expand_lessAPRI WIDGET

Stereotipi di genere e cartoni animati

Considerando che la tv è stata vista, da sempre, come uno strumento potente nel plasmare il comportamento dei più piccoli nei confronti dei ruoli di genere nella società, è importante indagare sulla rappresentazione dei personaggi maschili e femminili nei cartoni animati.

 

Gli stereotipi nei cartoni animati

Il termine stereotipo indica un insieme di opinioni o attributi generalizzati, precostituiti che vengono associati e/o applicati a persone o a tutti i membri di un determinato gruppo (Hinton; 2017). Nello specifico, uno stereotipo di genere è “un insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti, l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”.

Molto spesso, i programmi televisivi trasmettono messaggi che possono consolidare intensamente la discriminazione di genere (Hinton; 2017), specialmente quando presentano uno dei due sessi come dominante: a volte, in TV, i personaggi maschili sono mostrati come più abili, capaci di esprimere idee, furiosi, al contrario di quelli femminili, ritratti come più compassionevoli e/o bisognosi di protezione.

Gli stereotipi di genere possono essere rafforzati anche dai cartoni animati che, se da un lato possono essere validi strumenti di intrattenimento, dall’altro, in maniera sottile, sono in grado di trasmettere ai bambini una serie di messaggi negativi legati al genere dei personaggi.

Certo, l’uso di rappresentazioni stereotipate all’interno dei programmi televisivi è una necessità; agli spettatori devono essere fornite scorciatoie per comprendere i personaggi e i ruoli che interpretano. Tuttavia, immagini standardizzate o generalizzazioni, in particolare quelle basate su idee sbagliate, possono rappresentare un problema soprattutto per i bambini.

Quali stereotipi di genere sono presenti nei cartoni animati?

Considerando che la tv è stata vista, da sempre, come uno strumento potente nel plasmare il comportamento dei più piccoli nei confronti dei ruoli di genere nella società (Ahmed, Wahab; 2014), è importante indagare sulla rappresentazione dei personaggi maschili e femminili nel genere televisivo animato. A tale scopo, è stata condotta una ricerca sui cartoni animati trasmessi da Cartoon Network, un noto canale televisivo per bambini (Ahmed, Wahab; 2014); sono stati selezionati 10 cartoni animati popolari, tra cui Ben 10, Scooby Dooby Doo, Tom e Jerry, Pokémon, Superchicche, Dragon Ball Z, Batman e, nella maggior parte, sono stati individuati tratti comuni nei personaggi maschili e femminili. La ricerca ha dimostrato che, in molti cartoni animati, i personaggi maschili e femminili vengono ritratti in modo parziale e stereotipato: le caratteristiche più frequentemente attribuite ai personaggi maschili sono la forza fisica, il coraggio, l’intelligenza, mentre quelle attribuite ai personaggi femminili sono  debolezza fisica, emotività e premurosità, bellezza fisica, dipendenza dagli altri, passività.

Alla luce di ciò, si potrebbe concludere che la miglior difesa contro i potenziali effetti negativi delle rappresentazioni stereotipate sugli schermi, è cercare di comprendere e analizzare criticamente ciò che viene, dagli stessi, presentato.

 

EMDR e dolore cronico. Quando a parlare è il corpo (2022) – Recensione

Il testo EMDR e dolore cronico intende fornire delle linee guida sull’utilizzo dell’EMDR al trattamento del dolore cronico, in quanto, sebbene ne sia ormai riconosciuta la natura multifattoriale, la psicoterapia non rappresenta ancora la strada maestra per curare tale disturbo.

 

L’EMDR, acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing, è un approccio terapeutico scoperto dalla ricercatrice americana Francine Shapiro nel 1989. Basato sulla desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, l’EMDR viene impiegato per il trattamento di traumi e stress psicologici di entità severa.

A livello procedurale, al paziente viene chiesto di fornire un quadro descrittivo e quantificativo dei propri disturbi, rievocando il ricordo da cui desiderano ottenere un sollievo, rappresentato dall’immagine peggiore associata all’evento o dalla prima traccia mnestica dello stesso.

Dopo aver identificato l’unità soggettiva di disagio (SUD), lungo una scala da 0 a 10, dove 0 equivale a nessun disturbo e 10 al peggior livello di disturbo esperito, si procede alla fase di desensibilizzazione, richiamando la cognizione negativa e prestando attenzione alla stimolazione bilaterale (movimenti delle dita, tapping o stimolazione uditiva), procedura nota come Dual Attention Stimulus.

Shapiro ha diviso le cognizioni negative in 3 temi: mancanza di sicurezza/vulnerabilità, mancanza di controllo/potere e responsabilità/difettosità. Se il dolore è di origine traumatica, la cognizione negativa è più probabile sia basata su un tema di sicurezza/vulnerabilità, mentre se il dolore è correlato a cause mediche, la cognizione negativa è più probabile che rifletta mancanza di controllo/potere e/o sentimenti di difettosità.

La richiesta fatta al paziente è semplicemente di “notare” e “lasciare che succeda quello che deve succedere”. In seguito a tale processo è interessante notare le affermazioni di stupore sulla riduzione del disagio e dell’angoscia: il problema viene descritto come “più lontano”, “non più così importante”.

Nel momento in cui il disagio raggiunge un SUD di 1 o 0, si installa la cognizione positiva, che viene valutata rispetto alla percezione di veridicità su una scala da 1 a 7.

I cambiamenti affettivi associati all’EMDR hanno permesso di estenderne l’utilizzo al trattamento del dolore cronico, un contesto prioritariamente somatico.

Sono emersi importanti punti di affinità tra dolore cronico e Disturbo da Stress Post Traumatico (PTDS): all’origine di entrambi vi sarebbe un evento causale di natura traumatica, a cui farebbe seguito una risposta fisiologica che, sebbene di natura differente, svolge la medesima funzione, ovvero indurre il soggetto ad evitare situazioni che rievocano l’evento traumatico.

Il testo intende fornire delle linee guida sull’utilizzo dell’EMDR al trattamento del dolore cronico, in quanto, sebbene ne sia ormai riconosciuta la natura multifattoriale, la psicoterapia non rappresenta ancora la strada maestra per curare tale disturbo.

Tradizionalmente il dolore è stato considerato come conseguente ad una lesione fisica e le percezioni dolorose persistenti, in assenza di lacerazioni cutanee o, comunque, continuative oltre il tempo di guarigione, sembravano inspiegabili.

Il dolore si distingue in acuto e cronico: nel primo caso esso consegue ad una lesione quale una frattura o una lacerazione muscolare, da cui originano segnali nervosi, volti a proteggere l’area danneggiata; col tempo la lesione guarisce e il dolore scompare. Il dolore acuto è limitato nel tempo e generalmente gestibile. Al contrario, il dolore cronico, che si sviluppa in seguito ad una malattia o ad una lesione, si rivela prolungato nel tempo e non rispondente ai trattamenti.

Il dolore cronico può presentarsi sotto diverse forme, quali mal di schiena, fibromialgia, sciatalgia, emicrania, disturbo da somatizzazione e chiama maggiormente in causa le aree coinvolte nella memoria e nelle emozioni.

Il moderno approccio al trattamento del dolore cronico vede il suo precursore in Pierre Janet che, alla fine del XIX secolo, ha sottolineato come i sintomi fisici inspiegabili fossero frutto della dissociazione, un modo per riprodurre il trauma o lo stress, quando il sistema nervoso centrale viene sopraffatto, conducendo ad una separazione tra conscio e inconscio:

Le tracce di memoria del trauma permangono come idee fisse inconsce che non possono essere “liquidate” fintanto che non siano state tradotte in una narrazione personale e che invece continuano a intrudere nella forma di percezioni terrificanti, preoccupazioni ossessive ed esperienze somatiche. La capacità di adattamento collassa e il paziente finisce in uno stato di impotenza cronica che si esprime attraverso sintomi sia psicologici sia somatici.

L’approccio Cognitivo Comportamentale (CBT) rappresenta l’orientamento elettivo nel trattare il dolore cronico, riconducendo a pensieri, emozioni e comportamenti negativi il persistere della sintomatologia dolorosa. Il target del trattamento divengono allora le convinzioni del paziente sul proprio dolore, considerati il vero fattore di mantenimento: attraverso il rinforzo positivo il soggetto convalida le proprie teorie ingenue e per mezzo del rinforzo negativo evita le situazioni e circostanze che innescano o esacerbano il dolore stesso.

Ciononostante la CBT riesce ad ottenere un effetto debole, non sollevando dal dolore persistente.

Il trattamento tramite EMDR è in grado di modificare le dimensioni sensoriali ed emotive del PTDS e del dolore, favorendo la diminuzione dell’arousal fisiologico e del disagio emotivo, incrementando il rilassamento e conducendo ad un distanziamento dal problema. Sfruttando la neuroplasticità l’EMDR sembra determinare effetti che si mantengono nel tempo.

Gli esatti meccanismi attraverso cui l’EMDR agisce sul cervello non sono ancora chiari; Bergmann suggerisce che il trattamento del PTDS alteri la forza delle memorie episodiche mediate dall’ippocampo e l’emotività mediata dall’amigdala per mezzo di un circuito di attivazione e disattivazione della risposta di orientamento.

Le testimonianze di coloro che hanno beneficiato dell’EMDR sottolineano la maggiore lucidità mentale, la percezione di maggiore sintonia con sé stessi, nonché la capacità di creare nuove risposte e collegamenti.

Il protocollo EMDR per il trattamento del dolore, così come originariamente sviluppato per il PTDS, è un processo in 8 fasi: Raccolta della storia, Preparazione, Assessment, Desensibilizzazione, Installazione, Scansione Corporea, Chiusura e Rivalutazione. Queste 8 fasi sono progettate per essere di supporto alla procedura di “desensibilizzazione” che è il cuore dell’EMDR.

Considerando l’impatto che il trauma pregresso e gli effetti del dolore hanno sull’identità e sul funzionamento nella vita quotidiana del soggetto, occorre confrontarsi con 7 compiti chiave:

  • domare il dolore;
  • rielaborare i traumi;
  • regolare le emozioni;
  • scoprire il significato del proprio dolore;
  • far fronte agli altri fattori di stress;
  • promuovere la cura di sé;
  • favorire la reintegrazione.

Il testo comprende nella parte finale diverse risorse per il terapeuta e per il paziente da utilizzare durante il trattamento.

 

Come si sente un terapeuta di fronte ad un paziente difficile?

Le emozioni spesso sperimentate dai clinici che hanno a che fare con i pazienti difficili sono senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento, che portano il terapeuta a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale.

 

Chi sono i pazienti difficili?

I pazienti difficili sono figure note tra i contesti clinici e la salute mentale pubblica (Foster, 2013). Nello specifico, i dati epidemiologici di paesi diversi mostrano che la prevalenza dei pazienti percepiti come difficili da parte del personale clinico varia dal 15% al 60% nei contesti sanitari generali (Hahn et al., 1996; Hahn, 2021; Jackson & Kroenke, 1999) e dal 6% al 28% nelle istituzioni psichiatriche (Koekkoek et al., 2011; Modestin, Greub & Brenner, 1986). Tale etichetta di paziente difficile, quando formulata, tende a rimanere incollata al paziente e influenza l’impostazione di un trattamento, in quanto anche i clinici attribuiscono a tale classificazione una persona che crea resistenze e che mina intenzionalmente il trattamento (Ekdawi, 1967). Nonostante l’esistenza riconosciuta di questi casi, non è chiaro che cosa renda difficile un paziente (Colson et al., 1985; Groves, 1978; Koekkoek et al., 2006). La conseguenza è che vengono definiti come pazienti difficili tutte quelle categorie di persone affette da disturbi che resistono in modo maggiore ai trattamenti: si pensi alle tossicodipendenze e ai pazienti psicotici (Sellers et al., 2012), alla depressione che resiste alle terapie farmacologiche (Greden, 2001; McCrone et al., 2018) e ai disturbi di personalità che, nei contesti di salute mentale, rappresentano una popolazione difficile da curare dai terapeuti che varia dal 32% al 46% (Koekkoek et al., 2011).

Secondo gli autori, alcune delle difficoltà riscontrate da parte dei terapeuti sono gli atteggiamenti definiti come aggressivi, esigenti, manipolativi o dipendenti che i pazienti mettono in atto (Beryl & Volm, 2018; Cleary et al., 2002; James & Cowman, 2007). Oltre ai pazienti, numerosi studi sono stati fatti per comprendere il punto di vista e le difficoltà che il clinico riscontra quando è di fronte a questi atteggiamenti, considerando che le percezioni possono esercitare un’enorme influenza su di sé, sul paziente e sul processo terapeutico (Colson et al., 1985). Riprendendo il concetto psicodinamico di controtransfert, cioè le risposte emotive che il paziente evoca nel terapeuta, i clinici riferiscono di sentire spesso degli atteggiamenti di chiusura, esigenti, impulsivi, autodistruttivi, non collaborativi e non aderenti alle raccomandazioni cliniche del trattamento (Bos et al., 2012).

Le emozioni spesso evocate nei terapeuti sono tendenzialmente negative, come senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento (Gallop & Wynn, 1987; Garcia et al., 2016) che portano il terapeuta stesso a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale (Bachrach et al., 1987; Colli et al., 2014; Colson et al., 1985; Mohr, 1995). Esistono numerosi studi che si concentrano sulla descrizione e sulla categorizzazione di tali pazienti, mentre un numero minore di ricerche si concentra sulla definizione di linee guida utili ad aiutare i terapeuti nel riconoscimento e nella regolazione di tali reazioni emotive (Fischer et al., 2019).

Il vissuto dei terapeuti davanti ai pazienti difficili

Fischer e colleghi (2019) hanno svolto uno studio per comprendere l’esperienza vissuta da parte di dieci terapeuti cileni attraverso delle interviste qualitative semi-strutturate. I terapeuti lavoravano nel servizio sanitario pubblico, avevano avuto esperienze con pazienti difficili e svolgevano una formazione continua sul trattamento dei disturbi di personalità. La trascrizione delle interviste è stata riportata utilizzando i principi generali della Grounded Theory (Strauss & Corbin, 1998) con alcune modifiche (Foster, Hays & Alter, 2013). I risultati dell’analisi sono organizzati in quattro dimensioni: le caratteristiche dei pazienti, gli atteggiamenti dei pazienti nei confronti dei terapisti o dell’equipe, gli effetti dei pazienti sui terapeuti e il contesto di trattamento.

Per quanto riguarda la prima dimensione, i terapeuti riportano disturbi di personalità spesso in comorbilità con disturbi da uso e abuso di sostanze, associati a storie traumatiche, neglect, povertà o mancanza di supporto sociale. Tali esperienze contribuiscono a difficoltà interpersonali mantenute da aggressività e deficit nelle relazioni sociali, difficoltà emotive e comportamenti autolesivi (Fischer et al., 2019). Alcuni terapeuti riportano un basso funzionamento cognitivo in questi pazienti. La sottocategoria degli atteggiamenti include le difficoltà legate ad una percepita mancanza di impegno per gli appuntamenti fissati o l’adesione al trattamento solamente nei momenti di crisi: secondo gli intervistati, questi pazienti si presentano al trattamento con un senso di scoraggiamento e sentendo che non sarà utile (Fischer et al., 2019). Molti pazienti presentano aspettative irrealistiche sul trattamento, facendo pressione o manifestando aggressività con il terapeuta.

L’effetto sul terapeuta da parte di questi pazienti include emozioni negative, come tensione e sentirsi esauriti o, al contrario, sensazione di noia (Fischer et al., 2019). Infine, per quando riguarda il contesto di trattamento, le sottocategorie citate sono il sovraccarico di lavoro, cioè la qualità terapeutica che diminuisce in relazione ad una maggiore quantità di pazienti, le scarse risorse, come la mancanza di personale, o i trattamenti inadeguati causati della bassa frequenza di sessioni e dal tempo insufficiente assegnato ad ogni incontro (Fischer et al., 2019).

 

I fattori psicologici alla base della Great Resignation

Riflettendo sulla quantità di dimissioni dell’ultimo periodo, che prende il nome di Great Resignation, quali fattori psicologici spingono il dipendente a prendere questa decisione in un periodo di forte incertezza?

 

Cos’è la Great Resignation?

La pandemia da COVID-19 ha impattato significativamente sulla salute mentale, coinvolgendo diversi strati demografici e diversi contesti. Le recenti ricerche, infatti, si sono principalmente concentrate sulle ricadute psico-fisiche delle misure di restrizione e di tutta la condizione pandemica, in ambito clinico (Xiong et al., 2020). Pochi studi, invece, si sono occupati dei fattori psicologici legati all’emergente fenomeno della “Great Resignation”.

Con il termine “Great Resignation” si fa riferimento ad un aumento notevole di dimissioni, fenomeno che spaventa parecchio tutte le aziende del mondo. Da uno studio di McKinsey (2021) si rileva come il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare posizione nei prossimi mesi. Anche in Italia, in base alle rilevazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, tra aprile e giugno 2021 sono state registrate quasi mezzo milione di dimissioni.

A cosa è dovuta la Great Resignation?

Osservando, quindi, il fenomeno dal punto di vista dei lavoratori, quali fattori psicologici spingono il dipendente a prendere questa decisione in un periodo di forte incertezza? Per rispondere a questa domanda, è possibile far riferimento ad uno studio in cui si rileva che uno dei più importanti predittori di dimissioni riguarda l’esperire situazioni di significativa pressione emotiva, che generano sintomi quali ansia e depressione (Jiskrova, 2022). Dallo studio emerge che tra i lavoratori più colpiti c’è il personale di industrie tecniche, del settore dell’ospitalità e dei servizi, ma anche i datori di lavoro di piccole imprese. Secondo alcuni autori (Horn, 2021), queste situazioni di alterazione emotiva si sono esasperate a seguito di una promessa nell’assicurare l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Con la pandemia, infatti, molti lavoratori sono passati da lavoratori tradizionali a “telelavoratori” (Papapicco & Quatera, 2021), avendo l’opportunità di lavorare in remoto a tempo pieno. Questo cambiamento ha modificato radicalmente il rapporto lavoratore-luogo di lavoro. In termini psicologici, infatti, i luoghi di lavoro non sono più un mezzo utile a raggiungere obiettivi professionali, per cui, i lavoratori si aspettano sempre più. Si aspettano, ad esempio, che i loro datori di lavoro forniscano benefici, indennità, flessibilità e un equilibrio maggiore tra lavoro e vita privata. E se le aziende non soddisfano i loro bisogni, porteranno il loro lavoro altrove.

La Great Resignation spiegata dalla psicologia dei bisogni

Una spiegazione alla base di questo fenomeno potrebbe essere ripresa dalle teorie classiche sulla psicologia della motivazione. Una delle più famose è la teoria di Maslow (Neher, 1991), che afferma che le nostre azioni sono motivate da determinati bisogni fisiologici. È spesso rappresentata da una piramide di bisogni, la cui base è costituita dai bisogni più elementari, fino ad arrivare ai bisogni più complessi, che si trovano al vertice. La gerarchia dei bisogni teorizzata da Maslow può essere suddivisa in due tipi: bisogni di carenza e bisogni di crescita. I bisogni di carenza contengono i bisogni fisiologici, di sicurezza, sociali e di stima, i quali sorgono a causa della privazione. Soddisfare queste esigenze di livello inferiore è importante per evitare spiacevoli conseguenze.

I bisogni di crescita, invece, occupano il vertice della piramide. Questi bisogni non derivano dalla mancanza di qualcosa, ma piuttosto dal desiderio di crescere come persona.

Mentre la teoria è generalmente descritta come una gerarchia abbastanza rigida, Maslow ha notato che l’ordine in cui questi bisogni sono soddisfatti non segue sempre questa progressione standard.

Nella Great Resignation, l’emergere dei bisogni individuali risulterebbe una risposta all’incertezza nei confronti degli stimoli ambientali. Per contenere questo fenomeno, infatti, le aziende dovrebbero attrezzarsi maggiormente con “strumenti psicologici”, in grado di comprendere i nuovi bisogni dei lavoratori.

 

Come pesci fuor d’acqua di Faggian e Fistarollo (2022) – Recensione

Subissati dalla presenza di crescenti obblighi e responsabilità, veniamo spinti all’interno di un vortice ipercinetico e fagocitante, che ha accelerato i nostri ritmi quotidiani, rendendoli letteralmente insaziabili.

 

Il testo Come pesci fuor d’acqua, scritto a quattro mani da Faggian e Fistarollo, si presenta come l’arguta risposta ad una domanda, ben poco confortante, che le attuali contingenze ci spingono a porci: perché la quotidianità si costella di mali e malesseri cui spesso non troviamo un riscontro organico, ma che con la loro disfunzionalità invasiva sono in grado di danneggiare più o meno stabilmente il benessere psicofisico?

Indubbiamente la qualità della vita è migliorata, rispetto ai tempi dei nostri antenati. Possiamo contare su un’esistenza più confortevole, meno irta di pericoli e insidie. Certo non dobbiamo temere il continuo attacco di feroci predatori in cerca del pane quotidiano, né dobbiamo addentrarci in perigliose avventure di caccia per procurarci il cibo. Tutto sembra molto più agevole, pratico, a portata di mano.

Ma questo improvviso proliferare di agi e comodità è un vantaggio veritiero o soltanto apparente?

Vivere più a lungo, si chiedono gli autori, significa sempre vivere meglio?

Per quanto auspicabile, una risposta positiva non sembra possibile. I dieci capitoli in cui si articola il testo danno dimostrazione del “silenzioso assedio” cui la nostra esistenza è quotidianamente sottoposta. Fattori interferenti, nemici insospettabili di cui talvolta neppure ci accorgiamo, ma che ci vessano con impietosa ricorsività, fino a condizionarci completamente. Subissati dalla presenza di crescenti obblighi e responsabilità, veniamo spinti all’interno di un vortice ipercinetico e fagocitante, che ha accelerato i nostri ritmi quotidiani, rendendoli letteralmente insaziabili. Dobbiamo non solo far di più e bene, ma dobbiamo anche far meglio degli altri, per sopravvivere ad una selezione spietata che, proprio come un predatore affamato, non ci lascia scampo.

Certo non combattiamo con fionda e clava, ma le cose non sembrano essere molto cambiate, dai tempi dei nostri antenati ad oggi. Anche adesso lottiamo per la sopravvivenza, e per riuscirci mettiamo in gioco tutte le risorse di cui siamo in possesso. Con risultati, ahimè, non sempre proficui.

Il culto del “troppo”

Gli autori descrivono i probabili “errori gestionali” che l’uomo ha compiuto lungo il corso della storia, e lo fanno con impeccabile rigore scientifico, per quanto volutamente stemperato da un tono distensivo e coinvolgente, a tratti persino ironico.

All’interno delle pagine le tematiche si susseguono con ritmo incalzante, disegnando un orizzonte diacronico che attraversa velocemente tutta la storia, dandoci dimostrazione dei numerosi obiettivi evolutivi raggiunti dalla specie umana: dalle braccia lunghe e ingombranti dell’homo erectus, che sapeva a stento arrampicarsi sugli alberi, alla motricità fine delle dita che si muovono sullo smartphone. Dall’alimentazione a base di bacche e radici, alle tavole imbandite di cibi e leccornie. Dallo scarseggiare di medicinali ad un eccesso di farmaci; da inadeguate condizioni igieniche alla costruzione di ambienti sin troppo puliti…tanto da mandare in tilt il sistema immunitario, provocando lo scatenarsi di allergie e intolleranze.

Non è solo questione di microbiota impazzito.

Forse ci siamo lasciati prendere un po’ la mano, in ossequio ad un “culto dell’eccesso” che, spiegano gli autori, ci sta impoverendo anziché arricchirci. Ci sta rendendo più deboli, quando avrebbe dovuto rafforzarci. Il “troppo” ci ha fatto perdere di vista il senso della misura. E così siamo fuori rotta. Fuori posto. Come pesci fuor d’acqua.

Un progressivo adattamento

Il mutare delle caratteristiche ambientali ha provocato un impatto nel patrimonio genetico dell’essere umano, comportandone il cambiamento: nulla di miracolistico o inspiegabile, in realtà. Si tratta di una selezione naturale il cui fattore discriminante risulta proprio una capacità di adattamento più o meno flessibile. Solo gli individui in grado di adattarsi al mutare delle condizioni ambientali hanno avuto la possibilità di sopravvivere e di trasmettere le proprie caratteristiche genetiche alla progenie, garantendosi una sopravvivenza non solo individuale, ma di specie.

Pensiamo soltanto che ai tempi dell’Homo Erectus la capacità di digerire il lattosio terminava con lo svezzamento, ma quando le carestie sempre più frequenti hanno reso meno possibile affidarsi alla caccia per l’approvvigionamento, ecco che l’uomo ha dovuto di nuovo mutare la propria struttura genetica, ripristinando la possibilità di digerire il lattosio anche in età adulta. Dunque soltanto coloro che riuscivano a cibarsi di latte e a trasmettere questa capacità ai propri discendenti guadagnavano una possibilità di continuazione della specie. Una concreta opportunità di fitness.

Ma quello adattivo è un processo che richiede il rispetto di un’adeguata tempistica. Non si può pensare ad una trasformazione genetica o epigenetica senza un timing adeguato. Il rischio, in caso contrario, è quello di un autentico “collasso evolutivo”: quello che gli autori chiamano mismatch evoluzionistico è proprio il mancato rispetto della sequenza temporale che consente al corpo di assimilare adattivamente i mutamenti imposti dall’ambiente, quelle trasformazioni cui la specie umana è stata spinta per garantire la propria continuazione, la perpetuazione del processo di fitness.

Dall’omeostasi all’allostasi

La velocità di cambiamento che ci siamo imposti è invece eccessiva, per certi aspetti distruttiva. Gli autori parlano molto efficacemente di autogol (p. 23) per indicare il danno che siamo riusciti a provocarci, in maniera avventata e anche un po’ ingenua. L’equilibrio omeostatico che garantisce il perdurare dei rapporti sistemici si è trasformato nel ben meno vantaggioso effetto allostatico, inteso come il prezzo che l’organismo è costretto a pagare, in termini stressori e di disagio, pur di adattarsi alle modifiche ambientali necessarie alle sopravvivenza e alla continuazione della specie.

Le conseguenze sono dannose, talvolta irreversibili, e quello che dovrebbe risultare un normale processo di adattamento ambientale diventa un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire: più siamo stressati più sentiamo il bisogno di fare, più siamo attivi e reattivi e maggiore è il nostro livello di stress.

Il miglioramento della qualità della vita è puramente illusorio, evidenziano gli autori.

I mali non sono diminuiti. Si sono soltanto trasformati, in isomorfismo con gli scenari esistenziali che abbiamo costruito. Ad un pericolo acuto e improvviso si è sostituita la presenza di un logoramento cronico, forse meno percepibile, ma non certo meno distruttivo e mortale: gli effetti di uno stress reiterato si ripercuotono sulla qualità e sulla durata della vita, accorciandone il corso e diminuendo, di conseguenza, anche le possibilità riproduttive.

Dunque dov’è il vantaggio evolutivo?

Dati alla mano, il cortisolo distrugge il sistema immunitario, e con esso la possibilità di difenderci dalle malattie. Lo stress favorisce l’insorgenza di disagi psichici di varia entità. Si conta che gli psicofarmaci accorcino l’aspettativa di vita di circa dieci anni, e che 8 milioni di morti all’anno siano dovute a patologie mentali (Faggian, Fistarollo, 2022). Ma chi non ha bisogno di psicofarmaci per riuscire a sostenere i ritmi vertiginosi che ci siamo imposti e a gestire lo stress che ne deriva? Dobbiamo essere svegli e operativi, e alla fine lo diventiamo talmente tanto da non riuscire più a prender sonno. Dunque ricorriamo alle benzodiazepine… una notte. Poi un’altra, e un’altra ancora. Fino a che non possiamo più farne a meno.

Tutto questo imperversare di farmaci e medicinali- soprattutto di antibiotici- ha finito col rendere più debole il nostro sistema immunitario, col risultato che, proprio per evitare il diffondersi di malattie, abbiamo finito per aumentarne la tipologia e la potenza virale.

Ma i conflitti paradossali dei nostri giorni non sono finiti qui. Abbiamo incrementato le competenze di linguaggio verbale per lasciarci irretire dal fascino di mezzi di comunicazione che non prevedono l’impiego delle parole. Vogliamo rispondere prontamente ad ogni sorta di stimolo e ci troviamo a fare i conti con l’ADHD. Aneliamo la libertà e siamo vulnerabili ad ogni tipo di dipendenza, inneggiamo all’individualismo ma temiamo la solitudine, amiamo essere al centro dell’attenzione –gli autori denunciano l’imperversare della Sindrome del Vip – per poi difendere strenuamente la nostra privacy, o nasconderci dietro la tastiera di un computer.

Il risultato è ben poco promettente. Un iperinvestimento sui mezzi informatici ha favorito il consolidarsi di un deficit di intelligenza creativa nelle nuove generazioni. I c.d. bambini digitali si limitano ad elaborare i dati passivamente percepiti dalla rete: stimoli non stimolanti e immagini senza immaginazione che, nel paradossale intento di svegliare le menti, le sovraccaricano di dati inutili rallentandone il funzionamento. Ancora una volta, nel tentativo di raggiungere un obiettivo, abbiamo ottenuto l’esatto contrario.

Il significato dell’autogol

Il nostro stress risulta, per così dire, poco utile; una continua allerta di fondo alla quale non segue mai un vero e proprio sollievo. Queste continue gocce di stress risultano maggiormente logoranti di un forte acquazzone (p. 22):  questa significativa frase del testo in un certo senso ne sintetizza efficacemente il ben più ampio contenuto.

Stiamo sprecando inutilmente energia e salute, condannandoci a condizioni di vita che non ci procurano alcun vantaggio. La battaglia non è più contro predatori esterni, ma contro nemici interni non meno letali. La società che abbiamo costruito si sta rivelando una trappola mortale, foriera di aspetti abortivi più che generativi: si vive, ma si vive male, e pagando un prezzo innegabilmente alto.

Il tono divagante e ironico con cui gli autori sono capaci di esprimersi non deve trarre in inganno sulla complessità delle tematiche oggetto del libro: abbiamo sopravvalutato le nostre possibilità. Siamo giganti con i piedi di argilla che, a fronte di un ritmo così vertiginoso, non sanno tenere il passo. E il paradosso è che crediamo di esserci fatti un favore. Così, quelle che abbiamo etichettato come agevolazioni sono diventate difficoltà, quelle che sembravano liberazioni ci hanno messo in gabbia. Non ci siamo dati il tempo per affrontare le modifiche ambientali che noi stessi, con la nostra compulsiva frenesia fattiva, abbiamo provocato. Lo scenario che si prospetta è quello di una colossale sconfitta evolutiva, o quantomeno di una vittoria di Pirro.

Allora è tutto da rifare?

Forse no. Eliminare lo stress si dimostra la chiave risolutiva del dilemma. Più facile a dirsi che a farsi. Ma è necessario. In fondo non siamo cambiati poi così tanto, rispetto ai nostri antenati; gli istinti primari sono rimasti i medesimi: anche oggi desideriamo trovare il compagno giusto, riprodurci e garantirci la fitness, aspiriamo all’approvvigionamento quotidiano e alla possibilità di superare l’avversario nella conquista della preda, sperando di non divenire prede a nostra volta. Solo che tante sovrastrutture ci hanno spinto a barattare l’obiettivo principale con dettagli periferici e fuorvianti.

Dobbiamo riprendere la rotta. Ci riusciremo, senza tenderci sabotanti trappole antievolutive?

In attesa di trovare una risposta godiamoci il libro di Faggian e Fistarollo, cercando di cogliervi il ritratto di una società che, per quanto inadeguata, non si è certo costruita da sola. E che, armati di spirito di consapevolezza, autoefficacia e senso critico siamo ancora in grado di modificare.

Per cambiare in tempo basta, forse, darsi il tempo di cambiare.

 

Come un trauma infantile influenza il funzionamento sessuale adulto?

Il meccanismo fisiologico alla base della correlazione tra disfunzione sessuale e trauma infantile sembra essere l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il principale sistema responsabile della risposta allo stress.

 

I traumi infantili

Gli anni dell’infanzia sono considerati un periodo importante per lo sviluppo psicosessuale: traumi e abusi durante questa fase possono influenzare la crescita sociale, il funzionamento interpersonale e quello sessuale in età adulta, spesso causando la paura dell’intimità (Maltz, 2002). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riportato che le donne e gli uomini che riferiscono di aver subito un abuso sessuale infantile (Childhood Sexual Abuse; CSA) sono rispettivamente 1 su 5 e 1 su 13. Anche il numero degli abusi fisici sembra essere molto elevato, pari ad un quarto della popolazione adulta mondiale (WHO, 2018).

Sebbene non tutte le persone che hanno vissuto un abuso sessuale infantile abbiano un funzionamento sessuale compromesso in età adulta, tra le persone che si rivolgono ad un professionista per una terapia sulle disfunzioni sessuali, la maggior parte di loro ha subìto avversità infantili (56% delle donne e 37% degli uomini; Berthelot et al., 2014) e la ricerca scientifica spesso non ha ben chiari i fattori psicologici che influenzano la sessualità della vittima e i principali obiettivi da affrontare.

Nello specifico, si ritiene opportuno identificare i meccanismi che possono essere alla base o mediare la relazione tra le esperienze traumatiche infantili e il funzionamento sessuale adulto. La letteratura, con il passare degli anni, ha tentato di studiare i meccanismi fisiologici e psicologici che potessero spiegare la relazione tra disfunzione sessuale adulta e trauma infantile, individuando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) come un possibile mediatore fisiologico mentre la depressione e lo stress quotidiano come mediatori psicologici. Questi ultimi infatti sono correlati al trauma infantile, alla disfunzione sessuale e al funzionamento dell’asse HPA (Heim & Nemeroff, 2001).

Il legame tra disfunzioni sessuali e traumi infantili

Negli ultimi decenni è stata infatti esplorata, tramite studi longitudinali epidemiologici e trasversali, la correlazione tra disfunzione sessuale e trauma infantile. Sebbene i risultati non siano sempre coerenti, gli studi sono concordi nel ritenere che le esperienze traumatiche infantili, in particolare il trauma sessuale, possa essere considerato un fattore di rischio per la disfunzione sessuale adulta. Questa spesso include bassi livelli di desiderio sessuale, difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo e problemi nell’eccitazione sessuale nelle donne che hanno subìto maltrattamenti nell’infanzia (Rellini, 2005).

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il principale sistema responsabile della risposta allo stress, sembra invece essere il meccanismo fisiologico alla base della correlazione tra disfunzione sessuale e trauma infantile. In situazioni altamente stressanti, essendo molto plastico, l’asse HPA subisce delle alterazioni che provocano una disregolazione a lungo termine. Gli effetti di un trauma infantile, che rientra nelle situazioni altamente stressanti sopra menzionate, raggiungono livelli molto elevati sull’asse HPA in età adulta. Inoltre le alterazioni del cortisolo sono molto importanti nel funzionamento sessuale, in quanto sono implicate nella motivazione e nella risposta sessuale. In molte persone che hanno subìto traumi infantili si sono osservate alterazioni nella secrezione di cortisolo come ad esempio ipo-cortisolismo, iper-cortisolismo e i livelli di cortisolo, che solitamente è alto al risveglio e cala progressivamente fino a sera, rimanevano invariati durante la giornata. Le variazioni del ritmo del cortisolo e delle funzioni regolative hanno infatti delle conseguenze negative sulla salute fisica e mentale (Adam et al., 2017). Una ricerca, per esempio, ha sottolineato che alcune donne con disturbo da desiderio sessuale ipoattivo avevano livelli diurni di cortisolo invariati (Basson et al., 2019). Inoltre, le donne che hanno avuto esperienze traumatiche infantili, spesso hanno una maggiore sensibilità per i fattori di stress generali e un sottosviluppo delle capacità di far fronte allo stress quotidiano; quest’ultimo ha effetti altamente negativi per il funzionamento sessuale ed è correlato a una minore qualità coniugale che può influire sulla funzione sessuale (Hamilton & Julian, 2014). Quando si fa una diagnosi di disturbo del desiderio sessuale è necessario quindi tenere in considerazione gli effetti di uno stress significativo (APA, 2013). Infine la depressione può potenziare la relazione tra difficoltà sessuali e traumi infantili in quanto è spesso in comorbilità sia con le une che con gli altri. I cambiamenti della gravità dei sintomi depressivi sembrano corrispondere alle variazioni della risposta sessuale durante lo stesso giorno (Kalmbach et al., 2014).

Traumi infantili, depressione e disfunzioni sessuali

O’Loughlin e colleghi, nel 2020 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare i contributi della disregolazione dell’asse HPA, del trauma infantile, dei sintomi depressivi e dello stress quotidiano sulla funzione sessuale (valutata tramite il desiderio sessuale e cioè tramite la presenza di disturbo ipoattivo del desiderio sessuale, in inglese: hypoactive sexual desire disorder HSDD), in un campione di donne non clinicamente depresse. 275 donne sono state incluse nel campione e sono stati loro somministrati il Decreased Sexual Desire Screener (DSDS; Clayton et al., 2009 ) per valutare il disturbo da desiderio sessuale ipoattivo; il Sexual Interest and Desire Inventory-Female (SIDI-F; Clayton et al., 2006) per ottenere una misura continua del desiderio sessuale; il Beck Depression Inventory-II (BDI-II; Beck et al., 1996) per misurare la severità dei sintomi depressivi; il Questionario sul trauma infantile (CTQ) che valuta la gravità di vari tipi di esperienze traumatiche infantili (Bernstein & Fink, 1998); la Scala dello stress percepito (PSS; Cohen & Williamson, 1988); la Scala di valutazione delle relazioni (RAS) per valutare la soddisfazione globale delle relazioni (Hendrick, 1988); infine è stato rilevato il cortisolo salivare. I risultati mostrano che la depressione è il predittore più potente della diagnosi di disturbo ipoattivo del desiderio sessuale, anche tenendo conto della funzione dell’asse HPA, dello stress percepito e del trauma infantile: le avversità infantili sono collegate al desiderio sessuale soprattutto tramite i sintomi depressivi e non tramite le variazioni diurne di cortisolo né tramite lo stress percepito. Inoltre la variazione diurna di cortisolo, coerentemente con gli studi che avevano sottolineato il ruolo del cortisolo nella motivazione e nella risposta sessuale, è risultata essere significativamente associata al disturbo ipoattivo del desiderio sessuale. Le avversità infantili sono associate sia ai sintomi depressivi che allo stress quotidiano, sebbene quest’ultimo non sia significativamente associato al desiderio sessuale. Infine sembrerebbe che non vi sia una relazione significativa tra il trauma infantile e le variazioni giornaliere di cortisolo.

I risultati ottenuti evidenziano l’utilità di una valutazione della depressione nelle donne con problemi nel desiderio sessuale: quando le donne hanno avuto un trauma infantile e presentano depressione e basso desiderio sessuale, la depressione può essere un punto di intervento efficace per il trattamento. In conclusione sembra che un grave trauma infantile influisca sul desiderio sessuale tramite una disregolazione del cortisolo provocata da dei problemi del funzionamento dell’asse HPA.

Selettività alimentare in età pediatrica – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Mio figlio non mangia niente! Selettività alimentare in età pediatrica’.

 

Nel 2013 il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo è stato incluso nella categoria dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Con il termine alimentazione selettiva si descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi. Quando il genitore tenta di ampliare la gamma di cibi il bambino reagisce con ansia e disgusto. Tale disturbo ha un importante impatto sul funzionamento sociale del bambino e sulle dinamiche familiari, per questo richiede un trattamento multidisciplinare che includa interventi dal punto di vista psicologico, nutrizionale e medico.

Nell’episodio del podcast dal titolo ” ‘Mio figlio non mangia niente! Selettività alimentare in età pediatrica”, l’argomento sarà approfondito dalla Dott. ssa Lucia Candria, Psicologa, Psicoterapeuta e dalla Dott.ssa Valeria Bracalenti, Biologa Nutrizionista.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Alta ruminazione e musica triste: quale effetto sull’umore?

Ascoltare musica è una strategia efficace usata per regolare specifici momenti di tristezza, ma è ancora in dubbio se ascoltare musica triste quando si è tristi sia benefico per le persone con un alto livello di ruminazione.

 

Quotidianamente le persone possono provare tristezza in risposta a specifici fattori ambientali, sperimentando per un tempo più o meno circoscritto cognizioni e sintomi corporei vari (Barrett, 2006). Infatti, la tristezza, è considerata un’emozione transitoria con episodi che in genere si attenuano entro 30 minuti dall’inizio (Verduyn et al., 2009). Tuttavia, la tristezza può anche essere uno stato d’animo più duraturo, non specifico, e questo può essere conseguente a una cattiva regolazione delle emozioni (Gross, 1998).

Alcuni studi precedenti hanno suggerito che la musica può essere spesso utilizzata come modo per regolare le emozioni negative (ad es, Vidas et al., 2020). Con questo intento, le persone possono preferire l’ascolto di musica che esprime l’emozione vissuta in quel momento (Taylor & Friedman, 2015).

Le proprietà della musica nel regolare le emozioni

Dingle e colleghi (2019) hanno sostenuto che l’ascolto di musica emotivamente congruente è un modo adattivo per regolare le emozioni. Il modello Access-Awareness-Autonomy (AAA) della competenza socio-emotiva musicale postula che le proprietà emotive della musica consentano una maggiore consapevolezza e accesso alle istanze emotive (Saarikallio, 2019). Infatti, gli interventi che impiegano l’uso dell’esplorazione emotiva con l’ascolto di musica emotivamente congruente sono stati correlati a una migliore regolazione delle emozioni e alla salute psicologica (Dingle & Fay, 2017; Dingle, Hodges, & Kunde, 2016). Questi risultati sembrano essere anche più frequenti tra i più giovani; I giovani adulti (17-25 anni) hanno riportato una preferenza per l’uso della musica per immergersi nella tristezza rispetto agli adulti con più di 25 anni (Dingle, Sharman, & Larwood, 2019).

L’ascoltare musica è una strategia efficace usata per regolare specifici momenti di tristezza, ma è ancora in dubbio se ascoltare musica triste quando si è tristi sia benefico per le persone con un alto livello di ruminazione (Garrido & Schubert, 2013).

In letteratura è stato dimostrato che la musica triste (sia essa selezionata dallo sperimentatore o selezionata dal partecipante) aumenta la tristezza, e che le persone con un alto livello di ruminazione hanno mostrato maggiori preferenze per la musica triste durante la tristezza indotta sperimentalmente (Garrido & Schubert, 2013).

Garrido e Schubert (2015a, 2015b) hanno considerato la ruminazione di tratto un predittore per l’aumento di tristezza durante l’ascolto di musica triste selezionata dai partecipanti. In entrambi gli studi, Garrido e Schubert (2015a, 2015b) hanno scoperto che quando i partecipanti hanno ascoltato una musica auto-nominata che induce alla tristezza in uno stato di base, la tristezza è aumentata dal pre al post ascolto. Ma, in merito, i risultati presenti in letteratura sono discordanti (Dingle et al., 2019).

Per spiegare l’influenza della musica sugli stati emotivi, è stato formulato il modello BRECVEMA (Juslin, 2013). Il modello BRECVEMA include il meccanismo del contagio emotivo, dove l’ascoltatore fa proprie le emozioni espresse dall’artista, le associazioni e/o i ricordi specifici che la canzone rievoca all’ascoltatore (Juslin, Harmat, & Eerola, 2014). Per ora, non esistono risultati in merito al collegamento tra ruminazione e meccanismi di induzione musicale proposti nel modello BRECVEMA.

Musica triste e ruminazione

Per testare il ruolo della ruminazione in questo processo, uno studio di Larwood e Dingle (2021) ha indagato l’effetto della ruminazione nel predire i cambiamenti nella tristezza quando si ascolta musica triste. Il campione utilizzato era di giovani adulti (18-25 anni) perché questo riflette la propensione delle persone sotto i 25 anni a usare la musica per regolare le loro emozioni (Dingle et al., 2019; Vidas et al., 2020). I brani ascoltati durante le sessioni sperimentali sono state scelte dai partecipanti stessi, permettendo così una variazione nei meccanismi BRECVEMA sperimentati, in particolare le associazioni e i ricordi.

I risultati hanno dimostrato che, coerentemente con Garrido e Schubert (2015b), è stato riscontrato un effetto moderatore della ruminazione, per cui i partecipanti con un alto livello di ruminazione hanno sperimentato un maggiore aumento della tristezza da prima a dopo l’ascolto.

Quando le altre variabili, come ad esempio i ricordi legati alla canzone, venivano inseriti nel modello, la ruminazione non mostrava più un effetto moderatore nella relazione.

Le analisi esplorative hanno suggerito che gli aumenti di tristezza dal pre al post ascolto musicale sono stati predetti dalla presenza di contagio emotivo, memorie e condizionamento, ma non dalla ruminazione. Questo risultato è in linea con altri studi (ad es, Cespedes-Guevara & Eerola, 2018), che specificano che i meccanismi di BRECVEMA si verificano in base alla canzone ascoltata e alla relazione che l’ascoltatore ha con essa.

Nonostante i risultati delle analisi esplorative non abbiano confermato l’effetto moderatore della ruminazione, ciò non nega la scoperta che la ruminazione ha predetto un aumento della tristezza dal pre al post ascolto. Tuttavia, suggerisce che i risultati potrebbero non essere puramente attribuibili alla ruminazione a livello di tratto. È possibile che le persone con un alto livello di ruminazione selezionino canzoni che hanno più probabilità di innescare certi meccanismi di BRECVEMA o che le persone con un alto livello di ruminazione siano più suscettibili allo sperimentare meccanismi di BRECVEMA.

In conclusione, è stato riscontrato un effetto della ruminazione tale che punteggi più alti di ruminazione prevedevano maggiori aumenti di tristezza dal pre al post ascolto. Tuttavia, questo effetto non sembra essere indipendente dai noti meccanismi di induzione delle emozioni musicali. La ricerca futura è quindi necessaria per stabilire se il tratto di ruminazione influenzi la selezione di canzoni che inducono tristezza o se il tratto di ruminazione predice una sensibilità generale ai meccanismi del BRECVEMA. Infine, i risultati dello studio suggeriscono che quando si considera l’uso della musica come una strategia di regolazione delle emozioni con giovani adulti ad alto rischio di disturbi dell’umore, si deve prestare attenzione al loro stile di ascolto, alla personalità e ai processi psicologici associati a canzoni specifiche.

 

Meditare con la vita (2022) di A. Montano e V. Iadeluca – Recensione

L’obiettivo delle autrici di Meditare con la vita è quello di avvicinare chi, per diversi motivi, vuole iniziare a praticare la mindfulness.

 

La pratica della mindfulness s’ispira alla millenaria tradizione vipassana e consente di avere un atteggiamento di consapevolezza, di essere sé stessi nel momento presente, sospendendo valutazioni e giudizi. Con l’attenzione focalizzata su ciò che semplicemente è, viene disattivato quello che può essere considerato un pilota automatico che ci fa agire come fossimo dei robot programmati e, pertanto, ci consente di aumentare la nostra libertà e un maggiore controllo sulla nostra vita.

Il modo mindful, per entrare nella vita di ognuno, ha bisogno di essere trasformato in un’esperienza continua alimentata dalla pratica formale e, per far sì che il lettore familiarizzi con questa impostazione, già nell’introduzione del libro è presentato un esercizio di consapevolezza del respiro, uno dei tanti che sono illustrati nel testo.

Il libro è articolato in tre parti.

La prima è dedicata a definire che cosa sia la mindfulness, a tracciarne lo sviluppo storico e i principi di fondo che ne rappresentano il cuore. L’esperienza come gioco di equilibrio tra corpo, emozioni e pensieri. La distanza dalle doverizzazioni, giudizi e desideri. La modalità dell’essere, come atto di resa totale e accettazione di ciò che è nel momento in cui è, contrapposta alla modalità del fare, che ci fa vivere in automatico, senza essere consapevoli di ciò che accade. Il respiro come àncora, punto di riferimento da cui allontanarsi e a cui ritornare. L’osservazione non giudicante per lasciare andare i pensieri che sono semplicemente eventi passeggeri. Fino a raggiungere una consapevolezza di interconnessione (inter-essere) di interdipendenza tra l’io e il tutto che, attraverso un atteggiamento equanime e compassionevole, ci fa cogliere l’impermanenza di tutte le cose, dandoci serenità d’animo.

La seconda parte è concepita per avvicinare alla mindfulness nei suoi vari formati: dalla meditazione seduta, alla meditazione camminata, sino alla pratica informale o non strutturata. Si tratta di incamminarsi lungo il sentiero stretto della semplicità, non molto congeniale alla nostra cultura.

La terza e ultima parte illustra diverse applicazioni della mindfulness per la cura delle persone, prendendo in esame il protocollo standard di riduzione dello stress, e una delle possibili applicazioni per bambini.

Il volume si chiude con una rassegna degli approcci alla psicoterapia che utilizzano la pratica.

Il libro è un ottimo compendio di esercizi per allenare una mente mindful, con indicazioni pratiche molto utili a chi vuole cimentarsi per rendere la propria vita degna di essere vissuta con un atteggiamento verso sé stessi, gli altri e il mondo, di comprensione empatica, compassione, accoglienza non giudicante, presenza consapevole.

 

Il legame tra rischio di suicidio e solitudine dopo un lutto

In che modo la solitudine e l’isolamento dopo un lutto improvviso influenzano il rischio di suicidio?

 

L’associazione tra solitudine e rischio di suicidio

Per ogni persona che si suicida, all’incirca 800.000 persone all’anno in tutto il mondo, altre 20 tentano il suicidio (WHO, 2014). Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ipotizzato che un senso di isolamento potesse essere considerato un fattore di rischio per il suicidio. Il senso di isolamento può essere provocato sia dalla solitudine che dall’isolamento sociale. La solitudine è stata concettualizzata come un’esperienza spiacevole che si verifica quando la rete di relazioni sociali di una persona è insufficiente dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo; come una sensazione interiore di non essere connesso agli altri e infine come una sensazione negativa di mancanza o perdita di compagnia. L’isolamento sociale è invece una mancanza oggettiva di contatti sociali (de Jong Gierveld, 1998). Entrambi questi costrutti hanno degli effetti negativi sulla salute fisica e mentale, sembrano infatti associati al tasso di suicidi (Stickley & Koyanagi, 2016). È probabile, infatti, che le persone che si sentono sole siano insoddisfatte della propria vita e che percepiscano di avere scarse connessioni sociali. Inoltre la solitudine può aumentare lo stress cronico, la bassa autostima e accrescere la sintomatologia depressiva.

Diversi sono i modelli teorici che hanno tentato di spiegare l’associazione tra solitudine e suicidalità: il costrutto dell’appartenenza contrastata, per esempio, descrive ciò che insorge quando il bisogno fondamentale di formare e mantenere relazioni interpersonali forti e stabili non è soddisfatto, con conseguenti sentimenti di disconnessione; la teoria interpersonale del suicidio considera l’appartenenza contrastata come inclusiva sia della solitudine sia dell’assenza di relazioni di cura (Ma et al., 2019). Il modello integrato motivazionale volitivo (IMV) propone invece che l’appartenenza contrastata e l’idea che la propria esistenza sia un peso per gli altri spieghino il passaggio dall’ideazione suicidaria al tentativo di suicidio (O’Connor & Kirtley, 2018).

Il rischio di suicidio dopo un lutto improvviso

Anche la solitudine derivante da un lutto improvviso può essere un fattore di rischio per il suicidio in quanto il lutto improvviso è esso stesso un fattore di rischio, soprattutto quando la morte è avvenuta per suicidio. Sembra infatti che alcuni fattori come la solitudine, l’isolamento sociale e il poco sostegno sociale siano coinvolti nel rischio di suicidio dopo un lutto improvviso. La solitudine dopo una morte improvvisa può essere provocata da un senso di perdita di una relazione. Inoltre il suicido spesso genera imbarazzo e tabù nelle persone che circondano il defunto, che causano un conseguente isolamento sociale per evitare di dover dare spiegazioni. Infine, la consapevolezza degli atteggiamenti negativi degli altri verso la perdita causata da un lutto improvviso, è uno dei principali fattori che causano solitudine, poiché alcuni individui percepiscono che gli altri possano fare pettegolezzo sul defunto, possano attribuire la colpa a qualcuno e si cerca quindi di evitare ogni contatto. Tale stigma viene esperito nei familiari, soprattutto a seguito delle morti improvvise, e ancor di più per quelle per suicidio. Alcune possibili spiegazioni religioso-culturali dell’imbarazzo provato vedono il suicidio come un atto deplorevole e le morti accidentali come un atto irresponsabile. Inoltre lo stigma percepito di un lutto improvviso è associato al rischio di pensieri e tentativi di suicidio. Ovviamente non è sempre detto che il lutto inatteso influenzi tutti gli individui; gli esiti negativi dipendono dalla vulnerabilità personale, dalla qualità della relazione con il defunto e dal supporto sociale che si ha dopo un evento traumatico.

Il legame tra solitudine e rischio di suicidio dopo un lutto improvviso

Per comprendere meglio il ruolo che l’isolamento sociale e la solitudine hanno nella suicidalità, Pitman e colleghi nel 2020 hanno condotto uno studio per indagare se una maggiore solitudine fosse associata a una maggiore probabilità di tentativi di suicidio o ideazione suicidaria dopo un lutto improvviso, distinguendo un lutto suicida da un lutto non suicida. Gli autori hanno quindi analizzato i dati raccolti nel UCL Bereavement Study del 2010, identificando 3193 intervistati che avevano vissuto un lutto improvviso. Per ciascun partecipante sono stati rilevati: la solitudine, utilizzando una misura a otto voci estrapolate dall’Adult Psychiatric Morbidity Surveys (APMS; McManus et al., 2009) e i tentativi di suicidio e l’ideazione suicidaria auto-riferiti (Bebbington et al., 2010). Inoltre ai soggetti sono stati somministrati il Composite International Diagnostic Interview (CIDI; Robins et al., 1988)) per misurare la depressione; la Standardised Assessment of Personality-Abbreviated Scale (SAPAS; Moran et al., 2003) per identificare un possibile disturbo di personalità; una sottoscala del Grief Experience Questionnaire (GEQ; Bailley et al., 2000) che misura lo stigma percepito della perdita improvvisa e infine una parte dell’Interview Measure for Social Relationships (IMSR) per valutare la dimensione della rete sociale. I risultati mostrano che, negli adulti in lutto, la solitudine era significativamente associata alla probabilità di un tentativo di suicidio e all’ideazione suicidaria post-lutto; tale associazione non è però spiegata dalla mancanza di amici o familiari o dal sentirsi stigmatizzati dalla perdita.

Il senso di solitudine non ha avuto un effetto maggiore sulla suicidalità tra le persone in lutto per suicidio rispetto alle persone in lutto per una morte differente, sebbene le persone in lutto per suicidio avessero una probabilità significativamente più alta di tentativo di suicidio post lutto (Pitman et al., 2016). Sarebbero necessari ulteriori studi per analizzare più nello specifico le associazioni tra stigma, solitudine, malattia mentale, supporto sociale e suicidalità nelle persone che hanno subìto un lutto. I risultati suggeriscono la necessità di figure professionali come medici di medicina generale, organizzazioni di volontariato e reti che sostengono le persone in lutto, di indagare sulla solitudine e considerare i modi per affrontarla. È possibile però che lo stigma di ammettere di sentirsi soli possa condizionare l’identificazione del problema, soprattutto nelle persone che desiderano nascondere il loro senso di isolamento. Un gruppo di supporto per il lutto tra pari può essere un modo per creare relazioni tra le persone in lutto, in particolare coloro che sono escluse dal gruppo di coetanei non in lutto. I gruppi, infatti, potrebbero fornire loro un contesto in cui esprimere il dolore sentendosi accettati e capiti dalle altre persone (Young et al., 2016).

 

La psicologia dell’anziano – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il quarto episodio del podcast dedicato alla psicologia dell’anziano. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Roberta Sciore.

Dove ascoltare il quarto episodio:

 

“Ti ferisco per colpa tua”: la gelosia nella violenza relazionale

Maggiore è la considerazione che viene data all’onore, più frequente è l’utilizzo della gelosia come giustificazione dei comportamenti aggressivi attuati sul partner.

 

La violenza all’interno della coppia

Devries e colleghi (2013) hanno riportato che almeno un quarto delle donne, nella propria vita, esperisce una qualche forma di violenza da parte del proprio partner. La violenza da parte del partner può comportare una serie di conseguenze negative per la salute, come depressione, abuso di sostanze, malattie sessualmente trasmissibili e morte (Pichon et al., 2020).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS; 2021) definisce quattro tipologie di violenza da parte del partner: (1) la violenza fisica, la quale include una serie di comportamenti fisici che vanno dal tirare schiaffi all’omicidio; (2) la violenza sessuale, che include coercizione sessuale; (3) la violenza psicologica, come insulti, umiliazioni e minacce; (4) i comportamenti di controllo, che comprendono l’isolare il partner da familiari e amici, monitorare i suoi spostamenti e impedirgli una serie di attività che possono essere ricreative o lavorative. È stato osservato che la violenza psicologica è molto più frequente (81%) rispetto alla violenza fisica (12%) (Sebastiàn et al., 2014). Inoltre, entrambi i generi possono perpetrare violenza nei confronti del partner, tuttavia le donne attuerebbero un tipo di violenza più psicologica che fisica rispetto agli uomini, i quali invece utilizzano più frequentemente violenza fisica (Sebastiàn et al., 2014). Tali comportamenti spesso possono essere causati dal fatto che un individuo percepisca il proprio partner relazionale come una persona infedele (Puente e Cohen, 2003). L’infedeltà è definita come l’atto di avere un rapporto sessuale con qualcuno che non sia il proprio partner ufficiale

La gelosia relazionale

La gelosia relazionale compare quando l’individuo percepisce una minaccia, o una reale perdita, riguardo una relazione ritenuta significativa con un’altra persona a causa di un rivale, sia esso reale o immaginario, che può attirare le attenzioni del partner (DeSteno e Salovey, 1996). È importante notare che la sola preoccupazione per la perdita del partner non risulta essere una condizione sufficiente ad attivare i meccanismi della gelosia; infatti, l’elemento determinante della gelosia sembra essere la presenza del rivale e che egli venga percepito come minaccia reale alla relazione (Desteno e Salovey, 1996; Pfeiffer e Wong, 1989). Il risultato della gelosia è un insieme di diverse emozioni, che possono differire in base al contesto e alla cultura, come la frustrazione, la rabbia, l’insicurezza, la tristezza, la vergogna e l’umiliazione (Pichon et al., 2020).

La gelosia può essere inoltre vista come un insieme di tre differenti dimensioni che possono essere attive in concomitanza, ovvero: (1) la dimensione cognitiva, che fa riferimento ai pensieri riguardanti la gelosia; (2) la dimensione emotiva, che fa riferimento all’attivazione emotiva causata da pensieri o situazioni legate alla gelosia; (3) la dimensione comportamentale, che fa riferimento ai comportamenti di controllo e prevenzione attuati per evitare che avvenga un atto di tradimento da parte del partner con una terza figura (Pfeiffer e Wong, 1989).

La percezione di infedeltà del proprio partner può condurre l’individuo ad esperire una forte gelosia nella coppia (Puente e Cohen, 2003). Se elicitata da pensieri di gelosia, la violenza relazionale viene erroneamente giudicata a volte come giusta e, a causa di ciò, molti comportamenti violenti vengono visti come “atti d’amore”. È stato osservato che circa il 32% delle persone che attuano comportamenti di violenza in risposta alla gelosia li percepiscono come derivanti dall’amore nei confronti del partner. Il dato interessante è che anche il 27% delle vittime di tali violenze li giustificano per la medesima ragione. Alcune donne sembrano vivere la violenza da parte dei propri partner come una sorta di impegno nella relazione.

Le giustificazioni della violenza e il concetto di onore

È stato osservato che gli individui che attuano dei comportamenti violenti nei confronti del partner tendono ad utilizzare la dimensione cognitiva come mezzo per giustificare le proprie azioni (Rodríguez-Espartal, 2021). Infatti, in alcuni casi, i pensieri antecedenti ai comportamenti di violenza sono collegati ad ideologie, come la percezione di inferiorità del genere femminile e l’idea di superiorità dell’uomo.

Sono inoltre presenti altri bias cognitivi, che non sono direttamente legati alla percezione del ruolo della donna, come il concetto di onore e l’uso della violenza come mezzo legittimo per risolvere delle situazioni conflittuali (Rodrìguez-Espartal, 2021). In base alla cultura, il concetto di onore è stato spesso utilizzato per giustificare le azioni aggressive nei confronti del partner. La cultura dell’onore, in questo caso, può far riferimento alle reazioni emotive causate dalla minaccia a qualcosa che viene percepito come proprio, sia esso un oggetto o una persona. Per quanto riguarda l’ambito della relazione di coppia, la cultura dell’onore vede al suo centro una società patriarcale, dove l’uomo comanda e la donna ha il dovere di obbedire. Qualora la donna dovesse rifiutarsi di eseguire ciò che il partner comanda, verrebbe meno l’onore di quest’ultimo, autorizzandolo così ad utilizzare la violenza come mezzo per ristabilire la propria posizione di potere, supportato dal concetto di onore stesso e dalla società. È interessante constatare che in molte culture l’onore e la gelosia sono aspetti direttamente collegati, infatti, generalmente, l’idea che la propria partner possa avere una relazione extra-coniugale è considerata una grande onta. Così, maggiore è la considerazione che viene data all’onore, più frequente è l’utilizzo della gelosia come giustificazione dei comportamenti aggressivi attuati sul partner.

Torrado A. (2004), mediante l’utilizzo di interviste qualitative a dei detenuti di genere maschile condannati per violenza sessuale e domestica nei confronti del proprio partner, ha sottolineato che il 70% degli intervistati abbia usato il comportamento della donna come una giustificazione per attuare dei comportamenti di violenza, il 60% afferma che la violenza è stata una risposta di difesa verso l’aggressione attuata dalla partner, il 40% giustifica la violenza come mezzo per riguadagnare l’autorità perduta nel contesto familiare e il 30% afferma che è stata colpa dell’abuso di alcol.

Alcune conseguenze della violenza psicologica

Per quanto riguarda la violenza psicologica, le conseguenze possono essere uguali o peggiori rispetto a quelle causate dalla violenza fisica (Schumacher, Slep e Heyman, 2001). La violenza generata dalla gelosia può non arrecare danni fisici al partner ed essere manifestata in forma di controlli e divieti. Un esempio può essere osservato nell’ambito dei social network, la cui sempre crescente popolarità ha ampliato le modalità con cui le persone comunicano ed interagiscono tra loro, spesso influenzando le relazioni romantiche (Daspe et al., 2018). Ciò favorisce l’emissione di comportamenti di controllo virtuale, che comprendono il divieto di accettare richieste di amicizia da parte di altre persone o di condividere foto ritenute inopportune. È inoltre possibile che si cerchino le password del partner al fine di utilizzare i suoi profili, invadendo così la sua privacy. Un altro esempio è quello degli abusi psicologici, la cui principale conseguenza sembra essere la comparsa di sintomi depressivi (Morland et al., 2008). È molto frequente anche la comparsa di sintomi ansiosi, e in alcuni casi è possibile che si presentino anche il Disturbo da Stress Post-Traumatico, condotte autolesive o suicidarie (Daspe et al., 2018; Morland et al., 2008). La violenza psicologica è attuata anche nei confronti delle donne in gravidanza e ciò può avere degli effetti significativamente negativi sia sulla madre che sul bambino (Tiwari et al., 2008). L’abuso psicologico da parte del proprio partner durante la gravidanza può causare una serie di complicazioni, come un parto prematuro, l’interruzione spontanea della gravidanza e la comparsa di depressione post-partum (Tiwari et al, 2008).

Conclusioni

In conclusione, la violenza relazionale -esito della gelosia- è un comportamento che può avere ricadute sulla vita e il benessere psicologico di entrambi i partner. È interessante notare come sia ampia la numerosità di uomini che utilizza la gelosia come mezzo per giustificare un’aggressione psicologica o fisica. Ulteriori ricerche potrebbero porre il focus sulle tipologie di violenza emessa dal genere femminile.

 

La dimensione psicosociale dei disturbi neurocognitivi

Nel trattamento dei disturbi neurocognitivi si sta passando da un’ottica centrata sulla malattia ad un’ottica centrata sulla persona, tenendo in considerazione la volontà e le motivazioni del paziente ad essere agente attivo della propria cura.

 

L’impatto di un disturbo neurodegenerativo differisce fortemente in base alle caratteristiche del paziente, della famiglia e del contesto ambientale in cui è inserito. Considerare gli aspetti puramente medici è un approccio utile, ma non sufficiente a comprendere a fondo cosa caratterizza questi disturbi a livello individuale e sociale. Infatti, se da una parte l’ottica biomedica ha permesso di attuare grandi passi nella ricerca, dall’altra rischia di indurre a sottovalutare aspetti molto importanti che influenzano sia l’esordio che il decorso della malattia.

Un cambiamento di approccio

Ormai da qualche decennio l’approccio elettivo della scienza psicologica è il modello biopsicosociale, concettualizzato da Engel nel 1977 ed improntato a contrastare i riduzionismi che il modello biomedico apporta. Un esempio classico di riduzionismo si può ritrovare nella concezione di un dualismo mente-corpo, che porta ad immaginare la psiche divisa dal soma e comporta di conseguenza una frammentazione corporea corroborante, tra gli altri, i disturbi psicosomatici riscontrabili in numerose persone. Il modello biopsicosociale si basa sulla teoria generale dei sistemi e mira a superare la causalità diretta che si credeva fosse alla base delle malattie, individuando invece come ci sia una presenza di fattori multipli in una ottica di causalità circolare (Delle Fave e Bassi, 2013). In questa concezione, si può pensare ai disturbi neurocognitivi come causati da – e causanti – una complessa rete di problematiche presente a livello biologico, psicologico e sociale. Vi è stato quindi un ripensamento della salute in termini soggettivi più che oggettivi, concentrandosi maggiormente sulla prevenzione a priori piuttosto che sulla cura a posteriori, seppur riconoscendo l’importanza di entrambe. Il significato di questo è esemplificabile attraverso il cambiamento in atto nel trattamento delle malattie neurodegenerative: si sta passando da un’ottica centrata sulla malattia ad un’ottica centrata sulla persona, tenendo in considerazione la volontà e le motivazioni del paziente ad essere agente attivo della propria cura (Converso, 2015).

L’approccio centrato sulla persona

L’approccio centrato sulla persona è stato inizialmente introdotto da Balint negli anni ’40, il quale sottolineava la necessità di comprendere il paziente nella sua umanità e unicità, ponendo attenzione soprattutto alla rappresentazione soggettiva della malattia da parte del paziente, contrapposta alla malattia organica a sé stante (Michie et al., 2003). In inglese, i due termini si possono tradurre rispettivamente con illness e disease, permettendo di differenziare le due componenti (Eisenberg, 1977). L’approccio è una filosofia di cura che si basa sul modello biopsicosociale e sulla visione del paziente come persona, considerando il suo vissuto, i suoi stili di coping e le risorse individuali e ambientali che gli permettono di adattarsi alla malattia. Tra professionista e paziente vi è una condivisione di potere e di responsabilità che si esplicita in un percorso terapeutico costruito insieme, valorizzando l’esperienza e le aspettative di entrambi (Delle Fave e Bassi, 2013).

In definitiva, si dovrebbe cercare di costruire una alleanza terapeutica, promossa soprattutto da atteggiamenti come empatia, coerenza, disponibilità ed apertura incondizionate. Infatti, è compito del professionista facilitare l’alleanza terapeutica, poiché è proprio questo – insieme ad una modalità di coinvolgimento attiva – che influisce sulla futura aderenza al trattamento.

Impatto sul trattamento dei disturbi neurocognitivi

Un documento pubblicato nel 2016 dalla British Psychological Society, intitolato Psychological Dimensions of Dementia: Putting the Person at the Centre of the Care, esprime chiaramente che cosa significa adottare un approccio centrato sulla persona nell’ottica dei disturbi neurocognitivi. Gli interventi devono focalizzarsi sulla persona invece che sulla malattia, con una enfasi su ciò che può aiutare questi pazienti a vivere la miglior vita possibile, permettendo loro di assumere potere decisionale e di essere attivi nella loro cura. Il modo migliore per diagnosticare, trattare e supportare gli individui affetti da disturbi neurocognitivi, e le patologie croniche progressive in generale, è attraverso un team multidisciplinare che include medici, infermieri, operatori sanitari, psicologi e psicoterapeuti (Converso, 2015). L’elemento chiave è non far perdere il senso di controllo, l’identità e connessione con le persone, per quanto i deficit cognitivi lo permettano, durante tutte le fasi della malattia. Inoltre, aumentare i contributi psicologici in questo campo ha molti benefici, tra i quali diagnosi più precoci, meno disagio psicologico, una riduzione del bisogno di farmaci, una riduzione dei pazienti in case di riposo ed una maggior qualità di vita degli anziani.

I temi affrontati nel documento sono prevenzione, assessment, pianificazione della cura e trattamento.

Prevenzione

Innanzitutto, prevenire significa ridurre il rischio di mortalità e morbilità e prolungare la tempistica dell’esordio (Middleton e Yaffe, 2009). Si fonda su una rete complessa di fattori come i geni, lo stile di vita e l’ambiente, ed è particolarmente vantaggiosa per le forme non prevalentemente genetiche di disturbo neurocognitivo, come può essere l’MCI, il morbo di Alzheimer e la demenza vascolare (Escher, 2019). È stato stimato, infatti, che un terzo dei casi di Alzheimer è attribuibile a fattori biopsicosociali potenzialmente modificabili come la ipertensione arteriosa, l’obesità, l’inattività fisica, la depressione, il fumo e la bassa scolarità. La letteratura concorda nel considerare la presenza di multipli fattori di rischio come un indice importante che porterebbe ad una precisione diagnostica maggiore. Per quanto riguarda i fattori di protezione, l’impegno sociale, l’attività fisica, la stimolazione cognitiva e una dieta sana sono tra quelli più accreditati, incrementati da interventi di prevenzione e promozione della salute basati su teorie motivazionali e di cambiamento comportamentale.

Assessment

L’assessment può essere definito come il processo diagnostico che inevitabilmente cambierà la vita della persona affetta da demenza. Dato che sottoporsi ad esso può creare un forte disagio, il supporto psicologico a priori e a posteriori è essenziale. Esso è utile in quanto permette di ascoltare le preoccupazioni del paziente e tranquillizzarlo, assicurando che comprenda le informazioni che gli vengono date e portandolo a capire che non verrà lasciato solo ad affrontare questo cambiamento. Le sedute di counseling a questo proposito si rivelano adatte, poiché permettono di concentrarsi sul problema specifico riguardante il disturbo neurocognitivo, dando anche informazioni sui test neuropsicologici, la loro natura e i possibili risultati. È importante assicurarsi il consenso informato del paziente per fare in modo che comprenda in che cosa consiste il procedimento diagnostico e quali sono le sue opzioni. La comunicazione della diagnosi deve essere fatta in maniera sensibile, con alcune linee guida da seguire, rivolte agli psicologici ma soprattutto ai medici che non hanno ricevuto un training specifico in questo.

Pianificazione della cura

L’aderenza al trattamento si basa spesso sui meccanismi di difesa e sulle strategie di coping messi in atto successivamente alla comunicazione della diagnosi (Delle Fave e Bassi, 2013). Vi sono pazienti che la accettano e si attivano per migliorare la situazione, mentre altri la negano o la sottovalutano, probabilmente per non subire la pressione psicologica di una comunicazione così nefasta. La non consapevolezza della malattia può comunque essere data dai deficit cognitivi, se questi sono già abbastanza avanzati, e in quel caso la pianificazione viene svolta principalmente con il caregiver e la famiglia, tenendo in considerazione la probabile volontà del paziente. Il supporto deve essere il più possibile individualizzato ed è rilevante mantenere contatti regolari che, oltre all’aspetto più prettamente clinico, svolgono il ruolo di ancorare alla realtà e instaurare un senso di fiducia e connessione, mitigando l’impatto di alcuni sintomi.

Il trattamento

La tematica finale riguarda il trattamento, nel quale l’aspetto farmacologico dovrebbe essere corredato da interventi psicosociali evidence-based (non solo cognitivo-comportamentali, ma anche sistemici, psicodinamici etc..) a supporto del paziente e della famiglia (Brodaty et al., 2003). Gli interventi più efficaci in questo ambito rimandano alla creazione di un senso di appartenenza, come la creazione di comunità di anziani affetti dalle stesse problematiche che si impegnano in attività di reminiscenza collettiva, stimolazione cognitiva, attività creative, stimolazione sensoriale e così via. Il supporto sociale e la creazione di una rete amicale permetterebbero un aumento del benessere con conseguente diminuzione del bisogno di farmaci.

Gli interventi dovrebbero essere volti anche ad aiutare la transizione del paziente in una casa di riposo dato che può essere destabilizzante sia per quest’ultimo che per la famiglia. A questo proposito, è stato messo in luce come la maggior parte dei pazienti metta in atto comportamenti bizzarri una volta diventati residenti, e come spesso la risposta degli operatori sanitari sia di prescrivere antipsicotici o tranquillanti. Viene quindi proposto di utilizzare un approccio farmacologico solo successivamente ad aver tentato un intervento psicosociale, che tenga conto del significato del comportamento, piuttosto che considerarlo inevitabile data la malattia, e che possa in questo modo prevenirlo (Brooker et al., 2016). Per quanto riguarda la frequente comorbidità con altre patologie, viene raccomandato di trattarle solo se è nei migliori interessi della persona.  Lo stesso concetto si applica al trattamento in fase terminale della malattia: si privilegia la qualità della vita piuttosto che la quantità, per cui è preferibile mantenere solo cure palliative piuttosto che tentare interventi straordinari, se in questi ultimi vi è uno sbilancio tra la quantità di sofferenza imposta e i probabili risultati (Trabucchi, 1998)

Interventi con i caregiver

In ultimo, diventa estremamente importante supportare i caregiver e coinvolgerli nel processo decisionale del trattamento con interventi atti ad aumentare la resilienza, le strategie di coping adattive e a ridurre il distress psicologico. La modalità migliore consisterebbe nell’offrire approcci psicologici multicomponenziali a breve termine con un contatto mantenuto anche in seguito.

Qualunque sia la natura del disturbo neurocognitivo, è inevitabile che il caregiver sperimenti emozioni come tristezza, rabbia e frustrazione. Di conseguenza, i vari interventi psicologici disponibili, elencati dai medesimi autori, devono innanzitutto permettere l’espressione delle inevitabili emozioni negative viste spesso come inaccettabili, in modo da normalizzarle e rielaborarle. In secondo luogo si dovrebbe spronare il caregiver a ritagliarsi un po’ di tempo per svolgere le proprie attività, informando sui servizi disponibili a riguardo (es. centro diurno o gruppo di supporto).

 

Incantato: dentro gli attacchi di panico di M. Razzetti – Recensione

Michele Razzetti si è laureato in Scienze Linguistiche. È giornalista collaboratore anche di Vanity Fair, ideatore di linguinsta.com, consulente di comunicazione ed autore del romanzo Incantato: dentro gli attacchi di panico, edito con pubblicazione indipendente nel gennaio 2022, un libro che intende cambiare il punto di vista sul disturbo di panico.

 

Il protagonista del romanzo di Razzetti è un giovane insegnante, Lorenzo, la cui vita viene sconvolta dal manifestarsi di un disturbo d’ansia invalidante, quale è il disturbo di panico. Attraverso la storia di Lorenzo, la cui vita si sbriciola a causa della comparsa degli attacchi di panico, tanto che rischia di perdere tutto (il lavoro, le relazioni sociali e la stessa possibilità di sopravvivenza) Razzetti non solo descrive ciò che si prova durante l’attacco di panico e quanto sia limitante soffrire di disturbo di panico, ma indica la strada per attraversare la tempesta generata dall’ansia ed uscirne positivamente.

Il termine panico, per gli antichi greci, indicava quel timore misterioso ed indefinibile che essi ritenevano causato dalla presenza del dio Pan, dio delle montagne e della vita agreste. Nel linguaggio psicologico il panico corrisponde alla forte ansia che porta chi la vive a trovarsi in uno stato di confusione caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali. Questa forte ansia in alcuni casi si associa ad agorafobia o ad una condotta di evitamento fobico. Esperire il panico significa provare il timore per una minaccia che genera un sentimento d’allarme caratteristico dello stato d’ansia, che si rivela anche attraverso il linguaggio del corpo. L’ansia anticipatoria, presente nel disturbo di panico, può essere definita come la paura che si prova pensando che un nuovo attacco possa sopravvenire, in questo caso chi ne soffre inizia a convivere con uno stato di allerta persistente. A lungo andare si strutturano condotte di evitamento che, nella maggior parte dei casi, si organizzano per l’intensificarsi della frequenza delle crisi e per la tendenza ad associare gli attacchi con situazioni e luoghi specifici (Castrucci, 2021; Nuzzo, 2021).

Così Lorenzo ha il timore di non riuscire più ad entrare in un’aula scolastica e a condurre la sua vita.

L’opera di Michele Razzetti ha dei riferimenti autobiografici, come lo stesso autore ha rivelato nell’intervista pubblicata da Vanity Fair: “Sì, so per esperienza diretta cosa significa convivere 24 ore al giorno con un pensiero che ti perseguita e al quale è impossibile sfuggire, perché non c’è velocità che non possa eguagliare. Per me è importante dirlo con disinvoltura perché più ne parliamo più aumenta la possibilità che un domani le persone che soffrono per questi disturbi non si sentano drammaticamente sole e titubanti nel chiedere aiuto”.

In questa dichiarazione si ritrova lo spirito del romanzo; i disturbi di panico e le altre psicopatologie, che durante la pandemia Covid hanno visto aumentare la loro incidenza, sono vissute con vergogna e rappresentano uno stigma sociale. Razzetti, scrivendo un romanzo, anziché un manuale od un saggio, si rivolge così ad un pubblico il più ampio possibile, per comunicare come il disturbo di panico, al pari di altre situazioni di crisi, è superabile attraverso la sua accettazione ed attraverso un paziente e costante esercizio quotidiano. Razzetti contribuisce con il suo libro a combattere la stigmatizzazione dei disturbi psicologici ed offre un contributo al cambiamento con cui si vuole modificare il modo in cui il disturbo di panico è attualmente considerato. Si può rimanere “incantati”, cioè bloccati, dall’ansia o si può riuscire a trovare i risvolti positivi, che esistono anche in questa situazione, e farli divenire punti di forza.

 

“Ho solo vent’anni”: la crisi del quarto di vita

Lo scopo dello studio di Agarwal et al. (2020) è stato quello di esplorare se la crisi del quarto di vita è rappresentata nei social media utilizzando caratteristiche linguistiche che possono fornire illuminazioni empiriche sulle crisi che i giovani adulti vivono in questa fascia d’età.

 

Cosa si intende con crisi del quarto di vita?

La “crisi del quarto di vita” (Quarter-Life Crisis, QLC) è un fenomeno riguardante le sfide della prima età adulta (Rosen, 2019). Secondo la teoria di Arnett (2000) vi sono cinque caratteristiche di sviluppo che definiscono la fascia d’età 18-28 anni, quali: (1) sentirsi ambigui nei panni dell’adulto – i giovani in questa fascia d’età tipicamente si descrivono come se fossero in un limbo tra l’adolescenza e l’età adulta; (2) un periodo di esplorazione attiva di sé e del mondo; (3) un periodo di instabilità nei ruoli e nelle relazioni derivante da una continua mancanza di legami a lungo termine che permette cambiamenti nello stile di vita, nel ruolo e nella residenza; (4) un periodo di auto-focalizzazione adattiva in cui i giovani cercano di investire nel proprio futuro; (5) un periodo di concentrazione sul futuro e ottimismo. Gli episodi di crisi si verificano tipicamente verso l’ultima fase della prima età adulta e durano circa un anno (Robinson, 2016). Si tratta di periodi di instabilità, di transizione e di emozioni intense accompagnati da una messa in discussione della propria identità nel contesto dei ruoli e delle relazioni. A seguito della crisi, ci può essere una crescita se vengono apportate modifiche sostanziali allo stile di vita, o sentimenti di depressione e diminuzione dell’autostima se i tentativi di farvi fronte falliscono (Robinson e Wright, 2013).

La crisi del quarto di vita sui social network

La rappresentazione scritta di eventi ed esperienze autobiografiche sui social media è un’importante frontiera per la ricerca psicologica (Toseeb e Inkster, 2015), in quanto attinge a costrutti generici collegati a preoccupazioni culturali più ampie (van Dijck, 2007). I post che si riferiscono a eventi ed esperienze di vita reali servono, inoltre, a reificare il passare del tempo in una storia di vita semplificata e documentata pubblicamente, che può aiutare l’individuo a creare una narrazione significativa dei suoi cambiamenti di vita (Rettberg, 2009).

Lo scopo dello studio di Agarwal et al. (2020) è stato quello di esplorare se la “crisi del quarto di vita” è rappresentata nei social media utilizzando caratteristiche linguistiche che possono fornire illuminazioni empiriche sulle crisi che i giovani adulti vivono in questa fascia d’età.

I dati analizzati in questo studio sono stati derivati dai post pubblici condivisi su twitter fra il 2011 ed il 2015. Utilizzando l’interfaccia di programmazione delle applicazioni (API) delle ricerche su Twitter, i ricercatori hanno ottenuto un campione composto da 3,200 utenti, inglesi ed americani, di età compresa fra i 18 ed i 30 anni, che avessero menzionato di essere in una crisi del quarto di vita (QLC).

Dopo aver filtrato i post, escludendo tematiche specifiche (es. tweet di auguri, ironia sulla QLC) sono rimasti 1,390 utenti. Per ogni utente è stata ottenuta una timeline di tweet, per un totale di 1.5 milioni di messaggi. I dati di questi utenti sono stati utilizzati per formare il gruppo “QLC” e sono stati paragonati con i dati di un gruppo di controllo formato da utenti coetanei che non avessero menzionato in nessuna occasione la QLC. Visto che il campione risultava essere composto principalmente da donne, confrontando i dati con la letteratura precedente, i ricercatori hanno dedotto che la crisi del quarto di vita sembra colpire maggiormente le donne (Robinson & Wright, 2013), le che e stesse tendono a condividere sui social più frequentemente le esperienze emotive  (Kivran-Swaine et al., 2012).

I dati sono stati impiegati in un’analisi linguistica ottenuta grazie a tre tipologie di analisi: (a) Open-vocabulary clustering, (b) Linguistic Inquiry Word Count (LIWC) analysis, (c) Theory-based analysis.

L’Open-vocabulary clustering è stata impiegata per identificare gli argomenti maggiormente discussi nel gruppo QLC, rispetto al gruppo di controllo. Questa analisi è stata condotta grazie al “toolkit” DLATK (Schwartz et al., 2017). Per ogni post sono state identificate le parole e le emoticons (es :) o :-D) maggiormente utilizzate per poter formare dei network di parole in ordine per cui più frequentemente fossero state utilizzate, più sarebbero state visivamente in evidenza (colori, dimensioni delle scritte all’interno del network).

Per quanto riguarda la Linguistic Inquiry Word Count (LIWC), le parole dei tweet selezionati sono state suddivise in 73 categorie (es. Soldi, Famiglia) per valutare quanto fossero associabili a caratteristiche degli utenti quali livelli di stress, benessere e personalità (Pennebaker et al., 2015). Da ciascun post su Twitter è stata calcolata la frequenza delle singole parole e delle frasi (composte da due o tre parole consecutive). Grazie al software LIWC è stato creato un dizionario delle parole maggiormente utilizzate, suddivise in categorie specifiche. Per quanto riguarda la Theory-Based Analysis, grazie ad una revisione concettuale e tematica degli studi qualitativi sulla QLC, sono stati identificati 20 concetti chiave legati alle caratteristiche linguistiche dei contenuti sulla QLC socialmente condivisi (Robinson et al., 2013; Robinson, 2019).

Secondo queste analisi, i termini maggiormente utilizzati sarebbero: bloccato, provare, lasciare, cambiare, disoccupato, solo, senza speranza, sopraffatto, ingiusto, fallire, affrontare, debito, significato, intrappolato, provare, nuovo, identità, licenziato, soldi.

Crisi del quarto di vita vissuto e difficoltà dei giovani adulti Fig 1

L’associazione tra crisi del quarto di vita e lavoro

Nello specifico, la parola “lavoro” risulta essere più fortemente associata alla QLC. Ciò riflette il principio secondo cui i resoconti di questa fase di vita ruotano principalmente attorno a problemi inerenti la ricerca o l’andamento del lavoro. Le caratteristiche prevalenti nella crisi del quarto di vita erano “sentirsi intrappolati in un lavoro in cui non vorrei essere” e “sperimentare un forte livello di stress e pressione nel lavoro” (Robinson e Wright, 2013).

Inoltre, è emersa l’associazione della parola “tempo” con la QLC, la quale mostra la presenza di un focus sul futuro con termini come “domani”, che preparano e anticipano gli eventi. Ciò si adatta a una delle cinque caratteristiche principali della prima età adulta, ovvero la preoccupazione ottimistica per il futuro. Allo stesso modo, anche i pronomi personali nei tweet inerenti alla QLC si adattano ai risultati precedenti, i quali mostrano un uso maggiore dei pronomi personali da parte degli utenti con problemi di salute mentale rispetto ai gruppi di controllo (De Choudhury et al., 2013).

Inoltre, tali risultati si adeguano ai postulati teorici riguardanti la prima età adulta secondo cui i giovani che stanno attraversando questa fase hanno una maggiore concentrazione su di sé rispetto agli adulti di altre fasce d’età (Arnett, 2000), in quanto le crisi implicano un’estesa messa in discussione dell’identità in termini di “chi sono” nel contesto della società, dei ruoli e delle relazioni (Robinson et al., 2013). Gli argomenti inerenti l’esercizio fisico, viaggi, alcol e sport riflettono molti dei modi attraverso cui i giovani adulti si impegnano per far fronte allo stress (Arnett, 2014) e possono essere collegati alla crisi del quarto di vita come strategie di coping (Cairney et al., 2014). La ricerca epidemiologica mostra come il consumo di alcol raggiunga picchi nella prima età adulta (McManus et al., 2016) e che l’alcol potrebbe essere una forma di automedicazione contro lo stress e l’ansia (Cooper et al., 1992). Una nuova scoperta emersa dallo studio è l’associazione tra la QLC e l’idiosincrasia ortografica che può essere utilizzata per trasmettere l’intensità dell’esperienza, per cui espandere la parola in termini di dimensioni accresce la forza del suo significato. Per quanto concerne i risultati del LIWC, è stato riscontrato che la QLC correla con parole che si riferiscono al tempo, al cambiamento e al movimento, riflettendo come la crisi del quarto di vita sia spesso un momento di cambiamento e transizione.

 

Deepfake: la “uncanny valley” di Mori e il perturbante

Masahiro Mori, scrive un celebre articolo nel 1970 dal titolo The Uncanny Valley (bukimi no tani), sul fenomeno percettivo legato al senso di affinità (o familiarità) che le persone provano rispetto alla visione di automi robotici.

 

Il politico conservatore Sud-coreano Yoon Suk-yeol, si è recentemente reso noto per essere stato il primo candidato politico al mondo ad aver fatto ricorso ad una tecnica di Intelligenza Artificiale durante la sua campagna elettorale. Si è infatti manifestato pubblicamente, durante una conferenza stampa, presentando un avatar digitale creato attraverso l’uso di una tecnica chiamata deepfake.

Attraverso l’uso di sistemi di Machine Learnings sempre più sofisticati, è infatti possibile riprodurre facce di personaggi famosi, in modo talmente perfetto da poter ingannare l’occhio umano: è possibile poi “applicare” tali immagini sopra il viso di un attore e, facendolo recitare come il personaggio in questione, si potrebbe ingannare lo spettatore in modo del tutto convincente. È infatti possibile vedere tutta una serie di episodi (anche comici) che coinvolgono questa tecnologia: ne troviamo diversi esempi in ambito politico, cinematografico, e in diversi altri ambiti, per esempio sono stati utilizzati per creazione di accounts falsi su LinkedIn (Broad, 2020).

Questa tecnologia si serve di algoritmi che, una volta appreso a distinguere tra immagini reali e false, generano prototipi che il sistema stesso ritiene realistici. Per la produzione di prodotti deepfakes viene utilizzata una metodologia specifica di Machine Learning chiamata Generative Adversarial Network. Due componenti agiscono all’unisono e in modo competitivo: il “generatore” propone esempi random di immagini umane alla seconda componente, chiamata “discriminatore”, che in secondo momento dovrà decidere se tale immagine è reale oppure no (Broad, 2020). Il sistema, a seconda dei feedback nati dalle due componenti, apprende quali patterns e caratteristiche permettono di “ingannare” l’occhio umano al punto tale da creare immagini del tutto identiche a quelle reali.

Al di là delle ragioni politiche che hanno spinto il candidato Sud-coreano verso tale scelta, questo tipo di tecnologia richiama la necessità di interrogarsi sugli effetti percettivi legati a questo tipo di prodotto. L’oggetto reale e la sua copia digitale sono veramente indistinguibili? E se così non fosse, quali effetti susciterebbe nell’osservatore la visione di una copia umana – di certo simile- ma non perfetta?

La “Uncanny Valley” di Masahiro Mori

Il professore di robotica presso il Tokyo Institute of Technology, Masahiro Mori, scrive un celebre articolo nel 1970 dal titolo The Uncanny Valley (bukimi no tani). Lo studio verte sul fenomeno percettivo legato al senso di affinità (o familiarità) che le persone provano rispetto alla visione di automi robotici.

L’ipotesi di fondo si basa su un concetto semplice: tanto più un robot assume fattezze umane, tanto più alto sarà il grado di affinità emotiva (Shinwakan) che il partecipante prova nei confronti dell’automa. È opportuno quindi tenere a mente queste due variabili: la prima è il grado di somiglianza che l’oggetto ha rispetto all’essere umano; la seconda verte su un giudizio espresso dalla persona circa la percezione di familiarità che quell’oggetto evoca.

Prendiamo per esempio i robot industriali: sebbene svolgano movimenti ed azioni simili a quelli umani -basti pensare ad un braccio che si piega, ad una pinza che afferra- essi hanno un basso grado di somiglianza con gli esseri umani, e quindi registreranno dei bassi indici di affinità nei partecipanti. In altri termini, possiamo chiedere a dei partecipanti “quanta affinità emotiva provi nei confronti di una pressa industriale?”, e sarebbe facile immaginare dei feedback abbastanza bassi per quanto riguarda la percezione che si ha per questo oggetto.

Andiamo oltre. Ora, come nell’ipotesi di Mori, proviamo a considerare un robot giocattolo: avremmo adesso a che fare con un meccanismo che non solo imita le azioni funzionali degli esseri umani, ma ne riproduce alcune fattezze (per esempio ha delle gambe, una faccia, ha dei capelli sulla testa). In questo caso il grado di affinità cresce, ed infatti non è un caso che tali oggetti siano altamente presenti nel mercato dedicato ai bambini, allo svago e alla creatività. Finora, quindi, se dovessimo immaginare un asse cartesiano contenente una curva, saremmo nella parte crescente e le cose rispetterebbero un andamento lineare descritto dalla funzione y = f(x). Possiamo affermare, quindi, che tanto più cresce il grado di somiglianza del robot preso in esame, tanto più cresce il grado di affinità percepita dai partecipanti nei loro confronti.

Il problema evidenziato dagli studi di Mori, però, complica la situazione: sembrerebbe infatti che all’aumentare del grado di somiglianza umana dell’automa esista un punto oltre il quale il grado di affinità percepita registra una ripida riduzione. Questo calo di familiarità percepita può essere descritto come una reazione emotiva negativa nei confronti di un oggetto inanimato che -nel suo tentativo di sembrare umano- fallisce.

Per illustrare questo fenomeno immaginiamo questa volta una protesi robotica a forma di mano: essa riprodurrà fedelmente sia i movimenti meccanici funzionali umani, sia le fattezze umane, solo che adesso il grado di somiglianza umana cresce maggiormente rispetto ai giocattoli usati nello step precedente (immaginiamola con unghie di plastica, e una pelle sintetica fatta di materiale che riproduce l’epidermide). Adesso le reazioni degli ipotetici partecipanti diventano improvvisamente negative e, usando le parole dell’autore, “we lose our sense of affinity, and the hand becomes uncanny”. La sensazione “uncanny” (perturbante) di stringere una mano meccanica come se fosse vera, e la freddezza ad essa associata, fa cambiare radicalmente la percezione di affinità: adesso la curva decresce, fino a toccare il fondo di quello che abbiamo chiamato finora la Uncanny Valley. Siamo nel punto più basso della curva.

A questo punto, Mori illustra un altro oggetto: prendiamo una bambola Bunraku (una bambola giapponese tradizionale usata negli spettacoli teatrali). Adesso l’oggetto sarà caratterizzato da aspetti umani funzionali (si muove e agisce come un umano), da apparenze umane concrete (capelli, occhi, espressioni facciali), e da una maggiore somiglianza con l’essere umano rispetto allo step precedentemente illustrato dalla mano meccanica (in quanto adesso l’oggetto viene presentato nella sua interezza). Vedremo crescere il grado di familiarità percepito, fino al punto tale da uscire fuori dalla profondità della Uncanny Valley: in altre parole, assistere ad uno spettacolo teatrale di bambole giapponesi non suscita nello spettatore quelle emozioni negative tanto evidenti nella mano meccanica; l’oggetto in questione avrebbe guadagnato un grado di somiglianza umana tale per cui il suo “tentativo” di somiglianza con l’umano sembrerebbe soddisfacente e abbastanza riuscito. Siamo tornati, quindi, sulla curva ascendente: abbiamo lasciato la Uncanny Valley e ritroviamo l’associazione (questa volta positiva) tra somiglianza umana e familiarità percepita. L’ultimo step, infatti, vede un oggetto robotico che, assunte le fattezze umane più totali e indistinguibili, si comporta, si muove, ed appare, esattamente come un essere umano “sano”. Tale robot acquisirebbe un punteggio alto per entrambe le variabili: sarebbe altamente simile all’umano e avrebbe alti livelli di affinità percepita.

Il fenomeno della mano meccanica, che troviamo nel punto più basso della Uncanny Valley, è utile a descrivere come la modalità di interazione tra uomo e automa non sia del tutto lineare e semplice, ma si articola in un rapporto dinamico e complesso: il rapporto tra similarità umana e piacevolezza deve risolvere un problema profondo, nato dal fatto che quando un oggetto tenta di sembrare umano, ma fallisce, evoca un profondo senso di non familiarità, di emozioni negative, che possono alterare il rapporto tra oggetto e utente. A questo punto Mori rivolge un messaggio ai designers: creare automi con fattezze umane è una disciplina che deve fare i conti con la Uncanny Valley. La sfida è quella di creare un livello stabile e sicuro, dove un oggetto robotico, sebbene simile all’umano, non evochi emozioni negative nell’utente che ne usufruisce. Una possibile soluzione è quella di creare oggetti aventi un design deliberatamente non umano. Prendiamo dei semplici occhiali da vista: se questi avessero fattezze umane – per esempio presentando all’interno delle lenti, o in qualsiasi altro modo, un design simile agli occhi umani – cadrebbero all’interno della Uncanny Valley. In realtà ciò non accade, perché invece di sembrare organici, gli occhiali semplicemente enfatizzano aspetti estetici in modo alternativo; sono oggetti che aiutano ad enfatizzare elementi estetici umani, ma non tentano di diventare umani essi stessi. Per la protesi umana della mano meccanica segue lo stesso ragionamento: tentare di creare un oggetto troppo umano che, riproducendo unghie, epidermide, e colorazione della pelle, fallisce nel suo tentativo emulativo, determina il rischio di ricadere nella Uncanny Valley. Ciò non accade, invece, per le mani di legno delle statue buddiste illustrate da Mori nell’articolo: sebbene dotate di articolazioni e unghie, questi oggetti di legno non determinano alcuna emozione negativa, proprio per il fatto che rinunciano deliberatamente ad emulare le fattezze umane (il colore è quello del legno, le pieghe della mano sono segni delicatamente abbozzati).

Quale è la spiegazione di Mori al fenomeno descritto? La sensazione di negatività associata alla mano meccanica sembrerebbe una sorta di istinto di protezione verso una fonte di pericolo (un senso di auto-preservazione): la sensazione negativa che si riscontra per la mano meccanica (oggetto mobile) viene riscontrata anche per i cadaveri (oggetti non mobili), in quanto entrambi sarebbero associati ad una sensazione di freddezza, mancanza di vita organica e morte. Infatti, se nella profondità della Uncanny Valley troviamo questi due oggetti, dall’altra parte, al vertice della curva, troviamo un oggetto che è stato in grado di assumere alla perfezione le fattezze di una “persona sana”, dotata di vita, che non necessita l’attivazione di alcun meccanismo di auto-preservazione.

Esempi culturali di Uncanny Valley: cinema e “Final Fantasy”

Esistono diversi esempi culturali di prodotti caratterizzati da un tentativo emulativo fallace, destinato a evocare profonde sensazioni negative negli osservatori.

Nell’opera dal titolo “The Uncanny Valley in games and animation” (2015) la studiosa Angela Tinwell indica una serie di esempi che aiutano a tradurre l’esperimento di Mori in una chiave più pragmatica. Se il video gioco The Last of Us (Naughty Dog, 2013) viene descritto come “un capolavoro” in grado di aver superato l’abisso della Uncanny Valley, esistono diversi prodotti che non sono stati in grado di oltrepassare questo abisso. In ambito cinematografico tra gli esempi più classici troviamo Polar Express (Zemeckis, 2004), The Adventures of Tintin: Secret of the Unicorn (Spielberg, 2011), Cats (Tom Hooper, 2019), Beowulf (Zemeckis, 2007) (Tinwell, 2010).

Tra questi, merita una particolare menzione il film Final Fantasy: The spirits Within (Sakaguchi, 2001). Questo film è stato, infatti, il primo ad attirare l’attenzione dei media verso il tema della Uncanny Valley, e rappresenta quindi un esempio iconico di questo fenomeno nel mondo cinematografico (Tinwell, 2015). Nell’articolo “A-Life and the Uncanny in Final Fantasy” (2004) la studiosa Livia Monnet descrive il film come un prodotto di “pura science fiction”, non solo rispetto alla trama e i contenuti legati alla celebre saga videoludica di successo, ma soprattutto per l’enorme retorica pubblicitaria legata al prodotto. Nato dalla creazione di uno spazio “iper-reale” digitale, questo film viene descritto come qualcosa destinato a cambiare il futuro del cinema e della cultura popolare (Monnet, 2004). In realtà il film andrà incontro ad un profondo fallimento commerciale: le entrate al box office furono così basse da costringere lo studio di produzione Square’s Honolulu studio a ritirare tutti i progetti futuri legati al proseguimento della serie cinematografica (furono investiti 137 milioni di dollari con un ritorno complessivo di soli 85 milioni) (Monnet, 2004). Parte della spiegazione di tale insuccesso deriva proprio dall’aspetto dei personaggi presentati sulla scena. Questi furono accolti da un generale stato di ostilità e incertezza: Peter Plantec (2007) scriverà di come la protagonista per tutto il film tenti di imitare i gesti e le intenzioni di un essere umano come fosse un cartone animato. Monnet (2004) descriverà il film come “disturbante” soprattutto per il fatto che i personaggi umani sembrano “breathtakingly undead”: “gli attori virtuali recitano come vampiri (zombies) digitali” e ciò è legato sia ai limiti insiti nell’uso di software di animazione, sia al fatto che essi agiscono nel corso della trama come “androidi di plastica”, sospesi nello spazio-tempo.

Il concetto di “Uncanny”: Freud e il perturbante

Nella definizione di Mori rimane tutt’ora ambiguo l’utilizzo del termine “familiarità” o “affinità percepita”. Infatti, l’origine stessa del concetto di “Uncanny” poggia sulla definizione del concetto di bukimi che può essere tradotto come “strano”, “misterioso”, “inquietante” (Tinwell, 2011). Per altri autori il significato originale andrebbe addirittura perso quasi del tutto nella traduzione dal giapponese (Bartneck, 2009). Per tradurre questo termine può essere d’aiuto indagarne la controparte: la parola shinwa-kan è l’etimo usato nell’articolo originale di Mori, con riferimento a qualcosa di “familiare”. Un oggetto la cui apparenza è ben conosciuta viene descritto con questo termine, e viene usato per esempio per descrivere una persona culturalmente famosa e conosciuta (Tinwell, 2011). Alcuni autori utilizzano quindi questa parola (“familiarità”) per indagare a livello sperimentale la validità della teoria di Mori: per esempio si indaga il “grado di familiarità” di un item attraverso il quesito “quanto familiare-comune è questa immagine?”, oppure, “quanto strana e ambigua è questa immagine?”. Altri studiosi, invece, sembrano propendere verso il termine “piacevolezza”.

Rispetto a questo tema l’opera di Freud Il Perturbante (1919) offre una possibile chiave di lettura sia del termine “Uncanny” sia del meccanismo psicodinamico alla base. Con il termine unheimlich Freud intende descrivere due principali aspetti legati ad un oggetto: il primo si riferisce a qualcosa che è familiare, accessibile e piacevole; il secondo si riferisce a qualcosa che deve rimanere nell’ombra, inaccessibile, rimosso, e la cui accessibilità provoca un profondo senso di negatività. (Tinwell, 2011)

Con le parole stesse di Freud, il perturbante è “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.” (Freud, 1919). Egli prende avvio nell’opera Il Perturbante considerando il lavoro dello psicologo tedesco Ernst Jentsch (1906) rispetto alla sensazione di Unheimlich: secondo quest’ultimo, il racconto di Ernst Theodor Amadeus Hoffman (1817) Sandmam rappresenterebbe questo sentimento attraverso la figura di Olimpia, un automa con fattezze umane di cui il protagonista del racconto si innamora. Secondo Jentsch, “una condizione particolarmente favorevole al sorgere di sentimenti perturbanti si verifica quando si desta un’incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia vivente, o quando ciò che è privo di vita si rivela troppo simile a ciò che è vivo” (Freud, 1919). Questo sentimento sorgerebbe, quindi, quando difronte a oggetti ambivalenti, come bambole e manichini di cera, la persona si troverebbe in uno stato di “incertezza intellettuale” tale da non essere capace di distinguere se l’oggetto sia vivo o no.

Il punto suggerito da Freud verte sull’idea che il perturbante sia una sensazione nata dalla rivelazione di un qualcosa che sarebbe dovuto rimanere celato, nascosto, e la cui natura non è necessariamente “non familiare” ed estranea: spesso anzi è qualcosa di familiare, legato alla propria costellazione psicologica infantile, che è stato rimosso, o dimenticato, e la cui rivelazione- presente- suscita in noi uno stato di allerta.

In ogni situazione quotidiana dove si dovesse presentare un evento caratterizzato da un confine labile tra fantasia e realtà, avremmo a che fare con una serie di fattori che “trasformano l’angoscioso in perturbante”: ciò è dovuto al fatto che l’elemento della “onnipotenza dei pensieri”, come anche l’animismo, la magia, gli incantesimi, il malocchio, sono tutti elementi che caratterizzano la vita psichica dell’essere umano “fin dai tempi antichissimi” e che ritroviamo espressi nella costellazione psichica infantile; tali elementi, che di fatto non rappresentavano niente di angoscioso durante la vita infantile, una volta ripresentati durante la vita adulta suscitano in noi un forte elemento perturbante per il fatto che tali contenuti sono stati soggetti al processo di “rimozione” durante l’arco di vita.

Con il concetto di rimozione trova una piena spiegazione anche l’etimo “unheimlich”: “Anche in questo caso, quindi, un heimlich è ciò che un giorno fu heimisch [patrio], familiare. E il prefisso negativo “un” è il contrassegno della rimozione” (Freud, 1919).

La Mano mozzata: da Mori a Freud

Torniamo quindi all’esperimento di Mori (1970): abbiamo evidenziato come sul fondo della curva discendente -chiamata Uncanny Valley – legata alla massima percezione negativa di “affinità, familiarità umana” di un automa ipotetico, troviamo una protesi robotica con fattezze e funzionalità simili ad una mano umana. Abbiamo accennato al fatto che secondo Mori un oggetto che fallisce nel suo intento emulativo – nonostante l’effettiva vicinanza umana- crea una forte sensazione negativa di “Uncanny” (bukumi) legata all’attivazione di meccanismi fisiologici di allerta rispondenti alla necessità umana di auto-preservazione.

Rispetto al tema della “mano mozzata” è possibile aggiungere la riflessione freudiana contenuta nel saggio del 1919. Esisterebbero infatti diversi racconti tratti dalla letteratura greca e dai racconti folcloristici che riguardano arti mozzati e mani tronche, ma che non suscitano in noi alcun sentimento perturbante: infatti, spiegare il perturbante attingendo all’idea di un ritorno di una costellazione psichica infantile ormai “rimossa” (in questo caso una concezione “animista” di un oggetto inanimato che torna in vita, come appunto una mano mozza) di per sé trova molti controesempi. Conosciamo molte favole, racconti, film di animazione, che raffigurano oggetti animati che cantano, ballano e fluttuano nell’aria, senza che a queste immagini segua per forza una sensazione perturbante: “chi oserebbe definire perturbante Biancaneve quando riapre gli occhi?” (Freud, 1919). La chiave di comprensione di questi fenomeni, quindi, richiede una riflessione aggiuntiva. Innanzitutto, occorre separare il perturbante della “finzione letteraria” da quello sperimentato nella vita vissuta. Fare esperienza diretta di un fenomeno “animista” è del tutto diverso rispetto a farne una indiretta: nei controesempi presentati la componente perturbante contenuta nelle favole e nei racconti si affievolisce proprio perché, appunto, sono racconti di finzione la cui analisi non necessita un personale esame di realtà profondo. Per quanto riguarda, invece, il perturbante sperimentato direttamente, la chiave per comprenderne la natura si cela nel concetto di “rimozione” e “superamento”. Più nello specifico, la sensazione di perturbante che coinvolge fenomeni animisti (come nel caso della mano mozzata o delle bambole che prendono vita) si verifica quando “complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un’impressione” o anche “quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida” (Freud, 1919).

Per arricchire questi due punti di vista si possono citare dei contributi aggiuntivi. Alcuni studi tendono a considerare le due principali dimensioni utilizzate da Mori (somiglianza – familiarità) troppo semplicistiche per spiegare il fenomeno della Uncanny Valley: per esempio la motivazione dei personaggi, il suono emesso, e l’età dei partecipanti possono complicare il rapporto lineare tra le due variabili (Tinwell, 2011). Inoltre, sembra che esistano più “abissi” nella curva, e quindi la forma classica della curva discendente potrebbe essere ancora più complessa di quanto si evince dall’ipotesi di Mori: all’aumentare del grado di somiglianza dell’oggetto, quindi, la percezione individuale dei soggetti andrebbe incontro a un numero maggiore di “discese negative” rispetto all’ipotesi originale, andando a complicare il rapporto tra oggetto e percezione di familiarità.

Chissà cosa penserebbe Freud dell’avatar digitale del candidato Sud-coreano: sicuramente la straniante percezione di avere difronte a noi un essere umano nei suoi più minuziosi dettagli, sapendo però che tale immagine umana non lo è, riporta alla luce sia le riflessioni freudiane che le ipotesi di Mori, lasciando ancora molte domande in sospeso.

 

Intelligenza e immaginazione: esiste un legame?

L’immaginazione è un gioco libero della mente o un’attività mirata e intenzionale: è il luogo in cui creare nuove esperienze e provare ad anticiparne le conseguenze; consente l’ispirazione creativa, l’invenzione e la scoperta di nuove possibilità (Daniels, Piechowski, 2008).

 

Ci si può chiedere se esista una correlazione tra immaginazione e intelligenza e se queste due funzioni abbiano un legame tra di loro.

L’analisi di tale relazione è stata oggetto di diversi studi e approfondimenti.

Innanzitutto per capire se vi sia un legame tra immaginazione e intelligenza si devono analizzare le peculiarità che caratterizzano le persone plusdotate.

Tra queste vi è certamente l’intensità delle percezioni che compare già in età precoce (Maulucci, 2021, Piechowski, Wells, 2021; Tiller, Mendaglio, 2006; Webb, Amend, Beljan, Webb, Kuzujanakis, Olenchak, Goerss, 2016).

Proprio tale particolarità ha spinto lo psicologo polacco Kazimierz Dabrowski ad approfondire le caratteristiche mostrate dalle persone intelligenti correlate all’intensità e ad elaborare le osservazioni sulle c.d. “Overexcitabilities”, ovvero sulla presenza di iper-eccitabilità in alcuni individui (Daniels, Piechowski, 2008; Lovecky, 2004; Tiller, Mendaglio, 2006).

Plusdotazione cognitiva e overexcitabilities

Le riflessioni sulle “Overexcitabilities” hanno enormemente influito sulla comprensione degli adulti e dei bambini plusdotati. Si tratta di uno studio sullo sviluppo emotivo, basato sull’osservazione di individui intelligenti, i quali vivono le esperienze in maniera più vivida, più profonda e più sentita rispetto al resto della popolazione.

Le persone ad alto potenziale cognitivo infatti mostrano una maggiore attenzione agli stimoli e al mondo circostante e presentano esperienze di vita che, non solo si rivelano più complesse, ma anche più intense e sono tali da poter influenzare il loro comportamento (Daniels, Piechowski, 2008; Piechowsli, Wells, 2021).

Secondo Dabrowski e il suo successore Michael Piechowski, queste overexcitabilities si manifestano in cinque aree: intellettiva, emotiva, sensoriale, psicomotoria e, appunto, immaginativa. Alcuni plusdotati presentano tutte queste iper-eccitabilità, altri solo alcune (Barley, 2010; Maulucci, 2021; Piechowski, Wells, 2021).

Pertanto anche l’overexcitability immaginativa è tipica di molte persone intelligenti, pur manifestandosi con declinazioni di intensità diverse.

Overexcitability e immaginazione

Gli individui che mostrano l’overexcitability immaginativa presentano generalmente schemi immaginativi complessi, fantasia attiva, creatività, ricchezza di associazioni mentali, preferenza per ciò che è inusuale, prospettiva divergente, tendenza ad essere sognatori ad occhi aperti (Daniels, Piechowski, 2008; Webb, Amend, Beljan, Webb, Kuzujanakis, Olenchak, Goerss, 2016).

In particolare i bambini con tale peculiarità possono prediligere giochi di creatività e uso di metafore insolite, ma anche mischiare fantasia e realtà, essere sognatori, avere amici immaginari, vivere in un mondo fantastico e amare le invenzioni. Queste connotazioni li possono portare a prendere le distanze dai coetanei e dagli interessi che da questi ultimi sono considerati rilevanti. Possono astrarsi dalla realtà circostante e non essere a proprio agio nelle giornate di scuola improntate a schemi; è possibile che sembrino distratti e questo può creare delle difficoltà nel contesto scolastico (Bayley, 2010; Daniels, Piechowski, 2008; Gotlieb, Hyde, Immordino-Yang, Kaufman, 2016;  Lovecky, 2004; Piechowski, Wells, 2010; Shenfiels, 2021).

Anche da adulte queste persone continuano a presentare menti creative e divergenti, pensieri originali, che possono portarli a sentirsi differenti dagli altri: spesso denotano capacità di visualizzazioni dettagliate, un buon senso dello humor, passione per l’arte e la musica, sogni elaborati, ma anche bassa tolleranza per la noia e bisogno di novità (Tiller, Mendaglio, 2006; Webb, Amend, Beljan, Webb, Kuzujanakis, Olenchak, Goerss, 2016).

L’overexcitability immaginativa, associata a quella intellettiva, crea una combinazione particolarmente interessante. Queste due peculiarità insieme all’overexcitability emotiva contribuiscono a delineare lo sviluppo emotivo delle persone (Daniels, Piechowski, 2008).

Negli anni successivi, e ancora oggi, queste osservazioni di Dabrowski sono state rielaborate in numerosi studi di diversi autori (Bayley, 2010; Piechowski, Wells, 2021; Tiller, Mendaglio, 2006) che confermano l’esistenza di una correlazione tra le overexcitabilities e l’intelligenza.

Il legame tra immaginazione e intelligenza

Anche altre ricerche si sono occupate del legame tra immaginazione e intelligenza. Tra queste ricordiamo la teoria delle multiple intelligenze elaborata dallo psicologo statunitense Howard Gardner, il quale considera l’intelligenza non come un aspetto unitario, ma piuttosto come un’entità composta da specifiche modalità, da singole abilità.

In particolare una di queste abilità è l’intelligenza spaziale che secondo Gardner trasforma le percezioni e ricrea gli aspetti di una esperienza visuale utilizzando proprio l’immaginazione (Gardner, 2006).

Alle stesse conclusioni è giunto anche uno studio dell’Università della Florida condotto da Thomas Oakland e pubblicato sul Journal Gifted Child Quarterly. Da questa ricerca è emerso che gli studenti plusdotati tendono ad avere più immaginazione attiva rispetto alla media degli alunni, preferendo l’immaginazione alla pratica. Essi sembrano essere più “immaginativi” dei compagni e tale caratteristica pare essere ancora più diffusa nella popolazione femminile (Oakland, 2000).

Possiamo dunque rispondere alla domanda che ci eravamo posti all’inizio in modo affermativo: sembra davvero esistere una correlazione tra immaginazione e intelligenza, anche se non tutte le persone intelligenti sono necessariamente anche dotate di intensa immaginazione (Shenfield, 2021).

L’immaginazione è quindi quella parte dell’intelligenza che aiuta a pensare fuori dagli schemi e in prospettiva divergente, è il motore della creatività, è la fonte dell’originalità.

L’immaginazione, tuttavia, è anche un volo libero che talvolta permette alle persone intelligenti di evadere dall’intensità con cui sperimentano la vita.

 

Introduzione alle neuroscienze sociali (2022) – Recensione del libro

Gli esseri umani, come molti altri animali, sono una specie altamente sociale. Ma in che modo i nostri sistemi biologici implementano i comportamenti sociali e in che modo questi processi modellano il cervello e la biologia? Introduzione alle neuroscienze sociali affronta questa tematica.

 

Introduzione alle neuroscienze sociali è il primo libro in questo ambito che cerca di coinvolgere sia gli studenti che gli studiosi nell’esplorazione dell’interazione tra aspetti biologici e psicosociali. Questo libro di testo di ampio respiro è organizzato in nove capitoli principali più due appendici e fornisce una base eccellente per comprendere i meccanismi psicologici, neurali, ormonali, cellulari e genomici alla base di processi sociali così diversi come solitudine, empatia, teoria della mente, fiducia e cooperazione.

Stephanie e John Cacioppo ipotizzano che il nostro cervello sia il nostro principale organo sociale. Mostrano come la stessa relazione oggettiva possa essere percepita come amichevole o minacciosa a seconda degli stati mentali degli individui coinvolti in quella relazione.

Inoltre, presentano esercizi e risultati basati sull’evidenza scientifica che i lettori possono mettere in pratica per comprendere meglio le radici neurali del cervello sociale e le implicazioni cognitive di un cervello sociale sia funzionale, sia disfunzionale (Cacioppo e Cacioppo, 2022).

Possiamo affermare che questo testo si contraddistingue in particolare per la sua completezza, integrando gli studi umani e animali, presentando casi clinici, nonché proponendo un’analisi multifattoriale su diversi argomenti – dai geni alla società- sempre applicando una vasta metodologia.

Questo libro ha permesso, grazie alla grande esperienza e maestria dei suoi autori, di apportare novità allo studio dell’anatomia e della funzione del cervello sociale, ampliando così la comprensione scientifica dell’interazione umana nella società.

Possiamo concludere che tale opera sia fondamentale per arricchire le nostre conoscenze in materia, aiutando a comprendere quanto la socialità nei tempi odierni sia importante e come questa influenzi e sia influenzata da fattori biologici, riconfermando la necessità di una maggiore integrazione multidisciplinare. Questo volume non solo si rivolge ad un pubblico di professionisti del settore, ma risulta di facile lettura anche per studenti o semplicemente per chiunque desideri acquisire nuove conoscenze.

 

cancel