coscienza morale collettiva è destinato a fare i conti con questa ambivalenza tra proibizione e desiderio: da una parte, una tale sfida tenderà necessariamente ad evocare una forte “sensazione di riprovazione” verso determinati temi vietati e scottanti; e dall’altra parte, risveglierà quegli “impulsi di desiderio” presenti nell’ascoltatore, che resero necessaria l’imposizione di un tale divieto all’alba dei tempi.

Alla luce di ciò, è facile immaginare lo scopo della sfida proposto dai comici come George Carling e Gilbert Gottfried: essi giocano in una zona grigia, consapevoli dell’ambivalenza emotiva che ci lega ai nostri stessi divieti, che rispettiamo e che difendiamo pubblicamente, ma da cui non ci sentiamo mai pienamente affrancati. I comici toccano l’oggetto tabù, «che non potrebbe essere toccato» (Freud, 1913), per illuminare parti ancora in ombra dei meccanismi sociali che regolano il vivere comune, attraverso una riflessione collettiva che sveli i paradossi e le strutture convenzionali che ci governano e che diamo per scontato.

Come i “primitivi” studiati da Frazer, oggigiorno anche le persone comuni “si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, e sanno che calpestare uno di questi divieti comporterebbe una punizione durissima” (Freud, 1913). Sia per quanto riguarda le 70 parole vietate di Carling, sia per la sfilata di tabù dissacrati di Gottfried, il comico gioca con il divieto presentandolo allo spettatore sotto una nuova luce.

Le conseguenze per una persona che tocca il tabù, nelle popolazioni studiate da Frazer, sono molto dure e spaziano dall’allontanamento dalla società fino alla condanna a morte: purtroppo questo si presenta oggigiorno come un ulteriore parallelismo, che caratterizza il triste destino di molti artisti alle prese con la manipolazione di un oggetto proibito.

 

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