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Introduzione alle neuroscienze sociali (2022) – Recensione del libro

Gli esseri umani, come molti altri animali, sono una specie altamente sociale. Ma in che modo i nostri sistemi biologici implementano i comportamenti sociali e in che modo questi processi modellano il cervello e la biologia? Introduzione alle neuroscienze sociali affronta questa tematica.

 

Introduzione alle neuroscienze sociali è il primo libro in questo ambito che cerca di coinvolgere sia gli studenti che gli studiosi nell’esplorazione dell’interazione tra aspetti biologici e psicosociali. Questo libro di testo di ampio respiro è organizzato in nove capitoli principali più due appendici e fornisce una base eccellente per comprendere i meccanismi psicologici, neurali, ormonali, cellulari e genomici alla base di processi sociali così diversi come solitudine, empatia, teoria della mente, fiducia e cooperazione.

Stephanie e John Cacioppo ipotizzano che il nostro cervello sia il nostro principale organo sociale. Mostrano come la stessa relazione oggettiva possa essere percepita come amichevole o minacciosa a seconda degli stati mentali degli individui coinvolti in quella relazione.

Inoltre, presentano esercizi e risultati basati sull’evidenza scientifica che i lettori possono mettere in pratica per comprendere meglio le radici neurali del cervello sociale e le implicazioni cognitive di un cervello sociale sia funzionale, sia disfunzionale (Cacioppo e Cacioppo, 2022).

Possiamo affermare che questo testo si contraddistingue in particolare per la sua completezza, integrando gli studi umani e animali, presentando casi clinici, nonché proponendo un’analisi multifattoriale su diversi argomenti – dai geni alla società- sempre applicando una vasta metodologia.

Questo libro ha permesso, grazie alla grande esperienza e maestria dei suoi autori, di apportare novità allo studio dell’anatomia e della funzione del cervello sociale, ampliando così la comprensione scientifica dell’interazione umana nella società.

Possiamo concludere che tale opera sia fondamentale per arricchire le nostre conoscenze in materia, aiutando a comprendere quanto la socialità nei tempi odierni sia importante e come questa influenzi e sia influenzata da fattori biologici, riconfermando la necessità di una maggiore integrazione multidisciplinare. Questo volume non solo si rivolge ad un pubblico di professionisti del settore, ma risulta di facile lettura anche per studenti o semplicemente per chiunque desideri acquisire nuove conoscenze.

 

Emozioni manifeste e latenti: comunicare con la mimica facciale

Poiché le emozioni vengono trasmesse attraverso espressioni facciali, cambiamenti corporei e posturali, secondo alcuni approcci che studiano le emozioni di base esistono dei prototipi associati a specifiche emozioni.

 

Espressioni facciali ed emozioni

Il volto è la parte corporea maggiormente evidente di una persona. Ogni giorno si intrattengono conversazioni faccia a faccia o tramite l’utilizzo di piattaforme elettroniche e, negli ultimi anni, capita spesso di vedere fotografie e video sui social network (Barrett et al., 2019). La percezione dei visi è una delle prime abilità che si sviluppa dopo la nascita, capacità utile che permette al bambino di avere delle informazioni a disposizione per poter interagire con gli altri e per muoversi nel mondo sociale man mano che cresce: si sceglie chi amare, di chi fidarsi e chi è colpevole di un crimine in base alla mimica facciale (Todorov, 2017; Zebrowitz, 1997; 2017; Zhang et al., 2018).

Comprendere le emozioni sottostanti ad un’espressione è un obiettivo importante dal momento che molte persone comunicano e si aspettano di essere comprese attraverso configurazioni specifiche dei movimenti muscolari facciali (Barrett et al., 2019). Barrett e colleghi (2019) hanno svolto una revisione sistematica su sei emozioni specifiche – rabbia, disgusto, tristezza, paura, felicità e sorpresa – suggerendo come vi siano emozioni manifestate in modo differente tra culture o tra persone all’interno di una situazione specifica. Le sei emozioni sono state riprese sia perché si ancorano a credenze comuni sull’espressività, studiate da Charles Darwin, che ha stipulato come le configurazioni facciali siano espressioni di determinate emozioni, sia perché sono state l’obiettivo principale della ricerca sistemica per quasi un secolo, con lo scopo di fornire un ampio focus di ricerca (Barret et al., 2019).

Dato che un’emozione viene trasmessa attraverso caratteristiche fisiche, come movimenti facciali e cambiamenti corporei e posturali, e mentali, come eccitazione o minaccia nei confronti di una situazione nuova, secondo alcuni approcci che studiano le emozioni di base esistono dei prototipi associati a specifiche emozioni. Ad esempio, la felicità viene manifestata attraverso sorrisi, labbra separate, testa all’indietro e apertura corporea, la rabbia con aggrottamento delle sopracciglia, sguardo fisso, labbra chiuse e postura ferma.

Quando le espressioni si associano a diverse emozioni

Gli autori (2019) sottolineano come alcune espressioni facciali possano manifestare più di una singola emozione sottostante, raccomandando un’attenta osservazione di come le persone muovono i loro volti per esprimere informazioni sociali all’interno di vari contesti in cui sono immerse quotidianamente (Barret et al., 2019). Possono essere presenti delle inferenze inverse, presenti quotidianamente, dove le persone cercano di dedurre se effettivamente dietro un sorriso si nasconda un’altra emozione mascherata. Se una persona è arrabbiata avrà una mimica facciale e movimenti espressivi tipici della rabbia, mentre se una persona afferma di essere arrabbiata e manifesta comportamenti coerenti con la preoccupazione è più probabile che stia cercando di nascondere un sentimento di paura. Al contrario, una persona preoccupata che manifesta atteggiamenti provocatori e aggressivi è probabile che stia celando un sentimento di rabbia (Barrett et al., 2019).

Oltre alle compagnie tecnologiche che investono molto nella ricerca della lettura delle emozioni – si pensi a Microsoft Emotion API che cerca di capire che cosa l’individuo prova e sente attraverso video immagini – anche le emoji utilizzate sui social e le riviste stampate ogni giorno attribuiscono determinate espressioni facciali a determinati stati d’animo ed emozioni della persona (Barrett et al., 2019).

Le espressioni facciali in ambito clinico

In ambito clinico, la configurazione facciale è necessaria per formulare diagnosi basate su stati emotivi, nonché per formulare un piano di terapia o dei trattamenti utili per determinati disturbi: ad esempio, attraverso l’analisi delle caratteristiche facciali fotografate, il Reading the Mind in the Eyes Test contribuisce alla formulazione di piani terapeutici per persone con autismo o con altri disturbi dove vi sono delle difficoltà a riconoscere queste configurazioni facciali come espressioni emotive (Baron-Cohen et al., 2004; Kouo & Egel, 2016). Ricerche future potrebbero focalizzarsi maggiormente sul significato culturale attribuito non solo a determinate emozioni, ma anche ai movimenti e ai comportamenti non verbali manifestati dalle persone, con il fine di comprendere come strutturare dei programmi terapeutici funzionali e flessibili.

 

Le illusioni non si creano, non si distruggono, ma si trasformano: integrare enterocezione e metacognizione

Il tentativo del seguente articolo è quello di proporre una panoramica di quanto, ad oggi, può essere inteso sotto il concetto di illusione e alcuni spunti della letteratura presente sulle sue manifestazioni.

 

Abstract

Il seguente articolo si propone di esporre una panoramica di quanto, ad oggi, può essere inteso sotto il concetto di “illusione” e alcuni spunti della letteratura presente sulle sue manifestazioni: da illusioni corporee e sistemi percettivi, fino a credenze sul proprio funzionamento mentale. La costruzione di una realtà propria è qui intesa in un’ottica complessiva e sfaccettata e di un’interazione costante tra corpo e mente, per l’articolazione di un senso del sé nucleare. Nel testo si propone, infine, anche l’applicazione di un approccio multimodale e integrativo delle varie componenti che partecipano a questo processo, col fine ultimo di ottenere una visione globale del singolo individuo e della sua prospettiva nella comprensione di se stesso e dell’ambiente circostante.

L’illusione come soggettiva percezione del mondo e di noi stessi

In psicologia il termine illusione fa normalmente riferimento a una distorsione dei sensi o una misinterpretazione degli stimoli sensoriali “reali” (Todorović, 2020). Il nostro apparato sensoriale crea in noi l’illusione che il mondo sia luminoso e colorato, trasformando i dati grezzi forniti dai nostri organi di senso in colori, suoni, sapori, odori, sensazioni di caldo e freddo (e dolore).

Talvolta tali informazioni sono palesemente fuorviate dalla nostra percezione. Si pensi a quelle immagini, a rischio giramenti di testa, che possono provocare illusioni ottiche nell’osservatore (Todorović, 2020). L’etichetta di “illusione visiva” è generalmente usata per riferirsi, in modo un po’ vago, a tutti i tipi di presentazioni visive sorprendenti, intriganti, che “sfidano il senso comune” o “confondenti”. L’immagine sottostante, ad esempio, è una raffigurazione che, se osservata attentamente per qualche istante, provocherà nell’osservatore un’illusione ottica di movimento (Fig. 1).

Illusioni integrare enterocezione e metacognizione Fig 1

Nel 1973, la filosofa Susan Stebbing (come citata da Todorović, 2020) ha ritenuto che non abbia senso dire di “soffrire di un’illusione”, a meno che la persona non sappia cosa significa “non soffrire di un’illusione”. Infatti, qualsiasi definizione di percezione illusoria implica logicamente una corrispondente definizione del suo opposto: una percezione reale. Sono stati molti gli autori e gli studiosi ad aver proposto un modello che descrivesse o meglio rappresentasse il fenomeno dell’illusione percettiva.

Proviamo ora a intendere il concetto di illusione in una cornice più ampia e non solo come distorsione dei sensi, ma come soggettiva percezione del mondo e di noi stessi. L’illusione è, in quest’ottica, un concetto riferibile a tutte le nostre percezioni e convinzioni sul nostro funzionamento. È forse l’essenza stessa della percezione. La nostra esperienza del corpo non è diretta; piuttosto, è mediata da informazioni percettive, influenzata da informazioni interne, e ricalibrata attraverso delle rappresentazioni corporee implicite ed esplicite presenti in memoria (Riva, 2018). Possiamo osservare i nostri processi di pensiero e la nostra mente e sentire di essere delle persone che “capiscono sempre gli altri” o che “fanno fatica a ricordare i nomi”. Allo stesso modo possiamo ascoltare il nostro stomaco e sentirci sazi, nauseati o persino innamorati (le famose “farfalle nello stomaco”).

Il tentativo che si pone il seguente articolo è quello di proporre una panoramica di quanto, ad oggi, può essere inteso sotto il concetto di “illusione” e alcuni spunti della letteratura presente sulle sue manifestazioni, partendo da illusioni corporee e sistemi percettivi fino a arrivare a credenze sul proprio funzionamento mentale. Infine, si proporrà una riflessione sulla necessità di un approccio integrato e complessivo nell’ambito delle discipline psicologiche.

I sistemi percettivi e le illusioni del corpo

Per iniziare, è importante partire con l’idea che il corpo e la mente siano intrinsecamente legati tra loro e in continua comunicazione reciproca (Thayer & Lane, 2000). Tale interconnessione permette un costante adattamento alle necessità ambientali e corporee e, dunque, una globale flessibilità fondamentale alla sopravvivenza dell’organismo, che si riflette su gran parte delle nostre funzioni.

L’elaborazione percettiva, ad esempio, è un fenomeno complesso, integrato con altri domini della funzione cerebrale. La percezione visiva, infatti, può essere influenzata da una molteplicità di fattori, tra i quali lo stato emotivo dell’individuo, le sue aspettative o il suo livello attentivo (Harrison et al., 2021).

Anche la consapevolezza corporea, ovvero la consapevolezza pre-riflessiva del corpo e del suo funzionamento, gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della generale consapevolezza di sé (Horváth et al., 2020). Questa presenta due aspetti principali: la sensazione di poter agire nel mondo attraverso il nostro corpo (agency) e quella che il nostro stesso corpo ci appartenga (body ownership). Per quanto riguarda la ricerca su quest’ultimo costrutto, uno dei paradigmi più utilizzati è quello della Rubber Hand Illusion (RHI).

Il paradigma della RHI (o illusione della mano di gomma) prevede un braccio/mano di gomma osservato da un soggetto nello spazio peripersonale (cioè lo spazio vicino al corpo), il quale viene percepito come parte del proprio corpo se il braccio del soggetto stesso viene toccato sincronicamente fuori dalla sua vista (Fig. 2; Horváth et al., 2020). Dunque, la propriocezione del soggetto, ovvero, la percezione del suo corpo nello spazio, viene alterata principalmente da due canali sensoriali: il tatto (la stimolazione contemporanea del proprio braccio e del braccio di gomma) e la visione (quella del braccio di gomma stimolato). La persona giungerà, quindi, a credere che il braccio di gomma sia il proprio.

Illusioni integrare enterocezione e metacognizione Fig 2

Fig. 2: La Rubber Hand Illusion

Recenti studi hanno rilevato come alcune funzioni percettive possano avere un’influenza su quanto la persona si immedesimi in questa illusione corporea. L’enterocezione, ad esempio, ovvero quel sistema sensoriale che ci permette di sentire e capire quanto avviene nel nostro corpo e i segnali che questo ci manda, sembrerebbe influenzare i livelli di immedesimazione in tale paradigma sperimentale (Mehling, 2016). Questo complesso sistema sensoriale è comunemente suddiviso in costrutti, che ne costituiscono diverse funzioni. Tra questi, la sensibilità enterocettiva corrisponde alla personale percezione dei propri segnali corporei viscerali, mentre la sensitività (o accuratezza) enterocettiva è l’accuratezza e la precisione con cui un individuo rileva e riconosce i propri segnali corporei. Quest’ultima viene normalmente misurata attraverso il conteggio dei battiti: tale metodo verifica che il numero di battiti percepiti e contati dal soggetto corrisponda ai battiti effettivamente avvenuti e rilevati da un dispositivo (normalmente un elettrocardiogramma). Secondo alcuni studiosi, entrambi questi due costrutti avrebbero un ruolo nella personale esperienza della RHI, e viceversa la RHI potrebbe modificare l’accuratezza enterocettiva del soggetto (​​Dobrushina et al., 2021; Suzuki et al., 2013; Xu et al., 2018).

Tuttavia, alcuni studi non confermano questi risultati o non hanno riscontrato tali relazioni (Butler, 2021; Crucianelli et al., 2018; Horváth et al., 2020). Lo studio di Butler (2021) ha valutato se le differenze individuali nell’accuratezza e nella sensibilità enterocettive fossero rilevanti nella forza dell’illusione di afferrare un oggetto. Tale studio ha, in realtà, notato come la forza dell’illusione di afferrare non fosse direttamente influenzata da queste due funzioni, ma che queste divenissero rilevanti nel momento in cui lo sperimentatore introduceva dei suggerimenti verbali. In altre parole, se lo sperimentatore chiedeva attivamente ai soggetti di focalizzare l’attenzione sul braccio, la forza dell’illusione aumentava nei partecipanti che presentavano livelli più bassi di accuratezza e sensibilità enterocettive.

Gli stessi due costrutti avrebbero un ruolo anche nella percezione dello spazio peripersonale (Bogdanova et al., 2021). In particolare, gli studiosi Ardizzi e Ferri (2018, come citati da ​​Bogdanova et al., 2021) hanno rilevato che una maggiore accuratezza enterocettiva è in grado di predire dei confini più ristretti di spazio peripersonale.

È importante sottolineare come la sensibilità enterocettiva non giochi sempre a nostro favore o sfavore. Secondo alcuni autori (Mehling, 2016) è possibile differenziare una sensibilità enterocettiva adattiva, basata su un approccio mentale non giudicante e orientato alla percezione delle sensazioni corporee nel momento presente, ed una sensibilità maladattiva, caratterizzata da un’attenzione disfunzionale ai segnali corporei. Con attenzione disfunzionale possiamo intendere, da una parte, uno stato di allerta verso tali segnali, il quale ci pone nella condizione di iper-valutarli o anche di ritenerli pericolosi; dall’altra una tendenza all’evitamento e alla distrazione verso tali segnali, spesso legata al timore di star male o a determinate credenze, quali “non riuscirei a sopportarlo” o “non è una cosa importante”: anche in questo caso, l’influenza reciproca di mente e corpo risulta evidente. Questa particolare distinzione sembra essere, inoltre, di fondamentale importanza per la cura clinica, poiché uno stile di attenzione disfunzionale è spesso associato a ipocondria, disturbi d’ansia e somatizzazioni, mentre quello più funzionale è stato notato essere sano, adattivo e in grado di migliorare le capacità di resilienza di un individuo.

Infine, la consapevolezza enterocettiva viene definita come la consapevolezza metacognitiva dell’accuratezza enterocettiva, ed è da intendere come la corrispondenza tra la fiducia soggettiva e l’accuratezza oggettiva della propria rilevazione del battito cardiaco (Mehling, 2016). In questo contesto, quindi, la metacognizione (concetto di cui discuteremo ampiamente in seguito) è interpretabile come “consapevolezza dell’errore”, o meglio consapevolezza di quanto il numero di battiti percepiti si distanzi da quello dei battiti realmente avvenuti.

Un recente studio di Bekrater-Bodmann e colleghi (2020) ha tentato una manipolazione della percezione della locazione del corpo nello spazio, sia attraverso input enterocettivi che esterocettivi. I canali esterocettivi raccolgono le informazioni provenienti dall’esterno, tra cui le stesse informazioni propriocettive. Più nel dettaglio, utilizzando un setup automatizzato avanzato, gli autori hanno manipolato la prospettiva dei partecipanti rispetto al corpo (prospettiva in prima o in terza persona) durante una stimolazione visuo-tattile. Tra le variabili raccolte, essi notarono che la consapevolezza metacognitiva enterocettiva era correlata negativamente all’illusione delle esperienze corporee mediate da percezioni esterne. In altre parole, più i partecipanti erano consapevoli delle loro percezioni interne, minori erano i livelli di illusione e dislocazione corporea in seguito alle manipolazioni di percezione esterna.

Le illusioni cognitive: le credenze e la metacognizione

Le credenze sono definite come l’accettazione mentale o la convinzione della veridicità o dell’attualità di un’idea (Schwitzgebel, 2010, come citato da Connors & Halligan, 2015). Molti filosofi analitici consideravano le credenze come “atteggiamenti proposizionali”: in quanto proposizione, un significato specifico può essere espresso sotto forma di frase e può essere interiorizzato sotto forma di atteggiamento che implica un contenuto rappresentativo e la presunta veridicità della proposizione stessa (ad es., un bambino che nel fare esperienza si sente spesso dire la frase “come sei stato bravo” potrà manifestare atteggiamenti e comportamenti che rivelano una sua idea di sentirsi “bravo” e volenteroso) (Schwitzgebel, 2010; Stephens & Graham, 2004, come citati da Connors & Halligan, 2015). Le credenze descrivono rappresentazioni ontologiche indiscusse del mondo e comprendono convinzioni su cause, eventi, azioni e oggetti tramite i sensi, che in modo non verbale rivelano aspetti della realtà, come le relazioni con altre persone e le azioni che portano a determinati risultati in futuro (ad es., “se studio, passerò l’esame” oppure “se non è geloso/a, allora vuol dire che non tiene abbastanza a me”; Connors & Halligan, 2015).

È importante notare che le credenze non devono essere consce o articolate linguisticamente (Connors & Halligan, 2015), in quanto condividono una serie di proprietà comuni e sono da considerare come multidimensionali. Possono, inoltre, formarsi attraverso l’esperienza diretta o raccogliendo informazioni da una fonte certa (Hughes & Sims, 1997; Landgon, 2013, come citati da Connors & Halligan, 2015). Alcune credenze hanno alti livelli di evidenza, altre meno (Lamont, 2007, come citato da Connors & Halligan, 2015) e sono mantenute a diversi livelli di consapevolezza: alcune comportano una notevole preoccupazione e una ruminazione conscia, mentre altre sono implicite ed evidenti deduttivamente attraverso i comportamenti, ergo non suscettibili di controllo riflessivo (Young et al., 2003, come citato da Connors & Halligan, 2015). Secondo altri autori (Riva, 2018), la nostra esperienza corporea non è diretta, ma mediata da una varietà di informazioni, tra le quali rappresentazioni corporee implicite ed esplicite, precedentemente interiorizzate e incarnate (una memoria corporea). La generalità delle credenze può riferirsi ad oggetti o persone singole, oppure a gruppi di oggetti e di persone (Freeman, 2007, come citato da Connors & Halligan, 2015). Queste ultime variano anche nel loro grado di riferimento personale: ad esempio, “io sono unico” è una credenza riferita all’individuo specifico che può essere estesa ad amici o parenti (Connors & Halligan, 2015).

Esistono diversi gradi di fiducia rappresentanti le credenze, gradi che rimangono invariati in posizioni ferme (ad esempio, si pensi alle leggi della fisica) o che variano con una relativa incertezza (ad esempio, argomenti non familiari al soggetto; Peters et al., 2004, come citati da Connors & Halligan, 2015). Tuttavia, i gradi possono variare e fluttuare nel tempo o all’interno di contesti diversi (Bisiach et al., 1991; Connors & Coltheart, 2011, come citati da Connors & Halligan, 2015). Di conseguenza, le credenze variano nella loro resistenza al cambiamento in risposta alle controprove e alla pressione sociale, così come variano il loro impatto sulla cognizione e sul comportamento: le persone possono agire in base a determinate convinzioni e non sulla base di altre che sono approvate verbalmente (Bortolotti, 2013, come citato da Connors & Halligan, 2015).

Il concetto di illusione cognitiva è stato introdotto nel IX secolo dal medico, fisiologo e fisico tedesco Hermann von Helmholtz (History 101, 2021). Secondo lo studioso, le illusioni cognitive si verificano quando le nostre ipotesi predeterminate sull’ambiente non si allineano con la realtà. Un’illusione cognitiva verifica, quindi, le nostre aspettative rispetto alla conoscenza preesistente sul mondo, basate sia su informazioni visive che su inferenze cognitive. I primi studi sull’illusione del sapere sono stati portati avanti da Glenberg, Wilkinson ed Epstein (come citati da Avhustiuk et al., 2018), i quali dimostrarono come le persone tanto poco conoscono un concetto, tanto più si sentono sicuri di conoscerlo, e viceversa. Questo fenomeno è noto in letteratura come overconfidence bias (Tversky & Kahneman, 1974), ed è il frutto di scorciatoie mentali, definite euristiche. Le euristiche vengono utilizzate per ridurre il tempo di ragionamento e la quantità di risorse cognitive applicate, e sono, perciò, associate all’incombenza di alcuni errori di ragionamento (i suddetti bias). Un ulteriore esempio di questi errori è l’hindsight bias, ovvero la sensazione che un evento, una volta avvenuto, sia prevedibile, con un livello di certezza maggiore rispetto alla prevedibilità percepita prima dell’evento stesso (Pohl, 2004). Questo fenomeno si può sviluppare negli esercizi di memorizzazione di un elenco di parole, in quanto le persone tendono spesso a sopravvalutare le loro capacità di ricordarle in un secondo momento (Avhustiuk et al., 2018) e di conoscerle in prospettiva (Avhustiuk et al., 2021). In questo contesto, si può introdurre il concetto di monitoraggio metacognitivo, capacità che fa riferimento ad un pensiero che ha come obiettivo esplicito e dichiarato la conoscenza del pensiero stesso (Lai, 2011). La regolazione cognitiva avviene con il contributo delle strategie messe in atto, da parte del soggetto, per raggiungere uno stato desiderato sulla base dello stato attuale (Caselli et al., 2017). Oltre a produrre conseguenze emotive, mutano nella misura in cui sono condivise da altre persone oppure permangono, contribuendo e causando un notevole disagio (Beck, 1976; David, 1999, come citati da Connors & Halligan, 2015). Ellis (1962, come citato da Ruggiero, 2011) identificò alcune credenze scatenanti la sofferenza psicologica che ha definito come “sciocche frasi” che diciamo a noi stessi, parole che vengono autosomministrate e che generano disagio (Ruggiero, 2011). Sostanzialmente, queste parole assumono una connotazione definizionale di se stessi che etichetta il soggetto e che lo fa soffrire in quanto definito, e che si irrigidisce così all’interno di un modello ripetitivo che trasforma la sofferenza psichica in un vero e proprio disturbo: soffriamo anche per quei pensieri che vengono attivati in modo consapevole e che conferiscono un significato generale. Ellis intuì come le persone provino disagio quando si tende a sopravvalutare la possibilità che si verifichino delle situazioni di pericolo e quando si sottovalutano le proprie capacità per gestire tali situazioni (Ruggiero, 2011). Alla base esiste la convinzione che le delusioni della realtà siano intollerabili, il soggetto si etichetta così come “patologico” se ne soffre molto (“non è normale rimanerci così male”). Le risposte fisiologiche, dovute alle illusioni metacognitive, che possono manifestarsi soggettivamente, possono essere ad esempio rossore, sudorazione o battito cardiaco accelerato. Non solo: un’inferenza nei confronti di un evento può portare ad una revisione o ad una conferma di un’idea di sé già definita, come il corpo “personale, oggettificato e sociale”, che richiede l’introduzione di nuove rappresentazioni relative all’esperienza (Riva, 2018).

Legate al concetto di monitoraggio cognitivo, le credenze cognitive, o metacredenze, si riferiscono “a convinzioni che le persone hanno sulla propria mente, sui suoi prodotti (es. pensieri ed emozioni) e sulle sue funzioni” (pensiero, attenzione e memoria; Wells, 2000, come citato da Caselli et al., 2017, p. 36). Le metacredenze possono essere: sulle emozioni e sui pensieri automatici, cioè sulle intrusioni mentali, sull’utilità delle strategie utilizzate (i.e. il rimuginio e il pensare a come comportarsi in un determinato contesto assumono un ruolo utilitaristico) e sull’incontrollabilità del pensiero (ad esempio, “se inizio a pensarci non riesco a smettere”; Caselli et al., 2017). Le metacredenze riguardo l’utilità e l’importanza del rimuginio sono dette positive, mentre quelle sulla pericolosità e sull’incontrollabilità sono definite come negative (Wells, 2009, come citato da Caselli et al., 2017). Nello specifico, alcune strategie di regolazione cognitiva mirano al mantenimento del rimuginio, vissuto come una trappola da parte della persona. Tutto ciò può, dunque, portare un individuo ad una percezione globale di se stesso come incapace, disattento, folle o, d’altra parte, come particolarmente previdente e, per certi versi, anche brillante.

Il sistema cognitivo umano viene costruito basandosi su una logica dell’errore meno costoso: vengono, così, sviluppati pregiudizi utili a rilevare i modelli dell’ambiente con l’obiettivo di prevedere risultati importanti (Blanco, 2017). Di conseguenza, possono verificarsi alcuni falsi allarmi, come nel caso di quando rileviamo un nesso causale tra due eventi che non sono correlati effettivamente (i.e. un’illusione causale). Le implicazioni associate alle illusioni erronee possono essere positive o negative: un comportamento persistente, fisso e non necessariamente collegato all’esito desiderato, si modella con una sovrastima della causalità, mentre un beneficio legato alla perseverazione stessa può portare anche ad un comportamento che migliora la sensazione di controllo per raggiungere uno scopo e riduce i livelli di ansia esperiti dal soggetto (Blanco, 2017). Come ribadiremo anche in seguito, l’azione di illudersi può avere diverse accezioni e funzionalità.

La metamemoria è, infine, la conoscenza e il controllo che le persone esercitano sulla propria memoria (Schaper & Bayen, 2021). In letteratura, la metamemoria viene distinta tra monitoraggio e controllo meta-mnestico, cioè tra la valutazione dei propri stati di apprendimento e tra i processi che mirano al raggiungimento del livello di memoria desiderato (Nelson & Narens, 1990, come citati da Schaper & Bayen, 2021). Schaper e Bayen (2021) per primi testarono l’illusorietà dell’effetto aspettativa meta-mnemonico: questo effetto consiste nella convinzione soggettiva di avere abilità mnemoniche migliori verso ciò che si ritiene più “scontato” o coerente. Ciò implica che le persone si impegnino di più nella memorizzazione di aspetti apparentemente discordanti, a discapito di altri più concordanti, all’interno di uno stesso compito. Tale focalizzazione potrebbe portare ad un peggioramento dell’immagazzinamento in memoria delle stesse informazioni, nonché delle conseguenze sullo stesso processo di apprendimento. L’effetto di aspettativa meta-mnemonica è, dunque, illusorio e talvolta fuorviante.

Integrazione di Metacognizione ed Enterocezione

Molti tra gli studi finora analizzati, tuttavia, si concentrano su domini isolati della conoscenza di sé. Eppure, gli esseri umani sperimentano un sé unificato che integra le nostre vite mentali e i nostri corpi fisici (Riva, 2018). Mentre la cognizione è spesso considerata separata o distinta dai processi corporei, c’è un crescente riconoscimento del fatto che in effetti la cognizione possa essere incarnata (embodied), cioè che i processi cognitivi si basino su rappresentazioni neurali del corpo (Chua & Bliss-Moreau, 2016; Riva, 2018). Alcune prove di neuroimaging indicano infatti che sia la metamemoria che l’enterocezione reclutano l’insula, una regione coinvolta nell’integrazione delle informazioni omeostatiche e nel controllo viscero-motorio.

Basandosi sulla prospettiva che il corpo e la mente siano intrinsecamente legati tra loro, uno studio del 2016 (Chua & Bliss-Moreau, 2016) si è proposto di analizzare la relazione tra metacognizione ed enterocezione, indagando, dunque, credenze sulle proprie abilità sia mnemoniche che enterocettive. I risultati mostrano come le credenze sulla memoria erano positivamente correlate a quelle sull’enterocezione, e che, in generale, gli individui con una migliore accuratezza meta-mnemonica presentavano anche una maggiore accuratezza enterocettiva.

D’altra parte, lo studio di Yoris e colleghi (2015) ha indagato il ruolo dei costrutti di metacognizione enterocettiva (i.e. credenze e pensieri riflessivi sulle proprie sensazioni corporee) e di accuratezza enterocettiva nel disturbo di panico, riscontrando differenze significative nelle credenze metacognitive enterocettive tra gruppo di controllo e pazienti con disturbo di panico. In particolare, questi ultimi presentavano maggior preoccupazione e pensieri catastrofici riguardo le proprie sensazioni somatiche e sintomi ansiosi.

Conclusioni

Con tutto ciò non si vuole far intendere che l’illusione sia soltanto una tendenza dell’essere umano a “prendersi in giro”, e neppure che le nostre percezioni non siano affidabili in assoluto. Avere delle illusioni soggettive, memorizzate grazie a una varietà di fattori esperienziali, ci “aiuta a vivere”, o perlomeno può risultare funzionale ad adottare uno stile di pensiero in grado di confortarci ed autogestirci quando proviamo dolore, o a prevenire un’eventuale sofferenza. Ad esempio, la sensazione di trovarsi in un ambiente familiare o anche l’idea di avere una buona memoria possono avere un’influenza sul senso di sicurezza nonché sullo stato emotivo. Se prima di un esame importante iniziassimo a pensare di non ricordarci nulla e di non essere abbastanza preparati fino a convincercene, risulterà difficile sostenere bene quell’esame. Il dubbio, in altre parole, infrangerebbe il senso di sicurezza (l’illusione) di sapere, che, in quello specifico contesto, ci avrebbe probabilmente permesso una migliore performance. È, inoltre, interessante riportare l’effetto del “realismo depressivo” (Alloy & Abramson, 1979, come citati da Blanco, 2017). Secondo gli autori, livelli più alti di depressione sono negativamente correlati all’illusione della casualità, e, al contrario, coloro che non presentano sintomi depressivi importanti mostrano una varietà di bias ottimistici e di autoesaltazione, i quali aiuterebbero a mantenere uno stato psicologico ben adattato e sano.

Numerosi studi hanno indagato la validità clinica dell’utilizzo della realtà virtuale su vari fenomeni, tra cui la stessa percezione del dolore (Matamala-Gomez et al., 2021). La percezione e la consapevolezza corporea possono, infatti, essere alterate non solo da cause neurologiche, ma anche da esperienze extra corporee indotte attraverso realtà virtuali. Nello specifico, alcuni tra questi studi hanno sottolineato come delle totali illusioni corporee (Full Body Illusion) possano indurre a modificazioni visuo-tattili (Ehrsson, 2007; Lenggenhager et al., 2007, come citati da Matamala-Gomez et al., 2021) e alla sensazione di “essere situati al di fuori del proprio corpo” (Pamment & Aspell, 2017, come citati da Matamala-Gomez et al., 2021). Attraverso l’uso di illusioni corporee, sarebbe, dunque, possibile modulare questa rappresentazione interna del corpo quando è stata distorta a causa di una condizione clinica (ad esempio, dolore cronico, disturbo alimentare, disturbo motorio, ecc) al fine di recuperare la sua struttura funzionale (Matamala-Gomez et al., 2021). Su questa linea di ricerca, Schmalzl e colleghi (2011) osservarono una riduzione del dolore dell’arto fantasma in pazienti esposti ad una full body illusion, che prevedeva la visione in prima persona del corpo di un manichino in realtà virtuale mentre erano sottoposti a una stimolazione visuo-tattile sincronizzata.

L’effetto placebo, definito come una sostanza o una procedura priva di attività specifica per la condizione trattata (Shapiro & Morris, 1978 come citati da Brascher et al., 2018 ), può essere una forma di condizionamento importante per il trattamento del dolore cronico (Vlaeyen & Linton, 2000 come citati da Brascher et al., 2018). Gli effetti positivi di tale fenomeno sono stati dimostrati in studi con pazienti affetti da dolore muscoloscheletrico (Muller et al., 2016 come citati da Brascher et al., 2018) e lombalgia cronica (Peerdeman et al., 2016 come citati da Brascher et al., 2018). D’altra parte, l’alleanza terapeutica che contribuisce all’esito di una terapia positiva deve focalizzarsi sugli effetti positivi di un trattamento, in quanto l’effetto nocebo, la versione negativa dell’illusione del placebo, può diventare una persistente causa di fallimenti terapeutici nel trattamento del dolore cronico. Le evidenze empiriche mostrano come suggestioni verbali, condizionamento classico e apprendimento osservazionale possono portare a ipoalgesia, cioè a una diminuzione del dolore tramite effetto placebo, o a iperalgesia, cioè a un’aumentata sensibilità nei confronti di stimoli dolorifici tramite quello nocebo (Brascher et al., 2018).

Da un passaggio del libro “Da persona a persona”: “Il mondo in cui viviamo non ‘deve’ necessariamente essere così com’è. Tra tutte le possibilità abbiamo scelto di farlo così” (Rogers & Stevens, 2017, pp. 150-151). È dunque possibile non illuderci? È possibile percepire una realtà oggettiva? Probabilmente no. La percezione soggettiva derivante dai sensi ci induce a creare e formare in noi delle credenze specifiche a proposito della realtà come certa e oggettiva. La realtà viene percepita da parte di tutti in modo meno simile di quanto erroneamente si creda. Ad esempio, quando ascoltiamo il racconto di un episodio di vita altrui, spesso tendiamo ad immedesimarci e ad empatizzare “sentendo” attraverso delle credenze già interiorizzate – e incarnate –, piuttosto che ad “ascoltare” gli eventi con il punto di vista del narrante. “L’interpretazione dell’esperienza è un’altra cosa. […] Scoprii che mentre potevo decidere a favore dello psichico o del somatico, non appena avevo sospeso la mia decisione, essi erano entrambi presenti – a interagire ora come avevano fatto per tutta la mia vita” (Rogers & Stevens, 2017, p. 259).

Tornando alle premesse iniziali, le nostre esperienze corporee non sono dirette, bensì mediate da informazioni percettive che sono a loro volta influenzate da informazioni interne. Tali esperienze vengono, quindi, calibrate attraverso delle rappresentazioni corporee, esplicite o implicite, che sono state precedentemente memorizzate (Riva, 2018). Studiosi come Giuseppe Riva (2018) hanno indagato le origini delle rappresentazioni del corpo umano per comprendere i processi di sviluppo e la relazione con un concetto di Sé adottato e costruito in modo esplicito. Il ricercatore in questione sottolinea lo sviluppo di sei matrici corporee – tra queste, il sé che agisce, o “corpo attivo”, il sé come persona e come oggetto – che possono essere combinate in una rappresentazione coerente di noi stessi. Le matrici corporee sono definite come i confini del corpo, definiscono anche dove il “sé” è presente in quel momento, nonché come si percepisce la persona attraverso la sua modalità di percezione soggettiva.

In conclusione, costruirci una memoria incarnata degli eventi o, più in generale, “illuderci” secondo una rappresentazione soggettiva degli stessi, presenta aspetti sia disfunzionali che funzionali alla nostra esistenza: a seconda di come ci raccontiamo gli eventi e di come rielaboriamo le informazioni sensoriali che esperiamo quotidianamente, abbiamo il potere di interpretare il nostro vissuto in maniera adattiva e salutare, piuttosto che vivere in stato di allarme o preventivo in risposta ai continui cambiamenti ambientali. Clinicamente parlando, si potrebbe dire che ognuno esperisce la propria sofferenza come una percezione non oggettiva della realtà, a livello, al contempo, sia cognitivo che corporeo.

D’altra parte, in linea con la letteratura esposta nel corso del testo, è fondamentale sottolineare l’importanza di applicare alla ricerca nell’ambito, come alla clinica, un approccio integrato e completo di aspetti emotivi, cognitivi, sensoriali e fisiologici. Il tentativo di proporre un approccio integrato e complessivo è già stato portato avanti da numerosi autori (Shiffman et al., 2008), che rimarcano l’importanza di seguire gli individui nel loro contesto di appartenenza e nelle loro costanti fluttuazioni di stato. Secondo gli autori, infatti, le stesse abilità mnemoniche e percettive sono influenzate da variabili contestuali e dallo stato emotivo del soggetto. Si vuole risaltare, in altre parole, un approccio che evidenzi la personale ed individuale integrazione di tali aspetti per la definizione del sé (Riva, 2018).

 

Eutanasia, lutto ed empatia

Il tema dell’eutanasia – letteralmente “buona morte” – è da sempre divisivo: se da una parte c’è chi sostiene che porre fine alle proprie sofferenze irreversibili sia il diritto di ogni essere umano, altri ritengono che la vita vada comunque tutelata e che il confine tra sostegno al suicidio ed istigazione, seppur implicita, a quest’ultimo sia molto sottile.

 

Negli scorsi giorni la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum sull’eutanasia attiva, richiesto dall’associazione “Luca Coscioni” tramite una raccolta di firme.

Il tema dell’eutanasia – letteralmente “buona morte” – è da sempre divisivo: se da una parte c’è chi sostiene che porre fine alle proprie sofferenze irreversibili sia il diritto di ogni essere umano, altri ritengono che la vita vada comunque tutelata e che il confine tra sostegno al suicidio ed istigazione, seppur implicita, a quest’ultimo sia molto sottile. Ciò si collega con il dato di realtà, fotografato dall’ultimo rapporto Istat, che evidenzia come chi decide di porre fine alla propria vita lo faccia anche senza il benestare dello stato, molto spesso attraverso pratiche violente e dolorose.

Eutanasia, morte e perdita

Facendo un passo indietro – azione che talvolta corrisponde a farne uno in avanti, come per apprezzare meglio certi quadri impressionisti – emerge che a fronte di confronti specifici legati al fine vita, all’eutanasia ed al suicidio assistito, c’è un tema più profondo che rimane in ombra: la morte, e con essa la perdita.

Nonostante sia un’esperienza che tutti conosciamo – nel corso della nostra vita sperimentiamo molte perdite, concrete o simboliche che siano – quello della morte è un aspetto che rimane solitamente al di fuori delle dinamiche collettive, restando confinato nella sfera privata. Proprio questo termine, privato, nella sua duplice lettura di sostantivo e di verbo, è particolarmente esplicativo: chi subisce una perdita, quindi un profondo dolore privato, rischia di essere privato del sostegno di cui ha bisogno.

Fatta eccezione per chi ha la forza di affrontare questo momento di grande difficoltà con il sostegno di uno psicoterapeuta, le altre persone si trovano a gestire da sole – o se si è fortunati con il supporto della propria rete familiare, anch’essa però provata dalla perdita – un momento di profonda crisi, rischiando non solo di non riuscire ad elaborare il lutto, ma anche di non aver consapevolezza di questa mancata elaborazione.

In quest’ottica da alcuni anni le pubblicazioni sull’argomento tendono a definire “lutto complicato” quei quadri caratterizzati dalla mancata risoluzione spontanea delle manifestazioni psicologiche associate alla perdita. Anche il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) ha inserito nell’ultima edizione il “disturbo da lutto persistente complicato” come una delle “condizioni che necessitano di ulteriori studi”, evidenziando somiglianze e differenze cliniche che intercorrono tra esso, la depressione ed il disturbo da stress post-traumatico.

Rispetto ad altre culture o ad epoche passate, la società contemporanea pur raccontando mediaticamente episodi legati alla morte – si pensi alla cronaca giornalistica e televisiva della scomparsa d’importanti personaggi della cultura, dello sport o della politica tramite speciali e dirette tv – tende a non dare altrettanta importanza alla dimensione emotiva e relazionale di tale evento.

Dalla “pornografia della morte” alla morte come tabù

Nell’ articolo “La pornografia della morte” l’antropologo Geoffrey Gorer è stato uno dei primi ad analizzare come nel ‘900 fosse socialmente accetabile parlare di morte ma del tutto sconveniente fare riferimento alla sessualità, basti pensare alle resistenze ed alle aspre critiche che hanno suscitato i lavori di Sigmund Freud, oggi considerato padre della psicoanalisi ma al tempo profondamente osteggiato.

Con il passare degli anni la situazione è progressivamente cambiata: se prima si faceva della morte quotidiana un’esperienza condivisa, come nel caso delle cerimonie funebri pubbliche e partecipate, con il superamento dei valori e della morale imposti nel ‘900 il fenomeno si è progressivamente ridotto e parlare di morte è diventato sconveniente, se non un vero e proprio tabù.

Da quando questo saggio è stato pubblicato la società è inoltre cambiata ulteriormente: il consumismo e la rivoluzione tecnologica (e con essa internet, i social network, i like, l’esposizione costante della propria vita agli amici virtuali) ha sollecitato le persone a mettere in risalto successi e presunta felicità, ponendo sempre più in ombra – non solo agli occhi del mondo ma anche ai propri – tutto quel che provoca dolore, spavento o vergogna. Si mostra il proprio lato patinato, impreziosito dall’ultimo status symbol, e si nascondono quegli aspetti di noi stessi che riteniamo essere più brutti o fragili.

Come tutti ricordano lo shock per l’attacco in diretta alle torri gemelle nel 2001, in pochi sono rimasti impassibili alla triste processione delle bare dei morti per Covid trasportate dai camion militari a Bergamo nel 2020. L’esposizione ad un evento così doloroso, più del funerale di stato di qualunque personalità pubblica, ha infranto un tabù collettivo molto profondo e delicato: in quelle bare non c’era Steve Jobs o Diana Spencer, c’eravamo noi. Noi che siamo abituati alla morte raccontata in tv come narrazione dell’altro – del famoso o del delitto di cronaca – non associata a quella normalità che ci contiene, attraversa e rappresenta.

Il tabù della morte e la riflessione sull’eutanasia: quale il ruolo dell’empatia?

Ed è in questo contesto, con l’aumento dei disturbi legati ad ansia e depressione certificato da numerosi studi (si pensi a quello pubblicato su The Lancet nel 2021), che le persone sono state sollecitate ad una riflessione legata all’eutanasia, cioè ad esseri umani che scelgono consapevolmente di morire. Quanto tutto ciò si presta a narrazioni che, invece di sollecitare una riflessione sulla dignità della vita, fanno leva su di un più generico valore assoluto di quest’ultima, favorendo il giudizio più dell’empatia?

Ultimamente di empatia si parla spesso ed è un bene perché può rappresentare una chiave fondamentale per entrare in relazione con l’altro. Quel che però non si dice altrettanto spesso è che l’empatia non è una chiave che si compra bella e pronta dal ferramenta, ma uno strumento che limiamo noi stessi, giorno dopo giorno, magari alla luce di tutte le altre chiavi che abbiamo costruito nel tempo. La vera empatia passa tramite un modo nuovo, autentico e talvolta difficile, di partecipare all’esperienza del prossimo attraverso la propria esperienza personale, cercando nel proprio vissuto quanto più di simile a quel che l’altro sta provando. Citando lo psicoanalista Stephen Mitchell “c’è una differenza enorme tra la falsa empatia, superficiale ed artefatta, e l’empatia autentica, a cui si arriva attraverso falsi indizi, incomprensioni, ed un profondo lavoro personale da parte di entrambi” i soggetti che partecipano alla relazione.

Lo psicoanalista Heinz Kohut ha definito l’empatia “introspezione vicariante”, se non è possibile entrare direttamente nel mondo interiore dell’altro per sperimentale i suoi stati mentali – positivi o negativi che siano – visto che ognuno ha accesso solamente al proprio mondo interno, è possibile prestare agli altri la propria capacità introspettiva.

In tal senso prestare attenzione in modo empatico alla sofferenza altrui non significa solo dire “mi dispiace”, quanto cercare di ricordare esperienze proprie analoghe a quelle che l’altro sta provando, che suscitino in noi una risposta emotiva in cui possa risuonare l’esperienza altrui.

Esprimere un parere o prendere posizione – qualunque essa sia – su di un tema che riguarda una dimensione talmente profonda come quella del fine vita o del lutto senza aver prima fatto questo lavoro intersoggettivo, significa non entrare in quella giusta risonanza empatica che può illuminare il nostro sentire, soprattutto in una società che – non parlando di morte – può implicitamente suggerire che si tratti di una questione di cui vergognarsi.

La realtà, le relazioni, non ci arrivano solo attraverso i nostri sensi, ma anche tramite quest’introspezione che caratterizza il lavoro del professionista ma può rappresentare un modello utile a chiunque voglia empatizzare con il prossimo. Citando nuovamente Mitchell “il ponte che mette in relazione con gli altri non è fatto di una razionalità che prende il posto della fantasia e dell’immaginazione, ma di sentimenti vissuti come reali, autentici, generati dall’interno, piuttosto che imposti dall’esterno, in stretta relazione con la fantasia e l’immaginazione“.

 

 

Etica dell’intelligenza artificiale (2022) di L. Floridi – Recensione

Che cos’è l’Intelligenza Artificiale? Come funziona e come opera? Ha senso parlare di etica delle tecnologie? Cosa ci prospetta il futuro? Queste sono solo alcune delle domande che tutti noi ci poniamo e che trovano risposta nel libro Etica dell’intelligenza artificiale del Professor Luciano Floridi.

 

La tecnologia ci circonda e noi ne siamo dipendenti. Ogni giorno interagiamo con essa e lo facciamo secondo diversi strumenti e modalità. Oggi sembra una cosa normale, la tecnologia fa parte a tutti gli effetti della nostra vita e ci risulta difficile immaginare l’opposto.

Se dovessimo fare la maggior parte delle cose senza l’aiuto della tecnologia, probabilmente ci sentiremmo smarriti, o meglio, non saremmo più in grado di farle. In questo modo l’autore evidenzia e chiarifica che è il mondo a essersi adattato alla tecnologia e non l’inverso, come si potrebbe pensare inizialmente.

Ciò viene spiegato in maniera molto dettagliata e precisa nel libro Etica dell’Intelligenza Artificiale di Floridi, composto da due parti.

La prima parte è denominata Comprendere l’Intelligenza Artificiale. In essa la storia dell’evoluzione tecnologica è ripercorsa in tre capitoli, partendo dalle origini della rivoluzione digitale, con l’importante trasformazione da mondo analogico a digitale, per passare allo stato attuale in cui si analizzano le numerose definizioni esistenti di Intelligenza Artificiale (IA), mettendo in evidenza il concetto di IA come controfattuale. In questo frangente, in cui viene spiegata la differenza tra cervello e computer, ci viene poi regalata una fotografia di quanta “intelligenza” c’è nel digitale e viene enunciato un pilastro fondamentale: il “divorzio” tra capacità di svolgere i compiti con successo in ottica di uno specifico scopo e l’esigenza di essere intelligenti nel farlo. Infine, vi è uno sguardo dedicato al futuro, alle prospettive e ai possibili sviluppi legati all’IA che dovranno essere affrontati. Questo con una particolare attenzione sulla direzione che sta intraprendendo l’IA e sul tracciare la mappa delle sfide etiche che andrebbero considerate.

La seconda parte è Valutare l’Intelligenza Artificiale. In questi undici capitoli l’autore analizza parecchie tematiche, come per esempio la quantità di principi etici esistenti per disciplinare l’IA e la conseguente identificazione di cinque principi fondamentali e dei criteri base che essi soddisfano. Naturalmente l’autore completa il quadro relativo ai principi tramite l’evidenziazione dei rischi di comportamento contrari all’etica, i quali sono tutti individuabili ed evitabili attuando un approccio preventivo.

Per le persone più curiose e che hanno poche conoscenze tecniche come il sottoscritto, una parte davvero fondamentale ed interessante del libro l’ho trovata nei due capitoli dedicati rispettivamente alle cattive e buone pratiche dell’uso dell’IA. Si passa dallo studio dei crimini di IA, intesi come tutte le tecnologie dell’IA che agevolano gli atti criminali, all’IA sfruttato per il bene sociale.

Altro aspetto di particolare interesse è la netta esclusione di una possibile elaborazione di scenari fantascientifici che vengono accantonati tramite argomentazioni ed esempi e quindi bollati come “fuorvianti” e “irresponsabili”. Da qui il focus su problemi reali a cui dobbiamo dare il massimo impegno: il cambiamento climatico e il conseguente utilizzo dell’IA per modellare gli eventi connessi ad esso. Qui si capisce l’importanza di aver sviluppato e di essere in grado di governare eticamente l’IA.

In conclusione, questo libro ha il pregio di essere un “manuale accademico” sull’Intelligenza Artificiale in grado di restituire al lettore una narrazione storica della tematica (fondamentale per capire e contestualizzare), una fotografia dello stato attuale e una visione sul futuro del mondo tecnologico, analizzando e spiegando nel dettaglio i contenuti, tramite anche esempi concreti.

 

Paura del giudizio e bassa autostima nella solitudine in adolescenza

Lo studio di Geukens e colleghi (2022) ha studiato la solitudine durante l’adolescenza, con l’intento specifico di testare se i cambiamenti nei livelli di solitudine avvengono in concomitanza con cambiamenti della paura del giudizio negativo e dell’autostima.

 

Il costrutto di solitudine

La solitudine è considerata uno stato soggettivo negativo in cui le persone si sentono insoddisfatte delle loro relazioni sociali, considerando la propria rete sociale limitata o sperimentando una bassa qualità delle relazioni (Peplau & Perlman, 1982). Nonostante possa essere sperimentata a tutte le età, gli adolescenti sono a maggior rischio, perché durante questo periodo di vita si va incontro a drastici cambiamenti nella propria rete sociale tra l’indipendenza dalle figure genitoriali e un maggiore avvicinamento ai coetanei (Goossens, 2018). In generale, la solitudine raggiunge un picco all’età di 13 anni e diminuisce successivamente per tutta l’adolescenza (Qualter et al., 2013).

Sebbene la solitudine sia di per sé un’esperienza negativa, la teoria evolutiva della solitudine (Cacioppo & Cacioppo, 2018) sottolinea che essa sottintende anche aspetti positivi, dal momento in cui ci spinge a riconnetterci con altri significativi. In altre parole, l’esperienza della solitudine mette in moto diversi processi, chiamati anche moti di ri-affiliazione, che aiutano le persone a riconnettersi con gli altri e, di conseguenza, a ridurre i loro sentimenti di solitudine. Tuttavia, non tutte le persone che provano solitudine sembrano essere in grado di riconnettersi con gli altri (Qualter et al., 2013). È proprio la solitudine prolungata a mostrare collegamenti con diversi esiti negativi per la salute fisica e mentale (Heinrich & Gullone, 2006) come ad esempio la depressione (Qualter et al., 2010).

È stato ipotizzato che le interpretazioni negative delle informazioni sociali e le cognizioni disfunzionali, come ad esempio una bassa autostima e una maggiore paura del giudizio negativo, potrebbero ostacolare il processo di riconnessione (Spithoven et al., 2017; Qualter et al., 2015).

La paura del giudizio negativo è la paura che gli individui hanno di essere valutati negativamente dagli altri in situazioni sociali (Leary, 1983). Durante l’adolescenza, la paura della valutazione negativa tende ad aumentare (Nelemans et al., 2019). Quando si teme un giudizio negativo, si potrebbe essere reticenti nel fare passi per riconnettersi con gli altri e si potrebbe rimanere soli nel tempo. All’aumentare di questa paura, aumenterebbe anche la solitudine. Al contrario, quando non si ha paura delle valutazioni negative da parte degli altri, si potrebbe essere più audaci nel riconnettersi con altre persone.

L’autostima è invece considerata “la valutazione soggettiva di un individuo del suo valore come persona” (Donnellan & Trzesniewski, 2011, p. 718). In adolescenza, una solitudine più pronunciata è associata a una minore autostima (Heinrich & Gullone, 2006). Quando si ha una bassa autostima, si potrebbe non avere il coraggio di prendere provvedimenti per ristabilire legami con gli altri e si potrebbe rimanere soli nel tempo. Al contrario, quando si ha un’autostima più alta, si potrebbe essere più audaci in queste situazioni.

Uno studio su solitudine, paura del giudizio ed autostima

Uno studio di Geukens e colleghi (2022) ha studiato la solitudine e il suo sviluppo durante l’adolescenza, con l’intento specifico di testare se i cambiamenti nei livelli di solitudine avvengono in concomitanza con cambiamenti della paura del giudizio negativo e dell’autostima.

I risultati ottenuti hanno dimostrato che, in linea con le aspettative degli autori, i livelli iniziali di solitudine erano positivamente associati ai livelli iniziali di paura di una valutazione o di un giudizio negativo. Inoltre, all’aumentare della solitudine, è aumentata anche la paura della valutazione negativa. Gli stessi risultati sono stati ottenuti per l’autostima; i livelli iniziali di solitudine e autostima erano associati negativamente. Gli adolescenti i cui sentimenti di solitudine sono aumentati, hanno mostrato una diminuzione dell’autostima nel tempo e viceversa.

Nel complesso, i tre costrutti erano fortemente correlati tra loro; questo potrebbe sollevare domande riguardo alla distinguibilità della solitudine dalla paura della valutazione negativa e dalla bassa autostima. Tuttavia, una ricerca precedente ha dimostrato che la paura del giudizio negativo e la solitudine sono costrutti correlati ma distinti (Danneel et al., 2019). Per l’autostima e la solitudine, tuttavia, non sono disponibili ricerche di questo tipo. La distinzione tra solitudine e bassa autostima potrebbe essere una strada interessante per la ricerca futura.

Lo studio in questione ha anche mostrato una leggera diminuzione della solitudine durante l’adolescenza, in linea con le ricerche precedenti sullo sviluppo della solitudine (ad esempio, Qualter et al., 2013). Nel complesso però, i cambiamenti della solitudine nel tempo sembrano essere piuttosto lievi, suggerendo che, durante l’adolescenza, la solitudine rimane relativamente stabile. Allo stesso modo, anche la paura della valutazione negativa e l’autostima sembrano rimanere piuttosto stabili nel tempo.

Conclusioni

In conclusione, i risultati ottenuti sono in linea con la teoria evolutiva della solitudine che suggerisce che gli individui soli sono soggetti a cognizioni negative e disfunzionali (Cacioppo & Cacioppo, 2018). La paura di un giudizio negativo e l’autostima potrebbero giocare un ruolo nello sviluppo e nel mantenimento della solitudine nell’adolescenza. Quando si teme un giudizio negativo da parte degli altri o si ha una bassa autostima, l’ambiente sociale è percepito come più minaccioso. Questa minaccia percepita potrebbe impedire agli individui che si sentono soli di riconnettersi con gli altri. In questo modo, l’adolescente può rimanere bloccato in un circolo vizioso di solitudine e cognizioni disfunzionali.

Nel trattare la solitudine, i professionisti spesso si concentrano sul miglioramento delle abilità sociali e sull’ampliamento della rete sociale. Tuttavia, come già indicato dal lavoro precedente con gli adulti, gli interventi che si concentrano sui pregiudizi cognitivi sono più efficaci per affrontare la solitudine (Masi et al., 2011). Implementare l’autostima potrebbe essere un ulteriore spunto di lavoro utile per trattare questo problema tra gli adolescenti.

 

Abuso di sostanze in adolescenza – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Abuso di sostanze in adolescenza: alla ricerca di emozioni forti per star bene.

 

L’adolescenza è un momento fondamentale per lo sviluppo della capacità di regolazione emotiva: studi su individui con sviluppo tipico suggeriscono un’efficacia limitata delle strategie di regolamentazione interna nella prima adolescenza, spostandosi verso un maggiore uso di strategie adattive e un minor uso di strategie disadattive con l’età. Questo sviluppo coincide con i cambiamenti nell’ambiente sociale e nella struttura del cervello. Il comportamento di assunzione che porta alla dipendenza è sostenuto da uno stato che viene definito di vulnerabilità, che a sua volta viene condizionato da fattori biologici, sociali e psichici. La disponibilità delle sostanze dipende invece da fattori ambientali, ma anche dalla cultura e dai rituali sociali più o meno propensi all’uso.

L’incontro di questi due fattori può portare a comportamenti reiterati nel tempo che legano l’individuo alla sostanza per arrivare ad uno stato di dipendenza che può essere considerato una vera e propria malattia. Nell’adolescenza si assiste ad una reattività accentuata agli incentivi ed una immaturità nel controllo degli impulsi, che hanno una base biologica rintracciabile nello sviluppo asincronico dei sistemi limbici di ricompensa rispetto ai sistemi di controllo situati nella corteccia prefrontale. Gli apparenti vantaggi dell’uso di sostanze e dei comportamenti di dipendenza sono le modifiche dell’umore e delle esperienze personali, il rilassamento e il piacere, le strategie per affrontare l’ansia sociale, l’angoscia, la tensione e, soprattutto, la gestione di stati emotivi dolorosi persistenti. Tuttavia, questi cambiamenti rafforzano pesantemente la dipendenza, rappresentando una soluzione temporanea o una strategia di coping continuativa per la gestione dei compiti di sviluppo e innescando così un circolo vizioso che potrebbe avere ripercussioni significative anche in età adulta.

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L’efficacia dei training di memoria per l’anziano sano

I training possono riguardare diverse funzioni, ma, essendo la memoria una delle facoltà che maggiormente si deteriora con l’avanzare dell’età, è stato dato molto spazio ai training di memoria.

 

 È noto che con l’avanzare dell’età il cervello subisca modificazioni in diverse aree cerebrali che si ripercuotono direttamente sulle performance cognitive. Il tema del Cognitive Aging risulta essere molto popolare al giorno d’oggi perché ci stiamo muovendo verso un sempre più consistente invecchiamento della popolazione, quindi esiste una fascia della popolazione in forte crescita che sperimenta questi cambiamenti cognitivi.

Come si modifica la memoria con l’invecchiamento?

La memoria risulta essere una di quelle abilità maggiormente intaccate dal passare degli anni, anche se non in tutti i suoi aspetti: la memoria semantica, così come la componente autobiografica e quella implicita, tendono a rimanere preservate, mentre altre tipologie di memoria come la memoria prospettica, quella episodica e la working memory tendono a declinare. Il declino di queste componenti mnestiche potrebbe essere legato alla minore attivazione che è stata riscontrata in vari studi di neuroimaging in aree come dlPFC (corteccia prefrontale dorsolaterale) e MTL (lobo mediotemporale). Queste aree sono infatti classicamente implicate in codifica e recupero delle informazioni. È però importante rimarcare che questi cambiamenti cognitivi non sono affatto inevitabili, ma negli ultimi decenni sono stati messi a punto tantissimi trattamenti chiamati training che mirano a ridurre questo declino agendo sulla riserva cognitiva dell’anziano sano, in modo tale da ritardarlo sempre di più e da rendere l’anziano autonomo per più tempo possibile.

Cosa sono i training di memoria?

I training possono riguardare diverse funzioni, ma, essendo la memoria una delle facoltà che maggiormente si deteriora, è stato dato molto spazio ai training di memoria, e questi hanno come fondamentali target quelli di codifica e recupero di cui prima si accennava. I training di memoria si basano sull’assunto per cui la cognizione, così come il cervello, sono plastici anche in età avanzata seppure in maniera minore se si fa un paragone con la plasticità posseduta per esempio in adolescenza: il cervello anziano infatti si riorganizza in modo da far fronte al deterioramento cerebrale causato dall’atrofia relata all’età delle strutture. I training di memoria implementano la plasticità facendo utilizzare all’anziano varie strategie (per esempio l’associazione, la categorizzazione, i metodi immaginativi ecc…) per migliorare i processi di codifica e recupero. È necessario spiegare all’anziano prima dell’inizio del training il funzionamento della memoria per rendere sensato ai suoi occhi il lavoro di potenziamento su componenti specifiche. Lo scopo dei training sarebbe quello di indurre gli anziani ad utilizzare delle strategie per stimolare le funzioni cognitive trattate in modo tale da preservarle più a lungo possibile. Questo dovrebbe ripercuotersi anche su un aumento della qualità della vita per cui sarebbe necessaria una generalizzazione degli effetti di tali training. Una componente su cui bisogna inoltre lavorare è la percezione che l’anziano ha della propria memoria oltre che sulla performance oggettiva e, infine, anche sulla trasformazione delle attitudini dell’anziano verso le proprie capacità mnestiche: in altri termini aumentare l’autostima e il senso di autoefficacia dell’anziano lo aiuterebbe a sfruttare al meglio le strategie acquisite. Molto spesso infatti è l’anziano stesso ad avere pregiudizi sul proprio funzionamento mnestico, quindi spiegargli quanto la componente motivazionale può interferire o al contrario supportare il funzionamento di memoria è di primaria importanza.

I training di memoria sono efficaci?

 Nonostante i training di memoria su anziani sani siano un ottimo trattamento non farmacologico per prevenire l’insorgenza di demenze, sembra che non tutti gli studi siano in accordo su alcuni aspetti dell’efficacia dei training e sulla loro utilità sociale. Questo disaccordo in letteratura riguarda soprattutto la generalizzazione dei benefici alla vita quotidiana, la durata, quindi gli effetti a breve e a lungo termine, ma anche la definizione dei destinatari che più possano beneficiare di questi training. Infatti solo recentemente è stata posta attenzione sui fattori prognostici di riuscita dei training come le differenze individuali; per esempio in uno studio di Cavallini et al (2019) ci si è concentrati su quali fossero gli individui più responsivi al training oltre che capire quale specifica componente dell’intervento fosse responsabile del miglioramento della performance dopo il training. Comunque il problema maggiore resta la mancanza di generalizzazione che potrebbe avere diverse cause:

  • potrebbe essere che senza una pratica estesa su materiale specifico e diversificato gli anziani risultino incapaci di applicare le nuove strategie acquisite a materiale non direttamente trattato;
  • oppure potrebbe essere che gli anziani non sappiano che le nuove tecniche mnemoniche apprese possono e potrebbero essere applicate all’apprendimento di materiale non trattato durante il training.

In sostanza però si può affermare che i training di memoria per l’anziano sano sembrano avere un’efficacia significativa, dato documentato da vari studi nella letteratura recente (Butler, 2018; Hudes, 2019; Zimmermann, 2016). Fra tutti sembra che i più efficaci siano i training che forniscono un più alto numero di strategie, forse perché in tal modo è più facile che l’anziano abbia la possibilità di scegliere quale strategia è per lui più adeguata e la internalizzi per poi utilizzarla nella vita quotidiana. I training effettivamente potenziano il funzionamento mnestico, anche se questo miglioramento sembra essere limitato nella maggior parte degli studi al dominio trattato, ma si ha comunque un miglioramento nell’autoefficacia percepita o nel benessere psicologico. Alcuni studi hanno sollevato il problema delle differenze individuali, che dovrebbero essere tenute in considerazione perché si possano strutturare training con adeguata richiesta cognitiva, infatti adattare i training ai profili individuali sembra essere un predittore della riuscita degli stessi. Alla luce di ciò sarebbe interessante costruire training di memoria individualizzati e valutarne l’efficacia. Sarebbe anche utile sfatare i pregiudizi sul declino della memoria che sembrano essere ancora radicati per incentivare l’adesione degli anziani ai training di memoria. La principale criticità resta certamente la generalizzazione, perché sembra che la maggior parte dei soggetti trattati, anche se acquisiscono le strategie durante il training, non le utilizzino nella quotidianità. Questo forse potrebbe dipendere dal fatto che molto spesso le strategie acquisite con tali interventi sono estremamente specifiche e limitate al materiale trattato. La promozione attiva nel corso dei training della generalizzazione a vari aspetti della vita quotidiana potrebbe essere una soluzione, quindi una buona prospettiva futura è quella di capire in che modo rendere le strategie trattate nei training il più ecologiche e generalizzabili possibile.

 

Tre caratteri (2022) di Christopher Bollas – Recensione del libro

La chiave di lettura di Bollas in Tre caratteri, sta nel far arrivare il messaggio che “non esistono due borderline, due maniaco- depressivi e due narcisisti uguali”, ponendosi pertanto in una posizione che miri ad allentare la tendenza di molti clinici a patologizzare ai limiti della disumanizzazione del paziente.

 

La radice di tutti i disturbi del carattere è il dolore mentale e il vantaggio rappresentato da ogni struttura caratteriale consiste nel fatto che la sua ripetitività rende individuabile la sofferenza della persona (Bollas, 2022).

Questa è una delle parti introduttive del testo di Bollas, in cui l’autore sottolinea la peculiarità, nonché il “particolare” a detta di Recalcati, di ogni struttura di personalità, non trascurando il continuum dimensionale nel livello di funzionamento della persona. Ciascun disturbo del carattere, scrive Bollas, preclude la fecondità ricettiva e disseminativa della personalità e ne consegue, quindi, quanto nella relazione d’aiuto sia importante che il clinico/terapeuta, si permetta di entrare in risonanza con quelle che sono le strategie utilizzate dal paziente. In quelle strategie, in quel modo di stare con se stesso e con gli altri che il paziente riporta, c’è molto di una dimensione esistenziale connessa alla sopravvivenza ed emerge quindi un tentativo “intelligente” di trovare una soluzione ad un’angoscia esistenziale intollerabile. In questo processo quindi, che si ricollega alla “coazione a ripetere” esposta da Freud (1920), ci sono anche delle risorse. Se pertanto il clinico permette a se stesso e al paziente di stare nel processo, in una dinamica di “attenzione fluttuante”, di tollerare l’assenza di un’interpretazione da riferire al paziente e quindi di accogliere i propri stati e gli stati della mente del soggetto per come si presentano nel “qui e ora della relazione”, incentiva anche la possibilità di coltivare quelli che Winnicott definisce “spazi potenziali”. Viene colta in questo la “specifica intelligenza e configurazione del soggetto”, che, a detta di Bollas, viene incoraggiato a “farne uso” nell’imprevedibilità e nell’ingovernabilità che l’esperienza umana porta con sé. Bollas scrive:

Cogliere la specifica intelligenza e aiutare l’analizzando a comprenderla, è ciò che permette un naturale processo di disintossicazione.

Nello specifico, l’autore, fa riferimento a tre caratteri: il narcisista, il borderline e il maniaco-depressivo. Queste strutture di personalità risultano già ampiamente analizzate e discusse nella letteratura psicoanalitica e quindi, come evidenziato dall’autore, prendono in considerazione elementi scelti dai saggi di clinici come Kohut, Kernberg, Winnicott ecc.. Purtuttavia, la chiave di lettura di Bollas, sta proprio nel far arrivare il messaggio che “non esistono due borderline, due maniaco- depressivi e due narcisisti uguali”, ponendosi pertanto in una posizione che miri ad allentare la tendenza di molti clinici a patologizzare ai limiti della disumanizzazione del paziente. In ciò, danno al soggetto l’incentivo a porsi come “vittima delle circostanze” e quindi a fuggire il cambiamento psichico e qualunque esperienza di trasformazione. Ma andiamo per ordine.

Tre caratteri: la struttura narcisistica

La prima configurazione caratteriale presentata da Bollas è quella narcisistica. Caratteristica centrale dell’universo narcisistico è l’immagine di sé e la richiesta di attenzione con cui il narcisista pressa l’altro al fine di alimentare un’omeostasi di idealizzazioni contingenti. Bollas, in questo, fa riferimento al “contratto narcisistico”, in cui l’idea prevalente alla base della sopravvivenza sta nell’introdurre l’altro in una realtà creata da lui, e in cui possono emergere credenze che si estrinsecano in: “Ti incoraggio ad esaltare te stesso; tu fai lo stesso con me; insieme offriamo un servizio agli altri”. È questo ciò che può essere definito un innesto relazionale rassicurante e che porta con sé un senso di trionfo sulla realtà, in cui il sé grandioso e l’invulnerabilità emergono all’insegna di quello che Recalcati definisce “fantasma sacrificale” e di un vuoto, come esito di un sé considerato più affidabile rispetto all’altro e quindi di isolamento psichico. Di fatto, ciò che emerge, secondo Bollas, è l’assenza di una struttura interna, compensata dalla costruzione di un sé ideale. Non vi è quindi la possibilità di un abbondante nutrimento interno e ciò promuove un’intensificazione dell’avidità, in cui il sé risulta fagocitato in un senso di insoddisfazione senza soluzione di continuità. Il contatto con l’altro, con la realtà, viene costantemente svuotato di possibilità trasformative. Il narcisista non può coinvolgersi autenticamente con l’altro, non può darsi il permesso di sentirsi reale e quindi vulnerabile. In un contesto terapeutico, egli può essere vissuto come un ascoltatore attento ma, di base, ogni commento positivo rivolto dal terapeuta, viene consumato rapidamente e non per essere elaborato e trasformato come punto di partenza per un pensiero ulteriore, ma per essere ingerito. Quindi, scrive Bollas, egli funziona nella posizione Bioniana -k, in cui gli stimoli in entrata rimangono grezzi. Ciò implicherebbe il cedere ad una dimensione di affidabilità e dipendenza, insita in ogni rapporto sano e che, in questo caso, è stato perlopiù vissuta all’insegna delle aspettative degli altri significativi e delle possibili ricompense, in un circolo vizioso fondato su un insostenibile bisogno di riconoscimento e ammirazione. Kohut, in merito, scrive:

Essendo questi individui, minacciati nel mantenimento di un sé integrato, perché nella loro infanzia sono mancate adeguate risposte di conferma (rispecchiamento) da parte dell’ambiente, si sono rivolti alla stimolazione del sé per conservare la coesione precaria del loro sé che sperimenta e agisce”.

Il bambino quindi dà inizio alla propria linea di sviluppo narcisistico, in cui il sé diventa il legislatore di sé stesso. Il terapeuta può spesso fare esperienza di un intenso stato di annullamento, l’impressione di essere “tagliato fuori”. Ciò mira a costringere l’analista nel fare ammenda e dare spazio pertanto ad una violenta rivendicazione di “innocenza”. Per esempio, il soggetto può uscirsene con affermazioni del tipo: “Non so davvero di cosa stia parlando”. Ciò che il terapeuta dice, va a collidere con il legislatore interno, il quale, però, non va confuso con una struttura super-egoica rigida, ma invece rispecchia proprio un’assenza di struttura, un sé ideale, un oggetto/sé grandioso-onnipotente a detta di Kohut, il grande Altro a detta di Recalcati. Questo legislatore interno, nega l’esistenza dell’altro, allo scopo di annientare l’ordine materno fagocitante e tuttavia di mantenere un sé potenziale incontaminato. Emerge quindi la mancanza nella possibilità di coltivare in maniera sana quelli che Winnicott definisce “fenomeni transizionali”. In particolare, egli fa riferimento a delle aree intermedie di esperienza tra l’esperienza interna e l’esterno. Relazioni “sufficientemente buone” con i caregiver, in cui, inizialmente quest’ultimo si adatta in maniera quasi perfetta ai bisogni del bambino, per poi dare spazio graduale al raggiungimento di un equilibrio tra esperienze di “illusione e delusione”, portando l’individuo ad acquisire un “senso di sicurezza nel cambiamento” e quindi a fare esperienza della frustrazione come uno “stato mentale” con dei limiti temporali. Il caregiver dà al bambino la possibilità di illudersi, fin quando non sarà possibile che cominci a svilupparsi la capacità di una relazione con la realtà esterna. Winnicott scrive: “La madre colloca il seno, laddove il bambino è pronto a crearlo” (Winnicott, 1965). Questo evidenzia come, senza sufficienti occasioni di illusione, di onnipotenza, di contingenza quasi perfetta, non ci possa essere per l’essere umano alcun significato o, per meglio dire, nessuna possibilità trasformativa che derivi dall’incontro con la realtà esterna. Le aree intermedie di esperienza, se coltivate con continuità durante il percorso di vita, costituiscono la base per la creatività e per incontrare l’altro su un piano umano. Ora, secondo Bollas, il bisogno del narcisista di essere rispecchiato, si estrinseca in quello che Winnicott definisce “madre ambiente” e quindi in tutta una serie di oggetti che permettono di mantenere l’omeostasi rassicurante di una realtà creata da lui. Emerge quindi la fantasia di “autocreazione” come trionfo, ma in questa “autocreazione”, in questo nutrimento autoerotico, si percepisce chiaramente, secondo Bollas, “l’impossibilità di creare”. L’autore lo sottolinea in merito a quello che lui definisce “narcisismo negativo”. La distruzione, per lui, rappresenta un’alternativa alla vita creativa, fornendo nondimeno un sentimento di potere compensatorio a ciò che non vi è stato. È in questa condizione che si può cogliere in modo particolare la tirannia del legislatore, o come Bollas lo definisce con un linguaggio a mio parere alquanto evocativo, “Il leader mafioso”. In questa configurazione narcisistica negativa, il soggetto scinde gli aspetti amorevoli di sé con quelli che si comportano come una gang guidata da un mafioso. Egli reperisce il nutrimento nell’onnipotenza della distruttività, nell’odio, dinamiche che spesso emergono nel fondamentalismo e che può portare a dimensioni deliranti. Il soggetto, in questo caso, si identifica con un grande altro, secondo Yalom, un salvatore ultimo con il quale sancire una dimensione contrattuale che gli consenta di salvaguardare la propria innocenza. Infatti, in questo può impegnarsi in azioni missionarie, guidato da quella che nel testo viene definita “autorizzazione alla confessione”, in cui può sembrare che stia empatizzando e comunicando con gli altri in maniera autentica, ma in realtà si sta occupando di ripristinare l’idealizzazione. È un dare, un debito verso l’altro che in realtà contiene l’aspettativa di ricompensa e credito, di accumulare punti per un’immagine di sé incontaminata e che lo esoneri completamente da un senso di responsabilità verso la propria vita. Ovviamente, in tutto questo, ciò che prende rilievo, è una componente di “vita non vissuta” che non può essere tollerata, e quindi viene negata. Tuttavia, secondo Bollas, ad un certo punto dell’esistenza del narcisista, emerge una profonda angoscia esistenziale, che può portare l’individuo a sperimentare uno stato depressivo di rilevanza clinica non indifferente. L’individuo semplicemente interrompe ogni modalità di funzionamento: si mette a letto, guarda la tv e parla a monosillabi. Cosa sta avvenendo? Egli comincia a sentire che la vita non ha significato e inizia un incontro con la realtà della morte. Questo, per Bollas, rappresenta il ritorno dell’ucciso.

Ma cosa lo spinge a chiedere la terapia? In genere, è proprio l’emergere della dimensione depressiva e di deterioramento somatico, che lo porta a chiedere aiuto e che in alcuni casi può manifestarsi in una depressione psicotica. Di fondo, dopo decenni di diniego della realtà mentale e del dolore annesso, il narcisista ha imparato automaticamente a funzionare soltanto all’insegna del sé grandioso, soffocando pertanto le parti non psicotiche della propria struttura di personalità e sviluppando quindi una soglia di attivazione più bassa al funzionamento psicotico. Insomma, in parole semplici, non ha avuto possibilità di coltivare altri modi di funzionare e stare con se stesso. Pertanto, quella che è stata definita prima come angoscia esistenziale, viene alimentata proprio dal sé grandioso compensatorio, che soffoca l’esplorazione di altre parti del sé. Così, ad un certo punto della vita, queste difese crollano e l’angoscia di morte diventa intollerabile. D’altronde, come afferma Yalom: “Più elevata è la componente di vita non vissuta, più alta è l’angoscia di morte” (Yalom, 1980). Nel testo, vengono presentati alcuni assiomi della logica narcisistica e quello che può, a mio avviso, rappresentare di più il periodo in cui il soggetto abbia maggiore probabilità di chiedere aiuto, è il seguente: “Devo infine sperimentare l’ineluttabilità della scomparsa delle mie illusioni e affrontare il creatore con me stesso come assassino” (Bollas, 2022). Secondo Bollas, per il paziente narcisista, da un punto di vista clinico e terapeutico, risulta di rilevante importanza il concetto di “transfert idealizzante” elaborato da Kohut. Infatti, egli argomenta che, per consentire al paziente di sperimentare un’esperienza di intimità, è importante che la relazione terapeutica offra un’alternativa alla vita delirante. In pratica, sottolinea Bollas, è fondamentale che, nella relazione terapeutica, il paziente venga rispecchiato nelle sue “proteste”. Nel dialogo con Sacha Bollas, nella parte finale del libro, l’autore mette in risalto questo punto, facendo l’esempio di un potenziale paziente che si lamenta degli immigrati e del fatto che egli sia convinto che, a causa loro, la sua propria vita stia andando distrutta. È importante che il terapeuta verbalizzi la protesta del paziente, rispecchiando quindi il suo punto di vista. Così, lo incoraggia anche ad entrare in contatto con altri punti di vista e quindi altre parti di sé. Ciò permette anche di dare “spazio psichico” a quella che si presenta come una convinzione ben radicata e quindi consente anche un processo di mentalizzazione. In poche parole, Bollas aspetta che “il paziente corregga sé stesso”.

Tre caratteri: la struttura borderline

Altra configurazione trattata è la struttura borderline, alla cui base, secondo l’autore, c’è il bisogno di questi soggetti di introdurre il dolore nel sé per appropriarsi dell’ombra dell’oggetto. Egli afferma: “Il borderline amplifica il dolore in un abbraccio frenetico”. In particolare, la mancanza di continuità dell’esperienza del sé e dell’altro, cristallizzata nelle esperienze di attaccamento con caregivers in cui emerge il carico di un’imprevedibilità angosciante. Il soggetto, quindi, vive un senso di sé estremamente confuso e un’altrettanta spinta ad evacuare all’esterno di sé stati della mente in cui l’esperienza della realtà è sopraffatta da un dolore intollerabile. Bollas evidenzia quello che risulta essere il contratto bordeline e, nello specifico, come in questa dinamica emerga il senso di confusione del terapeuta. Emerge un’ossessione dubitativa tra ciò che sia reale o meno con un quesito che esprime abbastanza chiaramente l’angoscia sottostante: “È l’altro a provocare questo dolore oppure il paziente sta proiettando nell’altro il negativo?”. Naturalmente alla base di questa dinamica, c’è l’utilizzo dell’identificazione proiettiva. Bollas parla di un’identificazione proiettiva eviscerativa, per cui il particolare perde la propria identità e che porta il soggetto a non poter riportare i dettagli dell’esperienza con se stesso e con l’altro, ma soltanto degli slogan astratti, delle allegorie (Bollas, 2022). Quindi, alla base di questo contratto, vi è un mondo di “relazioni abortite” basate sulla turbolenza, senza soluzione di continuità, con immagini, sensazioni, emozioni, pensieri guidati da un interruttore, il cui pilota automatico le incastra in compartimenti che non comunicano tra di loro. L’altro viene idealizzato, per poi mutare radicalmente. Il borderline, vive in una sorta di autoannullamento, in un costante stordimento alimentato da una scissione interna e quindi alla ricerca costante di un altro come contenitore di stati mentali intollerabili. Lo spazio della terapia, sottolinea Bollas, in quanto spazio potenziale, può essere vissuto come un buco nero. La cronicità della paura, della rabbia, della vergogna, dell’angoscia, rende per esempio insopportabile l’imprevedibilità delle libere associazioni. A proposito della rabbia, Bollas, fa una distinzione fondamentale tra la rabbia narcisistica e quella borderline. La prima nasconde la paura che l’equilibrio omeostatico del sé grandioso possa venire destabilizzato, e quindi un tentativo di ripristinarlo. La seconda, invece, fa riferimento al fulcro di quello che l’autore definisce “intimità borderline”. Egli scrive: “La rabbia è l’oggetto primario ed egli la intensifica al fine di intensificare la relazione oggettuale”. Questo perché, alla base degli assiomi della logica borderline, secondo Bollas, sta l’affermazione: “Non possiedo un senso originario di chi sono ma possiedo un “me” che si instaura in una reazione ad un altro che arreca disturbo. Reagisco a quello che fai tu” (Bollas, 2022). Altro aspetto fondamentale sottolineato da Bollas, di cui ho accennato all’inizio, è il suggerimento per clinici e terapeuti di non collassare sul deficit. Ciò, non farebbe altro che rinforzare la struttura borderline e l’angoscia di separazione, in una dinamica difensiva che non farebbe altro che proteggere entrambi dalla paura del cambiamento psichico. Un ultimo, a mio avviso, importante aspetto che viene sottolineato da Bollas, a proposito del borderline, riguarda quella che lui definisce “scissione per opera dell’altro”. Il soggetto è stato scisso per opera di un altro caleidoscopico. Il sé diventa quindi uno strano contenitore di compiti casuali, venendo a mancare quindi, quella che Winnicott definisce continuità del sé e pertanto reazioni automatiche ad un altro “disturbante”.

Tre caratteri: la struttura maniaco depressiva

Ultima configurazione presa in esame, è il maniaco depressivo. Caratteristica fenomenologica centrale, evidenziata da Bollas, è che questi individui risultano essere un vulcano di idee. Durante la fase maniacale, questi soggetti, parlano ad una velocità sorprendente e l’autore, durante la propria esperienza terapeutica con loro, permettendosi di ascoltarli liberamente, si rende conto che in realtà essi stiano producendo libere associazioni. Alla base del processo di cambiamento secondo Bollas, vi è quello che lui definisce “rallentamento terapeutico”. Egli si focalizza sulla raccolta della storia del paziente, guidandolo sotto il peso dei ricordi, dinamica che, di per sé, rallenta l’episodio maniacale. Questo sancisce il legame con la quotidianità del soggetto, restituendogli pertanto il contesto della propria mania e il recupero di parti depressive scisse. In questo senso, il terapeuta stesso costituisce un elemento depressivo. Ma quale background contribuisce all’accelerazione maniacale e alla conseguente caduta depressiva con sentimenti di perdita di agentività e distruzione di significato?

Partendo dal presupposto che entrambe costituiscano una sorta di immunizzazione psichica contro il lavoro di insight, il soggetto cresce in un clima di accudimento in cui nessuno lo sta ascoltando perché nessuno ha il tempo di farlo. Allora, in queste condizioni, la mente del bambino accelera ulteriormente per dimostrarsi più interessante. Gradualmente si va intensificando una condizione in cui la trascuratezza da parte delle figure di accudimento porta l’individuo ad attingere a una indispensabile fonte di nutrimento della mente, la quale però viene percepita come abbastanza separata da lui. Nasce quindi una segreta collaborazione tra le menti di autori, musicisti, artisti e la sua mente, il tutto nell’ottica di una fuga da un sé banale, sperimentato con un’impotenza estrema durante la fase depressiva. In questo stato, egli vive un abbandono da parte della mente. Si percepisce come un angelo caduto e quindi vive nell’ombra dell’epoca d’oro della sua mente, nell’inerzia più totale di un ritorno tra i morti viventi. Nello stato maniacale, la mente costituisce il salvatore ultimo e che molto spesso conduce all’identificazione con Dio e alla consegna della sua parola. La ripetuta esperienza di non essere ascoltati, porta ad un’identificazione proiettiva con un sé che non ascolta nessuno. Proprio in relazione all’esperienza di non essere stato ascoltato, emerge uno stato cronico di rabbia, che emerge durante la fase depressiva, che risulta connessa al senso di ingiustizia e tradimento legato al destino depressivo e che è diretta principalmente ai genitori che lui ritiene abbiano soffocato la propria vitalità. Per lui è fondamentale convertire gli altri al proprio modo di vedere il mondo. Il maniaco depressivo quindi mette in atto un continuo processo di suzione dalla propria mente e, in terapia, il terapeuta può sentirsi coinvolto in maniera controtransferale in questa dinamica. Il tutto per fuggire dalle potenzialità trasformative offerte da una “mente differente” e quindi dalla relazione autentica con l’altro. Ma la “mente differente”, e quindi l’esperienza della “separatezza del pensiero del terapeuta”, pur rappresentando un forte elemento depressivo e quindi un incontro con “la morte”, tuttavia rappresenta uno spazio potenziale in cui le libere associazioni smontano il senso di grandiosità e i significati che il paziente presumeva di aver compreso.

Conclusioni

Vorrei terminare la recensione di questo testo sottolineando uno dei temi che a mio parere risulta centrale all’interno dello scritto. Mi riferisco all’incontro con la morte. In tutte le configurazioni caratteriali prese in esame, c’è un quantitativo intenso di “vita non vissuta”. In seduta, è come se il paziente intimasse al terapeuta: “Non azzardarti a riportarmi in vita”. Carotenuto, in merito, riporta il tema dell’individuazione e come la “vita non vissuta”, in realtà contenga la paura di affrontare un altro stadio dell’esistenza, un modo maggiormente consapevole di approcciarsi alla sofferenza e quindi a quel passaggio che equivale alla morte. Carotenuto scrive:

Scegliere di crescere, implica anche un simbolico gesto suicida, una tensione alla trasformazione che il dolore dell’anima rende improcrastinabile (Carotenuto, 1991).

 

Come la gratitudine influenza l’invidia

Diversi risultati in letteratura hanno trovato una correlazione positiva tra invidia e sintomi che indicano una compromissione della salute mentale, con problematiche a livello personale e sociale.

 

Gratitudine ed emozioni

Quando si riceve un regalo o un beneficio personale che non è stato guadagnato, meritato o atteso, a causa delle buone intenzioni di un’altra persona, una tipica risposta emotiva è la gratitudine (Emmons & McCullough, 2003). McCullough e colleghi (2001) hanno tentato di concettualizzare la gratitudine concludendo che quest’ultima svolge la funzione di rinforzo morale: le persone tendono ad essere grate in risposta a benefici che apprezzano e che sono forniti loro intenzionalmente da parte di un benefattore ad un certo costo. Inoltre, tali benefici, per generare maggiore gratitudine devono essere offerti gratuitamente, piuttosto che obbligatoriamente, e implicare quindi gentilezza piuttosto che interesse personale. In aggiunta, la gratitudine prevede un elevato grado di consapevolezza delle cose buone che accadono poiché riconoscere e sentire l’impatto positivo che gli altri hanno sul nostro benessere fornisce una chiara indicazione del valore di determinate relazioni e mostrare gratitudine può aumentare le possibilità che un benefattore agisca di nuovo gentilmente in futuro. Con lo sviluppo della psicologia positiva, la gratitudine ha attirato una significativa attenzione in quanto è un’emozione positiva indotta da esperienze positive (Froh et al., 2011). Gli effetti positivi della gratitudine sono numerosi, tra cui quello di promuovere la felicità e migliorare la salute fisica e mentale (Zhang & Hou, 2010). Inoltre sembra che le persone che sperimentano maggiore gratitudine abbiano la possibilità di concentrarsi su quanto di bello accade nella loro quotidianità e abbiano, di conseguenza, una visione più positiva della vita. Alla luce di ciò, è possibile affermare che una delle principali funzioni della gratitudine è quella di inibire le emozioni negative (Wood et al., 2008).

Che cos’è l’invidia

L’invidia, al contrario, è un’emozione negativa spesso causata da un confronto sociale che provoca comportamenti immorali e si manifesta con senso di inferiorità, ostilità e risentimento (Takahashi et al., 2009). Diversi risultati della letteratura hanno trovato una correlazione positiva tra invidia e sintomi che indicano una compromissione della salute mentale (Xiang et al., 2019), con problematiche a livello personale e sociale. Alcuni studi hanno dimostrato che la gratitudine può influenzare l’invidia, in quanto le persone con alti livelli di gratitudine sono più propense a concentrarsi su ciò che hanno e sperimentano livelli inferiori di invidia; coloro che provano invidia sono invece concentrati nel notare quando gli altri hanno qualcosa che a loro manca. Wood, Joseph e Linley, in uno studio del 2007, hanno esplorato il ruolo della gratitudine di stato, un sentimento emotivo immediato e duraturo prodotto quando le persone ricevono favori. I risultati dello studio mostrano che in situazioni di stress elevato le persone con alti livelli di gratitudine di stato, esprimendo emozioni più positive, sono propense ad utilizzare strategie di coping più funzionali e positive.

Una delle situazioni stressanti menzionate è il confronto con coloro che hanno un ruolo sociale più elevato, il quale spesso può portare a provare invidia. Sembra infatti che in queste occasioni le persone con elevata gratitudine di stato sappiano regolare le emozioni negative e mostrare maggiormente quelle positive, focalizzandosi sulla possibilità che l’altro possa influenzarle positivamente anziché concentrarsi su ciò che l’altro ha più di loro. Inoltre, uno studio di Lv e Zhou (2019), ha mostrato come una maggiore gratitudine possa anche migliorare la propria autovalutazione di base diminuendo l’invidia del confronto sociale. Anche la gratitudine di tratto, che è concettualizzata come un tratto di personalità che apprezza e si concentra sugli aspetti positivi della vita (Wood et al., 2010) sembra avere un’influenza diretta sull’invidia; Fredrickson nel 2004 ha proposto la teoria dell’ampliamento e della costruzione delle emozioni positive secondo la quale il tratto di gratitudine può ampliare le mappe cognitive e aiutare le persone a costruire risorse positive. L’autostima, per esempio, è spesso costruita anche grazie alla gratitudine di tratto che aumenta i giudizi positivi degli individui su sé stessi, sugli altri e sul mondo (Wood et al., 2010). Siccome un danno alla propria autostima può essere considerato anch’esso motivo di invidia verso gli altri, una maggiore autostima può quindi contribuire a ridurre l’invidia situazionale.

Gli effetti della gratitudine sull’invidia

Uno studio di Mao e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di verificare l’effetto inibitorio della gratitudine di stato e della gratitudine di tratto sull’invidia situazionale. Sulla base della teoria del coping e della teoria dell’allargamento e della costruzione delle emozione positive, gli autori hanno ipotizzato che la gratitudine di stato inibisse l’invidia situazionale e che la gratitudine di tratto inibisse l’invidia situazionale attraverso il ruolo di mediazione della gratitudine di stato. 326 studenti universitari hanno completato il Gratitude Questionnaire (GQ-6; McCullough et al., 2002) per misurare i punteggi dei partecipanti sull’intensità, la densità di frequenza e l’ampiezza della gratitudine e la Dispositional Envy Scale (DES; Smith et al., 1999) per misurare la frequenza con cui hanno sperimentato l’invidia nella vita quotidiana. I risultati mostrano una significativa correlazione negativa tra gratitudine e invidia: la gratitudine di stato inibisce l’invidia situazionale; inoltre la gratitudine di stato gioca un ruolo di mediazione parziale tra la gratitudine di tratto e l’invidia situazionale. Come ipotizzato, sembrerebbe quindi che le persone con alti livelli di gratitudine adottino strategie positive nel confronto sociale inibendo emozioni negative come l’invidia e concentrandosi su ciò che i coetanei di successo possono dare loro piuttosto che su quello che non hanno. Lo studio fornisce quindi alcune indicazioni sull’importanza dell’educare i ragazzi a coltivare la gratitudine in quanto può facilitare una più rapida integrazione nella società adulta, aiuta ad affrontare situazioni stressanti e accresce la capacità di risolvere problemi e inibire emozioni negative come l’invidia (Froh et al., 2010).

 

Il caregiver – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia.

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il terzo episodio del podcast dedicato alla figura del caregiver. Ospite dell’incontro: il Dott. Guido Edoardo D’Aniello.

Dove ascoltare il terzo episodio:

 

 

Attaccamento prenatale: agli albori della vita

A seguito della maggiore attenzione prestata al mondo della perinatalità, ha iniziato a farsi strada il concetto di attaccamento prenatale quale investimento mentale, affettivo e fisico della coppia nei confronti del nascituro già durante i nove mesi che precedono la nascita. 

 

Una definizione di attaccamento prenatale

Uno dei primi autori a fornire una definizione di attaccamento prenatale è stato Cranley, il quale lo definì come “la misura in cui ogni madre si impegna a mettere in atto comportamenti interattivi finalizzati alla creazione di un legame con il suo bambino non ancora nato” (Rollè, Giordano, Santoniccolo, Trombetta; 2020). Successivamente, Leifer identificò una serie di indicatori del costrutto, tra cui parlare con il feto, chiamarlo per nome o dargli un soprannome. Winnicott, invece, parlò di Preoccupazione Materna Primaria quale tendenza della madre ad identificarsi inconsciamente con il feto (Mcbride; 2018), verso il quale investe intense fantasie, attenzioni, pensieri.

La sensibilità e l’affetto materno/paterno, dunque, possono avere origine ancor prima che un bambino venga al mondo: già durante la fase della gestazione, è possibile creare una relazione calorosa con il proprio figlio. L’attaccamento prenatale si propone come costrutto bidirezionale, considerati i feedback continui e le influenze dinamiche tra madre/padre/feto, e coinvolge tre elementi principali: cognitivo, emotivo e comportamentale. L’elemento cognitivo si riferisce alla capacità di concettualizzazione astratta del feto come persona, alle rappresentazioni cognitive del feto che possono includere scenari immaginari tra madre/padre e figlio, nonché all’attribuzione, da parte del genitore, di caratteristiche fisiche ed emotive al proprio figlio; quello emotivo indica il legame emozionale con il feto, mentre quello comportamentale include l’interazione con lo stesso.

Attribuire un nome al nascituro, parlargli, fargli ascoltare musica, accarezzare il pancione, leggere un libro al bambino, sono tutte condotte che contribuiscono alla creazione dell’attaccamento prenatale. In particolare, gli ultimi tre mesi di gravidanza sono il momento in cui l’alchimia madre-figlio raggiunge il culmine per la sensibilità fetale (in termini di aspetto emotivo o fisico) alla madre.

Attaccamento prenatale e coinvolgimento genitoriale post-natale

Molti autori sottolineano che bassi livelli di attaccamento prenatale siano associati a bassi livelli di investimento affettivo genitoriale post-natale; di contro, l’investimento affettivo, cognitivo e fisico genitoriale nei confronti del nascituro durante il periodo di gestazione, aiuterebbe a considerare il feto come parte integrante del nucleo familiare e faciliterebbe l’acquisizione dei futuri ruoli di madre e padre. Si pensi all’ultimo trimestre di gravidanza, periodo durante cui il feto inizia a mostrare modelli distinti di riposo e attività che le madri sembrano riconoscere e a cui imparano a rispondere in modo sempre più sincronizzato (Siddiqui,  Hagglof; 2000).

Proprio per questo, la gravidanza è stata identificata come finestra preziosa per la salute materna e fetale, oltre che per l’emergere di determinate componenti chiave per la genitorialità (Sacchi, Mascioscia, Visentin, Simonelli; 2021).

L’attaccamento materno-fetale durante il terzo trimestre di gravidanza sembra essere associato ad un maggior coinvolgimento materno postnatale; di contro, l’assenza di attaccamento prenatale può consentire di identificare quelle donne che probabilmente avranno più difficoltà a stabilire un’interazione ottimale con il proprio figlio (Siddiqui, Hagglof; 2000). Inoltre, l’attaccamento prenatale potrebbe aumentare la messa in atto di pratiche di buona salute da parte delle gestanti (Lindgren; 2001), e ciò è fondamentale sia per la salute materna che del bambino: si pensi all’importanza dell’assunzione di acido folico, fondamentale per la prevenzione dei difetti del tubo neurale (es. spina bifida), e/o ad un regime alimentare corretto, che non preveda, ad esempio, uso di bevande alcoliche. Una dimensione dell’attaccamento prenatale è appunto la tendenza materna ad adottare pratiche di auto-cura (es. dieta sana, stile di vita sano), per il bene proprio e del feto: l’impegno materno in pratiche di salute prenatale positive e comportamenti che trasmettono cura, impegno e interazione con il nascituro, sottolineano l’instaurazione di una relazione prenatale unica (Sacchi, Mascioscia, Visentin, Simonelli; 2021).

Fattori di rischio per un basso attaccamento prenatale

Tra i principali fattori di rischio che potrebbero ostacolare la creazione di un legame precoce madre-padre-feto rientrano: scarsa qualità della relazione di coppia, gravidanza non desiderata, mancanza di supporto sociale, complicazioni durante la gravidanza, depressione e ansia perinatale, età materna e paterna (si pensi alle gravidanze in adolescenza). In modo particolare, la depressione gestazionale può essere un precursore della depressione post-natale e può rendere difficile lo sviluppo di una buona relazione con il proprio bambino: non a caso, i figli di madri depresse sono molto più a rischio di andare incontro a problematiche dello sviluppo rispetto a quelli di madri non depresse (Lindgren; 2001). Un ulteriore fattore di rischio è la gravidanza a rischio, a causa della quale la madre potrebbe evitare di “affezionarsi” al bambino durante il periodo prenatale, e questo a causa dei sentimenti di preoccupazione per il feto che potrebbe non sopravvivere. Il fatto di percepire la gravidanza come minacciosa o potenzialmente dannosa per se stessa, per il feto o per la vita di coppia, può compromettere la capacità materna di svolgere adeguatamente i normali compiti di sviluppo della gravidanza.

In sintesi, l’attaccamento prenatale materno e paterno, che si alimenta gradualmente con il progredire della gravidanza, oltre ad essere un possibile precursore dell’attaccamento postnatale, rappresenta un legame unico tra genitori e figli; perciò, è importante incrementare, attraverso specifici programmi di intervento perinatali rivolti alle future coppie genitoriali, la consapevolezza e la conoscenza di quali siano i benefici di una sana relazione genitore-bambino per l’intero nucleo familiare.

 

Due di cuore (2021) di Silvano Bordignon – Recensione del libro

Due di cuore. Il fascino discreto della relazione racconta la scommessa delle coppie del futuro: l’armonizzazione di due desideri, quello fusionale di una relazione appagante e quello dell’autorealizzazione personale.

 

Dall’attività di relatore in corsi prematrimoniali su tematiche psicologiche e quella di consulente e psicologo presso centri di ascolto per coppie, nasce Due di cuore. Il fascino discreto della relazione, un contributo snello e pratico, che delinea una articolata riflessione sull’universo relazionale, riportando una serie di immagini e metafore consolidate in tre decenni di incontri con centinaia di coppie e persone in sofferenza relazionale.

Il titolo è emblematico perché racconta del tentativo di realizzare un sogno utopico, la scommessa delle coppie del futuro: l’armonizzazione di due desideri, quello fusionale di una relazione appagante, quindi un unico cuore, e quello dell’autorealizzazione personale, quindi due cuori con tempi, spazi, risorse personali e distinte, ognuno con una propria capanna (Bordignon, 2021).

Il libro è strutturato in quattro blocchi che raggruppano immagini simboliche e metafore:

  • Le grandi immagini, nel tentativo di proporre una riflessione sui meccanismi e le difficoltà del passaggio da una vita da single a una vita di coppia;
  • Le istantanee, o piccole metafore, una serie di frammenti che colgono aspetti interessanti della vita di coppia;
  • Coppia e dintorni, che analizza tematiche frequenti nella vita di relazione.
  • Angoli di famiglia, scatti di vita familiare che aprono le porte dell’universo domestico dell’autore, a testimonianza personale dei contenuti proposti (Bordignon, 2021).

Tra le grandi immagini, spicca quella del celebre Fiume Rubicone, legato al condottiero romano Giulio Cesare, come metafora della coppia: le due rive possono rappresentare i due partners, desiderosi di ricongiungersi e arrivare all’altra sponda, tuttavia, l’attrazione e la voglia di stare insieme non sono ingredienti sufficienti. Per realizzare un congiungimento delle due sponde della coppia occorre creare un legame strutturato attraverso una serie di collegamenti che permettano la transizione affettiva, cognitiva e sentimentale da una sponda all’altra, da un cuore all’altro. L’autore propone una serie di metaforici ponti, come il contatto della pelle, che sia un abbraccio o una carezza; lo scambio intellettuale di diversi punti di vista da integrare in una visione molteplice e sfaccettata della vita; la realizzazione personale che giova della presenza di un altro che moltiplica le proprie possibilità, sia a livello di competenze, conoscenze, gusti e hobby, sia attraverso un allargamento delle reti sociali amicali e lavorative; il riconoscimento pubblico nell’essere coppia anche durante appuntamenti sociali come feste e cerimonie; un ponte rafforzativo del sé grazie al quale, all’interno di una relazione sana e di un amore fatto di benevolenza, ci si restituisce reciprocamente un’immagine identitaria positiva dell’altro; il legame-ponte del piacere, esperienza ludica non relegata soltanto all’ambito sessuale; il progetto generativo che crea un ponte indissolubile tra due persone, nella soddisfazione di poter realizzare un’opera così importante con una persona che si ama, che si stima, che si apprezza come genitore dei nostri figli (Bordignon, 2021).

Diversi i frammenti interessanti che accendono i riflettori sulle contraddizioni e peculiarità della vita di coppia. Molte suggestioni, come l’immagine della coppia-fisarmonica, in grado di espandersi nel mondo, facendo il pieno di aria – vita –, per poi ritrovarsi insieme, condensando tutta l’aria aspirata – esperienze, contatti, cultura –  in una comunicazione reciproca, in un dialogo sereno ed armonico; l’idea di coppia, in perenne equilibrio instabile, che rispecchia le dinamiche della bilancia nella gestione del peso all’interno dell’unione (Bordignon, 2021).

Intrigante l’approfondimento etimologico sulla locuzione inglese falling in love, che descrive molto bene cosa significa innamorarsi:

Falling in love dicono gli inglesi, cadere. Innamorarsi è come il cadere dentro la buca della bicicletta, una esperienza spesso improvvisa, inaspettata, non voluta, in una situazione emotiva che ti ammacca, ti coinvolge, ti fa soffrire, ti prende tutto (Due di Cuore, Bordignon, 2021).

Nella sezione Coppia e dintorni, Bordignon tratteggia una serie di ritratti della vita di coppia in virtù della sua collaborazione come psicologo presso un settimanale, specchio dei tempi delle coppie moderne. Le dinamiche più frequenti riguardano la diversa conformazione delle famiglie moderne, esemplificata nell’immagine “un cuore, due capanne”, a simboleggiare l’unione di due famiglie unipersonali che vivono insieme e hanno figli insieme, mantenendo però un proprio reddito, con una gestione economica indipendente, in una rigida separazione dei beni; la difficoltà di vivere, intorno ai sessant’anni, l’esperienza del “nido vuoto” quando i propri figli lasciano casa, e la pensione, per cui risulta necessario reinvestire nella relazione coniugale e nella propria identità (Bordignon, 2021).

Interessante la suggestione linguistica proposta da Bordignon (2021) che evidenzia l’importanza di stimare e apprezzare la persona amata, partendo dall’utilizzo latino del verbo “diligo” per indicare il legame affettivo, termine che ha come primo significato “apprezzo, do valore”.

Infine, in Angoli di famiglia sono riportati alcuni stralci che aprono una finestra sull’ambiente domestico di Bordignon, come il ricordo delle colazioni mattutine in un piccolo appartamento con i suoi tre bambini, l’importanza di mantenere le promesse fatte, considerato dall’autore uno dei “lasciti più preziosi” dei suoi genitori, un patrimonio ideale da tramandare. Inoltre, vieni qui proposto “un piccolo diario personale” dell’esperienza di lockdown, vissuta tra Marzo e Aprile 2020, come coppia e famiglia.

Due di cuore. Il fascino discreto della relazione è un trattato chiaro e incisivo, accessibile a tutti per il linguaggio semplice ed evocativo adottato dall’autore, in grado di offrire molti spunti interessanti a coppie giovani e meno giovani.

 

“Pure il mio oroscopo dice che sono superiore!”: astrologia, personalità ed intelligenza

L’astrologia è così pervasiva nella società occidentale che chiunque stia leggendo quest’articolo probabilmente, almeno una volta nella vita, ha letto il proprio oroscopo.

 

Quasi tutti i principali giornali e riviste pubblicano oroscopi giornalieri o mensili; i siti web di appuntamenti permettono agli utenti di cercare partner romantici in base a presunti segni zodiacali compatibili; e numerose celebrità e programmi televisivi chiedono il consulto di astrologi professionisti. Nonostante la mancanza di supporto scientifico (Allum, 2011), non è chiaro perché questa antica pratica di studiare le posizioni e i movimenti dei corpi celesti, con la convinzione che influenzino il comportamento umano, sia sempre più in auge.

Perché le persone si affidano all’astrologia e all’oroscopo?

Secondo la letteratura, quando le persone si trovano sotto stress o minaccia sono più propense a rivolgersi all’astrologia e ad altre credenze infondate (Grech, 2017). Ricerche precedenti mostrano inoltre una relazione tra crisi di vita personali e credenze nell’astrologia (Lillqvist & Lindeman, 1998). Anche se non vi è consenso su ciò che rende alcune persone più suscettibili di altre alle credenze pseudoscientifiche, i fattori comunemente menzionati sono i tratti di personalità e i bias cognitivi (Bensley et al., 2020). La teoria più accettata riguardo alle differenze individuali è quella dei tratti di personalità Big Five, ovvero apertura, coscienziosità, estroversione, amicalità e nevroticismo (Costa & McCrae, 1992). Oltre le dimensioni dei Big Five, preziose quando si studiano le differenze individuali, esistono i cosiddetti “tratti oscuri” (Kajonius et al., 2015). Tra questi, il narcisismo sembra essere rilevante in relazione alla credenza nell’astrologia a causa della prospettiva focalizzata su di sé che può essere al centro di entrambi i fenomeni. L’intelligenza è altresì comunemente utilizzata negli studi sulle differenze individuali. In particolare, l’apertura ha dimostrato di correlare con le misure di intelligenza (DeYoung et al., 2014) e, in generale, si pensa che l’intelligenza sia negativamente correlata all’accettazione della pseudoscienza (Musch & Ehrenberg, 2002).

Ma i tratti di personalità e l’intelligenza possono predire la credenza nell’astrologia?

Lo studio di Andersson et al. (2021) ha tentato di dare una risposta coinvolgendo 264 partecipanti, mediamente 29enni e principalmente donne (87%).

La batteria di questionari è stata prodotta grazie alla piattaforma Qualtrics e i partecipanti sono stati reclutati tramite passaparola su Facebook. Per indagare la credenza all’astrologia è stato utilizzato il Belief in Astrology Inventory (BAI) di Chico & Lorenzo-Seva (2006). Dei 24 items di cui si compone il BAI, i ricercatori ne hanno selezionati otto per creare una versione breve. Per ogni item i partecipanti erano tenuti ad indicare, su una scala da 1 (fortemente in disaccordo) a 5 (assolutamente d’accordo), quanto sentissero affini le affermazioni elencate. Alla versione breve del BAI, i ricercatori hanno aggiunto un item in cui veniva chiesto “quanto pensi che l’astrologia sia scientificamente provata?”, per creare successivamente la variabile “supporto scientifico”. Per indagare le caratteristiche personologiche è stata utilizzata la IPIP-30 Personality Scale, versione breve derivata dall’IPIP-NEO-120 (Kajonius & Johnson, 2019).

Per misurare la grandiosità narcisistica sono stati utilizzati i 9 items della Short Dark Triad of Personality (SD3-Narcissism) (Persson et al., 2019). L’ultima sezione era composta da rotazioni di immagini 3D (R3D*) tratte dall’International Cognitive Ability Resource (ICAR) (Condon & Revelle, 2014). Il compito consisteva nel mostrare 4 diverse figure con otto possibili risposte per completare ciascuna figura proposta, di cui una sola corretta. La finalità di quest’ultima parte era di indagare l’intelligenza dei partecipanti. Per quanto riguarda i dati anagrafici sono stati richiesti l’età e l’identità di genere.

Astrologia e personalità: i risultati dello studio

Dallo studio è emerso che credere nell’oroscopo ha una forte correlazione con il narcisismo. Infatti, il risultato principale ha mostrato come il narcisismo sia il più grande predittore della fede nell’astrologia. Una possibile spiegazione a questa associazione positiva potrebbe trovarsi nella visione egocentrica del mondo che accomuna narcisisti e amanti dell’oroscopo. Una seconda spiegazione plausibile concerne gli aspetti culturali dei millennial caratterizzati da una forte attenzione nei confronti dell’unicità degli individui, i quali potrebbero contribuire ulteriormente ad una visione egocentrica del mondo e, quindi, riguardare tratti narcisistici. Inoltre, le previsioni astrologiche e gli oroscopi hanno un carattere predittivo connotato da positività, e ciò può attirare la personalità narcisista dacché tali previsioni rafforzano i sentimenti di grandiosità che li caratterizzano. Infatti, i dati raccolti dimostrano che i tratti narcisistici correlano con la convinzione che l’astrologia sia supportata dalla scienza.

Infine, è emersa una correlazione tra intelligenza e credenza nell’astrologia: all’aumentare del livello di intelligenza (Musch & Ehnrenberg, 2002) diminuisce il grado di credenza nell’astrologia.

 

Tratti di personalità associati al consumo eccessivo di alcol

L’esperimento di Satchell e colleghi (2019) si focalizza sui tratti della personalità associati al consumo eccessivo di alcol, per consentire una migliore identificazione dei soggetti a rischio e lo sviluppo di strumenti efficaci per intervenire in modo tempestivo e mirato.

 

Il disturbo da uso di alcol è comune in quanto la prevalenza in un anno, negli Stati Uniti, è stimata intorno al 4,6% negli individui tra i 12 e i 17 anni e all’8,5% negli adulti dai 18 anni in su (APA, 2013). I tassi sono maggiori negli uomini (12,4%) rispetto alle donne (4,9%) e la prevalenza diminuisce nella mezza età, mentre aumenta tra i 18 e i 29 anni (16,2%; APA, 2013).

Consumo di alcol e psicopatia

Nonostante la maggior parte delle ricerche su alcolismo e psicopatia utilizzino campioni forensi e non generali, Hemphill e colleghi (1994) hanno scoperto che la psicopatia clinica è correlata a intossicazione da alcol in giovane età, mentre Sylvers e colleghi (2011) hanno osservato come gli studenti universitari con punteggi elevati nei tratti impulsivi avessero maggiori probabilità di impegnarsi in un consumo intenso e continuativo (Satchell et al., 2019). Lo studio di Kazemi e colleghi (2014), insieme a quello di Read e O’Connor (2006) ha evidenziato come l’impulsività sia un tratto di personalità positivamente correlato al consumo di alcol in un campione di studenti americani.

Le tre dimensioni associate alla psicopatia, ovvero la Meschinità (mancanza di empatia, insensibilità), la Disinibizione (mancanza di autocontrollo, impulsività) e l’Audacia (tolleranza al pericolo, impavidità, bassa ansia) sono state oggetto di studio per comprendere i sintomi internalizzanti e la sintomatologia “nevrotica” (Satchell et al., 2019). L’elevata audacia, ad esempio, sembra essere un fattore protettivo per quelle persone che mostrano distacco emotivo; mentre la disinibizione risulta associata a disturbi internalizzanti (come ansia e depressione), probabilmente dovuti proprio all’insoddisfazione verso la propria condotta disinibita (Oerback et al., 2019). Anker e colleghi (2017) hanno evidenziato come i disturbi internalizzanti siano associati a loro volta all’abuso di alcol; si può ipotizzare quindi come la disinibizione e la disregolazione emotiva nei soggetti psicopatologici trovi soluzione nell’audacia, vista in questo caso come fattore protettivo contro l’abuso di sostanze alcoliche (Satchell et al., 2019).

Possiamo quindi ipotizzare che i disturbi da uso di sostanze possano essere predetti da bassi livelli di audacia e da alti livelli di disinibizione, in quanto sul piano neuroscientifico è stata individuata un’attivazione nel cingolo anteriore e nel giro frontale medio, con un conseguente autocontrollo scarso da parte del soggetto (Satchell et al., 2019).

I tratti di personalità associati al consumo di alcol

L’esperimento di Satchell e colleghi (2019) si focalizza sui tratti della personalità associati al consumo eccessivo di alcol, con il fine di consentire una migliore identificazione dei soggetti a rischio e lo sviluppo di strumenti efficaci per intervenire tempestivamente, in modo maggiormente mirato. Gli autori ipotizzano che due possibili predittori siano i tratti dell’impulsività e dell’ansia. Il campione è composto da 349 partecipanti (di cui 232 donne) reclutati online attraverso la somministrazione di un sondaggio su Qualtrics.

I partecipanti selezionati hanno compilato due questionari per indagare la personalità: il Reinforcement Sensitivity Theory of Personality (RST-PQ; Corr & Cooper, 2016) ha 65 elementi e si focalizza sui tre tratti del sistema comportamentale, cioè “approccio” (BAS), “inibizione comportamentale” (BIS) e “attacco-fuga-freezing” (FFFS). Un alto indice di FFFS indica una maggiore possibilità di recepire informazioni sconosciute come potenzialmente dannose, un indice di BIS elevato è correlato ad una maggiore preoccupazione, ansia, ruminazione e indecisione (avvicinamento e/o evitamento) verso stimoli nuovi nel mondo, infine un’elevata evidenza del tratto BAS suggerisce l’interesse a nuove esperienze, nonché una maggiore reattività a ricompense minime. La Triarchic Psychopathy Personality (TriPM; Patrick, 2010) riporta i tre tratti utili a riflettere la psicopatia, come audacia, meschinità e disinibizione. Tale test, a cui bisogna rispondere affermativamente o negativamente come per l’RST-PQ, è stato precedentemente validato in campioni comunitari, quindi è un questionario adatto al campione di questa ricerca. La percezione delle conseguenze negative derivanti dai comportamenti messi in atto è stata misurata dal Cognitive Appraisal of Risky Events (CARE; Fromme, Katz & Rivet, 1997), mentre il consumo di alcol è stato misurato con l’AUDIT (Saunders et al., 1993).

I risultati dello studio sono in linea con le ipotesi degli autori, in quanto i tratti di impulsività e ansia sono correlati al consumo problematico di alcol: la disinibizione di TriPM e i tratti di personalità ansiosi della RST sono infatti associati a punteggi maggior all’AUDIT e dunque alla scala che misura il consumo di alcol. 

Sebbene gli autori abbiano fatto ulteriore luce sui tratti di personalità legati al consumo di alcol, utili da conoscere a fine diagnostico, preventivo e psicoterapico, future ricerche potrebbero approfondire ulteriormente il legame tra tratti di personalità e consumo di alcol e, magari, estendere l’indagine anche sulla percezione da parte degli individui degli aspetti positivi e negativi legati al bere, ponendo maggiore attenzione sui processi metacognitivi.

Efficacia della terapia metacognitiva per ansia e depressione

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici.

 

Il modello metacognitivo è un modello transdiagnostico che vede il mantenimento di tutta la psicopatologia legato allo stile di pensiero perseverante della CAS (Sindrome Cognitivo-Attentiva), ovvero una particolare modalità di reagire ad alcuni pensieri negativi colti dalla nostra consapevolezza. La CAS si declina in varie forme di pensiero ripetitivo (come rimuginio e ruminazione) e in diversi comportamenti disfunzionali di coping (come evitamento e soppressione del pensiero) che una persona impiega nel tentativo maldestro di gestire pensieri e sentimenti angoscianti.

Terapia Metacognitiva, ansia e depressione

La CAS è ben visibile in chi soffre d’ansia e depressione (ma non solo). I disturbi d’ansia, ad esempio, si distinguono per uno stato di preoccupazione costante ed eccessivo (in durata, intensità e frequenza o in proporzione alle reali conseguenze degli eventi temuti) in risposta a diverse situazioni. Il rimuginio è un elemento centrale del disturbo. Rimuginare significa pensare e ripensare continuamente alle cose negative che potrebbero capitare al fine di prevederle o prevenirle. Tutto ciò porta a irrequietezza, affaticamento, difficoltà di concentrazione e memoria, irritabilità, disturbi del sonno, ecc. Chi soffre d’ansia fatica a controllare i propri pensieri e il proprio rimuginio, non riesce a smettere di pensare agli scenari temuti e a concentrarsi su altro.

Chi soffre di depressione, invece, mostra frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone depresse vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi, gli altri e il proprio futuro. La ruminazione è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva, che si esplicita principalmente in riflessioni sul “perché” del proprio stato. La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013). Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, nonché le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004). La ruminazione quindi si attiva come tentativo di controllo dell’emozione negativa, ma nel tempo tale processo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, abbassando ulteriormente l’umore e aumentando la percezione negativa di se stessi e dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Secondo la Terapia Metacognitiva è dunque il modo con cui un individuo si relaziona ai propri pensieri che sarebbe discriminante in termini psicopatologici e quindi, rispetto alle forme di psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, la Terapia Metacognitiva si focalizza sui processi di pensiero piuttosto che sui contenuti. Obiettivo della Terapia Metacognitiva è dunque aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione.

L’efficacia della Terapia Metacognitiva

Chiarito il quadro teorico del modello metacognitivo, cosa ci dice la ricerca sull’efficacia della Terapia Metacognitiva?

Diversi studi hanno indagato l’efficacia di questo approccio psicoterapico, uno dei più importanti risulta essere lo studio di Normann e colleghi (2014): una meta-analisi condotta su 16 studi (di cui 9 controllati), per un totale di 384 soggetti, che ha valutato l’effetto della Terapia Metacognitiva su ansia e depressione.

La meta-analisi ha messo in luce un’elevata efficacia della Terapia Metacognitiva nel trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia (dato che risulta confermato anche al follow-up). Ma non è tutto: lo studio ha mostrato delle riduzioni sostanziali anche dei sintomi secondari di ansia e depressione, e dei cambiamenti duraturi nelle metacognizioni del paziente. Tale dato supporta la logica teorica della Terapia Metacognitiva, ovvero che le convinzioni e i processi metacognitivi disadattivi mantengono il disagio psicologico e che, attraverso il cambiamento metacognitivo, si può ottenere il cambiamento terapeutico. Ciò suggerisce come la Terapia Metacognitiva abbia un potenziale nel trattamento efficace della psicopatologia da un punto di vista transdiagnostico.

Nello studio in questione sono stati analizzati i livelli di efficacia della Terapia Metacognitiva, comparata ad assenza di trattamento e alla CBT standard. L’effetto maggiore della Terapia Metacognitiva si è riscontrato, come è facile immaginare, nel confronto con l’assenza di trattamento. Ma anche nel confronto con la CBT standard, la Terapia Metacognitiva si è mostrata più efficace, sebbene si sia registrato un effetto più contenuto.

I risultati dello studio di di Normann e colleghi (2014) sono stati confermati anche da una più recente meta-analisi condotta da Normann & Morina (2018), estesa a un numero più ampio di studi (sia controllati che non). Obiettivo dei ricercatori è stato quello di indagare se la Terapia Metacognitiva portasse a dei miglioramenti nei sintomi dei disturbi psicologici, su variabili di esito sia primarie che secondarie, rispetto alle condizioni di controllo. Sono stati analizzati 25 studi sulla Terapia Metacognitiva per una varietà di disturbi psicologici (depressione, disturbo d’ansia generalizzato, PTSD e altro), esaminando complessivamente 780 pazienti adulti.

I risultati hanno confermato l’ipotesi di partenza: la Terapia Metacognitiva sembrerebbe migliorare i sintomi dei disturbi psicologici sulle variabili di esito primarie e secondarie rispetto alle condizioni di controllo. Inoltre i dati raccolti hanno messo in luce l’efficacia della Terapia Metacognitiva nel modificare le metacognizioni disadattive.

Gran parte degli studi esaminati in questa meta-analisi avevano come focus di intervento disturbi d’ansia (PTSD incluso) o depressione. Di conseguenza, i risultati ottenuti da questa meta-analisi sono generalizzabili soprattutto ai quadri ansioso-depressivi. Gli effetti della Terapia Metacognitiva per altri disturbi psicologici (es. dolore cronico, schizofrenia, disturbo di dismorfismo corporeo, disturbo da desiderio iposessuale e disturbo ossessivo compulsivo), sono stati esaminati solo in uno studio tra quelli presenti nella meta-analisi, il quale ha comunque messo in luce risultati molto promettenti.

L’effetto della Terapia Metacognitiva si è mostrato anche in questa meta-analisi superiore alla lista d’attesa e alle condizioni di controllo del trattamento attivo, CBT compresa.

Anche questa meta-analisi, mostrando come la Terapia Metacognitiva sia efficace nell’alleviare i sintomi secondari di ansia e depressione, confermerebbe la teoria secondo cui attraverso la Terapia Metacognitiva si interviene su quei processi transdiagnostici che mantengono la psicopatologia (Wells, 2009). Questa conclusione sembra confermata anche dai dati raccolti al post-trattamento e al follow up dove, ancora una volta, la Terapia Metacognitiva si è mostrata efficace nel produrre cambiamenti duraturi nelle convinzioni e nei processi metacognitivi.

Gli effetti della Terapia Metacognitiva sono stabili nel tempo?

L’efficacia della Terapia Metacognitiva può dirsi dunque stabile nel tempo? Per rispondere a questa domanda, Solem, Wells et al (2021) hanno condotto un importante studio che ha valutato gli effetti della Terapia Metacognitiva (comparati alla CBT) ad un follow-up di 9 anni su pazienti con Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Partendo da un precedente studio di Nordahl e colleghi (Metacognitive therapy versus cognitive–behavioural therapy in adults with generalised anxiety disorder), sono stati analizzati i dati raccolti al follow-up a lungo termine. Nello studio di partenza, la Terapia Metacognitva è risultata associata a tassi di guarigione significativamente più elevati (65%) rispetto alla CBT (38%) e l’effetto della Terapia Metacognitiva si è mantenuto stabile anche al follow-up di 2 anni. Ripartendo da queste conclusioni, Solem e Wells hanno indagato i tassi di recupero e di ricaduta dei partecipanti, i cambiamenti nei loro sintomi e il loro stato diagnostico a distanza di 9 anni.

In particolare sono stati analizzati i possibili effetti a lungo termine della CBT e della Terapia Metacognitiva per i pazienti con GAD. Il tasso di partecipazione è stato del 65% del campione originale dello studio di Nordahl e colleghi. I risultati hanno mostrato un netto “vantaggio” – in termini di efficacia – della Terapia Metacognitva rispetto alla CBT osservato nel post-trattamento e nel follow-up a medio termine che è stato mantenuto anche al follow-up a lungo termine di 9 anni.

I tassi di recupero a distanza di 9 anni risultano del 57% per la Terapia Metacognitiva e del 38% per la CBT. Nel gruppo CBT inoltre, al 23,1% dei partecipanti è stato nuovamente diagnosticato un disturbo d’ansia generalizzata (GAD) rispetto al 9,5% nel gruppo Terapia Metacognitiva.

La differenza nei risultati al follow-up a lungo termine può riflettere diversi gradi di cambiamento nei meccanismi psicologici sottostanti: mentre la CBT si concentra sullo sviluppo delle capacità di rilassamento e sulla messa in discussione del contenuto delle preoccupazioni, la Terapia Metacognitiva ha un focus molto diverso. Nella Terapia Metacognitiva, il terapeuta lavora sulle metacredenze (ciò che penso delle mie preoccupazioni) e non sul contenuto, ciò aiuta il paziente a scoprire come regolare i processi di preoccupazione in un modo che sminuisce l’importanza dei pensieri. Ciò avrebbe effetti positivi “a cascata”, come abbiamo visto precedentemente, anche sui sintomi secondari.

Approcci transdiagnostici efficaci- quale quello metacognitivo – consentono dunque ai terapeuti di concettualizzare più facilmente i processi di mantenimento comuni su questioni clinicamente rilevanti fornendo strategie di trattamento all’interno di un unico protocollo. Ciò aumenta non solo l’efficacia, ma anche l’efficienza del trattamento e la facilità di attuazione.

In arrivo il Masterclass Internazionale di Terapia Metacognitiva

I risultati fin qui riportati non sono che una parte della crescente letteratura che negli ultimi anni sta mostrando un maggiore livello di efficacia della Terapia Metacognitiva rispetto alla CBT e agli altri tipi di interventi.

L’innovazione che la Terapia Metacognitiva ha introdotto nella concettualizzazione e nel trattamento dei disturbi psicologici sta creando nei professionisti una sempre maggiore curiosità e una crescente domanda verso percorsi formativi che consentano di conoscere gli aspetti teorici ma soprattutto di padroneggiare gli aspetti pratici di questo nuovo approccio.

Per tale motivo, l’MCT-Institute, in collaborazione con MCT-Italia, organizzerà un Masterclass per colleghi psicoterapeuti e specializzandi di lingua italiana.

Il Masterclass rappresenta il primo livello di competenza nella Terapia Metacognitiva e certifica l’iscrizione nell’elenco internazionale degli psicoterapeuti metacognitivi.

Sarà un corso dalla durata di due anni (dal 2022 al 2024), organizzato prevalentemente online tramite piattaforma ZOOM con traduzione in italiano. Il corso sarà composto da 8 incontri di due giorni, dedicati all’applicazione pratica della Terapia Metacognitiva e alla supervisione di casi clinici.

Il Masterclass sarà condotto interamente dai fondatori dell’MCT-Institute e della Terapia Metacognitiva: Prof. Adrian Wells e Prof. Hans Nordahl.

 

Per informazioni sul Masterclass MCT >> CLICCA QUI

SOM - MCT Masterclass 2022-24 - Newsletter

L’umorismo sul luogo di lavoro: potenzialità e rischi

Grazie all’umorismo è possibile costruire e mantenere buone relazioni tra i dipendenti che contribuiscano all’armonia lavorativa, creando un senso di solidarietà fra colleghi.

 

Il lavoro è una delle più importanti forme di creazione ed estrinsecazione dell’identità sociale di un individuo. Per molto tempo umorismo e lavoro sono stati visti come fenomeni contrapposti, vedendo il primo come un elemento leggero e dispersivo ed il secondo come un ambiente dove serietà e seriosità sono viste come requisito imprescindibile della produttività, senza lasciare spazio alcuno a divertimento, gioco e scherzosità. Tuttavia, un numero sempre maggiore di ricerche mostra come l’umorismo possa avere un impatto interpersonale di primaria importanza nell’ambito delle organizzazioni, sul benessere dei dipendenti, sulla produttività e come competenza dei manager (Scheel, & Gockel, 2017). L’umorismo è un aspetto altamente significativo dell’esperienza umana e l’analisi dell’umorismo sul posto di lavoro permette di capire l’organizzazione e la cultura che la contraddistingue, identificando aspetti salienti sui quali intervenire per migliorare la qualità delle relazioni interpersonali (Dionigi & Gremigni, 2010). Gli studi scientifici ci dicono che sono numerosi i benefici dell’utilizzo dell’umorismo nelle organizzazioni: di seguito vengono approfonditi quelli maggiormente studiati in letteratura.

L’umorismo diminuisce la tensione lavorativa

Un effetto importante e positivo dell’uso dell’umorismo sul lavoro è quello di moderare l’influenza degli eventi che accadono, sia positivi sia negativi (Romero & Cruthirds, 2006). L’umorismo può essere utilizzato per ridurre lo stress e sviluppare coesione fra i lavoratori: attraverso commenti divertenti si può creare un clima giocoso, che porta ad aumentare la collaborazione fra colleghi, la disponibilità al supporto emotivo e ad un miglior senso di autoefficacia (Cheng et al., 2021). L’utilizzo di un umorismo benevolo può aumentare la soddisfazione sul lavoro perché il divertimento induce uno stato d’animo positivo, che si traduce in un maggior grado di soddisfazione lavorativa ed un minor livello di burnout (Greenberg 2005). Inoltre, rendendo il posto di lavoro più piacevole, si può anche offrire alle persone la possibilità di discutere eventi personali dolorosi in un formato che riduce l’angoscia e l’ansia.

L’umorismo favorisce il team building

Utilizzare l’umorismo in maniera affiliativa rappresenta una strategia molto utile per favorire la cooperazione e aiutare la creazione di una squadra sul posto di lavoro (Holmes & Schnurr 2005). Grazie all’umorismo è possibile costruire e mantenere buone relazioni tra i dipendenti che contribuiscano all’armonia lavorativa, creando un senso di solidarietà fra colleghi; in altre parole, è un sistema efficace per “fare gruppo” sul posto di lavoro (Holmes & Marra, 2002). Ovviamente deve trattarsi di una modalità di umorismo benevolo, usato in modo abile e appropriato, volto a far divertire se stessi e gli altri e non basato sulla presa in giro e sul sarcasmo, altrimenti può ritorcersi contro e causare disarmonia. L’umorismo spontaneo e collaborativo favorisce l’interazione fra colleghi ed è in grado di modellare differenti aspetti dell’identità dell’individuo, specialmente all’interno delle relazioni sociali.

L’umorismo diminuisce la conflittualità

Un’altra funzione svolta dall’umorismo è quella di alleggerire il peso nel contesto lavorativo, non solo quando si svolgono attività noiose e ripetitive, ma anche in relazione a situazioni più impegnative e di difficile gestione.  L’umorismo svolge un grande numero di importanti funzioni sociali nelle relazioni interpersonali (Martin & Ford, 2018). Oltre ad essere una forma di gioco che permette alle persone di diminuire la tensione e aumentare il divertimento, l’umorismo è un modo di comunicare che è spesso utilizzato per convogliare certi tipi di informazione che altrimenti sarebbero più difficoltose da esprimere utilizzando una modalità più seria. Siccome il mondo del lavoro è spesso caratterizzato da ambiguità e incertezza, l’umorismo può essere utilizzato per esprimere il proprio parere, ma potendo sfruttare una via di uscita (León-Pérez et al., 2021). Ad esempio, un dipendente che non è d’accordo con la scelta del superiore può provare a esprimere il proprio dissenso con un commento umoristico, per testare la situazione. Nel caso in cui questo venisse accolto, potrebbe proseguire in maniera seria e approfondire, mentre se dovesse vedere una reazione negativa, potrebbe ritrattare dicendo che si trattava solamente di uno scherzo. Tuttavia, l’aspetto saliente dell’umorismo nel gestire i conflitti non risiede unicamente nel fare battute (Blanchard et al., 2014). L’umorismo spesso viene utilizzato come modalità per strutturare il processo comunicativo e nel diminuire la tensione fra i colleghi, favorendo il confronto su un terreno comune. L’umorismo è quindi un prezioso strumento in questi contesti per mantenere efficaci relazioni di gruppo al lavoro e non ingenerare conflitti aperti.

L’umorismo sviluppa la creatività

L’umorismo sul lavoro rappresenta senz’altro un approccio intelligente per cambiare prospettiva, vedere situazioni e problemi in modo diverso. L’umorismo, in quanto richiama il pensiero divergente, è un potente strumento di insight all’interno della complessità lavorativa delle aziende. Attraverso l’umorismo è più facile introdurre e scambiare nuove idee a basso rischio, sperimentare con nuovi comportamenti potenzialmente rischiosi e impegnarsi in conflitti costruttivi (Romero & Pescosolido, 2008). L’umorismo incoraggia anche il pensiero creativo e innovativo evidenziando le discrepanze nella logica e nelle credenze personali, ad esempio quando l’immagine della realtà presente è in netto contrasto con l’immagine di una realtà ideale (Martin & Ford, 2018). Inoltre, è stato dimostrato come i lavoratori che cercano di spezzare la noia provocata dalla ripetizione di attività poco stimolanti attraverso scherzi e battute con i propri colleghi, inducendo un migliore clima organizzativo, sono dotati di una maggiore creatività (Lang & Lee, 2010).

Umorismo e leadership

È stato spesso suggerito che un buon senso dell’umorismo è un’importante caratteristica del buon leader, insieme ad altre competenze quali l’intelligenza, la creatività, una buona capacità di dialogo e l’empatia. L’uso dell’umorismo positivo da parte di un leader è stato associato a un miglioramento nelle prestazioni di lavoro subordinato, riduzione dei licenziamenti e miglioramenti nella coesione del gruppo di lavoro (Mesmer-Magnus, et al., 2012). La varietà delle funzioni dell’umorismo sembra offrire grande potenziale per migliorare l’efficacia della propria leadership, ma anche per diminuirla. Gli effetti di leadership positiva si hanno solo nel momento in cui si utilizza un umorismo benevolo, mentre se viene utilizzato un umorismo negativo i risultati possono essere controproducenti. I leader dovrebbero essere consapevoli che non esiste un approccio unico per integrare l’umorismo nel loro comportamento, ma che si tratta di una competenza che va adeguata al contesto specifico.

Conclusioni

L’umorismo è inevitabile e può avere conseguenze di vasta portata: questi sono i due motivi principali per sostenere l’importanza dello studio dell’umorismo nelle organizzazioni (Scheel & Gockel, 2017). Riassumendo, possiamo dire che l’utilizzo di un umorismo positivo, funzionale e improntato al ridere con i colleghi è un elemento positivo per la promozione del benessere organizzativo. Questo, ovviamente, non significa snaturare l’essenza del lavoro e renderlo un parco giochi. Si tratta piuttosto di comprendere quali possono essere quegli strumenti utili per migliorare l’ambiente lavorativo, attraverso strategie umoristiche. Nonostante questi aspetti positivi, anche l’umorismo in questo contesto ha i suoi lati negativi. Ad esempio, l’umorismo può distrarre dal lavoro o danneggiare la nostra credibilità. Non si tratta quindi di un unico costrutto, bensì di un fenomeno con aspetti positivi e negativi con una moltitudine di funzioni ciascuno. Per questo motivo, nel corso degli ultimi anni, sono stati progettati diversi interventi volti sia a promuovere l’integrazione dell’umorismo positivo nel contesto organizzativo sia a riconoscere e limitare l’utilizzo di un umorismo disfunzionale.

Il metodo del post-razionalismo ontologico in adolescenza – Recensione

Recensione dell’articolo pubblicato su Prospettive Post-Razionaliste incentrato su Juan Balbi, dal titolo ABT (Affective Bond Therapy) Il metodo del post-razionalismo ontologico per il trattamento dei disturbi psicopatologici complessi negli adolescenti (I parte).

 

Juan Balbi è una delle maggiori personalità nell’ambito del cognitivismo post-razionalista. Nato in Argentina, da diversi anni risiede prevalentemente a Roma. È didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e dell’Associazione Argentina di Terapia Cognitiva, direttore del Master in Terapia Cognitiva Post-razionalista presso la Università di Santiago di Cile. Ha fondato e dirige dal 1992 l’Istituto CETEPO, attualmente con sedi in Italia, Argentina, Cile e Colombia. È autore dei libri: La mente narrativa. Verso una concezione post-razionalista dell’identità personale, Franco Angeli, 2009 e Terapia cognitiva post-razionalista. Conversazioni con Vittorio Guidano, Alpes, 2014. Proprio il confronto personale con Vittorio Guidano, ideatore della psicoterapia cognitivo sistemica post-razionalista, costituisce un elemento fondamentale del suo pensiero e si può senz’altro affermare che Balbi è tra i più profondi, rigorosi e originali continuatori del pensiero di Guidano.

L’articolo in oggetto è stato recentemente pubblicato nella rivista semestrale online Prospettive Post-Razionaliste, nata nel 2019, che intende essere luogo di confronto tra le diverse voci presenti nell’ambito sempre più ampio del movimento post-razionalista. È apparsa la prima parte, dedicata ai riferimenti teorici che stanno a monte dell’ABT, mentre nella seconda parte, di prossima pubblicazione, si entrerà nel merito della pratica clinica.

L’articolo è molto denso e non è possibile riprodurlo in forma di riassunto senza rischiare di banalizzarlo. Esso stesso rappresenta un sunto degli anni di studio di Balbi. Merita una lettura integrale da cui risulterà evidente quanto ogni rigo sia meditato.

Per Balbi l’eziologia dei disturbi psicopatologici che compaiono nella fase evolutiva, che termina con la fine dell’adolescenza, risiede in un livello eccessivo di stress da attaccamento da parte di entrambi i membri della diade (genitore-figlio), che si retro-alimenta in modo automatico e spontaneo. Dunque, l’eziologia del disturbo va ricercata nello stato del sistema di reciprocità affettiva al momento attuale della manifestazione sintomatica e non in cause remote pregresse.

Egli non intende l’attaccamento come sistema motivazionale primario, ma ne privilegia la dimensione relazionale tra un adulto che chiede reciprocità affettiva a un bambino, a cui è già emotivamente collegato, e un bambino che, in virtù di questo contatto umano, avverte una piacevole riduzione del proprio livello di stress e che, quindi, risponde legandosi al genitore dando vita al sistema di reciprocità affettiva.

Il trattamento ABT punta a modificare le attuali dinamiche intrinseche del sistema di reciprocità affettiva mediante una riduzione della tendenza di feedback positivo che provoca l’insorgere dei sintomi.

Ma, per comprendere la genesi del modello ABT, occorre risalire alla cornice teorica che concepisce il Sé come un sistema complesso di elaborazione di esperienze personali, affettive e intenzionali, che evolve nel tempo in un inesauribile processo generativo, che non giunge mai a uno stato di equilibrio finale. Balbi su questo punto è fermo: non può esservi modello efficace di psicoterapia che non parta da un’analisi approfondita dei processi del Sé, del suo sviluppo e della sua disfunzione. È ovvio che l’adolescenza rappresenta la fase di sviluppo più complessa, con i forti mutamenti che avvengono nel senso di identità, e questo spiega la vulnerabilità psicopatologica di questo periodo del ciclo di vita.

Per Balbi, che fa proprio non solo il pensiero di Guidano, ma ha ben presente anche la lezione di Maturana, il Sé è un sistema complesso, auto-organizzato e chiuso che ci consente di mantenere la nostra identità pur in presenza della costante evoluzione della nostra rete di relazioni.

In questo sistema, in estrema sintesi: 1) l’esperienza immediata di sé è da subito integrata ma prevalentemente tacita; 2) il senso di sé, sebbene sperimentato a livello esplicito, non è tuttavia il risultato di una valutazione riflessiva né di una riorganizzazione narrativa, ma si forma nell’ambito pre-riflessivo simultaneo all’esperienza tacita immediata di sé; 3) solo la narrativa dell’esperienza umana è riflessiva, dipendente dal significato delle parole e in grado di organizzare in una dimensione tematica solo una parte dell’esperienza personale continua di ciascuno, quella che si cristallizza nella coscienza fenomenica.

Poiché, per Balbi, il disturbo psicopatologico non si organizza in questa dimensione esplicita, ma trae origine nel mondo pre-riflessivo e tacito, questo spiega come la terapia non debba rivolgersi ad un cambiamento mentale o delle opinioni coscienti, bensì deve raggiungere e integrare contenuti affettivi. Il lavoro non avviene dunque sulle capacità metacognitive o di mentalizzazione del paziente, ma sui contenuti esperienziali, taciti ed  espliciti, che fanno parte della sua reazione di fronte allo squilibrio affettivo.

È chiaro che qui il discorso si allarga all’inconscio, che non è più visto nella prospettiva psicoanalitica.

Come detto, rimando alla lettura completa e ragionata dell’articolo, che merita grande attenzione e si consiglia davvero. In attesa di leggere con grande curiosità la seconda parte del lavoro.

Per ora, precisiamo solo che l’ABT non è una terapia familiare, né una terapia individuale del genitore, quanto piuttosto un trattamento del legame affettivo tra genitore e adolescente. Nella prima parte vi sono sedute individuali con il giovane per individuare il genitore di riferimento. Con questi, lavora un altro terapeuta con lo stesso orientamento post-razionalista per modificare il pattern di reciprocità affettiva alla base del sintomo. Un ruolo centrale è affidato allo sviluppo della capacità di auto-osservazione, per poter meglio distinguere i sentimenti e gli stati intenzionali taciti verso se stesso e gli altri.

 

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