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Incantato. Dentro gli attacchi di panico (2022) – Recensione del libro

Incantato. Dentro gli attacchi di panico è uno spaccato quotidiano e autentico sul disturbo d’ansia, un romanzo pensato e composto per raccontare un punto di vista personale sul lento percorso di accettazione del proprio malessere psicologico.

 

 Il testo rappresenta un mattoncino importante nella lotta contro lo stigma sociale che circonda la salute mentale, a partire dal titolo che si serve della polisemia dell’aggettivo incantato per rimandare al blocco, nel quale spesso ci si ritrova arrestati quando si soffre di un disturbo d’ansia, e alla fascinazione derivata dai risvolti positivi che un malessere del genere può comportare.

Il protagonista è Lorenzo, un giovane insegnante la cui vita viene sconvolta dall’arrivo improvviso di attacchi di panico, invalidanti e ricorrenti, a cui si aggiungono un’ossessiva ruminazione mentale, in un turbinio di interrogativi esistenziali senza chiara risposta – Che senso ha la vita? Che cos’è il tempo? È possibile essere felici nel presente? –, e il terrore di essere sull’orlo della pazzia.

Lorenzo tenterà diverse strade e attuerà vari escamotage, con la credenza di potercela fare da solo e risolvere razionalmente ciò che definiva il suo “disordine emotivo”.

 Sarà lungo il percorso di accettazione e presa di coscienza della problematica psicologica che lo attanaglia, difficile la decisione di rivolgersi ad un professionista della salute mentale – inizialmente, uno psichiatra, soltanto dopo una psicoterapeuta – una scelta sofferta, elaborata dopo una serie di accertamenti medici e tante elucubrazioni mentali.

Ecco un breve stralcio della prima seduta psicologica:

Sì, ma non pensavo che la psicoterapia potesse davvero aiutarmi, così ho rimandato. Pensavo di poter risolvere il problema da solo.

E come ci hai provato? 

In tantissimi modi: ho ridotto le uscite, evitando determinati luoghi, ho cambiato un bel pezzo della mia alimentazione, diminuito l’alcol e l’uso di cannabis, e pensavo di non tornare più in classe.

Il percorso si rivelerà faticoso ma inaspettatamente utile per Lorenzo. Dovrà rielaborare un profondo vissuto di vergogna – non mi perdonavo per quello che mi stava accadendo – e affrontare un importante disorientamento identitario in base al quale si chiederà più volte dove sia finito il solito Lorenzo.

In conclusione, Incantato. Dentro gli attacchi di panico è un racconto scorrevole e di piacevole lettura, che offre una fotografia realistica sulla quotidianità stravolta dall’arrivo di un disturbo d’ansia, con le conseguenze psicologiche, socio-relazionali e lavorative che ne derivano.

 

Il ruolo dei disturbi alimentari nella relazione di coppia

Le coppie nelle quali è presente un disturbo alimentare hanno riportato uno stress relazionale significativo, oltre a una ridotta frequenza di interazioni definite positive, come una comunicazione efficace e assertiva o il passare del tempo insieme.

 

 La presenza di disturbi alimentari sta aumentando sempre più anche in individui di età adulta (Dick et al., 2013). Ciò aumenta il numero di coppie, sposate o non, in cui almeno uno dei due partner è affetto da un disturbo alimentare, prevalentemente persone di genere femminile. La presenza di un disturbo alimentare nella diade relazionale può causare una serie di problematiche che possono compromettere la qualità della relazione (Dick et al., 2013). Il legame tra rapporti sentimentali e disturbi alimentari è tuttora oggetto di indagine, in quanto molti clinici ritengono che la relazione tra donne con un disturbo alimentare e i loro partner possa avere un ruolo chiave riguardo all’esordio e al mantenimento dei sintomi (Arcelus et al., 2012).

I disturbi alimentari e le relazioni interpersonali

Gli individui con un disturbo alimentare riescono ad inserirsi a livello sociale similmente a coloro che non presentano tale diagnosi, ma faticano maggiormente a mantenere un legame con le altre persone (Kirby et al., 2015). Ciò è dovuto al fatto che il disturbo alimentare non provoca stress solamente in chi ne è affetto, ma anche nelle persone che lo circondano. Le coppie dove è presente un disturbo alimentare hanno riportato uno stress relazionale significativo, oltre a una ridotta frequenza di interazioni definite positive, come una comunicazione efficace e assertiva o il passare del tempo insieme.

È stato osservato che le coppie in cui almeno un membro è affetto da un disturbo alimentare tendono ad avere un numero maggiore di argomenti di discussione rispetto alle altre coppie (Dick et al., 2013). Tuttavia, le discussioni tra i partner sembrano essere emotivamente più intense, soprattutto su argomenti come la vita sessuale, il temperamento dell’altro o il livello di affetto dimostrato. Anche la comunicazione relazionale sembra essere più complicata, a causa del frequente senso di segretezza che ruota attorno ai disturbi alimentari, poiché l’individuo che ne soffre ha timore che parlando della propria problematica alimentare possano essere rivelati altri eventi particolari e/o traumatici (per esempio abusi in infanzia), o perché teme di esperire emozioni negative come la rabbia o la paura di essere umiliato.

Difficoltà nella coppia in base al tipo di disturbo alimentare

Le difficoltà relazionali causate dalla presenza di disturbi alimentari si configurano in modo differente in base alla loro tipologia di disturbo.

 Individui che soffrono di Anoressia Nervosa tendono ad essere emotivamente evitanti e faticano ad esprimere i propri sentimenti: ciò rischia di compromettere sia la loro capacità di esprimere i propri bisogni, sia la capacità di tollerare lo stress relazionale (Kirby et al., 2015). Le persone con Bulimia Nervosa mancano generalmente di skills di comunicazione costruttiva e tendono a essere spesso impulsivi, entrambi fattori che possono compromettere la stabilità relazionale. Partner che soffrono di Binge-Eating Disorder esperiscono emozioni in maniera intensa e riportano difficoltà con gli ambienti restrittivi tipici della relazione sentimentale, ciò può contribuire a percepire l’esperienza interpersonale come fortemente stressante. Caratteristica comune di tutti i disturbi alimentari è il forte senso di vergogna verso la propria immagine corporea, con conseguente aumento di ansia in situazioni intime in cui normalmente si mostrerebbe il proprio corpo.

Inoltre, i cambiamenti ormonali causati dai disturbi alimentari comportano una riduzione della libido, con conseguente diminuzione di interesse verso il rapporto sessuale e la possibilità di generare dubbi nel partner riguardo l’intenzione da parte dell’altro di essere ingaggiato nella relazione (Kirby et al., 2015).

Disturbi alimentari e vissuto dei partner

Spesso, anche i partner riferiscono difficoltà nel gestire una relazione con una persona che soffre di disturbi alimentari, in quanto la vita di coppia in questo caso viene vissuta come estremamente complicata (Kirby et al., 2015). Molti partner riportano sensazioni di impotenza nei confronti del proprio compagno e alcuni possono diventare timorosi rispetto alla possibilità di comunicare o fare qualcosa che possa essere percepito come dannoso o controproducente per l’altro. La voglia di aiutare il proprio partner con un disturbo alimentare, ma senza sapere come fare, viene frequentemente vissuta come un aspetto che rischia di causare un forte stress che può inficiare ancora una volta il benessere della coppia.

Proprio per il fatto che i disturbi alimentari e le relazioni sentimentali spesso si influenzano mutualmente, può essere utile cercare un supporto psicologico anche per il partner.

 

PTSD nei bambini terremotati. Il protocollo CBT – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel secondo episodio si parla del protocollo CBT per i bambini terremotati con la Dott.ssa Forresi.

 

Dove ascoltare il secondo episodio:

 

“Parla come mangi” non di come mangi. Effetti di diet talk e body talk

Diet Talk e Body Talk sembrano essere possibili fattori di rischio per lo sviluppo di Disturbi dell’Alimentazione.

 

“Ma tu mangi i carboidrati anche a cena?”

“Ma sei dimagrita? Come stai bene!”

“Questo non lo mangio, troppo calorico!”

“Starebbe meglio con qualche kg in più, è troppo magra!”

 Quante volte avete sentito queste frasi? Quante volte siete stati voi stessi a pronunciarle?

Questi, sono solo alcuni esempi di due fenomeni sempre più diffusi, il Diet Talk e il Body Talk. Con questi termini si intende la tendenza a fare riferimento, in modo frequente all’interno delle conversazioni, alla dieta, al controllo dell’alimentazione, del peso e della forma del corpo, propri e altrui, con un’accezione negativa, vale a dire dipingendoli come qualcosa da dover controllare e giudicare nell’ottica di raggiungere un determinato aspetto fisico e/o uno specifico stile alimentare.

Diet Talk e Body Talk nella società occidentale

Non stupisce il fatto che questi fenomeni si siano fatti negli anni sempre più frequenti, in quanto si inscrivono all’interno di una “cultura della dieta”, dalla quale la società occidentale è ormai ampiamente permeata: avere un fisico magro e/o muscoloso, riuscire a mantenere una dieta e delle regole alimentari ferree e praticare una rigida attività fisica viene generalmente visto come una dimostrazione di forza e determinazione e, di conseguenza, di valore personale (Rossi, 2021). L’importanza della magrezza e il giudizio negativo sull’eccesso di peso promuovono il controllo sull’alimentazione, reso ancora più popolare dalle innumerevoli alternative di diete per perdere peso proposte negli ultimi decenni (Faw et al., 2021).

Tuttavia, la dieta non è sempre una pratica benigna: il ruolo dannoso dell’iniziare una dieta per quanto riguarda i disturbi alimentari è stato riconosciuto in molti studi su campioni adolescenziali. La presenza di una dieta nella storia personale, sommata a un’insoddisfazione per il corpo, aumenta la proporzione di giovani a rischio di sviluppo di un disturbo dell’alimentazione (Hill, 2009). Il ruolo dei fattori socio-culturali nella patogenesi di queste problematiche è sempre più oggetto di interesse nella ricerca scientifica. Questi fenomeni sono stati in parte attribuiti all’idealizzazione della magrezza nella cultura occidentale, dove il cambiamento culturale degli ultimi decenni ha portato ad un aumento della tendenza ad ambire a controllare peso, forma del corpo e alimentazione (Nasser, 1988).

In questo senso, appare evidente come le pratiche verbali descritte siano potenzialmente dannose, in quanto propongono e rafforzano un’idea errata e potenzialmente pericolosa dell’alimentazione, rischiando di innescare un atteggiamento che guarda all’alimentazione e al proprio aspetto fisico con un’accezione negativa. Questo atteggiamento rischia di essere un fattore precipitante per lo sviluppo di un disturbo dell’alimentazione. In queste patologie, infatti, l’attenzione verso il peso e le forme del corpo, alla quantità e alla qualità degli alimenti introdotti viene portata patologicamente all’estremo e diventa tanto importante nella quotidianità dell’individuo, da rappresentare un vero e proprio (se non l’unico) metro di valutazione di sé come persona (Rossi, 2021).

Fattori di rischio per i disturbi dell’alimentazione

Nello specifico, i disturbi dell’alimentazione sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione e/o da comportamenti connessi all’alimentazione che determinano un alterato consumo o assorbimento di cibo e che danneggiano significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale (Dalle Grave, 2018).

Le cause specifiche dei disturbi dell’alimentazione non sono ancora note in modo chiaro; i dati ottenuti ad oggi dalla ricerca più recente sembrano suggerire che essi siano innescati dalla combinazione di una predisposizione genetica e fattori di rischio di tipo ambientale. Tuttavia, la ricerca ha individuato numerosi fattori di rischio potenziali.

Tra i fattori di rischio generali, vale a dire condizioni non modificabili, che aumentano in generale, per tutta la popolazione, il rischio di sviluppare i disturbi dell’alimentazione, vi è il vivere in una società occidentale ove si è verificata, a partire dagli anni ‘50, la trasmissione dell’ideale di magrezza. Uno studio ha dimostrato come l’Indice di Massa Corporea (IMC) delle modelle sia passato da un valore medio leggermente sotto il 20 negli anni ‘50 a un valore medio di 18 nel 2001 (la fascia di normopeso è compresa tra un IMC di 19 e un IMC di 24,9). Anche se non si può dimostrare un nesso causale tra evoluzione dell’ideale sociale di magrezza e sviluppo dei disturbi dell’alimentazione, la diminuzione del peso delle modelle è andato di pari passo con l’aumento dell’incidenza dell’anoressia nervosa. Non è inoltre infrequente che la perdita di peso e l’autocontrollo richiesto per seguire una dieta in modo ferreo, possano essere rinforzati da vari fattori sociali. Il messaggio martellante dei media è che la magrezza estrema sia un segno di bellezza, successo, autocontrollo e riconoscimento (Dalle Grave, 2018).

Tra i fattori di rischio individuali, vale a dire condizioni che colpiscono in modo specifico gli individui che sviluppano un disturbo dell’alimentazione, rientrano esperienze di derisione per il peso e la forma del corpo, preoccupazioni per il peso e la forma del corpo e l’aver fatto una dieta. Su quest’ultimo, è stato dimostrato che la dieta negli adolescenti normopeso costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione. In un campione di studentesse di Londra di 15 anni quelle che facevano una dieta, rispetto ai controlli, avevano un rischio otto volte maggiore di sviluppare un disturbo dell’alimentazione nell’anno seguente. Risultati simili sono stati osservati in uno studio eseguito su adolescenti australiani in cui i soggetti a dieta, rispetto a quelli non a dieta, avevano un rischio 18 volte superiore di sviluppare un disturbo dell’alimentazione nei sei mesi seguenti. In questa ricerca è stato evidenziato che il rischio era elevato anche nei soggetti che seguivano una dieta lievemente ipocalorica (Dalle Grave, 2018).

Diet talk e body talk nei disturbi dell’alimentazione

Una meta-analisi condotta nel 2013 ha mostrato come i commenti e l’atteggiamento dei pari e della famiglia possano influenzare il comportamento alimentare, l’insoddisfazione per il corpo e sintomi bulimici sia in adolescenti maschi che femmine. Questo sottolinea il potente ruolo delle interazioni sociali nel condizionare le pratiche alimentari e le preoccupazioni per il peso e per la forma del corpo. In questo senso, il gruppo dei pari e i familiari possono modellare lo stile alimentare e l’atteggiamento verso la propria immagine corporea, in maniera negativa ma, anche, al contrario, incoraggiando un atteggiamento maggiormente benevolo (Marcos, 2013).

 Uno studio eseguito nello stesso anno, effettuato su un campione di 203 adolescenti, ha investigato come il Body talk, cioè i commenti sul corpo, sia in negativo che in positivo, e la co-ruminazione sul tema siano collegati all’immagine corporea percepita, a possibili distorsioni su di essa, a problematiche con l’alimentazione, al benessere psicologico generale ed infine alla qualità delle relazioni interpersonali. Lo studio ha dimostrato che il riferirsi al corpo con un’accezione negativa era correlato negativamente alla soddisfazione per il corpo stesso, ad alti livelli di autostima, ed era al contrario correlato positivamente all’importanza data all’apparenza fisica, a pensieri negativi sul corpo, a problematiche alimentari e a depressione. L’auto-accettazione e il “Positive Body talk” erano invece correlati negativamente a distorsioni cognitive rispetto al proprio corpo, e correlati positivamente a soddisfazione per il proprio corpo, ad un’autostima più elevata e ad una migliore qualità delle relazioni interpersonali. Infine, la co-ruminazione sul corpo era correlata alla presenza di distorsioni cognitive sul corpo stesso, a condotte alimentari problematiche e ad una migliore qualità delle amicizie (Rudiger & Winstead,2013). Quest’ultimo dato appare di particolare interesse in quanto potrebbe suggerire che la tendenza a riferirsi a peso, forma del corpo e alimentazione possa fungere da collante per le relazioni sociali tra adolescenti, costituendo così un’arma a doppio taglio, che da una parte favorisce la nascita di legami sociali, ma dall’altra questi ultimi affonderanno le proprie radici in tematiche potenzialmente dannose per il benessere fisico e psicologico degli individui stessi.

I risultati di questi studi, che sono solo alcuni di quelli effettuati negli ultimi anni sul tema, indicano la negatività del Diet talk e del Body talk, sia a livello del benessere individuale che delle relazioni interpersonali.

Questo sottolinea l’importanza di trattare con sensibilità questi aspetti, in primis in famiglia, che costituisce l’ambiente di apprendimento primario, ed inoltre di prestare attenzione a questi temi in ottica più allargata, disincentivando commenti o atteggiamenti che stressino l’attenzione su cibo e forma del corpo, così come la tendenza a fare commenti, anche benevoli, in questo ambito, nell’ottica di ridurre potenziali stimoli che inneschino il desiderio di raggiungere un peso non fisiologico e, soprattutto, di diminuire la centralità che quest’ultimo ha nell’autodefinizione di sé. Occorre inoltre prestare particolare attenzione alle modalità non adeguate con cui soprattutto le adolescenti possono cercare di controllare peso e forma del corpo.

La prevenzione risulta particolarmente importante in questo momento storico in cui l’ANSA segnala, complice la pandemia, una grossa crescita dei disturbi alimentari tra i più giovani, con circa 3 milioni di italiani che soffrono di anoressia e bulimia, di cui il 95% donne e soprattutto ragazze tra i 15 e i 19 anni.

Paura. Lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia – Recensione

L’etologo Daniel Blumstein ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso il mondo della paura, per comprendere meglio come e quanto la nostra paura e i nostri comportamenti di difesa condizionino non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri discendenti e delle generazioni successive.

 

Perché abbiamo più paura dell’attacco di uno squalo che di un incidente d’auto, quando ogni anno muoiono molte più persone a causa degli incidenti stradali di quante non siano attaccate da tutti i carnivori del pianeta?

Perché siamo attratti da sport estremi o abbiamo dovuto attendere che una legge ci imponesse l’obbligo prima di allacciare le cinture di sicurezza sulle nostre auto?

Perché siamo più colpiti da una singola storia drammatica rispetto a continue notizie di tragedie collettive ai vari angoli del mondo?

Per capire perché e come noi esseri umani reagiamo alle situazioni spaventose, dobbiamo comprendere la nostra storia evolutiva. Siamo i discendenti di progenitori che hanno saputo vincere le sfide della sopravvivenza e hanno permesso ai loro geni, e dunque ai nostri geni, di arrivare fino ad oggi.

Ogni specie ha la sua singolare storia evolutiva, ma condividiamo con gli animali numerosi meccanismi neurofisiologici, tanto che diversi fattori di stress e di predazione inducono nelle diverse specie, umani compresi, risposte molto simili.

L’etologo Daniel Blumstein ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso il mondo della paura, esplorando le risposte fisiologiche e i comportamenti evolutisi centinaia di milioni di anni fa, per comprendere meglio come e quanto la nostra paura e i nostri comportamenti di difesa condizionino non solo la nostra vita, ma anche quella dei nostri discendenti e delle generazioni successive.

L’autore propone interessanti riflessioni e ipotesi, supportate da un lungo lavoro di studioso sul campo e da una solida letteratura, su come si possa utilizzare la conoscenza del comportamento antipredatorio animale per imparare a convivere meglio con la nostra paura e per migliorare le nostre decisioni in condizioni di minaccia reale o percepita.

Vi siete mai chiesti se la paura ha un volto? O un odore, un suono?

Blumstein prende in esame studi ed esperimenti scientifici che, uniti alla sua lunga e prolifica carriera di etologo sul campo, ci insegnano come gli animali, nella loro storia evolutiva, abbiano imparato a riconoscere specifici segnali visivi, olfattivi e uditivi, che indicano la presenza effettiva o potenziale di un predatore e a modificare di conseguenza il loro comportamento.

La paura può essere scatenata da stimoli, anche apparentemente innocui o minimi, che in passato sono stati per la specie segnali attendibili di minaccia.

Perché, per esempio, basta la vista di un piccolo ragno a far saltare sulla sedia una buona quota di persone? Pare che la capacità di riconoscere la figura di un ragno come qualcosa di specifico e rilevante sia presente già nei neonati, che rispondono con attenzione e attivazione alla vista di un semplice disegno stilizzato che ricordi la forma di un ragno, cosa che non fanno di fronte a forme analoghe di altri oggetti, piante o animali.

Allo stesso modo certi suoni, come i rumori forti, le grida o in generale i suoni non lineari, inducono una reazione di paura tanto da influenzare perfino il successo riproduttivo degli individui. Vivere in un ambiente in cui sono presenti molti versi di predatori, infatti, induce nelle prede uno stress cronico e influisce negativamente sulla crescita, sull’accudimento dei piccoli e dunque sulla sopravvivenza della popolazione presente in quell’area.

Cosa ancora più interessante, questo non accade solo alla presenza di una minaccia reale, ma è un effetto della paura indotta dai segnali acustici, visivi o olfattivi. Numerosi studi, come riporta l’autore, hanno infatti dimostrato come sia sufficiente la paura di un predatore a innescare una serie di comportamenti antipredatori con effetti a cascata sulle generazioni successive e sull’intero ecosistema.

Quest’osservazione ha implicazioni molto importanti per noi umani. Anche noi siamo molto influenzabili e manipolabili dall’esposizione a immagini e suoni spaventosi. Pensiamo a cosa succede quando andiamo al cinema a vedere un film dell’orrore: la musica è appositamente studiata per indurre nel pubblico una reazione di paura. Ma se la paura è parte del piacere e addirittura ricercata nell’andare al cinema, le conseguenze dell’uso strumentale di una certa retorica, che sfrutta l’effetto spaventoso di suoni e immagini per influenzare l’uditorio, sono potenzialmente più pericolose.

L’ansia e la paura sono innate, e di solito adattative, ma certamente hanno un costo. Un animale troppo vigile, attento a ogni possibile minaccia, o che scappa al primo segnale di pericolo, perde un’importante occasione di alimentazione, di riproduzione o legata ad altre attività sociali fondamentali per il benessere dell’individuo e della specie. E’ necessaria una sottile e continua valutazione di costi e benefici, l’abilità di trovare il migliore equilibrio possibile tra il rischio di morire di fame e il rischio di essere mangiati.

La selezione naturale opera secondo una logica economica e gli animali che sono in grado di rispondere adeguatamente alle minacce utilizzando il minimo delle risorse necessarie, lasceranno una discendenza più numerosa di quelli che hanno una reazione eccessiva. Il comportamento ottimale è quello che produce la massima “fitness”, ossia il massimo successo riproduttivo in quello specifico ambiente, sia che si tratti di fuggire immediatamente, sia che si tratti di aspettare e valutare meglio la reale portata del pericolo.

Ma esiste una strategia di sopravvivenza migliore delle altre?

Gli animali che rischiano di più, ovvero che usano le loro energie per una crescita rapida e prematura, riproducendosi presto, hanno una maggiore probabilità di morire in giovane età.

Quelli che, invece, adottano strategie che rallentano la loro crescita, ritardano la riproduzione e dedicano una quota maggiore di energia alla crescita di ogni piccolo, aumentano la loro sicurezza e la percentuale di sopravvivenza.

Questo significa che una delle due strategie è intrinsecamente migliore delle altre?

Dipende. Come prima cosa dipende dal contesto. E, infatti, in natura le troviamo entrambe: in ambienti pericolosi e poveri di risorse la prima è certamente una strategia vincente, mentre in ambienti più sicuri e relativamente liberi dai predatori, troviamo più frequentemente il secondo tipo di strategia.

Lo stesso si riscontra nella nostra specie: si pensi alle differenze fra paesi in via di sviluppo, in cui i pericoli sono certamente maggiori, maggiore è la mortalità infantile e minore è l’aspettativa di vita, e paesi industrializzati, in cui è garantita una maggiore sicurezza all’individuo e alla popolazione con effetti sulle energie dedicate a ogni figlio, sull’età di riproduzione e sull’aspettativa di vita.

Come gli animali, anche noi cerchiamo di gestire costi e benefici, basandoci sulle nostre percezioni rispetto ai rischi e alle ricompense. In questo tipo di valutazione possiamo contare sull’esperienza dei nostri antenati, che hanno saputo prendere le giuste decisioni e hanno permesso alla nostra specie di prosperare sul pianeta, ma la nostra capacità di giudizio è fallibile e spesso commettiamo errori. Siamo fin troppo sensibili alla manipolazione di chi alimenta le nostre paure irrazionali, come quella verso chi è diverso da noi, o chi, per ottenere consensi politici, pone eccessiva enfasi su fatti veri ma meno rilevanti, sostenendo per esempio la nostra erronea percezione che gli autori di reati siano prevalentemente stranieri.

Siamo una specie straordinariamente irragionevole e le nostre valutazioni del rischio non sono per nulla obiettive, ma sono influenzate da vari fattori, come l’età, il fatto di essere soli o in gruppo, la probabilità che un evento occorra, l’entità dei danni e in generale il tipo di conseguenza, compresi i benefici attesi. La percezione del rischio, inoltre, è soggetta a veri e propri bias: siamo molto più colpiti dal perdere 100€ che dal guadagnare la stessa cifra (bias di avversione alla perdita); è più probabile che a farci paura sia qualcosa di ignoto, piuttosto che qualcosa per noi molto familiare; siamo più propensi ad accettare (e a sottovalutare) i rischi se li scegliamo volontariamente rispetto a quelli che ci sono imposti e siamo portati a sopravvalutare le nostre capacità di tirarci fuori da un problema.

La valutazione del rischio, inoltre, è influenzata dall’esperienza.

Il disturbo da stress post-traumatico è l’esempio più clamoroso di come sia sufficiente una sola brutta esperienza per influenzare profondamente il nostro senso di sicurezza e di benessere.

Anche l’apprendimento sociale è un potente amplificatore che permette la diffusione rapida e ampia di conoscenze che possono aumentare la probabilità di sopravvivenza.

Come ben argomenta Blumstein, gli animali, umani compresi, funzionano secondo una logica bayesiana (dal teorema del matematico Bayes), ovvero possiedono una qualche conoscenza a priori della probabilità che un evento accada e modificano poi questa previsione in base alle esperienze, adattando di conseguenza il loro comportamento. Ma animali ed esseri umani possono lasciarsi sopraffare dalla paura se imparano a temere le cose sbagliate e, se è vero che in linea di massima un approccio prudenziale e conservativo è adattativo, è anche vero che vedere un predatore in ogni cosa ha dei costi esorbitanti, che superano notevolmente i benefici. Pensiamo ad esempio alle malattie autoimmuni, in cui il sistema immunitario identifica come pericolosi stimoli innocui, attaccando il nostro stesso organismo, o le reazioni eccessive a una minaccia che portano all’intensificarsi progressivo di violenze sempre più fuori controllo e distruttive. Siamo molto sensibili a messaggi che fanno leva sulla nostra paura, che siano messaggi plausibili oppure no: la nostra percezione della verità può essere modificata dalla ripetizione continua di falsi messaggi, anche quando le persone sono consapevoli che si tratta di messaggi non veritieri. E’ il fenomeno della “verità illusoria” e ne siamo stati testimoni per esempio nel 2003 quando il governo statunitense accusò ripetutamente l’Iraq di Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa: non era vero, ma condusse comunque a una guerra devastante.

Forse mai come ora, almeno per chi di noi ha meno di 80 anni, sentiamo così forte e presente la paura. Da un paio d’anni è uno spettro con cui abbiamo dovuto convivere ogni giorno, che ha minato la sicurezza che la tecnologia aveva progressivamente garantito alla nostra specie.

Nelle ultime settimane, poi, le terribili notizie della guerra in Ucraina hanno ulteriormente destabilizzato il nostro fragile equilibrio e ci hanno portati a doverci necessariamente confrontare con la paura e la precarietà della nostra stessa sopravvivenza.

E’ un libro di forte impegno “politico”, quello di Blumstein, non nella sua accezione propagandistica, ma in quella più letterale e profonda, legata al promuovere valori e impegno sociale attraverso la diffusione di conoscenze e l’attivazione di una riflessione critica.

La paura è un forte motivatore in situazioni più lineari, ma occorre molta attenzione nelle situazioni più complesse, in cui siamo chiamati ad andare oltre il nostro desiderio di relazioni causali semplici e dunque soluzioni semplici.

Stiamo vivendo un’epoca piena di sfide complesse a cui la nostra storia evolutiva non ci ha preparati a rispondere. Il repentino e progressivo cambiamento climatico è un esempio di come il nostro comportamento abbia modificato l’ambiente in cui viviamo in un modo estremamente rapido, se valutato in termini evolutivi, e radicale. Non abbiamo gli strumenti per valutare appieno questo impatto sulle nostre vite e su quelle delle generazioni successive, perché la nostra specie non ha avuto abbastanza tempo per generare risposte adeguate a una molteplicità di nuove minacce che essa stessa ha creato. Tuttavia, rileva l’autore, se i nostri comportamenti sono stati la causa di questi nuovi problemi, possiamo cambiare i nostri i comportamenti nella direzione di nuove soluzioni.

A partire dallo studio del comportamento di altre specie, con cui condividiamo larga parte del nostro sistema neurofisiologico, Blumstein avanza le sue interessanti ipotesi su come si possa sfruttare la conoscenza delle risposte animali ad eventi spaventosi per imparare a convivere meglio con la nostra paura e a migliorare i nostri processi decisionali in condizioni di minaccia reale o percepita.

La paura è un elemento inevitabile e non eliminabile della nostra vita. Non solo è impossibile annullare i rischi o la paura che ne consegue, ma da qualche parte dentro di noi conserviamo il desiderio di sfidare noi stessi e andare alla ricerca di nuovi rischi che risveglino un po’ di adrenalina anche quando potremmo vivere una vita più sicura.

Dobbiamo dunque imparare ad accettare e a gestire le nostre paure, valutando i dati e le fonti d’informazione, invece di reagire secondo un riflesso condizionato. La paura, quando mediata dalla riflessione critica, può aiutarci a progettare sistemi resilienti e a trovare soluzioni intelligenti e innovative in situazioni complesse.

Può essere una compagna di viaggio fastidiosa e talvolta intollerabile, ma la paura è anche “una bussola che, se ben tarata, ci allontana dal pericolo e ci dirige verso l’opportunità” [p. 251].

Burnout tra psicoterapeuti: fattori di rischio e fattori protettivi

E’ stato ipotizzato che l’impegno verso i pazienti e l’empatia che si sperimenta in ambito sanitario potrebbero avere un ruolo nel burnout degli psicoterapeuti, mentre la percezione di avere le competenze per aiutare i pazienti potrebbe essere un fattore protettivo.

 

Il burnout nei professionisti della salute mentale

Il burnout è una reazione allo stress di lunga durata legata al lavoro che comprende tre diverse reazioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e riduzione della realizzazione personale (Maslach et al., 2001). Esso è associato a vari problemi di salute come depressione, insonnia e problemi cardiovascolari, rappresentando quindi un problema per gli individui, ma anche un onere economico per la società a causa dei costi sanitari, delle assenze per malattia e dell’elevato turnover (Lee et al., 2011).

In generale, i professionisti che si occupano di salute mentale sembrano essere molto esposti allo stress legato al lavoro: si stima che dal 40% al 70% abbia alti livelli di burnout (Johnson et al., 2020). I fattori di rischio che hanno predetto un maggiore burnout nei professionisti di salute mentale si sono dimostrati essere l’ambiente di lavoro, la quantità totale di ore lavorate e l’età più giovane (Lim et al., 2010).

Spesso, nei servizi pubblici, i bisogni dei pazienti sono superiori alle risorse o agli interventi a disposizione; i terapeuti che incontrano pazienti in difficoltà possono essere influenzati dai loro stati emotivi e possono provare frustrazione per non essere in grado di soddisfare i bisogni di ogni singolo paziente (Simionato & Simpson, 2018). In queste circostanze, è facile sentirsi inadeguati e sforzarsi di dare il più possibile, a scapito del proprio tempo e delle proprie energie.

Perciò, è stato ipotizzato che l’impegno verso i pazienti e l’empatia che si sperimenta in quest’ambito sanitario potrebbero avere un ruolo nel burnout (Simionato & Simpson, 2018). Infatti, in una meta-analisi di Lee e colleghi (2011) si è scoperto che l’eccessivo coinvolgimento era fortemente associato all’esaurimento emotivo, che è un aspetto centrale del burnout.

D’altra parte, un fattore protettivo contro il burnout è la percezione di avere le competenze per aiutare i pazienti (Simionato & Simpson, 2018). Nello studio di Lim e colleghi (2010), è stato dimostrato che i membri dello staff di età più avanzata hanno mostrato livelli più bassi di burnout, il che è stato ipotizzato essere associato a un senso di competenza che può venire con più anni di esperienza clinica (Lim et al., 2010).

Fattori di rischio e protettivi del burnout tra psicoterapeuti

Data la necessità di identificare meglio i fattori di rischio e protettivi per lo sviluppo del burnout tra gli psicoterapeuti, uno studio di Spännargård e colleghi (2022) ha analizzato il livello di burnout tra gli psicoterapeuti che lavorano in contesti clinici e ha indagato la relazione tra burnout e fattori legati alla persona (età, formazione, livello di istruzione, anni di professione e competenza percepita) e fattori legati al lavoro (tipo di contesto clinico, soddisfazione per la situazione lavorativa e accesso alla supervisione clinica).

I risultati hanno dimostrato che il 62% degli psicoterapeuti ha riportato livelli moderati o alti di burnout. Essere donna, percepire di avere bassa competenza e lavorare nel settore pubblico erano associati a livelli più alti di burnout. L’età, l’esperienza lavorativa e la formazione avanzata in psicoterapia si sono mostrati invece fattori protettivi. Tuttavia, quando analizzati insieme alla competenza percepita, gli effetti sono svaniti, suggerendo che la competenza percepita è il fattore essenziale comunemente associato a tutte queste variabili.

Il burnout è stato predetto da due variabili: la competenza percepita e il praticare nell’ambito clinico privato. Questo è in linea con i modelli che si focalizzano sull’importanza del controllo percepito (Rupert et al., 2012). La maggior parte di loro fa prima o poi esperienza di trattamenti non riusciti e di pazienti che non sono stati in grado di aiutare (Honda, 2014). Queste esperienze possono portare a frustrazione e sentimenti di inadeguatezza che possono a loro volta generare stress. La sensazione di avere il controllo può essere un fattore molto importante nello sviluppo dello stress, infatti, a favore della pratica privata come fattore protettivo, gli psicoterapeuti che lavorano privatamente hanno un livello di controllo maggiore sulle loro condizioni di lavoro rispetto ai terapeuti che lavorano in studi sanitari pubblici (Steel et al., 2015).

Come riportato sopra, il burnout associato alle esperienze di lavoro generali è stato significativamente più alto del burnout associato ai pazienti. Di conseguenza, le condizioni di lavoro, piuttosto che le sfide cliniche, potrebbero essere più importanti a questo proposito. Tuttavia, è anche possibile che i contesti clinici siano diversi tra gli studi privati e quelli pubblici, poiché una proporzione maggiore di pazienti impegnativi tende ad essere presente nel pubblico.

In conclusione, i livelli di burnout tra gli psicoterapeuti sono risultati alti e un’alta competenza percepita rappresenta un fattore protettivo contro il burnout, molto più dell’esperienza lavorativa, dell’istruzione o dell’età. In linea con ricerche precedenti, anche lavorare privatamente sembra essere un fattore protettivo contro il burnout, nonostante i risultati di Hammond e colleghi (2018) indichino che molti fattori di rischio per il burnout sono presenti anche per gli psicologi che esercitano privatamente.

Il controllo percepito dell’ambiente di lavoro è importante per ridurre lo stress per gli psicoterapeuti: i cambiamenti nel modo in cui il trattamento viene fornito, con un maggior numero di operatori privati che lavorano in circostanze simili a quelle degli operatori del sistema sanitario pubblico, è a portata di mano in molti paesi. Il carico di lavoro, e altri aspetti della situazione lavorativa, possono essere difficili da controllare, anche per chi lavora nella pratica privata. Essere donna è stato un fattore predittivo significativo del burnout personale e legato al lavoro. Tuttavia, sono necessari studi futuri per esplorare altri fattori di rischio per il burnout come i tratti di personalità, le convinzioni meta-cognitive sullo stress e come affrontare al meglio lo stress legato al lavoro e gli interventi su misura per gli psicoterapeuti per ottenere risultati ottimali sul burnout.

Il Corpo: la perdita dopo il Trauma/Strumento di cura

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

 

Abstract

La presente trattazione argomenta sul tema del trauma nelle sue molteplici complessità. Complessità che nascono dal riconoscimento diagnostico non sempre immediato, dalla diversificazione dei possibili eventi traumatici, dal multiedrico quadro psicopatologico. Questi elementi rendono difficile l’individuazione diagnostica e ancor di più l’intervento terapeutico.

Nello specifico dell’intervento terapeutico, il quadro mostra una lunga storia di trattamenti non efficaci e non sempre dignitosi. La complessa dinamica del trauma coinvolge le varie funzioni corticali e sottocorticali, meccanismi fisiologici, emotivi, comportamentali e cognitivi attivati da reazioni di sopravvivenza che si instaurano nell’immediato dell’evento traumatico. Queste reazioni, prolungate e cronicizzate, creano disregolazione emotiva, scissioni e dissociazioni dell’esperienza e dei vissuti corrispondenti, che si somatizzano, eludendo le funzioni cognitive più elevate, strutturando quadri psicopatologici complessi.

Tenendo conto della dinamica sottostante, del quadro psicopatologico e dell’accessibilità limitata attraverso medium verbali, il trattamento necessita di una mediazione corporea, attraverso tecniche psico-corporee, integrabili con le terapie di stampo più verbale e farmacologico.

Il trauma ed il corpo

La narrazione della propria storia è centrale nella vita di ogni individuo. Il racconto della realtà attraverso il linguaggio, genera la “scrittura” di una autobiografia personale che, intrecciandosi con le storie degli altri, conferisce un senso alle esperienze umane.

Esiste anche una biografia del corpo, ovvero la propria storia trascritta nel corpo, nella struttura, nell’espressività somatica, nella qualità energetica, nella sua declinazione spazio/tempo. Un po’ come i cerchi del tronco, per l’albero.

Il corpo è il primo elemento di confronto con il mondo fin dallo stadio fetale, attraverso il nutrimento, il contatto, il suono, il gusto, la vista, la propriocezione, le variazioni biochimiche introdotte dall’emotività della madre. Costituisce lo strumento con cui interagiamo per tutta la vita.

Noi siamo primariamente il nostro corpo, che nasce e cresce dentro un altro corpo, dopo l’unione di due corpi.

La relazione stessa si instaura e cresce attraverso l’accudimento del corpo, che ci fornisce un’idea di noi stessi. Attraverso come il nostro corpo viene trattato, accudito, toccato/evitato.

Il corpo è il primo a rispondere e a reagire a quanto avviene nell’interazione con il mondo esterno ed interno, primariamente rispetto a stimoli sub-liminari (Tauber e Green, 1995), che in quanto tali non sono coscienti, ma influiscono sul nostro vissuto e sulle nostre reazioni.

La funzione protettiva sub cosciente, si attiva in risposta alle nostre capacità di tolleranza e in risposta al tipo di stimolo. Si attiva massivamente nelle situazioni inusuali e traumatiche, dove la scissione e la dissociazione costituiscono le reazioni primarie.

I sensi sono immediati e veloci, legati ad aspetti più primitivi, mentre il pensiero razionale si è evoluto, filogeneticamente ed ontogeneticamente, in un tempo successivo con lo sviluppo della corteccia cerebrale. Le reazioni vegetative, ormonali e neuronali profonde sono presenti nel mondo animale fin dall’antichità, in quanto legate a meccanismi di sopravvivenza.

Quando si verifica un evento traumatico, vi sono una serie di stimoli che entrano prepotenti, si registrano nel corpo e negli strati più profondi del cervello e della psiche, le funzioni più razionali sono momentaneamente inattive, non è possibile dare un senso a quanto capitato. L’attivazione di meccanismi di difesa significativi quali la dissociazione, il congelamento, l’iperattivazione, uniti alla disregolazione emotivo/sensoriale, l’alterazione dei ritmi sonno-veglia, la tendenza all’acting, l’abuso di sostanze e/o psicofarmaci ecc., rendono ancor meno penetrabili i contenuti consci e razionali. (Fischer et al., 2011).

Bypassando le funzioni cognitive superiori, si attivano le parti più antiche e più istintive del cervello, con una serie di reattività emotive, somatiche e comportamentali non filtrate. Gli stimoli esterni escono dal circuito della prevedibilità e della coscienza, si scatenano risposte fisiologiche di sopravvivenza, che non possiedono confini, significati precisi e non terminano col cessare del pericolo. L’individuo continua a sentirsi attivato, ad avere un alto livello di arousal in uno stato di ipervigilanza e allerta per molto tempo, come se ci si attendesse che può succedere qualcosa da un momento all’altro.

Il corpo si ritrova in una condizione di rigidità, di anestesia, talvolta fino al death state, che lo rende un blocco unico, volto a filtrare sensazioni che potrebbero innescare una serie di reazioni a catena (Steel, Van de Hart, Boon, 2014; Van der Kolk, 2015; De Zulueta, 2009, Boon et al., 2017). C’è un congelamento del corpo e delle sensazioni che lo rendono poco recettivo alla moltitudine di stimoli esterni ed interni, che diversamente eleverebbero ulteriormente il grado di arousal già molto critico.

Questo spiega il motivo per cui spesso l’impiego delle sole terapie verbali, individuali e di gruppo, non sono sufficienti a curare e guarire i traumi. Ancor di più se quanto capitato è indicibile, come succede negli abusi o violenze avvenute in tenera età. Queste terapie non riescono ad accedere alle parti dissociate (Van der Kolk, 2015).

A livello emotivo si crea il senso di vergogna, di colpa, la vittima si sente responsabile di quanto avvenuto, si attiva l’identificazione con l’aggressore, il bisogno di ripristinare il controllo, di salvare la figura carica di legame affettivo. Le emozioni e i pensieri disfunzionali derivano dalla disregolazione di affetti e funzioni, dal meccanismo di dissociazione che crea una separazione fra parti di sé. L’evento traumatico viene riposto in uno spazio mentale separato da tutto il resto, ciò permette di tenerlo a bada o di credere che sia così e di concedere alle altre funzioni un livello sufficientemente adeguato (lavoro, studio, relazioni ecc.).

Il trauma può non emergere per molto tempo, pur continuando a pesare e ad influire sull’economia e sul benessere della persona.

Istintivamente le vittime di trauma cercano di allentare le tensioni del corpo e di spegnere i pensieri ripetitivi con alcool, droghe, abuso di farmaci o iperlavoro. In una ricerca condotta su 225 vittime scampate al crollo delle Torri Gemelli e su una parte dei loro soccorritori, è emerso che il primo tipo di aiuto a cui molti hanno fatto ricorso, riguardava il corpo con interventi come massaggi, yoga ecc. e solo una piccola parte a terapie verbali (Van der Kolk, 2015).

Dopo un evento traumatico si crea una disconnessione fra parti del cervello, fra pensieri, emozioni e sensazioni, l’evento non riesce ad essere inserito nella propria storia con una certa coerenza. Il danno è a tutti i livelli. Il corpo è irrigidito, i circuiti sottocorticali attivati in senso circolare, qualunque intervento che coinvolga gli strati superiori più evoluti della corteccia non riesce ad entrare in contatto con gli altri strati primariamente coinvolti.

Nel concreto, immaginiamo cosa possa succedere alla vittima a cui si chieda di raccontare l’evento, che può scatenare una serie di reazioni corporee e viscerali che attivano il segnale d’allarme. Non può esserci liberazione né insight, al contrario una ripetizione del trauma, fino alla rivittimizzazione.

Questo spiega e rende ragione di tutti quegli interventi mediati sempre più dal corpo e dagli strumenti che cercano di ricreare un collegamento fra le parti sconnesse.

Todd (1959) ci aveva mostrato precocemente che la funzione precede la struttura, ovvero lo stesso movimento ripetuto svariate volte, modella il corpo. Quando le contrazioni muscolari innescate da meccanismi difensivi inconsapevoli, si ripetono varie volte, si tramutano in pattern fisici (postura, atteggiamento energetico-somatico, movimenti stereotipati e ripetitivi, ecc.) che influenzano la struttura del corpo, che a sua volta pesa ulteriormente sulla funzione. Il corpo così “deformato” nella struttura e nella sua dinamica, va a mantenere l’inibizione sia emotiva che cognitiva, innescate dai meccanismi di protezione (Ogden et al., 2013, p.21).

Lowen (1978, 1982) ha trascorso la sua vita a mostrare l’effetto visibile delle pressioni ambientali costanti sulla strutturazione somatica in termini di postura, tensione muscolare, ma anche strutturazione ossea, definizione e uso della voce, stile corporeo-energetico ecc. Dando senso alla bioenergetica come terapia bio-psichica, mediata da esercizi, posture e consapevolezze corporee per permettere un cambiamento funzionale e strutturale.

Analogamente, Hobson (1994) ci ricorda che il movimento ha la precedenza in situazioni di emergenza, l’azione fisica precede le reazioni cognitive ed emotive. E’ vantaggioso aggirare la corteccia e attivare un pattern motorio, governato direttamente dal tronco dell’encefalo. Ed è da lì che è necessario ripartire anche per l’intervento terapeutico.

La terapia ed il corpo

Nonostante questi studi, la storia dei disturbi traumatici, ci mostra una tardiva individuazione terapeutica integrata, ma ancor prima anche una tardiva individuazione diagnostica. Infatti il primo passaggio terapeutico è costituito dall’adeguato riconoscimento diagnostico. I Veterani del Vietnam ne sono un esempio, hanno subito un riconoscimento tardivo del trauma, quale origine dei quadri sintomatici complessi, da cui etichette ed interventi inefficaci, che hanno cronicizzato oltre modo i sintomi.

Stessa confusione e misconoscimento diagnostico si è verificato per altri tipi di vittime, erroneamente catalogate con le più disparate categorie psichiatriche. La definizione ed il riconoscimento del Disturbo da Stress Post Traumatico – DPTS (DSM 5), ha permesso alle vittime un riconoscimento ed un approccio più adeguato alle loro necessità e ha fornito dignità alla loro condizione.

Progressivamente è accresciuta l’attenzione e la sensibilità verso varie forme di esperienza traumatica, quali l’abuso nell’infanzia, il neglet, la violenza sessuale, il terrorismo, la deportazione, la vittimizzazione da catastrofi naturali, forme più invisibili quali la perdita di un genitore per omicidio da parte dell’altro genitore, la violenza domestica, le relazioni perverse (relazioni asimmetriche, stalking, bullismo, mobbing), il trauma da diagnosi nefasta, l’ospedalizzazione “traumatica” (reparto chiuso, anestesia cosciente, trapianto d’organi, ecc.).

L’esperienza clinica poi ci ha suggerito la necessità di una differenziazione, in base ai tipi di trauma, sia in termini oggettivi che soggettivi, in termini di continuatività, di natura causale (di tipo umano/non umano), di contesto, periodo evolutivo e fattori protettivi. Ne emerge una descrizione del quadro sintomatico e del vissuto soggettivo molto più articolato e complesso di quanto descritto nel DPTS, costituito da elementi di autodenigrazione, autosvalutazione, sensi di colpa, atti impulsivi, aggressività, amnesia, atti autolesivi ecc., delineando così quello che viene definito un Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Emerson, 2015, pp. 16-19; ICD 11, 2018).

Parallelamente la ricerca e la clinica hanno lavorato nell’individuazione di strategie e terapie (farmacologiche, psicologiche, rieducative) più appropriate per intervenire su un quadro somatico, emotivo, esperienziale e cognitivo assai complesso (Van der Kolk, 2015).

Negli anni si sono sperimentate varie forme di intervento, combinazione farmacologica (antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, ansiolitici, benzodiazepine, antipsicotici) con terapie dell’area psico-sociale (psicoterapia individuale, di gruppo, gruppi di veterani, gruppi di auto-mutuo aiuto, volontariato, rieducazione specifica ecc.), ricovero, ospedalizzazione prolungata.

Attualmente le forme di intervento che sembrano incidere in modo più significativo sono rappresentate da interventi specifici sul ricordo traumatico come l’EMDR, la terapia verbale, le terapie corporee e l’ausilio variabile di farmaci (Van der Kolk, 2015).

Le terapie corporee impiegate includono la bioenergetica (Lowen), il metodo Alexander (Alexander, 1998: Gray 1994), il metodo Feldenkrais (2011), il metodo Hakomi (2015), la terapia sensomotoria (Ogden e Fischer, 2016) ecc., tutte forme utili per lavorare sul corpo e sui traumi “in-corporati”, “in-carnati”.

Il corpo ci suggerisce che il trauma non è passato neanche quando è passato (Ogden et al., 2013, p. 11). Il corpo non mente e traduce una corretta visione della propria biografia.

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

Il lavoro con le componenti NV (non verbali) permette di recuperare il “corpo”, la percezione somatica, sensoriale, il giusto peso emotivo, di dare accesso al trauma e alla successiva integrazione delle parti separate e disconnesse.

Lo yoga o altre forme di terapie corporee, unite ad esercizi immaginativi, meditazione o training autogeno, costituiscono spesso la porta d’accesso per la cura dei pazienti traumatizzati, in uno stato di dissociazione (De Zulueta, 2015; Emerson, 2015; Van der Kolk, 2015; West, et al., 2017). Si parte proprio da dove il trauma è passato, dai primi effetti e dai mezzi necessari per mantenere attive le difese, il senso di ovattamento e distacco emotivo: il corpo e le sue rigidità.

Lo yoga si concentra sul respiro e sullo scioglimento di rigidità corporee, allenta lo stato di allerta, migliora il ritmo sonno-veglia, riduce l’ansia e l’irrequietezza motoria. Questo primo lavoro permette la riduzione delle difese e delle rigidità corporee collegate. La vergogna stessa è relata al corpo, al mostrarsi, all’immagine di sé. Se la vittima di violenza riesce a coabitare con il proprio corpo, con ogni parte di esso e delle sue sensazioni, allora può anche provare a mostrarsi nel suo esterno e nel suo interno.

Varie ricerche dimostrano che lo Yoga utilizzato per disturbi quali ansia, depressione, disturbi alimentari, iperattività, schizofrenia, produce variazioni biochimiche e fisiologiche: modulazione dell’arousal, attivazione del GABA, decremento di cortisolo e catecolamine (alla base delle reazioni di stress) (Rocha et al, 2012; Sarang e Telles, 2006; Streeter et al., 2010).

Ancora più nello specifico, altre ricerche, con l’ausilio della neuroimaging, hanno verificato che dopo 20 settimane di pratica yoga, le donne cronicamente traumatizzate sviluppano una maggiore attivazione di strutture cerebrali implicate nell’autoregolazione quali l’insula e la corteccia prefrontale mediale (Van der Kolk, 2015, pp. 112-113).

Con 10 sedute di TSY, ovvero la Trauma Sensitive Yoga (Vand der Kolk et al. 2014), le pazienti traumatizzate, non rispondenti alle terapie tradizionali cominciavano a mostrare una riduzione dei segni dissociativi, un atteggiamento meno critico verso di sé, una maggiore connessione con emozioni e migliori relazioni interpersonali, compresa la relazione terapeutica. Dai risultati, l’effetto del TSY uguaglia o supera quello della terapia cognitivo-comportamentale.

Dalle verifiche strumentali, si è inoltre osservato che lo Yoga riattiva l’area prefrontale mediale sinistra e l’area di Broca (responsabile di gran parte delle funzioni linguistiche deputate ad esprime l’emotività), disattivate in seguito al trauma (Emerson, 2015, p. 22-23).

Negli adulti multi traumatizzati l’impiego della sola psicoterapia o solo della mindfulness non sono sufficienti a produrre cambiamenti, riscontrabili invece con l’intervento anche di terapie corporee quali lo Yoga (West et al., 2017, p. 174).

Lo Yoga, come altri interventi di tipo psico-corporei, non sono da considerarsi un sostituto della psicoterapia bensì un’integrazione, in quanto permette la combinazione fra un approccio bottom up e top down, fondamentale per riunire le parti dissociate (Emerson, 2015; Brendom et al., 2018).

I processi bottom up e top down sono le due vie attraverso cui valutiamo se un evento è pericoloso o meno, il primo, guidato dal cervello rettiliano, procede attraverso decisioni inconsapevoli e automatiche, il secondo, guidato dalla corteccia prefrontale, procede grazie ad una serie di valutazioni coscienti. Durante le situazioni traumatiche, altamente pericolose, i due sistemi, corteccia e sotto-corteccia, si scollegano a sfavore delle funzioni più evolute, prevalendo un’attività del sistema sottocorticale, più veloce e connesso con le reazioni di sopravvivenza.

Il respiro ed alcune posture sembrano essere gli unici elementi gestibili da parte di entrambe le funzioni e in quanto tali assumono il valore di mediatori di cura, fra le aree corticali e sottocorticali (Van der Kolk, 2015, pp.72-73).

La presenza nel qui e ora, l’attenzione al corpo e alle percezioni somatiche, la concentrazione sul respiro, la natura ritmica dello stesso, costituiscono strumenti di contatto con sé, con le proprie sensazioni, di riduzione di tensione e arousal (West, 2015).

Rispetto ad altre tecniche di tipo corporeo, il TSY non si occupa delle emozioni, dei pensieri o dei ricordi elicitati dal movimento, ma unicamente dell’intracezione, della percezione corporea (Emerson, 2015, pp- 10-14). A livello teorico si appoggia alle Teoria sul Trauma, alle ricerche mediate dalla Neuroscienza e alla Teoria dell’Attaccamento (Bowlby, 1978, 1983; Ainsworth, 1979).

Rispetto all’Hata Yoga, ovvero allo yoga tradizionale, il TSY non lavora sulle posizioni o àsana, non fornisce indicazioni e procedure per raggiungere la posizione finale, bensì suggerisce, se la persona “se la sente”, di sperimentare alcune posture. Inoltre, per motivi legati al trauma stesso, non lavora con il respiro come procede l’Hata Yoga. Dall’esperienza di Emerson e della sua equipe infatti, in certi casi questo costituisce una riattivazione traumatica. Ad es. i veterani di guerra, durante gli esercizi volti ad una respirazione più profonda, possono rivivere gli episodi traumatici, il respiro costituisce un trigger relativo al fuoco in battaglia. Parimenti, certe posizioni, quali quella del “bebè felice” diventano un trigger per le vittime di stupro, o di abuso infantile (Emerson, 2015, p. 4-7).

Le parole stesse sono calibrate con estrema attenzione, per esempio viene evitata la parola “Posizione”, classicamente usata nello yoga, in quanto attivante per le persone sessualmente abusate, preferendo il termine “Forma”, emotivamente più neutro.

L’importanza fornita alla volontà, disponibilità e percezione di “sentirsi pronti” ad eseguire una certa forma, costituisce un passaggio importante. Spesso le vittime di traumi non sanno cosa vogliono, non sono collegate con il proprio sentire, e formulare loro la domanda apre ad una possibilità e ad un “permesso” emotivo-cognitivo: il poter scegliere.

Seppur muovendo da analoghi principi teorici, parzialmente differente è la Terapia Sensomotoria di Ogden (Ogden et al. 2013; Ogden et al. 2016). Al contrario del TSY, qui vengono impiegate e integrate tecniche di stampo corporeo con altre di stampo verbale. Ogden infatti parte dall’analisi dei tre livelli di elaborazione dell’informazione, reciprocamente influenzanti:

  • l’elaborazione cognitiva
  • l’elaborazione emotiva
  • l’elaborazione senso-motoria

La capacità cognitiva si riferisce all’abilità di concettualizzare, ragionare, attribuire significati, risolvere problemi e prendere decisioni. Si tratta della modalità prevalente dell’adulto, che procede con modalità top-down, dove le aree corticali più alte agiscono come un centro di controllo e la corteccia orbitale domina l’attività subcorticale. Mentre eseguiamo i nostri piani, spesso ignoriamo emozioni e sensazioni, che sono presenti ma non vengono tenute in conto per le decisioni. Emozioni e sensazioni ci sono e influenzano il pensiero, ma le aree corticali superiori sono in grado di mantenere il controllo e, se necessario, di fornire un senso.

Ratey (2002) sostiene che i neuroni motori possono guidare il senso di auto-consapevolezza, infatti i circuiti mentali usati per le azioni fisiche sono gli stessi delle azioni mentali. Il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo dunque sono modellati dal corpo e viceversa.

Per il soggetto traumatizzato le emozioni e le sensazioni sono così primari da non poter dare spazio ai meccanismi top-down, i vissuti emotivi e senso-corporei spesso generano distorsioni cognitive e pensieri irrazionali “Sono cattivo”, “E’ colpa mia”, “Sono stato giustamente punito” ecc., rigidi e difficilmente modificabili, che a loro volta influenzano emozioni e percezioni.

L’emozione ci aiuta ad agire in maniera adattiva, in quanto piattaforma pre-motoria, che ci guida o ci trattiene dall’azione.

Le persone traumatizzate perdono questa capacità, soffrendo spesso di alessitimia, ovvero dell’incapacità di riconoscere e definire le emozioni. Nei confronti dei propri stati emotivi possono essere distaccati e disinteressati o, all’inverso, possono viverli come urgenti ed immediati. Nei ricordi non verbali degli eventi traumatici, viene riattualizzato il tenore emotivo che, in uno stato di arousal critico, può condurre ad azioni impulsive ed inefficaci. Si perde la capacità di pensare in modo lucido, di tradurre le emozioni e differenziare le emozioni dalle sensazioni corporee.

L’elaborazione emotiva adeguata infatti, prevede la capacità di sperimentare, descrivere, esprimere ed integrare gli stati affettivi.

L’elaborazione sensomotoria si articola nello strutturare l’esperienza, articolare e integrare la percezione fisica/sensoriale, le sensazioni corporee, l’arousal fisiologico ed il funzionamento motorio. Nei disturbi traumatici la disregolazione crea confusione e sovrapposizione fra emozioni e sensazioni corporee, che si attivano e accentuano a vicenda, come per esempio per la tachicardia ed il panico.

Nei bambini molto piccoli e nei soggetti con disturbo traumatico l’elaborazione è di tipo bottom-up, ovvero sensomotoria, guidata dalle percezioni tattili e cinestesiche, condotte dagli strati sottocorticali. Coincide con ciò che Piaget (1966) ha individuato come prima forma di intelligenza nel bambino piccolo, che esplora e conosce l’ambiente. Gli schemi motori circolari primari e secondari ripetuti, creano quelli terziari, prodromi del pensiero.

Nella pratica clinica la Terapia Sensomotoria procede con l’elaborazione di tre aspetti sensomotori: le sensazioni corporee interne (qualunque mutazione organica, dovuta ad aspetti ormonali, chimici, muscolari, ecc.), la percezione attraverso i cinque sensi ed il movimento.

La terapia sensomotoria mira a ridurre l’arousal, permettere di identificare, distinguere gli elementi sensomotori, le emozioni e fornire loro un adeguato significato. Infatti l’identificazione delle percezioni sensoriali-organiche modifica il modo in cui sono vissute e interpretate, influendo a sua volta sui connotati emotivi.

La terapia integra il trattamento top-down, che utilizza gli strati superiori, con trattamenti bottom-up, mira a raggiungere la percezione e la consapevolezza di quanto avviene nella persona ad ogni livello (sensoriale, emotivo, cognitivo) nel momento del ricordo dell’evento traumatico. Si usano l’esplorazione consapevole di ogni evento sensomotorio, l’attivazione di un atteggiamento/clima giocoso, il cambiamento di tendenze di orientamento (la direzione dell’attenzione rivolta al qui e ora), l’attenzione al transfert somatico e relativo controtrasfert ecc.

Favorire la capacità integrativa richiede la differenziazione e il collegamento delle componenti separate dell’esperienza interna e degli eventi esterni, tale da creare una connessione significativa.

Sono stati pensati e articolati interventi specifici anche per i bambini con trauma complesso, che richiedono ulteriori e specifiche attenzioni. La specificità infatti deve tener conto della fase evolutiva, della non completa maturità di alcuni strumenti e funzioni, della ridotta capacità espressiva del proprio mondo interno attraverso il canale verbale, della presenza di caregiver di riferimento che sono parte del sistema, talvolta loro stessi vittime, talvolta attuatori di violenza, ma strumento di cura, portatori di risorse e coping, talvolta al contrario limitatori delle stesse e fonti di stress.

Da non dimenticare, inoltre, i limiti degli interventi adottati per gli adulti. Ad esempio alcune ricerche mettono in luce la mancata efficacia dell’EMDR nei bambini con alcuni tipi di trauma complesso (Kazatzias T., 2007).

Paris Goodyear-Brown in Tennessee, USA (2019; 2021) ad esempio ha strutturato la Narture House, un luogo dedicato esclusivamente ai bambini e ai loro familiari. Una casa-clinica interamente dedicata al trattamento dei bambini con trauma, con spazi interni ed esterni dedicati a specifiche attività.

Il primo spazio è rappresentato da una stanza dei bisogni, tranquilla dove talvolta i bambini possono rifocillarsi, attraverso il riposo o semplicemente a livello alimentare. I bisogni primari costituiscono necessariamente il primo livello e talvolta bambini traumatizzati e/o appartenenti a ceti socio-culturali bassi, sono deprivati innanzitutto in questi bisogni fondamentali.

Vi sono poi gli spazi specifici di gioco, che permettono l’applicazione del trattamento TraumaPlay.

Alcuni giochi/oggetti sono ritenuti indispensabili: l’amaca sospesa e l’altalena, quali mezzi di autoconsolazione e di controllo simbolico sul movimento, riparatrici; la sabbiera, uno spazio dove il bambino può immergersi e modellare usando le mani, ma anche il resto del corpo; gli animali (di materiali rigidi e morbidi) di tutti i tipi costituiscono importante oggetto di proiezione; ovviamente materiale per colorare e tanti oggetti in miniatura, della vita quotidiana (es. la cucina e le sue suppellettili; kit del dottore, ecc.).

Infine gli strumenti musicali costituiscono per la dott..sa Goodyear un elemento fondamentale, mezzo per far uscire, emettere suoni portatori di vissuti, per esprimere quanto sta capitando al loro mondo interno, non traducibile in parole. Il ritmo stesso della produzione musicale spontanea, ci suggerisce lo stato di attivazione interna, del nostro piccolo paziente. L’emissione di suono attraverso uno strumento, in special modo con alcuni come la chitarra, le percussioni, ecc., e/o attraverso la voce, inoltre coinvolge il corpo tutto intero, diventando così uno strumento diagnostico e di intervento senso-motorio.

Tenendo conto di tutto questo, capiamo come l’impiego degli strumenti musicali all’interno di un certo setting, permette il ripristino dell’arousal e la normalizzazione della disregolazione emotiva.

E’ importante creare lo spazio esterno, il setting adeguato perché i bambini riescano a stare, sentendosi protetti e gradualmente a loro agio, fino a poter creare un setting interno ed un filo che conduca il vissuto all’espressione esterna. E’ necessario dare spazio al TraumaPlay, ovvero permettere al trauma di essere rappresentato attraverso un gioco e attraverso il gioco modificato e superato, grazie alla possibilità e capacità espressiva, condivisa con un adulto.

Specifici spazi di educazione ed espressione sono rivolti anche ai familiari, per poter veicolare e traghettare quanto capita dal bambino all’adulto, sia in termini di conoscenza che di acquisizione strumentale. Spesso i caregivers sono i narratori della storia del piccolo, permettono di integrare quanto capitato, per ricostruire la narrazione del trauma.

La Narture House spesso lavora anche con bambini adottati e in affidamento, per cui l’attaccamento ed il tipo di legame strutturato costituisce uno locus di lavoro primario per il recupero della storia, ma anche per il trattamento traumatico, che ha come oggetto la relazione stessa e l’abbandono.

Conclusioni

La storia degli eventi traumatici, del loro misconoscimento, dei progressi nella loro individuazione, dei fallimenti e delle conquiste terapeutiche, sottolineano l’importanza di questo lavoro di continuità e integrazione fra vari strumenti conoscitivi e clinici, all’interno di un approccio specifico e “sensibilizzato” al trauma.

Nella pratica personale si è sperimentato e si continua a sperimentare in modo permanente attività mirate e rivolte al corpo, che comprendono sia aspetti mediati dalla corteccia top-down che altri mediati da aree sottocorticali bottom-up.

Si tratta di un lavoro che attinge a riflessioni e tecniche del TSY, della terapia sensomotoria e ad altre (bioenergetica, hata yoga, shatsu, arteterapia, esercizi gestaltici ecc.). Seppur si tratti di un lavoro non corroborato da studi strumentali e misurabili scientificamente, nell’esperienza quotidiana l’integrazione di terapia verbale e non verbale, in dose diversa in base alle singole persone e in base al setting, individuale/gruppo, rappresenta uno strumento d’elezione in svariati tipi di disturbo: disturbi alimentari, d’ansia, psicosomatici, traumi semplici e complessi.

Si tratta di una modalità di lavoro che richiede un ascolto attento e flessibile da parte del terapeuta ed una continua ricerca della giusta lettura, dell’equilibrio di parti diverse dell’individuo e della relazione. Nella pratica clinica ad esempio abbiamo verificato l’utilità della rappresentazione corporea, attraverso le arti grafiche, mediatrici creative inconsce per l’accesso al corpo, all’emotività e ad i livelli successivi. Niente è scontato e non ci sono percorsi pre-costituiti.

Si tratta invero di un ambito dinamico sia in termini di forze, di risorse, di energie e di componenti creative. Si mira a riconquistare la “Bellezza” come inteso da Riefolo (2018), ovvero la capacità di elicitare risorse e strategie “impensate”, primariamente nell’individuo, ma anche nella relazione terapeutica e nella relazione fra curanti.

La creatività infatti riguarda anche la capacità di guardare il corpo, contemplarlo nel processo diagnostico e nel percorso di cura, all’interno delle possibilità offerte dal contesto, compreso i limiti imposti dai setting esterni. Non sempre, nei contesti privati e pubblici si possiedono ambienti e strumentazioni atte a dar spazio al lavoro con il corpo, parimenti non tutti i pazienti sono pronti per lavorarci.

Fra le restrizioni specifiche e situazionali, stiamo vivendo un evento sanitario-storico-sociale quale l’emergenza Covid-19 che ha messo distanza fra noi e gli altri, isolando in particolare il corpo e spesso lasciando il dialogo privo di un’espressività fondamentale come quella facciale, o all’inverso introducendo il filtro del video che accresce la distanza fisica e riduce l’impatto energetico dell’incontro, assottiglia la visibilità dei segnali espressivi più fini.

Non ultimo, non tutti i curanti sono contraddistinti dalla dimestichezza con il proprio corpo come medium diagnostico e terapeutico. La consapevolezza di tale limitazione ci permette di offrire al paziente altri supporti, che non siamo in grado di offrirgli in prima persona, oppure di addentrarci in una conoscenza di noi, non ancora esplorata.

Il trauma è una realtà umana dolorosa, che spaventa, che spesso misconosciamo, ma offre anche un accesso importante alla conoscenza dell’essere umano e all’incontro con i vari livelli di noi stessi e degli altri, con gli strati più primitivi, istintivi, aggressivi, violenti, con il giudizio e la negazione.

Dietro la mascherina: gli operatori sanitari durante la pandemia

Nel mese di maggio 2021 è stata condotta la seguente indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica durante il periodo di pandemia, per successivamente programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

 

Abstract

 Gli operatori della sanità, con diversi ruoli e mansioni, si sono trovati ad affrontare un’emergenza senza precedenti, fronteggiando quotidianamente un pericolo insidioso, invisibile, che ha sollecitato al massimo grado il SSN, aumentando i carichi di lavoro e la tensione fisica e psichica.

In un simile contesto l’incremento degli stressor ambientali espone ad un tangibile rischio di burnout con conseguenze sul piano cognitivo, comportamentale, fisico ed emotivo.

Pertanto, in considerazione dell’emergenza sanitaria in atto si è reputato utile condurre un’indagine conoscitiva al fine di valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica con l’obiettivo ultimo di programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

Lo studio è stato condotto come da protocollo. Il campione è formato da n.168 operatori appartenenti alle UU.OO. selezionate che hanno aderito allo studio. Sono state effettuate analisi descrittive e inferenziali (correlazioni tra indici e Anova multivariate). Risultano interessanti i risultati emersi.

Il test appositamente elaborato volto a valutare il disagio emotivo legato alla situazione di emergenza dovuta alla pandemia di COVID-19 correla fortemente e positivamente (p< 0,01) con la scala Depression Anxiety Stress Scale-21 (DASS–21) DASS-2, con il test Maslach Burnout Inventory (MBI) nelle sottoscale Esaurimento emotivo (EE)  e Depersonalizzazione (DP) e correla negativamente nella sottoscala Realizzazione personale (RP).

Inoltre, risultano differenze statisticamente significative tra le seguenti variabili: sesso, anni di lavoro e ruolo professionale agli indici dei test utilizzati.

Alla luce dei risultati ottenuti sono stati attivati interventi psicologici presso l’U.O. di Psicologia Clinica.

Il razionale dello studio

L’oncologia è da sempre un’area della medicina ad alto investimento psicologico. Lavorare con pazienti oncologici è, infatti, fonte di notevoli soddisfazioni umane e professionali ma comporta un alto costo emotivo (Poppito et al, 2014).

In questo contesto l’incremento degli stressor ambientali espone ad un possibile rischio di burnout. Attualmente non ci sono dati sul distress peritraumatico da COVID negli operatori sanitari specifici di area oncologica. Tuttavia, alcuni dati pubblicati su riviste internazionali suggeriscono che essi abbiano affrontato una enorme pressione emotiva personale e professionale. Che gli operatori sanitari possano riportare in corso di epidemie e pandemie influenzali problemi di salute mentale, anche in misura maggiore di quella riscontrata nella popolazione generale, è un fenomeno descritto in letteratura in merito alla SARS, la MERS e H1N1 e confermata dai recenti studi sul COVID-19 (Costantini, 2021). Nelle categorie sanitarie la prevalenza di disturbi psicologici e psicopatologici varia anche secondo la fase pandemica, e sono stati riscontrati picchi più elevati nei periodi iniziali quando “l’urto” può causare una risposta più elevata di stress.

In uno studio cinese su 1257 operatori sanitari, infermieri (60,8%) e medici (39,2%), che lavoravano in Ospedali di Wuhan (60,5%) o fuori Wuhan, e di cui il 41.5% erano nel front line, sono stati osservati sintomi depressivi (50.4%), ansia (44.6%), insonnia (34.0%) e distress (71.5%) (Lai e al, 2020).

Uno studio italiano effettuato dal 27 al 31 marzo 2020 su 1379 operatori sanitari di tutte le regioni usando una tecnica di campionamento a valanga, riporta sintomi di distress post traumatico misurati con il Global Psychotrauma Screen nel 49,38% dei casi, sintomi di depressione severa misurati con PHQ-9 nel 24,73% dei casi, di ansia misurata con GAD-7 nel 19,80%, di insonnia misurata con il 7-item Insomnia Severity Index nell’8,27%, e di elevato stress percepito misurato con il 10-item Perceived Stress Scale nel 21,90% dei casi. Il sesso femminile e l’età più giovane sono fattori rischio per tutti gli oucomes, essere stati esposti personalmente al contagio lo è per la depressione, lavorare nel front line è correlato in modo positivo a sintomi di stress post traumatico, il decesso di un collega, ospedalizzato o in quarantena, è risultato associato significativamente a livelli più elevati di insonnia, depressione e stress percepito, infine essere infermieri o operatori socio sanitari costituisce un fattore di rischio per insonnia severa (Rossi et al, 2020).

Pertanto, in considerazione all’emergenza sanitaria, nel mese di maggio 2021 è stata condotta la seguente indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica per successivamente programmare interventi preventivi, assistenziali e di cura in ambito psicologico.

Obiettivi

Gli obiettivi dello studio sono stati:

  • Rilevare livelli di ansia, depressione e stress
  • Valutare la presenza dei disturbi post-traumatici
  • Rilevare il rischio di burnout
  • Valutare l’impatto emotivo della pandemia da Covid-19

Metodologia

Il Comitato Etico dell’A. O. Ospedali dei Colli (Napoli) ha approvato la ricerca. Lo strumento utilizzato per raccogliere i dati è stato Google Moduli e le informazioni sono state trattate in maniera anonima nel rispetto delle norme sulla privacy. I dati sono stati utilizzati per soli scopi di ricerca e non è possibile risalire all’identità dei partecipanti.

Inoltre, ogni partecipante allo studio ha compilato il modulo di adesione, dichiarando di aver letto e compreso tutte le informazioni riguardanti l’indagine. Nel messaggio di invito è stato riportato l’obiettivo dello studio e il consenso alla sua partecipazione.

Per raggiungere gli obiettivi prefissati sono stati utilizzati questionari validati ed è stata elaborata una scheda ad hoc per rilevare i seguenti dati socioanagrafici e lavorativi utili all’elaborazione dei risultati: sesso, età, stato civile, unità operativa di appartenenza, titolo di studio, ruolo professionale, rapporto di lavoro, anni di servizio, anni di servizio nell’attuale unità operativa.

Per valutare l’alessitimia è stata utilizzata la Toronto Alexithimia Scale (TAS-20) costituita da 20 item valutanti 3 scale fattoriali: DIF (Difficulty Identify Feelings), difficoltà ad identificare i sentimenti e a distinguere tra sentimenti e sensazioni fisiche; DDF (Difficulty Describing Feelings), difficoltà nel descrivere i propri sentimenti agli altri; EOT (Externally -Oriented Thinking), stile cognitivo orientato verso la realtà esterna. Il punteggio TAS-20 va da 20 a 100 con valutazione confermata di alessitimia per valori di 60 (cut-off) o maggiori, mentre per valori da 51 o inferiori non viene riscontrato alcun quadro alessitimico.

Per valutare il livello di burnout è stato utilizzato il Maslach Burnout Inventory (MBI), questionario di 22 item, ognuno con 6 gradi di risposta su scala Likert, che affronta tre diversi campi della professionalità: Esaurimento emotivo (EE), sensazione di esaurimento o esaurimento energetico; Depersonalizzazione (DP), maggiore distanza mentale dal proprio lavoro e sentimenti di cinismo; Realizzazione personale (RP), sensazione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Imm 1

Questionario Maslach Burnout Inventory-General Surevy (MBI-GS): score per il calcolo dei punteggi e la stratificazione del rischio di burn-out per ogni dominio della sindrome da burn-out

E’ stata utilizzata la Depression Anxiety Stress Scales (DASS-21) che consente di rilevare tre costrutti: Depression, Anxiety, Stress. I punteggi di cut-off raccomandati per le etichette di gravità convenzionali (normale, moderata, grave) sono i seguenti:

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Imm 2

Cut-off della Depression Anxiety Stress Scales

Lo stress soggettivo causato da eventi traumatici è stato invece misurato con la scala Impact of Event Scale-Revised (IES-R ) mentre per valutare la percezione dello stress è stata utilizzata la Perceived Stress Scale (PSS; Scala per lo Stress Percepito). In merito al distress legato alla situazione di emergenza COVID-19 è stato elaborato un questionario costituito da 12 domande dicotomiche.

E’ stato attribuito punteggio 1 per ogni risposta “Sì” e 0 per ogni risposta “No”. Dalla conversione dei punteggi totali la media risulta essere 3.55, la deviazione standard 1.9. Sono state ipotizzate due categorie: 0-4 nessun distress; ≥ 5 Rischio distress.

Elaborazione statistica

Sono state effettuate analisi descrittive (medie e deviazione standard), correlazioni bivariate e Anova multivariate, prodotte dalle analisi del programma SPSS25.

Per tutte le analisi, è stato utilizzato come indicatore di significatività statistica il valore di p inferiore a 0,05 (2-code). Sono state impiegate statistiche descrittive per illustrare le caratteristiche demografiche e cliniche del campione di studio. Il coefficiente di Pearson è stato utilizzato per esaminare le relazioni esistenti tra le variabili continue indagate.

L’analisi multivariata della varianza (MANOVA) è stata utilizzata per confrontare i gruppi di studio.

Descrizione del campione

Il campione è costituito da 168 operatori sanitari, di età compresa tra 24 e 60 anni (Media=45,36; Dev. Std.=11.45).

Di essi, le donne sono il 60,71%, gli uomini il 39,29; il 67 % degli operatori è coniugato, il 23% è nubile/celibe, il 2% vedovo, l’8% separato.

Per quanto riguarda i dati lavorativi, il campione è costituito da Infermieri Professionali (51%), Medici (26,8%), specializzandi (8.5%), Oss (7.3%), Tecnico sanitario di radiologia medica (3,7%), Fisioterapista 4,3%, Dietista (1,2%), altro (data manager, ingegnere biomedico, ecc) 4.7%.

Infine, il 6,7% del campione da quando è iniziata la pandemia ha intrapreso colloqui psicologici e una sola persona ha chiesto una consulenza psichiatrica (0.6%).

Per i diversi gruppi designati dal campione, analizzando le risposte al questionario autobiografico (Variabili Indipendenti), abbiamo eseguito un’analisi della varianza mista (ANOVA multivariata) con i risultati degli indici dei test in oggetto. Risulta significativa l’interazione tra gli indici dei diversi test e l’età lavorativa (F(3,167)=1,071; p=.013; η2=.435), come dimostrano i grafici che contengono i risultati medi delle risposte ai test per la variabile anni lavorativi.

Analizzando i risultati ottenuti dal questionario TAS-20 emerge che il 78,6% degli operatori comunica correttamente i propri affetti e sentimenti e non sono pertanto alessitimici, mentre il 16.07% è a rischio e il 5,3% possiede rischio alto (Tab.1).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 1

Tab. 1 Questionario TAS-20

Non c’è correlazione tra età, sesso e stato civile e livello di alessitimia, mentre i maggiori livelli di alessitimia sono presenti tra gli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 11 e 20 anni; minori livelli di alessitimia sono presenti nei medici che riescono maggiormente a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri. Come si evince dai grafici  n. 1, 2, 3, riportati in seguito, per gli indici dell’alessitimia emersi al test Tas-20, i maggiori livelli di alessitimia sono presenti negli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 11 e 20 anni.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 1

Grafico 1: Interazione significativa tra anni lavorativi e il totale TAS-20.

 

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 2

Grafico 2: Interazione significativa tra il gruppo anni lavorativi e il totale alla sottoscala DIF (le difficoltà dell’individuo a descrivere i propri sentimenti e a distinguerli dalle sensazioni del corpo).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 3

Grafico 3: Interazione significativa tra il gruppo anni lavorativi e il totale alla sottoscala DEF (difficoltà nei descrivere i propri sentimenti agli altri).

Sono stati calcolati le percentuali e i punteggi medi delle tre subscale del Maslach Burnout Inventory che rilevano, per ciascuna sottoscala, un livello di burnout inferiore a quello medio del campione normativo utilizzato nella taratura italiana dello strumento.

Nel nostro campione, in generale, ritroviamo valori medio bassi per quanto riguarda Esaurimento Emotivo e  Depersonalizzazione, e una buona Realizzazione Personale.

E’ emersa una differenza significativa alla sottoscala della Depersonalizzazione del test MBI, concernente la maggiore distanza mentale dal proprio lavoro e sentimenti di cinismo (F(1,167)=1,071; p=.012; η2=.467), ove le donne appaiono mostrare maggiore distacco mentale dal proprio lavoro (Grafico 4).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 4

Grafico 4: Interazione significativa tra il sesso e la sottoscala depersonalizzazione del test MBI

In merito agli indici dell’Esaurimento emotivo e Realizzazione personale dello stesso test, i maggiori livelli sono presenti negli operatori che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 1 e 10 anni; per la Depersonalizzazione i maggiori livelli sono espressi nel gruppo di operatori che lavorano da più di 30 anni. Per gli indici dell’Esaurimento emotivo e della Realizzazione personale, i maggiori livelli sono presenti negli Infermieri e medici, per la Depersonalizzazione i minori livelli vengono espressi dai medici specializzandi e gli Operatori Sociosanitari.

Passando ai dati della DASS-21 si osserva (Tab. 2) come il 17% presenti una Depressione Moderata, il 16% Ansia, il 30,9 Fatica.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 2
Tab. 2 Questionario DASS-21

Non ci sono differenze significative (p<=,069) tra il sesso e le tre sottoscale della Dass-21, anche se le donne presentano punteggi medi più alti (vedi grafico sottostante).

Per gli indici di Ansia, Depressione e Fatica emersi al test DASS-21, i maggiori livelli sono presenti nei dipendenti che hanno maturato un’esperienza lavorativa tra 1 e 10 anni  (F(3,167)=,061; p=.042; η2=.125).

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 5Grafico 5: Interazione significativa tra gli anni lavorativi e la sottoscala depressione del DASS.

In merito al test IES-R si osserva che il 66% del nostro campione presenta un punteggio nella norma alla percezione dello stress (Tab. 3).Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 3

Tab. 3  Test IES-R

Per gli indici che valutano lo stress soggettivo causato da eventi traumatici, misurati dal test IES-R, i soggetti che maggiormente ne risentono sono quelli che lavorano dai 21 ai 30 anni.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Grafico 6

Grafico 6: Interazione significativa tra gli anni lavorativi e la scala di impatto dell’evento

In merito ai risultati al test PSS, alla scala dello stress percepito solo il 3% del nostro campione presenta livelli moderati di stress. In merito a questo test non abbiamo differenze significative tra i gruppi di dipendenti che lavorano da diversi anni.

Per valutare la relazione tra le dimensioni di rischio di stress collegato all’evento Covid-19 (questionario ad hoc per il Covid-19) e i diversi costrutti considerati (Tas-20 per l’alessitimia, IES-R scala di impatto dell’evento, MBI Maslach Bornout Inventory, DASS-21,  Depression Anxiety Stress Scales, Scala dello stress percepito) sono state eseguite analisi delle correlazioni (r di Pearson).

La Tabella 4 (Correlazioni bivariate) mostra una correlazione significativa e positiva (p < 0.01) tra il questionario ad hoc che esprime il rischio stress legato all’emergenza Covid-19 e tutte le sottoscale dei diversi test.

Covid 19 il vissuto degli operatori sanitari in area oncologica Tab 4

Tab. 4  Correlazioni bivariate con gli indici del test ad hoc, per il rischio stress del Covid19,Tas-20 per l’alessitimia, IES-R scala di impatto dell’evento, MBI Maslach Bornout Inventory, DASS-21,  Depression Anxiety Stress Scales, Scala dello stress percepito.

Le uniche correlazioni negative emergono con la sottoscala RP del test MBI, che riguarda la realizzazione professionale e le altre sottoscale. Pertanto all’aumentare dello stress percepito per il Covid-19 diminuisce il desiderio di realizzazione personale.

Discussione e conclusioni

Che gli operatori sanitari paghino un alto tributo alle epidemie è un dato noto nella storia delle malattie infettive e testimonia sia la tendenza del personale sanitario ad assumere rischi per curare i pazienti, sia il fatto che spesso esso si trova a confrontarsi con le epidemie senza adeguati sistemi di sicurezza (Jones DS., 2020).

Dati al 23 aprile 2020 a cura dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano come l’11% dei casi totali di contagio in Italia si riferiscano ad operatori sanitari, con un’età mediana di 48 anni (verso età mediana di 62 anni dei casi totali), con una prevalenza di donne (69%), ed un tasso di letalità media dello 0,40% (Istituto Superiore di Sanità, 2020).

Da una revisione della letteratura, consultando la banca dati biomedica Pubmed negli ultimi anni, si evince come il livello di stress nel personale sanitario sia maggiore nei paesi che hanno gestito per primi l’emergenza pandemica e sono stati riportati punteggi significativi in stress, depressione, ansia, insonnia, paura, rabbia, ipereccitazione, dolore, reazioni post traumatiche, burnout professionale. L’analisi evidenzia come, tra i professionisti, il genere femminile sia maggiormente esposto a tali manifestazioni e come il personale infermieristico riporti livelli più elevati di stress, depressione ed ansia rispetto ad altri operatori.

I nostri risultati confermano l’impatto negativo che la pandemia di Covid-19 ha avuto sul benessere degli operatori sanitari con differenze statisticamente significative tra le seguenti variabili: sesso, anni di lavoro e ruolo professionale.

Alla luce dei risultati ottenuti nella nostra ricerca appare fondamentale attivare interventi psicologici dedicati ad operatori di area oncologica.

Tra essi, nei mesi iniziali di lockdown sono stati molto utili le help line telefoniche da remoto (Nicolò, 2021) “Esse prevedono l’accoglienza della motivazione della chiamata e comprenderne il senso. Ad esso segue un triage psicologico per raccogliere in breve tempo informazioni sulla natura e gravità del problema presentato, sulle risorse disponibili per affrontarlo. In alcuni casi può essere sufficiente un unico contatto che assume caratteristiche di counselling o un breve intervento sulla crisi. Tuttavia in presenza di sintomi persistenti, difficoltà marcate familiari, nel lavoro o nella vita sociale con rischio di complicanze e/o di suicidio o evidenza di disturbi psicopatologici maggiori viene effettuato un intervento strutturato di secondo livello con invio ad uno psicoterapeuta o psichiatra”.

Tuttavia, reputiamo più utile intervenire “a monte” sul benessere organizzativo e non dopo che il disagio si sia manifestato nell’operatore. E’ senz’altro utile offrire assistenza psicologica ai lavoratori che sviluppano, ad esempio, forti quote d’ansia legate proprio al contesto professionale e ai rischi ad esso connessi. Questo rientra nei compiti istituzionali degli psicologi ospedalieri (Vito, 2014). Tuttavia, come in medicina, anche in psicologia è decisiva la prevenzione e non solo la cura delle malattie. Ma è chiaro che per mettere mano all’organizzazione del lavoro occorre una visione sistemica che tenga conto sia della complessità inter e intra-istituzionale, sia della componente psicologica in gioco. Altrimenti, per quanto di buona volontà, può risultare perfino dannosa una lettura del disagio dell’operatore in relazione esclusivamente alle sue caratteristiche individuali. Il discorso ovviamente diviene molto ramificato. Entrare nel merito delle dinamiche organizzative comporta affrontare questioni politiche, sindacali, economiche che apparentemente non sembrerebbero di pertinenza della psicologia.

Il benessere degli operatori sanitari è garantito dal loro rispetto e dalla loro valorizzazione, che non passa solo attraverso riconoscimenti economici premiali. Da questo punto di vista, risultano essenziali, nel rispetto dei diversi ruoli presenti nelle grandi istituzioni sanitarie, la capacità di sviluppare il senso di appartenenza e il gioco di squadra.

 

Ayahuasca e autocompassione

Nell’ultimo decennio, gli effetti dell’ayahuasca hanno attirato sempre più l’attenzione dei ricercatori biomedici a causa dei suoi potenziali benefici clinici.

 

Che cos’è l’ayahuasca

 L’ayahuasca è una bevanda con effetti psichedelici particolarmente usata in Amazzonia durante rituali a scopi terapeutici (Dos Santos et al., 2017). Negli ultimi due decenni, l’uso dell’ayahuasca è notevolmente cresciuto nel mondo occidentale (Frecska et al., 2016).

L’infuso di ayahuasca è generalmente preparato decondizionando gli steli della vite Banisteriopsis caapi e combinandoli con le foglie di Psychotria viridis; questa preparazione derivata dalla pianta contiene N,N-dimetiltriptamina (DMT; González-Maeso & Sealfon, 2009).

La DMT è legata al neurotrasmettitore serotonina (5-idrossitriptamina) e induce brevi ma intense modifiche dello stato di coscienza (Strassman et al., 1994). I principali effetti sono cambiamenti percettivi, alterazione del contenuto del pensiero, intensificazione delle emozioni, introspezione, umore positivo e senso di benessere (Dos Santos et al., 2012).

Nell’ultimo decennio, gli effetti riportati dell’ayahuasca hanno attirato sempre più l’attenzione dei ricercatori biomedici a causa dei suoi potenziali benefici clinici (Frood, 2015). Diversi risultati hanno infatti riportato che l’ayahuasca e i suoi alcaloidi possono avere proprietà ansiolitiche, antidepressive e anti-dipendenza, oltre che migliorare la disregolazione emotiva (Domínguez-Clavé et al., 2016; Domínguez-Clavé et al., 2019).

Altri studi hanno invece valutato l’impatto di questa sostanza sulle capacità legate alla mindfulness (ad esempio accettazione, non reattività e decentramento); i risultati hanno dimostrato che sembra aumentare queste capacità provocando effetti simili a quelli osservati a seguito del mindfulness training (MT; Chiesa et al., 2014).

La pratica di mindfulness e l’autocompassione

Praticare la mindfulness aumenta l’autocompassione che, non solo è associata positivamente al benessere psicologico (MacBeth & Gumley, 2012), ma sembra anche fungere da strategia di regolazione delle emozioni, insegnando agli individui come affrontare il dolore e la sofferenza (Hölzel et al., 2011).

Il termine ”compassione” deriva dalla parola latina ”compati”, che significa ”soffrire con” (Strauss et al., 2016). La compassione è un aspetto fondamentale nella psicologia buddista, che non comporta solo l’essere in contatto con la sofferenza, ma anche un profondo impegno per alleviarla. La compassione può essere diretta non solo verso i nostri cari, ma verso tutto il genere umano, anche verso chi non conosciamo (Neff, 2003).

 L’autocompassione, invece, è intesa come l’atto di trasferire questi atteggiamenti verso gli altri, verso se stessi, processo che per alcuni individui è molto complicato (Jazaieri et al., 2013). L’autocompassione implica non essere giudicanti verso se stessi (a livello cognitivo), e anche essere in grado di sentire e connettersi con la propria sofferenza (a livello emotivo). Per Germer (2011) autocompassione significa prendersi cura di se stessi come si farebbe per una persona cara. Da una prospettiva buddista, Neff (2003) concettualizza l’autocompassione con tre componenti principali: gentilezza, umanità comune e consapevolezza.

Gli effetti dell’ayahuasca sull’autocompassione

Anche se nel contesto di ricerca in merito alle sostanze psichedeliche l’autocompassione ha ricevuto scarsa attenzione, diversi studi hanno dimostrato che gli individui che ricevono una psicoterapia assistita da psichedelici ottengono punteggi più alti sulle misure di accettazione e autocompassione (Malone et al., 2018). Altri studi hanno scoperto che una singola dose di ayahuasca può migliorare significativamente l’autocompassione (Sampedro et al., 2017) e che chi consuma regolarmente la sostanza sembra avere una visione più positiva del sé rispetto agli utenti ayahuasca-naive.

Sulla base di questi risultati, uno studio esplorativo di Domínguez-Clavé e colleghi (2021) ha cercato di esaminare l’effetto dell’assunzione di ayahuasca sull’autocompassione auto-riferita. I risultati hanno mostrato una differenza significativa tra i punteggi pre e post assunzione, confermando così l’ipotesi che a seguito dell’assunzione di questa sostanza è presente un miglioramento dell’autocompassione. Il miglioramento osservato sembra essere simile a quello ottenuto da uno studio di Montero-Marin (2020), che ha valutato l’effetto della Terapia della Compassione basata sull’Attaccamento (ABCT) sulla compassione verso sé stessi.

Dati questi risultati, l’aumento dell’autocompassione dopo una singola sessione di ayahuasca (contro 8 settimane di psicoterapia) è un risultato davvero promettente. L’ayahuasca potrebbe migliorare l’autocompassione più rapidamente di altri interventi; potrebbe potenzialmente essere combinata con la MT o con altre terapie specifiche basate sulla compassione (come l’ABCT) per migliorare ulteriormente questa dimensione.

A favore di quanto riportato, gli individui che fanno spesso uso di ayahuasca hanno riferito che questa sostanza ha la capacità di evocare un sentimento di amore e gentilezza verso se stessi, aumentando di conseguenza anche la componente compassionevole. In questo contesto, sembra più facile concepire l’ayahuasca come un potenziale agente per aiutare a rielaborare eventi altamente emotivi e potrebbe anche essere di interesse clinico per una potenziale nuova linea di trattamento per eventi passati traumatici o per il disturbo da stress post-traumatico. Future ricerche saranno necessarie per far luce sul ruolo dell’autocompassione nell’esperienza dell’ayahuasca, sulla sua possibile influenza sul benessere e la sua potenziale utilità clinica.

Stress e cancro: esiste una relazione?

La psiche e il sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono responsabili del mantenimento dell’omeostasi. A volte, di fronte a eventi impegnativi, la risposta dell’organismo non è adeguata in termini di intensità e durata dello stress, ciò altera l’equilibrio e determina la comparsa di diverse malattie.

 

 Il termine stress e i sintomi associati allo stress compaiono nella medicina intorno al 13° secolo. L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA) è coinvolto nello stress, in particolare questo asse comprende l’ipotalamo, la ghiandola pituitaria e le ghiandole surrenali. Quando questi tre organi interagiscono insieme formano l’asse HPA, la parte più importante del sistema neuro-endocrino che controlla la reazione allo stress. Oltre a controllare lo stress, controlla anche altre importanti funzioni del corpo come: digestione, sistema immunitario, emozioni e sessualità. Oggi sappiamo che esistono molti tipi di stress e tutti hanno un effetto sull’asse HPA. La regolazione dell’asse HPA viene eseguita attraverso diversi neurotrasmettitori, ma i più importanti sono: la dopamina, la noradrenalina e la serotonina. Diverse ricerche stanno inoltre dimostrando che il neurotrasmettitore ossitocina, che è associato alle emozioni positive e al contatto sociale, ha un effetto di soppressione sull’asse HPA con conseguente riduzione dello stress. Ci sono studi che hanno dimostrato che gli ormoni dell’asse HPA possono essere associati a stress, malattie della pelle e tumori della pelle, questo succede quando si ha un’iperattività degli ormoni dell’asse HPA, nel cervello. Una condizione di stress cronico ha effetti negativi sui neuroni dell’ippocampo, provocando riduzione della neurogenesi e atrofia dei dentriti (Gregurek et al., 2015).

Negli ultimi anni sono stati pubblicati tre studi sulla relazione mente-cancro. Il primo condotto da un gruppo della Ohio University (USA), ha rilevato che un programma per la gestione dello stress riduce le recidive e migliora la sopravvivenza di persone colpite da cancro (Bottaccioli, 2014). Hanno partecipato allo studio 227 persone operate per cancro al seno, prima di iniziare le altre terapie previste sono state divisi in due gruppi: un gruppo ha seguito un programma per la gestione dello stress, l’altro invece no, l’intervento si è articolato in 26 sedute per 39 ore di lavoro. In ogni seduta sono state insegnate tecniche di rilassamento e discusse strategie di soluzione dei problemi. A 11 anni dall’inizio della malattia le persone che avevano frequentato il programma sono andate incontro a meno recidive e a una maggiore sopravvivenza rispetto al gruppo che aveva fatto solo i classici controlli medici. Anderson e collaboratori (2005) hanno inoltre notato come parecchi mesi prima della recidiva, il sistema immunitario andava incontro a un’alterazione in senso infiammatorio. Il sistema immunitario infatti è il fattore chiave dell’evoluzione della malattia tumorale.

Il secondo studio, guidato da un gruppo della Loyola University of Chicago (USA), evidenzia i cambiamenti in positivo che si realizzano nel sistema immunitario dei pazienti con cancro sottoposti a un intervento di gestione dello stress (Bottaccioli, 2014). A questo studio hanno partecipato 75 donne che erano state operate di cancro al seno (Witek-Janusek et al., 2008). Anche in questo studio le donne sono state divise in due gruppi: uno ha seguito un corso di 8 settimane, durante le sedute ha appreso tecniche antistress e meditative; l’altro invece no. Prima di iniziare l’esperimento è stata valutata la qualità della vita di queste donne, il loro livello di stress (misurando i livelli di cortisolo, principale ormone dello stress) e il livello del loro sistema immunitario (attraverso la misurazione di alcune citochine e l’attività di alcune cellule). In questa fase tutte le donne hanno riportato bassi punteggi in riferimento alla qualità della vita, alti livelli di stress e un sistema immunitario depresso. Già a metà del corso di meditazione ci sono stati cambiamenti importanti che si sono protratti fino alla fine del corso e a tre mesi dalla conclusione del programma. Le donne che avevano partecipato al corso hanno ottenuto un punteggio più alto in riferimento alla qualità della vita e i livelli di cortisolo erano più bassi rispetto alle donne che non avevano partecipato al corso di meditazione (Bottacioli, 2014).

Il terzo studio diretto dal gruppo di psicobiologia dell’Università di Londra, spiega invece che lo stress aumenta l’incidenza del cancro e aggrava la sopravvivenza. Anche questo studio ha sottolineato il ruolo fondamentale che riveste il sistema immunitario. In particolare questo studio ha dimostrato come le pazienti che meditavano riuscirono a recuperare il profilo immunitario “di una persona che è in grado di tenere a bada la spontanea formazione delle cellule neoplastiche” (Bottaccioli, 2014).

 Per decenni si è discusso sulla relazione mente-cancro. Vi erano coloro che sostenevano che “il cancro è tutto nella testa ed è da qui che bisogna cacciarlo per guarire” (Bottaccioli, 2014), e coloro che invece affermavano che il cancro altro non era che un fenomeno di genetica molecolare. Alla fine degli anni Novanta Spiegel, psichiatra della Stanford University coinvolse in un intervento per la gestione dello stress, delle donne trattate per cancro al seno; l’intervento ha migliorato sia la sopravvivenza che la qualità della vita di queste pazienti. Successivamente sono stati condotti altri studi con l’obiettivo di mettere in evidenza se la psicoterapia e la gestione dello stress sono implicati nell’incremento della sopravvivenza dei malati di cancro. Tuttavia su dieci studi, cinque risultarono favorevoli e cinque contrari (Bottaccioli, 2014). Spiegel (2002) ha spiegato questi risultati contraddittori, affermando che gli studi erano disomogenei: alcuni avevano usato la psicoterapia individuale, altri quella di gruppo e infine altri studi avevano messo insieme persone con tumori diversi a uno stadio della malattia.

La Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI)

Lo stress è il modo in cui l’organismo risponde a una sfida dell’ambiente, esterna o interna e può essere benefico o dannoso se la situazione persiste nel tempo. La Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) è definita come una scienza transdisciplinare che studia e analizza le interazioni tra la psiche e il sistema nervoso, endocrino e immunitario e le loro ripercussioni nella clinica. Nel 1984 si sviluppa la PNEI. Il sistema Psiconeuroendocrinoimmunologico comprende numerosi organi: cervello e ipotalamo (sistema nervoso), ipofisi (sistema endocrino), midollo osseo e timo (sistema immunitario) (Gonzalez et al., 2018).

Al giorno d’oggi quasi tutta la popolazione è esposta a situazioni stressanti per lungo tempo, il che causa lo squilibrio del sistema PNEI. Per questo motivo, lo stress è considerato una pandemia del nostro tempo che è correlata all’aumento dell’obesità, dell’ipertensione arteriosa e dell’aterosclerosi (Gonzalez et al., 2018). Molti pazienti a causa dello stress soffrono di manifestazioni psicosomatiche come forte mal di testa, disturbi del sonno, sensibilità ai rumori e alla luce. Atri possono soffrire di malattie infiammatorie che colpiscono diversi organi, ad esempio depressione, cancro, malattie cardiovascolari, infarti, morbo di Parkinson, malattie psichiatriche e grave affaticamento cronico (Gonzales et al., 2018). Ci sono meccanismi noti che collegano direttamente lo stress psicologico alla progressione del cancro. I cambiamenti psicologici influenzano il sistema immunitario e quindi causano un ambiente adatto per lo sviluppo del tumore e la sua progressione. Con lo sviluppo della PNEI, vi è anche un numero significativo di ricerche che stanno cercando di trovare i meccanismi di questa connessione fra il sistema immunitario e le alterazioni delle cellule maligne. Un meccanismo che potrebbe avere una stretta connessione con la genesi dei tumori è quello dell’immuno-sorveglianza. Una teoria sull’immuno-sorveglianza è stata pubblicata nell’anno 2001 e, secondo tale teoria, l’interferone-ɤ (INF- ɤ) e i linfociti prevengono lo sviluppo del tumore primario. Tra i linfociti coinvolti sono state rilevate le natural-killer (cellule NK). Le cellule NK giocano un ruolo importante nel distruggere le cellule tumorali. Alcune ricerche hanno dimostrato che lo stress può causare una caduta di INF- ɤ. Uno studio condotto tra gli studenti di medicina nei periodi di esame, Ha dimostrato che il loro livello ematico di INF- ɤ scendeva significativamente nei periodi di esame rispetto ad altri periodi dell’anno non così stressanti (Ruška et al., 2015).

Sebbene il processo patogeno dello stress non sia stato pienamente compreso fino ad ora, manifestazioni di stress cronico sono state riscontrate in condizioni diverse, ad esempio nel 70% dei pazienti con artrite reumatoide, in oltre l’80% dei pazienti con sclerosi multipla, tra il 57% e il 100% nei malati di cancro e tra il 37% e il 57% dei pazienti affetti da Parkinson. È necessario quindi sviluppare stili di vita più sani, eseguire attività fisica ed evitare situazioni di stress cronico (Gonzalez et al., 2018).

 

Master annuale: diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità – III Edizione online, Ottobre 2022

Tra ottobre 2022 e ottobre 2023 si terrà online la terza edizione del master Diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità con docenti nazionali e internazionali.

 

Perché un master sui disturbi di personalità

Secondo dati recenti, si stima che i Disturbi di Personalità abbiano una prevalenza pari al 10-12% nella popolazione generale, rappresentando una quota rilevante delle persone afflitte da una qualsiasi sofferenza psicologica. Inoltre, la comorbilità tra disturbi di personalità e disturbi sintomatologici aumenta la severità di questi ultimi e ne peggiora la prognosi. Nella pratica clinica, è frequente sperimentare difficoltà con questi pazienti: non si tratta solo di riuscire a comprendere e inquadrare fenomeni spesso molto complessi, ma anche e soprattutto di trovare una chiave relazionale che permetta il raggiungimento di obiettivi comuni. Questo pone un’importante sfida ai clinici: al di là di quanto specifica sia la richiesta o la sintomatologia emersa, è impossibile avviare, condurre e concludere una terapia senza una comprensione del funzionamento globale della persona. La personalità, quindi, non può essere un’area opzionale di indagine; essa rappresenta il tentativo incarnato dei nostri clienti di dare senso a se stessi e al mondo che li circonda. E dunque uno strumento cruciale per chi sia intenzionato ad aiutarli in modo efficace.

Attualmente esistono però numerosi sistemi per classificare e trattare i disturbi di personalità. Se prendiamo ad esempio il DSM-5 (2013) troviamo i dieci disturbi definiti in ottica categoriale (paranoide, schizoide, schizotipico, borderline, narcisistico, istrionico, antisociale, evitante, dipendente, ossessivo-compulsivo) nella Sezione II del manuale, mentre nella Sezione III è presente un modello alternativo (AMPD – Alternative Model of Personality Disorders) dove si valuta il livello generale di funzionamento e i tratti disfunzionali. Nel sistema ICD-11 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità esiste un ulteriore modello dimensionale, e quasi tutte le psicoterapie più utilizzate (es. Mentalization Based Treatment, Terapia Metacognitiva Interpersonale, Schema Therapy, etc.) hanno poi loro terminologie e processi o fattori su cui impostare la diagnosi.

In breve, il clinico si confronta con una babele di linguaggi che, se danno un senso della complessità del tema oggetto di indagine, rischiano però di essere confusivi. Confrontandoci ogni giorno con le sfide che questi disturbi pongono, abbiamo deciso di proporre un programma formativo che fosse in grado di fornire ai professionisti dei solidi strumenti in termini teorici e tecnici per implementare trattamenti efficaci e evidence-based orientati alla personalità. Nel farlo abbiamo pensato al tipo di corso a cui noi per primi avremmo voluto partecipare: un percorso nel quale clinici e docenti esperti, nazionali e internazionali, illustrano in modo chiaro e replicabile le conoscenze a cui ogni giorno attingono per trattare i loro pazienti. Nel 2020-2021 è nato così il primo master italiano online sui Disturbi di Personalità organizzato da Tages Onlus, Centri Clinici Tages e Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC/SPC, attualmente alla sua terza edizione.

Piano didattico e docenti

Al master prendono parte come docenti dei clinici esperti, italiani ed internazionali, nell’ambito dei Disturbi di Personalità al fine di offrire una formazione di alto livello, basata sulle più recenti evidenze della letteratura scientifica ed in linea con gli standard delle Linee Guida Internazionali sull’argomento, con particolare riferimento alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda. La modalità didattica è interattiva e prevede, all’interno del programma, numerosi momenti di interscambio tra docenti e discenti ed esercitazioni su vignette o casi clinici portati sia dai partecipanti che dai docenti. Il master ha durata annuale e si svolgerà da Ottobre 2022 a Ottobre 2023. Le lezioni si terranno nelle giornate di sabato e domenica (1 weekend al mese per 12 mesi), ad eccezione di un paio weekend che prevedono anche il venerdì. Oltre alle ore dedicate alla didattica, sono previsti dei gruppi di discussione (con partecipazione facoltativa) durante i quali sarà possibile approfondire i temi del master e discutere di casi clinici.

La didattica (124 ore di formazione) è suddivisa in 4 moduli che aiutano in maniera progressiva e fortemente orientata alla pratica a concettualizzare e trattare un disturbo di personalità. Durante le lezioni si alterneranno alcuni tra i massimi esperti mondiali del settore come ad esempio: Barbara Basile, Anthony Bateman, Antonino Carcione, Veronica Cavalletti, Simone Cheli, Giancarlo Dimaggio, Francesco Gazzillo, Paul Hewitt, Chris Hopwood, Thomas Lynch, Cesare Maffei, Alessandra Mancini, Francesco Mancini, Fabio Monticelli, Antonio Onofri, Nicola Petrocchi, Raffaele Popolo, Elena Prunetti, Antonio Semerari, Carla Sharp, Susan Simpson.

Questa vasta compagine di esperti presenterà i protocolli più utilizzati nel trattamento dei disturbi di personalità, dando accesso al titolo di Master in Diagnosi e trattamento dei disturbi di personalità, nonché a specifici accreditamenti da parte di società scientifiche internazionali.

 

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Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento (2021) – Recensione

Uno dei maggiori esperti nello studio della discalculia ne fornisce, nel testo Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento, un quadro descrittivo esauriente ed aggiornato, capace di analizzare tutti i principali aspetti del disturbo. 

 

 Dalla scienza all’insegnamento. L’arduo percorso anticipato dal titolo inizia con un’ampia descrizione eziopatologica, in cui viene evidenziata la presenza di un dominio cerebrale specificamente deputato all’elaborazione numerica. Importante risultante scientifico che, se da una parte contribuisce a rafforzare l’ipotesi di un’eziologia neurobiologica del disturbo, dall’altra convalida l’esistenza di una capacità numerica innata nell’essere umano.

Riprendendo un modello teorico già esposto in sue precedenti opere, Butterworth (1999) estende alla competenza numerica la connotazione di innatismo che Chomsky (1965) prospettò per la capacità linguistica, sostenendo come sia erroneo credere che il bambino, sin dalle prime fasi della vita, non possegga una strumentazione cerebrale in grado di percepire l’entità numerica, pur senza avere nessuna conoscenza- analogica, verbale o arabica- del numero.

Il mistero del modulo numerico

La conoscenza numerica è ospitata all’interno di uno specifico dominio cerebrale, una sorta di kit di partenza che consente di esercitare precocemente la capacità di subitizing, intesa come istinto percettivo del numero. Questo nucleo, denominato Modulo Numerico, si trova in corrispondenza del solco temporale, e costituisce la base indefettibile per la conoscenza semantica del concetto di quantità.

È grazie all’attivazione di questa area che il cervello è capace di suddividere il mondo in termini di numerosità e di attribuire agli oggetti la connotazione di identità separate. Ovviamente si tratta solo di una base di partenza: la capacità di comprensione del modulo numerico non va oltre il numero 3; il suo progressivo arricchimento sarà legato all’azione interattiva tra fattori individuali- inerenti caratteristiche genetiche e stadio evolutivo- e fattori socio-culturali, riferiti alla scolarizzazione e alla familiarizzazione con la dimensione aritmetica. Tanto più questa area cerebrale verrà attivata con stimolazioni mirate, tanto più riceverà uno sviluppo quantitativo e qualitativo, affinando le proprie competenze.  Al contrario, un esercizio deficitario o non continuativo comporterà una compromissione della competenza numerica e una parziale atrofia dell’area cerebrale corrispondente.

L’apprendimento matematico può essere stimolato già in età prescolare, mediante la somministrazione, da parte della famiglia, di stimoli specifici con cui il bambino può approcciarsi alla conoscenza rudimentale del numero. I genitori devono favorire la costruzione di un contesto comunicativo e interattivo che prenda in considerazione la dimensione matematica, dimostrandone le ricadute applicative nella realtà quotidiana. Certo questo non riesce ad evitare lo sviluppo di una discalculia, ove se ne presentino le condizioni biologiche specifiche, ma serve quanto meno ad agevolare la conoscenza matematica in tutti i casi in cui non esistano impedimenti all’apprendimento della stessa.

La disfunzionalità del modulo numerico

Affermare l’esistenza di una predisposizione innata all’intelligenza numerica implica riconoscere che, in alcuni soggetti, le aree deputate al processamento numerico possano risultare deficitarie, e dunque più vulnerabili rispetto alla media. L’autore identifica questo svantaggio con il termine di deficit nucleare, perché relativo alla disfunzionalità di quello stesso nucleo cerebrale che fornisce la chiave di lettura di ogni informazione a carattere numerico presente nella realtà, oltre che nei libri di matematica. Non è certo difficile immaginare come un discalculico mostri serie difficoltà non soltanto nell’apprendimento delle tabelline e nella scrittura delle cifre, ma anche nella lettura dell’orologio e nella memorizzazione dei numeri telefonici. Da qui una compromissione del processo evolutivo e della qualità della vita, che può condurre all’adozione di strategie compensatorie ancor più disfunzionali e dannose. L’autore riporta il caso paradossale di un ragazzo inglese che, pur di mascherare la propria incapacità di destreggiarsi con resti e pagamenti alla cassa, prese ad organizzare piccoli furti nei negozi, arrivando addirittura a farsi arrestare!!

 Il deficit nucleare può essere dovuto a molteplici cause, di cui il testo riporta precisa descrizione: una vulnerabilità genetica, che rende possibile una familiarità al disturbo, condizioni soggettive del neonato, come il basso peso, la sofferenza fetale, una nascita prematura; comportamenti inadeguati assunti durante la gestazione, quali ad esempio stress perinatale, alimentazione insufficiente o sregolata, assunzione di fumo, alcool o psicofarmaci. A tal proposito la FAS, sindrome generata dall’assunzione di alcolici durante la gravidanza, comporta un’esposizione al disturbo particolarmente elevata, dato come la sua presenza patologica provochi la disfunzionalità di quelle stesse aree cerebrali necessarie al processamento numerico, tra cui la sostanza bianca e i lobi parietali. Dal punto di vista neurologico viene citata la sindrome di Gertseman, in cui un’agnosia digitale compromette una rappresentazione mentale delle dita e la costruzione di un funzionale orientamento sx-dx. Possiamo solo immaginare quanto questo possa rivelarsi un fattore oppositivo all’apprendimento matematico, soprattutto nelle prime esperienze di conteggio, in cui l’utilizzo delle dita- counting on fingers – si mostra uno strumento di ausilio assolutamente indefettibile.

Dalla diagnostica alla politica sociale: il messaggio del testo

In ambito diagnostico l’autore evidenzia la necessità di operare una distinzione tra diagnosi orientata alla valutazione e diagnosi orientata al sostegno, la prima importante per identificare la presenza oggettiva del disturbo, e la seconda per favorire l’applicazione di programmi di recupero individuali, ciclici ed intensivi, modellati sulle caratteristiche della zona prossimale del soggetto.

Dal punto di vista didattico viene ribadita la necessità di costruire una didattica individuale e personalizzata, per questo più attenta ai bisogni e alla capacità dell’allievo che alle tempistiche didattiche; è necessario avanzare a piccoli passi, limitare il carico di memoria e traslare i numeri in una dimensione concreta, per strappare la matematica a quei connotati di inconoscibilità e di astrattezza che, specie per un discalculico, possono mostrarsi eccessivi. Il numero deve diventare un oggetto concreto, da manipolare e controllare, per ottenere sullo stesso quel feedback visuo-sensoriale così importante nelle prime fasi dell’apprendimento.

La flessibilità dello stile didattico può tradursi anche nell’impostazione di lezioni alternative rispetto a quelle canoniche, in cui vengono valorizzate le potenzialità interattive e creative degli allievi, in modo da favorirne l’interesse e la motivazione, anche mediante l’impiego di programmi digitali.

Tutto questo senza pretendere troppo né colpevolizzare eventuali regressioni, errori o incidenti di percorso. La paura del numero è controproducente all’apprendimento della matematica e di qualsiasi altra materia, oltre a trasmettere il messaggio, ben poco educativo, che spinge a colpevolizzare le difficoltà, anziché provare a limitarle.

Certo la scuola non può fare tutto da sola. I programmi di ausilio sono costosi, così come i cicli di potenziamento e i trattamenti di recupero. Grande impegno, sotto questo punto di vista, deve essere assunto dalle politiche istituzionali, chiamate a sostenere con contributi finanziari gli strumenti riabilitativi che si rendono di volta in volta necessari. Non solo impegno economico, tuttavia: le istituzioni devono impegnarsi nella creazione di politiche di sostegno volte a riconoscere il disturbo discalculico e a legittimarne l’esistenza, in vista di un più agevole inserimento socio-lavorativo.

È necessario che l’orientamento inclusivo trovi continuità nel contesto extra scolastico, affinché il discalculico possa attuare sul lungo termine quegli stessi progetti cui la scuola lo ha motivato, prospettandone la realizzabilità.

La discrasia tra modelli teorici ed attuazioni pratiche deve essere quanto più possibile ridotta. Nessuna vena polemica, da parte dell’autore, ma un appello esplicito a tutti quegli organismi istituzionali che possono rendere la gestione del disturbo discalculico in linea con una continuità di intenti e coerenza degli obiettivi che “parta dall’alto”.

Discalculia. Dalla scienza all’insegnamento. Fino alle istituzioni, potremmo aggiungere.

Il testo lancia un messaggio diretto e concreto, in coerenza con uno stile espressivo altrettanto risoluto: la scienza e la didattica non devono percorrere binari paralleli, ma tracciare percorsi flessibili, destinati all’incontro e all’integrazione multidisciplinare. Questo avverrà se le scoperte scientifiche non resteranno mere dissertazioni da laboratorio, ma verranno effettivamente trasferite nel contesto scolastico e socio-istituzionale, ove potranno esplicare la propria efficacia attuativa. Perché una difficoltà non diventi un limite insormontabile è necessario un impegno collettivo, da parte del micro come del macro sistema. In vista dell’obiettivo finale, e tuttavia primario: valorizzare il discalculico come allievo e come persona.

Una breve panoramica sul comportamento aggressivo nel gaming

Rispetto al gaming patologico, gli adolescenti sono la categoria più esposta al rischio di sviluppare un comportamento aggressivo, specialmente il genere maschile, che sembra essere quello che gioca di più a videogiochi di tipo violento.

 

La socialità del gaming

 A discapito degli stereotipi esistenti sulla solitudine dei gamers, ovvero dei giocatori di videogiochi, più del 60% di loro pratica l’attività del gaming, ovvero l’attività di giocare ad un videogioco, con altri gamers (Hilvert-Bruce e Neil, 2020). Questa socialità è in realtà un fenomeno con due facce della stessa medaglia. Infatti, mentre sono presenti giocatori che condividono momenti di divertimento, felicità e tutti i sentimenti positivi che possono derivare dalla pratica di un videogioco online, esistono anche molte persone che durante il gioco non riescono a godersi pienamente le sensazioni positive ed esperiscono sentimenti negativi come la rabbia, l’eccessivo nervosismo e il tilt (inteso come la perdita di concentrazione prima, dopo o durante una partita), attuando comportamenti aggressivi nei confronti della community, rovinando quindi l’esperienza di gioco propria e di tutti gli altri giocatori. Il mondo del gioco online, detto multiplayer, è caratterizzato da fenomeni come il trash talking, letteralmente “discorsi spazzatura”, ovvero l’insieme di insulti, minacce e provocazioni nei confronti degli altri giocatori. L’obiettivo consiste nel provocare una reazione emotiva che possa compromettere la concentrazione dei giocatori avversari, o dei propri compagni di squadra, se questi vengono percepiti inutili.

Esistono molti studi scientifici sul legame tra videogiochi violenti e aumento dell’aggressività nei giocatori (Fischer et al., 2010). Infatti, sembra che i contenuti violenti e aggressivi nei videogiochi possano aumentare la frequenza di pensieri, emozioni e comportamenti aggressivi, oltre ad aumentarne l’intensità (Fischer et al., 2010). Questa aggressività sembra intensificarsi quando il gamer passa molto del suo tempo a giocare (Lemmens et al., 2011). Infatti, è stato dimostrato che spendere troppo tempo a giocare, oltre a incrementare l’aggressività, può inoltre favorire la comparsa di numerosi sintomi come sensazione di perdita di controllo, preoccupazione, ritiro sociale, conflitto interpersonale e intrapersonale (Lemmens et al., 2011).

L’aggressività nel gaming

 I comportamenti aggressivi sono associati al gaming patologico, in quanto essi ne sono una conseguenza, e ciò sta diventando un problema sempre più diffuso in molte famiglie (Lemmens et al., 2011). Esiste tuttavia una grande differenza tra il gaming eccessivo e il gaming patologico (Lemmens et al., 2011). Nonostante in entrambi i casi l’individuo dedichi molto del suo tempo al gioco, nel primo caso non si riscontrano effetti dannosi, invece nel secondo caso si parla proprio di incapacità di controllare il tempo che viene dedicato al gaming, anche se ciò può comportare problematiche emotive e sociali (Lemmens et al., 2011). Rispetto al gaming patologico, gli adolescenti sono la categoria più esposta al rischio di sviluppare tale comportamento, specialmente il genere maschile, che sembra essere quello che gioca di più a videogiochi di tipo violento (Lemmens et al, 2011). Una possibile spiegazione della forte aggressività associata al gaming patologico potrebbe essere il fatto che l’aggressività interpersonale è una caratteristica tipica di qualsiasi dipendenza, come per esempio la dipendenza da sostanze, la dipendenza da alcool e la dipendenza da gioco d’azzardo (Lemmens et al., 2011). É stato inoltre dimostrato che videogiochi con contenuti aggressivi aumentano l’associazione automatica tra l’aggressività e la percezione di sé stessi (Fischer et al., 2010). Infatti, è possibile che il giocare online con lo scopo di vincere sia una modalità che i giocatori utilizzano per soddisfare alcuni bisogni come quello di sentirsi competenti e quello dell’autonomia (Monge e O’Brien, 2022). Le persone sono molto motivate a soddisfare questi bisogni, tanto che una mancata realizzazione di essi può portare l’individuo ad esperire forte aggressività e frustrazione. Se il gamer vede la vittoria della partita come un passo per raggiungere la realizzazione dei suoi bisogni, è anche vero che i suoi compagni di squadra possono essere visti come un peso, qualora non dimostrassero delle skills sufficienti per aiutarlo a vincere. Di conseguenza, il giocatore potrebbe sentirsi giustificato ad attuare i comportamenti aggressivi citati in precedenza verso i propri compagni di squadra.

Conclusioni

In conclusione, l’eccessiva aggressività che viene riscontrata nel mondo del multiplayer è un fenomeno che è sempre più necessario monitorare, in quanto rovina l’esperienza di gioco di sempre più giocatori, arrecando danno alle communities. Sarebbe utile sensibilizzare i giocatori riguardo la regolazione delle emozioni e incrementare la loro consapevolezza rispetto agli effetti che i comportamenti aggressivi possono avere sugli altri (Sharma et al., 2022).

 

Mi scappa la pipì. L’Enuresi notturna nei bambini

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo ‘Mi scappa la pipì. L’Enuresi notturna nei bambini’ su come prevenire la cronicizzazione del disturbo e sostenere i genitori nel ristabilire un equilibrio familiare.

 

L’enuresi è un disturbo piuttosto frequente, ogni anno i bambini che soffrono di enuresi notturna sono circa 5-7 milioni. Fare pipì a letto è una condizione che interessa il 5-10% dei bambini di età pari a 7 anni e che tende a ridursi progressivamente nel corso del tempo. È bene sapere che il 3% dei maschietti e il 2% delle femminucce può continuare a fare la pipì a letto anche a 7-8 anni, fino a 10 anni. Ma l’aspetto più importante è il riconoscimento precoce di questo fenomeno e l’intervento ragionato dei genitori, al fine di evitare un’ingiusta e dannosa colpevolizzazione del bambino e tensioni all’interno del nucleo familiare. Tale disturbo può avere infatti conseguenze rispetto l’area psicologica, in particolar modo può influire sull’area sociale del bambino portandolo a ritirarsi e a sperimentare inadeguatezza e vergogna. A ciò possono aggiungersi vissuti di incomprensione ed emozioni di rabbia e talvolta disgusto da parte di chi accudisce il bambino. L’intervento cognitivo-comportamentale ha lo scopo di intervenire sia con il bambino che con i genitori per prevenire la cronicizzazione del disturbo e sostenere i genitori nel ristabilire un equilibrio familiare.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Martina Torresi, Psicologa, Psicoterapeuta.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

Affrontare la diagnosi di diabete in età evolutiva

Una volta pronunciata la diagnosi di diabete, essa si ripercuoterà ad ampio raggio in tutti i contesti in cui il paziente, in questo caso il “piccolo paziente”, vive e vivrà; il nucleo familiare perciò, come conseguenza diretta, subisce una riorganizzazione volta ad accogliere i cambiamenti che la malattia porta con sé.

 

Introduzione

Il diabete mellito, definito nel linguaggio comune “diabete”, è una malattia cronica che si verifica quando il pancreas non produce abbastanza insulina o quando il corpo non può utilizzare efficacemente l’insulina che produce (WHO, 2021). Esistono vari tipi di diabete, diversificabili a seconda della tipologia di fattori intervenienti, di ordine genetico ed ambientale.

Nel presente lavoro ci si soffermerà in particolare sul diabete di tipo 1, che colpisce la fascia d’età infantile, adolescenziale e dei giovani adulti. In bambini e adolescenti, in Italia, si ha una incidenza media di 12,26 nuovi casi/100.000/anno, con variazioni anche importanti tra le varie regioni (Bruno G., et al, 2010). Verranno trattate le fasi psico-comportamentali che si devono affrontare per arrivare all’accettazione della malattia, sia dal punto di vista del piccolo paziente, che dei caregiver di riferimento. Inoltre, attenzione verrà data in particolare al ruolo fondamentale dello Psicologo in ambito ospedaliero, il quale mette a disposizione il proprio sapere al fine di “accompagnare” sia il paziente che tutta la sua famiglia nel difficile percorso che inizia dalla diagnosi e si predispone per un’intera vita. La famiglia, infatti, risulta essere bersaglio indiretto della malattia, dovendo procedere a una riorganizzazione sul piano della quotidianità per tutti i suoi membri.

L’attenzione nazionale alla malattia diabetica: il PND

Nel 2013 il Ministero della Salute ha emanato il “Piano Nazionale sulla malattia diabetica”, dove sono state sottoscritte linee guida clinico organizzative da osservare su tutto il territorio nazionale, insieme agli obiettivi, generali e specifici, da perseguire. All’interno del documento vengono affrontati argomenti che vanno dalla prevenzione alla gestione della malattia, passando per la diagnosi precoce e al miglioramento dell’assistenza. In linea generale, il Piano esplicita i principali punti dell’assistenza alla malattia cronica in un’ottica multidisciplinare e multiprofessionale, raggruppando così le diverse figure verso pratiche e obiettivi condivisi. L’obiettivo è quello di avere, progressivamente negli anni, un miglioramento del benessere e della qualità di vita delle persone con una malattia cronica come il diabete. Si consolida l’abbandono della vision strettamente medica, per favorire una presa in carico ad ampio spettro.

Il percorso di cura e assistenza non è costituito quindi solamente dal ricovero in ospedale, ma diventa continuo, con la necessità nel tempo di rivalutazioni, educazione, supporto al cambiamento nello stile di vita, i quali possono essere effettuati in ambulatori o day-hospital, oppure in strutture dedicate sul territorio.

Nello specifico, in riferimento all’età evolutiva, il Ministero della Salute si pronuncia così: l’attività di un singolo pediatra diabetologo, senza un supporto dedicato ed esperto in diabetologia pediatrica (infermieristico, psicologico, dietologico, socio-sanitario, ecc.), non è coerente con le funzioni assistenziali richieste per gestire tale complessa patologia pediatrica (Commissione Nazionale Diabete, Ministero della Salute, 2013).

Il bambino con una malattia per tutta la vita

Per malattia cronica si intende una patologia che durerà dal momento del suo esordio per tutto il corso della vita. Più specificatamente, sono condizioni che interferiscono con il funzionamento quotidiano per più di tre mesi all’anno o che richiedono ospedalizzazione per almeno un mese all’anno (Perrin J. M., 1985). In questo tipo di malattie non si osserva una completa guarigione, bensì, soprattutto nel caso specifico del diabete, un adattamento dello stile di vita ad esso, con una conseguente soddisfacente qualità di vita.

Una volta pronunciata la diagnosi di diabete, essa si ripercuoterà ad ampio raggio in tutti i contesti in cui il paziente, in questo caso il “piccolo paziente”, vive e vivrà (Balbo V., 2016); il nucleo familiare perciò, come conseguenza diretta, subisce una riorganizzazione volta ad accogliere i cambiamenti che la malattia porta con sé.

Il diabete necessita di una consistente attenzione, soprattutto per quanto riguarda il trattamento: il paziente, infatti, è responsabile per il 95% della propria terapia (Ciechanowski P. S., et al, 2002). Tramite questo 95% si comprende la rilevazione più volte al giorno dei tassi glicemici, l’autosomministrazione dei farmaci, le particolari attenzioni al piano alimentare e la regolamentazione dell’attività fisica. Si tratta di pratiche difficili da seguire in piena autonomia, almeno per i primi tempi, per un bambino.

Una delle conseguenze a livello psicologico derivante dall’avere una malattia cronica consiste nel mutamento dell’immagine di sé: soprattutto nella fase d’esordio viene percepita una sostanziale perdita di controllo nella gestione del proprio corpo, e più in generale della propria vita, andando a minare, di conseguenza, il benessere soggettivo (Musacchio N., et al, 2013).

La malattia può dunque incidere sulla qualità di vita direttamente tramite gli effetti dello stato di malattia e/o dei trattamenti, o indirettamente tramite i cambiamenti conseguenti nel funzionamento psicosociale (Snell C., et al, 2010).

In età evolutiva l’insieme di tutti questi nuovi aspetti non sempre può risultare chiaro, il bambino infatti si può ritrovare emotivamente coinvolto, sotto shock per gli improvvisi cambiamenti, spaventato per la sua situazione di salute, incerto del suo futuro. Differentemente che in età adulta, in età evolutiva gli aspetti maturativi non sono ancora completi e possono subire delle perturbazioni a causa della malattia tanto da interferire nella formazione e nella percezione della propria immagine (De Carlo N.A., et al, 2012). Spesso, successivamente alla diagnosi, affiorano paure tipiche, come quella di morire, della perdita dell’autonomia, o dell’avere danni irreversibili all’incolumità fisica. Diventa quindi indispensabile un supporto multidisciplinare al bambino, e nel complesso a tutta la famiglia, a partire dalle prime fasi della malattia, sottolineando l’importanza del sostegno psicologico che, grazie a specifiche metodologie e all’insegnamento di determinate strategie e tecniche, può accompagnare il nucleo verso la conoscenza e accettazione della diagnosi, fino ad un adattamento alla nuova quotidianità. Infatti, in base alle indicazioni delle società scientifiche tra cui l’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), la Società Italiana di Diabetologia (SID) e la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), l’intervento psicologico è parte integrante del modello multidisciplinare di risposta ai bisogni di salute delle persone con diabete (Tomai M., et al, 2018).

L’esordio: il primo contatto con l’ospedale

Nel corpo di un bambino, dopo un periodo in cui la malattia è ancora silente, il deficit insulinico a poco a poco inizia a manifestarsi attraverso i sintomi specifici. Due sono le possibilità di contatto ospedaliero: con carattere d’urgenza, attraverso quindi il pronto soccorso durante una situazione di acutizzazione estrema dei sintomi; oppure attraverso il ricovero programmato (solitamente in situazioni di esordio in cui vengono eseguiti accertamenti preventivi alla fase acuta) (Favalli V., et al, 2017).

Il ricovero in ospedale è, sia per il bambino che per la famiglia, un evento con potenziale traumatico. Il bambino si trova improvvisamente in un corpo che non riconosce più, un corpo che gli provoca dolore e che l’ha portato a trascorrere un periodo in un ambiente diverso dalla sua quotidianità e con persone estranee. I genitori, dall’altro lato, devono sommare ai normali carichi gestionali quotidiani (casa, lavoro, famiglia), il peso di vedere il proprio figlio sofferente e con una malattia che durerà per tutta la vita.

Dopo la diagnosi di diabete, il rischio primario per il piccolo paziente è lo sviluppo di problemi psicologici riguardanti l’adattamento: non è semplice accettare continui prelievi ematici, rilevazioni dei livelli glicemici, visite specialistiche e l’inizio di una terapia. Il bambino proverà la paura oltre che della malattia stessa, anche dell’ospedale, conseguenza della costretta separazione dal suo ambiente quotidiano (Capurso M., 2008). Questa nuova esperienza, inoltre, avviene in modo veloce e il susseguirsi degli eventi non sempre gli permette un’adeguata elaborazione, anche calibrata in base alla giovane età. È utile quindi soffermarsi sul suo vissuto di dolore per il tempo necessario affinché abbia una corretta comprensione di ciò che gli sta accadendo. I vissuti d’irrequietezza e di ansia, che nella maggior parte dei casi compaiono in associazione al ricovero ospedaliero, derivano anche dal fatto che le abitudini giornaliere vengono stravolte: ad esempio, il bimbo dovrà dormire in un letto che non è il suo, dovrà rispettare determinati orari e seguire precisi trattamenti, non sarà sempre insieme ad entrambi i genitori, difficilmente giocherà con bambini di sua conoscenza, si dovrà relazionare per la maggior parte del tempo con medici e infermieri, con fatica troverà un suo spazio accettato come “intimo e privato”. Il bambino sperimenta una sorta di violazione del proprio corpo da parte di persone estranee, che devono attuare procedure necessarie collegate alla sua malattia; la percezione della sua integrità corporea viene così inevitabilmente minata. L’insieme di queste pratiche ha quindi effetti secondari sul bambino di natura psicologica, proprio per questo motivo la figura dello Psicologo è fondamentale per spiegare al bimbo, alla famiglia, ma anche a tutta l’équipe ospedaliera, la strategia migliore per affrontare questo momento.

La famiglia gioca un ruolo importante in questo momento così delicato: le risorse presenti al suo interno devono essere individuate e utilizzate strategicamente con l’obiettivo comune di creare una “squadra” unita che lavora per il benessere del piccolo. Per i genitori stessi, la fragilità del proprio bambino, sia perché piccolo di età, sia per l’immaturità affettiva, rende l’esordio del diabete particolarmente drammatico (Zito E., et al, 2012).

Soprattutto durante i primi giorni in cui il bambino si trova ricoverato in ospedale, è essenziale, per tutto il team, riuscire a creare un clima di fiducia sia con la coppia genitoriale, attraverso una comunicazione chiara e semplice, che con il piccolo, evitando ad esempio l’attuazione delle procedure tramite l’inganno o la non spiegazione di ciò che gli sta accadendo con un linguaggio adatto ad un bambino. Se l’intero nucleo avrà la percezione di trovarsi in un ambiente a misura di bambino, con persone competenti, che sono disponibili al dialogo e comprensive della situazione extra-ordinaria in cui si trova la famiglia, si riusciranno a gettare le basi per costruire una sana relazione terapeutica. Una relazione terapeutica di qualità è determinante al fine dell’adesione al trattamento (Miselli V., 2011). Quella che in inglese viene detta “compliance” o “adherence” alle cure, altro non è che l’obiettivo che l’équipe diabetologica persegue attraverso il lavoro in stretta collaborazione per creare piani di trattamento personalizzati su ogni paziente. Gli aspetti psicologici incidono sull’accettazione e gestione della patologia e, per favorire la compliance, è auspicabile che la consulenza psicologica diventi parte dell’iter terapeutico fin dall’esordio (Falco G., et al, 2015).

L’impatto della diagnosi sul sistema famiglia

La diagnosi di diabete viene comunicata alla famiglia e, successivamente, al bambino, dall’équipe medica. È importante che questa comunicazione sia il più possibile chiara, ma anche rassicurante e realistica per quanto riguarda il percorso da intraprendere e ciò che fondamentalmente diventerà la nuova quotidianità. I genitori attraverseranno, da qui, vari momenti in cui prevarranno diversi sentimenti: potrebbero passare dalla rabbia, dal sentirsi incompresi, dalla solitudine, da un senso di irrealtà, dallo sconforto; cercheranno una maniera per sfuggire alla diagnosi, magari chiedendo un diverso parere medico, inizieranno a fare ricerche personali per informarsi su tutto ciò che riguarda questo nuovo mondo. Mamma e papà hanno cercato con preoccupazione una risposta alla loro domanda sul “perché mio figlio sta male?”, ma proprio quando i medici hanno risposto con una diagnosi, questa diventa di difficile accettazione.

La diagnosi si immette nel ciclo di vita della famiglia come evento disorganizzante, mettendo a dura prova il senso di continuità e minando, almeno al momento della sua ricezione, il progetto di vita futuro. I genitori di un figlio che ha una diagnosi di malattia cronica non sono preparati ad affrontare la malattia del figlio e spesso possono essere spaventati dall’interferenza della malattia sul ciclo vitale (Catastini P., et al, 2000).

Il momento successivo alla diagnosi è per la coppia genitoriale particolarmente carico di vissuti di colpa irrazionali, quasi come se la causa della malattia del figlio fosse quella di non essere stati in grado di generare un figlio sano, ma al contrario, di averlo fatto nascere con qualcosa di sbagliato, che gli provoca sofferenza (sentimento provato soprattutto dalla madre). Entrambi i genitori, ancora, sperimenteranno il senso di fallimento delle loro cure, non essendo stati genitori sufficientemente bravi nella protezione del figlio, causandone la malattia. Tra padre e madre saranno comunque diversificati i tempi di reazione e i comportamenti annessi: ognuno di loro avrà la propria reazione all’evento, chi prima, chi dopo, pur provando entrambi un forte dolore.

Una famiglia funzionale deve attuare un bilanciamento tra le proprie risorse e le proprie vulnerabilità, in relazione alle numerose richieste che la malattia impone nel corso del tempo (Moi G., 2013). Il fine ultimo del percorso che la famiglia inizierà dal momento della comunicazione della diagnosi è costruire insieme un nuovo modello di normalità.

Ruolo importante è rivestito anche dall’eventuale presenza di fratelli e/o sorelle. L’esordio diabetico fa sì che, almeno per un primo momento, la concentrazione e la preoccupazione dei genitori siano tutte rivolte verso il figlio malato. Fratelli e/o sorelle possono esperire vissuti di “abbandono”, percependo i genitori affettivamente lontani; possono subentrare sentimenti di rabbia, gelosia, aggressività rivolti al fratello malato, in quanto è diventato il centro delle attenzioni della famiglia creando scompiglio nella quotidianità. È a volte osservabile anche l’insorgenza di meccanismi come il senso di colpa, per essere il fratello e/o sorella ingiustamente sano/a, le somatizzazioni, per i vissuti non detti e non elaborati, i comportamenti ritirati per non “infastidire” i genitori, già sufficientemente impegnati ad occuparsi di chi sta più male di loro. Si rende quindi necessario spiegare ai genitori che le possibili reazioni di diversa natura dei fratelli e/o sorelle sono gli effetti normali di una situazione verificatasi all’improvviso (Luciano E., 2013).

È importante che anche i fratelli e/o sorelle partecipino alle comunicazioni che avvengono tra lo staff medico e il paziente/famiglia. Lo scopo è far sentire loro parte integrante del nucleo, favorendo la costruzione di una relazione di fiducia, dove possono sentirsi liberi di porre domande ed essere ascoltati e compresi. Se i fratelli vengono coinvolti nel percorso di cura e viene spiegato loro cosa sta accadendo, capiranno che il loro fratello ha esigenze particolari e accetteranno sin da giovanissimi le sfide poste a loro e alla loro famiglia; così facendo, inoltre, il fratello si sentirà sicuro e capace di gestire eventuali emergenze sanitarie nel caso dovessero verificarsi (Commodari E., et al, 2019).

L’équipe sanitaria ha l’importante compito di tenere insieme le fila della famiglia, in quanto ogni suo componente ricopre un ruolo importante affinché possa ristabilirsi (dopo una fase iniziale di shock) un clima di serenità, dato dal ritorno alla normalità quotidiana. Questo, di conseguenza, ha significativi effetti benefici anche sulla salute stessa del paziente, per una positiva ed efficace gestione della malattia.

Accettare la malattia

Accettare di avere un figlio malato, o di essere un bambino malato, non è semplice ed immediato. La convivenza con una malattia cronica richiede innanzitutto un periodo per adattarsi strategicamente ad essa; bisogna tenere in considerazione che nel tempo essa può anche evolvere, possono intervenire eventi critici con conseguente messa in discussione e ripianificazione della quotidianità, e ancora, e ancora.

Gfeller R. e Assal J. P. (1979), hanno descritto il processo adattivo che avviene nelle persone con diagnosi di diabete mellito dividendolo in sei fasi. Queste non hanno mai una netta demarcazione e la durata ed intensità di ognuna è imprevedibile. Nello specifico:

  • Fase di shock: la diagnosi della malattia per il paziente potrebbe diventare un evento traumatico. Viene persa la coscienza identitaria, minata dalla perdita della visione del proprio corpo in piena salute. L’impatto primario è quello di stupore, seguito dal sentimento di disorientamento. L’intero nucleo famigliare risente della notizia ed essa ha un forte impatto su tutti i suoi componenti: inizialmente prevarrà l’angoscia dell’incerto, di ciò che non si conosce, portando inevitabilmente a pensare al peggio. Le reazioni tipiche possono essere la rabbia, oppure al contrario un isolamento inerte. Questa è la fase in cui non c’è ancora un controllo da parte del paziente alla sua malattia, il quale si affida totalmente alle scelte dell’équipe medica per quanto riguarda il trattamento.
  • Fase di negazione: in questa fase avviene il rifiuto della diagnosi, della malattia in sé. Solitamente si presenta dopo la fase di shock, ed è contraddistinta da frasi come “non è possibile”, “non ci credo, vi sbagliate”, che possono provenire sia dal paziente stesso, che dalla coppia genitoriale. In questo momento la malattia cronica non è tollerabile dal punto di vista dell’accettazione, perciò viene attuato nei suoi confronti il netto distacco, tendendo ad escluderla inconsapevolmente dalla propria coscienza. La negazione viene letta come un tentativo per guadagnare il tempo necessario affinché tutto il sistema attui una riorganizzazione.
  • Fase di ribellione: superata la fase di negazione, con il trascorrere del tempo si sviluppa una presa di coscienza della realtà, che porta all’esplosione di emozioni come la paura e la rabbia. La prevalenza di questi due sentimenti porta a reazioni di attacco, come l’assunzione di atteggiamenti oppositivi, o di fuga, come l’evitamento delle cure. La rabbia può essere diretta agli operatori sanitari, alla famiglia, e anche contro il proprio corpo. In questa fase è decisivo il supporto psicologico da parte dell’équipe sanitaria, in quanto è il momento in cui si manifesta la massima vulnerabilità, appellando una richiesta di aiuto implicita. La famiglia, messa a dura prova in questa fase, deve dimostrare una forte tolleranza e comprensione della situazione, affinché, insieme al paziente, si possa arrivare all’obiettivo dell’accettazione della malattia.
  • Fase della contrattazione: a partire da questo momento, il paziente tenta di scendere a compromessi con il personale sanitario e la famiglia attuando un negoziato in merito ai comportamenti da assumere e le terapie da seguire per avere uno stile di vita che gli consenta di convivere in maniera accettabile con il diabete. Si possono manifestare anche tentativi di manipolazione delle relazioni e dei messaggi provenienti dall’équipe medica, assumendo talvolta un carattere provocatorio. In questa fase il bambino inizia a prendere coscienza della “anormalità” della sua situazione, esaminando passo per passo che cosa sarà in grado di fare.
  • Fase della tristezza meditativa: in questa fase il paziente inizia ad accettare di perdere alcuni aspetti che fino a prima aveva considerato parte della propria identità. La negazione e l’opposizione alla diagnosi fin qui portate avanti lasciano il posto alla tristezza che deriva anche da un senso di sconfitta. Sopraggiungono il pianto e l’abbassamento del tono dell’umore, prevalgono i momenti in solitudine raccolti nel silenzio, alla ricerca di sé stessi, di un nuovo equilibrio. Si inizia da qui a pensare a una proiezione della propria vita nel futuro e alla riorganizzazione della quotidianità. Da sottolineare che questo è un momento di transizione, di durata variabile e soggettiva, ma da non confondere con esordio depressivo, che risulta essere l’estremo patologico del fallimento del passaggio alla prossima fase.
  • Fase dell’accettazione: questa fase contrassegna il passaggio ad una piena elaborazione di ciò che è accaduto nella propria vita e ad una sua conseguente accettazione. Il paziente giunge alla comprensione che con la malattia si può convivere, che si possono riprendere le normali attività, seppur modificandone alcuni particolari, che il nuovo assetto di vita non preclude la crescita e sviluppo personale. La persona ha acquisito una nuova capacità di far fronte ai cambiamenti, attraverso un adattamento attivo che gli permetterà di essere protagonista principale delle scelte sulla propria vita. Quest’ultima fase dona inoltre una nuova visione della realtà, meno superficiale rispetto a prima, offrendo nuovi spunti di riflessione e inducendo anche un cambiamento di prospettiva nel pensiero di vivere “nonostante” il diabete, piuttosto che vivere ora “con” il diabete. La comunicazione con il personale sanitario e con la famiglia viene qui riattivata, dando la possibilità di instaurare rapporti di fiducia e collaborativi. Qui inizia il percorso per cui tutti lavorano verso lo stesso obiettivo: il benessere della persona con diabete.

In tutte le fasi sopra elencate, per i molteplici aspetti che riguardano la vita del paziente, si rende necessaria quindi la presenza costante della figura dello Psicologo a supporto del piccolo e della sua famiglia, al fine di accompagnare il nucleo dall’esordio di diabete alla dimissione dall’ospedale e nei seguenti follow-up.

Lo Psicologo in ospedale

Gli interventi terapeutici al paziente diabetico sono di tipo multidisciplinare: il piccolo avrà frequenti contatti con diverse figure sanitarie, ognuna partecipante, per quanto riguarda la sua professionalità, alla gestione del suo trattamento. Per evitare la percezione di frammentarietà delle varie prese in carico, da diversi anni all’interno degli ambienti sanitari si usa strategicamente il lavoro in équipe, dove viene perseguito l’obiettivo comune dell’alleanza terapeutica. È così che Diabetologi, Dietisti, Pediatri e Psicologi lavorano in sinergia per ogni singolo bambino. La futura adesione alle cure viene determinata soprattutto dalla qualità dell’investimento posto nella relazione terapeutica.

Nel caso di piccoli pazienti, il lavoro relativo alla fiducia si rende ancora più delicato: essenziale sarà trovare le giuste modalità di approccio ponderate in base all’età per far comprendere innanzitutto il perché della loro presenza in ospedale. Affinché si instauri un rapporto di fiducia è necessario non mentire mai al bambino: il fatto che sia “piccolo” non implica che non possa capire, bensì è necessario fornirgli adeguate modalità di comprensione per la sua fase di sviluppo. Bisogna porre la giusta attenzione anche alle promesse che vengono fatte al bambino, perché lui riporrà in queste molte aspettative.

Importanti mediatori di questa alleanza risultano essere i genitori: il figlio, soprattutto se molto piccolo, si fiderà innanzitutto dei comportamenti agiti da mamma e papà. Attraverso le loro espressioni ed emozioni, il bimbo capirà se potersi fidare (e affidare) delle persone estranee che tentano di entrare in una prima relazione con lui. Il lavoro dello Psicologo è di intervenire per il raggiungimento dell’adesione alle cure attraverso l’orientamento dei sanitari verso la modalità comunicativa più consona per il nucleo in oggetto.

Il diabete esige molto dalla famiglia in cui esordisce, per questo il supporto psicologico è un percorso indispensabile per accompagnare il piccolo e la sua famiglia verso la sua accettazione.

La relazione terapeutica che si instaurerà con un bambino, oltre all’uso del colloquio clinico come avviene per gli adulti, dovrà essere provvista di altre metodologie su misura del piccolo paziente che mirano alla comprensione di ciò che sta avvenendo nel suo corpo: brevi racconti, favole, giochi, disegni e altro ancora. Il mondo del bambino è spensierato e colorato, così deve esserlo un ospedale infantile attento ai suoi pazienti.

Le tipologie di intervento utilizzate dagli Psicologi sono per la maggior parte concentrate sul rinforzo delle risorse già presenti in famiglia e sull’acquisizione di abilità e competenze (skills) nuove e funzionali ad una migliore autogestione delle cure. In ambiente ospedaliero gli interventi mirano specialmente alla conoscenza del mondo interno del paziente e della famiglia (lavoro sulle emozioni), alla modificazione di alcuni aspetti comportamentali disfunzionali legati alla gestione della malattia, e alla riduzione di eventuali conflitti presenti in famiglia, promuovendo l’informazione e l’adozione di stili comunicativi più funzionali in vista della convivenza con il diabete per tutta la vita, supportando il nucleo in questo difficile percorso.

Il colloquio è lo strumento d’elezione a disposizione dello Psicologo per entrare in relazione con il paziente e i suoi caregivers. In ambito ospedaliero le consulenze sono centrate sul qui-e-ora per poter offrire uno spazio esclusivo volto alla riflessione in merito ai vissuti legati alla malattia. Gli ambiti presi in considerazione, solitamente, riguardano: l’informazione e l’esplicitazione di eventuali difficoltà, ansie, timori, paure, legate all’ospedalizzazione e al percorso di cura; le limitazioni alla quotidianità che il bambino dovrà affrontare; eventuali difficoltà familiari; possibili altre patologie intervenienti o preesistenti; l’indagine sull’esistenza di eventi stressanti cui il nucleo ha già dovuto far fronte. Ci si dovrà soffermare ed esplorare il significato che il diabete rappresenta per ciascun membro, non dimenticando mai che l’impatto di una malattia cronica colpisce la ridefinizione della routine quotidiana anche di fratelli o sorelle, se esistenti.

Ogni fascia d’età implica una diversa modalità di approccio dello Psicologo al bambino: sotto ai 2 anni il colloquio consisterà sostanzialmente in un’osservazione clinica dei comportamenti agiti dal paziente e dalla sua famiglia, sommata al colloquio clinico orientato sui genitori per avere un chiaro quadro di anamnesi evolutiva del figlio. La relazione con il bimbo verrà creata tramite attività come giochi strutturati creati apposta per il suo stadio di sviluppo o racconti di fiabe. Tra i 2 e i 7 anni il colloquio con il bambino avverrà mediante l’osservazione clinica di attività di gioco strutturate, la produzione di disegni, la lettura di favole prodotte appositamente per essere utilizzate durante l’educazione terapeutica. Attraverso queste tecniche, lo Psicologo lavora sul versante della psicoeducazione sia sul bambino, che, indirettamente, sulla famiglia. Dai 7 ai 10 anni, il piccolo paziente è in grado di sostenere un colloquio clinico con domande tarate per la sua età. In età adolescenziale il colloquio clinico sarà condotto tramite domande aperte ed ascolto attivo: le aree di indagine saranno più vaste e profonde rispetto a quelle prese in considerazione durante l’infanzia, si esploreranno gli stili di coping, le aspettative e i timori rispetto al futuro, le immaginazioni rispetto a come sarà il rientro a casa e tra la cerchia dei pari.

A supporto dei colloqui clinici si prende in considerazione anche l’uso di eventuale materiale psicodiagnostico con tarature in base all’età. L’utilizzo di test psicometrici è prevalente nei colloqui di follow-up, per misurare l’impatto della malattia al rientro a casa e il livello di riorganizzazione funzionale adottato. Il colloquio di follow-up solitamente viene pianificato in contemporanea con il controllo in diabetologia: lo Psicologo, finché lo riterrà necessario, continuerà a programmare gli incontri psicologici-psicodiagnostici di supporto al paziente e alla famiglia. L’obiettivo dei colloqui di follow-up è arrivare alla piena comprensione dello stato di malattia e ad un adattamento strategico, comprensivo dell’autogestione della terapia calibrata in base all’età.

Il colloquio clinico con i genitori del paziente è finalizzato alla conoscenza del nucleo e della propria storia precedente allo stato di malattia, ad eventuali eventi stressanti sopravvenuti in passato e all’attuale modalità di funzionamento e di comunicazione. Compito dello Psicologo è anche predisporre il contesto extra-ospedaliero al rientro del piccolo: importanti sono le informazioni alla famiglia in merito a servizi socio-sanitari che offre il territorio (eventuale contatto con Associazioni di zona che si occupano di diabete in età pediatrica), da non dimenticare, infine, la predisposizione del rientro a scuola e nella cerchia di pari. A questo proposito gli alunni con malattie croniche riferiscono di sentirsi aiutati quando compagni e insegnanti sono portati adeguatamente a conoscenza della loro malattia e quando vengono sostenuti dai docenti nell’integrazione sociale e nelle attività disciplinari (Capurso M., 2006).

Conclusioni

In linea generale, le tecniche comunicative con il bambino si sostanziano di diverse modalità di approccio, sempre tenendo conto dell’età del piccolo. Durante i primi contatti con il nucleo, è fondamentale spiegare al bambino in termini rassicuranti e positivi il perché della sua permanenza in ospedale, chi sono tutte le figure estranee che si occupano di lui, anticipare, infine, le procedure cui sarà sottoposto per permettergli di porre domande e non avere paura dell’incerto. Non sarà necessario scendere in particolari superflui, che potrebbero avere l’effetto contrario di creare confusione e ansia in quanto non comprensibili a pieno.

Una patologia entra nel sistema famiglia come evento disorganizzante: è sconvolgente pensare che il proprio figlio è malato, ancor più se la diagnosi è composta dalle parole “malattia cronica”. L’accettazione di una malattia per tutta la vita non è cosa facile, nemmeno immediata: per questo insieme di motivi il lavoro dello Psicologo si rende imprescindibile durante tutto il percorso in ospedale, e anche fuori, se necessario.

Il benessere del piccolo è il fine ultimo del lavoro di tutta l’équipe, sia dal punto di vista prettamente organico, che dal punto di vista emotivo-cognitivo.

 

Cos’è il craving nella sfera alimentare?

Il food craving è definito come il desiderio incontenibile di cibo, ove è presente l’inabilità o la difficoltà di gestione alimentare da parte della persona (Holtzman, 2019).

 

L’assunzione incontrollata di cibo è stata indagata in studi che si focalizzano su cibi ipercalorici: in termini fisiologici e psicologici, si ipotizza che l’impatto dello zucchero su determinate aree cerebrali contribuisca ad un’attivazione simile a quella fornita da sostanze come l’eroina e altri oppiacei (Davis & Carter, 2014; Drewnowski, 1992; Rodriguez-Martin & Maule, 2015; Tanda & di Chiara, 1998) o che tale tipologia di craving sia innata, probabilmente perché in passato avere accesso ad un tipo di cibo più nutriente era un rinforzo elevato (Gearhardt et al., 2012; Ventura & Mennella, 2011).

L’eziologia del food craving

I modelli che includono i fattori culturali nell’eziologia del craving ipotizzano l’esistenza di un desiderio innato nei confronti di determinate sostanze (come cibi ipercalorici) che, se consumate, vengono vissute in modo ambivalente a causa di restrizioni per la salute o per rispecchiare un determinato canone corporeo (Holtzman, 2019). Mintz (1985) ha scritto un rendiconto storico sulla divulgazione dello zucchero in Europa, dimostrando che il desiderio di dolcezza è una spiegazione insufficiente per spiegare il suo utilizzo e la sua diffusione, in quanto sono presenti anche molti fattori culturali, politici ed economici potenzialmente influenti. Un recente lavoro sulle differenze alimentari cross-culturali dimostra l’esistenza universale di diverse credenze e pratiche riguardo al cibo, non solo in termini di alimenti, bensì anche riguardo a come si mangia, a ciò che ha un determinato sapore e ai sentimenti che sono la causa e la conseguenza dell’assunzione di cibo (Batsell et al., 2002; Berzok, 1991; Duruz, 1999; Harbottle, 1997, Holtzman, 2019).

Alcune teorie in questo ambito si strutturano sulla polarità esistente tra il desiderio di mangiare cibi golosi e la necessità di evitarli. Di conseguenza, sono presenti dei limiti sulla comprensione del food craving su cibi salutari oppure sull’incontrollabilità sperimentata all’interno di società dove non viene posta l’enfasi sulle restrizioni nei confronti di determinati alimenti (Holtzman, 2019).

Nello specifico, Hormes e Rozin (2010) hanno osservato come in molte lingue non esista un termine che traduca la parola “craving”, portando gli autori a domandarsi che cosa sia una “naturale” esperienza culinaria umana rispetto ad un’esperienza costruita in termini culturali, come la restrizione o il desiderio di assunzione (Hormes & Niemic, 2017). Le abitudini alimentari giapponesi possono essere un interessante punto di confronto: nonostante l’elevato consumo di alimenti specifici o abitudini precise da anni (come le bacche di gogji o l’educazione sull’assunzione di cibo salutare), i dati sanitari indicano nel 2005 un incremento del tasso di obesità, circa del 3,2% (OECD, 2005).

Il food craving nella cultura orientale

Holtzman (2019) ha svolto una ricerca per comprendere la connotazione orientale di desiderio verso il cibo. È stato somministrato un questionario ad un campione composto da 130 Giapponesi residenti a Tokyo (con un’età compresa tra i 19 e i 78 anni) per comprendere la frequenza, le caratteristiche e le rappresentazioni esistenti riguardo al food craving in Giappone (Holtzman, 2019). Nello specifico, ai soggetti è stato chiesto di valutare la frequenza di assunzione, il gradimento provato e il livello di desiderio nei confronti di 116 cibi e bevande comunemente disponibili. I dati ottenuti sono stati confrontati con altri, raccolti attraverso la somministrazione del Food Craving Inventory (White et al., 2001) e del Food Preference Questionnaire (Geiselmann et al., 1998), per facilitare un confronto con studi precedentemente svolti in popolazioni non giapponesi. È interessante notare come il food craving è riportato dal 63,1% del campione, mentre il 74,6% riporta il desiderio di consumare solo determinati alimenti, e come i cibi assunti in modo incontrollato variano notevolmente da quelli consumati in occidente, maggiormente densi di chilocalorie e meno salutari. I dati ottenuti dalla ricerca di Holtzman (2019) mostrano come l’elemento più desiderato in Giappone sia il riso (43,8%), seguito da bevande energizzanti (35,4%) e the caldo (24,6%). Altri prodotti alimentari citati sono insalata (18,5%), ramen (17,7%), riso al curry (16,9%), kaarage (cioè pollo fritto cinese, 13,1%) e sashimi (16,2%). Oltre a fornire un confronto interculturale, questo studio suggerisce una ridefinizione concettuale del craving alimentare stesso e un maggior approfondimento sulla gamma di fattori motivazionali e delle sensazioni che lo elicitano (Holtzman, 2019).

 

Le lacrime di gioia come espressione emotiva del senso della vita – Intervista al Dr B. Paoli

Le lacrime di gioia come espressione emotiva del senso della vita, l’intervista video a Bernardo Paoli sulla ricerca recentemente pubblicata.

 

Il pianto di gioia, un’esperienza emotiva a tutt’oggi poco esplorata e conosciuta, ed ecco che uno dei ricercatori coinvolti, durante i suoi viaggi tra India e Giappone, comincia ad indagare il rapporto che intercorre tra lacrime di gioia e senso della vita.

Nata dal lavoro di Bernardo Paoli, Rachele Giubilei ed Eugenio De Gregorio, la ricerca viene poi pubblicata in lingua inglese sulla rivista scientifica Frontiers in Psychology.

Una ricerca qualitativa molto originale, che a partire dal ruolo adattivo delle emozioni e dall’influenza culturale sulle stesse, ha provato a mettere a fuoco tre dimensioni mediante la realizzazione di un’intervista semistrutturata presente e consultabile nell’appendice della ricerca (i link e riferimenti alla fine dell’articolo):

  • Lacrime di gioia (TOJ – Tears of joy);
  • Significato della vita (MOL – Meaning of life);
  • Caratteristiche personali.

I risultati della ricerca in questione sono stati da me poi approfonditi con uno degli autori, Bernardo Paoli (Fig. 1), psicologo, psicoterapeuta, formatore e divulgatore attivo sul web in merito a tematiche inerenti la psicologia, scrittore ed autore di diversi libri e pubblicazioni, che ringrazio per la disponibilità offertami per la realizzazione della video intervista.

Lacrime di gioia e senso della vita Intervista a Bernardo Paoli Fig 2

Fig. 1: Bernardo Paoli, psicologo e psicoterapeuta

Il primo quesito rivolto a Bernardo Paoli ha riguardato proprio la nascita di tale ricerca.

La sua ricerca, racconta, doveva essere più ampia, ma come ci spiega lo stesso, un privilegio della ricerca qualitativa è anche quello di partire con un’idea e lasciare poi che le cose accadano.

Nata dall’indagare su come la cultura incida sul vissuto e l’espressione delle emozioni nelle persone, si è man mano focalizzata in particolar modo su come le persone vivessero le lacrime di gioia, spinti anche dalla scarsa letteratura in merito ed il considerare la stessa come una sottocategoria della gioia, una gioia talmente grande che per autoregolarsi spinge il nostro organismo ad attivarsi al fine di per autoregolare tale esplosione di gioia.

Bernardo Paoli continua a raccontarci che la sua intuizione da psicoterapeuta ha guidato la strutturazione della ricerca, mettendo insieme il pianto di gioia ed il senso della vita.

L’ipotesi iniziale, dunque, è stata quella di considerare che il pianto di gioia possegga una sua specificità, ossia di sottolineare le esperienze che si collegano al senso della vita delle persone e nello specifico al raggiungimento di obiettivi molto importanti da una parte, ed il senso di connessione profonda con gli altri dall’altra.

Ho chiesto inoltre di spiegare alcuni punti divulgati dallo stesso, in merito ai risultati della ricerca in oggetto, di seguito riportati:

  • Chi non piange di gioia tende a descriversi in modo “duro”, come una persona molta sicura di sé.
  • Si piange di gioia anzitutto raggiungendo un importante traguardo personale.
  • L’inattesa felicità del pianto di gioia si rende più facilmente accessibile a chi desidera con forza raggiungere un obiettivo, ma non è del tutto sicuro delle proprie capacità.
  • Il profilo tipico che è emerso durante le interviste, è quello di un essere umano che piange di gioia poche volte nella vita, ritiene che la vita abbia senso, e che il senso della vita corrisponda anzitutto nell’aiutare gli altri e ritiene che vi sia una forte connessione fra il senso della propria vita e gli episodi in cui ha pianto di gioia.

Spiega Bernardo Paoli che una delle caratteristiche del pianto di gioia sembra essere che lo stesso nasca come qualcosa di inaspettato. I termini infatti più utilizzati dagli intervistati in merito al pianto di gioia, racconta l’autore, sono stati: Felicità, Inaspettato e Raggiungimento.

Continua a spiegare Bernardo Paoli, che un ulteriore risultato che è stato messo in risalto consiste in un collegamento stretto tra il non piangere di gioia e la rigidità rispetto al proprio vissuto emotivo. I giapponesi, cultura che non facilita l’espressione delle emozioni, sembra tendono a piangere molto meno, mai o una sola volta nella vita (media età del campione 42-43 anni), a differenza degli indiani, età media del campione 24-26 anni, che tendono a piangere 3-4 volta nella vita.

Sembra dunque, dai dati di tale ricerca, che i soggetti che descrivono se stessi in maniera molto “dura” tendano a piangere meno di gioia, all’opposto invece chi vive di più il pianto di gioia per situazioni come la nascita del figlio, il conseguimento e completamento di un percorso di studio, il matrimonio, il senso di connessione con il proprio gruppo. La cosa inoltre sorprendente per i ricercatori è stata la descrizione di un non riconoscimento delle proprie abilità che Bernardo Paoli legge come qualcosa di estremamente positivo per il benessere psicologico dell’individuo in quanto questo livello di incertezza è anche quello che consente di elevare la performance ed al tempo stesso di vivere questa gioia traboccante quando si arriva a raggiungere un risultato importante.

Bernando Paoli aggiunge inoltre la lista dei termini con cui le persone hanno descritto l’esperienza del pianto di gioia:

  • Istantanea
  • Istintiva
  • Inattesa
  • Incomprensibile
  • Significativa
  • Potente
  • Emozionante
  • Scioccante
  • Travolgente
  • Rilevante
  • Estesi
  • Di vittoria
  • Di conquista
  • Ho avuto un insight
  • Ho avuto una comprensione profonda
  • Mi sono sentito libero
  • Mi sono sentito amato, speciale…
  • Mi sono sentito sulla strada giusta
  • Mi sono sentito felice
  • Ha avuto un grosso impatto su di me

Quanto emerso dalla ricerca, ha spinto e sostenuto sempre di più l’ipotesi di partenza dunque, ossia che il pianto di gioia è un qualcosa di più che una sottocategoria della gioia, mettendolo in relazione per l’appunto quest’ultimo con il senso della vita.

 

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La radicalizzazione violenta: fattori di rischio e linee di intervento

La radicalizzazione è una strategia finalizzata a convincere le persone ad abbracciare opinioni e idee radicali con l’ausilio dei social media e del web.

 

Sono trascorsi oltre 20 anni dagli attacchi terroristici che colpirono gli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Tali eventi avviarono una “scia di sangue” che si è propagata anche nel nostro continente attraverso una lunga serie di attentati (28 fra il 2004 e il 2019) nelle principali capitali e città europee. In tale contesto, la comprensione delle motivazioni che possono spingere un individuo a compiere simili gesti è quanto mai necessaria per poter definire le misure di prevenzione e di mantenimento della sicurezza nazionale.

Una nuova strategia di reclutamento

La struttura organizzativa dei gruppi terroristici è profondamente diversa rispetto a quella che era stata conosciuta nei primi anni del nuovo millennio (Sageman, 2004). La reazione della comunità internazionale ha, infatti, reso necessaria l’attuazione di nuove modalità di funzionamento che, attraverso una fitta rete di “cellule operative e silenti” in varie aree del mondo, hanno consentito di progettare e di finalizzare azioni criminali contro obiettivi civili o militari e di mantenere, al contempo, un adeguato standard di reclutamento incentrato sul complesso fenomeno della radicalizzazione (McGilloway et al, 2015). Quest’ultima è una strategia di alimentazione finalizzata a convincere le persone ad abbracciare opinioni e idee diffuse con l’ausilio dei social media e del web (European Union Agency for Law Enforcement Cooperation, 2018), a mantenere il proprio impegno radicale, a compiere azioni violente di natura terroristica (Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio, 2005) contro il proprio ambiente sociale o a fuggire per riunirsi ad altri militanti in aree di guerra (Campelo et al., 2018). Questa è una tendenza crescente in Europa, infatti secondo le Autorità circa 5.000 cittadini hanno lasciato il nostro continente per raggiungere la zona di conflitto iracheno-siriano di cui almeno 2.500 hanno deciso di combattere per Daesh.

Cosa accresce la vulnerabilità degli individui?

Gli adolescenti ed i giovani adulti (di cui una su tre è una donna) sono particolarmente esposti al rischio di radicalizzazione poiché attraversano una fase turbolenta dell’esistenza (Oppetit et al., 2019) in cui sono alla ricerca di una identità (Feddes et al., 2015), più inclini all’imitazione e più vulnerabili alle influenze esterne. La provenienza da un ambiente familiare problematico rappresenta un importante fattore di rischio perché accresce la fragilità agli stress e facilita il consolidamento del convincimento di non possedere le capacità di affrontare gli eventi della vita e di integrarsi nel proprio contesto sociale. Inoltre, il COVID-19 ha aumentato la dipendenza dai social media e ha diffuso l’idea di dover affrontare un futuro sfavorevole o irto di difficoltà. Per questo motivo, una parte importante della letteratura ritiene che la presenza di una malattia psichiatrica sia la principale causa di un impegno radicale e della partecipazione ad attività violente. Nel panorama scientifico non esiste, tuttavia, una uniformità di vedute. Una fronda emergente di esperti sta riconsiderando queste affermazioni, ritenendo che la presenza di una patologia non rappresenti la conditio sine qua non per poter giustificare la scelta di compiere crimini di natura terroristica (Schulten et al., 2019). Una precaria salute mentale, infatti, può incidere con modalità diversificate da caso in caso sulla condotta di un individuo. Inoltre, se è comune identificare problemi sanitari negli estremisti solitari (Zeman et al., 2018), tale quadro tende a modificarsi fra gli individui che agiscono in gruppo (Misiak et al., 2019), attestandosi a livelli statistici di massima vicini a quelli riscontrati nell’ambito della popolazione generale. Le “dinamiche del branco”, peraltro, agevolano il superamento delle difficoltà connesse con l’isolamento sociale, facilitano la gestione dello stress e delle emozioni, sostengono i processi di decision making o problem solving (Thijssen et al., 2021), offrono un quadro di valori e di relazioni che è di supporto alla resilienza e fornisce agli individui una visione più chiara e positiva di sé.

La religione è un fattore determinante?

È un comune convincimento che esista un rapporto di causa-effetto che lega il terrorismo alla religione. Ciò ha indotto gli esperti a ritenere che il contrasto all’estremismo religioso sia la linea d’azione da preferire per contrastare il dilagante fenomeno della violenza. Tale scelta ha consentito il proliferare di stereotipi negativi che hanno alimentato la paura e la discriminazione nei confronti di ciò che è considerato “diverso”. L’estremismo religioso, tuttavia, non è un argomento riconducibile ad una mera valutazione binaria “buono – cattivo” e richiede un esame multidimensionale per poter identificare le condizioni che rendono più probabile il ricorso ad azioni violente. In tale prospettiva, è necessario chiarire che la religione non rappresenta un rischio se vissuta come una libera espressione del culto di un Dio i cui precetti sono rivolti a creare un cambiamento positivo (Esposito, 2002) e a ricercare la pace e la fratellanza dei popoli. Diversamente, la situazione può diventare critica quando prevalgono indicatori politici (es. l’allineamento delle norme giuridiche ai precetti religiosi), sociali (es. il rifiuto di una coesistenza pacifica con altri gruppi religiosi), teologici (l’imposizione di un Dio autoritario che ordina e punisce i peccatori) e rituali (es. il mancato riconoscimento della libertà di culto) che descrivono la fede come  un mezzo per affermare un potere politico, per reprimere le libertà individuali, i diritti universalmente riconosciuti e la democrazia.

In conclusione

Non sono ancora noti tutti i meccanismi che spingono un individuo a compiere atti di natura terroristica. È possibile che simili comportamenti derivino da una interazione fra psicopatologia ed estremismo religioso (Vermeulen, 2022), ma è altresì probabile che questo processo risenta della propaganda dei centri jihadisti o dell’influenza esercitata da gruppi familiari o di amici. La multidimensionalità (Wibisono et al., 2019) di queste cause, la validazione di tecniche di indagine e di strumenti di valutazione (Barracosa, March, 2022) coniugati a interventi di social support risultano necessari per poter individuare situazioni potenzialmente a rischio (Bronsard et al., 2022), sostenere la popolazione nei momenti di difficoltà, infondere fiducia per il futuro, limitare la dipendenza dai social media e, conseguentemente, l’efficacia dei meccanismi della radicalizzazione.

 

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