Vi sono soggetti che presentano un’incapacità di riconoscimento di volti familiari su presentazione visiva: tale deficit selettivo è detto prosopagnosia. Nei casi più gravi il paziente non è in grado di identificare il volto del proprio partner e nemmeno la propria immagine riflessa in uno specchio
Riconoscimento dei volti: cosa si intende con prosopagnosia?
I volti rappresentano uno stimolo fondamentale per l’interazione sociale, ci informano sull’identità del nostro interlocutore, ossia genere, età, razza; inoltre dal volto deduciamo indicazioni relative al tono dell’umore, all’attrattiva e l’approcciabilità di una persona.
Studi recenti hanno dimostrato come, nonostante gli esseri umani siano considerati esperti riconoscitori di volti, vi sono importanti differenze interindividuali nella capacità di elaborare l’identità dei volti (Palermo et al., 2016): vi sono i super-recognizer, soggetti estremamente abili nel riconoscimento dei volti e persone con scarse competenze di riconoscimento degli altri tramite il volto.
Vi sono soggetti che presentano un’incapacità di riconoscimento di volti familiari su presentazione visiva: tale deficit selettivo è detto prosopagnosia. Nei casi più gravi il paziente non è in grado di identificare il volto del proprio partner e nemmeno la propria immagine riflessa in uno specchio (Vallar & Papagno, 2007).
Mentre la patologia fu studiata approfonditamente già nel XVIII secolo, il termine prosopagnosia deriva dal greco prosopon (faccia) e a-gnosisi (senza conoscenza) e fu coniato nel 1947 dal neurologo tedesco Joachim Bodamer il quale descrisse alcuni casi tra cui quello di un giovane uomo di 24 anni che, in seguito a una ferita da arma da fuoco alla testa, aveva perso la capacità di riconoscere i volti.
Ciononostante egli era in grado di identificare le persone utilizzando altre modalità sensoriali quali udito e tatto o indizi extra-facciali come andatura e taglio di capelli. I soggetti con prosopagnosia infatti non sono in grado di riconoscere più i volti delle persone care, perdendo talvolta anche la sensazione di familiarità per i visi conosciuti, ma individuano le persone note dalla voce o da qualche accessorio caratteristico, per esempio i capelli (Grossi & Trojano, 2002). In alcuni casi la difficoltà è limitata al riconoscimento di persone viste meno frequentemente in contesti inaspettati, per esempio quando si incontra un vicino al supermercato (Rivolta, 2014).
Esiste una convergenza tra studi sugli animali e sull’uomo che indicano come l’analisi dei volti sia mediata da meccanismi neurali dedicati e specifici, confermando l’ipotesi che i volti rappresentino stimoli “speciali” non solo a livello cognitivo ma anche neurale (Rivolta, 2012).
Secondo il modello neurale proposto da Haxby e colleghi (2000) il riconoscimento dei volti è mediato da diverse aree cerebrali; la prima area coinvolta è la Occipital Face Area (OFA), che rappresenta la porta d’ingresso del sistema visivo di analisi dei volti, in cui lo stimolo visivo è giudicato come “faccia” o “non faccia” e dove gli elementi costitutivi sono analizzati. Questa informazione è poi inoltrata al Superior Temporal Sulcus (STS) per l’analisi delle espressioni facciali e degli aspetti “variabili” del volto e verso la Fusiform Face Area (FFA), dove hanno luogo i processi olistici. Per ultimo, nel Anterior Temporal Face Patch (ATFP) avviene il riconoscimento dei volti familiari.
Prosopagnosia acquisita e prosopagnosia congenita
Si parla di prosopagnosia acquisita, acquired prosopagnosia (AP), quando una lesione cerebrale danneggia in un determinato soggetto l’abilità di riconoscere i volti noti. Tale deficit cognitivo può avere varie origini tra cui stroke sia di tipo ischemico che emorragico coinvolgete bilateralmente le aree occipito-temporali; tra le possibili diagnosi eziologiche si annoverano anche traumi cranio-encefalici, lobectomie finalizzate all’asportazione di focolai epilettogeni, disturbi degenerativi, avvelenamento da monossido di carbonio (Rivolta, 2012).
Negli ultimi 20 anni i ricercatori hanno focalizzato la propria attenzione su un’altra forma di prosopagnosia che si manifesta senza apparenti cause ed è nota come forma congenita o ereditaria (Rivolta, 2014). Tale tipologia di deficit nel riconoscimento dei volti noti, in inglese developmental prosopagnosia (DP), può essere descritta come un disturbo del neurosviluppo, conseguente pertanto dal fallimento nello sviluppo dei meccanismi cognitivi necessari per il riconoscimento dell’identità dei volti (Dalrymple & Palermo, 2016; Rivolta, Palermo & Schmalzl, 2013; Susilo & Duchaine, 2013). I soggetti con developmental prosopagnosia manifestano da sempre nella quotidianità severe difficoltà nel riconoscimento di volti noti, nonostante non presentino lesioni cerebrali note o rilevabili, abbiano normali abilità visive e intellettive (Bate, 2014; Behrmann & Avidan, 2005; Dalrymple & Palermo, 2016; Palermo & Duchaine, 2012; Rivolta, Palermo, & Schmalzl, 2013; Susilo & Duchaine, 2013). Si stima che tale forma congenita interessi circa il 2–2.9% della popolazione (Bowles et al., 2009; Kennerknecht et al., 2006). La developmental prosopagnosia è descritta come un deficit di memoria del viso e i casi di developmental prosopagnosia sono confermati usando compiti basati sulla memoria (Dalrymple & Palermo, 2016).
Nella vita quotidiana, la condizione pregiudica principalmente la capacità di una persona di riconoscere i volti delle persone note, ma data la difficoltà nel creare test ad hoc per ogni singolo paziente (utilizzando volti noti a quel singolo soggetto), vengono tipicamente utilizzati test di riconoscimento di volti famosi, come il Macquarie Famous Face Test- 2008 (Palermo et al.,2011). Un altro metodo comune per misurare le capacità di apprendimento e memoria di volti in soggetti con developmental prosopagnosia è il Cambridge Face Memory Test (CFMT, Duchaine & Nakayama, 2006). In questo test standardizzato, i partecipanti studiano le immagini di sei maschi sconosciuti e viene successivamente valutata l’accuratezza di riconoscimento dei volti studiati in precedenza ma sottoposti a cambiamenti quali differenti punti di vista, diversa illuminazione o aggiunta di elementi visivi di interferenza (White et al., 2017).