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Discalculia e altre difficoltà in aritmetica e a scuola – Recensione

Discalculia e altre difficoltà in aritmetica e a scuola è un volume che descrive la discalculia nelle sue connotazioni cliniche, didattiche e burocratiche, le caratteristiche di uno stile didattico flessibile e inclusivo, il valore della metacognizione e il ruolo della famiglia nella trattazione del disturbo.

 

Dalla definizione alla causa del disturbo: i modelli eziopatologici

All’interno di questa recente pubblicazione della Erickson, frutto del lavoro di un ampio numero di esperti del settore, sono riportati molti dei modelli teorici che, nel corso del tempo, hanno provato a definire l’impianto eziopatologico della discalculia, disturbo che limita fortemente l’apprendimento e l’utilizzo del “pensiero matematico”.

Tra le teorie più significative si citano quella di Piaget (1969), per cui la maturazione del concetto di numero non può anticipare la formazione del pensiero concreto – attorno ai 6-7 anni- e quella più attuale di Butterworth e colleghi (1999) che attribuiscono alla competenza matematica connotati di innatismo. Ipotesi suffragata da numerosi studi di neuroimaging- svolti a mezzo di fMRI ed EEG- che hanno evidenziato la presenza di aree cerebrali prettamente deputate alla elaborazione del numero, oltre ad uno specifico collegamento tra la disfunzionalità di tali aree e la presenza del disturbo discalculico.

Per la lettura delle ulteriori teorie esposte si rimanda ad una analisi più approfondita del testo, nella certezza che non si tratterà di una lettura pesante né dispersiva. Gli autori riescono a neutralizzare gli inconvenienti di un’esposizione sovraccarica e disorientante grazie alla descrizione sistematica di ogni argomento, la cui organizzazione espositiva viene corroborata da una grafica disseminata di glossari, schemi sintetici e tabelle riassuntive posti al principio e al termine di ogni capitolo. Accorgimento che agevola la reperibilità dei contenuti e favorisce un continuo automonitoraggio circa l’assimilazione dei concetti. Al termine della lettura emergerà un quadro prospettico in cui la diversità di vedute, pur evidenziata con onestà concettuale, contribuisce alla costruzione di una panoramica di conoscenze completa ed integrata, e per questo scientificamente attendibile.

La descrizione specifica della discalculia: le quattro sezioni dell’opera

La prima area ospita un ampio quadro introduttivo, in cui la discalculia viene descritta nelle sue connotazioni cliniche, didattiche e burocratiche. Dunque, se da una parte si cerca di analizzare la componente eziopatologica del disturbo riferendone nel dettaglio i correlati disfunzionali, dall’altra la condizione discalculica viene traslata concretamente all’interno delle aule scolastiche. Questo rende necessaria la spiegazione di termini come BES, PDP, diagnosi clinica, certificazione diagnostica, percorso valutativo specifico: un lessico indispensabile per gli addetti ai lavori, che in queste pagine viene arricchito dal continuo riferimento a normative di settore e richiami legislativi aggiornati. Non manca un’analisi dettagliata dell’iter diagnostico- il cui svolgimento è necessario per la certificazione del disturbo- accompagnata dalla raccomandazione volta a collocare la diagnosi in una giusta fase evolutiva: ciò al fine di evitare allarmismi precoci, che potrebbero portare all’identificazione di falsi positivi, e diagnosi tardive, ispirate da una banalizzazione del problema o da una disorganizzazione nella presa in carico (Vio, Tressoldi 2012). Si specifica infine come l’utilizzo di batterie di test standardizzati, somministrati da un equipe di esperti, consenta di stabilire l’eventuale presenza di comorbilità, l’isolamento di diagnosi differenziali e l’individuazione delle difficoltà di apprendimento attribuibili a stati emotivi, quali l’ansia in matematica e la pseudo discalculia da blocco emozionale (p. 311).

Come conciliare gli obiettivi didattici con le limitazioni cliniche imposte dal disturbo? La seconda area dimostra come il punto di partenza per raggiungere questo obiettivo, non semplice né scontato, sia la costruzione di uno stile didattico flessibile e inclusivo, in grado di rispettare la zona prossimale dell’allievo, evitando di forzarla con richieste irrealistiche e soverchianti. Il docente in linea con le esigenze del discalculico deve mostrarsi chiaro, diretto e semplice, sia nell’approccio relazionale che nel linguaggio esplicativo; deve manifestare disponibilità nel ripetere i concetti più volte, partendo dalle nozioni di base per procedere gradualmente verso obiettivi più complessi; e soprattutto deve essere dotato di una buona capacità osservativa. Un docente attento e interessato potrà facilmente valutare le modalità con cui l’allievo si approccia all’elaborazione dei concetti matematici; allo stesso modo potrà individuare l’accessibilità mnestica alle conoscenze acquisite, la capacità di immagazzinamento e di recupero, lo stile di apprendimento specifico; e soprattutto potrà determinare la natura e la frequenza degli errori al fine di strutturare programmi intensivi individualizzati e prevedere l’adozione di eventuali strumenti compensativi e dispensativi, anch’essi ampiamente descritti all’interno del testo. La matematica non è solo una materia da temere, sembrano voler dire gli autori: è necessario proiettarla in un contesto più rilassato, accogliente e familiare, in cui lo stesso errore può assumere prospettive meno irreversibili e definitive. Come avviene in un gioco. Da qui una disamina di esercizi didattici in cui la componente ludica, pur finalizzata all’apprendimento, concede spazio alle potenzialità creative degli allievi – non soltanto discalculici- per stimolarne l’interesse e la motivazione.

La terza area evidenzia il valore didattico della metacognizione, intesa come capacità di accedere ai propri strumenti cognitivi per comprenderne il funzionamento e programmarne l’attivazione specifica. L’aspetto metacognitivo contribuisce allo sviluppo di un ragionamento astratto e flessibile ed evita il consolidarsi di un sapere meccanizzato che, soprattutto nella matematica, mostra la propria limitatezza. Ciò è sufficiente a porla come obiettivo da perseguire in tutte le materie, sin dagli esordi della scolarizzazione. Importante anche la gestione del pensiero stereotipato, visto come principale responsabile di una scarsa valorizzazione dell’impegno ai fini del superamento delle difficoltà: i maschi apprendono più delle femmine, la matematica è troppo difficile, quando non riesci in matematica impegnarsi è inutile, sono solo alcuni dei luoghi comuni in grado di creare passività reattiva e fobia del numero. Fornire agli allievi un feedback rinforzante e motivato si mostra necessario anche per corroborare i costrutti di autostima e autoefficacia, utili alla costruzione dell’identità personale. Non solo come studenti, ma anche come futuri adulti. Il testo ribadisce la miopia di una visione che limita gli effetti lesivi della discalculia al solo percorso scolastico, ignorando l’esistenza di un disagio che perdura ben oltre. Da qui l’origine di una lacuna tecnico-diagnostica “colpevole” di rendere più disagevole l’individuazione e il trattamento del disturbo anche dopo la fine del ciclo di studi. In attesa che si ponga rimedio a questo inopportuno vacuum- strumentale e legislativo- una tabella riassuntiva indica gli strumenti attualmente  disponibili, in Italia, per l’esame diagnostico della discalculia acquisita nell’adulto (p. 315);

La quarta e ultima parte chiama in causa il ruolo della famiglia come elemento di alleanza e di sostegno nella trattazione del disturbo. Sin dalle prime fasi. Il genitore viene definito un osservatore privilegiato: non solo perché conosce il figlio, ma anche perché, attraverso un attento monitoraggio durante lo svolgimento dei compiti a casa, può rilevare la presenza di comportamenti specifici che a scuola, per pudore o per paura, non vengono attuati. Questa prospettiva di osservazione agevolata contribuisce a rendere più identificabili i disagi, a contestualizzare i comportamenti e ad interpretare le emozioni in un’ottica significante che potrà essere condivisa anche a scuola, in vista di un’ omogeneità applicativa degli interventi.

Considerazioni conclusive

Questa opera edita dalla Erickson non lascia nulla al caso. Merito dei numerosi esperti che hanno preso parte alla sua redazione, mettendo al servizio del lettore il prodotto delle rispettive e pluriennali esperienze. Il risultato finale è conforme alle aspettative. Ogni aspetto della discalculia -da quelli clinico-diagnostici a quelli didattici, da quelli emotivo- comportamentali fino alle inevitabili declinazioni burocratico legislative- viene trattato esaustivamente, attraverso la voce di contenuti aggiornati, completi e scientificamente validati.

A parere di chi scrive, ogni docente che desideri acquisire uno stile didattico funzionale al trattamento della discalculia non può prescindere da un’attenta lettura di quest’opera. Ma per quanto i contenuti specifici la orientino verso un pubblico didattico, la completezza e la chiarezza espositiva alla base della stessa ne rendono possibile la fruizione anche da parte di soggetti diversamente coinvolti nel trattamento del disturbo: clinici, cultori della materia, esperti nel settore. Persino non professionisti. Tra cui genitori, allievi con difficoltà di apprendimento matematico e gli stessi discalculici. Last but not least, verrebbe da dire. Proprio costoro potranno avvalersi dei numerosi contributi psicoeducativi riferiti, in una finalità di conoscenza e gestione consapevole del disturbo e dei suoi correlati.

 

Qualità del sonno, sonnolenza diurna e dispositivi elettronici a letto

Uno studio di AlShareef (2022) ha cercato di indagare l’impatto dell’uso della tecnologia prima di dormire sulla qualità del sonno e l’eccessiva sonnolenza diurna (EDS) attraverso un sondaggio sulla popolazione adulta.

 

Introduzione

Il sonno, essenziale per la nostra salute e per il nostro funzionamento quotidiano, ha un impatto sia sugli aspetti di salute pubblica che sull’economia, rendendo necessarie misure per mitigare le conseguenze delle disfunzioni ad esso legate. Ad esempio, l’eccessiva sonnolenza diurna (EDS – Excessive Daily Sleepiness) è associata ad un alto indice di massa corporea (BMI), al diabete mellito, alla depressione e a una ridotta qualità della vita (Owens et al., 2015). Un terzo degli incidenti automobilistici mortali è causato da addormentamento alla guida (CDC, 2013) e la sonnolenza sul lavoro rappresenta un significativo onere economico per l’individuo, i sistemi sanitari e i datori di lavoro (Metlaine et al., 2005).

Ad oggi, i progressi tecnologici, l’aumento degli standard di vita, la richiesta di disponibilità professionale e personale 24/7 e il cambiamento delle interazioni sociali a causa della pandemia COVID-19 hanno trasformato l’ambiente domestico. In ogni casa sono ormai molteplici i dispositivi elettronici tra cui smartphone, televisori, dispositivi tablet e computer. In particolare, lo smartphone – grazie alla sua ubiquità, portabilità e connettività – ha facilitato l’utilizzo di almeno uno strumento elettronico a letto.

In letteratura possiamo trovare molti risultati sull’utilizzo di dispositivi elettronici e qualità del sonno. Ad esempio, l’utilizzo dei dispositivi può portare perdita di sonno, modelli di sonno-veglia irregolari, qualità del sonno più scarsa ed eccessiva sonnolenza diurna, in particolare nei bambini e negli adolescenti (Saling & Haire, 2016).

I meccanismi che sono stati proposti alla base di questo collegamento sono: (1) l’esposizione alla luce a lunghezza d’onda corta (blu) che può sopprimere la secrezione di melatonina; (2) un addormentamento posticipato a causa dell’utilizzo del dispositivo (ovvero, si occupa il tempo che altrimenti sarebbe speso per dormire); e (3) aumento dell’eccitazione (mentale, fisica, e/o fisiologica) attraverso la natura del contenuto, che spesso può essere grafico, violento, emotivo o sessuale (AlShareef, 2022).

L’impatto degli smartphone sulla qualità del sonno

Dato che la maggior parte degli studi esistenti sono stati condotti su adolescenti e bambini, uno studio di AlShareef (2022) ha cercato di indagare l’impatto dell’uso della tecnologia prima di dormire sulla qualità del sonno e l’eccessiva sonnolenza diurna (EDS) attraverso un sondaggio su un’ampia popolazione di adulti dell’Arabia Saudita.

I risultati dello studio hanno mostrato che il 38% degli intervistati ha dichiarato una qualità del sonno scadente e il 15% una eccessiva sonnolenza diurna (moderata o grave); la durata media del sonno nel campione analizzato era di circa 6 ore, inferiore quindi alle 7-9 ore raccomandate per gli adulti (Khubchandani & Price, 2020).

I risultati hanno dimostrato anche che i dispositivi elettronici in camera da letto erano quasi onnipresenti, con il 95% del campione che riportava almeno un dispositivo elettronico nella propria camera da letto, di solito uno smartphone, che veniva usato regolarmente da quattro quinti degli intervistati durante l’orario in cui avrebbero dovuto dormire.

Il numero di dispositivi nella camera da letto ha mostrato una bassa associazione con i parametri della qualità del sonno, tuttavia, l’uso regolare di quasi tutti i dispositivi era associato a una ridotta qualità soggettiva del sonno.

Nonostante i risultati dello studio non possano essere generalizzati ad altri Paesi, forniscono nuove informazioni sull’altissima prevalenza dell’uso di dispositivi elettronici in camera da letto negli adulti di un paese sviluppato, un risultato che probabilmente si rifletterà in paesi altrettanto sviluppati dove quasi tutta la popolazione adulta possiede uno smartphone.

In aggiunta, i risultati dimostrano che l’uso di smartphone e tablet ha conferito un rischio di due/cinque volte superiore di ritardo nell’addormentamento (>30 minuti). Smartphone e tablet sono importanti fonti di luce blu a breve lunghezza d’onda, tipologie di luce che hanno dimostrato di sopprimere la melatonina dopo solo due ore di esposizione e portare a disfunzioni del sonno (Heo et al., 2017). Gli utenti di smartphone e tablet, che probabilmente tengono questi dispositivi vicino agli occhi e ricevono alti livelli di luce blu, possono essere particolarmente colpiti da questo fenomeno.

Inoltre, è probabile che il contenuto visualizzato su smartphone e tablet sia più stimolante di quello ricevuto per via uditiva (come la musica e la radio), motivo per cui questi dispositivi si sono dimostrati come quelli che recano più danni alla qualità e alla durata complessiva del sonno.

Nel complesso, quindi, è probabile che questi tipi di dispositivi espongano gli individui alla luce blu, al ritardo nell’addormentamento e all’aumento dell’eccitazione. Piuttosto che utilizzare esclusivamente le modalità notturne per ridurre le probabilità di interruzione del sonno, l’igiene del sonno ottimale potrebbe essere quella di non utilizzare affatto questi dispositivi prima di dormire.

Per quanto riguarda invece l’eccessiva sonnolenza diurna e l’uso della tecnologia, sono state rilevate associazioni modeste; l’uso di dispositivi elettronici a letto può contribuire alla sonnolenza diurna, ma questo sembra essere il risultato dello spostamento del sonno piuttosto che un effetto dell’esposizione alla luce blu o del contenuto stimolante.

Implicazioni relativi all’igiene del sonno

In conclusione, questo studio fornisce informazioni non solo sulla prevalenza dei problemi del sonno, ma anche sull’uso della tecnologia durante il sonno e sulle loro relazioni. I risultati rafforzano le prove attualmente limitate che l’uso di dispositivi elettronici ha un impatto sulla qualità del sonno. Alla luce dei dati presentati, si potrebbe affermare che tra adulti e adolescenti vi sia un impatto simile in termini di qualità del sonno e eccessiva sonnolenza diurna con l’uso di dispositivi elettronici a letto.

È necessario che nell’igiene del sonno venga inclusa la limitazione dell’uso dei dispositivi elettronici in camera da letto e, se il loro uso è assolutamente necessario, applicare modalità notturne per ridurre l’emissione di luce blu.

 

Consensus Conference: terapie psicologiche per ansia e depressione – Comunicato Stampa

La diffusione dei risultati della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione può rappresentare un importante contributo per il miglioramento delle politiche nel campo della salute mentale in Italia, oltre ai molteplici significati che essa riveste dal punto di vista sia culturale che scientifico.

Comunicato Stampa a cura del Comitato editoriale della Consensus Conference

 

Recentemente è stato pubblicato il documento finale della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione, costituita con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità dopo un convegno organizzato a Padova nel novembre 2016 da Ezio Sanavio, Professore Emerito dell’Università di Padova. A quel convegno era stato invitato David Clark, che aveva presentato il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT), da lui promosso nel 2008 assieme a Richard Layard, docente di Economia alla London School of Economics (LSE), e poi attivato dal governo inglese: il punto di partenza di tale programma era rappresentato dall’accumularsi di prove scientifiche che dimostrano che, nel trattamento dei disturbi mentali “comuni”, ansia e depressione, la psicoterapia è spesso più efficace dei farmaci (vi è un minor numero di ricadute, i miglioramenti ottenuti sono più duraturi ed aumentano nel tempo, etc.).

Di conseguenza, come è stato calcolato alla London School of Economics, migliorando l’accesso ai trattamenti psicologici nei Servizi di salute mentale è possibile ottenere non solo un maggiore benessere per gli utenti, ma anche un guadagno per le casse dello Stato (minori assenze lavorative, minori costi indiretti dei disturbi, etc.). Per molti disturbi psicologici comuni quindi la psicoterapia – come peraltro indicato dalle principali linee-guida internazionali (inglesi, americane, australiane, etc.) prese in rassegna nel documento finale della Consensus Conference – andrebbe considerata come intervento di prima scelta, mentre spesso i medici, sia per il tipo di formazione ricevuta sia per le pressioni esercitate dall’industria farmaceutica, si limitano a prescrivere farmaci senza suggerire una psicoterapia. Sarebbe quindi nell’interesse di tutti migliorare l’accesso alle psicoterapie nei Servizi di salute mentale, assumendo psicoterapeuti (oggi presenti in numero molto limitato) e organizzando un’adeguata formazione per medici e psicologi. Oggi i pazienti che necessitano di un trattamento psicoterapeutico sono costretti a ricorrere al mercato privato, con una discriminazione di censo inaccettabile in tema di salute ed irrispettosa del dettato costituzionale.

Il Documento finale della Consensus Conference, di 117 pagine, è disponibile sul sito Internet dell’Istituto Superiore di Sanità (vi è anche una versione inglese), con una Premessa di Silvio Brusaferro (Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità) e una Presentazione di Silvio Garattini (Presidente dell’Istituto Mario Negri e della Giuria della Consensus Conference).

La diffusione dei risultati della Consensus Conference può rappresentare un importante contributo per il miglioramento delle politiche nel campo della salute mentale in Italia, oltre ai molteplici significati che essa riveste dal punto di vista sia culturale che scientifico.

Per maggiori informazioni:

Ezio Sanavio, Una Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione. Psicoterapia e Scienze Umane, 2022, 56, 1: 11-20. Dopo questo articolo vi sono la Premessa di Silvio Brusaferro e la Presentazione di Silvio Garattini al Documento finale della Consensus Conference, e due documenti che perseguono obiettivi affini: un Manifesto della Salute Mentale redatto da Angelo Barbato (Istituto Mario Negri), Antonello D’Elia (Presidente di Psichiatria Democratica), Pierluigi Politi (Università di Pavia), Fabrizio Starace (Presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica [SIEP]) e Sarantis Thanopulos (Presidente della Società Psicoanalitica Italiana [SPI]), e un Progetto di implementazione degli interventi per la salute mentale che è stato proposto al Ministero della Salute dalle tre più importanti associazioni italiane di psicoterapia, il Coordinamento Nazionale Scuole Psicoterapia (CNSP), la Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP) e Società Italiana di Psicoterapia (SIPSIC); questi documenti sono open-access e linkati all’indice del n. 1/2022 di Psicoterapia e Scienze Umane.

 

L’effetto imbuto dei telomeri sui protocolli di supporto psicofisico

La scienza dei telomeri afferma che molteplici macro-fattori (nutrizionali, motori, psicologici, sociali, del sonno, etc.), seppur in maniera parzialmente indipendente, impattano nella stessa misura sulle strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità. 

 

Una conseguenza di questa dinamica chiamata “effetto imbuto” dei telomeri (Agnoletti, 2019) è che qualsiasi intervento da parte dei professionisti del benessere psicofisico dovrebbe partire dall’analisi generale di questi macro-fattori per identificare il fattore, o i fattori, altamente vulnerabili che richiedono priorità nel percorso di supporto.

Questo paradigma emergente dallo studio dei telomeri necessita una formazione molto più integrata e trasversale rispetto ai percorsi formativi attualmente disponibili sia a livello universitario che postuniversitario, quindi è necessario implementare prima possibile queste nuove conoscenze tramite una formazione specifica dedicata.

Vediamo ora il contesto teorico- pratico di queste affermazioni.

Cosa sono i telomeri?

Per spiegare il ruolo e la funzione dei telomeri si utilizza generalmente una metafora dove i telomeri sono rappresentati dai “terminali” plastificati dei lacci delle scarpe ed i lacci stessi sono rappresentati dall’informazione genetica del nostro DNA.

La metafora aiuta a cogliere l’importanza del ruolo dei telomeri nell’evitare che il nostro contenuto genetico si “danneggi” garantendo quindi le proprietà strutturali del DNA e scongiurando di conseguenza la situazione in cui l’informazione contenuta nel nostro patrimonio genetico non sia più utilizzabile dai processi cellulari, determinando la morte cellulare stessa.

Ad ogni divisione cellulare le strutture telomeriche si accorciano progressivamente, e questo graduale e progressivo processo di accorciamento è ciò che viene comunemente chiamato “invecchiamento” cellulare.

Grazie a recenti ricerche di biologia molecolare si è anche capito che i telomeri sono supportati da uno speciale enzima, detto “telomerasi”, che parzialmente riesce a contrastare l’effetto di consumo dei telomeri aggiungendo basi alla loro struttura e limitando quindi il loro accorciamento (Andrews & Cornell, 2017; Armanios, 2013; Blackburn, 1991; Blackburn, 2010).

Quali fattori influenzano l’accorciamento dei telometri?

Mentre alcuni fattori “accelerano” l’accorciamento dei telomeri perché limitano l’azione manutentiva dalla telomerasi (pensiamo al fumare, al dormire poche ore, la sedentarietà, soffrire di distress cronico, il rimuginio frequente, la depressione, alimentarsi scorrettamente, etc.) altri fattori “rallentano” l’accorciamento standard telomerico dovuto alla replicazione cellulare perché attivano più efficacemente la telomerasi (la meditazione, una regolare attività motoria, una corretta nutrizione, una corretta qualità del sonno, etc.).

La lunghezza assoluta dei telomeri è sensibile a molti fattori quali l’esposizione a fattori stressanti negativi, il benessere psicologico, il nostro comportamento inteso come stile di vita, e molti altri fattori, inclusi anche la presenza o meno di inquinanti che contribuiscono a determinare il ritmo con il quale i nostri telomeri si accorciano (Armanios & Blackburn, 2012; Blackburn, Epel & Lin, 2015; Calado & Young, 2009; López-Otín et al. 2013).

L’obiettivo che possiamo avere anche a livello clinico è dunque quello di possedere telomeri che compiono il loro fisiologico accorciamento in maniera più lenta possibile, rafforzando la capacità di queste preziose strutture di rimanere stabili e strutturalmente efficaci in modo da prolungare il più possibile la nostra longevità residua, oltre che la qualità di vita che conduciamo (in termini anche di probabilità di sviluppare problematiche cardiocircolatorie, immunitarie, etc.) (Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018b; Agnoletti, 2018c).

La lunghezza massima iniziale dei telomeri è un parametro immodificabile, ma esistono molti fattori quali lo stile di vita, le caratteristiche psicologiche, la nutrizione, la qualità della rete sociale che abbiamo e altri aspetti che influenzano la velocità di invecchiamento dell’organismo ed in ultima analisi la nostra longevità.

Per questo motivo attualmente i telomeri sono considerati il nostro orologio biologico più affidabile essendo così strettamente connesso con l’invecchiamento cellulare.

L’effetto imbuto dei telomeri

Nel 2019 ho coniato il termine “effetto imbuto” o “effetto collo di bottiglia” dei telomeri (Agnoletti, 2019) proprio per descrivere la natura convergente ed ubiquitaria di tutti i macro-fattori identificati dalla letteratura scientifica (attività motoria, nutrizione, benessere psicologico, qualità del sonno, etc.) almeno parzialmente indipendenti nei percorsi causali con i quali influenzano la lunghezza dei telomeri (più precisamente il funzionamento degli enzimi della telomerasi deputati a contrastare il “consumo” dei telomeri stessi).

Si pensi, ad esempio, a quanto possa essere diversa la traiettoria d’influenza epigenetica nell’organismo umano (percorso causale) del supporto sociale o del benessere psicologico rispetto quello nutrizionale o relativo l’attività motoria.

Malgrado presentino forti diversità, tutti questi macro-fattori determinano un cambiamento finale nella medesima struttura biologica rappresentata dalla telomerasi, che a sua volta determina la lunghezza dei telomeri.

Come conseguenza di questo fatto descritto dall’effetto imbuto, il fenomeno di accelerazione o rallentamento dell’invecchiamento telomerico sembra essere almeno in parte indipendente dal tipo di percorso informazionale “a monte” che ha prodotto il cambiamento epigenetico sui telomeri.

La letteratura scientifica attualmente disponibile, infatti, non evidenzia la dominanza di una macro-fattore “a monte” (benessere psicologico, qualità del sonno, nutrizionale, etc.) più importante rispetto gli altri nell’influenzare i telomeri, ma indica un effetto quantitativo dose-dipendente per ciascuno di essi.

Ad esempio, lo stress negativo cronico, l’esposizione prolungata a sostanze chimiche usate in ambito agricolo o relativa ai metalli pesanti comportano effetti dose dipendenti molto evidenti sui telomeri (maggiore risulta l’esposizione di questi fattori di rischio, minore sarà la lunghezza dei telomeri) ma non è emerso che uno di questi fattori influenzi più degli altri queste strutture cromosomiche.

La caratteristica di tutti i fattori sociologici, psicologici, fisiologici, nutrizionali e motori di “bersagliare” in maniera convergente i telomeri, attraverso l’influenza che hanno sulla telomerasi, non solo è importante perché ci fa comprendere come queste strutture molecolari siano sensibili alle varie “esperienze” epigenetiche legate ai diversi contesti di provenienza, ma ci suggerisce anche la natura almeno parzialmente indipendente di questa convergenza.

Le implicazioni cliniche della scienza dei telomeri

Importanti e profonde implicazioni derivano dall’applicare questo nuovo concetto di “effetto imbuto” o “effetto a collo di bottiglia” dei telomeri sia per promuovere più corretti stili di vita che per essere più efficaci sotto l’aspetto clinico (Agnoletti, 2019).

Una delle principali implicazioni cliniche è che qualsiasi professionista del benessere psicofisico (psicologi, medici, fisioterapisti, etc.) non dovrebbe prescindere dall’analisi iniziale di questi macro-fattori identificati dalla scienza dei telomeri.

Il motivo di questa indicazione, che dovrebbe essere considerata nei protocolli clinici dei professionisti del settore, è che, focalizzando l’intervento esclusivamente su uno o più fattori (per esempio psicologico o nutrizionale o di qualità del sonno) e trascurando quello, o quelli, che invece influenzano più negativamente i telomeri accelerandone i processi di invecchiamento, si rischia paradossalmente di peggiorare la longevità globale del paziente, oltre che la sua qualità di vita nel medio/lungo termine.

Se è vero, infatti, quanto indicato attualmente dalla letteratura molecolare dei telomeri e descritto dall’effetto imbuto, allora ha poco senso intervenire concentrandosi unicamente per esempio a livello psicologico, o esclusivamente a livello fisiologico, o nutrizionale, o motorio, dal momento che l’impatto ed il modo di influenzare i telomeri segue una natura convergente ed in parte autonoma e quindi indipendente.

La logica che deriva dall’effetto imbuto dei telomeri è che ciascun macro-fattore influenza in maniera almeno in parte indipendente la loro struttura, quindi la metafora che potremmo e dovremmo adottare è quella di una catena dove ciascun macro-fattore rappresenta un anello e il benessere e la qualità di vita sono rappresentati dall’intera catena.

Se la metafora della catena coglie la natura convergente e parzialmente indipendente dei telomeri, ne segue che per prima cosa, per valutare la “forza” globale del nostro benessere e la nostra salute, occorre identificare l’anello, o gli anelli, più deboli perché la natura di questa architettura implica che “la catena è forte quanto il più debole dei suoi anelli”.

In altri termini i professionisti del benessere e la salute umana dovrebbero implementare nei loro rispettivi protocolli l’indicazione emergente dalla scienza dei telomeri relativa la necessità iniziale di identificare quale fattore, o quali fattori, rappresentano una maggiore vulnerabilità nei confronti delle strutture telomeriche per poi definire un percorso di supporto coerente con questa analisi.

Di conseguenza a quanto descritto, anche se in genere la formazione attuale dei professionisti continua ad essere iperspecialistica e focalizzata sullo studio delle dinamiche molecolari, vi è la necessità di integrare il prima possibile all’interno dei diversi percorsi formativi queste specifiche conoscenze trasversali caratterizzate da un approccio altamente integrato ed olistico.

 

Il modello della Self-Regulation per individuare sottogruppi di pazienti con Fibromialgia – Report

Nella giornata mondiale della Fibromialgia che si celebra oggi, presentiamo ai nostri lettori una ricerca condotta sull’argomento e presentata al Forum di Ricerca in Psicoterapia delle scuole affiliate al Gruppo Studi Cognitivi.

 

Lo studio in questione, presentato durante il Forum dal Dott. Michael Tenti e condotto da M. Tenti, W. Raffaeli, V. Malafoglia, M. Paroli, C. Gioia, C. Iannuccelli e P. Gremigni,  rientra in un più ampio progetto di ricerca il cui scopo è quello di individuare i marcatori biologici, psicologici e sociologici della sindrome fibromialgica, in modo da poterla differenziare da altre sindromi e, al contempo identificare, all’interno della stessa sindrome, popolazioni differenti di pazienti con caratteristiche e bisogni diversi.

Nella fattispecie, la ricerca presentata dal Dr Tenti, è rivolta alla rilevazione di eventuali marcatori psicologici della fibromialgia, che permettano di identificare diversi sottogruppi di pazienti, le cui differenze in termini psicologici possano spiegare differenti livelli di adattamento alla patologia.

Cos’è la fibromialgia: un’introduzione teorica allo studio

La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica con una presentazione clinica altamente  eterogenea. Non a caso è spesso nota come “malattia dei 100 sintomi”. Seguendo la distinzione dell’ICD 11 tra dolore cronico primario (non associato ad altre condizioni mediche) e secondario (associato ad altre condizioni mediche), la fibromialgia rappresenta una forma di dolore cronico primario, in particolare diffuso in 4/5 regioni anatomiche da almeno 3 mesi. Sono 2 milioni le persone in Italia che ne soffrono, la maggior parte delle quali tra i 35 e 55 anni e donne (anche se si pensa che vi sia una sottostima del numero di uomini che ne soffrono). L’eziopatogenesi risulta complessa e multifattoriale e non ancora chiarita, così come complesso e “debole” risulta il processo diagnostico.

Da queste difficoltà nasce il progetto di ricerca intento a identificare i marcatori della fibromialgia (la cui esistenza, ricorda il dr Tenti, è ancora oggi messa in dubbio). Molto spesso il trattamento, che prevede una parte di educazione alla patologia, strategie non farmacologiche (più raramente interventi farmacologici), psicoterapia e terapie multimodali, si mostra poco efficace e ciò fa della fibromialgia una sindrome cronica o recidivante remittente. Essa risulta quindi una delle sindromi dolorose croniche a cui più difficile adattarsi.

Il modello della Self-Regulation

Le tante manifestazioni cliniche della fibromialgia – ricorda il dott. Tenti nel corso della presentazione – hanno quindi condotto i ricercatori a pensare che, individuando potenziali sottogruppi di pazienti, si possano ideare migliori strategie di intervento e trattamento.

Uno dei limiti in questo campo di ricerca è però la mancanza di strumenti affidabili in quanto non supportati da un solido modello teorico di riferimento. Questo ha portato il gruppo di ricerca del Dr Tenti a rivolgere la loro attenzione al modello della SELF-REGULATION, una delle teorie più applicate nel campo della psicologia della salute, ampiamente validata ed estesa allo studio di altre patologie quale il dolore cronico.

Nato in ambito cognitivista negli anni 80, il modello della Self-Regulation prevede che tutti i pazienti raccolgano informazioni sulla propria malattia, cercando di integrarle tra loro e di inserirle in schemi cognitivi pre-esistenti in modo da sintetizzarle e costruire una rappresentazione coerente della propria condizione, sia da un punto di vista cognitivo che emotivo. In questo modo il paziente riesce a dare un senso alla patologia e orientare efficacemente le strategie di coping personali con un conseguente impatto sugli esiti della malattia.

Il modello della Self-Regulation prende questo nome proprio perché parte dal presupposto che gli individui siano motivati a raggiungere uno stato di assenza dei sintomi, motivazione che li porta a raccogliere informazioni sulla patologia e ad autoregolarsi in base alle convinzioni sulla patologia e alla rappresentazione che sviluppano di questa.

Le dimensioni del modello della Self-Regulation sono state operazionalizzate in un questionario, l’Illness Perception Questionnaire, che valuta la rappresentazione di malattia tramite 3 sezioni:

  • identità della malattia (i sintomi che per i pazienti rappresentano di più la loro malattia);
  • opinioni sulla malattia (credenze e idee differenti sulla malattia, sulla gravità, sulla cronicità, sulle conseguenze, sul controllo personale, sull’impatto emotivo ecc);
  • possibili cause della malattia.

Fibromialgia e self-regulation: lo studio

Dopo questa introduzione teorica, il Dr Tenti passa a illustrare lo studio. Obiettivo della ricerca è, come già anticipato, individuare sottogruppi di pazienti fibromialgici in base alla rappresentazione di malattia usando il modello della Self-Regulation, e indagare le potenziali differenze tra i sottogruppi in termini di intensità del dolore, disagio emotivo, funzionamento nella vita quotidiana, catastrofizzazione e accettazione del dolore.

Lo studio rientra in un’indagine più ampia, i cui partecipanti sono stati reclutati nel periodo da marzo 2018 a marzo 2019 tra i pazienti con fibromialgia seguiti dall’ Unità Operativa di Reumatologia del Policlinico Umberto I. Il sottocampione selezionato per la ricerca è costituito da un totale di 53 persone.

Sono state raccolte informazioni sociodemografiche, informazioni sulla durata del dolore, sui trattamenti attuali e sull’intensità del dolore (registrata tramite scala a 10 punti poiché purtroppo, ad oggi, mancano misure oggettive del dolore). Altre variabili valutate sono inoltre: il funzionamento quotidiano e l’impatto della fibromialgia (tramite Fibromyalgia Impact Questionnaire), la rappresentazione di malattia (tramite Illness Perception Questionnaire), la tendenza alla catastrofizzazione (tramite la sottoscala apposita del Coping Strategies Questionnaire), l’accettazione del dolore (col Cronic Pain Acceptance Questionnaire) e il disagio emotivo (tramite la Depression, Anxiety and Stress Scale).

I risultati mettono in luce una correlazione tra l’intensità del dolore e l’impatto complessivo della fibromialgia (maggiore compromissione del funzionamento quotidiano) e la tendenza a catastrofizzare. L’intensità del dolore tuttavia non correla né con la sintomatologia depressiva, né con quella ansiosa. Le dimensioni del disagio emotivo, invece, correlano più significativamente con altre dimensioni psicologiche (come la tendenza a catastrofizzare e la non accettazione del dolore).

Dall’analisi dei dati è inoltre emersa una possibile suddivisione del campione in due cluster (Gruppo A e Gruppo B). Il Gruppo A si contraddistingue per una rappresentazione più negativa della malattia, maggiormente cronica e con peggiori conseguenze sul funzionamento quotidiano dell’individuo. La percezione del controllo (personale e dovuto al trattamento) è inoltre minore nei pazienti di questo gruppo, mentre maggiore risulta l’impatto emotivo negativo della malattia.

Non emergono differenze tra i due gruppi in termini di percezione della durata ciclica della patologia e della coerenza dei sintomi.

È importante notare come non vi siano differenze tra i due gruppi in base all’intensità e alla durata del dolore, quindi ciò che li differenzia maggiormente sono proprio le variabili di tipo psicologico (il livello di funzionamento quotidiano, l’impatto complessivo della fibromialgia, il disagio emotivo in termini di depressione e ansia, la tendenza a catastrofizzare e l’accettazione del dolore).

Dunque, in linea con altri dati della precedente letteratura, i pazienti con maggior disagio emotivo non sono quelli con dolore più intenso o duraturo, ma quelli con una peggiore rappresentazione di malattia, maggiore tendenza alla catastrofizzazione e minore accettazione.

Comprendiamo quindi quanto la ricerca qui esposta abbia un grandissimo potenziale nell’individuazione di marcatori psicologici della fibromialgia, fondamentali per un trattamento sempre più efficace di una patologia ad oggi ancora oggetto di dibattito tra i medici ma soprattutto – non dimentichiamolo – causa di profonda sofferenza per i pazienti.

 

Fear of missing out (FoMO) e uso di internet: una meta-analisi 

Una recente meta-analisi di Akbari, Seydavy, Palmieri, Mansueto, Caselli e Spada (2021) ha preso in esame 86 studi che si sono occupati di Fear of Missing Out e uso di internet e che si sono svolti dal 2013 al 2021.

 

La Fear of Missing Out (FoMO)

La proliferazione della tecnologia ha consentito un vasto accesso a Internet attraverso gli smartphones e non solo, con indubbi benefici e opportunità, seppur implicandone alcuni costi tra cui un potenziale utilizzo eccessivo e/o inopportuno.

Alcuni studi hanno messo in evidenza la relazione tra l’eccessivo uso di internet e diversi sintomi psicopatologici, tra cui ansia e depressione (Demirci, Akgonul, & Akpinar, 2015; Elhai, Dvorak, Levine, & Hall, 2017) solo per citarne alcuni. Alcune persone possono esperire quel che in letteratura viene definito ’nomophobia’ (“no mobile phone phobia”), e cioè la paura di essere e rimanere separati dal proprio smartphone (King et al., 2014). Alcuni recenti studi hanno anche approfondito la questione dal punto di vista neurobiologico: un eccessivo uso di internet può esitare in cambiamenti nell’anatomia cerebrale (con la diminuzione strutturale di alcune aree cerebrocorticali e impattare sui circuiti dopomaninergici della ricompensa – Tripathi, 2017).

Tra gli aspetti che stanno riscuotendo molto interesse in questo ambito ritroviamo il fenomeno etichettato attraverso l’espressione “FoMO”, “Fear of Missing Out” (Przybylski et al., 2013) che è concettualizzato come il timore di essere “tagliati fuori” e implicante la tendenza pervasiva a rimanere connessi con ciò che stanno facendo gli altri e a vivere le proprie esperienze in connessione con gli altri attraverso i social network.

L’associazione tra l’uso di internet e la FoMO nell’ambito della ricerca psicologica è oggetto di grande interesse, poiché ad esempio tale fenomeno può predisporre a un eccessivo uso di internet e correlarsi a sintomi di natura psicopatologica (Elhai et al., 2020; Kuss & Griffiths, 2017; O’Connell, 2020; Wang, Wang, Yang, et al., 2019; Wolniewicz et al., 2018). Allo stesso tempo, l’eccessivo uso di internet può ulteriormente amplificare il livello di FoMO (Fernandez, Kuss, & Griffiths, 2020), andando a ingenerare circoli viziosi disfunzionali per l’individuo.

Se quindi possiamo considerare la FoMO come un fattore di rischio predisponente per un uso eccessivo e disfunzionale di internet, tuttavia i risultati dei diversi studi sono variabili e non sempre coerenti tra loro, e la traiettoria di tale relazione bidirezionale rimane comunque ancora poco chiara (Elahi et al., 2021).

Una meta-analisi su FoMO e uso di internet

Una recente meta-analisi di Akbari, Seydavy, Palmieri, Mansueto, Caselli e Spada (2021) ha preso in esame 86 studi che si sono occupati di questo tema e che si sono svolti dal 2013 al 2021. Tali ricerche hanno coinvolto nel complesso un totale di 55.134 soggetti. La meta-analisi è stata svolta in accordo con il metodo Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA).

I soggetti partecipanti agli studi considerati avevano un’età media di 22 anni (SD = 6.15), e in percentuale per il 58.37% erano femmine. Gli studi presi in esame sono stati svolti in diversi paesi, con le seguenti percentuali: 45%, 32%, 19%, and 4% rispettivamente in Asia, Europa, Stati Uniti e Oceania.

In particolare, la review ha anche voluto approfondire la relazione tra FoMO e utilizzo di specifici social network, come ad esempio Facebook e Instagram. Infine, prendendo in considerazione la pandemia da COVID-19 come un evento stressante per la collettività a livello globale, si sono comparati gli studi pre e post pandemia per valutare il possibile impatto di tale condizione stressante come moderatore dell’associazione tra FoMO e utilizzo eccessivo di Internet.

I risultati della meta-analisi hanno evidenziato che la magnitudo dell’associazione tra la FoMO di tratto e l’utilizzo di Internet presenta una elevata eterogeneità tra gli studi, ovvero varia da r = 0.11 a r = 0.63  con un ampio margine di variabilità nelle popolazioni di individui partecipanti alle ricerche prese in esame.

Quindi il fenomeno FoMO sembra avere un ruolo rilevante nell’uso di Internet, anche se non vi sono evidenze di un’associazione bidirezionale statisticamente significativa rilevata in maniera coerente e consistente tra gli studi presi in esame. Inoltre, per spiegare tale associazione, non sembra esserci nessun ruolo giocato dalla gravità della FoMO (livelli maggiori o minori di gravità di tale fenomeno non impattano nell’associazione tra lo stesso e l’uso di internet); anche per quanto riguarda le fasce di età dei partecipanti, non si sono riscontrate differenze nella magnitudo della relazione tra la FoMO e l’uso di Internet, ad esempio tra adulti e teenagers.

In considerazione della sintomatologia psicopatologica, uno degli aspetti più importanti da sottolineare emersi dalla meta-analisi è che la correlazione tra FoMO e utilizzo di Internet non appare essere moderata in modo significativo dalla presenza di sintomi depressivi, ansiosi o da maggiori livelli di stress, né da un minore o maggiore livello di soddisfazione di vita. L’uso del social network Facebook non sembra essere un fattore particolarmente correlato al fenomeno di FoMO, mentre dalla meta analisi sono emersi dati a supporto di un maggiore livello di Fear of Missing Out e l’interruzione dell’uso di Instagram in alcuni individui.

Di fatto, la variabile chiave identificata dallo studio come un moderatore nella relazione FoMO e uso di internet sarebbe riferita alla pandemia da COVID-19. In tal senso la pandemia avrebbe agito come una rafforzatore di tale associazione, andando a rendere più intensa la correlazione tra il fenomeno FoMo e l’utilizzo di Internet rispetto al periodo temporale prepandemico.

Questo risultato è in linea con la Compensatory Internet Use Theory (CIUT; Kardefelt Winther, 2014) dal momento che è plausibile ipotizzare che i soggetti abbiano utilizzato Internet nel periodo pandemico per compensare la soddisfazione di bisogni inappagabili attraverso altre modalità e come strategia di coping per avere sollievo dalle emozioni negative durante i periodi di isolamento e restrizioni sociali.

 

La costruzione della coppia in un’ottica sistemico-relazionale

Ciascun membro della coppia arriva dalla sua famiglia, portando con sé il proprio bagaglio di storia, generazione e stirpe.

 

Questo spesso viene dimenticato dalle persone che si concentrano molto di più nel cercare di costruire una coppia autonoma, indipendente e a tratti anche possibilmente scollegata dalla propria storia familiare, per consacrare un legame duale che ricerchi il soddisfacimento del bisogno di autoaffermazione e, più narcisisticamente, la realizzazione del sé attraverso la coppia stessa.

Questo è avvenuto maggiormente negli ultimi anni della nostra epoca: nelle generazioni dal dopoguerra fino agli anni 70-80, invece, le relazioni di coppia si basavano sulla ricerca della protezione almeno da parte della donna, sposarsi significava crearsi uno status, creare alleanze tra famiglie, tramandare ruoli e mestieri; oggi si può dire che tale motivazione sia scemata in favore della ricerca della felicità personale, dell’autodeterminazione e della condivisione di un progetto di autorealizzazione.

Questo si vede anche simbolicamente con la forte diminuzione dei matrimoni celebrati in chiesa, che lasciano spazio alle unioni e alle convivenze.

La coppia e la nascita del figlio

Quando la coppia diventa generativa e nasce un figlio, la coppia di genitori viene chiamata a nuovi compiti: l’individuo deve misurarsi inevitabilmente con la propria storia familiare, è chiamato a ridefinire la propria posizione come figlio/figlia e a riconnettersi rispetto al ruolo nuovo di essere a sua volta genitore.

La nascita del bambino inoltre porta con sé una serie di significati:

  • Primo, la possibilità e la potenza di ciascun membro della coppia di essere generativo, quindi il divenire padre e madre;
  • Secondo, la responsabilità educativa verso il piccolo e l’affiorare di modelli genitoriali sperimentati in precedenza (quelli dei propri genitori e delle famiglie di origine) ai quali si finisce per ispirarsi o a contrapporsi.
  • Terzo punto, il significato più intimo che il figlio rappresenta per l’individuo che lo ha generato; nel nuovo contesto storico, ad esempio, il figlio è visto come una quota nella realizzazione personale e/o elemento che favorisce la riuscita della realizzazione della coppia stessa (addirittura a volte il legame con il nuovo nato può rimpiazzare la coppia stessa).
  • E, non da ultimo, grandissima importanza riveste l’attribuzione che la coppia dà a quel figlio: la sua nascita in un particolare momento della storia di coppia, o della storia familiare, dopo lutti, accadimenti, date, ricorrenze, o eventi che hanno un significato particolare per quella famiglia o per quella coppia…il contesto e il sistema di valori nel quale il bimbo viene ad inserirsi.

Passaggio da due a tre

La coppia perciò, da una fase duale, “io/tu”, si trova ad accogliere il terzo e a dover così per forza rinegoziare scambi, spazi, attenzioni, affetti, rimodulandosi nel nuovo mondo, cercando di non perdere quello che si era costruito faticosamente prima.

Nella maggioranza dei casi il bimbo avrà una speciale attenzione da parte della madre, fonte delle cure primarie, che potrà far inizialmente sentire il padre escluso e, a volte, impotente; il nuovo assetto richiede tempo per un accomodamento di tutti i suoi componenti.

Il ruolo fondamentale del padre sarà, nel tempo, non quello di stare fuori dalla diade, ma di cercare di riavvicinarsi alla sua compagna e al legame originario stabilito con lei, rispettando la sua nuova posizione di mamma e a sua volta sperimentandosi come figura paterna.

Una parte difficilissima, insomma, quella richiesta al compagno, che spesso nelle dinamiche del post parto viene accantonato e relegato a “guardare” lo speciale momento che si crea nella diade madre/figlio. Ecco invece che egli è parte attiva in tutto questo: la sfida sarà non intromettersi ma entrare nella loro “membrana” e farne parte, in modo tale che tutti i membri continuino ad essere generativi nella reciprocità.

 

La gelosia su Facebook e la violenza da parte del partner

Sebbene Facebook e i social network in generale possono facilitare l’incontro con un partner e il mantenimento di una relazione a distanza, è possibile anche che si creino tra i partner alcuni conflitti legati all’infedeltà sui social, alla gelosia e all’estremo controllo

 

Social network e gelosia

I siti di social network (SNS) hanno modificato profondamente il modo in cui comunichiamo e interagiamo con gli altri, sia nelle relazioni amicali che in quelle romantiche. Facebook, per esempio, è utilizzato dal 71% di giovani di età compresa tra i 13 e i 17 anni e dall’88% di età dai 18 ai 29 anni. Per tale ragione la ricerca scientifica ha recentemente approfondito come le relazioni romantiche possono essere influenzate dal crescente utilizzo dei social (Lenhart, 2015). I primi risultati indicano che l’uso di Facebook può portare a facilitare l’inizio e lo sviluppo di una relazione e ad un mantenimento più semplice della relazione a distanza. Gli effetti però non sono sempre positivi, è possibile anche che si creino tra i partner alcuni conflitti legati all’infedeltà sui social, alla gelosia e all’estremo controllo: le informazioni sul partner accessibili su Facebook sono moltissime e ciascuna di queste può diventare un potenziale motivo di gelosia. Post o foto di precedenti partner, l’aggiunta di amici attraenti e tanti altri comportamenti possono innescare sospetti ed essere possibili minacce per la relazione; le informazioni infatti non sono soltanto facilmente disponibili tramite i social network, ma spesso immagini e commenti possono essere mal interpretati se sono decontestualizzati (Fox, 2016).

Facebook e violenza da parte del partner

Diversi studi hanno infatti dimostrato che Facebook può suscitare gelosia e che quest’ultima è direttamente proporzionale al tempo trascorso sul social in quanto aumenta la probabilità che gli utenti siano esposti a contenuti che la scatenano (Muise et al., 2009). Utilizzando la manipolazione sperimentale dei parametri dei social network, come le impostazioni della privacy, l’uso di emoticon, e gli indizi non verbali (e.g. le immagini) vari contesti online hanno dimostrato di suscitare in modo diverso gelosia ed emozioni negative. Tra i vari modi in cui i social network possono potenzialmente complicare le relazioni romantiche, Facebook può contribuire alla perpetrazione della violenza da parte del partner (IPV); la gelosia può essere infatti seguita da sorveglianza elettronica che può degenerare in comportamenti più controllanti e coercitivi; inoltre è spesso identificata sia dagli uomini che dalle donne come una ragione per spiegare i comportamenti aggressivi verso un partner (Caldwell, 2014). Pochi studi si sono concentrati però sulla gelosia su Facebook e il suo potenziale ruolo nello spiegare alcuni risultati relazionali negativi associati all’uso dei social media; è necessario infatti specificare che la gelosia su Facebook è un costrutto correlato ma diverso dalla gelosia di tratto e da altri aspetti dell’esperienza generale della gelosia. Inoltre gli studi che hanno esplorato il legame tra gelosia e violenza da parte del partner hanno raccolto i dati di solo un membro della coppia, escludendo la possibilità che i comportamenti violenti di un partner possano essere scatenati anche come conseguenza dei sentimenti di gelosia dell’altro: considerare la gelosia di entrambi i membri può aiutare ad esaminare i contesti nella coppia che alimentano la violenza da parte del partner nelle giovani coppie.

Gelosia su Facebook e violenza da parte del partner: lo studio

Nel 2018, Daspe e colleghi hanno condotto due studi con l’obiettivo di esplorare il ruolo dell’uso di Facebook e della gelosia su Facebook nella perpetrazione di violenza da parte del partner offline tra gli adolescenti e i giovani adulti. Nel primo studio gli autori hanno esaminato il ruolo di mediazione della gelosia su Facebook nell’associazione tra l’uso di Facebook e la perpetrazione della violenza da parte del partner, ipotizzando un’associazione diretta e positiva tra l’uso di Facebook e violenza, mediata dalla gelosia di Facebook. Nel secondo studio hanno approfondito l’associazione tra gelosia di Facebook e violenza da parte del partner da una prospettiva diadica, utilizzando i dati di entrambi i partner romantici, ipotizzando che la gelosia di Facebook propria e del partner fosse positivamente associata alla perpetrazione della violenza da parte del partner e che la gelosia di Facebook di entrambi i partner interagisse per prevedere la perpetrazione della violenza da parte del partner. Nello specifico si aspettavano che l’associazione tra la propria gelosia su Facebook e la violenza da parte del partner fosse più forte quando il partner mostrava alti livelli di gelosia su Facebook. Nel primo studio 1508 partecipanti hanno quindi completato un sondaggio online che comprendeva la Facebook Jealousy Scale (Muise et al., 2009) e la Revised Conflict Tactics Scale (CTS2; Straus et al., 1996) per valutare l’uso di Facebook, la gelosia su Facebook e la perpetrazione di violenza da parte del partner . Nel secondo studio si è utilizzata una prospettiva diadica per indagare il contributo congiunto della gelosia di Facebook di entrambi i partner alla perpetrazione della violenza da parte del partner in un campione di 92 giovani (46 coppie). I risultati mostrano che la gelosia di Facebook è un fattore fondamentale che può perpetrare la violenza da parte del partner: nel primo studio tale gelosia è risultata essere un mediatore significativo della relazione tra l’uso di Facebook e violenza. Nel secondo studio i risultati indicano invece un’interazione significativa tra la gelosia su Facebook propria e del partner. Nello specifico la propria gelosia su Facebook era associata alla perpetrazione della violenza da parte del partner solo ad alti livelli di gelosia del partner su Facebook. Infine le associazioni tra uso di Facebook, gelosia su Facebook e violenza da parte del partner sono risultate essere simili sia per gli uomini che per le donne. Tali risultati suggeriscono quindi che i comportamenti online hanno implicazioni significative per i conflitti offline e l’aggressione nelle relazioni intime; In aggiunta, nella ricerca sulla violenza da parte del partner bisognerebbe considerare anche i fattori di rischio online tra cui la gelosia legata a Facebook. È necessario infine affrontare gli esiti relazionali negativi che possono derivare dall’eccessivo utilizzo dei social network, sensibilizzare i giovani sui modi in cui i social possono modellare alcuni atteggiamenti e comportamenti nelle loro relazioni e promuovere relazioni sane ed egualitarie dei giovani (Daspe et al., 2018).

 

Accesso alle psicoterapie e qualità del trattamento: il bando “Vivere meglio”

Anche ai cittadini e al grande pubblico può interessare la controversia nata in queste settimane intorno all’iniziativa “Vivere Meglio” dell’ENPAP. La discussione sta generando una riflessione sul ruolo di psicologi e psicoterapeuti nel servizio sanitario nazionale e sulle ricadute che il servizio offerto avrà per i pazienti

 

Anche ai cittadini e al grande pubblico può interessare la controversia nata in queste settimane intorno all’iniziativa dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”. Si tratta di una discussione che sta generando una riflessione sul ruolo e sulla definizione degli psicologi e degli psicoterapeuti nel servizio sanitario nazionale e che avrà ricadute anche per i pazienti e sul servizio che verrà loro offerto.

Di che si tratta? È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche e individuati dalla Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità.

L’interesse dei cittadini dovrebbe essere il possibile passo avanti verso la salute emotiva della popolazione generale. Ansia e depressione sono disturbi diffusi e che colpiscono le persone nel pieno della loro vita lavorativa e familiare. Inoltre, si tratta di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti di una Consensus Conference. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

A fronte di questi aspetti positivi, ve ne sono altri meno convincenti. Quello che genera più controversie è il fatto che il bando distingue tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia. Il timore è che si crei una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici in cui si rischi di far effettuare a psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità. Vi è poi una seconda preoccupazione, che è quella della qualità della selezione e dell’invio dei pazienti al trattamento, selezione che avverrebbe in termini che ora sembrano corrispondere a un semplice screening e ora sembrano prevedere un’intervista psicodiagnostica; infine il terzo timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione che fornisce la borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente superficiale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta.

Le risposte a queste perplessità, fornite da Paolo Michielin, uno dei curatori del Protocollo Diagnostico e Terapeutico, sono che gli interventi a bassa intensità che sono stati assegnati agli operatori non psicoterapeutici effettivamente non costituiscono psicoterapia essendo solo informazione, psicoeducazione, auto-aiuto e interventi a bassa intensità, che la formazione e la supervisioni non sono superficiali ma specifiche per operatori già formati e infine che lo screening si integra con interviste psicodiagnostiche per ottenere più rigorosità.

Dall’altro lato varie società scientifiche di psicoterapia, come CBT-Italia o la SITCC, o organi di rappresentanza e collegamento come la Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, ribadiscono che gli interventi proposti dal progetto, per quanto definiti a bassa intensità, sono interventi di psicoterapia essendo rivolti a pazienti con diagnosi di disturbi psico-patologici e finalizzati a curarne la sintomatologia. Da qui ne risulterebbe uno scadimento di qualità e di credibilità della professione.

Il vero problema è che l’iniziativa ENPAP si inserisce proprio nella ancora carente condizione giuridica in Italia della professione di psicoterapeuta, definita ancora oggi come un livello della formazione e non propriamente una professione diversa da quella psicologica. All’interno di questa ambiguità e forse in parte proprio per questo, la professione psicoterapeutica in Italia non si sottopone ancora a pratiche formalizzate di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione continua dopo quella fornita dalle scuole e supervisione. L’operazione ENPAP nasce anche con questo intento, anche se indubbiamente propone forme di selezione, formazione, supervisione e monitoraggio discutibili. E tuttavia si tratta di una iniziativa che va a coprire una lacuna del servizio psicoterapeutico italiano, ancora in larghissima praticato in Italia nelle forme dell’artigianato privato dello psicoterapeuta singolo nel suo studio. Al contrario, questa iniziativa è ispirata dalla consolidata esperienza inglese di psicoterapia nel servizio sanitario pubblico dello IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) di cui si conoscono vantaggi, difetti, esiti e rapporto costi/benefici. Inoltre, non va dimenticato che l’operazione proposta da ENPAP potrebbe rappresentare un’iniziativa importante per offrire accesso alle terapie psicologiche a cittadini che, pur avendone bisogno, non potrebbero farlo per limitate disponibilità economiche. 

Forse la vera risposta degli organi di rappresentanza degli psicoterapeuti ai limiti di questa esperienza sarebbe quella di introdurre in essa pratiche formalizzate più rigorose e più intense di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione e supervisione. Chiedere una distinzione più netta tra informazione, psico-educazione, auto-aiuto da un lato e psicoterapia a bassa o maggiore intensità dall’altro è giusto e legittimo ma limitarsi a fare solo questo non si qualificherebbe come un segnale di comprensione del significato dell’iniziativa e come un contributo al suo miglioramento.

Master semestrale: tecniche di regolazione delle emozioni – I Edizione Online, Settembre 2022

Tra settembre 2022 e marzo 2023 si terrà online la prima edizione del master in tecniche di regolazione delle emozioni

Perché un master sulla regolazione delle emozioni

Se pensiamo al nostro vissuto quotidiano, ai nostri ricordi e ai motivi per cui una persona solitamente accede ad uno studio di psicoterapia, possiamo riconoscere come il tema della comprensione e regolazione delle emozioni difficili sia tanto trasversale quanto cruciale. Per quanto accadano eventi, incontri e situazioni diverse, sono le emozioni che sembrano causarci spesso le difficoltà che incontriamo nella nostra vita. O meglio, il nostro modo di relazionarci ad esse, di negarle, ingigantirle o contrastarle è la costante di quel che definiamo sofferenza psicologica.

Molti studi evidenziano da un lato come il disagio emotivo sia forse il problema presentato più ricorrente nelle parole dei pazienti. E dall’altro lato, che i così definiti i disturbi emotivi (es. ansia, depressione, etc.) rappresentano di gran lunga la macro-categoria diagnostica più ricorrente negli studi di psicoterapia. Ciononostante, è assai difficile definire in maniera chiara cosa siano le emozioni!

A prescindere dall’approccio o dal setting terapeutico, chiunque lavori nella salute mentale non può non includere nel proprio bagaglio professionale le teorie e le tecniche finalizzate alla regolazione delle emozioni. Purtroppo, data la vastità e trasversalità del tema i terapeuti si scontrano spesso con due alternative poco percorribili per la propria crescita: ridurre al minimo le strategie di regolazione note o imbarcarsi in infiniti training e certificazioni. Nasce da qui la decisione di creare un percorso formativo articolato e integrato, in grado di raccogliere le basi dei più recenti sviluppi sulle teorie e le tecniche finalizzate alla regolazione delle emozioni.

Tages Onlus, Centri Clinici Tages e Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC/SPC hanno quindi deciso di sviluppare un curriculum che fosse primariamente utile al nostro lavoro quotidiano, nella convinzione che una formazione direttamente orientata alla pratica sarebbe poi stata di interesse anche per altri colleghi. È nato così il primo master italiano online sulla regolazione delle emozioni, a cui prendono parte clinici e docenti esperti, nazionali e internazionali, accomunati dal desiderio di aiutare i propri pazienti a sviluppare strategie sostenibili ed efficaci nel confrontarsi con le proprie emozioni.

Piano didattico e docenti

L’obiettivo del master è quello di formare chi quotidianamente si occupa di salute mentale alla comprensione e regolazione delle emozioni difficili dei propri pazienti in contesti sia pubblici che privati. Al termine del corso i partecipanti avranno acquisito le competenze teoriche e pratiche necessarie per comprendere il funzionamento emotivo del paziente e per attuare l’intervento psicoterapeutico ritenuto più efficace per la problematica presentata.

I docenti guideranno gli iscritti nella formulazione del caso, nella comprensione delle tecniche e dei protocolli evidence-based e nella complessa ed articolata elaborazione di un piano terapeutico. Particolare attenzione verrà dedicata alla declinazione operativa dei modelli presentati nella pratica clinica, tramite strumenti teorici basati sui più recenti approcci terapeutici e tecniche esperienziali, immaginative e corporee fondamentali nella regolazione delle emozioni difficili. Particolare attenzione è dedicata alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda (DBT, RO DBT, EMDR, Sensorimotor, CFT, MBCT, TMI, ST, MSC, etc.) che hanno grandemente contribuito al moderno approccio alla regolazione emotiva. La modalità didattica è fortemente interattiva e prevede numerose esercitazioni pratiche, role-playing e discussioni su casi clinici per favorire l’interazione tra docenti e partecipanti.

Il master ha una durata semestrale e si svolgerà tra settembre 2022 e marzo 2023 per un totale di 12 giornate di lezione suddivise in 4 moduli. Durante le 48 ore di formazione si alterneranno alcuni tra i massimi esperti internazionali di psicoterapia rivolta alla sofferenza emotiva: Tobyn Bell, Antonella Centonze, Simone Cheli, Todd Farchione, Robert Hindman, Chris Irons, Cecilia La Rosa, Thomas Lynch, Renato Mazzonetto, Matthe Pugh, Ilaria Riccardi, Zindel Segal.

Al termine del corso i partecipanti riceveranno l’attestato del corso “Master in Tecniche di Regolazione delle Emozioni”.  Compatibilmente con la verifica della frequenza effettiva ad esse, verrà rilasciato un ulteriore attestato di partecipazione alle lezioni tenute dal Prof. Todd Farchione sul Protocollo Unificato per i disturbi emotivi (certificazione ufficiale UP Institute per il Training Introduttivo).

 

Per maggiori informazioni sul corso, i docenti e le modalità didattiche >> CLICCA QUI 

 

La relazione medico-paziente nel setting medico

Il paziente segue più facilmente il percorso terapeutico nella misura in cui è soddisfatto delle spiegazioni ricevute e ha compreso fino in fondo in maniera inequivocabile quanto gli è stato detto dal medico, la relazione medico-paziente ha quindi un ruolo fondamentale.

 

Abstract

Esistono differenti fenomenologie di pazienti nel contesto medico, che richiedono degli approcci relazionali diversificati. Fra di essi si possono citare il paziente oppositivo, il manipolativo, il richiedente, l’irascibile, il piacevole e quello che “sa tutto”. L’adesione del paziente al trattamento terapeutico proposto dipende da più fattori, rapportabili alle caratteristiche di personalità del paziente, a quelle del medico e agli aspetti comunicazionali che si strutturano nel rapporto fra chi cura e chi è curato.

Keywords: pazienti, medici, aderenza terapeutica.

Le differenti fenomenologie dei pazienti

La gamma dei pazienti che si interfacciano con i contesti di cura è polimorfa. Infatti, in accordo con Ripamonti (2015), possiamo avere differenti tipologie di pazienti nel setting medico, come ad esempio:

  • il paziente oppositivo;
  • il paziente manipolativo;
  • il paziente richiedente;
  • il paziente irascibile;
  • il paziente piacevole;
  • il paziente che “sa tutto”.

Spesso il confrontarsi con le differenti tipologie di pazienti, che presentano caratteristiche relazionali diversificate, può elicitare nel medico delle condizioni di disagio. Infatti,

le difficoltà relazionali che derivano dall’interazione con determinate tipologie di pazienti possono non solo interferire con il processo terapeutico, ma anche aumentare i livelli di distress del medico […]. La consapevolezza che atteggiamenti e comportamenti disfunzionali del paziente non dipendano necessariamente dall’interlocutore può aiutare il medico […] a vivere con maggiore distacco emotivo eventuali attacchi, critiche, richieste eccessive o espressioni rivendicative (Ibidem, pp. 193).

Relativamente alle categorie dei pazienti sopra elencati, si possono fare alcune riflessioni e delineare delle strategie con cui relazionarsi con loro.

Il paziente oppositivo è un soggetto che presenta una scarsa aderenza al piano terapeutico proposto, frequentemente ingaggia delle sfide con il personale sanitario, svalutando quello che viene da loro detto. Il modo migliore per affrontare questo tipo di paziente è quello di non raccogliere le sfide e di avere un atteggiamento di accoglienza, con la finalità di capire quali sono le vere ragioni alla base dell’opposizione.

Il paziente manipolativo è quello che cerca di suscitare nel medico sentimenti positivi per essere accontentato nelle sue richieste: infatti, ha la necessità che i suoi bisogni e i suoi desideri siano soddisfatti e per ottenere questo non disdegna anche l’utilizzo di condotte seduttive. In questa circostanza il sanitario non deve lasciarsi coinvolgere in questo gioco seduttivo, ribadendo le ragioni alla base delle sue decisioni se queste non sono sintoniche con le richieste avanzate dal paziente.

Il paziente richiedente cerca costanti attenzioni e insiste perché il medico effettui tutta una serie di azioni e di procedure che possono non essere necessarie (Ibidem, pp. 195).

In questa circostanza il sanitario deve spiegare al paziente quello che può essere di pertinenza del personale sanitario e quello che invece esula per una serie di ragioni (etiche, pratiche o di altra natura) dalla competenza medica.

Il paziente irascibile è quello che tende ad essere aggressivo nei confronti del sanitario, in quanto è la modalità relazionale che utilizza prevalentemente quando si interfaccia con l’alterità. Alla base di questo atteggiamento ci sono spesso delle frustrazioni che il paziente vive nella propria quotidianità, che sottendono un disagio emotivo. In questa circostanza è bene che il sanitario faccia emergere questa emotività di fondo.

Il paziente piacevole è rappresentato dal soggetto che si mostra estremamente educato, segue alla lettera tutte le prescrizioni, tende ad esaltare la competenza del medico a cui si rivolge, si fida ciecamente del suo operato. In questa evenienza l’operatore sanitario dovrebbe porre attenzione ad evitare forme eccessive e poco realistiche di ottimismo, dettate dal non voler deludere il paziente.

Il paziente che “sa tutto” è quello che dimostra di avere una competenza in ambito sanitario derivata prevalentemente dalla lettura di riviste mediche o dalla navigazione in rete. Frequentemente egli porta al medico copia degli articoli che ha letto per renderlo edotto su alcune tematiche. A questo paziente va spiegato con cortesia e fermezza che la professionalità medica non si acquisisce con la lettura di articoli o consultando siti Internet specifici e che egli non ha il necessario distacco emotivo per occuparsi della sua patologia, in quanto è coinvolto emotivamente da essa.

L’adesione del paziente al trattamento terapeutico

Nel momento in cui propone ad un paziente un trattamento terapeutico, il medico non sa se l’utente aderirà alle indicazioni e alla cura proposti (Salovey, Rothman e Rodin, 1997). Questo dipende da numerosi fattori, alcuni imputabili alle caratteristiche personali del paziente, altri alle peculiarità del medico e altri rapportabili agli aspetti relazionali che sono elicitati dal rapporto fra due alterità (medico e paziente) che si confrontano.

Relativamente alle peculiarità personali del paziente, quelle che fanno la differenza sono le credenze che il paziente ha riguardo alla propria malattia, ovvero se la considera grave e fonte di uno scadimento della qualità della vita, e al percorso di cura, ossia se lo ritiene idoneo per la propria guarigione (Zani e Cicognani, 2000). Difatti, laddove il soggetto propende per la gravità della propria patologia e ha la convinzione che il percorso di cura proposto sia quello giusto, egli aderirà completamente al piano terapeutico. A questo proposito, diverse ricerche svolte (Ibidem) sottolineano che solo il 30% dei pazienti segue correttamente il percorso di cura, il 50% lo adotta in parte e una percentuale che oscilla fra il 20 e il 50% non lo segue.

Riguardo alle caratteristiche personali del medico, i pazienti rispondono meglio ad un farmaco nella misura in cui il medico che lo prescrive si dimostra ottimista, ha un atteggiamento terapeutico piuttosto che sperimentale, ovvero utilizza l’espressione “ti prescrivo questo farmaco efficace” piuttosto che dire “proviamo questo farmaco e vediamo che effetto ha”, e si mostra gioviale nei confronti del paziente (Amendolagine, 2021).

In rapporto agli aspetti relazionali che si instaurano fra medico e paziente, si possono fare alcune considerazioni. Differenti ricerche hanno messo in evidenza che l’adesione del paziente al trattamento proposto dipende da alcune variabili che sono elicitate dalla comunicazione che si instaura fra medico e paziente. In sostanza, il soggetto segue più facilmente il percorso terapeutico nella misura in cui è soddisfatto delle spiegazioni ricevute e ha compreso fino in fondo in maniera inequivocabile quanto gli è stato detto (Zani, Selleri e David, 1994). Per quanto riguarda la soddisfazione mostrata dal paziente, sono stati proposti due modelli esplicativi, ossia un modello affettivo e un modello cognitivo (Zani e Cicognani, op. cit.).

Secondo il modello affettivo, la soddisfazione del paziente origina dai comportamenti affettivi mostrati dal medico, ovvero

il suo essere amichevole piuttosto che distaccato e manageriale, mostrare di capire i timori (del paziente) […], essere dotato di abilità comunicative positive (Ibidem, pp. 144).

Secondo il modello cognitivo, la soddisfazione dell’utente è in funzione dell’efficacia razionale della comunicazione ricevuta, ossia l’input comunicazionale ricevuto deve essere inteso totalmente, espresso in parole semplici, che possono essere ricordate con facilità (Ley, 1989).

In aggiunta, la relazione che si instaura fra curato e curante ha anche una finalità psicopedagogica, che deve essere soddisfatta. In altre parole, tale relazionalità si pone come obiettivo l’insegnare al paziente a prendersi cura di sé e, soprattutto, a ricercare dentro di sé le risposte alle sue domande. Affinché questo avvenga, il medico, o in generale chi si occupa della cura del paziente, deve avere alcune caratteristiche, quali:

  • sviluppare uno stile relazionale improntato alla positività e all’ottimismo;
  • avere l’abilità di mettersi nei panni di chi ha di fronte e considerarlo nella sua globalità, ovvero come una persona da accettare senza remore o preconcetti (Amendolagine, op. cit.).

A tal riguardo, giova da parte del medico una forma di riflessione su di sé, che, in accordo con Ripamonti (op. cit.), deve rispondere ad alcune domande, quali:

Mi arrabbio facilmente, sono irritabile, mi metto sulle difensive?
Sono emotivo, mi rattristo facilmente, ho paura di certe situazioni?
Sono troppo brusco e impaziente?
Quanta compassione ed empatia ho per persone che mi sono totalmente estranee?
Qual è il mio livello di flessibilità?
Sono amichevole oppure asociale?
Posso sembrare calmo anche quando in realtà sono ansioso?
Ho il senso dell’umorismo e so come utilizzarlo in modo appropriato?
Devo sempre avere il controllo della situazione?
Sono capace di accettare le critiche?
Ho dei pregiudizi che possono influenzare la mia oggettività?.

In conclusione, esistono differenti fenomenologie di pazienti, che richiedono degli approcci relazionali diversificati. Fra di essi, si possono citare il paziente oppositivo, il manipolativo, il richiedente, l’irascibile, il piacevole e quello che “sa tutto”. L’adesione del paziente al trattamento terapeutico proposto dipende da più fattori, rapportabili alle caratteristiche di personalità del paziente, a quelle del medico e agli aspetti comunicazionali che si strutturano nel rapporto fra chi cura e chi è curato.

 

Il piacere digitale (2020) di Michele Spaccarotella – Recensione del libro

Nell’era digitale, in una società di iper-connessi, l’autore di Il piacere digitale mette a disposizione degli addetti ai lavori e non, un’ampia panoramica circa l’universo del virtuale, le dinamiche psicologiche, le tentazioni, i rischi e i pericoli, analizzati con attenzione e professionalità.

 

Tocchiamo più volte lo schermo del cellulare che il corpo della persona amata. Lo schermo si è sostituito alla pelle.

Questa è una delle frasi del libro Il Piacere digitale che più mi ha colpito, che rimanda ad una realtà tristemente e fortemente vera e che in modo più o meno intenso coinvolge tutti, professionisti e non, giovani e meno giovani.

Il Piacere digitale, un testo ricco di contenuti espressi in modo accessibile a tutti, è scritto da Michele Spaccarotella, psicologo e psicoterapeuta, responsabile della didattica e di scienze del corso biennale in Psicosessuologia presso l’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica (IISS) di Roma, cultore della materia presso la Cattedra Parafilie e Devianza dell’Università degli Studi dell’Aquila, impegnato in attività di ricerca, formazione e divulgazione nell’ambito della psicologia e sessuologia.

Nell’era digitale, in una società di iper-connessi, il lavoro di Michele Spaccarotella mette a disposizione degli addetti ai lavori e non, un’ampia panoramica circa l’universo del virtuale, le dinamiche psicologiche, le tentazioni, i rischi e i pericoli, analizzati con attenzione e professionalità.

Da un punto di vista psicologico verranno infatti approfondite dinamiche psicologiche sia individuali che relazionali dell’homo digitans, come cambia la dimensione del piacere, del corpo, mode e tendenze di massa, la smania dei selfie e condivisione del proprio mondo, dove proprio il condividere ed il postare diventa più importante del vivere nel reale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI

Imm.1 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Imm.2 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Imm.3 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Ma la realtà virtuale rimane sempre una grande tentazione che riesce ad affascinare tutti, giovani ed adulti, single e coppie e all’interno del testo l’autore approfondirà riflessioni, dati e studi su ciò che sempre di più si verifica in rete e le relative dinamiche psicologiche in gioco. Il mondo digitale, dove è possibile tutto, è un mondo affascinante ma anche pericoloso, un mondo interessante ed importante da conoscere ed il libro diventa un validissimo strumento in tal senso.

Tanti i termini attinenti a questo mondo di iper connessi, ampiamente spiegati dall’autore, ma vediamone alcuni: sexting (crasi dei termini inglesi sex e texting, consistente nella pratica di inviare messaggi di testo o immagini a sfondo sessuale), revenge porn (riferita ad una forma di vendetta che uno dei due partner agisce alla fine di una relazione, diffondendo delle foto intime dell’ex senza il consenso della persona), grooming (adescamento di un minore online), ghosting (dinamica in cui dopo una frequentazione senza apparente motivo, uno dei due partner scompare ed interrompe ogni forma di comunicazione), smombie (neologismo che descrive questo comportamento antisociale consistente nel tenere lo sguardo fisso sul telefono quando si è in giro, ignorando tutto ciò che ci circonda), vamping (la pratica, più diffusa tra giovani ed adolescenti, di stare svegli fino a tarda notte per navigare su internet e svolgere attività sui social), flaming (l’offesa magari anche volgare, rivolta a qualcuno fatta sui social pubblici) e tanti altri.

Ed ancora app a disposizione per tutti e pronte a soddisfare ogni forma di desiderio e/o bisogno, il ruolo ed i cambiamenti intercorsi nell’ambito della pornografia, dinamiche di dipendenza o compulsive agite in tali mondi virtuali che possono sfociare in patologie, ripercussioni sulle relazioni amicali e sentimentali dovute alla presenza/assenza di questo terzo incomodo (virtuale/reale).

Un mondo dunque veramente ampio e complesso, che l’autore direi essere riuscito in pieno a farci conoscere e scoprire scorrendo le varie pagine del suo libro, un mondo che come sottolinea Michele Spaccarotella, non è da considerare a monte come buono o cattivo, ma che di certo l’educazione e la conoscenza dello stesso può aiutare ad un uso più consapevole.

Un testo dunque consigliatissimo quanto agli addetti ai lavori che all’ampio pubblico.

 

Il ruolo del senso di colpa e della vergogna nelle abbuffate

Uno studio di Bottera e colleghi del 2020, ha tentato di distinguere la vergogna e il senso di colpa in relazione alle abbuffate e al vomito auto-indotto.

 

Il rapporto tra abbuffate e affettività negativa

I disturbi alimentari spesso hanno come fattore di rischio transdiagnostico l’affettività negativa (negative affect; NA), tanto che diversi studi hanno dimostrato un rapido aumento di affettività negativa nelle ore precedenti e successive alle abbuffate (Berg et al., 2015). Heatherton & Baumeister, nel 1991 hanno proposto la teoria della fuga che può fornire una possibile spiegazione all’associazione tra abbuffate e affettività negativa. Tale teoria afferma che le emozioni negative che implicano un’autovalutazione come la colpa e la vergogna, in modo molto più efficace rispetto alle emozioni negative non auto-valutative (e.g. tristezza) possono “essere fuggite” mettendo in atto dei comportamenti che facilitano un restringimento cognitivo. Le abbuffate possono quindi momentaneamente alleviare emozioni come il senso di colpa e la vergogna attraverso il restringimento cognitivo. Il senso di colpa è risultato infatti essere maggiore rispetto ad altre emozioni come ostilità, paura e tristezza nelle ore precedenti e successive a un episodio di abbuffata e potrebbe quindi essere un aspetto dell’affettività negativa particolarmente rilevante per il verificarsi di quest’ultima (Berg et al., 2013). In particolare sembra che il senso di colpa sia diminuito maggiormente e più velocemente negli individui con bulimia nervosa che non si sono impegnati nel vomito auto-indotto rispetto a quelli con anoressia nervosa.

Senso di colpa e vergogna: quale differenza?

È importante però distinguere la vergogna dal senso di colpa: sebbene si assomiglino apparentemente, la vergogna e il senso di colpa possono essere associate in modo diverso ai comportamenti di un disturbo alimentare, poiché hanno importanti differenze concettuali che implicano conseguenze diverse. La vergogna è concettualizzata come il sentirsi male con sé stessi in seguito ad una trasgressione (e.g.: sono una brutta persona); inoltre è indice di un problema all’interno del sé che provoca conseguenti giudizi all’identità più che alle circostanze (Tangney & Dearing, 2002). Il senso di colpa implica invece il sentirsi male per un comportamento e un’autovalutazione negativa in seguito a qualche fattore esterno; può essere quindi visto come un’esperienza emotiva adattiva che promuove l’impegno in situazioni sociali attraverso azioni correttive (Lewis, 1971). La vergogna invece non provoca nessuna azione riparativa, può essere un’esperienza emotiva che si tenta di evitare tramite comportamenti di un disturbo alimentare.

Gli studi che si sono occupati di studiare le oscillazioni del senso di colpa, tuttavia, hanno utilizzato la subscala del Positive and Negative Affect Schedule (PANAS-X; Watson & Clark, 1999) che non permette di distinguere la colpa dalla vergogna; alcuni risultati della letteratura affermano però che i pazienti con disturbi del comportamento alimentare (DCA) mostrano una maggiore vergogna rispetto al senso di colpa (Oluyori, 2013). È possibile dunque che la vergogna sia un’altra componente importante della affettività negativa.

La relazione tra disturbi alimentari, vergogna e colpa

Sebbene molti studi abbiano studiato le relazioni tra la psicopatologia alimentare e gli stati affettivi, nessuno tra questi si è mai occupato di confrontare gli effetti della colpa e della vergogna sui comportamenti messi in atto dai pazienti con disturbi alimentari. Uno studio di Sanftner e colleghi del 1995, per esempio, ha sottolineato che la vergogna è più facilmente associata ad alcuni sintomi specifici tra i quali il desiderio di magrezza, il vomito auto-indotto e le abbuffate mentre il senso di colpa era negativamente associato ai comportamenti di un disturbo alimentare. La teoria della fuga suggerisce infatti che le abbuffate sono particolarmente efficaci per allontanare i sentimenti di vergogna; i comportamenti che seguono le abbuffate come il vomito auto-indotto, al contrario, possono essere interpretati come azioni riparative per tentare di annullare gli effetti di queste. È possibile quindi che il senso di colpa conseguente a un’abbuffata possa predire il vomito.

Abbuffate, vergogna e senso di colpa

Uno studio di Bottera e colleghi del 2020, ha tentato di distinguere la vergogna e il senso di colpa in relazione alle abbuffate e al vomito auto-indotto. Le ipotesi formulate dagli autori erano quindi che la tendenza a provare vergogna e la vergogna di stato fossero associate alle abbuffate in quanto queste ultime possono essere utilizzate per sfuggire alle esperienze stesse di vergogna; e che la tendenza a sentirsi in colpa e il senso di colpa di stato fossero positivamente associati al vomito negli gli individui che si abbuffano, in quanto può essere utilizzato come azione riparativa per le abbuffate. 347 partecipanti hanno completato le sottoscale di vergogna e colpevolezza del Test of Self-Conscious Affect (TOSCA-3; Tangney et al., 2000); la State Shame and Guilt Scale (SSGS; Marschall et al., 1994) per valutare la vergogna e il senso di colpa; la Eating Disorder Diagnostic Scale (EDDS; Stice et al., 2000) che valuta gli atteggiamenti e i comportamenti relativi al Disturbo Alimentare; infine le scale analogiche visive (VAS) utilizzate per valutare gli stati soggettivi (Wewers & Lowe, 1990) sono state create per valutare alcune variabili momentanee tra cui la fame, la voglia di abbuffarsi e la voglia di vomitare.

I risultati mostrano che la vergogna è associata soltanto alle abbuffate e all’impulso di abbuffarsi mentre il senso di colpa non risulta esserne significativamente legato. Inoltre, al contrario di quanto ipotizzato, il senso di colpa non è risultato associato al vomito auto-indotto tra coloro che si abbuffano. Tali risultati mostrano quindi che la vergogna e il senso di colpa hanno un ruolo differente nei sintomi di un disturbo alimentare: solo la vergogna sembra suscitare sempre il desiderio di abbuffarsi. 

 

ABC della sessualità: per costruire un’alleanza terapeutica – Podcast Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘ABC della sessualità: per costruire un’alleanza terapeutica migliore’.

 

È disponibile sulle principali piattaforme Terapeuti al Lavoro, il podcast realizzato da State of Mind dedicato ai professionisti della salute mentale, che raccoglie i più interessanti webinar di formazione su vari temi della psicoterapia e della psicologia clinica

Nell’episodio che pubblichiamo oggi per i nostri lettori parliamo di sessualità. Nell’episodio sono fornite le nozioni di base che riguardano la sessualità: sesso assegnato alla nascita, identità di genere, ruolo ed espressione di genere e l’orientamento affettivo e sessuale. Per comprendere maggiormente questi aspetti della sessualità verrà utilizzato il Genderbread Person nella versione italiana tradotta dal gruppo fluIDsex di Sigmund Freud University.

Sono illustrate, quindi, tutte le terminologie che vengono utilizzate per descrivere l’identità sessuale: gender fluid, non-binary, gender nonconforming, fluidità sessuale, poliamore e molto altro. Lo scopo di questo webinar è di condividere una terminologia comune per poter capire il mondo attorno a noi e la sua veloce evoluzione.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologa, Educatrice Pedagogica, Collaboratrice presso il Centro Età Evolutiva delle Cliniche Italiane di Psicoterapia e Docente presso Sigmund Freud University Milan e dal Dott. Luca Daminato, Dottore in Psicologia, Dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan

 

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Il Colloquio Rideterminativo: modello di intervento psicoterapeutico

Il Colloquio Rideterminativo conduce il paziente, attraverso una serie di domande mirate alla scoperta delle sue regole e dei suoi schemi interpretativi e valutativi, a un graduale sviluppo della consapevolezza sui diversi livelli rappresentazionali.

 

I processi taciti

Negli ultimi anni le terapie orientate cognitivamente hanno affinato i loro modi di affrontare gli aspetti centrali della conoscenza personale cercando di inglobare nel loro campo di indagine quelli meno accessibili, ampliando la prospettiva idiografica orientata al significato ed operando un marcato spostamento dall’analisi dei fatti oggettivi a quella dei significati soggettivi.

Questo spostamento si è gradualmente determinato sviluppando le impostazioni teoriche già presenti nella seconda rivoluzione cognitiva, si pensi alla Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly, al concetto di pensiero sovraordinato nei problemi Secondari di Ellis, sino alla più marcata accentuazione posta da Guidano con le Organizzazioni di Significato Personale.

Tali conclusioni hanno evidentemente modificato sostanzialmente l’idea che avevamo sul funzionamento dell’individuo, proponendo approfondimenti teorici che hanno avuto una chiara ricaduta nell’ambito procedurale di chi si occupa di psicoterapia, consentendo nel contempo di recuperare ed integrare coerentemente rilevanti intuizioni che non avevano avuto la giusta attenzione per ragioni di “coerenza interna” delle teorie di riferimento precedentemente accettate.

Tra i vari temi proposti quello sicuramente più rilevante risulta essere l’accettazione dei processi taciti come elementi fondamentali nella costruzione della conoscenza individuale.

Se all’interno di un quadro di riferimento evolutivo si assume una prospettiva motoria della mente, gli aspetti taciti (ordine sensoriale preverbale), ed espliciti (pensiero verbale cosciente), della conoscenza appaiono come l’espressione di due livelli di processi cognitivi reciprocamente interconnessi, sebbene differenti (Guidano, 1987).

I dati che provengono dalle neuroscienze hanno confermato questa ipotesi definendo i processi di elaborazione tacita come schemi emozionali connessi alle corrispondenti regole per gestirli.

Queste regole altro non sono che procedure automatiche le quali, basandosi su processi associativi di natura iconica, interpretano e valutano le esperienze confrontandole con situazioni precedenti che contengano elementi simili e utili ad una qualche comprensione dell’evento vissuto.

Tale comparazione risulta più efficace se avviene sulla base di una regola combinatoria, che appare più potente in termini di quantità di informazioni se si avvale di una rappresentazione per immagini e, inoltre, questo codice (analogico) svolge egregiamente il suo lavoro anche in assenza del codice simbolico del linguaggio che da un punto di vista evolutivo appare solo successivamente.

Le scene nucleari forniscono così i tratti fondamentali che consentono di ordinare il flusso delle esperienze fornendo una matrice interpretativa stabile, sebbene pre-cosciente, che permetterà gradualmente di costruire le prime rappresentazioni di sé e del mondo. Come sostiene Damasio:

Di fatto si potrebbe sostenere che il contenuto coerente della narrazione verbale della coscienza – indipendentemente dalle bizzarrie della sua forma – permette di dedurre la presenza dell’altrettanto coerente narrazione non verbale per immagini che io propongo come fondamento della coscienza (Damasio, 2000).

Ora, se la psicoterapia cognitiva si è da sempre caratterizzata sulla base di una prospettiva centrale che definisce i comportamenti del soggetto come conseguenti al significato soggettivo che egli attribuisce agli eventi, interni od esterni che siano, o in termini più costruttivisti, come l’individuo elabora la realtà che lo circonda utilizzando gli schemi conoscitivi a sua disposizione, appare evidente che debba coerentemente integrare in questa prospettiva gli elementi di elaborazione tacita utilizzati dal soggetto.

Il rendere esplicite queste conoscenze e convinzioni consente all’individuo di poterle rielaborare acquisendone i significati sottesi e di poterle riscrivere in termini più funzionali al proprio stile di vita.

Dopo che ne avrà modificato le eventuali distorsioni cognitive l’individuo le potrà inserire, coerentemente, nella rappresentazione del Sé. (Cicinelli 2003)

Questi nuovi significati potranno quindi indurre dei processi di riorganizzazione, offrendo in tal modo spunti di riflessione ed approfondimento secondo le capacità del paziente, capacità che saranno modificate ed incrementate dall’instaurarsi del processo di rideterminazione attuato.

Il problema principale che si pone quindi risulta essere connotato da difficoltà procedurali piuttosto che teoriche, di come cioè accedere a questo materiale e come utilizzarlo per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

Ellis, alla fine degli anni quaranta, di fatto sviluppò la terapia cognitiva spostando l’attenzione dello psicoterapeuta dai processi inconsci a quelli coscienti e formalizzando il Colloquio Psicoterapeutico Cognitivo presentando il Modello ABC.

Tale modello si struttura come una indagine lineare che ha lo scopo di rappresentare il rapporto esistente tra gli A, definiti come gli avvenimenti, gli antecedenti, che fungono da stimolo per il soggetto; i B, le credenze, i ragionamenti e comunque tutte le attività mentali riconducibili agli antecedenti ed i C intesi come conseguenze di natura emotiva e comportamentale.

Lo schema così proposto risulta apparentemente semplice e lascia supporre che anche la sua applicazione pratica nel trattamento risulti abbastanza agevole.

In realtà le cose non stanno esattamente così, l’indagine sui B impone la distinzione delle attività e dei processi cognitivi operanti, e la presa in esame delle varie e complesse attività psichiche come le valutazioni, le inferenze, i giudizi, le descrizioni, le anticipazioni, gli schemi di riferimento personali.

Un modello -del funzionamento umano- più esplicativo da un punto di vista teorico è quello proposto da Cesare De Silvestri elaborato sulla base del modello ABC e del Modello lineare a 8 punti di Richard Wessler (Wessler 1980) e riportato in Figura 1.

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 1

Schematizzando al massimo un singolo episodio di funzionamento, individuiamo al punto 1: il contesto, la massa degli stimoli provenienti dall’ambiente, uno di tali eventi viene in genere attivamente scelto dall’attenzione selettiva, punto 2: l’individuo sulla base delle aspettative di quel momento dipendenti dal suo attuale sistema di convinzioni, valori e regole. Questo stimolo, attivamente selezionato tra i tanti, viene percepito, descritto e definito al punto 3: simbolizzazione – dove viene rappresentato in termini analogici, iconici e/o linguistici e, successivamente, al punto 4: inferenze, interpretazioni – l’individuo gli attribuisce un senso ed un significato a fini previsionali operando una serie di interpretazioni e inferenze che lo portano ad emettere una specie di valutazione globale al punto 5: dove esprime in termini idiografici di giudizio e/o apprezzamento per la specifica importanza dell’evento considerato alla luce della sua concezione di benessere ed è qui che, secondo De Silvestri avverrebbe il più importante processo cognitivo della sequenza. Si realizza cioè il passaggio dai precedenti processi cognitivi relativamente “freddi” di definizione ed interpretazione della percezione dell’evento, a quelle che vengono chiamate “cognizioni calde”, marcate dall’assegnazione di valore intrinsecamente legata al significato attribuito all’evento in ragione di una complessa elaborazione, che ne definisce l’importanza  nel rapporto dei propri schemi personali di vita e di benessere.

Tale passaggio si accompagna ed induce una variazione più o meno marcata dello stato di attivazione del suo sistema nervoso autonomo, punto 6, che si manifesta attraverso risposte emozionali che provocano in genere una risposta neuromuscolare al punto 7, dove si attuata mediante un’azione o un  comportamento.

La variazione si esprime nell’ambiente in cui si trova l’individuo e può provocare quindi reazioni e risposte: punto 8, che chiudono il feedback relazionale individuo/ambiente e che a loro volta possono  determinare cambiamenti nel contesto: punto 1, che possono ulteriormente venir focalizzate dall’attenzione selettiva, punto 2, ed elaborate in un nuovo episodio di funzionamento.

Tale modello delinea più chiaramente le molteplici interazioni esistenti tra le varie funzioni cognitive, evidenziando la complessità delle variabili in causa nella elaborazione di un evento e proponendo implicitamente livelli di elaborazione non consapevoli.

Inoltre tale rappresentazione ci costringe ad abbandonare un livello di lettura lineare suggerendo come  tutte le attività cognitive siano in grado di influenzare più o meno direttamente le altre in una interconnessione a raggiera abilmente illustrata visivamente nel modello.

Modello che deve allora essere integrato con la presenza strutturale dell’elaborazione tacita, inserendo un elemento rappresentativo degli schemi personali di base che definisca teoricamente le ipotesi proposte.

Ecco quindi come si presenta il modello rivisitato (Figura 2):

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 2

Una particolare attenzione deve allora essere posta sul nucleo centrale dove abbiamo indicato la presenza degli schemi personali. Questi a loro volta possono essere individuati secondo i vari livelli di consapevolezza ed indicativamente suddivisi come in  Figura 3:

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 3

Inizialmente troviamo I Pensieri Automatici: sono le cognizioni più vicine alla consapevolezza, sono rappresentate da parole o da piccole frasi che attuano una prima lettura dell’evento. E’ questo il livello a cui fa riferimento Beck con la sua Analisi Cognitiva, interessata ai livelli inferenziali e alle varie distorsioni cognitive.

Esse sono regole che sono state elaborate consapevolmente, accettate come procedure vere e utili e che nel tempo, in ragione del principio del risparmio psichico, sono successivamente state automatizzate.

Sono anche quelle più facilmente confutabili ai fini di una rivisitazione o di un cambiamento in quanto in genere non attivano direttamente strutture cognitive più importanti.

Nel mezzo abbiamo le Convinzioni Intermedie: regole, opinioni, credenze che predicano comunque su noi stessi, gli altri e le relazioni con l’ambiente. Ci permettono di organizzare la nostra esperienza, prendere decisioni. Sono presenti sia in forma tacita che esplicita, risultano necessariamente molto stabili, ma sono soggette a possibili cambiamenti in ragione di particolari esperienze. Possono essere esprimibili verbalmente sebbene in forma telegrafica, mantenendo gran parte dei significati a livello sincretico.

Sono rigide e assolute, non tendono ad interpretare la realtà ma la rappresentano e la definiscono; potremmo dire che esse sono la realtà, così come è percepibile dagli occhi del soggetto. Possiamo collocare in questo stadio le Idee Disfunzionali di Ellis.

In ultimo troviamo i core beliefs: le convinzioni di base; convinzioni così profonde che le persone non le esprimono neanche a se stesse. Sono considerate più che verità assolute e indiscutibili in quanto identificano e definiscono sé stessi (schema di sé), gli altri (schema degli altri) e le relazioni con gli altri (schema interpersonale). Esse rappresentano i massimi livelli di organizzazione dell’individuo, quello che la persona “sente” potentemente dentro di sé come una tendenza a “fare”. Essendo costituite da schemi interpretativi di base sono essenzialmente stabili, rigide, analogiche. Il loro scopo è quello di strutturare i successivi livelli interpretativi. Non sono sempre verbalizzabili e quando è possibile renderle consapevoli vengono espresse con un linguaggio sincretico ove i significati sottesi restano preponderanti.

In termini clinici tali cognizioni risultano spesso inavvicinabili da un’analisi consapevole, tanto da dover imporre una completa “rideterminazione” dei sentiti emozionali, che devono essere interpretati e definiti sulla base delle conoscenze e convinzioni della persona, per facilitare la costruzione di una nuova narrativa di Sé, più articolata e funzionale.

La complessità del modello deriva dal fatto che i livelli taciti si strutturano gerarchicamente sia all’interno di uno stesso schema, definendo livelli di interpretazioni sovraordinati, quelli che io chiamo la scala inferenziale, sia attuando una gerarchia tra schemi differenti definiti primario, secondario e terziario, secondo il loro livello di insorgenza.

E’ per questo che spesso l’indagine effettuata durante il colloquio pone in evidenza l’intrusione di idee e convinzioni che non sono oggettivamente attribuibili agli altri elementi cognitivi presenti nella rappresentazione fornita. Cambiano i soggetti, le attivazioni emozionali sono varie e apparentemente contrastanti tra di loro, l’asse temporale dove vengono collocati gli eventi oscilla tra il passato e il futuro ecc.

Ellis aveva intuito che queste idee “estranee” sono dei pensieri sovra ordinati, sono cioè delle valutazioni che il soggetto fa non sugli avvenimenti scatenanti, ma sulle proprie reazioni a quegli avvenimenti, definendo tali considerazioni degli schemi secondari, successivi cioè agli schemi ABC primari di iniziale insorgenza. Formulando l’ipotesi degli ABC Secondari, egli aveva anticipato di fatto la teoria della metacognizione evidenziando come gli esseri umani non solo possono procurarsi un problema interpretando erroneamente la realtà, ma successivamente, valutando la condizione determinatasi, possono crearsi un ulteriore problema, attribuendo una serie di significati personali ai nuovi eventi comportamentali e/o emotivi vissuti.

Secondo lo schema proposto, si comprende allora che questi diversi livelli di “interpretazioni” di fatto determinano una scala metacognitiva di interpretazioni/valutazioni che si innestano su altre interpretazioni/valutazioni, definendo una vera e propria costellazione di livelli interpretativi che possono teoricamente essere organizzati in uno schema generale dove le sequenze ABC possono essere rappresentate sia linearmente che in una struttura a matrice dove l’organizzazione semplice, caratterizzata da due soli livelli gerarchici, primario e secondario, deve lasciare il posto ad una più ampia gamma di collegamenti verticali, che possono in parte sovrapporsi ed intrecciarsi fra di loro determinando una costellazione di problemi molto complessa.

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 4

Il Colloquio Rideterminativo

Il Colloquio Rideterminativo riprende quindi, sviluppandone le potenzialità, lo schema concettuale basato sul modello ABC e, seguendo i principi dell’ars maieutica, si presenta come uno strumento fortemente direttivo con il quale il terapeuta, partendo dalle affermazioni del paziente, lo conduce mediante una serie di domande mirate alla scoperta delle sue regole e dei suoi schemi interpretativi e valutativi, consentendogli un graduale sviluppo della consapevolezza sui diversi livelli rappresentazionali.

Attraverso una continua operazione di dettaglio si impone al paziente una lettura sempre più definita dei suoi processi inferenziali risalendo mediante le implicazioni consapevoli ai livelli cognitivi più radicali, quelli appunto che definiscono e costituiscono le euristiche di base con le quali il soggetto ha costruito e strutturato il suo mondo, i suoi valori, la sua personalità.

In altri termini il Colloquio Rideterminativo si definisce come un processo mediante il quale la conoscenza implicita nella mente diviene gradualmente conoscenza esplicita per essere utilizzata dalla mente.

In questo percorso a ritroso si parte quindi dai processi disponibili in termini analitici che in genere sono delle inferenze per definire conseguentemente i livelli più o meno taciti indicati negli schemi personali del modello esposto per poter approcciare quelle convinzioni e regole che rappresentano le certezze indiscutibili, il credo inviolabile, lo schema concettuale prototipico sul quale il soggetto ha poi costruito tutti gli altri schemi interpretativi di sé e del mondo.

È importante sottolineare come il sistema rappresentazionale dell’individuo sia più complesso di una semplice dicotomia fra rappresentazioni tacite ed esplicite; è ipotizzabile invece l’esistenza di livelli intermedi fra l’informazione procedurale implicita radicalizzata negli schemi senso motori e la conoscenza dichiarativa consapevole.

Pertanto, per raggiungere i suoi obiettivi, il terapeuta deve muoversi dentro la massa di materiale prodotto seguendo e cercando quel filo di coerenza che lega le varie correlazioni basandosi nella sua analisi su quella consequenzialità predittiva che giustifica l’utilizzo dei processi taciti cercando una coerenza interna che è sempre presente anche negli schemi disfunzionali che determinano i disturbi psicopatologici più gravi.

Inoltre, man mano che si procederà nella definizione delle singole cognizioni, e ci si avvicinerà alla comprensione degli schemi strutturali, il paziente incontrerà sempre più difficoltà nella verbalizzazione dei suoi stessi pensieri, fino a raggiungere la possibilità di rimandare solo a sensazioni corporee, non altrimenti verbalizzabili e definibili se non tramite un vissuto emozionale.

Egli si confronterà infatti con quelle convinzioni indiscutibili che rappresentano gli schemi concettuali basilari con i quali ha costruito gli altri schemi interpretativi e per i quali non dispone di schemi sovraordinati che ne consentano l’esplicitazione.

Infatti ciò che distingue uno stato cosciente da uno non cosciente è la condizione di avere un pensiero di ordine superiore su di esso che lo definisca.

Sono proprio questi gli schemi ai quali il terapeuta mira, è per ottenere le verbalizzazioni di questo “sentito” interno che il terapeuta lavora con il paziente inducendolo a rappresentarsi secondo degli schemi concettuali comprensibili il disagio espresso esclusivamente tramite sensazioni fisiche.

È proprio questa forzatura che gli renderà possibile acquisire la consapevolezza della motivazione che ha posto alla base del suo agire nel mondo; è nel dirsi e nel dire, è nel sentire le parole che descrivono ciò che pensa e ciò in cui crede, è udendo i significati attribuiti da se stesso ai suoi vissuti che realizza una consapevolezza frutto del proprio sforzo personale, che dimostra al paziente che la causa ultima del suo disagio è posta nel suo stesso essere, e che è quindi accessibile e modificabile al fine di ottenere quel cambiamento strutturale che implica l’accettazione di schemi alternativi a quelli rivelatisi disfunzionali.

Si comprende quindi che il Colloquio Rideterminativo non si limita ad un primo livello di intervento, quello riferito all’Analisi Cognitiva di Beck, focalizzato soltanto sul livello inferenziale esplicito, ma coinvolge tutti i significati soggettivi del paziente riconducendo le schematizzazioni operate sulla conoscenza, la generalizzazione, l’eliminazione e la distorsione delle informazioni ad elementi intermedi fortemente  condizionati dagli schemi personali.

Esso permette di definire gradualmente i vari ambiti dei significati sottesi ampliando il livello di consapevolezza del paziente che è spinto a tradurre le regole tacite, quindi inespresse verbalmente in rappresentazioni analitiche che, rilevando i significati compressi sincreticamente, restituiscono consapevolezza al paziente rispetto alle reali e concrete motivazioni che sostengono il suo disagio.

Tale graduale passaggio dal sentito emozionale alle prime rozze rappresentazioni verrà rinforzato sistematicamente dall’utilizzo di descrizioni verbali sempre più definite e consapevoli, proponendo il dialogo metacognitivo non come un semplice colloquio clinico, ma piuttosto come un procedimento finalizzato ad una vera e propria costruzione di significati.

Il terapeuta ricerca attivamente lo schema nascosto nel disordine espositivo del paziente, disordine dettato dalla miscela di espressioni consapevoli frammiste a convinzioni tacite, processi inferenziali, razionalizzazioni dei propri vissuti e di tutta la zavorra cognitiva che grava sulle confuse procedure utilizzate.

Presumendo che il sintomo sia coerente con una costruzione della realtà sostenuta da convinzioni radicali, esso potrà essere funzionalmente abbandonato solo quando sarà resa possibile una ricostruzione più adeguata e conveniente di queste stesse convinzioni.

Il raggiungimento di tale obiettivo caratterizza l’intervento che si focalizza sulla trasformazione delle costruzioni tacite in elementi consapevoli che, opportunamente modificati, possano essere inseriti in una diversa rappresentazione di sé.

Questa concettualizzazione del problema implica due obiettivi, conciliabili e coerenti della terapia: il primo connotato dall’individuazione e dalla decodifica in termini verbali espliciti dei significati sottesi alle sensazioni problematiche con l’arricchimento della gamma di significati attribuibili agli eventi; ed il secondo, conseguente, finalizzato alla correzione di alcune distorsioni, non perché più corrispondenti ad un supposta realtà, ma in quanto disfunzionali soggettivamente rispetto agli stessi schemi di riferimento dell’individuo, e l’inserimento di queste nuove rappresentazioni in una trama narrativa rappresentativa del sé.

Attraverso questa nuova narrazione assolviamo all’importante funzione di stabilire una continuità intellegibile  nelle nostre esperienze, ma l’elemento caratterizzante risiede nella possibilità di costruire una narrativa coerente, una storia di noi, che renda le nostre esperienze riconducibili a quello che pensiamo di noi stessi, ampliando la percezione di ciò che definisce noi stessi.

Secondo Guidano la discrepanza fra i processi taciti e quelli espliciti, rendendo indecodificabili le oscillazioni intense e significative emerse alla coscienza e quindi non più evitabili, ostacolano la capacità auto integrante del Sé basata sulle funzioni dei processi espliciti coscienti.

In questa prospettiva, pertanto, la caratteristica essenziale della dinamica di una disfunzione cognitiva consiste nella continua oscillazione tra due serie di processi conoscitivi, antagonisti competitivi tra loro, la cui integrazione in una nuova dimensione unitaria supera generalmente lo spettro delle possibilità di elaborazione esistenti, che a loro volta dipendono dal grado di astrazione che il soggetto è in grado di raggiungere (Guidano 1987)

Ecco allora che l’obiettivo di una psicoterapia è quello di far raggiungere all’individuo un equilibrio dinamico tra i due tipi di conoscenza che può essere ottenuto mediante un processo ricostruttivo delle proprie esperienze di vita che permetta di realizzare nel contempo una descrizione esplicativa e una riformulazione funzionale.

 

La nostra postura può influenzare la nostra autostima?

Uno studio di Körner e colleghi (2021) ha cercato di studiare possibili aumenti nell’autostima di stato a seguito dell’aver assunto una postura del corpo aperta e espansiva.

 

Cosa si intende con power pose?

Nel 2012, durante una conferenza TED, la psicologa Amy Cuddy introdusse il concetto di “power posing”, che potremmo tradurre come postura che trasmette forza e sicurezza. Il video riguardo la conferenza da lei tenuta, ad oggi, ha ottenuto più di 50 milioni di visualizzazioni (Cuddy, 2012). Da quel momento, numerosi allenatori e guide hanno sostenuto che alcuni tipi di posture del corpo rendono le persone più sicure di sé. Ma quanto riportato ha una reale base scientifica?

Il concetto di “power posing” è stato utilizzato per la prima volta nel 2010 e comprendeva posizioni corporee espansive come stare in piedi con il petto in fuori e le mani sui fianchi. Al contrario, le posture a bassa potenza sono state definite come tutte quelle posture in cui il corpo è floscio e contratto (Carney et al. 2010).

Alcuni studi in letteratura riportano risultati interessanti a riguardo: Carney e colleghi (2010), ad esempio, hanno riportato aumenti di testosterone, diminuzioni del cortisolo e maggiore tolleranza al rischio negli individui che assumevano una power pose e un pattern ormonale opposto dopo una postura a bassa potenza. I risultati ottenuti, però, non sono stati replicati. Altri ricercatori hanno dimostrato cambiamenti nella percezione: Lee e Schnall (2014) hanno riferito che, dopo aver assunto una power pose, le persone giudicavano dei pesi da sollevare meno pesanti, al contrario di quando assumevano posture a bassa potenza.

Vacharkulksemsuk e colleghi (2016) hanno riscontrato un’associazione positiva tra l’assunzione di una power posing e il fascino romantico; posture espansive erano anche associate alla probabilità di essere assunti in un colloquio di lavoro simulato (Cuddy et al. 2015).

Altri studi hanno osservato che una power pose aumenta l’esperienza di emozioni positive e riduce l’esperienza di emozioni negative (ad es. Nair et al. 2014). Welker et al. (2013) hanno sostenuto che una power pose è collegata a una maggiore autostima, ma non sono stati in grado di trovare prove empiriche a sostegno di questa affermazione. Carney e colleghi (2015) hanno discusso gli effetti delle posture espansive rispetto a quelle più contratte, sostenendo che le posture espansive aumentano l’autostima.

Nonostante tutti questi risultati riportati, finora non ci sono prove che una power pose aumenti l’autostima o che una postura di potere basso riduca l’autostima in situazioni standard senza induzione di stress.

Qual è la relazione tra postura e autostima?

Per colmare questa mancanza, uno studio di Körner e colleghi (2021) ha cercato di studiare possibili aumenti nell’autostima di stato a seguito di posture del corpo aperte ed espansive. Gli autori hanno ipotizzato inoltre che l’assunzione di posture chiuse e contratte portasse ad una diminuzione dell’autostima di stato percepita.

I loro risultati hanno riportato una maggiore autostima di stato negli studenti che avevano assunto posture ad alta potenza rispetto agli studenti del gruppo di controllo o del gruppo che ha assunto posture a bassa potenza. L’aumento dell’autostima di stato si è verificato anche in un ambiente ecologico (ovvero nel mondo reale, e non solo sperimentale), permettendo ai ricercatori di giungere alla conclusione che gli effetti della power pose, probabilmente, non sono limitati al solo ambiente di laboratorio.

Per quanto riguarda invece le posture a bassa potenza, gli autori non hanno riscontrato nessun effetto tra l’assunzione di queste e l’autostima, nonostante ci si aspettasse una diminuzione del valore personale percepito. Questo risultato potrebbe essere dovuto al fatto che una postura neutra potrebbe essere vista come simile alla postura a bassa potenza per i partecipanti, così da rendere confusa la differenza tra le due. Un’ulteriore spiegazione per questo risultato potrebbe essere che i partecipanti che assumevano posture a bassa potenza si sforzavano in maniera attiva di non sentirsi impotenti, evitando quindi cali nell’autostima proprio perché il mantenimento dell’autostima e il miglioramento di sé sono forti motivazioni umane (Sedikides & Strube 1995). Quindi nei partecipanti che si impegnano in posture a basso potere, che possono essere implicitamente associate a una perdita di autostima, può attivarsi il desiderio di proteggere l’autostima.

Rispetto allo studio di Carney e colleghi (2010), per analizzare i cambiamenti nell’autostima, i partecipanti dello studio di Körner hanno trascorso il doppio del tempo nelle posture a basso e alto potere. La quantità ottimale di tempo che dovrebbe essere speso in una postura del corpo per ottenere degli effetti non è ancora chiara; gli studi presenti hanno utilizzato diverse posture del corpo, un diverso numero di posture e diversi lassi di tempo.

Conclusioni

In conclusione, i meccanismi sottostanti alla relazione esistente tra una power pose e autostima non sono ancora chiari e dovrebbero essere oggetto di ricerche future. È stato riportato che una power pose aumenta a sua volta i sentimenti di sicurezza (Gronau et al. 2017), ed è stato dimostrato che il senso di sicurezza innesca il sistema di attivazione comportamentale (Keltner et al. 2003), che a sua volta è collegato a un aumento dell’orientamento all’azione e delle emozioni positive. Una spiegazione dell’aumento dell’autostima può derivare dall’ipotesi dello stress power buffer (Carney et al. 2013), che propone che avere sicurezza porti a una ridotta risposta allo stress e a una ridotta coscienza di sé. Allo stesso modo, le power pose migliorano la gestione dello stress (Nair et al. 2014). Un’altra possibile spiegazione per l’effetto della posa ad alta potenza proviene dalla teoria dell’auto-percezione (Bem, 1967), che postula che le persone sviluppano atteggiamenti auto-diretti osservando il proprio comportamento. Una persona in una power pose elevata può dedurre di essere sicura di sé se assume una postura del corpo espansiva e aperta.

Il potenziale di un tale intervento in termini di riparazione dell’autostima potrebbe essere ulteriormente testato in studi futuri e potrebbe essere una via interessante nelle applicazioni psicologiche cliniche.

 

Scienza dell’Esperienza: Podcast Fenomenologico Post- Razionalista

Il 3 Marzo 2022 nasce un Podcast di Psicologia e Psicoterapia, denominato Scienza dell’Esperienza, orientato alla discussione scientifica circa tematiche di interesse trasversale alla psicologa, psicoterapia e medicina a partire da una prospettiva fenomenologica post-razionalista.

 

Questa iniziativa mira soprattutto a sensibilizzare un vasto pubblico al complesso intreccio tra mente e corpo, in un rimando di legami tra segni, sintomi ed emozioni. Il podcast, accessibile tramite piattaforme come Spotify, è erogato dal canale Radio 32 e ideato dal dottor Edgardo Reali, in collaborazione con altri psicologi e psicoterapeuti.

L’obiettivo del podcast Scienza dell’Esperienza è quello di creare uno spazio di approfondimento, che raccoglie temi derivanti dalla psicologia e dalla medicina, con l’intento di promuovere un ruolo attivo e consapevole della cura di sé. Ma, soprattutto, il podcast ha la funzione di fornire, ad un pubblico vasto, le informazioni per la sensibilizzazione del legame tra segni, sintomi ed emozioni, ovvero il legame, spesso, ignorato tra mente e corpo.

La cornice di tutto il podcast è mostrare l’importanza del coinvolgimento del paziente nel percorso di cura e l’importanza dell’intervento psicoterapeutico, con focalizzazione sull’approccio fenomenologico post- razionalista, che si concentra, come spiegato nel titolo stesso del podcast, sull’esperienza unica ed emotivamente situata (Arciero, Bondolfi, Mazzola, 2019) del paziente.

Invero, durante la psicoterapia, l’esperienza, nella sua unicità, è riportata dal paziente, attraverso la narrazione, ovvero la traccia che la persona ha per accedere a sé; “là dove questa traccia non riesce ad essere colta ed accolta, il contesto (il mondo) è in ombra e continua a lavorare alle spalle del soggetto che ne subisce i movimenti non potendo interagire da uomo libero (libertà che per natura gli apparterrebbe)” (Marchese, 2021). Il significato dell’esperienza perde, quindi, la sua connotazione psichica per essere direttamente riferito all’esperienza vissuta. L’intenzionalità diventa struttura del significato ed è dalla continua coordinazione tra sé, l’altro e il mondo che emergono gli stati d’essere che segnalano dove si è e dov’è l’altro. Il senso emerge nell’incontro stesso con le cose del mondo (Conti e Arciero, 2021). L’esperienza di sé che si dà, che esiste, che c’è già prima ancora di averne contezza, in quanto a livello preriflessivo (Arciero, 2009), dice che il senso è già contenuto nell’esperienza. Il sé esperienziale, quindi, corrisponde all’essere sé già fin da sempre presso un altro/mondo e, nella dialettica della temporalità, è situato tra l’accadere sempre e comunque di nuovo e il ritrovarsi come il medesimo (Arciero e Bondolfi, 2010).

In questa continua apertura dell’esperienza, il sintomo, come il dolore cronico legato all’emicrania trattato dalla dott.ssa Claudia Ianni nel primo intervento del podcast, può chiudere il paziente in una circolarità che è tipica della cronicità e fa perdere le tracce di senso dell’esperienza in cui è immerso. In questo caso l’intervento dello psicoterapeuta diventa fondamentale al fine di iniziare a decostruire e ricostruire il significato del sintomo e cogliere i contesti in cui si manifesta. Il ruolo dello psicoterapeuta, infatti, è quello di comprendere la complessità della variabilità, non solo fisiologica ma soprattutto emotiva, partendo dall’unicità e dalla centralità del paziente.

 

 

Logistica ospedaliera – Uno sguardo dietro le quinte

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

 

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. È rilevante per tutti i dipartimenti e i processi all’interno di un ospedale, per esempio ha una grande influenza sulla disponibilità dei materiali medicali, dei beni di consumo o dei posti letto. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

Aspetti della logistica ospedaliera

La logistica ospedaliera si occupa dei processi logistici e dei flussi di trasporto all’interno degli ospedali e include diversi campi, tra i quali:

  • Pianificazione e organizzazione
  • Trasporto e stoccaggio
  • Approvvigionamento di materiali
  • Trasmissione di informazioni
  • Disponibilità del personale

La logistica ospedaliera deve rispondere ai requisiti di igiene, salute, sicurezza sul lavoro e protezione antincendio.

Come si svolge la logistica

La logistica è fondamentale per tutti i processi che interessano l’ospedale. Serve da collegamento tra le aree funzionali e i dipartimenti che forniscono i materiali. Le aree funzionali sono, per esempio

  • sale operatorie
  • reparti
  • pronto soccorso.

I dipartimenti che forniscono i materiali sono:

  • magazzino economale
  • cucina
  • farmacia dell’ospedale.

Logistica ospedaliera e tecnologia moderna

Se si analizza la logistica negli ospedali oggi, si deve sempre tenere presente la digitalizzazione. Soprattutto nei tempi della pandemia da Coronavirus, le esigenze del personale medico e dei pazienti stanno cambiando rapidamente, motivo per cui è necessario il supporto delle moderne tecnologie.

Un’opzione già usata abbastanza frequentemente è quella di dotare i vari articoli di un codice a barre. Gli elementi contrassegnati in questo modo possono essere registrati più facilmente, risparmiando tempo ed evitando errori. Per esempio, i farmaci vengono assegnati al paziente giusto tramite il codice a barre; questo è particolarmente importante perché un farmaco sbagliato può comportare gravi rischi per la salute. Anche gli strumenti della sala operatoria sono in parte dotati di codici a barre e possono essere quindi controllati e preparati più rapidamente.

Un’altra possibilità è quella di utilizzare l’identificazione a radiofrequenza (abbreviata in RFID). Grazie a questa tecnologia, le informazioni vengono trasmesse in tempo reale, garantendo la comunicazione tra le diverse aree e i dipartimenti.

In futuro, la logistica ospedaliera sarà ulteriormente snellita e anche altri processi si svolgeranno in modo completamente automatico, per poter prestare le migliori cure possibili nel modo più semplice ed economico. In questo contesto, diventerà un tema sempre più rilevante l’uso della robotica, già utilizzata, tra l’altro, nelle sale operatorie o come ausilio nell’assistenza infermieristica.

Vantaggi offerti dalla digitalizzazione della logistica ospedaliera

Riguardo ai processi logistici, la digitalizzazione di un ospedale porta soprattutto miglioramenti per la trasparenza, la sicurezza e l’efficienza. Il progetto “Hospital 4.0 – Lean digital-supported logistics processes in hospitals” (fonte) si è concentrato sull’esame della logistica di magazzino e della gestione dei posti letto.

Il motivo più importante per automatizzare i processi logistici tramite la digitalizzazione è quello di alleggerire il personale. Se determinati processi non devono più essere eseguiti dal personale sanitario, allora questo può concentrarsi maggiormente sui compiti a valore aggiunto. Per esempio, il trasporto di campioni di pazienti, farmaci, articoli di prima necessità e documenti può essere eseguito tramite la posta pneumatica. All’interno di bossoli appositamente progettati, il materiale viene trasportato da un luogo all’altro attraverso l’uso di aria compressa o creando un vuoto, senza rischio di contaminare o danneggiare campioni o altro materiale. Questa soluzione di trasporto è più efficiente, meno soggetta a errori, e alleggerisce il personale che può così prendersi cura in modo adeguato dei pazienti.

Dal momento che molti processi avvengono in modo automatizzato e le informazioni sulle quantità esatte di farmaci e materiali vengono trasmesse in tempo reale e con precisione, si riducono gli sprechi, preservando così le risorse.

Conclusione

La logistica ospedaliera è un ramo necessario della logistica che sta diventando sempre più importante e nei prossimi anni riceverà sempre più attenzione. I processi logistici sono perfettamente adatti alla digitalizzazione per poter alleggerire il personale e fornire cure migliori ai pazienti.

 

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