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Logistica ospedaliera – Uno sguardo dietro le quinte

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

 

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. È rilevante per tutti i dipartimenti e i processi all’interno di un ospedale, per esempio ha una grande influenza sulla disponibilità dei materiali medicali, dei beni di consumo o dei posti letto. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

Aspetti della logistica ospedaliera

La logistica ospedaliera si occupa dei processi logistici e dei flussi di trasporto all’interno degli ospedali e include diversi campi, tra i quali:

  • Pianificazione e organizzazione
  • Trasporto e stoccaggio
  • Approvvigionamento di materiali
  • Trasmissione di informazioni
  • Disponibilità del personale

La logistica ospedaliera deve rispondere ai requisiti di igiene, salute, sicurezza sul lavoro e protezione antincendio.

Come si svolge la logistica

La logistica è fondamentale per tutti i processi che interessano l’ospedale. Serve da collegamento tra le aree funzionali e i dipartimenti che forniscono i materiali. Le aree funzionali sono, per esempio

  • sale operatorie
  • reparti
  • pronto soccorso.

I dipartimenti che forniscono i materiali sono:

  • magazzino economale
  • cucina
  • farmacia dell’ospedale.

Logistica ospedaliera e tecnologia moderna

Se si analizza la logistica negli ospedali oggi, si deve sempre tenere presente la digitalizzazione. Soprattutto nei tempi della pandemia da Coronavirus, le esigenze del personale medico e dei pazienti stanno cambiando rapidamente, motivo per cui è necessario il supporto delle moderne tecnologie.

Un’opzione già usata abbastanza frequentemente è quella di dotare i vari articoli di un codice a barre. Gli elementi contrassegnati in questo modo possono essere registrati più facilmente, risparmiando tempo ed evitando errori. Per esempio, i farmaci vengono assegnati al paziente giusto tramite il codice a barre; questo è particolarmente importante perché un farmaco sbagliato può comportare gravi rischi per la salute. Anche gli strumenti della sala operatoria sono in parte dotati di codici a barre e possono essere quindi controllati e preparati più rapidamente.

Un’altra possibilità è quella di utilizzare l’identificazione a radiofrequenza (abbreviata in RFID). Grazie a questa tecnologia, le informazioni vengono trasmesse in tempo reale, garantendo la comunicazione tra le diverse aree e i dipartimenti.

In futuro, la logistica ospedaliera sarà ulteriormente snellita e anche altri processi si svolgeranno in modo completamente automatico, per poter prestare le migliori cure possibili nel modo più semplice ed economico. In questo contesto, diventerà un tema sempre più rilevante l’uso della robotica, già utilizzata, tra l’altro, nelle sale operatorie o come ausilio nell’assistenza infermieristica.

Vantaggi offerti dalla digitalizzazione della logistica ospedaliera

Riguardo ai processi logistici, la digitalizzazione di un ospedale porta soprattutto miglioramenti per la trasparenza, la sicurezza e l’efficienza. Il progetto “Hospital 4.0 – Lean digital-supported logistics processes in hospitals” (fonte) si è concentrato sull’esame della logistica di magazzino e della gestione dei posti letto.

Il motivo più importante per automatizzare i processi logistici tramite la digitalizzazione è quello di alleggerire il personale. Se determinati processi non devono più essere eseguiti dal personale sanitario, allora questo può concentrarsi maggiormente sui compiti a valore aggiunto. Per esempio, il trasporto di campioni di pazienti, farmaci, articoli di prima necessità e documenti può essere eseguito tramite la posta pneumatica. All’interno di bossoli appositamente progettati, il materiale viene trasportato da un luogo all’altro attraverso l’uso di aria compressa o creando un vuoto, senza rischio di contaminare o danneggiare campioni o altro materiale. Questa soluzione di trasporto è più efficiente, meno soggetta a errori, e alleggerisce il personale che può così prendersi cura in modo adeguato dei pazienti.

Dal momento che molti processi avvengono in modo automatizzato e le informazioni sulle quantità esatte di farmaci e materiali vengono trasmesse in tempo reale e con precisione, si riducono gli sprechi, preservando così le risorse.

Conclusione

La logistica ospedaliera è un ramo necessario della logistica che sta diventando sempre più importante e nei prossimi anni riceverà sempre più attenzione. I processi logistici sono perfettamente adatti alla digitalizzazione per poter alleggerire il personale e fornire cure migliori ai pazienti.

 

Pandemic fatigue: cos’è e come rimotivare alla prevenzione del Covid

L’OMS propone quattro strategie chiave e cinque principi trasversali per mantenere e rinforzare l’aderenza del pubblico ai comportamenti protettivi contrastando la demotivazione che prende il nome di pandemic fatigue.

 

È ormai opinione condivisa che il dilagare del SARS-CoV-2 abbia messo a dura prova la società moderna. L’impatto della pandemia che ne è derivata è stato talmente dirompente da spingere i governi degli Stati di tutto il mondo a ritenere necessaria l’emanazione di varie misure restrittive finalizzate alla tutela della salute della popolazione: dall’impiego di mascherine all’aperto e nei luoghi al chiuso all’invito a osservare il distanziamento sociale e a limitare le occasioni di assembramento, fino alla modifica delle modalità di lavoro e degli spostamenti. Tutto ciò ha inevitabilmente determinato un drastico cambiamento nelle abitudini e nello stile di vita delle persone.

A distanza di tempo dall’inizio della pandemia, l’OMS riferisce la preoccupante presenza nella popolazione di crescenti segnali di pandemic fatigue (WHO, 2020).

Pandemic fatigue: che cos’è?

La pandemic fatigue si configura come una forma di distress che si traduce in demotivazione nel seguire i comportamenti protettivi raccomandati. Si tratta di una fisiologica e prevedibile reazione a un’avversità prolungata e ai disagi ad essa associati (in questo caso una crisi di salute pubblica), che emerge gradualmente nel corso del tempo e che conduce a sentimenti di angoscia (WHO, 2020).

A causa della pandemic fatigue un numero crescente di persone sta progressivamente abbassando la guardia relativamente alla situazione pandemica. Questa “stanchezza e intolleranza” da COVID-19 è, infatti, in grado di causare una riduzione del rischio percepito collegato al COVID-19, cui seguono un minore interesse e impegno nel seguire le raccomandazioni, con successiva diminuzione dell’efficacia dei comportamenti precedentemente attuati.

Pandemic fatigue: da cosa è causata?

Di fronte a un evento critico la maggior parte delle persone tende ad attivare delle strategie di coping funzionali ad affrontare le difficoltà nel breve termine, ma, qualora le circostanze di stress acuto si protraggano, potrebbero insorgere stanchezza e demotivazione (Masten et al., 2016).

È quello che è accaduto nel caso della pandemia da COVID-19, laddove la motivazione individuale è stata negativamente influenzata dalla durata della situazione pandemica (WHO, 2020). Nello specifico, la minaccia percepita del virus può gradualmente assumere un peso minore a causa dei seguenti fattori:

  • le persone si abituano nel tempo all’esistenza del virus, perdendo interesse;
  • le conseguenze sul piano personale, sociale ed economico derivate dalle misure di contrasto alla pandemia (lockdown, restrizioni) acquisiscono una rilevanza maggiore rispetto al rischio connesso al SARS-CoV-2;
  • si genera un desiderio di libertà e autodeterminazione come reazione alle limitazioni imposte per contenere il virus.

Pandemic fatigue: come contrastarla?

L’OMS ha stilato delle linee guida, ossia strategie e indicazioni che possono fungere da punto di riferimento per i governi e i cittadini, al fine di gestire la pandemic fatigue, rinvigorire la motivazione della popolazione rispetto ai comportamenti protettivi e incrementare la collaborazione delle persone nella prevenzione della diffusione del SARS-CoV-2.

In particolare l’OMS propone quattro strategie chiave e cinque principi trasversali per mantenere e rinforzare l’aderenza del pubblico ai comportamenti protettivi.

Le quattro strategie chiave sono:

  • comprendere le persone: identificare i gruppi di popolazione più demotivati o con maggiore incidenza di contagio, capire i loro bisogni e usare tali conoscenze per orientare politiche e interventi;
  • ingaggiare le persone: coinvolgere i cittadini a livello individuale e collettivo per farli sentire parte della soluzione;
  • permettere alle persone di vivere le loro vite ma diminuire i rischi: applicare misure locali, mirate, limitate nel tempo e a rischio effettivo per ridurre la diffusione del COVID-19, ma al tempo stesso permettere il proseguimento di una vita relativamente normale;
  • riconoscere le difficoltà che le persone vivono: fornire sostegno finanziario, sociale, culturale e psicologico per alleviare il disagio della popolazione.

Invece, i cinque principi trasversali nella progettazione di politiche e interventi sono:

  • trasparenza
  • correttezza e imparzialità
  • coerenza
  • coordinamento
  • prevedibilità

Infine alcuni consigli concreti forniti dall’OMS sono:

  • anziché incolpare, spaventare o minacciare le persone, fare loro appello e riconoscere il fatto che tutti stanno dando il loro contributo;
  • raccomandare comportamenti facili e poco costosi;
  • utilizzare una comunicazione efficace;
  • fornire informazioni in modo conciso e chiaro.

In conclusione, nonostante siano attualmente disponibili vaccini e terapie per proteggerci e curare l’infezione da COVID-19, i comportamenti protettivi individuali e collettivi continuano a rappresentare una risorsa di centrale importanza per il contenimento del virus, dal momento che la pandemia non è ancora del tutto giunta al termine. Ecco perché la pandemic fatigue si presenta come una insidiosa minaccia relativamente ai risultati raggiunti fino ad ora: abbassare la guardia adesso, infatti, può significare vanificare tutti gli sforzi effettuati per tenere sotto controllo la diffusione del SARS-CoV-2, spesso con costi elevatissimi in termini economici e sociali. Risulta, pertanto, fondamentale costruire un giusto equilibrio che da un lato garantisca alla popolazione una soddisfacente qualità di vita e dall’altro continui a mantenere ridotti i rischi riferiti al dilagare della pandemia.

 

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento(2022)- Recensione

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento è composto da quattro capitoli: nel primo viene trattato il concetto di dipendenza affettiva, nel secondo quello di idolo, nel terzo le aspettative all’interno del rapporto con l’idolo, nell’ultimo la sindrome di Peter Pan e la paura di crescere.

 

Sono millenni che l’uomo si interroga su cosa sia l’amore. La tematica è complicata da analizzare e definire in tutte le sue sfaccettature relazionali ed emotive che investono le persone.

Ho percorso la lettura del libro in compagnia di diversi interrogativi; alcuni di essi sono soggettivi e spontanei, altri sono comparsi con la lettura, altri ancora sono proposti dall’autrice. Né è un esempio la questione se esista una ricetta univoca che, ponendo i giusti ingredienti insieme all’arte della lavorazione, sforni il giusto modo di amare. L’autrice interviene chiarendo che non esiste. Anzi, è un errore tipico pensarlo: non esiste una modalità unica di amare.

Semplificando, il modo in cui desideriamo essere amati non corrisponde a quello nel quale anche il nostro partner vorrebbe essere amato. Ecco che l’argomentazione su cosa sia l’amore si complica, arricchendosi.

Come anticipato, il libro nasce dalla volontà di comprendere alcune dinamiche dell’amare e, nello specifico della dipendenza affettiva. Si giunge ad attribuire, attraverso il gioco delle aspettative, la caratteristica di essere per se stessi l’unica possibilità per poter raggiungere la felicità, di essere felici.

Infatti, nella conclusione si legge che l’impegno era di cercare:

[…] una risposta al perché sentiamo il bisogno di riversare il nostro interesse e le nostre attenzioni su di un’altra persona, perché ci aspettiamo di trovare in lei tutto quello di cui sentiamo la necessità, perché finiamo per dipendere da lei e considerarla la nostra unica possibilità per essere felici.

Libro letto con vero piacere.

Oltre alla chiarezza d’esposizione e la qualità dei contributi presenti, sicuramente la piacevolezza della lettura è correlata al mio interesse verso la tematica della dipendenza affettiva; argomento verso il quale da anni ho sviluppato un interesse sempre maggiore che mi ha portato, e mi conduce attualmente, allo studio approfondito del fenomeno stesso.

L’autrice ha scritto Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento con attenzione accurata al lettore. Esso si troverà immerso nella narrazione. La scrittura fluida e arricchita da argomentazioni fruibili su tematiche importanti lo condurrà verso la scoperta del fenomeno contestualmente alle risposte presentate.

Il testo è composto da quattro capitoli. Nel primo viene trattato il concetto di dipendenza affettiva, nel secondo quello di idolo; il terzo e il quarto sviluppano la riflessione nei confronti delle aspettative all’interno del rapporto con l’idolo, per terminare nell’ultimo capitolo col tema relativo alla sindrome di Peter Pan e alla paura di crescere di alcune persone.

Troviamo un concetto che potrebbe apparire lontano, inizialmente difficile da capire. Velato di stranezza o impossibilità esistenziale, esso mette il lettore di fronte al concetto che per amare veramente è necessario vivere la condizione di autonomia, è fondamentale riuscire a stare da soli.

Successivamente, l’autrice ci guida verso una nuova riflessione. Il costrutto di dipendenza affettiva non è sempre definibile come espressione di patologia. Difatti, esistono diverse tipologie di dipendenza, alcune sane e, ahimè, altre patologiche.

Nello specifico, la dipendenza è sana quando la relazione arricchisce gli individui; sono le amicizie, gli affetti familiari, i rapporti sociali dove le attenzioni e i bisogni sono vicendevolmente riconosciuti e ripagati.

Diversamente, si può definire patologica la dipendenza quando un individuo si lega ad una persona che riveste la qualità di unico centro di interesse. Siamo nella situazione in cui viene a mancare la reciprocità della relazione sana, quando essa è incapace di dare in cambio qualcosa ma si nutre, assorbe l’energia dell’altra persona. È l’unica ragione di vita, ma ci annulla.

Come sottolinea l’autrice:

Il desiderio di amare qualcuno si traduce, come tutti i desideri umani, nel raggiungimento di uno stato di gioia, di soddisfazione, di crescita, il vero amore non può andare contro i nostri interessi e la nostra felicità, non può implicare che una persona si annulli nell’altra, non può causare dipendenza e rinuncia della propria individualità.

Quali sono le caratteristiche della dipendenza affettiva?

Esse vengono riassunte in sei punti: ricerca di equilibrio, perdita di sé, l’altro è perfetto, passione ed egoismo, delusione e transitorietà.

Per spiegare cosa si intende per idolo possiamo immaginare alcune situazioni dell’esperienza quotidiana che molti hanno vissuto. Chi siamo e chi vorremmo essere, la percezione di invidia e ammirazione verso una persona a cui vorremmo assomigliare o vedere qualcuno con occhi sognanti e idealizzarlo come un semidio. Questi sono esempi resi noti dal pensiero dell’autrice per rendere concreta la sensazione di possedere un idolo e, nello stesso tempo, sapere cosa significhi averlo.

Interessante il confronto con la sacralità: l’idolo ci offre un Dio non impossibile da raggiungere.

Esistono così idoli buoni e idoli cattivi. Quali sono le caratteristiche che li contraddistinguono? I primi si allineano alla crescita individuale dell’individuo, aiutano nella costruzione di un sé indipendente. Gli idoli cattivi, al contrario, “[…] sono quelli che ci isolano dalla realtà, sono un rifugio dove si decide di nascondersi, sono quelli che creano un effetto di dipendenza senza renderci veramente autosufficienti.

Per spiegare i rapporti esistenti tra noi e i nostri idoli, l’autrice prende in esame i concetti di imitazione e di identificazione.

In ulteriore analisi, l’idolo assume il ruolo di essere funzionale a qualcos’altro, diventa amato per la rappresentazione che l’individuo si crea di esso invece che per quello che realmente è.

I concetti di essere innamorati e amare assumono lo stesso significato?

No, non sono sinonimi. Tumultuosità dei sentimenti e forte passionalità rientrano nel quadro dell’innamoramento. Può condurre all’amore, può altresì esaurirsi prima di giungere alla meta pensata e vissuta inizialmente.

Proseguendo la lettura del libro, scopriamo che per Annalisa Balestrieri “chi ama sa di amare e chi è amato sa di essere amato”; la priorità principe è la felicità del partner. Situazione in cui non è presente la ricerca del possesso, bensì condizione in cui regna la fiducia e la libertà della realizzazione della persona amata.

A volte l’amore termina, finisce.

Scompaiono le affinità viste nell’incontro iniziale col partner, l’investimento emotivo e relazionale diventa meno, non corrisponde più alle nostre necessità. La persona diventa sempre più una estranea e vengono a mancare i dialoghi.

Di attualità nel contesto in cui viviamo è l’argomento trattato nell’ultimo capitolo: Peter Pan.

La capacità di sognare non è sempre valutata come manifestazione negativa, come espressione della volontà di fuggire dalla realtà, ma al contrario può indicare una prospettiva per arricchire la nostra vita. Affinché non ci sia la fuga dalla realtà, nondimeno l’autrice ricorda l’importanza della consapevolezza di come saper sognare sia una strada di vita, modalità che tuttavia non deve sostituire gli aspetti reali del quotidiano.

La vita va sempre vissuta in prima persona!

 

Coscienza e memoria: ipotesi di ricerca per studi futuri

Di Sarno e colleghi (2018) hanno proposto un’ipotesi di ricerca per comprendere più approfonditamente come mai certi elementi della quotidianità diventano parte della coscienza sotto forma di contenuti consapevoli.

 

Cos’è la coscienza?

Uno dei costrutti più difficili da definire in psicologia è la coscienza. Haladjian e Montemayor (2016) la definirono come l’esperienza soggettiva di essere consapevoli dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Dato che è un concetto complesso, per semplificare il costrutto vengono prese in considerazione due componenti: il livello di coscienza, cioè la vigilanza e il contenuto della coscienza, e la coscienza definita in termini di esistenza intrinseca, composizione, informazione, integrazione ed esclusione (Tononi & Koch, 1668; Di Sarno et al., 2018).

Secondo la teoria dell’informazione integrata (IITC), l’esistenza intrinseca riguarda ogni esperienza che esiste nel qui ed ora, vissuta in modo reale e intrinseco da parte del soggetto che la sperimenta, indipendentemente da chi osserva dall’esterno (Di Sarno et al., 2018). Si parla invece di composizione in quanto la coscienza è strutturata e ogni esperienza viene distinta in base all’esperienza stessa sperimentata dalla persona: ad esempio, posso riconoscere un determinato dipinto, il colore utilizzato e discriminarlo da un altro dipinto in cui si utilizza lo stesso colore. L’informazione riguarda invece la specificità della coscienza, in quanto ogni esperienza è composta da delle distinzioni che differenziano ogni esperienza come diversa e unica. L’integrazione si riferisce all’irriducibilità dell’esperienza, in quanto non può essere scomposta in distinzioni fenomeniche non interdipendenti come i fotogrammi di un film, bensì la coscienza è unificata (Tononi & Koch, 1668; Di Sarno et al., 2018). Infine, l’esclusione riguarda la definizione in termini spazio-temporali della coscienza stessa.

Tutti i sistemi biologici presentano forme di autorganizzazione tali da poter mantenere un’integrità nonostante degli stati fluttuanti (ad esempio, si pensi ai battiti cardiaci o alle oscillazioni dell’attività cerebrale). La teoria di Markov Blanket postula un’interrelazione tra stati interni ed esterni: i primi sono aperti ai secondi in modo che le funzioni energetiche possano essere descritte in termini di credenze probabilistiche, o teorie, codificate dagli stati interni stessi nel rispetto di quelli esterni (Di Sarno et al., 2018). Questo significa che un organismo non segue un modello nel mondo, bensì è esso stesso un modello che minimizza l’entropia dei suoi stati interni attraverso l’interazione dei sottosistemi neurali, differenziati e organizzati gerarchicamente (Ramstead et al., 2017; Sperandeo et al., 2017).

Su cosa si basa la coscienza?

Ma l’uomo come può essere consapevole della sua coscienza, organizzandola in diversi gradi e diventando così un modello funzionale del mondo in cui vive? Probabilmente grazie alla memoria. Numerosi lavori scientifici sono stati pubblicati negli ultimi anni, mettendo in relazione la coscienza e la memoria di lavoro con il fine di comprendere se gli elementi memorizzati fossero consci (Baddeley, 2003) o inconsci (Soto et al., 2011; Stein, Kaiser & Hesselmann, 2016; Di Sarno et al., 2018). La memoria gioca un ruolo fondamentale per l’adattamento dell’uomo, in quanto permette la formazione identitaria del soggetto: senza essere in grado di ricordare che cosa ci succede o che cosa sperimentiamo, il nostro essere può essere compromesso in modo significativo (Di Martino, 2016; Sperandeo et al., 2016; Sperandeo et al., 2017).

Partendo dalla letteratura che conferma il ruolo della memoria nella strutturazione dell’esperienza conscia, al contrario della memoria di lavoro che mostra come alcuni elementi siano interiorizzati in modo inconscio, Di Sarno e colleghi (2018) hanno proposto un’ipotesi di ricerca per comprendere più approfonditamente (attraverso un’esperienza immersiva con l’utilizzo della realtà virtuale) come mai certi elementi della quotidianità diventano parte della coscienza sotto forma di contenuti consapevoli (Di Sarno et al., 2018). Per quanto riguarda i questionari, raccomandano la somministrazione di un test neurocognitivo come la Repeatable Battery For Neuropsychological Status (RBANS, Randolph et al., 1998) per valutare l’integrità delle funzioni cognitive dei partecipanti. È consigliato il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 – Restructured Form (MMPI 2-RF; Sirigatti & Faravelli, 2012) per escludere la presenza di disturbi di personalità o di una sintomatologia che può inficiare lo studio. Una volta valutati questi aspetti, viene fornito un visore ai partecipanti, dove delle scene con stimoli neutri pian piano si sviluppano in scene più articolate e con dei contenuti emotivi più evidenti (l’esempio riportato descrive un soggetto che sorride mentre guarda il partecipante della ricerca). Gli autori dell’esperimento ipotizzano che a determinare tale consapevolezza degli elementi sia proprio la qualità degli stimoli interiorizzati: vivere un’esperienza vivida con la realtà virtuale, come sguardi, sorrisi e gesti, significativamente rilevanti, potrebbe attivare dei contenuti inconsci interiorizzati nella memoria di lavoro. Di conseguenza, dirigere l’attenzione in modo consapevole su questi elementi potrebbe rendere uno stimolo conscio, ipotizzando che il soggetto tenderà a ricordare una serie di dettagli ed elementi in modo direttamente proporzionale alla valenza emotiva dello stimolo osservato (Di Sarno et al., 2018). Svolgere questo esperimento non solo potrebbe essere utile per comprendere meglio come funziona la memoria o come quest’ultima sia correlata alla coscienza, bensì potrebbe apportare dei benefici in ambito terapeutico per quanto riguarda la strutturazione identitaria di un individuo in base a stimoli salienti o emotivi, percepiti come determinanti per la sua individualità.

 

Inizia il Forum di Ricerca in Psicoterapia – Report dall’intervento di apertura del Dr G. Caselli

Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Spetta al Dr. Gabriele Caselli dare avvio ufficialmente al Forum, la presentazione di apertura dell’evento conta più di 300 partecipanti.

 

Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Un appuntamento che gli allievi di Studi Cognitivi ben conoscono e aspettano con anticipazione ogni due anni. La pandemia ha però stravolto la tradizione: non solo facendo saltare l’edizione del 2021 ma spostando il Forum – prima chiamato colloquialmente “Forum di Riccione” in quanto la città romagnola fungeva da punto di incontro per tutte le sedi del gruppo Studi Cognitivi – dalle calde spiagge della riviera al meno soleggiato mondo online. L’interesse e l’entusiasmo però restano quelli di sempre.

Parte infatti la presentazione di apertura dell’evento e i partecipanti superano i 300. Spetta al Dr. Gabriele Caselli dare avvio ufficialmente al Forum.

Inevitabile è il riferimento a quanto gli ultimi due anni abbiano stravolto le nostre vite, personali ma anche professionali. Numerosi cambiamenti hanno toccato il lavoro del terapeuta: basti pensare allo spostamento dell’attività terapeutica online e al conseguente proliferare delle piattaforme di Psicoterapia a distanza. Ma anche il mondo della formazione – ricorda Caselli – ha subito non pochi cambiamenti e il gruppo Studi Cognitivi, in questo senso, ha dovuto affrontare numerose sfide non sempre facili, non sempre ben viste, ma necessarie e anche stimolanti. Perché “stimolanti”? Perché – sottolinea Caselli – tutto ciò ci ha portato a pensare quanto sia possibile cambiare se e quando il contesto lo richiede: nonostante le varie difficoltà infatti, la Scuola si è evoluta, ha saputo riconoscere le limitazioni date del periodo pandemico e ha saputo trasformarle in opportunità. Pensiamo al duro lavoro per spostare online le lezioni, ma anche all’impegno in campo clinico per portare, in un periodo così delicato, la terapia scientifica ed evidence based a chi ne ha bisogno (impegno che ha permesso la nascita del portale inTHERAPY). Al tempo stesso, negli ultimi due anni, il gruppo Studi Cognitivi ha continuato a diffondere conoscenza scientifica in campo internazionale in particolare sulla formulazione condivisa del caso e sulla pianificazione del trattamento.

Perché il futuro da raggiungere – auspica G. Caselli – è un futuro in cui il terapeuta non è più solo nella sua stanza, ma lavora in modo coordinato e controllato attraverso il confronto con i colleghi e con l’utilizzo di protocolli efficaci, soprattutto in un periodo in cui una rinnovata attenzione alla terapia attraverso le piattaforme online e le politiche sociali (come ad es. bonus psicologo e “vivere meglio”), può essere ricca di opportunità ma, in un certo senso, anche di rischi per il professionista che lavora isolato.

Il prof Caselli conclude il suo intervento osservando come la disseminazione su larga scala di terapia sia possibile in termini scientifici, a partire dalla diffusione di un pensiero critico e scientifico che eviti derive naif, e non a caso, nel corso del Forum, sono ospiti due personalità di spicco nel campo della Psicoterapia Cognitiva su larga scala: Steven Hollon e David Clark. L’intento è costruire un confronto con gli altri Paesi già impegnati con interventi pubblici di Psicoterapia, in modo da analizzare meglio i limiti e le risorse di tali interventi, per poter poi creare nuovi ponti tra ricerca e clinica in questo nuovo mondo.

La parola passa infine al Dr Giovanni M. Ruggiero che presenta il Prof. Steven Hollon e la sua Keynote, in cui ci parla di depressione e terapia cognitivo comportamentale (a cui nei prossimi giorni dedicheremo un report più approfondito).

Mancherà il palco con i relatori e gli allievi seduti in platea che ascoltano con curiosità, mancheranno le chiacchiere tra colleghi mentre si passeggia tra i tanti poster di ricerca esposti e mancheranno anche i momenti più conviviali e di leggerezza che il Forum di Riccione portava con sé, di certo però non mancheranno le occasioni di confronto e scambio che permettono ad ogni partecipante di crescere personalmente e professionalmente. Buon Forum a tutti!

 

Essere genitori in epoca Covid – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il sesto episodio del podcast dedicato all’essere genitori nel periodo pandemico. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Cristina Ferrari.

Dove ascoltare il sesto episodio:

 

Che cos’è la dismorfia digitale

Filtri delle app, videochiamate, foto ritoccate: la nostra immagine riflessa sullo schermo ci può portare a sovrastimare difetti ed imperfezioni e a farci sentire insoddisfatti, fino alla dismorfia digitale.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 29) Che cos’è la dismorfia digitale

 

Negli ultimi anni molti professionisti nell’ambito dell’estetica, come dermatologi e chirurghi plastici, hanno assistito ad un aumento di richieste di interventi.

Secondo diversi professionisti questo fenomeno è dovuto alla continua esposizione delle nostre immagini, continuamente postate e condivise su social e app, ma anche all’abitudine di modificarle che funge da innesco non solo all’essere insoddisfatti di se stessi, ma anche a vere e proprie forme di dismorfia (Ramphul e Mejias, 2018; Pfund et al, 2020). Difatti, spesso si tratta di richieste legate alla propria immagine digitale: addirittura, molti richiedono trattamenti che li facciano somigliare alle loro foto modificate con i filtri delle app.

Il dismorfismo corporeo e la dismorfia online

Nel DSM-5 il disturbo da dismorfismo corporeo o dismorfia (body dysmorphic disorder, BDD) viene classificato tra i disturbi ossessivo-compulsivi. Il nucleo di questo disturbo è l’eccessiva e persistente preoccupazione per difetti fisici anche minimi o assenti. Che siano presenti o meno, questi difetti compromettono significativamente la qualità della vita ed il funzionamento dell’individuo, causando forte disagio.

Da qualche tempo si parla di nuove forme di insoddisfazione corporea che nascono online: se legata principalmente a video e foto si parla di “Snapchat dysmorphia” o “Instagram dysmorphia” o più in generale “selfie dysmorphia” o ”filter dysmorphia”.

Invece ci si riferisce a “Zoom dysmorphia” quando il disagio è relativo alla propria immagine nelle videochiamate (Ramphul e Mejias, 2018), diventate la forma principale di comunicazione per lavoro, scuola e socializzazione soprattutto durante la pandemia. Anche i servizi di videochiamate, infatti, offrono filtri per ritoccare il proprio aspetto e che hanno rafforzato questa tendenza (Pfund et al, 2020).

Al di là del termine specifico, ciò che è cruciale è che si tratta di immagini di obiettivi digitali che possono essere modificate e filtrate; immagini e video che abbiamo sempre sott’occhio e proprio questa continua osservazione di noi stessi può portarci a notare ed esacerbare aspetti di noi che non ci piacciono.

Editing di noi stessi

L’influenza di standard di bellezza e idealizzazione corporea guidati dai media, come stampa e televisione, sono ben noti; si tratta però di modifiche riservate a specifiche figure professionali, come modelli o attori, con strumenti di editing professionali utilizzati da esperti (Hunt et al., 2018).

Quando entriamo nell’ambito dei social media parliamo di una marea di filtri e applicazioni a disposizione di tutti, senza contare che possiamo ricevere feedback immediati, cosa che ci porta ancora di più a prestare molta attenzione a rivedere e a rifinire ogni dettaglio, compresi quelli che riteniamo non apprezzabili o che lo diventano man mano che si fa pratica con i filtri.

Questi filtri consentono praticamente ogni tipo di modifica: sbiancare i denti, ingrandire gli occhi, eliminare le rughe, cambiare il colore della pelle, eccetera.

Si può pubblicare un’immagine di sé ottimizzata, curata, in alcuni casi irrealistica: si finisce col condividere l’immagine desiderata, il sé ideale, più che un riflesso di se stessi (Tiggemann e Barbato, 2018; Rajanala e Maymone, 2018; Jiotsa et al, 2021).

L’approccio adeguato

Se da un lato i social media ci aiutano a rimanere connessi, informati, aggiornati, dall’altro c’è il rischio che l’idealizzazione e l’eccessiva attenzione alle immagini ci facciano sentire insoddisfatti o portino a veri e propri disturbi psicologici.

D’altro canto sono parte integrante della nostra vita quotidiana: certamente è essenziale per i professionisti capirne a fondo le tendenze, le sfumature negli utilizzi, le potenzialità ed i rischi.

È fondamentale saper riconoscere i sintomi di disagio per la propria immagine corporea assicurando così al paziente supporto, aiuto e comprensione del problema prima di eseguire qualsiasi procedura chirurgica. La conoscenza e l’educazione digitale aiutano i professionisti a gestire anche questa tipologia di pazienti ed eventualmente indirizzarli a percorsi di supporto psicologico laddove necessario.

 

Il ruolo dei modelli nell’adolescenza

Durante l’adolescenza ci si trova dinnanzi un cammino, più o meno impervio e oscuro, che conduce ciascuno di noi al raggiungimento dell’età adulta. In questo periodo è naturale il ricorso a modelli che aiutano a scegliere in quale direzione indirizzare i propri sforzi nella ricerca di un nuovo equilibrio. 

Dall’adolescenza all’età adulta

Si pensa spesso all’adolescenza come ad un periodo di passaggio, una fase con un inizio e una fine abbastanza delineabili. In realtà, però, non è una fase che scompare per sempre, quello che impariamo in questo periodo ci sarà utile nel futuro. La sua memoria e i suoi effetti si prolungano per tutta la vita e riemergono nei momenti cruciali e nelle grandi tappe dell’esistenza, come sostenuto da Erikson nel trattare le fasi dello sviluppo della personalità.

Nell’adolescenza vediamo il cambiamento che ci riguarda e ne sentiamo la portata, è una fase costruttiva in cui sentiamo il bisogno di coerenza, unità, in cui deve essere forte la percezione di sé. Per la prima volta le nostre aspettative devono confrontarsi con la realtà, a costo di delusioni.

Questo è forse l’aspetto principale di quanto dovremo apprendere perché i problemi che incontreremo nell’età dell’adolescenza (scelte, dilemmi, rapporti con i cambiamenti) non vengono superati con essa, ma da quel momento diventano parte del panorama esistenziale di ognuno di noi. Per imparare ad affrontarli, la crisi tipica di questa età deve essere affrontata e attraversata con la consapevolezza che non può essere evitata.

Il difficile processo di differenziazione

Durante l’adolescenza ristrutturiamo l’immagine di noi attraverso le modifiche cognitive ed emotive e il raggiungimento del pensiero logico, formale e autoriflessivo.

La crisi adolescenziale non può essere collocata in un periodo preciso, per alcuni può aver luogo anche in età adulta, oppure non verificarsi per tutta la vita. In questo caso, però, difficilmente riusciremo ad emergere da quello stato di dipendenza che caratterizza il periodo dell’infanzia.

La ricerca dell’autonomia passa attraverso la ribellione ai genitori. Ausubel, psicologo dell’età evolutiva, ci parla di un processo di desatellizzazione dalle figure genitoriali. Spesso l’adolescente si rifiuta di rispondere alle loro aspettative, assume dei modelli che loro vedono come negativi, esprime la deidealizzazione del genitore attraverso la critica, le identità negative di cui parla Erikson. La ribellione dell’adolescente non ha però una connotazione esclusivamente negativa, ma va vista come un progetto di vita.

Gli adolescenti hanno un umore fluttuante, sono spesso ambigui, svogliati, confusi. Si sentono inadeguati perché il concetto di sé è carente, l’autostima è bassa per la difficoltà dei compiti evolutivi che devono affrontare, per i vacillamenti e i fallimenti cui vanno incontro.

Gli eccessi

Durante l’adolescenza, le situazioni da affrontare appaiono enormi e catastrofiche. Gli adolescenti hanno aspettative e ideali esasperati e impossibili, il confronto con le frustrazioni è quindi enorme.

Uno dei problemi principali che incontra l’adolescente è un retaggio dell’infanzia, il non saper sopportare l’intervallo di tempo che intercorre tra i desideri e la loro soddisfazione. È necessario imparare a confrontarsi con la realtà e sopportare le frustrazioni che nascono da un’immagine inadeguata che si ha di sé e della realtà, dalla discrepanza che esiste tra ideale e realtà. Un percorso naturale e indispensabile, che deve però essere considerato tipico dell’adolescenza e che non è più funzionale se continua ad esistere nell’età adulta.

Falso capo

L’adolescenza è il periodo della comparsa del falso capo, una figura sostitutiva del genitore che il giovane adolescente investe di quell’onnipotenza di cui nell’infanzia aveva investito il genitore e nella quale cerca quella sicurezza che non ha ancora trovato in se stesso. Cambia il tipo di base sicura di cui ci parla Bowlby: se per il bambino il rapporto è fatto di accudimento, per gli adulti è fatto di reciprocità.

Qualunque cosa può fungere da falso capo, come può esserlo una persona (ad esempio il fidanzato, vissuto come unico amore al mondo) così può esserlo un ideale, in entrambi i casi questi saranno caratterizzati dall’eccesso di onnipotenza che gli viene attribuita. L’adolescente va soggetto a grandi delusioni e frustrazioni perché investe troppo in questo falso capo.

Dalla crisi e dall’illusione si passa alla delusione. Il conflitto che ne deriva non è solo inevitabile, ma è salutare. Quando l’adolescente fa questo investimento su altri e poi, un po’ alla volta, si rende conto di aver fallito perché quello che si aspettava non è realizzabile, torna in sé.

Queste crisi sono funzionali al disinvestimento, si passa dall’onnipotenza dell’altro alla ricerca della propria identità, alla fiducia nel proprio potere personale.

La figura di riferimento e la fine del mito

Fulvio Scaparro, psicologo e psicoterapeuta, ci dice che di una figura di riferimento non si può fare a meno e non è vero, come comunemente si pensa, che queste muoiano sempre spontaneamente quando si raggiunge l’adultità.

Perché ciò avvenga è indispensabile che si sappia mantenere da esse la necessaria distanza così da non confondere la propria personalità con la loro; solo in questo caso potranno svolgere appieno la loro funzione positiva, per poi svanire quando non saranno più necessarie. Chi vuole troppo avvicinarsi al modello rischia di fondersi con lui vivendo una sorta di vita immaginaria.

L’adolescenza è un periodo di crisi, non sempre le esperienze che si fanno a questa età sono positive, se non lo sono si può correre il rischio che si verifichi un rifiuto alla crescita per paura che queste situazioni negative tornino a ripetersi, identificando addirittura con esse la stessa età adulta.

Ogni bambino ha un mito, un personaggio particolare che vuole imitare, un eroe dei fumetti, un divo del pallone che rappresenta per lui un modello. Sarà fortunato se capirà, e se qualcuno lo aiuterà a capire, che ciascuno di questi personaggi rappresenta solo un interprete del mito, ma non è il mito stesso.

Quando il personaggio viene meno, perde il suo fascino, delude, non corrisponde più, insomma, alle aspettative che ci si erano fatte su di lui, si deve poter capire che è solo un interprete del mito a cadere e non il mito che egli interpretava, il quale continua ad andare oltre i limiti che sono propri, invece, del personaggio.

In conclusione

Nonostante i rischi di cui abbiamo parlato, non si deve cadere nell’errore di concludere che sia meglio saper fare a meno di un modello, ciò non è assolutamente possibile perché la sua utilità rimane innegabile.

L’adolescente deve acquistare modelli morali accettabili e adatti alla società in cui vive, ma anche adatti e accettabili al suo mondo. La lotta degli adolescenti è integrare i modelli morali che hanno ricevuto in famiglia con il loro mondo, quello che loro si sono scelti e che risponde alle loro personali esigenze e aspettative.

La nascita di un terapeuta sistemico (2022) – Recensione del libro

Il tema attorno a cui ruota il volume La nascita di un terapeuta sistemico sono le esperienze formative che coinvolgono direttamente le famiglie d’origine, i partner e, in alcuni casi, anche gli amici più importanti dei futuri terapeuti familiari.

 

Va dato merito al giovane editore napoletano Luigi Guerriero per aver dato vita, nonostante i tempi di crisi generalizzate, ad un progetto editoriale di testi di psicologia e di scienze umane, nato da pochi anni e in continua progressione. Il titolo più importante sinora è a mio avviso Quando volano i cormorani, il libro di Alfredo Canevaro, pubblicato per la prima volta nel 2009, andato esaurito e successivamente introvabile per problemi della precedente casa editrice (vedi recensione). Con la pubblicazione di La nascita di un terapeuta sistemico prosegue l’operazione editoriale di rendere nuovamente disponibili per i lettori italiani i testi di Canevaro. Questo, curato insieme al terapeuta familiare belga Alain Ackermans, fu ideato dai due curatori raccogliendo gli stimoli e le suggestioni emerse in un affollato convegno dell’E.F.T.A. (European Family Therapy Association) tenutosi a Parigi nel 2010 proprio sui temi al centro del volume. Il lavoro fu pubblicato simultaneamente nel 2013 in italiano e in francese, a testimonianza di uno sforzo di condivisione internazionale e raccoglie contributi di autori italiani, belgi, francesi e sudamericani. Il tema attorno a cui ruota il volume sono le esperienze formative che coinvolgono direttamente le famiglie d’origine, i partner e, in alcuni casi, finanche gli amici più importanti dei futuri terapeuti familiari.

Le principali scuole sistemiche reputano che il training debba essere il luogo privilegiato anche per il lavoro sulla “persona”, con l’eccezione dei casi in cui è lo stesso allievo a formulare una richiesta di uno spazio terapeutico personale, che deve essere individuato all’esterno del training gruppale. Proprio per questa caratteristica, la convocazione della famiglia dell’allievo, pur non strutturandosi come una seduta di terapia familiare, rappresenta un’occasione privilegiata di conoscenza dei propri vissuti emotivi e dei propri modelli relazionali. In effetti, sin dagli albori della terapia familiare negli Stati Uniti si sono confrontati due modelli: il primo, nato nella costa occidentale, enfatizzava il problem-solving e l’acquisizione delle abilità tecniche, mentre l’altra impostazione ha puntato sulla persona del terapeuta, dando spazio al lavoro sulla famiglia d’origine, al genogramma e alla ricerca di pattern trigenerazionali. Nel tempo, il lavoro sul Sé del terapeuta è apparso inevitabile, anche se non tutte le scuole ricorrono alla presenza reale dei familiari. Il tema dell’isomorfismo tra il processo terapeutico e il processo formativo è quindi un altro filo rosso che collega i diversi contributi.

Il libro è suddiviso in due parti ed è introdotto da una bella prefazione di Gigi Onnis, scomparso nel 2015, che dell’EFTA è stato co-fondatore e tenace animatore.

Nella prima, curata da Canevaro, sono ospitati i capitoli di Stefano Cirillo, Matteo Delfini e Anna Maria Sorrentino, che descrivono l’esperienza della Scuola Mara Selvini di Milano nel coinvolgere le famiglie d’origine degli allievi; di Matteo Selvini, in merito ad un gruppo multifamiliare per terapeuti esperti, di Alfredo Canevari e altri autori sudamericani che descrivono analoga esperienza condotta a Santiago del Cile; di Federico Cardinali e Gabriella Guidi, che presentano il loro lavoro sulla famiglia d’origine degli allievi strutturato in quattro tempi diversi.

La seconda parte, curata da Ackermann, contiene altri 5 capitoli, che fanno riferimento al modello di Chantal Van Cutsem e del Centro Studi della Famiglia e dei Sistemi (CEFS) di Bruxelles, all’esperienza francese dell’APRTF di Parigi, che parte dal modello di risonanza familiare, ispirato al concetto chiave formulato da Mony Elkaim, per finire con l’esperienza inglese di Mark Rivetti e Jeremy Woodcock, operanti a Bristol, che anticipano i temi della mindfulness, proponendo tecniche per trascendere il Sé nella formazione dei terapeuti sistemici. Le conclusioni del volume sono pure affidate a Ackermans, che si occupa di riepilogare i punti di contatto e le divergenze tra le varie modalità di lavorare sui legami familiari degli allievi nelle diverse realtà formative europee presentate.

Il libro mi pare particolarmente utile a chi si occupa di formazione, non esclusivamente in ambito sistemico, e a quanti sono interessati a comprendere l’evoluzione nel tempo delle teorie e delle prassi dei training per psicoterapeuti.

 

I processi sottostanti alla formazione di un pregiudizio

Capire come si formano i pregiudizi è importante in quanto insieme al razzismo e allo stigma sono i principali problemi vissuti dai migranti in tutto il mondo.

 

I pregiudizi sono definiti come bias di percezione e valutazione nei confronti di membri esterni al proprio gruppo e sono un meccanismo alla base della discriminazione che ha un impatto significativo sulla sicurezza e sul benessere dei gruppi vulnerabili in tutto il mondo (Mattan et al., 2018). Compromettono quindi la coesione sociale e possono essere considerati come una forma di chiusura nei confronti dell’altro basata su una generalizzazione difettosa e inflessibile (Allport, 1954). All’interno di una prospettiva cognitiva, i pregiudizi deriverebbero da informazioni elaborate automaticamente (Devine, 2001): i pregiudizi espressi nei confronti delle minoranze, pertanto, possono a volte derivare da un sistema cognitivo automatico, iperattivato e inflessibile, a scapito di un “sistema di controllo” più ponderato (Devine, 1989). Tale sistema di controllo potrebbe infatti evitare che i pregiudizi verso le minoranze o i membri esterni vengano espressi (Devine, 1989). Negli ultimi decenni, numerosi studi di psicologia sociale hanno indagato se i pregiudizi scaturiscano dal sistema cognitivo automatico o da un’interruzione del sistema di controllo. In effetti, ci sono prove per entrambe le associazioni.

I pregiudizi razziali

I test di associazione implicita (IAT), per esempio, utilizzati per analizzare i pregiudizi razziali impliciti, indicano che questi ultimi – e gli stereotipi – possono essere innescati da associazioni automatiche (Greenwald et al., 1998). Dall’altro lato sembrerebbe però che le persone con alti pregiudizi non riescano ad inibire i pensieri che corrispondono allo stereotipo e a sostituirli con altri di uguaglianza, avvalorando così la tesi di un mancato controllo deliberativo (Devine, 1989). Inoltre, ci sono anche alcune prove che i soggetti con basse capacità di controllo cognitivo siano a rischio di mostrare maggiori pregiudizi razziali (Payne, 2005). Uno studio di Richeson e Shelton del 2003, ha trovato che i soggetti bianchi con alti livelli di pregiudizi hanno mostrato uno scarso controllo cognitivo (misurato tramite il Test di Stroop) dopo aver incontrato una persona scura di pelle, evidenziando così un’associazione negativa tra i pregiudizi e le risorse di controllo deliberativo. Spesso, però, è difficile distinguere il contributo dell’aumento delle risposte automatiche da una diminuzione delle risorse di controllo. Oggi uno dei pochi strumenti per separare il contributo dei due sistemi è la procedura di dissociazione dei processi (Payne et al., 2005) la quale permette di organizzare gli esperimenti in modo tale che in alcuni casi i processi automatici e controllati portino i soggetti a dare la stessa risposta, in altri casi risposte diverse. In questo modo alcuni studi tra cui quello di Lambert e colleghi del 2003, sono riusciti a dimostrare che una maggiore espressione di pregiudizi era associata soprattutto a una diminuzione del controllo cognitivo più che ad associazioni automatiche.

Il pregiudizi secondo il modello computazionale

Il modello computazionale del comportamento in un compito può essere considerato un ulteriore strumento per cui è possibile determinare il contributo di ciascun sistema. I modelli computazionali prevedono infatti che nel processo decisionale esistano due modalità molto simili a quelle automatica-controllata del modello cognitivo. La prima modalità è un sistema di controllo di natura associativa, abituale e senza un modello sottostante; la seconda è invece un sistema di controllo basato su un modello, diretto all’obiettivo, il quale pianifica le azioni in maniera prospettica in base all’ambiente circostante (Friedel et al., 2014). Il modello computazionale, essendo basato su modelli di apprendimento per rinforzo (RL) guidati dalla teoria, fornisce una comprensione meccanicistica dei processi decisionali sottostanti. Tramite il compito a due fasi alcuni autori sono infatti riusciti a dimostrare che gli esseri umani utilizzano sia la modalità automatica che quella diretta all’obiettivo e che esistono differenze individuali nell’equilibrio delle due componenti decisionali. È importante quindi capire come si formano i pregiudizi in quanto insieme al razzismo e allo stigma sono i principali problemi vissuti dai migranti in tutto il mondo: a volte gli individui appartenenti alle minoranze hanno meno probabilità di essere selezionati per un colloquio di lavoro o ricevono voti inferiori a parità di prestazioni se sono studenti. Per approfondire i processi sottostanti ai pregiudizi, Sebold e colleghi nel 2021 hanno condotto uno studio utilizzando il compito a due fasi, per quantificare il contributo del sistema di controllo senza modello e di quello basato sul modello. Inoltre gli autori hanno tentato di capire se i pregiudizi fossero palesi o sottili. Alcuni studi hanno dimostrato infatti che i pregiudizi sono composti da due sfaccettature: pregiudizi palesi e sottili (Pettigrew e Meertens, 1995). I pregiudizi palesi sono anche descritti come “caldi” e “diretti” e hanno una forte componente affettiva; i pregiudizi sottili, invece, sono descritti come “freddi” e “indiretti” e possono rappresentare una componente più razionale. 127 soggetti hanno quindi svolto il compito decisionale Markov a due fasi (Voon et al., 2017) e hanno completato la scala del pregiudizio palese e sottile Blatant and Subtle Prejudice Scale (BSPS; Pettigrew e Meertens, 1995). I risultati mostrano che i pregiudizi palesi verso le minoranze sono associati ad un minor controllo deliberativo e a una dominanza del processo decisionale abituale. Siccome il controllo deliberativo è considerato la strategia di selezione all’azione più razionale, tale associazione suggerisce che i soggetti che mostrano giudizi negativi affettivamente carichi, mostrano anche una tendenza ad agire meno deliberativa in un compito decisionale. Tali risultati forniscono alcuni suggerimenti per gli interventi che mirano a diminuire i pregiudizi nelle società. Una strategia efficace potrebbe essere quella di indurre le persone e provare empatia incoraggiandole ad immedesimarsi in una persona “esclusa” in una società con livelli elevati di pregiudizi (Batson e Powell, 2003). L’empatia sembra infatti correlare negativamente anche con i pregiudizi sottili ed è quindi un aspetto della moralità che può contribuire a ridurli.

 

I cambiamenti nella struttura cerebrale dovuti al Covid-19

L’infezione da Covid-19 può determinare una modificazione della struttura cerebrale come dimostra il confronto tra RMN prima e dopo l’infezione.

 

Introduzione

  Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature a nome di Gwenaëlle Douaud, ricercatrice e professore associato al Wellcome Center for Integrative Neuroimaging presso l’Università di Oxford, e dei propri collaboratori, ha preso in esame i cambiamenti strutturali a carico dell’encefalo post infezione da virus SARS Cov-2.

Lo studio ha confrontato le immagini da risonanza magnetica effettuate in tempi diversi, prima e post infezione da Covid-19.

Dalla ricerca è emerso che sono osservabili piccoli cambiamenti strutturali dell’encefalo anche dopo una lieve infezione, la dimensione complessiva del cervello è risultata leggermente ridotta, con meno materia grigia nelle parti legate all’olfatto e alla memoria. Coloro che si erano ripresi da poco dalla malattia hanno trovato più difficile rispetto al solito svolgere compiti mentali complessi.

La principale perdita di sostanza è stata osservata nelle aree olfattive, le ipotesi sul legame eziologico che è alla base di questo fenomeno sono relative alla possibilità che il virus attacchi direttamente queste regioni oppure che l’apoptosi cellulare sia dovuta all’ anosmia, e quindi correlata alla perdita di input sensoriali. È da segnalare che lo studio è stato compiuto su pazienti infettati dal virus originale o da variante Alfa, che erano caratterizzate dalla sintomatologia di perdita dell’olfatto e del gusto.

Materiale e metodi

Lo studio ha preso in esame le risonanze di 785 pazienti, di età compresa tra 51 e 81 anni, che per motivi di ricerca diversi erano stati sottoposti a due risonanze magnetiche al cervello a distanza di circa 36 mesi. Questi sono stati divisi in due gruppi: 401 di loro avevano contratto l’infezione tra una risonanza e la successiva (il 96% dei quali aveva sviluppato un Covid lieve) e 384 non avevano mai avuto la malattia.

Risultati

È emerso che alla seconda risonanza, i reduci dal Covid avevano diverse alterazioni strutturali e anatomiche del cervello come una maggiore riduzione dello spessore della materia grigia e del contrasto tissutale nella corteccia orbitofrontale e nel giro paraippocampale. Sono poi emersi maggiori cambiamenti nei marcatori di danno tissutale nelle regioni funzionalmente collegate alla corteccia olfattiva primaria. Il tutto si associa ad una maggiore riduzione delle dimensioni globali del cervello.

Il gruppo dei pazienti che avevano contratto l’infezione da Covid 19 ha anche mostrato in media un declino cognitivo maggiore tra i due punti temporali. È importante sottolineare che questi effetti longitudinali di imaging e cognitivi sono stati ancora osservati dopo aver escluso i 15 casi che erano stati ricoverati in ospedale.

Conclusioni

Grazie allo studio delle risonanze magnetiche si è giunti ad ipotizzare che i danni osservati possano essere i segni distintivi di una diffusione degenerativa della malattia attraverso vie olfattive, di eventi neuroinfiammatori o della perdita di input sensoriali a causa dell’anosmia.

Resta da capire se e quando il quadro clinico sia reversibile con il passare del tempo.

 

Metacredenze, rimuginio e problematiche sessuali femminili – PARTECIPA ALLA RICERCA

Data la forte relazione esistente tra disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e meta-credenze, un nuovo filone di ricerca sta indagando le possibili correlazioni tra questi fenomeni e le disfunzioni sessuali femminili.

 

Lo scopo del progetto di ricerca proposto è quello di indagare le possibili correlazioni esistenti tra insoddisfazione sessuale, metacredenze positive e negative e rimuginio in un campione non clinico di donne adulte.

Negli ultimi anni sta crescendo l’interesse nella comunità scientifica verso l’indagine dell’insoddisfazione sessuale femminile e dei correlati psicologici di questo fenomeno (es., Unäl et al., 2020).

Diversi studi in letteratura sottolineano una forte correlazione tra sintomi ansiosi e depressivi e disfunzioni sessuali (es., Kaplan, 1974). Tuttavia, il rapporto tra disfunzioni sessuali e disturbi dell’umore è multidirezionale e per questo non è ancora del tutto chiara la relazione causale tra queste problematiche (es., Laurent e Simons, 2009).

Diversi studi sottolineano come le disfunzioni sessuali potrebbero portare a un gran numero di problematiche fisiche e psicologiche (es., Yazdanpanahi et al., 2018). D’altro canto, vi sono anche diversi studi che sottolineano come i disturbi dell’umore possano essere essi stessi causa del peggioramento nella salute sessuale (ad es. Seidman & Roose, 2000).

Per esempio, le donne con disfunzioni sessuali mostrano in comorbilità ansia, stress, depressione (Yazdanpanahi et al., 2018) e insoddisfazione per l’immagine corporea (Rodrigues et al., 2020). Allo stesso tempo, la letteratura sottolinea che le disfunzioni sessuali potrebbero essere a loro volta una conseguenza della sintomatologia depressiva (Michael & O’Keane, 2000).

In sintesi, i disturbi psicologici possono contribuire a provocare problematiche in ambito sessuale o essere una conseguenza di disfunzioni sessuali preesistenti (McCabe, 2005).

Data la forte relazione esistente tra disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e meta-credenze (es. Wells, 1995) un nuovo filone di ricerca sta indagando le possibili correlazioni tra questi fenomeni e la salute sessuale (es., Giuri et al., 2017; Lawless et al., 2021; Dikmen et al., 2019); l’accento, in particolare, è posto sulle strategie di pensiero ripetitive e negative, come il rimuginio, che gli individui mettono in atto con la convinzione di migliorare le loro performance in ambito sessuale e sulle metacredenze che sorreggono questi processi (es., Giuri et al., 2017).

Lo scopo del progetto di ricerca proposto è quello di indagare la possibile relazione tra rimuginio, metacredenze e insoddisfazione sessuale in un campione non clinico di donne adulte.

Attualmente, in letteratura, non sono presenti ricerche che mettano in relazione tutti e tre i fenomeni; tuttavia, le evidenze scientifiche presenti dimostrano che ulteriori ricerche in questo ambito potrebbero rivelarsi utili per comprendere al meglio le relazioni tra stile di pensiero e distress sessuale.

La ricerca è rivolta a tutte le persone con sesso femminile assegnato alla nascita e di genere femminile che vorranno rispondere. Tutte le partecipanti dovranno essere sessualmente attive e aver compiuto almeno i 18 anni di età.

 

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L’istigazione al suicidio in rete: suicidio consapevole ed accidentale

In adolescenza il suicidio risulta essere la seconda causa di morte più frequente e, solo nell’ultimo anno, i tentativi di suicidio e di autolesionismo tra gli adolescenti sono aumentati del 30%.

 

Il suicidio in adolescenza

Secondo una stima dell’OMS in Italia decidono di mettere in pratica azioni suicidarie legate ai social media circa 3500 ragazzi all’anno tra i 15 ed i 29 anni, utilizzando il web come palcoscenico per togliersi la vita (Mason, 2010).

All’interno dei social media sono nati tra i giovani i cosiddetti “patti della morte”: si tratta di patti stipulati tra ragazzi che si conoscono tramite le varie piattaforme online e che, dopo aver trascorso del tempo a parlare, decidono insieme dove, quando e come togliersi la vita; risale al 1998 il primo caso in cui la scoperta della morte di una donna per l’assunzione di una dose di cianuro, ha portato alla scoperta di altre nove vittime dovute allo stesso destino, tra le quali lo stesso venditore della sostanza (ibidem).

Riprendiamo le parole riportate dallo psicologo e professore di psicologia alla Niigata Seiryo University, Mafumi Usui:

La depressione giovanile e Internet sono un mix molto pericoloso, dalla dinamica dietro ai recenti suicidi di gruppo emerge che spesso questi giovani aspiranti suicidi decidono di attuare il loro progetto dopo essersi ritrovati con propri simili su un qualche sito che tratta l’argomento e che spesso suggerisce anche specifici modi di portare a termine il suicidio.

Egli sostiene inoltre che il problema principale di queste particolari tipologie di suicidi non sia ricollegabile totalmente ad Internet, poiché questo è solo un veloce mezzo attraverso il quale viene sostenuto il desiderio di porre fine alla propria vita (Mason, 2010). In America si parla di suicide-related contagion, letteralmente “contagio correlato al suicidio”, proprio perché la diffusione di tale fenomeno può avvenire sia tra individui che attraverso mezzi indiretti, quali i social media (Sumner – Burke – Kooti, 2020). I meccanismi utilizzati per diffondere comportamenti correlati al suicidio possono dipendere da diversi fattori quali: l’alterazione delle norme sociali per quanto riguarda il suicidio e l’identificazione con individui che presentano caratteristiche simili al soggetto (di per sé vulnerabile), il tutto accompagnato dal supporto della teoria dell’apprendimento, per la quale il comportamento si apprende tramite l’osservazione degli altri.

In adolescenza il suicidio risulta essere la seconda causa di morte più frequente, per lo più dovuto allo sviluppo di un senso di solitudine e di isolamento dal punto di vista socio-affettivo (State of Mind, 2019). Solo nell’ultimo anno i tentativi di suicidio e di autolesionismo tra gli adolescenti sono aumentati del 30%: ne parla il Neuropsichiatra dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma Stefano Vicari, che spiega come i giovani che ricorrono ad azioni autolesionistiche o suicidarie si dividano principalmente in due tipologie: coloro che per dimostrare la loro superiorità tendono a sviluppare comportamenti aggressivi, recando dolore a loro stessi e a chi li circonda; e coloro che invece di esternare la propria frustrazione tendono a chiudersi nel proprio mondo, rischiando di non volerne più uscire (Betti, 2021).

Tramite l’utilizzo dei social media sono aumentati i casi di quello a cui personalmente attribuisco il termine “suicidio accidentale”, che si presenta nel momento in cui la giovane vittima non ha come primo intento quello di mettere fine alla propria vita, ma a causa di challenge pericolose conosciute attraverso la rete, arriva a compiere un gesto insano, non totalmente inconsapevole, per il quale risulta impossibile tornare indietro.

A seguire verrà spiegata in maniera più esaustiva la differenza tra suicidio consapevole e suicidio accidentale.

Il suicidio consapevole

Il suicidio in adolescenza viene visto come possibile risoluzione al dolore psicologico: non si tratta di un gesto impulsivo, ma di un’azione che viene ponderata nel tempo in seguito alla necessità del ragazzo di allontanarsi da emozioni negative non più tollerabili (State of Mind, 2019). Tra le cause principali che possono indurre un adolescente a compiere un atto tanto estremo vi sono la depressione, l’ansia, i disturbi alimentari e l’abuso di sostanze (Rainone, et al., 2014). Per quanto riguarda la depressione è bene ricordare che circa il 70% degli adolescenti depressi hanno pensieri legati al suicidio: ciò che rende tali pensieri tanto contagiosi dipende dalla necessità di non rimanere più nell’anonimato, ma di diventare per una volta il protagonista della propria vita, anche se si tratta di una storia senza lieto fine (Zdanowicz, 2017).

Lo psichiatra Giovanbattista Maggì e la psicoterapeuta Alessandra Stringi, in un seminario tenuto a Palermo riguardo la prevenzione degli atti suicidari tra i giovani spiegano:

Il suicidio si verifica quando la realtà diviene insopportabile sofferenza e le fantasie di autoeliminazione, per evadere da tale condizione dolorosa, trovano realizzazione nell’agito. È un fenomeno intimo e complesso, non riducibile esclusivamente a sintomo di un disturbo mentale (Ganci, 2017).

Viene inoltre citata la Blue Whale Challenge che vede come vittime ragazzi che, a causa di questa sfida online, associano un’accezione positiva al suicidio, ritenendolo l’unica fonte di salvezza per le loro sofferenze (ibidem).

Il suicidio accidentale

Il suicidio accidentale si verifica nel momento in cui non è la vittima a decidere di mettere consciamente fine alla propria vita, ma lo fa attraverso delle challenge che spopolano tra i social, sfidano la sorte rischiando inconsapevolmente di arrivare al suicidio. Un esempio prorompente è quello dello Choking Game, una challenge molto diffusa tra i ragazzi attraverso il social media TikTok: sembrerebbe infatti che il 18% di coloro che conoscono tale sfida abbia provato anche a metterla in pratica, mentre il 30% conosce delle persone che hanno partecipato alla challenge (Almirante, 2021).

Il problema principale risiede nel fatto che i ragazzi reputano questi atti pericolosi come giochi o sfide da superare, la maggior parte delle volte spinti da un senso di onnipotenza che non permette loro di percepire il senso del limite: “è importante sottolineare che in quel momento ricercano la sensazione forte, non la morte” (Manca, 2018).

Dietro atti del genere però non vi sono ragazzi caratterizzati da una forte debolezza psichica e con carenze affettive importanti, ma adolescenti che, dopo aver scoperto la moda del momento, giusta o sbagliata che sia, agiscono mettendo in pratica l’emulazione, senza essere informati sui rischi a cui stanno andando incontro: l’importanza viene data maggiormente al fatto di essere a pari passo con i coetanei, senza preoccuparsi o immaginare che in tal modo potrebbero mettere a repentaglio la propria vita.

La Blue Whale Challenge e lo Choking Game in poco tempo hanno incuriosito numerosi ragazzi grazie, rispettivamente, alle tecniche manipolatorie utilizzate e alla velocità con cui hanno raggiunto un alto tasso di popolarità. La curiosità e la smania di provare nuove esperienze, spesso porta a sottovalutare le situazioni nelle quali il singolo si sta imbarcando, con il rischio di incorrere in un pericoloso naufragio: il suicidio, consapevole o accidentale.

 

Una breve panoramica sul fenomeno del tilt negli esports

Il tilt è un fenomeno riscontrato negli esports che genera nel giocatore una forte frustrazione o altre emozioni negative, generato da un altro giocatore.

 

Il comportamento negativo su internet è una problematica che sta acquisendo sempre più rilevanza. L’aumentare di attività e di interazioni con gli altri che si possono fare sul web è concomitante ad un allarmante aumento di comportamenti negativi (Blackburn & Kwak, 2014). Il fatto che le interazioni tra persone manchino di un contatto diretto tra gli individui, o che spesso non sia neanche possibile vedere il volto dell’interlocutore, facilita la comparsa di una tendenza comportamentale ostile e aggressiva (Blackburn & Kwak, 2014).

Cosa sono gli esports?

Nelle ultime due decadi, la concezione del gioco online come semplice passatempo si è evoluta in vere e proprie professioni, dove i giocatori possono competere tra di loro a livello agonistico, per raggiungere premi che possono contemplare cifre di denaro significative, creando così la categoria degli “esports”, vere e proprie competizioni di videogiochi (Blackburn & Kwak, 2014). In questo caso, la competizione è considerata un elemento fondamentale per il divertimento, ma allo stesso tempo può favorire la comparsa di comportamenti negativi, definiti toxic behaviors, ovvero comportamenti tossici (Blackburn e Kwak, 2014). Infatti, circa il 70% dei giocatori di età compresa tra i 18 e i 24 anni riporta di aver subito ciò che viene definito come “digital harassment”, ovvero molestie digitali esito di comportamenti tossici, e il 62% riferisce che la molestia online sia un problema di sempre maggiore importanza (Duggan, 2018).

Il comportamento tossico è stato denominato così proprio perché il giocatore lo esperisce nell’interazione con gli altri giocatori, e il danno non viene causato solo al singolo, ma ne risente tutta la community (Blackburn & Kwak, 2014). È inoltre un comportamento difficile da definire, perché spesso i giocatori che attuano comportamenti tossici non si rendono conto di attuare tali comportamenti (Blackburn & Kwak, 2014). Alcuni esempi di comportamento tossico possono essere l’utilizzo di un linguaggio offensivo e abuso verbale, insulti razziali, il cyberbullismo, il sessismo, le minacce, l’abbandono della partita mentre i compagni di squadra continuano a giocare, l’utilizzo di programmi di hacking, il dare punti intenzionalmente alla squadra avversaria col fine di far perdere la propria (Blackburn e Kwak, 2014; Monge e O’Brien, 2022).

Il tilt negli esports

Durante una partita, l’attuazione di comportamenti tossici, o il subirli, può condurre l’individuo ad esperire una situazione denominata “tilt” (Wu, Lee e Steinkuehler, 2021). Il tilt è un fenomeno generato da un altro giocatore, o da un evento che avviene durante la partita, che genera nel giocatore una forte frustrazione o altre emozioni negative, compromettendo la sua capacità di attuare scelte razionali che possono portare alla vittoria della squadra, spingendolo ad attuare invece dei comportamenti che danneggiano le possibilità di vittoria. Il termine tilt deriva dal gioco del pinball, dove il giocatore, arrabbiato a causa della sconfitta, colpiva la macchina che di conseguenza andava “in tilt”. Questo termine si ritrova anche nel gioco del poker ed è utilizzato per descrivere una situazione in cui si trova un giocatore che, nonostante abbia perso molti soldi, continua a giocare attuando decisioni strategiche sbagliate. Tuttavia, avendo il giocatore una concezione di poker come gioco d’azzardo, egli spera che continuando ad attuare questo schema di comportamenti la fortuna possa finalmente farlo vincere. Come nel poker, anche negli esports il tilt è un modello di comportamenti ripetitivi che può condurre ad una serie di sconfitte ed alla perdita di punti, rischiando delle punizioni come l’impossibilità di giocare per alcuni giorni o permanentemente. Le motivazioni che sembrano essere dietro questi comportamenti sono un’intensa rabbia e frustrazione, e tutte le scelte errate che derivano da un decision making influenzato da tali emozioni.

È interessante notare come l’emissione di comportamenti tossici aumenti se è il giocatore stesso ad avere una performance non ottimale (Monge & O’Brien, 2022). Questo può suggerire che quando il proprio senso di efficacia personale è minacciato dai compagni di squadra, o da altre circostanze, la frustrazione e i comportamenti tossici sembrano essere più frequenti.

Il tilt negli esports è un comportamento che sta venendo sempre più riconosciuto come problematica e di conseguenza richiede attenzione clinica (Wu, Lee, & Steinkuehler, 2021). Alcune possibili strategie per gestire le emozioni che sono dietro a questo fenomeno potrebbero prevedere dei percorsi dove vengono apprese strategie di gestione di tali stati emotivi.

 

Mindfulness e Buddismo agnostico

Per capire fino in fondo la Mindfulness è opportuno elaborare un concetto che non sia sbilanciato né verso un’ottica mistica religiosa, né verso una pratica a sé stante rispetto alla cultura Buddista.

 

La mindfulness è una pratica meditativa che ha profondamente segnato la ricerca scientifica e il tessuto sociale degli ultimi venti anni: digitando sul motore di ricerca pubmed la parola mindfulness le pubblicazioni scientifiche arrivano a più di 26000 pubblicazioni, registrando una crescita esponenziale: se nel 2007 erano 85, nel 2016 il numero sale a 895 (De Pisapia, 2017). Molte di queste ricerche si concentrano sugli effetti benefici della meditazione su molti aspetti, tra i quali quelli a livello neurologico (Fox, 2014), a livello immunitario (Davidson, 2003), e la plasticità sinaptica (Lazar,2005).

Con questa forma di meditazione, che si evolve come una disciplina profondamente legata agli insegnamenti del principe indiano Siddharta Gautama, detto il Buddha, ci si riferisce ad un concetto teorico, una pratica di meditazione, o un processo psicologico, e rappresenta il cuore pulsante della psicologia Buddista di 2500 anni fa (Germer, 2013).

Per capire meglio la natura di questa forma di meditazione è opportuno fare chiarezza rispetto al ruolo che la meditazione di consapevolezza (Mindfulness) ha nei confronti della cultura Buddista. Esistono infatti due principali tendenze divergenti: la prima spinge verso una considerazione religiosa della dottrina, dove i quattro fondamenti della presenza mentale insegnati dal Buddha ai suoi discepoli sarebbero leggi, e la meditazione un’esperienza necessaria di trascendenza; una seconda tendenza spingerebbe invece verso un’interpretazione del tutto focalizzata sulla pratica della meditazione, elevandone l’importanza al punto tale da trascurare qualsiasi altro aspetto della dottrina (Batchelor. 20). Il rischio, in ognuno dei casi, sarebbe quello di avere una cultura Buddista marginalizzata e sempre meno capace di realizzarsi come cultura: cioè come set di valori e pratiche che animano creativamente tutti gli aspetti della vita umana (Batchelor. 20).

Per capire fino in fondo il concetto della Mindfulness, quindi, è opportuno elaborare un concetto che non sia sbilanciato né verso un’ottica mistica religiosa, né verso una pratica a sé stante rispetto alla cultura Buddista.

Mindfulness come parte di un percorso più grande

Abbiamo detto che la Mindfulness è una pratica di meditazione incentrata sul concetto di consapevolezza: a questo punto è opportuno analizzare quale è il ruolo che la meditazione ha all’interno degli insegnamenti del Buddha.

A livello etimologico la parola meditazione deriva dal latino mederi, che signfica curare, sanare, aiutare (da cui deriva il termine medicina); in sanscrito il Buddha utilizza la parola bhavana traducibile come «crescita spirituale» (Fabbro, 2018). Per capire il ruolo di questa pratica all’interno degli insegnamenti del Buddha è necessario affidarsi al Grande discorso sui fondamenti della presenza mentale (Goldstein, 2016). Grazie a quest’opera, infatti, è possibile conoscere quale “trattamento” il Buddha ha riservato per coloro che vogliano liberarsi dal peso della sofferenza.

Nell’ottuplice sentiero, che rappresenta le otto dimensioni che è giusto mettere in pratica per raggiungere la via della consapevolezza, troviamo la meditazione di consapevolezza (Mindfulness) occupare il settimo posto (Fabbro, 2018): al primo posto, invece, troviamo la comprensione appropriata, a cui seguono le dimensioni del pensiero appropriato, del linguaggio appropriato, dell’azione appropriata, dei mezzi di sostentamento appropriati e dello sforzo appropriato.

A questo punto possiamo concludere che, per quanto centrale e dominante, la pratica della meditazione di consapevolezza rappresenta in realtà solo una parte dell’ottuplice sentiero che conduce alla consapevolezza, al risveglio. La meditazione, da sola, non basta per raggiungere la via del risveglio. E, nonostante ciò, è soprattutto l’aspetto della meditazione quello che ha più colpito l’immaginario occidentale (Fabbro, Identità cultura e violenza).

Mindfulness come pratica non religiosa

Per riuscire a smarcare gli insegnamenti Buddisti da una interpretazione religiosa troppo stringente, è utile andare ad analizzare alcuni aspetti contenuti nei testi antichi della tradizione Buddista, il Canone Pali chiamato Tipitaka (Gombrich, 2009).

In questi testi, qualsiasi tentativo di interpretare gli insegnamenti del Buddha sotto una chiave mistica e trascendentale sono destinati a ridurne la complessità originaria, allontanando così i concetti della dottrina dal loro significato originario. Per esempio, interpretare l’esperienza del “risveglio” come un momento di rivelazione trascendente, come un incontro tra l’uomo e “la Verità assoluta”, “la Morte assoluta”, eccetera, altro non è se non una chiara misinterpretazione degli insegnamenti del Buddha, secondo il quale «ogni verità richiede di essere messa in atto secondo il proprio modo personale» (Batchelor).

I testi antichi testimoniano che gli insegnamenti del Buddha, attraverso un approccio altamente disciplinato, sistematico e individualizzato (Germer), si concentrano sullo scopo unico di alleviare la sofferenza umana senza ricorrere ad un sistema metafisico generale sovraordinato. Quando chiesero al Buddha cosa avesse intenzione di fare con i suoi insegnamenti, egli rispose “sto insegnando l’angoscia e la fine dell’angoscia”. Rispondeva col silenzio alle domande di natura metafisica che i suoi allievi gli ponevano, affermando che l’unico presupposto necessario per realizzare i suoi insegnamenti (dharma) è la libertà. Inoltre, è possibile affermare che non è contenuto nei testi antichi nessun commento ascrivibile al Buddha che noi potremmo tradurre oggi come “dio”, né ha mai parlato in termini di unicità, divinità, dogmi e leggi rivelate (Batchelor).

Un altro aspetto fondamentale è la sua personalità: in questi documenti la figura di Buddha appare quella di un essere umano con tratti di personalità ben definiti, tra cui spicca la sensibilità, la non violenza e l’estraneità verso ogni senso di superiorità.

Non volle dogmatizzare norme e precetti, ribadendo che la Via è come una zattera che aiuta le persone ad attraversare il fiume, e che una volta raggiunta la terraferma non è di alcuna utilità. «Scoraggiò anche la nascita di gerarchie nel gruppo dei suoi allievi. Nella Via non esistono maestri, ma soltanto amici che possono avere una maggiore esperienza. Ci sono infatti molti modi di concepire la Via, ma non c’è un modo migliore dell’altro» (Fabbro, 2011).

Inoltre, è utile ricordare come «gli insegnamenti del Buddha non si rivolsero solo all’élite religiosa del tempo (bramini, nobili e guerrieri), ma a tutti gli esseri umani. Per questa ragione il Buddha si oppose al sistema delle caste: a suo parere non esistono differenze negli esseri umani che lavorano per la propria liberazione.» (Fabbro, 2018).

Lo studioso Richard Gombrich interpreta gli insegnamenti del Buddha in chiave del tutto pragmatica. Egli suggerisce che, a causa delle traduzioni successive la morte del Buddha, oggi vi è una tendenza a dare un significato di “risveglio” e” concentrazione” che è frutto di una interpretazione fuorviante ed esageratamente profonda. In realtà, interpretando gli insegnamenti del Buddha in chiave pragmatica, è possibile vedere la pratica della meditazione di consapevolezza come un metodo per coltivare una personale comprensione intellettuale degli eventi del mondo. Il Buddha sarebbe quindi un motivatore e un maestro che mostra la via, e incentiva i suoi discepoli, verso lo sviluppo della propria facoltà intellettuale, necessaria alla costruzione di una base morale, etica ed intellettuale (Gombrich, 2009).

Buddismo agnostico

Nel 1997 lo scrittore ed ex monaco buddista britannico Stephen Batchelor pubblica il saggio Buddhism Without Beliefs, sviluppando un’analisi sul concetto filosofico di agnosticismo applicato alla cultura buddista, con l’intento di generare una visione più complessa e ricca di questa dottrina.

Innanzitutto, cosa intende l’autore con il termine “agnosticismo”? Il termine “agnostico” oggigiorno ha perso del tutto la sua forza, fino a descrivere quel comportamento di colui che afferma “non lo so e non voglio avere un’opinione al riguardo”: in realtà, questo termine fa riferimento ad una concezione coniata da T.H. Huxley nel 1869 (Science and Christian tradition) in riferimento ad un principio generale che, da Socrate alla Scienza Moderna, ha attraversato l’intero corso della storia occidentale. Tale principio si concretizza in due aspetti: “Segui la tua ragione fino a dove ti porta” (Follow your reason as far as it will take you); “Non considerare una conclusione certa quando non è dimostrata o dimostrabile (Do not pretend that conclusions are certain which are not demonstrated or demonstrable).

Questo principio (“the agnostic faith”) non solo si accorda perfettamente alla condotta del Buddha, ma ne arricchisce il ruolo e la dottrina. Innanzitutto, i suoi insegnamenti (dharma) sono sempre stati concepiti come una pratica, un metodo, e non un sistema chiuso (un -ismo) con potere esplicativo sul mondo: il dharma è qualcosa che si pratica e, posizionandosi su un piano del tutto parallelo rispetto a quello della scienza, non può mai entrare in conflitto con il pensiero scientifico «perché non offre la possibilità di smentire o convalidare nessun fenomeno scientifico. Il dharma si concentra interamente sulla natura dell’esperienza umana».

In secondo luogo, astenendosi completamente dal rivelare verità esoteriche riguardo la realtà fisica e metafisica, il Buddha si è sempre spinto a sfidare i suoi interlocutori in un tentativo condiviso di comprendere la natura della sofferenza umana. Come sottolineato da Stephen Batchelor, alla luce del principio agnostico di T.H. Huxley, è facile interpretare la condotta del Buddha come quella di un uomo mosso da una profonda aderenza a questo principio: rifiutando di considerare vera qualunque conclusione non dimostrata e certa, egli conduce una ricerca collettiva, per delineare un metodo pratico di eliminare la sofferenza umana, al di là di idee preconcette e dogmatiche.

Aderire a questo principio agnostico, per il Buddha, rappresenta un’attitudine generale verso ogni aspetto della vita, che non è da confondere con un approccio scettico: «così come l’agnosticismo ha perso la sua confidenza, cadendo verso lo scetticismo, anche il Buddismo si è teso verso una perdita delle sue caratteristiche essenziali, fino a scadere verso la religiosità» (Batchelor). Al contrario, l’aspetto agnostico arricchisce l’immagine del buddista, smarcandolo definitivamente dalla componente fideistica e dogmatica con cui spesso ed erroneamente si sono interpretati gli insegnamenti del Buddha. Il buddista agnostico non cerca negli insegnamenti del Buddha una risposta alle domande dell’esistenza fisica (dove siamo, cosa esiste dopo la morte, da dove proveniamo) ma delle metafore dell’esistenza che lo aiutano ad avere una consolazione e un confronto. Per tutte le altre domande egli si rivolgerà ad ambiti specifici della conoscenza umana (fisica, biologia, neuroscienze). Egli non è un “credente” nel senso tradizionale del termine («Un buddista agnostico rifiuta l’ateismo tanto quanto rifiuta il teismo») (Batchelor); non cerca verità svelate rispetto ad eventi paranormali e super naturali.

Aspetti conclusivi

Alla luce di quanto detto è possibile affermare alcune considerazioni rispetto alla natura della Mindfulness.

Prima di tutto, la meditazione di consapevolezza da sola non è la chiave con cui accedere ad uno stato di consapevolezza trascendente, di risveglio, ma una pratica calata all’interno di un percorso etico di comportamento pratico ben più ampio (Germer, 2005). E, come abbiamo visto, la posizione che assume questa pratica all’interno dell’ottuplice sentiero, ci ricorda come la meditazione, da sola, non basta e non è sufficiente a condurre le persone verso la consapevolezza.

In secondo luogo, l’inquadramento agnostico della cultura Buddista non si limita a smarcare la meditazione di consapevolezza Mindfulness da qualsiasi interpretazione religiosa e spirituale, ma offre anche una chiave di interpretazione di tutta la cultura Buddista che ne arricchisce gli insegnamenti e ne valorizza gli aspetti essenziali.

 

Tre caratteri (2022) di Christopher Bollas – Recensione del libro

Nel saggio Tre caratteri Christopher Bollas analizza e approfondisce tre differenti strutture di personalità: narcisista, borderline e maniaco-depressiva.

 

L’autore introduce la tematica specificando quanto sia importante cogliere l’unicità del paziente a prescindere dalla diagnosi di personalità: ciascun paziente è un individuo con caratteristiche peculiari che lo differenziano dagli altri. Al tempo stesso, vero è, che ci sono alcune caratteristiche che accomunano determinate strutture della personalità e Bollas in questo saggio ha cercato di identificare gli assiomi principali che ne guidano il comportamento. I disturbi della personalità e la psicopatologia non sono altro che tentativi della personalità per compensare e sopravvivere a un dolore mentale intollerabile. Il modo in cui questo si struttura può dipendere da molteplici fattori e si differenzia da un carattere all’altro.

Il saggio si apre approfondendo la personalità narcisistica, dal mito di narciso, alla costruzione dell’immagine di sè, per poi passare all’analisi del vuoto e del ritiro narcisistico. Secondo Bollas, la caratteristica più significativa dei narcisisti è la richiesta di attenzione che può operare in modo molto sottile. Il narcisista idealizza se stesso, aderendo all’assioma “Io sono chi e cosa sembro essere”, e tende a proiettare questa idealizzazione negli altri o nelle proprie attività. Avviene quindi uno scambio relazionale del tipo “io idealizzo te e tu idealizzi me”, il narcisista con il proprio modo di fare carismatico e idealizzante incoraggia l’altro a esaltare se stesso, a patto che l’altro faccia lo stesso con lui/lei. In questo modo si costruisce una base rassicurante per il sentimento del valore di sé, altrimenti molto fragile. Il narcisista meno disturbato può stabilire una relazione di intimità e nel migliore dei casi questo ha come risultato un rapporto reciprocamente idealizzante. Questa personalità quando si relaziona idealizza per proteggersi da un’immagine interiorizzata dell’altro invasiva, inaffidabile e predatoria. Poiché l’inconscio ha interiorizzato l’intimità con l’altro come pericolosa per il Sé, il narcisista si difende aderendo ad un’immagine idealizzata sia di Sé che dell’altro. Invece che vivere una relazione di profonda intimità, ciò comporta il relazionarsi con degli Altri poco invasivi che necessitano a loro volta di idealizzazione e che faranno da specchio al sé del narcisista. Tenendo l’altro ad una distanza di sicurezza dal Sé, questo gioco di specchi può andare avanti per molto tempo. Se il narcisista è di tipo positivo può cavarsela trovandosi un partner altrettanto narcisista e dedicarsi ad un gran numero di amici che forniranno esperienze di rispecchiamento positivo, in modo che non vi sia necessità di un coinvolgimento intimo più profondo. Il narcisista scinde il Sé in oggetti idealizzati e oggetti che non lo sono, questi ultimi o rivestono un modesto interesse, sono inutili, o sono rivestiti di odio e disprezzo. Spesso se l’Altro, inizialmente idealizzato, delude il narcisista, viene disprezzato e ricoperto di odio. In questo modo, proprio attraverso l’odio, il narcisista mantiene un collegamento con ciò che ha scartato. Proprio su questo aspetto Bollas sottolinea una distinzione diagnostica, narcisista positivo e narcisista negativo. Il narcisista positivo è meno disturbato e riesce a crearsi un mondo di legami sufficientemente appaganti; il narcisista negativo invece è la personalità che sottende un funzionamento psicotico. Nella forma negativa vediamo il fondamento del razzismo, del sessismo e del genocidio; il diverso da sè diviene una figura entro la quale depositare le parti non accettate del proprio sè, tenute a distanza attraverso la svalutazione, il disprezzo e nei casi più gravi la distruzione e uccisione dell’altro. Dal punto di vista clinico, per il narcisista l’analisi può essere l’opportunità per vivere una relazione di reale intimità ma, affinchè ciò accada, è necessario attraversare un iniziale transfert idealizzante. Poi, come sostiene anche Kouth, si verifica la crisi effettiva, quando il paziente si sente deluso sia dall’analista, sia dal Sè. Generalmente a questo punto, se tutto va bene, tale delusione porta ad una realizzazione, ovvero la consapevolezza profonda che nè il Sè nè l’altro sono perfetti e alla conquista di una maggiore intimità relazionale.

Il saggio procede attraverso l’analisi della personalità borderline. Si tratta di una persona con un dolore mentale intenso e costante e, diversamente dal narcisista, egli sembra non volersene liberare, ma anzi di ricercarla. Nella personalità border è necessario un altro al quale possa essere attribuito questo dolore, per questo si trova spesso a vivere relazioni, anche di lunga durata, estremamente turbolente e conflittuali. La personalità borderline non possiede un senso definito di identità, che appare indefinita e frammentata. Avendo interiorizzato una figura dell’altro come turbolento e inaffidabile, riesce a percepire un senso di sé dal legame con un altro che “arreca disturbo”. Bollas sottolinea come non sia chiara per questa personalità la distinzione tra l’altro reale, l’altro interiorizzato e le proprie emozioni; al clinico arriva un tutt’uno indifferenziato. Se una personalità border potesse definirsi – Bollas sostiene – direbbe “sono la turbolenza dell’altro e come suo effetto a posteriori stabilisco con lui un legame di attaccamento”. È proprio attraverso la turbolenza che il border cerca di trovare il proprio posto nel mondo. Se l’Altro si identifica nel ruolo di salvatore e cerca di offrire aiuto al border, spronandolo all’indipendenza, il border si sente inconsciamente profondamente minacciato e reagisce attaccando l’altro e trasformando gli sforzi benevoli dell’altro in vissuti persecutori che vengono trasmessi attraverso comportamenti dannosi per il Sé e per l’altro. In questo modo il border fa sentire l’altro confuso, proprio come internamente si sente lui/lei. Dal punto di vista clinico, Bollas ritiene che un paziente border può tollerare l’interpretazione degli assiomi del proprio carattere, ma il clinico deve essere pronto a scontrarsi con il feroce tentativo del paziente di impedire che questo avvenga. Superata questa fase, se il paziente continua l’analisi, sarà possibile approfondire anche altri aspetti e costruire un senso di sé più solido e una percezione dell’altro differente.

Con il termine di personalità maniaco-depressiva, Bollas fa riferimento a quello che oggi viene più comunemente chiamato disturbo bipolare. Una persona è bipolare quando il suo umore oscilla tra estremamente elevato ed estremamente basso. Tutti noi quotidianamente abbiamo alti e bassi e sperimentiamo delle oscillazioni dell’umore, ecco gli alti e bassi del bipolare non sono questo tipo di sbalzi d’umore. Dal punto di vista psicoanalitico, quali sono gli elementi strutturali della personalità bipolare? Secondo l’autore le persone che sviluppano un disturbo bipolare, hanno vissuto all’interno di una famiglia molto piatta emotivamente, depressiva, dove le emozioni erano coperte da un velo costante di apatia. I pochi momenti entusiasmanti e carichi di emozione vengono vissuti dal bambino intensamente e in modo travolgente. Generalmente sono bambini che si sentono diversi e distanti dai propri coetanei e frequenti sono i momenti di ritiro solitario dove i propri pensieri e le proprie fantasie diventano un mondo consolatorio ed eccitante. Sono bambini molto intelligenti con idee creative, che vengono poco accolte dall’ambiente famigliare, svalutante nei confronti di questi momenti di vitalità del bambino. Il sè del bambino interiorizza questa svalutazione, si identifica con essa, inizia a prendere forma così il nucleo depressivo. Con l’arrivo dell’adolescenza, il futuro bipolare, scopre la musica, la lettura, i film e spesso essi diventano il suo mondo e le menti degli scrittori e dei registi diventano gli altri ai quali si sente più vicino, come se si creasse una connessione tra la sua mente e le menti che hanno creato le opere a cui si appassiona. Ed è proprio in questa fase che scopre una sensazione di grandiosità se lascia andare la mente, scrivendo o parlando, dando libero sfogo ai pensieri; si struttura così la componente grandiosa difensiva “io appartengo alle grandi menti, sto seguendo un cammino differente. Poi improvvisamente le luci si spengono, era solo un sogno”. Dal punto di vista clinico, Bollas è un forte sostenitore dell’utilità della terapia per questo tipo di pazienti. Il lavoro richiede molto tempo e molta pazienza, sopportando spaventosi alti e bassi, ma questo fa sì che i due aspetti del Sé (quello grandioso e quello depressivo) possano essere messi sempre di più l’uno a contatto con l’altro. Citando Bollas “la normale salute è inconfondibile, ma anche deludente. Non si può avere tutto.”

 

Perché alcuni individui sono più gelosi di altri?

Uno studio di Kupfer e colleghi (2022) ha cercato di studiare la gelosia in gemelli monozigoti e dizigoti per stimare la misura in cui gli effetti genetici, gli effetti ambientali condivisi o gli effetti ambientali non condivisi sono alla base delle differenze esistenti.

 

La gelosia romantica è provocata dalla percezione di minacce nella relazione romantica, come ad esempio la percezione che il proprio compagno sia romanticamente interessato ad un’altra persona, o che qualcuno sia interessato al proprio compagno (White, 1981). Tale gelosia viene interpretata evolutivamente come un comportamento volto a scoraggiare tali minacce, motivando i comportamenti di protezione del compagno, come l’aumento della vigilanza o l’aggressione diretta al partner.

Si pensa che questi comportamenti riducano la probabilità di infedeltà o di abbandono del compagno, aumentando così il successo riproduttivo (Buss & Shackelford, 1997).

Negli ultimi tre decenni di ricerca sulla gelosia, gli autori si sono concentrati soprattutto sulle differenze di genere, scoprendo che la gelosia maschile è suscitata più dalla minaccia di infedeltà sessuale del compagno e la gelosia femminile dall’infedeltà emotiva (Buss et al., 1992). Sebbene questi risultati siano importanti per meglio comprendere questo costrutto, hanno apportato poche nuove informazioni sulle fonti delle differenze individuali nella gelosia. Eppure la ricerca mostra che le persone variano considerevolmente nella loro tendenza a provare gelosia, anche all’interno dei sessi (White, 1981).

Gelosia e attaccamento

Secondo la teoria dell’attaccamento, le aspettative degli adulti sulle relazioni romantiche – e le loro risposte a queste aspettative, come l’ansia da abbandono – sono trasmesse dai genitori durante l’infanzia (Bowlby, 1969; Verhage et al., 2016; Barbaro et al., 2017). A loro volta, queste aspettative possono determinare reazioni emotive, compresa la gelosia, verso le minacce percepite nelle relazioni (Mikulincer & Shaver, 2005). Seguendo questa ipotesi di trasmissione, i membri della famiglia possono mostrare somiglianze nella gelosia perché sono esposti agli stessi modelli di attaccamento dagli stessi genitori. Inoltre, queste somiglianze non dovrebbero essere interamente spiegate da somiglianze genetiche, cioè dovrebbero risultare da influenze ambientali familiari condivise.

Ma come mai alcune persone sono più gelose di altre? A quali fattori è riconducibile questa differenza? Uno studio di Kupfer e colleghi (2022) ha cercato di studiare la gelosia in gemelli monozigoti e dizigoti per stimare la misura in cui gli effetti genetici, gli effetti ambientali condivisi (ad esempio, la genitorialità), o gli effetti ambientali non condivisi (ad esempio, le esperienze di relazione romantica) sono alla base delle differenze esistenti. Secondariamente, gli autori hanno voluto indagare l’influenza di tre variabili: la discrepanza del “valore del compagno” (discrepanza tra il valore che attribuisco al mio compagno e a me stesso), l’affidabilità del partner e l’orientamento sociosessuale dell’individuo (Buss, 2013). I risultati suggeriscono che una maggiore discrepanza nel valore del compagno è associata a una maggiore gelosia (Sidelinger & Booth-Butterfield, 2007) e a più frequenti comportamenti di protezione del compagno motivati dalla gelosia (Buss & Shackelford, 1997). Questo potrebbe essere dovuto al fatto che pensare di avere un partner con un “valore di coppia” superiore al proprio può aumentare la minaccia di infedeltà, perché il partner suscita più interesse da parte dei rivali e può essere più capace di passare a un compagno di valore superiore (Buss, 2013). Inoltre, la gelosia aumenta quando il comportamento del partner indica una maggiore probabilità di infedeltà, come quando flirta con un’altra persona (Dijkstra et al., 2010). Di conseguenza, esperienze passate di infedeltà sono correlate ad un aumento della gelosia, soprattutto tra gli uomini (Bendixen et al., 2015). Al contrario, la sensazione che il partner sia degno di fiducia è associata negativamente alla gelosia (Kemer et al., 2016). Per quanto riguarda l’orientamento sociosessuale, le persone che perseguono relazioni più esclusive hanno più da perdere dal tradimento o dalla sola minaccia che possa accadere, poiché la loro forma fisica dipende maggiormente dalla riproduzione con un solo compagno. Quelli con un orientamento sociosessuale più ristretto potrebbero quindi sperimentare una maggiore gelosia (Brase et al., 2014), sebbene diversi studi non abbiano rilevato questa associazione.

I risultati ottenuti suggeriscono che le persone differiscono nella gelosia in parte a causa di influenze genetiche, ma soprattutto a causa di influenze ambientali non condivise. Nel complesso, il 29% della variazione della gelosia è attribuibile a fattori genetici, mentre il resto è attribuibile all’ambiente non condiviso, in linea con quelli di Walum e colleghi (2013). Anche se le donne hanno riportato una gelosia maggiore rispetto agli uomini, la variazione individuale della gelosia all’interno dei sessi è stata influenzata in modo simile da fattori genetici e ambientali.

I risultati inoltre sembrano disconfermare le teorie relative all’attaccamento secondo cui i modelli mentali delle aspettative riguardo alle relazioni sono trasmessi dai genitori ai bambini, attraverso l’apprendimento durante l’infanzia (Barbaro et al., 2017), non riscontrando un’influenza dei fattori ambientali familiari, come la genitorialità, sulle variazioni nella gelosia.

Gelosia e rischio di infedeltà

Le prospettive evoluzionistiche di mate-guarding (termine che fa riferimento ai comportamenti che hanno l’obiettivo di mantenere le opportunità riproduttive e l’accesso sessuale a un compagno), ipotizzano che la gelosia dovrebbe essere principalmente influenzata da fattori che aumentano il rischio di infedeltà da parte del proprio compagno (Buss, 2013). Questi sono spesso variabili socio-ecologiche (ad esempio, l’attrattiva del proprio compagno, o il numero di rivali nel proprio ambiente) che presumibilmente derivano più dall’ambiente non condiviso che dall’ambiente condiviso. I risultati di Kupfer e colleghi (2022), sostenendo questa ipotesi, hanno scoperto che le differenze nella gelosia sono influenzate soprattutto dall’ambiente non condiviso.

La gelosia è risultata ereditabile per il 29% e le influenze ambientali non condivise spiegano la varianza rimanente. Per le altre tre variabili indagate nello studio, i risultati hanno mostrato che i più forti predittori di gelosia erano l’atteggiamento e il desiderio sociosessuale più limitato. Inoltre, la predittività era più forte per le persone in una relazione e per le donne. Gli individui socio-sessualmente più limitati potrebbero essere più coinvolti in meno relazioni e più motivati a proteggerle e, quindi, provare più gelosia in risposta ai segnali di minacce di infedeltà (Brase et al., 2014; Buss, 2013). All’interno delle coppie di gemelli monozigoti, il gemello con un desiderio sociosessuale più ristretto e meno fiducia nel partner rispetto al suo co-gemello ha sperimentato una gelosia significativamente maggiore.

Inoltre, le persone che hanno riferito di essere state tradite in passato, quelle tradite nella loro attuale relazione o che hanno riportato di avere una minore fiducia nel proprio partner hanno riportato una maggiore gelosia. Pertanto, i risultati suggeriscono che le variabili che valutano la probabilità di infedeltà di un compagno (fiducia ed esperienze reali di infedeltà) influenzano particolarmente la gelosia sperimentata.

Infine, coerentemente con studi precedenti (Buss & Shackelford, 1997; Sidelinger & Booth-Butterfield, 2007), gli individui che hanno riportato un valore (per sé stessi) inferiore a quello attribuito al loro partner hanno riportato una gelosia maggiore. È interessante notare che, esaminando le associazioni solo tra i gemelli monozigoti, queste non risultavano esser significative, rendendo poco plausibile quindi la possibilità che la relazione riscontrata possa essere dovuta a geni simili che influenzano sia la discrepanza nel valore personale e del partner che la gelosia sperimentata.

In conclusione, lo studio conferma che le persone differiscono tra loro nella gelosia in parte a causa di influenze genetiche, ma soprattutto a causa di influenze ambientali non condivise. Discernere le cause della variazione della gelosia è un passo importante per affrontare le conseguenze socialmente dannose della gelosia, come la violenza domestica e l’omicidio.

 

Il trattamento della tricotillomania negli adolescenti

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo ‘Un diavolo per capello! Il trattamento della tricotillomania negli adolescenti” che affronta gli elementi caratterizzanti ed operativi dell’intervento cognitivo-comportamentale per adolescenti con tricotillomania.

 

La tricotillomania è un disturbo poco conosciuto e frequentemente sottodiagnosticato, caratterizzato dallo strappo ripetitivo di capelli e/o peli, tentativi ripetuti di diminuire o interrompere il comportamento di rimozione e disagio con compromissione significativa nelle aree funzionali di vita.

Le conseguenze di questa difficoltà, spesso incrementali nel tempo, comportano problematiche relative alla salute fisica (irritazione, alopecia autoindotta, affaticamento muscolare e dolore cronico) ed agli aspetti psicologici e sociali (tono dell’umore deflesso, ruminazione rabbiosa, forte vergogna, ritiro dai contesti di socializzazione, disimpegno nelle attività quotidiane). Una tale delineazione di faticabilità trova acuizione a causa della particolare fase evolutiva vissuta, se ad essere affetto da tricotillomania è un adolescente. In questa età la mediazione corporea è fondamentale nell’interazione con l’altro e nell’identità sociale faticosamente in costruzione.

Frequentemente le strategie di fronteggiamento promosse dai genitori o dai ragazzi stessi quali il ritiro sociale, il controllo diurno e notturno, il camuffamento mediante l’utilizzo di make-up o vestiario particolari o acconciature sistemate ad hoc per nascondere aree diradate, finiscono per cronicizzare senza efficacia la problematica vissuta non affrontata negli aspetti emotivi e relazionali spesso causativi e di mantenimento nell’evoluzione del disturbo.

Durante l’episodio si esplorano gli elementi caratterizzanti ed operativi dell’intervento cognitivo-comportamentale per adolescenti con tricotillomania.

 

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