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Meditare con la vita (2022) di A. Montano e V. Iadeluca – Recensione

Meditare con la vita racchiude in sé una duplice natura: un manuale teorico che spiega cosa sia la mindfulness e una guida pratica per approcciarsi alla pratica. Edito da Erickson rappresenta il lavoro a quattro mani di Antonella Montano e Valentina Iaddeluca nato da anni di pratica e formazione sul tema.

 

La pratica della mindfulness è sempre più frequente negli ultimi tempi ma chi si è mai approcciato alla pratica, soprattutto agli inizi, avrà pensato cosa si debba fare per meditare con consapevolezza. Per tutti quelli che si vogliono approcciare alla mindfulness o per chi, dopo alcuni tentativi iniziali, vuole impegnarsi con costanza, Meditare con la vita è il volume da avere nella libreria.

Il titolo “Meditare con la vita” evoca il concetto proprio della pratica rappresentato dal vivere e dall’instaurare una relazione vera e autentica con la realtà, sperimentando la pratica in maniera incarnata, ovvero in prima persona. Composto da 11 capitoli, 248 pagine totali, le autrici definiscono il libro uno strumento per avvicinarsi alla mindfulness per chi ha deciso di dedicarsi ad apprendere quell’arte del vivere che la meditazione di consapevolezza rappresenta.

Oltre all’indice consueto di ogni volume, un secondo indice appare tra le prime pagine, elencando una lista di tredici esercizi di consapevolezza e nove indicazioni per la pratica. Il primo esercizio di consapevolezza si trova già nell’introduzione al volume. Il libro è suddiviso in tre sezioni principali che affrontano tematiche diverse inerenti la mindfulness, al suo interno appare costellato da numerose citazioni estratte dal lavoro di maestri che, come definiscono le autrici, si identificano guerrieri della quiete.

La prima sezione del libro è dedicata all’introduzione del concetto di mindfulness (presentata con la parola respiro), alle sue caratteristiche e al suo sviluppo nel corso del tempo. Segue una riflessione sul modo in cui la pratica della mindfulness si sia inserita nel mondo occidentale, termine che utilizzo in questa recensione per distinguerlo dalle zone orientali del mondo da cui la pratica coglie principi che diventano poi laici. Questa sezione appare estremamente importante per rendere consapevole il lettore di quale significato e quale base teorica la pratica presenti, ricordando che il volume nasce principalmente per chi si approccia per la prima volta alla pratica e dunque ne deve capire l’origine e i principi.

La seconda parte del libro introduce e guida il neo-praticante sulla strada dell’avvicinamento alla mindfulness nelle sue diverse forme. Viene affrontata per prima la meditazione seduta, passando per quella camminata, generalizzando infine alle pratiche informali e non strutturate ovvero quelle che è possibile svolgere quotidianamente in tutti i momenti della giornata.

L’ultima sezione appare diversa dalle precedenti, affronta infatti il tema del ruolo della pratica all’interno delle professioni di cura. Questa sezione appare dedicata non solo ai professionisti interessati, ma a chiunque voglia capire il modo in cui la mindfulness si declina nell’aiuto delle persone. Vengono infatti presentati protocolli specifici per la riduzione dello stress in generale e il modo in cui questi protocolli standard pensati per l’età adulta possano declinarsi anche per le fasce d’età più piccole.

L’idea di base da possedere prima di iniziare il percorso guidato dal volume è che si debbano sperimentare gli esercizi per scoprirne il significato, il potere e l’utilità. Le autrici suggeriscono di tenere con sé un taccuino per annotare, qualora se ne senta il desiderio, le emozioni e le sensazioni che fluiscono dalle pratiche con la duplice finalità di costruire un diario del percorso da rileggere in un secondo momento.

Dal punto di vista della lettura, il linguaggio e lo stile di scrittura appaiono divulgativi e dedicati ad un ampio pubblico, seppur presenti al suo interno delle digressioni scientifiche e una sezione completamente dedicata a professioni scientifiche (le indicazioni bibliografiche sono fornite per permettere l’approfondimento personale).
Nota di merito per le illustrazioni presenti nella seconda sezione e per la decisione di riquadrare gli esercizi della pratica così che siano facilmente identificabili e fruibili.

Il volume si conclude con una parte dedicata alle informazioni sull’Istituto Beck di Roma – di cui la Montano è fondatrice e direttrice – e su centri buddisti, associazioni e istituti presenti all’interno del panorama nazionale e interazione che si occupano di pratica meditativa e di mindfulness a diversi livelli.

Concludendo, Meditare con la vita rappresenta un volume guida per muovere i primi passi nella pratica profonda della mindfulness presentandola in tutti i suo aspetti storici, teorici e scientifici, fino ad arrivare alle indicazioni pratiche per svolgere le sessioni formali e informali. Consigliato a chi non ha mai praticato mindfulness e vi si approccia per la prima volta, ma anche per chi, incuriosito, desidera sviluppare autonomamente la pratica di consapevolezza, nonché ai professionisti che scorgono nei protocolli basati sulla mindfulness una tecnica di aiuto maggiore per i propri pazienti.

 

Ruminazione e suicidio

Rogers e colleghi (2021) hanno svolto una ricerca per comprendere se alcune caratteristiche del pensiero ruminativo (come frequenza, durata, controllo percepito e contenuto) siano correlate ad un incremento di ideazioni, piani e tentativi di suicidio.

 

Impatto del suicidio

Nel 2014, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riportato, come ogni anno, che più di 800.000 persone sono morte a causa di un suicidio. Il suicidio è la morte causata da un atto di autolesionismo intenzionale, ideato per essere letale (Moutier, 2021). Il comportamento suicidario comprende il suicidio compiuto (atto intenzionale di autolesionismo letale), il tentato suicidio (atto intenzionale, con o senza lesioni, orientato al decesso ma che non è risultato letale) e l’ideazione suicida (atti preparatori, che includono pensieri, comportamenti e pianificazioni relative al suicidio) (Moutier, 2021).

Nel 2019, i Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (Disease Control and Prevention; CDC) in America hanno mostrato un aumento delle persone che tentano il suicidio a causa di un incremento dei pensieri e dei comportamenti associati alle ideazioni suicidarie. Oltre alla sofferenza associata ai suicidi, l’onere economico è sbalorditivo, in America ammonta circa a 44,6 miliardi di dollari all’anno (CDC, 2019).

Suicidio e ruminazione

Indagando i pensieri alla base delle tendenze suicide, si è visto come la ruminazione – stile di pensiero ripetitivo, orientato al passato e focalizzato sulle emozioni negative e sulle potenziali cause, sul significato e sulle conseguenze del proprio disagio e della propria sofferenza (Nolen-Hoeksema et al., 1991; 2008) – sia potenzialmente collegata alla messa in atto di comportamenti fatali (Morrison & O’Connor, 2008; Rogers & Joiner, 2017; Rogers et al., 2021). La letteratura ha esaminato se questo stile di pensiero negativo può informare sui possibili esiti correlati al suicidio (Fresco et al., 2002; McEvoy et al., 2013). Si ipotizza che una mancanza di controllabilità percepita sulla propria ruminazione, a lungo termine, possa portare ad una progressione lungo un “continuum suicida” (ad esempio, passare dall’ideazione suicidaria a dei veri e propri piani, oppure dai piani ai tentativi; Rogers et al., 2021).

Rogers e colleghi (2021) hanno svolto una ricerca per comprendere se alcune caratteristiche del pensiero ruminativo (come frequenza, durata, controllo percepito e contenuto) siano correlate ad un incremento di ideazioni, piani e tentativi di suicidio. Il campione era composto da un totale di 548 partecipanti: il 39,4% riportava di aver avuto delle ideazioni suicidarie nel corso della vita, il 15,7% riportava di aver avuto dei piani e il 12,6% riferiva di aver messo in atto dei veri e propri tentativi di suicidio. La Beck Scale for Suicide Ideation (Beck & Steer, 1991) evidenziava come circa due quarti del campione (26,6%) mostrasse la presenza di ideazioni suicidarie ricorrenti. Oltre alla scala per valutare l’ideazione suicidaria, sono state poste delle domande per indagare il contenuto ruminativo (“Quali sono le cose successe in passato che creano preoccupazione o su cui rumini?”), la controllabilità percepita (“Quanto spesso senti che la tua ruminazione su eventi passati sia difficile da controllare?”), la durata (“Quanto tempo spendi a ruminare su eventi successi in passato?”) e la frequenza (“Quanto spesso ti preoccupi o rumini su eventi accaduti in passato?”). La Lifetime Suicide Plans/Attempts è stata somministrata per verificare la presenza di piani e tentativi di suicidio, mentre il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer et al., 1990) per misurare la gravità del rimuginio e della preoccupazione generale. I risultati ottenuti hanno messo in luce una correlazione significativa tra tutte le variabili tranne qualche eccezione: la durata della ruminazione non era significativamente correlata ai tentativi di suicidio durante l’arco della vita, il contenuto ruminativo riguardo alla salute non era correlato ai piani o ai tentativi di suicidio, e il contenuto ruminativo sugli sforzi quotidiani non era correlato all’ideazione suicidaria attuale e ai piani o ai tentativi durante il corso della vita (Rogers et al., 2021).

Dato che la controllabilità percepita è associata all’ideazione suicidaria, ai piani e ai tentativi di suicidio durante il corso della vita, tale elemento potrebbe essere un fattore chiave di rischio lungo un continuum suicidario. Per validare quest’ipotesi, gli autori suggeriscono di replicare lo studio in futuro, utilizzando disegni longitudinali e una varietà di metodologie su popolazioni diverse (Rogers et al., 2021).

 

Emergenza Ucraina: gli psicologi volontari operativi ad Ugovizza – Comunicato Stampa

Emergenza Ucraina: due psicologi sul confine italiano ogni settimana da un mese, già dieci partiti e tornati e altri due in servizio per la sesta settimana consecutiva. È questa la missione a cui SIPEM SoS Federazione partecipa su richiesta del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile

Comunicato stampa redatto da SIPEM SoS Federazione (Società Italiana di Psicologia dell’Emergenza – Social Support)

 

Due psicologi sul confine italiano ogni settimana da un mese, già dieci partiti e tornati e altri due in servizio per la sesta settimana consecutiva. È questa la missione a cui SIPEM SoS Federazione, la Società Italiana di Psicologia dell’Emergenza Social Support, partecipa su richiesta del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile. Il team socio-sanitario presidia dal 4 aprile il campo di Ugovizza (UD) della Protezione Civile Friuli Venezia Giulia, dove transitano i rifugiati ucraini che hanno appena superato il confine con l’Italia, diretti nel nostro paese dopo essere fuggiti dalla guerra.

La SIPEM che fa parte della Protezione Civile, mette a disposizione volontari psicologi formati nella gestione degli eventi emergenziali e fornisce assistenza psico-sociale a chi, dopo giorni estenuanti di viaggio, arriva per trovare la pace.

Il team SIPEM cambia ogni settimana, con il passaggio di consegne che avviene prima online assieme al Coordinamento Nazionale Maxi Emergenze e poi in presenza la domenica o il lunedì tra i volontari in arrivo da tutta Italia. Fino ad ora hanno partecipato otto regioni (Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche,Toscana e Veneto) ma la previsione è di continuare per tutto il mese di maggio.

Il team socio-sanitario è stato costituito dal Dipartimento per mettere a disposizione del Friuli Venezia Giulia e le Forze dell’Ordine, oltre agli psicologi anche assistenti sociali, infermieri e soccorritori coadiuvati da un interprete. In uno spazio ristretto e in tempi limitati l’intervento degli psicologi è diretto ad adulti e bambini, provati dalla guerra e dal viaggio che giunti alla loro meta finale mostrano segni di sofferenza psichica e scompensi emotivi, se non addirittura i primi sintomi di disturbi da stress e trauma.

È bastato poco, come rendere più accogliente il presidio con un muro di disegni fatti dai bambini: le parole in ucraino lasciano ai successivi passanti un segno tangibile che quello è finalmente un posto sicuro. Laddove non arrivano le parole infatti, arrivano le immagini e la gentilezza di una mano che offre tè caldo (chai, in ucraino, hanno imparato a dire tutti).

La situazione è complessa ma potenzialmente molto bella e forte – racconta Massimo Crescimbene, storico volontario della sezione Lazio che ha partecipato alla terza missione – Polizia, Esercito, UNHCR, volontari del Friuli e del Servizio Nazionale di Protezione Civile fianco a fianco per aiutare e accogliere. Un’esperienza nuova e inedita anche per chi come me ha alle spalle tante esperienze di protezione civile. I nostri interventi sono brevi, mirati e intensi. Un breve scambio di battute in inglese con una signora di circa 70 anni che mentre aspetta di misurare la pressione, sulla panca fuori dell’infermeria, mi dice piano: “La mia casa… La mia casa non c’è più. Non la rivedrò mai… La mia terra è distrutta”. Non rispondo, non potrei dire nulla al riguardo, ma l’abbraccio e le sorrido. Piano le dico: “la nostra terra ti accoglie. Puoi essere tranquilla, la tua casa, la tua terra sono con te”

 

IMMAGINI DELLA MISSIONE SIPEM SoS FEDERAZIONE:

 

 

 

 

Lo psicologo nel mondo delle organizzazioni – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel primo episodio si parla del ruolo dello psicologo nel mondo delle organizzazioni con la Dott.ssa Roberta Stoppa.

 

Dove ascoltare il primo episodio:

 

Totem, tabù e satira: analisi freudiana sulla Stand Up Comedy

Al di là degli aspetti legali e culturali che caratterizzano la libertà di espressione di un artista, per comprendere cosa si nasconde dietro il meccanismo della satira e della Stand Up Comedy, è interessante affidarsi ad alcune analisi in chiave psicologica. 

 

Il lavoro del comico è sicuramente una professione difficile. Basti pensare ai tanti esempi che nel panorama culturale mondiale legano questo ruolo ad una serie di situazioni difficili e rischiose.

La recente notte degli Oscar è un esempio emblematico per evidenziare come una battuta (riuscita o meno) possa rappresentare il centro di un vivo dibattito capace di coinvolgere e dividere l’opinione pubblica a livello globale (Chas Danner and Margaret Hartmann, 2022): quello schiaffo rappresenta una scena emblematica che ci obbliga a porci delle domande circa la legittimità di una battuta – di un modo di fare comicità chiamato Stand Up Comedy – nei confronti di tematiche serie e difficili da affrontare, come la condizione medica dell’attrice statunitense Jada Pinkett Smith verso cui la battuta è stata indirizzata.

La cronaca è ricca di episodi che coinvolgono il difficile ruolo del comico, orientando l’opinione pubblica verso accese forme di dibattito. Un recente articolo della CNN riporta la difficile situazione in India, dove il comico Nalin Yadav, dopo uno spettacolo di Stund Up Comedy, si è trovato ad affrontare 35 giorni di carcere con l’accusa di aver volontariamente infangato alcune tematiche religiose e culturali (Rhea Mogul, 2022). Oppure come non citare la leggendaria performance di George Carling “Seven Words You Can Never Say on Television”, nella quale il comico americano, il 27 maggio del 1972 dal palco del Santa Monica Civic Auditorium, recita un monologo riguardante la necessità assurda di censurare 70 parole, tra le 600.000 in lingua inglese, perché ritenute “pericolose” per il pubblico. Verrà arrestato con l’accusa di “profane humor”, e coinvolto in una battaglia legale destinata a cambiare profondamente l’attuale sistema legale americano (Tim Ott, 2020).

Al di là degli aspetti legali e culturali che caratterizzano la libertà di espressione di un artista, per comprendere cosa si nasconde dietro il meccanismo della satira e della Stand Un Comedy, è interessante affidarsi ad alcune analisi in chiave psicologica.

Infatti non è raro, di fronte a questo tipo di performance, essere invasi da sentimenti contrastanti che vanno dalla piacevolezza e divertimento, fino a toccare imbarazzo e forte contrarietà: non a caso l’episodio dello schiaffo agli Oscar ha suscitato reazioni fortemente polarizzate in entrambe le direzioni.

La censura e, come vedremo, il tabù, sono l’arma più semplice per contrastare tali sentimenti sul nascere, ed evitare che “infastidiscano” la sensibilità dell’audience. Fare luce sugli elementi alla base di tali sentimenti significa comprendere meglio alcuni meccanismi psicologici, sociali e culturali che contraddistinguono l’essere umano fin da epoche lontanissime.

Capire meglio il difficile ruolo della Stand Up Comedy, quindi, ci porterà a capire meglio come funzioniamo oggigiorno, come individui e come società.

Esistono tanti esempi performativi di Stand Un Comedy americana: per addentrarci nell’argomento è utile analizzare un episodio specifico che rappresenta il simbolo e l’apice di questa modalità comica performativa. Per indagare quali meccanismi governano il rapporto tra comico e pubblico partiremo quindi dal momento più dissacrante mai registrato di Stand Up Comedy. Questo episodio, come una lente di ingrandimento, ci permette di osservare una gigantografia dei meccanismi psicologici alla base della nascita di quei sentimenti tanto contrastanti che sembrano caratterizzare questo tipo di comicità rispetto alle altre forme.

The Aristocrats: la Stand Up più difficile del mondo

Siamo a New York, fine settembre 2001.

Il famoso comico americano Gilbert Gottfried, celebre interprete nel film “Piccola Peste” (1990), tiene il discorso finale dello spettacolo televisivo del Friars’ Club che in quella serata dedica l’evento al roast del celebre fondatore della rivista Playboy Hugh Hefner. I soldi raccolti durante la serata sarebbero stati devolti a favore delle vittime del 9/11: l’attentato alle Torri Gemelle.

Un roast, che letteralmente significa “arrostire”, “rosolare”, è una forma di intrattenimento anglosassone nella quale un personaggio d’onore, una celebrità del panorama culturale, viene bersagliato da battute e insulti volti a umiliare -in modo intelligente e ironico- il protagonista della serata.

Così, mentre il comico Gottfried continua ad “abbrustolire” l’ospite d’onore, ad un certo punto si ferma ed afferma di essere nervoso -molto nervoso- perché il volo per Los Angeles che avrebbe dovuto prendere dopo lo spettacolo, non era un diretto, ma aveva uno scalo: con l’Empire State Building.

La folla inizia ad agitarsi. Il pubblico inizia a fischiare. Qualcuno dalla platea grida: «Too soon! Too soon!». La tragedia delle Torri Gemelle è ancora troppo vicina per questo tipo di battute.

La situazione si fa decisamente pesante, e tra i fischi del pubblico e i comici sul palco che lo fissano sbigottiti, Gottfried allarga le braccia, distendendole sul podio, mentre con le mani stringe i bordi del leggio.

Lascia che i fischi terminino, mentre con diversi movimenti di spalle e collo sembra voler riscaldare i muscoli contratti dal nervosismo: forse è agitato, forse no, ma sicuramente questa è la preparazione di chi si presta ad un gesto atletico assurdo. Gottfried sta per raccontare una barzelletta.

La folla sta ancora mormorando quando il comico si avvicina al microfono e dice:

«Un talent scout è seduto nel suo ufficio, quando un’intera famiglia americana entra nell’ufficio, tutta bella, biondi, occhi azzurri, composta da padre madre, figlia, figlio e un cane. Entrati tutti quanti l’agente dice “bene vediamo cosa sapete fare”».

Questo, che sembra l’incipit di una normale barzelletta, è in realtà l’inizio di quella che viene considerata la barzelletta più oscena del mondo, alla quale nel 2005 viene dedicato un documentario dal titolo “The Aristocrats” (Penn Jillette, Paul Provenza, 2005).

Non c’è bisogno di assistere alla scena per conoscere l’epilogo della faccenda. Censurata da Comedy Central, e tagliata per motivi di tempistica dal documentario “The Aristocrats” (la barzelletta ha una durata molto estesa), la battuta recitata da Gottfried sul palco del Friers’ Club Roast segna il momento più dissacrante e politicamente scorretto della storia dello show americano: show, questo, che fa del political correct il suo bersaglio principale.

Le ragioni dell’importanza storica di questo episodio sono principalmente due: la prima si rifà alla storia di questa battuta leggendaria; la seconda, come vedremo, prende in considerazione un meccanismo psicologico dell’arte performativa noto fin dal secolo scorso.

La nascita storica della barzelletta The Aristocrats

Questa barzelletta è considerata una vera leggenda: citata nell’opera del 1968 “Rational of the Dirty Joke” dal critico culturale americano Gershon Legman, sembra abbia goduto di molta della sua fama grazie a Chevy Chase, Michel O’ Donoghue e John Belushi (Legman, Gershon, 2007) personaggi di spicco all’interno dell’ambiente del Nation Lampoon Magazine, un giornale comico satirico che, a cavallo tra gli anni 70’ e 90’, ha accolto molti giovani talenti comici, tra i quali Bill Murray e Harold Ramis, entrambi membri nel film Ghost Busters (Reitman, 1984).

Si dice che in questo habitat si sia sviluppata, durante le feste organizzate dal collettivo, l’abitudine di recitare questa battuta in una sorta di competizione: dati gli elementi (che devono sempre essere composti da una bella famiglia americana tradizionale, dal talent scout e dal cane), e il Set Up (lo studio di un talent scout) bisognava trovare il modo più assurdo per arrivare alla Punch Line finale, che vede il talent scout, scioccato o incuriosito dalla scena a cui ha appena assistito, domandare: «Come si chiama questa cosa che avete appena fatto?», e il padre di famiglia: «Si chiama Gli Aristocratici».

Tra l’incipit e il finale sta al comico il compito di trovare quelle trame assurde e oscene che i soggetti devono compiere. Il meccanismo è tutto qua: il comico deve descrivere -dettagliatamente o meno a seconda dell’effetto che vuole sortire nel pubblico- le ragioni per cui la famiglia si trova su quel palco, e questo deve essere frutto di un totale abbandono verso l’improvvisazione. «Improvvisare sullo schifo- dichiara un personaggio nel documentario The Aristocrats- fa di te il John Coltrane della situazione» (Penn Jillette, Paul Provenza, 2005).

Freud, funzione catartica e Motto di Spirito Tendenzioso

Per capire il secondo aspetto fondamentale dell’episodio concentriamoci adesso sui meccanismi psicologici alla base dello humor e della satira.

Siamo nel 2001, o meglio, siano alla fine del mese di settembre del 2001 quando lo show viene registrato nel Fries’Club di New York. L’alba di quella che può essere considerata la più grande tragedia della storia degli Stati Uniti d’America è ancora vicinissima e il dolore, la paura, nel popolo americano è più viva che mai (Schuster, 2001). In questo clima di terrore e incertezze la comicità sembra non potersi fare strada: la tragedia che il mondo ha davanti a sé è ancora scottante, altamente complessa e profondamente seria.

Ma è proprio dalla serietà monolitica di un evento che nasce la risata: quando un comico riesce a far dissolvere quella complicatezza cognitiva con cui credevamo di dover fare i conti, assistiamo allora al fenomeno che Freud (1905) chiamerà «risparmio energetico di risorse». Tutte quelle energie che di norma sarebbero state spese dalla persona per gestire un problema complesso, si trovano adesso libere di agire su altri sistemi: l’essere umano, con tutte le sue paranoie e complicazioni, viene semplificato. Nasce la risata: come sfogo, liberatorio, delle energie risparmiate.

Non è un caso che Sigmund Freud nel suo “Il Motto di Spirito” (1905), ritagli al fenomeno del risparmio del dispendio energetico un ruolo particolare all’interno di tutti i vari tipi di comicità: la risata è una reazione strettamente connessa con ciò che Freud chiama meccanismo del piacere.

Il piacere è descritto da Freud come «il soddisfacimento di qualcosa che sarebbe dovuto rimanere insoddisfatto» (Freud, 1905). La causa che blocca il piacere è semplicemente definita ostacolo: ogni motto di spirito, ogni battuta, ogni barzelletta, quindi non è altro se non il rapporto tra un desiderio di soddisfazione di un impulso verso l’esterno e una forza che ostacola tale sfogo.

Quando tale ostacolo è di natura interna si riferisce all’indole naturale di chi ascolta la battuta (per esempio possedere un’indole timida). Quando invece l’ostacolo da superare è di natura esterna, si parla di tutti quei caratteri convenzionali assunti dalla società durante un determinato momento storico: essi si riferiscono al senso del pudore, alla morale, e a tutta la gamma di tabù a cui sarebbe meglio non riferirsi in determinate circostanze (magari non in pubblico!).

Per soddisfare determinati desideri e oltrepassare questi ostacoli l’uomo ha inventato un meccanismo efficace chiamato il Motto di Spirito Tendenzioso e questo può essere di natura ostile o oscena a seconda del desiderio che riesce ad esprimere.

Nel motto ostile l’essere umano diviene capace di soddisfare une delle pulsioni più primitive e profonde della sua costellazione psichica, quella ostilità brutale a cui ha dovuto rinunciare durante le ancestrali fasi di assestamento del contratto sociale tra individui. Grazie all’invettiva verbale (alla parolaccia) possiamo quindi trovare finalmente uno sfogo esterno.

Nel motto osceno è l’impulso sessuale a trovare lo spazio per fuoriuscire all’esterno, veicolato da una battuta sconcia, da un’osservazione oscena, o da un’allusione sessuale. Trova finalmente soddisfazione l’impulso sessuale represso dalla società contemporanea, che Freud chiama soddisfazione libidica primaria e che traduce poi come «sessualità bruta»: la società condanna la sessualità bruta, oscena, animale, per le stesse ragioni per cui vieta l’ostilità. La storia della specie umana ha visto consolidarsi, ad un certo punto del suo sviluppo, quella forma di contratto sociale del vivere comune che ha reso possibile l’inizio della civiltà così come la conosciamo. Adesso, come in un sogno, quei fenomeni banditi dal nucleo sociale tornano ad infastidire la coscienza dell’individuo, luogo, questo, che in realtà non hanno mai abbandonato del tutto. Il riferimento al sogno, poi, non è casuale: sia la battuta che il sogno godono infatti di meccanismi di azione del tutto simili (Freud, 1905).

Totem, tabù e catarsi

Abbiamo apparentemente trovato una spiegazione all’oscenità e all’ostilità delle battute comiche. Esse fanno ridere perché permettono «l’espressione di qualcosa che non dovrebbe essere espresso».

Ma torniamo adesso alla barzelletta “The Aristocats”: quale è lo scopo della battuta più oscena del mondo?

Per rispondere alla domanda è necessario ricercare quali elementi effettivi rendono questa battuta la più sporca battuta del mondo: occorre, quindi, indagare il tema dei tabù come norme sociali atte a limitare le azioni del cittadino rispetto a determinate circostanze. Come scrive Freud (1905) esistono degli ostacoli -interni ed esterni- che impediscono la produzione della risata in determinate circostanze: nel nostro esempio è facile identificare tali ostacoli come una serie di tabù sociali. La barzelletta “The Arisocrats”, infatti, spesso fa ampio ricorso ad immagini oscene e grottesche che spaziano dal sadismo, all’incesto, fino a toccare temi come necrofilia, coprofagia e zoofilia.

Cosa sono, quindi, i tabù? Il termine deriva dalla lingua polinesiana, e viene descritto dal celebre antropologo James Frazer (1911) come uno dei rari casi di parola presa in prestito dalla lingua dei primitivi come riferimento al divieto morale, etico, sociale e religioso di mettere in atto determinati comportamenti:

«Il Tabù […] ha contribuito in larga misura, sotto molti differenti nomi e sotto molti differenti dettagli, a costruire la complessa fabbrica della società in tutti i suoi vari aspetti ed elementi, che noi descriviamo come religione e società».

Ad essere sottoposti a precisi divieti e regolamentazioni sono sia persone fisiche -come re, governatori, soldati, schiavi, sacerdoti, donne, cacciatori e individui in lutto- sia diversi comportamenti quali il mangiare e il bere, il vestirsi, l’economia domestica della casa, il radersi la barba, l’approcciarsi con uno sconosciuto.

Aggiungerà Frazer nel capitolo V (Frazer, 1911) che l’importanza del tabù è finalizzato -da una parte- alla difesa di coloro esposti al pericolo, e -dall’altra- a limitare l’azione di coloro definiti pericolosi. Il «pericolo» va inteso in senso spirituale: soggetti come re, preti e governatori, come anche «omicidi, donne gravide, cacciatori e pescatori, ragazze in pubertà» (Frazer, 1911) sono tutti potenziali vittime -o potenziali trasmettitori- di questo tipo di pericolo spirituale. Il tabù, come legge e divieto, funge da «isolante elettrico» protettivo per evitare che le forze spirituali di questi determinati individui vengano trasmesse al resto dei cittadini della collettività.

Nell’opera “Totem e Tabù” (1913) Freud descrive il termine come «una serie di restrizioni alle quali questi popoli primitivi si sottopongono […] essi non sanno perché, ne viene loro in mente di porre una domanda; si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, e sanno che calpestare uno di questi divieti comporterebbe una punizione durissima» (Freud, 1913).

Tali tabù nascono dal fondo di credenze spirituali primitive, legate alla paura dell’uomo verso potenze demoniache nascoste dietro l’oggetto tabù, ma in seguito se ne distaccano e, diventando indipendenti dal demonismo, si ritrovano imposte dal costume, dalla tradizione e dalla legge di un popolo. Dal tabù nasce la coscienza morale, come una forma di coscienza assoluta, interna, «assolutamente certa di sé medesima» che esprime «la sensazione di riprovazione che determinati impulsi di desiderio suscitano in noi» (Freud, 1913).

Le prime forme di tabù all’interno dei nuclei sociali si sviluppano su due versati specifici: «non uccidere il padre della comunità (il Totem)» e «non avere rapporti sessuali con i membri del nucleo totemico». Questo secondo divieto, il tabù dell’incesto, sarà alla base del passaggio da una forma di società del tipo orda primordiale ad una di tipo sociale, chiamata “fratrie” (Freud, 1913): non avere rapporti sessuali con i membri della propria unità totemica (e non solo con la propria madre o sorella) porta al consolidarsi dell’esogamia, caratteristica che spinge l’appartenente di una tribù a stringere legami sessuali solo al di fuori della sua stessa comunità, creando le istituzioni sociali dei clan totemici, sotto-fratrie e fratrie.

Oltre a ciò, l’orrore dell’incesto è alla base di tutta una serie di leggi, divieti e tabù, ancora osservabili presso popolazioni lontane e ancestrali: come scriverà Freud «i popoli selvaggi sentono ancora i desideri incestuosi dell’uomo – destinati a cadere in seguito nella sfera dell’inconscio- come una minaccia incombente da cui difendersi con l’adozione di regole improntate al massimo rigore».

Alla luce di quanto evidenziato, è facile adesso analizzare perché “The Aristocrats” sia la battuta più sporca del mondo: il comico che descrive la scena non solo espone pubblicamente un tema inviolabile e sacro, ma lo denuda rendendolo plateale nei suoi minimi dettagli, evocando reazioni dal pubblico che possono arrivare a registrare forti risposte fisiologiche. Come testimonierà Phillis Dyller «ho sentito la battuta, ma non ricordo cosa ci fosse di così sbagliato. Mi ricordo solo di essere svenuta» (Penn Jillette, 2005).

Le ragioni, la risata e l’ambivalenza emotiva

Torniamo ora alla domanda iniziale, cioè quale possa essere stato lo scopo del monologo “The Aristocrats” e poniamoci un’altra domanda: come è possibile far ridere un pubblico che due settimane prima a poco più di 12 chilometri di distanza dal Friars’Club (siamo sulla 55th avenue nel cuore di Manhattan), aveva assistito incolume allo shock dell’attentato alle Torri Gemelle?

Il comico abbiamo detto essere un manipolatore dell’ostacolo freudiano. Abbiamo poi chiamato questo ostacolo tabù e abbiamo analizzato la sua importanza per la nascita delle prime forme di civiltà umana. L’oggetto tabù (il recente attacco alle Torri Gemelle) sappiamo quanto evochi nei cittadini un reverente stato di rispetto, timore e obbedienza civile. Ebbene: se il pubblico nega al comico la possibilità di giocare col loro ostacolo -ancora troppo sacro forse per permetterne una manipolazione scherzosa- cosa gli rimane da fare?

La risposta più semplice -forse- è abbandonare quello specifico tabù: come abbiamo fatto notare, quando il comico inizia il suo monologo ed evoca il tema dell’11 settembre, la battuta non funziona. «Too soon!» gli urlano dalla platea. E infatti Gottfried dal palco non toccherà più quell’oggetto demoniaco nel suo monologo.

Ma il fatto interessante è un altro: infatti alla scelta di abbandonare il tema tabù dell’attacco alle Torri Gemelle, segue, da parte del comico, la decisione di recitare il monologo più dissacrante del mondo. È come se il comico, dopo aver ceduto di fronte alla necessità del pubblico di avere uno spazio di sacro rispetto e inviolabilità, facesse pagare a caro prezzo questo compromesso. Egli affida alla barzelletta più sporca del mondo il compito di svelare a tutti i presenti il nucleo della coscienza morale collettiva insita in ognuno di noi; utilizza questa battuta per esporre e manipolare in pubblico non uno ma tutti i principali tabù della società occidentale, cristallizzati nei diversi “imperativi categorici” (Freud, 1905) chiamati in causa e dissacrati dai personaggi descritti dalla barzelletta.

Per capire le ragioni di questo gesto possiamo fare affidamento sul concetto di ambivalenza emotiva. Secondo Freud, tanto più energico è il divieto espresso dal tabù verso determinate azioni, tanto maggiore sarà stata in origine la volontà di compiere quelle stesse azioni: infatti “non c’è bisogno di proibire ciò che nessuno vuole fare, e comunque ciò che è proibito nella maniera più energica deve essere oggetto di intenso desiderio” (Freud, 1913). Questo descrive il rapporto di ambivalenza emotiva dell’individuo verso l’azione tabù: «egli vuole sempre eseguire questa azione -toccare l’oggetto- […] e al tempo stesso ne ha orrore».

Come abbiamo detto, Freud (1913) definisce la coscienza morale -nata dal tabù- come: «la sensazione di riprovazione che determinati impulsi di desiderio suscitano in noi». Anche in questo caso, quindi, la coscienza morale si fonda su un rapporto ambivalente di elementi in apparente contrasto, rappresentati da un lato da una sensazione di riprovazione, e dall’altro da un impulso di desiderio vietato e interdetto.

Ogni atto che sfida la coscienza morale collettiva è destinato a fare i conti con questa ambivalenza tra proibizione e desiderio: da una parte, una tale sfida tenderà necessariamente ad evocare una forte “sensazione di riprovazione” verso determinati temi vietati e scottanti; e dall’altra parte, risveglierà quegli “impulsi di desiderio” presenti nell’ascoltatore, che resero necessaria l’imposizione di un tale divieto all’alba dei tempi.

Alla luce di ciò, è facile immaginare lo scopo della sfida proposto dai comici come George Carling e Gilbert Gottfried: essi giocano in una zona grigia, consapevoli dell’ambivalenza emotiva che ci lega ai nostri stessi divieti, che rispettiamo e che difendiamo pubblicamente, ma da cui non ci sentiamo mai pienamente affrancati. I comici toccano l’oggetto tabù, «che non potrebbe essere toccato» (Freud, 1913), per illuminare parti ancora in ombra dei meccanismi sociali che regolano il vivere comune, attraverso una riflessione collettiva che sveli i paradossi e le strutture convenzionali che ci governano e che diamo per scontato.

Come i “primitivi” studiati da Frazer, oggigiorno anche le persone comuni “si assoggettano a queste proibizioni come se fossero ovvie, e sanno che calpestare uno di questi divieti comporterebbe una punizione durissima” (Freud, 1913). Sia per quanto riguarda le 70 parole vietate di Carling, sia per la sfilata di tabù dissacrati di Gottfried, il comico gioca con il divieto presentandolo allo spettatore sotto una nuova luce.

Le conseguenze per una persona che tocca il tabù, nelle popolazioni studiate da Frazer, sono molto dure e spaziano dall’allontanamento dalla società fino alla condanna a morte: purtroppo questo si presenta oggigiorno come un ulteriore parallelismo, che caratterizza il triste destino di molti artisti alle prese con la manipolazione di un oggetto proibito.

 

Salute Mentale Giovani Adulti: bando VI premio Rocco Pollice – Edizione 2022

È online il bando per la partecipazione al VI Premio Rocco Pollice promosso dalla famiglia del prof. Pollice e dalla Associazione SMILE Onlus Rocco Pollice.

 

Il Premio, alla sua VI Edizione, è dedicato alla memoria del Prof. Rocco Pollice, Professore Associato in Psichiatria dell’Università degli Studi dell’Aquila, Dirigente Medico Psichiatra dell’Ospedale San Salvatore, Neuropsichiatra Infantile, creatore e coordinatore del Servizio di Monitoraggio e Intervento precoce per la Lotta agli Esordi della sofferenza mentale e psicologica nei giovani (S.M.I.L.E.), dedicato al disagio giovanile.

Elargito dalla famiglia del Prof. Pollice e dall’Associazione che porta il suo nome, il premio intende valorizzare, attraverso questa iniziativa, l’impegno di giovani laureandi e laureati di area medico-sanitaria di età inferiore a 40 anni nell’ambito della Salute Mentale dei giovani adulti, in linea con il lavoro scientifico-assistenziale ventennale del Prof. Rocco Pollice.

La deadline per l’invio dei lavori è fissata al 31 Agosto 2022.

La premiazione avverrà nell’ambito del Convegno Nazionale organizzato per il 16-17 Settembre 2022 di cui avrò cura di inviarvi il programma in fase di definizione.

 

Per consultare il bando clicca qui.

Discalculia e altre difficoltà in aritmetica e a scuola – Recensione

Discalculia e altre difficoltà in aritmetica e a scuola è un volume che descrive la discalculia nelle sue connotazioni cliniche, didattiche e burocratiche, le caratteristiche di uno stile didattico flessibile e inclusivo, il valore della metacognizione e il ruolo della famiglia nella trattazione del disturbo.

 

Dalla definizione alla causa del disturbo: i modelli eziopatologici

All’interno di questa recente pubblicazione della Erickson, frutto del lavoro di un ampio numero di esperti del settore, sono riportati molti dei modelli teorici che, nel corso del tempo, hanno provato a definire l’impianto eziopatologico della discalculia, disturbo che limita fortemente l’apprendimento e l’utilizzo del “pensiero matematico”.

Tra le teorie più significative si citano quella di Piaget (1969), per cui la maturazione del concetto di numero non può anticipare la formazione del pensiero concreto – attorno ai 6-7 anni- e quella più attuale di Butterworth e colleghi (1999) che attribuiscono alla competenza matematica connotati di innatismo. Ipotesi suffragata da numerosi studi di neuroimaging- svolti a mezzo di fMRI ed EEG- che hanno evidenziato la presenza di aree cerebrali prettamente deputate alla elaborazione del numero, oltre ad uno specifico collegamento tra la disfunzionalità di tali aree e la presenza del disturbo discalculico.

Per la lettura delle ulteriori teorie esposte si rimanda ad una analisi più approfondita del testo, nella certezza che non si tratterà di una lettura pesante né dispersiva. Gli autori riescono a neutralizzare gli inconvenienti di un’esposizione sovraccarica e disorientante grazie alla descrizione sistematica di ogni argomento, la cui organizzazione espositiva viene corroborata da una grafica disseminata di glossari, schemi sintetici e tabelle riassuntive posti al principio e al termine di ogni capitolo. Accorgimento che agevola la reperibilità dei contenuti e favorisce un continuo automonitoraggio circa l’assimilazione dei concetti. Al termine della lettura emergerà un quadro prospettico in cui la diversità di vedute, pur evidenziata con onestà concettuale, contribuisce alla costruzione di una panoramica di conoscenze completa ed integrata, e per questo scientificamente attendibile.

La descrizione specifica della discalculia: le quattro sezioni dell’opera

La prima area ospita un ampio quadro introduttivo, in cui la discalculia viene descritta nelle sue connotazioni cliniche, didattiche e burocratiche. Dunque, se da una parte si cerca di analizzare la componente eziopatologica del disturbo riferendone nel dettaglio i correlati disfunzionali, dall’altra la condizione discalculica viene traslata concretamente all’interno delle aule scolastiche. Questo rende necessaria la spiegazione di termini come BES, PDP, diagnosi clinica, certificazione diagnostica, percorso valutativo specifico: un lessico indispensabile per gli addetti ai lavori, che in queste pagine viene arricchito dal continuo riferimento a normative di settore e richiami legislativi aggiornati. Non manca un’analisi dettagliata dell’iter diagnostico- il cui svolgimento è necessario per la certificazione del disturbo- accompagnata dalla raccomandazione volta a collocare la diagnosi in una giusta fase evolutiva: ciò al fine di evitare allarmismi precoci, che potrebbero portare all’identificazione di falsi positivi, e diagnosi tardive, ispirate da una banalizzazione del problema o da una disorganizzazione nella presa in carico (Vio, Tressoldi 2012). Si specifica infine come l’utilizzo di batterie di test standardizzati, somministrati da un equipe di esperti, consenta di stabilire l’eventuale presenza di comorbilità, l’isolamento di diagnosi differenziali e l’individuazione delle difficoltà di apprendimento attribuibili a stati emotivi, quali l’ansia in matematica e la pseudo discalculia da blocco emozionale (p. 311).

Come conciliare gli obiettivi didattici con le limitazioni cliniche imposte dal disturbo? La seconda area dimostra come il punto di partenza per raggiungere questo obiettivo, non semplice né scontato, sia la costruzione di uno stile didattico flessibile e inclusivo, in grado di rispettare la zona prossimale dell’allievo, evitando di forzarla con richieste irrealistiche e soverchianti. Il docente in linea con le esigenze del discalculico deve mostrarsi chiaro, diretto e semplice, sia nell’approccio relazionale che nel linguaggio esplicativo; deve manifestare disponibilità nel ripetere i concetti più volte, partendo dalle nozioni di base per procedere gradualmente verso obiettivi più complessi; e soprattutto deve essere dotato di una buona capacità osservativa. Un docente attento e interessato potrà facilmente valutare le modalità con cui l’allievo si approccia all’elaborazione dei concetti matematici; allo stesso modo potrà individuare l’accessibilità mnestica alle conoscenze acquisite, la capacità di immagazzinamento e di recupero, lo stile di apprendimento specifico; e soprattutto potrà determinare la natura e la frequenza degli errori al fine di strutturare programmi intensivi individualizzati e prevedere l’adozione di eventuali strumenti compensativi e dispensativi, anch’essi ampiamente descritti all’interno del testo. La matematica non è solo una materia da temere, sembrano voler dire gli autori: è necessario proiettarla in un contesto più rilassato, accogliente e familiare, in cui lo stesso errore può assumere prospettive meno irreversibili e definitive. Come avviene in un gioco. Da qui una disamina di esercizi didattici in cui la componente ludica, pur finalizzata all’apprendimento, concede spazio alle potenzialità creative degli allievi – non soltanto discalculici- per stimolarne l’interesse e la motivazione.

La terza area evidenzia il valore didattico della metacognizione, intesa come capacità di accedere ai propri strumenti cognitivi per comprenderne il funzionamento e programmarne l’attivazione specifica. L’aspetto metacognitivo contribuisce allo sviluppo di un ragionamento astratto e flessibile ed evita il consolidarsi di un sapere meccanizzato che, soprattutto nella matematica, mostra la propria limitatezza. Ciò è sufficiente a porla come obiettivo da perseguire in tutte le materie, sin dagli esordi della scolarizzazione. Importante anche la gestione del pensiero stereotipato, visto come principale responsabile di una scarsa valorizzazione dell’impegno ai fini del superamento delle difficoltà: i maschi apprendono più delle femmine, la matematica è troppo difficile, quando non riesci in matematica impegnarsi è inutile, sono solo alcuni dei luoghi comuni in grado di creare passività reattiva e fobia del numero. Fornire agli allievi un feedback rinforzante e motivato si mostra necessario anche per corroborare i costrutti di autostima e autoefficacia, utili alla costruzione dell’identità personale. Non solo come studenti, ma anche come futuri adulti. Il testo ribadisce la miopia di una visione che limita gli effetti lesivi della discalculia al solo percorso scolastico, ignorando l’esistenza di un disagio che perdura ben oltre. Da qui l’origine di una lacuna tecnico-diagnostica “colpevole” di rendere più disagevole l’individuazione e il trattamento del disturbo anche dopo la fine del ciclo di studi. In attesa che si ponga rimedio a questo inopportuno vacuum- strumentale e legislativo- una tabella riassuntiva indica gli strumenti attualmente  disponibili, in Italia, per l’esame diagnostico della discalculia acquisita nell’adulto (p. 315);

La quarta e ultima parte chiama in causa il ruolo della famiglia come elemento di alleanza e di sostegno nella trattazione del disturbo. Sin dalle prime fasi. Il genitore viene definito un osservatore privilegiato: non solo perché conosce il figlio, ma anche perché, attraverso un attento monitoraggio durante lo svolgimento dei compiti a casa, può rilevare la presenza di comportamenti specifici che a scuola, per pudore o per paura, non vengono attuati. Questa prospettiva di osservazione agevolata contribuisce a rendere più identificabili i disagi, a contestualizzare i comportamenti e ad interpretare le emozioni in un’ottica significante che potrà essere condivisa anche a scuola, in vista di un’ omogeneità applicativa degli interventi.

Considerazioni conclusive

Questa opera edita dalla Erickson non lascia nulla al caso. Merito dei numerosi esperti che hanno preso parte alla sua redazione, mettendo al servizio del lettore il prodotto delle rispettive e pluriennali esperienze. Il risultato finale è conforme alle aspettative. Ogni aspetto della discalculia -da quelli clinico-diagnostici a quelli didattici, da quelli emotivo- comportamentali fino alle inevitabili declinazioni burocratico legislative- viene trattato esaustivamente, attraverso la voce di contenuti aggiornati, completi e scientificamente validati.

A parere di chi scrive, ogni docente che desideri acquisire uno stile didattico funzionale al trattamento della discalculia non può prescindere da un’attenta lettura di quest’opera. Ma per quanto i contenuti specifici la orientino verso un pubblico didattico, la completezza e la chiarezza espositiva alla base della stessa ne rendono possibile la fruizione anche da parte di soggetti diversamente coinvolti nel trattamento del disturbo: clinici, cultori della materia, esperti nel settore. Persino non professionisti. Tra cui genitori, allievi con difficoltà di apprendimento matematico e gli stessi discalculici. Last but not least, verrebbe da dire. Proprio costoro potranno avvalersi dei numerosi contributi psicoeducativi riferiti, in una finalità di conoscenza e gestione consapevole del disturbo e dei suoi correlati.

 

Qualità del sonno, sonnolenza diurna e dispositivi elettronici a letto

Uno studio di AlShareef (2022) ha cercato di indagare l’impatto dell’uso della tecnologia prima di dormire sulla qualità del sonno e l’eccessiva sonnolenza diurna (EDS) attraverso un sondaggio sulla popolazione adulta.

 

Introduzione

Il sonno, essenziale per la nostra salute e per il nostro funzionamento quotidiano, ha un impatto sia sugli aspetti di salute pubblica che sull’economia, rendendo necessarie misure per mitigare le conseguenze delle disfunzioni ad esso legate. Ad esempio, l’eccessiva sonnolenza diurna (EDS – Excessive Daily Sleepiness) è associata ad un alto indice di massa corporea (BMI), al diabete mellito, alla depressione e a una ridotta qualità della vita (Owens et al., 2015). Un terzo degli incidenti automobilistici mortali è causato da addormentamento alla guida (CDC, 2013) e la sonnolenza sul lavoro rappresenta un significativo onere economico per l’individuo, i sistemi sanitari e i datori di lavoro (Metlaine et al., 2005).

Ad oggi, i progressi tecnologici, l’aumento degli standard di vita, la richiesta di disponibilità professionale e personale 24/7 e il cambiamento delle interazioni sociali a causa della pandemia COVID-19 hanno trasformato l’ambiente domestico. In ogni casa sono ormai molteplici i dispositivi elettronici tra cui smartphone, televisori, dispositivi tablet e computer. In particolare, lo smartphone – grazie alla sua ubiquità, portabilità e connettività – ha facilitato l’utilizzo di almeno uno strumento elettronico a letto.

In letteratura possiamo trovare molti risultati sull’utilizzo di dispositivi elettronici e qualità del sonno. Ad esempio, l’utilizzo dei dispositivi può portare perdita di sonno, modelli di sonno-veglia irregolari, qualità del sonno più scarsa ed eccessiva sonnolenza diurna, in particolare nei bambini e negli adolescenti (Saling & Haire, 2016).

I meccanismi che sono stati proposti alla base di questo collegamento sono: (1) l’esposizione alla luce a lunghezza d’onda corta (blu) che può sopprimere la secrezione di melatonina; (2) un addormentamento posticipato a causa dell’utilizzo del dispositivo (ovvero, si occupa il tempo che altrimenti sarebbe speso per dormire); e (3) aumento dell’eccitazione (mentale, fisica, e/o fisiologica) attraverso la natura del contenuto, che spesso può essere grafico, violento, emotivo o sessuale (AlShareef, 2022).

L’impatto degli smartphone sulla qualità del sonno

Dato che la maggior parte degli studi esistenti sono stati condotti su adolescenti e bambini, uno studio di AlShareef (2022) ha cercato di indagare l’impatto dell’uso della tecnologia prima di dormire sulla qualità del sonno e l’eccessiva sonnolenza diurna (EDS) attraverso un sondaggio su un’ampia popolazione di adulti dell’Arabia Saudita.

I risultati dello studio hanno mostrato che il 38% degli intervistati ha dichiarato una qualità del sonno scadente e il 15% una eccessiva sonnolenza diurna (moderata o grave); la durata media del sonno nel campione analizzato era di circa 6 ore, inferiore quindi alle 7-9 ore raccomandate per gli adulti (Khubchandani & Price, 2020).

I risultati hanno dimostrato anche che i dispositivi elettronici in camera da letto erano quasi onnipresenti, con il 95% del campione che riportava almeno un dispositivo elettronico nella propria camera da letto, di solito uno smartphone, che veniva usato regolarmente da quattro quinti degli intervistati durante l’orario in cui avrebbero dovuto dormire.

Il numero di dispositivi nella camera da letto ha mostrato una bassa associazione con i parametri della qualità del sonno, tuttavia, l’uso regolare di quasi tutti i dispositivi era associato a una ridotta qualità soggettiva del sonno.

Nonostante i risultati dello studio non possano essere generalizzati ad altri Paesi, forniscono nuove informazioni sull’altissima prevalenza dell’uso di dispositivi elettronici in camera da letto negli adulti di un paese sviluppato, un risultato che probabilmente si rifletterà in paesi altrettanto sviluppati dove quasi tutta la popolazione adulta possiede uno smartphone.

In aggiunta, i risultati dimostrano che l’uso di smartphone e tablet ha conferito un rischio di due/cinque volte superiore di ritardo nell’addormentamento (>30 minuti). Smartphone e tablet sono importanti fonti di luce blu a breve lunghezza d’onda, tipologie di luce che hanno dimostrato di sopprimere la melatonina dopo solo due ore di esposizione e portare a disfunzioni del sonno (Heo et al., 2017). Gli utenti di smartphone e tablet, che probabilmente tengono questi dispositivi vicino agli occhi e ricevono alti livelli di luce blu, possono essere particolarmente colpiti da questo fenomeno.

Inoltre, è probabile che il contenuto visualizzato su smartphone e tablet sia più stimolante di quello ricevuto per via uditiva (come la musica e la radio), motivo per cui questi dispositivi si sono dimostrati come quelli che recano più danni alla qualità e alla durata complessiva del sonno.

Nel complesso, quindi, è probabile che questi tipi di dispositivi espongano gli individui alla luce blu, al ritardo nell’addormentamento e all’aumento dell’eccitazione. Piuttosto che utilizzare esclusivamente le modalità notturne per ridurre le probabilità di interruzione del sonno, l’igiene del sonno ottimale potrebbe essere quella di non utilizzare affatto questi dispositivi prima di dormire.

Per quanto riguarda invece l’eccessiva sonnolenza diurna e l’uso della tecnologia, sono state rilevate associazioni modeste; l’uso di dispositivi elettronici a letto può contribuire alla sonnolenza diurna, ma questo sembra essere il risultato dello spostamento del sonno piuttosto che un effetto dell’esposizione alla luce blu o del contenuto stimolante.

Implicazioni relativi all’igiene del sonno

In conclusione, questo studio fornisce informazioni non solo sulla prevalenza dei problemi del sonno, ma anche sull’uso della tecnologia durante il sonno e sulle loro relazioni. I risultati rafforzano le prove attualmente limitate che l’uso di dispositivi elettronici ha un impatto sulla qualità del sonno. Alla luce dei dati presentati, si potrebbe affermare che tra adulti e adolescenti vi sia un impatto simile in termini di qualità del sonno e eccessiva sonnolenza diurna con l’uso di dispositivi elettronici a letto.

È necessario che nell’igiene del sonno venga inclusa la limitazione dell’uso dei dispositivi elettronici in camera da letto e, se il loro uso è assolutamente necessario, applicare modalità notturne per ridurre l’emissione di luce blu.

 

Consensus Conference: terapie psicologiche per ansia e depressione – Comunicato Stampa

La diffusione dei risultati della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione può rappresentare un importante contributo per il miglioramento delle politiche nel campo della salute mentale in Italia, oltre ai molteplici significati che essa riveste dal punto di vista sia culturale che scientifico.

Comunicato Stampa a cura del Comitato editoriale della Consensus Conference

 

Recentemente è stato pubblicato il documento finale della Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione, costituita con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità dopo un convegno organizzato a Padova nel novembre 2016 da Ezio Sanavio, Professore Emerito dell’Università di Padova. A quel convegno era stato invitato David Clark, che aveva presentato il programma inglese Improving Access to Psychological Therapies (IAPT), da lui promosso nel 2008 assieme a Richard Layard, docente di Economia alla London School of Economics (LSE), e poi attivato dal governo inglese: il punto di partenza di tale programma era rappresentato dall’accumularsi di prove scientifiche che dimostrano che, nel trattamento dei disturbi mentali “comuni”, ansia e depressione, la psicoterapia è spesso più efficace dei farmaci (vi è un minor numero di ricadute, i miglioramenti ottenuti sono più duraturi ed aumentano nel tempo, etc.).

Di conseguenza, come è stato calcolato alla London School of Economics, migliorando l’accesso ai trattamenti psicologici nei Servizi di salute mentale è possibile ottenere non solo un maggiore benessere per gli utenti, ma anche un guadagno per le casse dello Stato (minori assenze lavorative, minori costi indiretti dei disturbi, etc.). Per molti disturbi psicologici comuni quindi la psicoterapia – come peraltro indicato dalle principali linee-guida internazionali (inglesi, americane, australiane, etc.) prese in rassegna nel documento finale della Consensus Conference – andrebbe considerata come intervento di prima scelta, mentre spesso i medici, sia per il tipo di formazione ricevuta sia per le pressioni esercitate dall’industria farmaceutica, si limitano a prescrivere farmaci senza suggerire una psicoterapia. Sarebbe quindi nell’interesse di tutti migliorare l’accesso alle psicoterapie nei Servizi di salute mentale, assumendo psicoterapeuti (oggi presenti in numero molto limitato) e organizzando un’adeguata formazione per medici e psicologi. Oggi i pazienti che necessitano di un trattamento psicoterapeutico sono costretti a ricorrere al mercato privato, con una discriminazione di censo inaccettabile in tema di salute ed irrispettosa del dettato costituzionale.

Il Documento finale della Consensus Conference, di 117 pagine, è disponibile sul sito Internet dell’Istituto Superiore di Sanità (vi è anche una versione inglese), con una Premessa di Silvio Brusaferro (Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità) e una Presentazione di Silvio Garattini (Presidente dell’Istituto Mario Negri e della Giuria della Consensus Conference).

La diffusione dei risultati della Consensus Conference può rappresentare un importante contributo per il miglioramento delle politiche nel campo della salute mentale in Italia, oltre ai molteplici significati che essa riveste dal punto di vista sia culturale che scientifico.

Per maggiori informazioni:

Ezio Sanavio, Una Consensus Conference sulle terapie psicologiche per ansia e depressione. Psicoterapia e Scienze Umane, 2022, 56, 1: 11-20. Dopo questo articolo vi sono la Premessa di Silvio Brusaferro e la Presentazione di Silvio Garattini al Documento finale della Consensus Conference, e due documenti che perseguono obiettivi affini: un Manifesto della Salute Mentale redatto da Angelo Barbato (Istituto Mario Negri), Antonello D’Elia (Presidente di Psichiatria Democratica), Pierluigi Politi (Università di Pavia), Fabrizio Starace (Presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica [SIEP]) e Sarantis Thanopulos (Presidente della Società Psicoanalitica Italiana [SPI]), e un Progetto di implementazione degli interventi per la salute mentale che è stato proposto al Ministero della Salute dalle tre più importanti associazioni italiane di psicoterapia, il Coordinamento Nazionale Scuole Psicoterapia (CNSP), la Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP) e Società Italiana di Psicoterapia (SIPSIC); questi documenti sono open-access e linkati all’indice del n. 1/2022 di Psicoterapia e Scienze Umane.

 

L’effetto imbuto dei telomeri sui protocolli di supporto psicofisico

La scienza dei telomeri afferma che molteplici macro-fattori (nutrizionali, motori, psicologici, sociali, del sonno, etc.), seppur in maniera parzialmente indipendente, impattano nella stessa misura sulle strutture cromosomiche che determinano la nostra longevità. 

 

Una conseguenza di questa dinamica chiamata “effetto imbuto” dei telomeri (Agnoletti, 2019) è che qualsiasi intervento da parte dei professionisti del benessere psicofisico dovrebbe partire dall’analisi generale di questi macro-fattori per identificare il fattore, o i fattori, altamente vulnerabili che richiedono priorità nel percorso di supporto.

Questo paradigma emergente dallo studio dei telomeri necessita una formazione molto più integrata e trasversale rispetto ai percorsi formativi attualmente disponibili sia a livello universitario che postuniversitario, quindi è necessario implementare prima possibile queste nuove conoscenze tramite una formazione specifica dedicata.

Vediamo ora il contesto teorico- pratico di queste affermazioni.

Cosa sono i telomeri?

Per spiegare il ruolo e la funzione dei telomeri si utilizza generalmente una metafora dove i telomeri sono rappresentati dai “terminali” plastificati dei lacci delle scarpe ed i lacci stessi sono rappresentati dall’informazione genetica del nostro DNA.

La metafora aiuta a cogliere l’importanza del ruolo dei telomeri nell’evitare che il nostro contenuto genetico si “danneggi” garantendo quindi le proprietà strutturali del DNA e scongiurando di conseguenza la situazione in cui l’informazione contenuta nel nostro patrimonio genetico non sia più utilizzabile dai processi cellulari, determinando la morte cellulare stessa.

Ad ogni divisione cellulare le strutture telomeriche si accorciano progressivamente, e questo graduale e progressivo processo di accorciamento è ciò che viene comunemente chiamato “invecchiamento” cellulare.

Grazie a recenti ricerche di biologia molecolare si è anche capito che i telomeri sono supportati da uno speciale enzima, detto “telomerasi”, che parzialmente riesce a contrastare l’effetto di consumo dei telomeri aggiungendo basi alla loro struttura e limitando quindi il loro accorciamento (Andrews & Cornell, 2017; Armanios, 2013; Blackburn, 1991; Blackburn, 2010).

Quali fattori influenzano l’accorciamento dei telometri?

Mentre alcuni fattori “accelerano” l’accorciamento dei telomeri perché limitano l’azione manutentiva dalla telomerasi (pensiamo al fumare, al dormire poche ore, la sedentarietà, soffrire di distress cronico, il rimuginio frequente, la depressione, alimentarsi scorrettamente, etc.) altri fattori “rallentano” l’accorciamento standard telomerico dovuto alla replicazione cellulare perché attivano più efficacemente la telomerasi (la meditazione, una regolare attività motoria, una corretta nutrizione, una corretta qualità del sonno, etc.).

La lunghezza assoluta dei telomeri è sensibile a molti fattori quali l’esposizione a fattori stressanti negativi, il benessere psicologico, il nostro comportamento inteso come stile di vita, e molti altri fattori, inclusi anche la presenza o meno di inquinanti che contribuiscono a determinare il ritmo con il quale i nostri telomeri si accorciano (Armanios & Blackburn, 2012; Blackburn, Epel & Lin, 2015; Calado & Young, 2009; López-Otín et al. 2013).

L’obiettivo che possiamo avere anche a livello clinico è dunque quello di possedere telomeri che compiono il loro fisiologico accorciamento in maniera più lenta possibile, rafforzando la capacità di queste preziose strutture di rimanere stabili e strutturalmente efficaci in modo da prolungare il più possibile la nostra longevità residua, oltre che la qualità di vita che conduciamo (in termini anche di probabilità di sviluppare problematiche cardiocircolatorie, immunitarie, etc.) (Agnoletti, 2018a; Agnoletti, 2018b; Agnoletti, 2018c).

La lunghezza massima iniziale dei telomeri è un parametro immodificabile, ma esistono molti fattori quali lo stile di vita, le caratteristiche psicologiche, la nutrizione, la qualità della rete sociale che abbiamo e altri aspetti che influenzano la velocità di invecchiamento dell’organismo ed in ultima analisi la nostra longevità.

Per questo motivo attualmente i telomeri sono considerati il nostro orologio biologico più affidabile essendo così strettamente connesso con l’invecchiamento cellulare.

L’effetto imbuto dei telomeri

Nel 2019 ho coniato il termine “effetto imbuto” o “effetto collo di bottiglia” dei telomeri (Agnoletti, 2019) proprio per descrivere la natura convergente ed ubiquitaria di tutti i macro-fattori identificati dalla letteratura scientifica (attività motoria, nutrizione, benessere psicologico, qualità del sonno, etc.) almeno parzialmente indipendenti nei percorsi causali con i quali influenzano la lunghezza dei telomeri (più precisamente il funzionamento degli enzimi della telomerasi deputati a contrastare il “consumo” dei telomeri stessi).

Si pensi, ad esempio, a quanto possa essere diversa la traiettoria d’influenza epigenetica nell’organismo umano (percorso causale) del supporto sociale o del benessere psicologico rispetto quello nutrizionale o relativo l’attività motoria.

Malgrado presentino forti diversità, tutti questi macro-fattori determinano un cambiamento finale nella medesima struttura biologica rappresentata dalla telomerasi, che a sua volta determina la lunghezza dei telomeri.

Come conseguenza di questo fatto descritto dall’effetto imbuto, il fenomeno di accelerazione o rallentamento dell’invecchiamento telomerico sembra essere almeno in parte indipendente dal tipo di percorso informazionale “a monte” che ha prodotto il cambiamento epigenetico sui telomeri.

La letteratura scientifica attualmente disponibile, infatti, non evidenzia la dominanza di una macro-fattore “a monte” (benessere psicologico, qualità del sonno, nutrizionale, etc.) più importante rispetto gli altri nell’influenzare i telomeri, ma indica un effetto quantitativo dose-dipendente per ciascuno di essi.

Ad esempio, lo stress negativo cronico, l’esposizione prolungata a sostanze chimiche usate in ambito agricolo o relativa ai metalli pesanti comportano effetti dose dipendenti molto evidenti sui telomeri (maggiore risulta l’esposizione di questi fattori di rischio, minore sarà la lunghezza dei telomeri) ma non è emerso che uno di questi fattori influenzi più degli altri queste strutture cromosomiche.

La caratteristica di tutti i fattori sociologici, psicologici, fisiologici, nutrizionali e motori di “bersagliare” in maniera convergente i telomeri, attraverso l’influenza che hanno sulla telomerasi, non solo è importante perché ci fa comprendere come queste strutture molecolari siano sensibili alle varie “esperienze” epigenetiche legate ai diversi contesti di provenienza, ma ci suggerisce anche la natura almeno parzialmente indipendente di questa convergenza.

Le implicazioni cliniche della scienza dei telomeri

Importanti e profonde implicazioni derivano dall’applicare questo nuovo concetto di “effetto imbuto” o “effetto a collo di bottiglia” dei telomeri sia per promuovere più corretti stili di vita che per essere più efficaci sotto l’aspetto clinico (Agnoletti, 2019).

Una delle principali implicazioni cliniche è che qualsiasi professionista del benessere psicofisico (psicologi, medici, fisioterapisti, etc.) non dovrebbe prescindere dall’analisi iniziale di questi macro-fattori identificati dalla scienza dei telomeri.

Il motivo di questa indicazione, che dovrebbe essere considerata nei protocolli clinici dei professionisti del settore, è che, focalizzando l’intervento esclusivamente su uno o più fattori (per esempio psicologico o nutrizionale o di qualità del sonno) e trascurando quello, o quelli, che invece influenzano più negativamente i telomeri accelerandone i processi di invecchiamento, si rischia paradossalmente di peggiorare la longevità globale del paziente, oltre che la sua qualità di vita nel medio/lungo termine.

Se è vero, infatti, quanto indicato attualmente dalla letteratura molecolare dei telomeri e descritto dall’effetto imbuto, allora ha poco senso intervenire concentrandosi unicamente per esempio a livello psicologico, o esclusivamente a livello fisiologico, o nutrizionale, o motorio, dal momento che l’impatto ed il modo di influenzare i telomeri segue una natura convergente ed in parte autonoma e quindi indipendente.

La logica che deriva dall’effetto imbuto dei telomeri è che ciascun macro-fattore influenza in maniera almeno in parte indipendente la loro struttura, quindi la metafora che potremmo e dovremmo adottare è quella di una catena dove ciascun macro-fattore rappresenta un anello e il benessere e la qualità di vita sono rappresentati dall’intera catena.

Se la metafora della catena coglie la natura convergente e parzialmente indipendente dei telomeri, ne segue che per prima cosa, per valutare la “forza” globale del nostro benessere e la nostra salute, occorre identificare l’anello, o gli anelli, più deboli perché la natura di questa architettura implica che “la catena è forte quanto il più debole dei suoi anelli”.

In altri termini i professionisti del benessere e la salute umana dovrebbero implementare nei loro rispettivi protocolli l’indicazione emergente dalla scienza dei telomeri relativa la necessità iniziale di identificare quale fattore, o quali fattori, rappresentano una maggiore vulnerabilità nei confronti delle strutture telomeriche per poi definire un percorso di supporto coerente con questa analisi.

Di conseguenza a quanto descritto, anche se in genere la formazione attuale dei professionisti continua ad essere iperspecialistica e focalizzata sullo studio delle dinamiche molecolari, vi è la necessità di integrare il prima possibile all’interno dei diversi percorsi formativi queste specifiche conoscenze trasversali caratterizzate da un approccio altamente integrato ed olistico.

 

Il modello della Self-Regulation per individuare sottogruppi di pazienti con Fibromialgia – Report

Nella giornata mondiale della Fibromialgia che si celebra oggi, presentiamo ai nostri lettori una ricerca condotta sull’argomento e presentata al Forum di Ricerca in Psicoterapia delle scuole affiliate al Gruppo Studi Cognitivi.

 

Lo studio in questione, presentato durante il Forum dal Dott. Michael Tenti e condotto da M. Tenti, W. Raffaeli, V. Malafoglia, M. Paroli, C. Gioia, C. Iannuccelli e P. Gremigni,  rientra in un più ampio progetto di ricerca il cui scopo è quello di individuare i marcatori biologici, psicologici e sociologici della sindrome fibromialgica, in modo da poterla differenziare da altre sindromi e, al contempo identificare, all’interno della stessa sindrome, popolazioni differenti di pazienti con caratteristiche e bisogni diversi.

Nella fattispecie, la ricerca presentata dal Dr Tenti, è rivolta alla rilevazione di eventuali marcatori psicologici della fibromialgia, che permettano di identificare diversi sottogruppi di pazienti, le cui differenze in termini psicologici possano spiegare differenti livelli di adattamento alla patologia.

Cos’è la fibromialgia: un’introduzione teorica allo studio

La fibromialgia è una sindrome dolorosa cronica con una presentazione clinica altamente  eterogenea. Non a caso è spesso nota come “malattia dei 100 sintomi”. Seguendo la distinzione dell’ICD 11 tra dolore cronico primario (non associato ad altre condizioni mediche) e secondario (associato ad altre condizioni mediche), la fibromialgia rappresenta una forma di dolore cronico primario, in particolare diffuso in 4/5 regioni anatomiche da almeno 3 mesi. Sono 2 milioni le persone in Italia che ne soffrono, la maggior parte delle quali tra i 35 e 55 anni e donne (anche se si pensa che vi sia una sottostima del numero di uomini che ne soffrono). L’eziopatogenesi risulta complessa e multifattoriale e non ancora chiarita, così come complesso e “debole” risulta il processo diagnostico.

Da queste difficoltà nasce il progetto di ricerca intento a identificare i marcatori della fibromialgia (la cui esistenza, ricorda il dr Tenti, è ancora oggi messa in dubbio). Molto spesso il trattamento, che prevede una parte di educazione alla patologia, strategie non farmacologiche (più raramente interventi farmacologici), psicoterapia e terapie multimodali, si mostra poco efficace e ciò fa della fibromialgia una sindrome cronica o recidivante remittente. Essa risulta quindi una delle sindromi dolorose croniche a cui più difficile adattarsi.

Il modello della Self-Regulation

Le tante manifestazioni cliniche della fibromialgia – ricorda il dott. Tenti nel corso della presentazione – hanno quindi condotto i ricercatori a pensare che, individuando potenziali sottogruppi di pazienti, si possano ideare migliori strategie di intervento e trattamento.

Uno dei limiti in questo campo di ricerca è però la mancanza di strumenti affidabili in quanto non supportati da un solido modello teorico di riferimento. Questo ha portato il gruppo di ricerca del Dr Tenti a rivolgere la loro attenzione al modello della SELF-REGULATION, una delle teorie più applicate nel campo della psicologia della salute, ampiamente validata ed estesa allo studio di altre patologie quale il dolore cronico.

Nato in ambito cognitivista negli anni 80, il modello della Self-Regulation prevede che tutti i pazienti raccolgano informazioni sulla propria malattia, cercando di integrarle tra loro e di inserirle in schemi cognitivi pre-esistenti in modo da sintetizzarle e costruire una rappresentazione coerente della propria condizione, sia da un punto di vista cognitivo che emotivo. In questo modo il paziente riesce a dare un senso alla patologia e orientare efficacemente le strategie di coping personali con un conseguente impatto sugli esiti della malattia.

Il modello della Self-Regulation prende questo nome proprio perché parte dal presupposto che gli individui siano motivati a raggiungere uno stato di assenza dei sintomi, motivazione che li porta a raccogliere informazioni sulla patologia e ad autoregolarsi in base alle convinzioni sulla patologia e alla rappresentazione che sviluppano di questa.

Le dimensioni del modello della Self-Regulation sono state operazionalizzate in un questionario, l’Illness Perception Questionnaire, che valuta la rappresentazione di malattia tramite 3 sezioni:

  • identità della malattia (i sintomi che per i pazienti rappresentano di più la loro malattia);
  • opinioni sulla malattia (credenze e idee differenti sulla malattia, sulla gravità, sulla cronicità, sulle conseguenze, sul controllo personale, sull’impatto emotivo ecc);
  • possibili cause della malattia.

Fibromialgia e self-regulation: lo studio

Dopo questa introduzione teorica, il Dr Tenti passa a illustrare lo studio. Obiettivo della ricerca è, come già anticipato, individuare sottogruppi di pazienti fibromialgici in base alla rappresentazione di malattia usando il modello della Self-Regulation, e indagare le potenziali differenze tra i sottogruppi in termini di intensità del dolore, disagio emotivo, funzionamento nella vita quotidiana, catastrofizzazione e accettazione del dolore.

Lo studio rientra in un’indagine più ampia, i cui partecipanti sono stati reclutati nel periodo da marzo 2018 a marzo 2019 tra i pazienti con fibromialgia seguiti dall’ Unità Operativa di Reumatologia del Policlinico Umberto I. Il sottocampione selezionato per la ricerca è costituito da un totale di 53 persone.

Sono state raccolte informazioni sociodemografiche, informazioni sulla durata del dolore, sui trattamenti attuali e sull’intensità del dolore (registrata tramite scala a 10 punti poiché purtroppo, ad oggi, mancano misure oggettive del dolore). Altre variabili valutate sono inoltre: il funzionamento quotidiano e l’impatto della fibromialgia (tramite Fibromyalgia Impact Questionnaire), la rappresentazione di malattia (tramite Illness Perception Questionnaire), la tendenza alla catastrofizzazione (tramite la sottoscala apposita del Coping Strategies Questionnaire), l’accettazione del dolore (col Cronic Pain Acceptance Questionnaire) e il disagio emotivo (tramite la Depression, Anxiety and Stress Scale).

I risultati mettono in luce una correlazione tra l’intensità del dolore e l’impatto complessivo della fibromialgia (maggiore compromissione del funzionamento quotidiano) e la tendenza a catastrofizzare. L’intensità del dolore tuttavia non correla né con la sintomatologia depressiva, né con quella ansiosa. Le dimensioni del disagio emotivo, invece, correlano più significativamente con altre dimensioni psicologiche (come la tendenza a catastrofizzare e la non accettazione del dolore).

Dall’analisi dei dati è inoltre emersa una possibile suddivisione del campione in due cluster (Gruppo A e Gruppo B). Il Gruppo A si contraddistingue per una rappresentazione più negativa della malattia, maggiormente cronica e con peggiori conseguenze sul funzionamento quotidiano dell’individuo. La percezione del controllo (personale e dovuto al trattamento) è inoltre minore nei pazienti di questo gruppo, mentre maggiore risulta l’impatto emotivo negativo della malattia.

Non emergono differenze tra i due gruppi in termini di percezione della durata ciclica della patologia e della coerenza dei sintomi.

È importante notare come non vi siano differenze tra i due gruppi in base all’intensità e alla durata del dolore, quindi ciò che li differenzia maggiormente sono proprio le variabili di tipo psicologico (il livello di funzionamento quotidiano, l’impatto complessivo della fibromialgia, il disagio emotivo in termini di depressione e ansia, la tendenza a catastrofizzare e l’accettazione del dolore).

Dunque, in linea con altri dati della precedente letteratura, i pazienti con maggior disagio emotivo non sono quelli con dolore più intenso o duraturo, ma quelli con una peggiore rappresentazione di malattia, maggiore tendenza alla catastrofizzazione e minore accettazione.

Comprendiamo quindi quanto la ricerca qui esposta abbia un grandissimo potenziale nell’individuazione di marcatori psicologici della fibromialgia, fondamentali per un trattamento sempre più efficace di una patologia ad oggi ancora oggetto di dibattito tra i medici ma soprattutto – non dimentichiamolo – causa di profonda sofferenza per i pazienti.

 

Fear of missing out (FoMO) e uso di internet: una meta-analisi 

Una recente meta-analisi di Akbari, Seydavy, Palmieri, Mansueto, Caselli e Spada (2021) ha preso in esame 86 studi che si sono occupati di Fear of Missing Out e uso di internet e che si sono svolti dal 2013 al 2021.

 

La Fear of Missing Out (FoMO)

La proliferazione della tecnologia ha consentito un vasto accesso a Internet attraverso gli smartphones e non solo, con indubbi benefici e opportunità, seppur implicandone alcuni costi tra cui un potenziale utilizzo eccessivo e/o inopportuno.

Alcuni studi hanno messo in evidenza la relazione tra l’eccessivo uso di internet e diversi sintomi psicopatologici, tra cui ansia e depressione (Demirci, Akgonul, & Akpinar, 2015; Elhai, Dvorak, Levine, & Hall, 2017) solo per citarne alcuni. Alcune persone possono esperire quel che in letteratura viene definito ’nomophobia’ (“no mobile phone phobia”), e cioè la paura di essere e rimanere separati dal proprio smartphone (King et al., 2014). Alcuni recenti studi hanno anche approfondito la questione dal punto di vista neurobiologico: un eccessivo uso di internet può esitare in cambiamenti nell’anatomia cerebrale (con la diminuzione strutturale di alcune aree cerebrocorticali e impattare sui circuiti dopomaninergici della ricompensa – Tripathi, 2017).

Tra gli aspetti che stanno riscuotendo molto interesse in questo ambito ritroviamo il fenomeno etichettato attraverso l’espressione “FoMO”, “Fear of Missing Out” (Przybylski et al., 2013) che è concettualizzato come il timore di essere “tagliati fuori” e implicante la tendenza pervasiva a rimanere connessi con ciò che stanno facendo gli altri e a vivere le proprie esperienze in connessione con gli altri attraverso i social network.

L’associazione tra l’uso di internet e la FoMO nell’ambito della ricerca psicologica è oggetto di grande interesse, poiché ad esempio tale fenomeno può predisporre a un eccessivo uso di internet e correlarsi a sintomi di natura psicopatologica (Elhai et al., 2020; Kuss & Griffiths, 2017; O’Connell, 2020; Wang, Wang, Yang, et al., 2019; Wolniewicz et al., 2018). Allo stesso tempo, l’eccessivo uso di internet può ulteriormente amplificare il livello di FoMO (Fernandez, Kuss, & Griffiths, 2020), andando a ingenerare circoli viziosi disfunzionali per l’individuo.

Se quindi possiamo considerare la FoMO come un fattore di rischio predisponente per un uso eccessivo e disfunzionale di internet, tuttavia i risultati dei diversi studi sono variabili e non sempre coerenti tra loro, e la traiettoria di tale relazione bidirezionale rimane comunque ancora poco chiara (Elahi et al., 2021).

Una meta-analisi su FoMO e uso di internet

Una recente meta-analisi di Akbari, Seydavy, Palmieri, Mansueto, Caselli e Spada (2021) ha preso in esame 86 studi che si sono occupati di questo tema e che si sono svolti dal 2013 al 2021. Tali ricerche hanno coinvolto nel complesso un totale di 55.134 soggetti. La meta-analisi è stata svolta in accordo con il metodo Preferred Reporting Items for Systematic Reviews and Meta-Analyses (PRISMA).

I soggetti partecipanti agli studi considerati avevano un’età media di 22 anni (SD = 6.15), e in percentuale per il 58.37% erano femmine. Gli studi presi in esame sono stati svolti in diversi paesi, con le seguenti percentuali: 45%, 32%, 19%, and 4% rispettivamente in Asia, Europa, Stati Uniti e Oceania.

In particolare, la review ha anche voluto approfondire la relazione tra FoMO e utilizzo di specifici social network, come ad esempio Facebook e Instagram. Infine, prendendo in considerazione la pandemia da COVID-19 come un evento stressante per la collettività a livello globale, si sono comparati gli studi pre e post pandemia per valutare il possibile impatto di tale condizione stressante come moderatore dell’associazione tra FoMO e utilizzo eccessivo di Internet.

I risultati della meta-analisi hanno evidenziato che la magnitudo dell’associazione tra la FoMO di tratto e l’utilizzo di Internet presenta una elevata eterogeneità tra gli studi, ovvero varia da r = 0.11 a r = 0.63  con un ampio margine di variabilità nelle popolazioni di individui partecipanti alle ricerche prese in esame.

Quindi il fenomeno FoMO sembra avere un ruolo rilevante nell’uso di Internet, anche se non vi sono evidenze di un’associazione bidirezionale statisticamente significativa rilevata in maniera coerente e consistente tra gli studi presi in esame. Inoltre, per spiegare tale associazione, non sembra esserci nessun ruolo giocato dalla gravità della FoMO (livelli maggiori o minori di gravità di tale fenomeno non impattano nell’associazione tra lo stesso e l’uso di internet); anche per quanto riguarda le fasce di età dei partecipanti, non si sono riscontrate differenze nella magnitudo della relazione tra la FoMO e l’uso di Internet, ad esempio tra adulti e teenagers.

In considerazione della sintomatologia psicopatologica, uno degli aspetti più importanti da sottolineare emersi dalla meta-analisi è che la correlazione tra FoMO e utilizzo di Internet non appare essere moderata in modo significativo dalla presenza di sintomi depressivi, ansiosi o da maggiori livelli di stress, né da un minore o maggiore livello di soddisfazione di vita. L’uso del social network Facebook non sembra essere un fattore particolarmente correlato al fenomeno di FoMO, mentre dalla meta analisi sono emersi dati a supporto di un maggiore livello di Fear of Missing Out e l’interruzione dell’uso di Instagram in alcuni individui.

Di fatto, la variabile chiave identificata dallo studio come un moderatore nella relazione FoMO e uso di internet sarebbe riferita alla pandemia da COVID-19. In tal senso la pandemia avrebbe agito come una rafforzatore di tale associazione, andando a rendere più intensa la correlazione tra il fenomeno FoMo e l’utilizzo di Internet rispetto al periodo temporale prepandemico.

Questo risultato è in linea con la Compensatory Internet Use Theory (CIUT; Kardefelt Winther, 2014) dal momento che è plausibile ipotizzare che i soggetti abbiano utilizzato Internet nel periodo pandemico per compensare la soddisfazione di bisogni inappagabili attraverso altre modalità e come strategia di coping per avere sollievo dalle emozioni negative durante i periodi di isolamento e restrizioni sociali.

 

La costruzione della coppia in un’ottica sistemico-relazionale

Ciascun membro della coppia arriva dalla sua famiglia, portando con sé il proprio bagaglio di storia, generazione e stirpe.

 

Questo spesso viene dimenticato dalle persone che si concentrano molto di più nel cercare di costruire una coppia autonoma, indipendente e a tratti anche possibilmente scollegata dalla propria storia familiare, per consacrare un legame duale che ricerchi il soddisfacimento del bisogno di autoaffermazione e, più narcisisticamente, la realizzazione del sé attraverso la coppia stessa.

Questo è avvenuto maggiormente negli ultimi anni della nostra epoca: nelle generazioni dal dopoguerra fino agli anni 70-80, invece, le relazioni di coppia si basavano sulla ricerca della protezione almeno da parte della donna, sposarsi significava crearsi uno status, creare alleanze tra famiglie, tramandare ruoli e mestieri; oggi si può dire che tale motivazione sia scemata in favore della ricerca della felicità personale, dell’autodeterminazione e della condivisione di un progetto di autorealizzazione.

Questo si vede anche simbolicamente con la forte diminuzione dei matrimoni celebrati in chiesa, che lasciano spazio alle unioni e alle convivenze.

La coppia e la nascita del figlio

Quando la coppia diventa generativa e nasce un figlio, la coppia di genitori viene chiamata a nuovi compiti: l’individuo deve misurarsi inevitabilmente con la propria storia familiare, è chiamato a ridefinire la propria posizione come figlio/figlia e a riconnettersi rispetto al ruolo nuovo di essere a sua volta genitore.

La nascita del bambino inoltre porta con sé una serie di significati:

  • Primo, la possibilità e la potenza di ciascun membro della coppia di essere generativo, quindi il divenire padre e madre;
  • Secondo, la responsabilità educativa verso il piccolo e l’affiorare di modelli genitoriali sperimentati in precedenza (quelli dei propri genitori e delle famiglie di origine) ai quali si finisce per ispirarsi o a contrapporsi.
  • Terzo punto, il significato più intimo che il figlio rappresenta per l’individuo che lo ha generato; nel nuovo contesto storico, ad esempio, il figlio è visto come una quota nella realizzazione personale e/o elemento che favorisce la riuscita della realizzazione della coppia stessa (addirittura a volte il legame con il nuovo nato può rimpiazzare la coppia stessa).
  • E, non da ultimo, grandissima importanza riveste l’attribuzione che la coppia dà a quel figlio: la sua nascita in un particolare momento della storia di coppia, o della storia familiare, dopo lutti, accadimenti, date, ricorrenze, o eventi che hanno un significato particolare per quella famiglia o per quella coppia…il contesto e il sistema di valori nel quale il bimbo viene ad inserirsi.

Passaggio da due a tre

La coppia perciò, da una fase duale, “io/tu”, si trova ad accogliere il terzo e a dover così per forza rinegoziare scambi, spazi, attenzioni, affetti, rimodulandosi nel nuovo mondo, cercando di non perdere quello che si era costruito faticosamente prima.

Nella maggioranza dei casi il bimbo avrà una speciale attenzione da parte della madre, fonte delle cure primarie, che potrà far inizialmente sentire il padre escluso e, a volte, impotente; il nuovo assetto richiede tempo per un accomodamento di tutti i suoi componenti.

Il ruolo fondamentale del padre sarà, nel tempo, non quello di stare fuori dalla diade, ma di cercare di riavvicinarsi alla sua compagna e al legame originario stabilito con lei, rispettando la sua nuova posizione di mamma e a sua volta sperimentandosi come figura paterna.

Una parte difficilissima, insomma, quella richiesta al compagno, che spesso nelle dinamiche del post parto viene accantonato e relegato a “guardare” lo speciale momento che si crea nella diade madre/figlio. Ecco invece che egli è parte attiva in tutto questo: la sfida sarà non intromettersi ma entrare nella loro “membrana” e farne parte, in modo tale che tutti i membri continuino ad essere generativi nella reciprocità.

 

La gelosia su Facebook e la violenza da parte del partner

Sebbene Facebook e i social network in generale possono facilitare l’incontro con un partner e il mantenimento di una relazione a distanza, è possibile anche che si creino tra i partner alcuni conflitti legati all’infedeltà sui social, alla gelosia e all’estremo controllo

 

Social network e gelosia

I siti di social network (SNS) hanno modificato profondamente il modo in cui comunichiamo e interagiamo con gli altri, sia nelle relazioni amicali che in quelle romantiche. Facebook, per esempio, è utilizzato dal 71% di giovani di età compresa tra i 13 e i 17 anni e dall’88% di età dai 18 ai 29 anni. Per tale ragione la ricerca scientifica ha recentemente approfondito come le relazioni romantiche possono essere influenzate dal crescente utilizzo dei social (Lenhart, 2015). I primi risultati indicano che l’uso di Facebook può portare a facilitare l’inizio e lo sviluppo di una relazione e ad un mantenimento più semplice della relazione a distanza. Gli effetti però non sono sempre positivi, è possibile anche che si creino tra i partner alcuni conflitti legati all’infedeltà sui social, alla gelosia e all’estremo controllo: le informazioni sul partner accessibili su Facebook sono moltissime e ciascuna di queste può diventare un potenziale motivo di gelosia. Post o foto di precedenti partner, l’aggiunta di amici attraenti e tanti altri comportamenti possono innescare sospetti ed essere possibili minacce per la relazione; le informazioni infatti non sono soltanto facilmente disponibili tramite i social network, ma spesso immagini e commenti possono essere mal interpretati se sono decontestualizzati (Fox, 2016).

Facebook e violenza da parte del partner

Diversi studi hanno infatti dimostrato che Facebook può suscitare gelosia e che quest’ultima è direttamente proporzionale al tempo trascorso sul social in quanto aumenta la probabilità che gli utenti siano esposti a contenuti che la scatenano (Muise et al., 2009). Utilizzando la manipolazione sperimentale dei parametri dei social network, come le impostazioni della privacy, l’uso di emoticon, e gli indizi non verbali (e.g. le immagini) vari contesti online hanno dimostrato di suscitare in modo diverso gelosia ed emozioni negative. Tra i vari modi in cui i social network possono potenzialmente complicare le relazioni romantiche, Facebook può contribuire alla perpetrazione della violenza da parte del partner (IPV); la gelosia può essere infatti seguita da sorveglianza elettronica che può degenerare in comportamenti più controllanti e coercitivi; inoltre è spesso identificata sia dagli uomini che dalle donne come una ragione per spiegare i comportamenti aggressivi verso un partner (Caldwell, 2014). Pochi studi si sono concentrati però sulla gelosia su Facebook e il suo potenziale ruolo nello spiegare alcuni risultati relazionali negativi associati all’uso dei social media; è necessario infatti specificare che la gelosia su Facebook è un costrutto correlato ma diverso dalla gelosia di tratto e da altri aspetti dell’esperienza generale della gelosia. Inoltre gli studi che hanno esplorato il legame tra gelosia e violenza da parte del partner hanno raccolto i dati di solo un membro della coppia, escludendo la possibilità che i comportamenti violenti di un partner possano essere scatenati anche come conseguenza dei sentimenti di gelosia dell’altro: considerare la gelosia di entrambi i membri può aiutare ad esaminare i contesti nella coppia che alimentano la violenza da parte del partner nelle giovani coppie.

Gelosia su Facebook e violenza da parte del partner: lo studio

Nel 2018, Daspe e colleghi hanno condotto due studi con l’obiettivo di esplorare il ruolo dell’uso di Facebook e della gelosia su Facebook nella perpetrazione di violenza da parte del partner offline tra gli adolescenti e i giovani adulti. Nel primo studio gli autori hanno esaminato il ruolo di mediazione della gelosia su Facebook nell’associazione tra l’uso di Facebook e la perpetrazione della violenza da parte del partner, ipotizzando un’associazione diretta e positiva tra l’uso di Facebook e violenza, mediata dalla gelosia di Facebook. Nel secondo studio hanno approfondito l’associazione tra gelosia di Facebook e violenza da parte del partner da una prospettiva diadica, utilizzando i dati di entrambi i partner romantici, ipotizzando che la gelosia di Facebook propria e del partner fosse positivamente associata alla perpetrazione della violenza da parte del partner e che la gelosia di Facebook di entrambi i partner interagisse per prevedere la perpetrazione della violenza da parte del partner. Nello specifico si aspettavano che l’associazione tra la propria gelosia su Facebook e la violenza da parte del partner fosse più forte quando il partner mostrava alti livelli di gelosia su Facebook. Nel primo studio 1508 partecipanti hanno quindi completato un sondaggio online che comprendeva la Facebook Jealousy Scale (Muise et al., 2009) e la Revised Conflict Tactics Scale (CTS2; Straus et al., 1996) per valutare l’uso di Facebook, la gelosia su Facebook e la perpetrazione di violenza da parte del partner . Nel secondo studio si è utilizzata una prospettiva diadica per indagare il contributo congiunto della gelosia di Facebook di entrambi i partner alla perpetrazione della violenza da parte del partner in un campione di 92 giovani (46 coppie). I risultati mostrano che la gelosia di Facebook è un fattore fondamentale che può perpetrare la violenza da parte del partner: nel primo studio tale gelosia è risultata essere un mediatore significativo della relazione tra l’uso di Facebook e violenza. Nel secondo studio i risultati indicano invece un’interazione significativa tra la gelosia su Facebook propria e del partner. Nello specifico la propria gelosia su Facebook era associata alla perpetrazione della violenza da parte del partner solo ad alti livelli di gelosia del partner su Facebook. Infine le associazioni tra uso di Facebook, gelosia su Facebook e violenza da parte del partner sono risultate essere simili sia per gli uomini che per le donne. Tali risultati suggeriscono quindi che i comportamenti online hanno implicazioni significative per i conflitti offline e l’aggressione nelle relazioni intime; In aggiunta, nella ricerca sulla violenza da parte del partner bisognerebbe considerare anche i fattori di rischio online tra cui la gelosia legata a Facebook. È necessario infine affrontare gli esiti relazionali negativi che possono derivare dall’eccessivo utilizzo dei social network, sensibilizzare i giovani sui modi in cui i social possono modellare alcuni atteggiamenti e comportamenti nelle loro relazioni e promuovere relazioni sane ed egualitarie dei giovani (Daspe et al., 2018).

 

Accesso alle psicoterapie e qualità del trattamento: il bando “Vivere meglio”

Anche ai cittadini e al grande pubblico può interessare la controversia nata in queste settimane intorno all’iniziativa “Vivere Meglio” dell’ENPAP. La discussione sta generando una riflessione sul ruolo di psicologi e psicoterapeuti nel servizio sanitario nazionale e sulle ricadute che il servizio offerto avrà per i pazienti

 

Anche ai cittadini e al grande pubblico può interessare la controversia nata in queste settimane intorno all’iniziativa dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”. Si tratta di una discussione che sta generando una riflessione sul ruolo e sulla definizione degli psicologi e degli psicoterapeuti nel servizio sanitario nazionale e che avrà ricadute anche per i pazienti e sul servizio che verrà loro offerto.

Di che si tratta? È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche e individuati dalla Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità.

L’interesse dei cittadini dovrebbe essere il possibile passo avanti verso la salute emotiva della popolazione generale. Ansia e depressione sono disturbi diffusi e che colpiscono le persone nel pieno della loro vita lavorativa e familiare. Inoltre, si tratta di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti di una Consensus Conference. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

A fronte di questi aspetti positivi, ve ne sono altri meno convincenti. Quello che genera più controversie è il fatto che il bando distingue tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia. Il timore è che si crei una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici in cui si rischi di far effettuare a psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità. Vi è poi una seconda preoccupazione, che è quella della qualità della selezione e dell’invio dei pazienti al trattamento, selezione che avverrebbe in termini che ora sembrano corrispondere a un semplice screening e ora sembrano prevedere un’intervista psicodiagnostica; infine il terzo timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione che fornisce la borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente superficiale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta.

Le risposte a queste perplessità, fornite da Paolo Michielin, uno dei curatori del Protocollo Diagnostico e Terapeutico, sono che gli interventi a bassa intensità che sono stati assegnati agli operatori non psicoterapeutici effettivamente non costituiscono psicoterapia essendo solo informazione, psicoeducazione, auto-aiuto e interventi a bassa intensità, che la formazione e la supervisioni non sono superficiali ma specifiche per operatori già formati e infine che lo screening si integra con interviste psicodiagnostiche per ottenere più rigorosità.

Dall’altro lato varie società scientifiche di psicoterapia, come CBT-Italia o la SITCC, o organi di rappresentanza e collegamento come la Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, ribadiscono che gli interventi proposti dal progetto, per quanto definiti a bassa intensità, sono interventi di psicoterapia essendo rivolti a pazienti con diagnosi di disturbi psico-patologici e finalizzati a curarne la sintomatologia. Da qui ne risulterebbe uno scadimento di qualità e di credibilità della professione.

Il vero problema è che l’iniziativa ENPAP si inserisce proprio nella ancora carente condizione giuridica in Italia della professione di psicoterapeuta, definita ancora oggi come un livello della formazione e non propriamente una professione diversa da quella psicologica. All’interno di questa ambiguità e forse in parte proprio per questo, la professione psicoterapeutica in Italia non si sottopone ancora a pratiche formalizzate di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione continua dopo quella fornita dalle scuole e supervisione. L’operazione ENPAP nasce anche con questo intento, anche se indubbiamente propone forme di selezione, formazione, supervisione e monitoraggio discutibili. E tuttavia si tratta di una iniziativa che va a coprire una lacuna del servizio psicoterapeutico italiano, ancora in larghissima praticato in Italia nelle forme dell’artigianato privato dello psicoterapeuta singolo nel suo studio. Al contrario, questa iniziativa è ispirata dalla consolidata esperienza inglese di psicoterapia nel servizio sanitario pubblico dello IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) di cui si conoscono vantaggi, difetti, esiti e rapporto costi/benefici. Inoltre, non va dimenticato che l’operazione proposta da ENPAP potrebbe rappresentare un’iniziativa importante per offrire accesso alle terapie psicologiche a cittadini che, pur avendone bisogno, non potrebbero farlo per limitate disponibilità economiche. 

Forse la vera risposta degli organi di rappresentanza degli psicoterapeuti ai limiti di questa esperienza sarebbe quella di introdurre in essa pratiche formalizzate più rigorose e più intense di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione e supervisione. Chiedere una distinzione più netta tra informazione, psico-educazione, auto-aiuto da un lato e psicoterapia a bassa o maggiore intensità dall’altro è giusto e legittimo ma limitarsi a fare solo questo non si qualificherebbe come un segnale di comprensione del significato dell’iniziativa e come un contributo al suo miglioramento.

Master semestrale: tecniche di regolazione delle emozioni – I Edizione Online, Settembre 2022

Tra settembre 2022 e marzo 2023 si terrà online la prima edizione del master in tecniche di regolazione delle emozioni

Perché un master sulla regolazione delle emozioni

Se pensiamo al nostro vissuto quotidiano, ai nostri ricordi e ai motivi per cui una persona solitamente accede ad uno studio di psicoterapia, possiamo riconoscere come il tema della comprensione e regolazione delle emozioni difficili sia tanto trasversale quanto cruciale. Per quanto accadano eventi, incontri e situazioni diverse, sono le emozioni che sembrano causarci spesso le difficoltà che incontriamo nella nostra vita. O meglio, il nostro modo di relazionarci ad esse, di negarle, ingigantirle o contrastarle è la costante di quel che definiamo sofferenza psicologica.

Molti studi evidenziano da un lato come il disagio emotivo sia forse il problema presentato più ricorrente nelle parole dei pazienti. E dall’altro lato, che i così definiti i disturbi emotivi (es. ansia, depressione, etc.) rappresentano di gran lunga la macro-categoria diagnostica più ricorrente negli studi di psicoterapia. Ciononostante, è assai difficile definire in maniera chiara cosa siano le emozioni!

A prescindere dall’approccio o dal setting terapeutico, chiunque lavori nella salute mentale non può non includere nel proprio bagaglio professionale le teorie e le tecniche finalizzate alla regolazione delle emozioni. Purtroppo, data la vastità e trasversalità del tema i terapeuti si scontrano spesso con due alternative poco percorribili per la propria crescita: ridurre al minimo le strategie di regolazione note o imbarcarsi in infiniti training e certificazioni. Nasce da qui la decisione di creare un percorso formativo articolato e integrato, in grado di raccogliere le basi dei più recenti sviluppi sulle teorie e le tecniche finalizzate alla regolazione delle emozioni.

Tages Onlus, Centri Clinici Tages e Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC/SPC hanno quindi deciso di sviluppare un curriculum che fosse primariamente utile al nostro lavoro quotidiano, nella convinzione che una formazione direttamente orientata alla pratica sarebbe poi stata di interesse anche per altri colleghi. È nato così il primo master italiano online sulla regolazione delle emozioni, a cui prendono parte clinici e docenti esperti, nazionali e internazionali, accomunati dal desiderio di aiutare i propri pazienti a sviluppare strategie sostenibili ed efficaci nel confrontarsi con le proprie emozioni.

Piano didattico e docenti

L’obiettivo del master è quello di formare chi quotidianamente si occupa di salute mentale alla comprensione e regolazione delle emozioni difficili dei propri pazienti in contesti sia pubblici che privati. Al termine del corso i partecipanti avranno acquisito le competenze teoriche e pratiche necessarie per comprendere il funzionamento emotivo del paziente e per attuare l’intervento psicoterapeutico ritenuto più efficace per la problematica presentata.

I docenti guideranno gli iscritti nella formulazione del caso, nella comprensione delle tecniche e dei protocolli evidence-based e nella complessa ed articolata elaborazione di un piano terapeutico. Particolare attenzione verrà dedicata alla declinazione operativa dei modelli presentati nella pratica clinica, tramite strumenti teorici basati sui più recenti approcci terapeutici e tecniche esperienziali, immaginative e corporee fondamentali nella regolazione delle emozioni difficili. Particolare attenzione è dedicata alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda (DBT, RO DBT, EMDR, Sensorimotor, CFT, MBCT, TMI, ST, MSC, etc.) che hanno grandemente contribuito al moderno approccio alla regolazione emotiva. La modalità didattica è fortemente interattiva e prevede numerose esercitazioni pratiche, role-playing e discussioni su casi clinici per favorire l’interazione tra docenti e partecipanti.

Il master ha una durata semestrale e si svolgerà tra settembre 2022 e marzo 2023 per un totale di 12 giornate di lezione suddivise in 4 moduli. Durante le 48 ore di formazione si alterneranno alcuni tra i massimi esperti internazionali di psicoterapia rivolta alla sofferenza emotiva: Tobyn Bell, Antonella Centonze, Simone Cheli, Todd Farchione, Robert Hindman, Chris Irons, Cecilia La Rosa, Thomas Lynch, Renato Mazzonetto, Matthe Pugh, Ilaria Riccardi, Zindel Segal.

Al termine del corso i partecipanti riceveranno l’attestato del corso “Master in Tecniche di Regolazione delle Emozioni”.  Compatibilmente con la verifica della frequenza effettiva ad esse, verrà rilasciato un ulteriore attestato di partecipazione alle lezioni tenute dal Prof. Todd Farchione sul Protocollo Unificato per i disturbi emotivi (certificazione ufficiale UP Institute per il Training Introduttivo).

 

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La relazione medico-paziente nel setting medico

Il paziente segue più facilmente il percorso terapeutico nella misura in cui è soddisfatto delle spiegazioni ricevute e ha compreso fino in fondo in maniera inequivocabile quanto gli è stato detto dal medico, la relazione medico-paziente ha quindi un ruolo fondamentale.

 

Abstract

Esistono differenti fenomenologie di pazienti nel contesto medico, che richiedono degli approcci relazionali diversificati. Fra di essi si possono citare il paziente oppositivo, il manipolativo, il richiedente, l’irascibile, il piacevole e quello che “sa tutto”. L’adesione del paziente al trattamento terapeutico proposto dipende da più fattori, rapportabili alle caratteristiche di personalità del paziente, a quelle del medico e agli aspetti comunicazionali che si strutturano nel rapporto fra chi cura e chi è curato.

Keywords: pazienti, medici, aderenza terapeutica.

Le differenti fenomenologie dei pazienti

La gamma dei pazienti che si interfacciano con i contesti di cura è polimorfa. Infatti, in accordo con Ripamonti (2015), possiamo avere differenti tipologie di pazienti nel setting medico, come ad esempio:

  • il paziente oppositivo;
  • il paziente manipolativo;
  • il paziente richiedente;
  • il paziente irascibile;
  • il paziente piacevole;
  • il paziente che “sa tutto”.

Spesso il confrontarsi con le differenti tipologie di pazienti, che presentano caratteristiche relazionali diversificate, può elicitare nel medico delle condizioni di disagio. Infatti,

le difficoltà relazionali che derivano dall’interazione con determinate tipologie di pazienti possono non solo interferire con il processo terapeutico, ma anche aumentare i livelli di distress del medico […]. La consapevolezza che atteggiamenti e comportamenti disfunzionali del paziente non dipendano necessariamente dall’interlocutore può aiutare il medico […] a vivere con maggiore distacco emotivo eventuali attacchi, critiche, richieste eccessive o espressioni rivendicative (Ibidem, pp. 193).

Relativamente alle categorie dei pazienti sopra elencati, si possono fare alcune riflessioni e delineare delle strategie con cui relazionarsi con loro.

Il paziente oppositivo è un soggetto che presenta una scarsa aderenza al piano terapeutico proposto, frequentemente ingaggia delle sfide con il personale sanitario, svalutando quello che viene da loro detto. Il modo migliore per affrontare questo tipo di paziente è quello di non raccogliere le sfide e di avere un atteggiamento di accoglienza, con la finalità di capire quali sono le vere ragioni alla base dell’opposizione.

Il paziente manipolativo è quello che cerca di suscitare nel medico sentimenti positivi per essere accontentato nelle sue richieste: infatti, ha la necessità che i suoi bisogni e i suoi desideri siano soddisfatti e per ottenere questo non disdegna anche l’utilizzo di condotte seduttive. In questa circostanza il sanitario non deve lasciarsi coinvolgere in questo gioco seduttivo, ribadendo le ragioni alla base delle sue decisioni se queste non sono sintoniche con le richieste avanzate dal paziente.

Il paziente richiedente cerca costanti attenzioni e insiste perché il medico effettui tutta una serie di azioni e di procedure che possono non essere necessarie (Ibidem, pp. 195).

In questa circostanza il sanitario deve spiegare al paziente quello che può essere di pertinenza del personale sanitario e quello che invece esula per una serie di ragioni (etiche, pratiche o di altra natura) dalla competenza medica.

Il paziente irascibile è quello che tende ad essere aggressivo nei confronti del sanitario, in quanto è la modalità relazionale che utilizza prevalentemente quando si interfaccia con l’alterità. Alla base di questo atteggiamento ci sono spesso delle frustrazioni che il paziente vive nella propria quotidianità, che sottendono un disagio emotivo. In questa circostanza è bene che il sanitario faccia emergere questa emotività di fondo.

Il paziente piacevole è rappresentato dal soggetto che si mostra estremamente educato, segue alla lettera tutte le prescrizioni, tende ad esaltare la competenza del medico a cui si rivolge, si fida ciecamente del suo operato. In questa evenienza l’operatore sanitario dovrebbe porre attenzione ad evitare forme eccessive e poco realistiche di ottimismo, dettate dal non voler deludere il paziente.

Il paziente che “sa tutto” è quello che dimostra di avere una competenza in ambito sanitario derivata prevalentemente dalla lettura di riviste mediche o dalla navigazione in rete. Frequentemente egli porta al medico copia degli articoli che ha letto per renderlo edotto su alcune tematiche. A questo paziente va spiegato con cortesia e fermezza che la professionalità medica non si acquisisce con la lettura di articoli o consultando siti Internet specifici e che egli non ha il necessario distacco emotivo per occuparsi della sua patologia, in quanto è coinvolto emotivamente da essa.

L’adesione del paziente al trattamento terapeutico

Nel momento in cui propone ad un paziente un trattamento terapeutico, il medico non sa se l’utente aderirà alle indicazioni e alla cura proposti (Salovey, Rothman e Rodin, 1997). Questo dipende da numerosi fattori, alcuni imputabili alle caratteristiche personali del paziente, altri alle peculiarità del medico e altri rapportabili agli aspetti relazionali che sono elicitati dal rapporto fra due alterità (medico e paziente) che si confrontano.

Relativamente alle peculiarità personali del paziente, quelle che fanno la differenza sono le credenze che il paziente ha riguardo alla propria malattia, ovvero se la considera grave e fonte di uno scadimento della qualità della vita, e al percorso di cura, ossia se lo ritiene idoneo per la propria guarigione (Zani e Cicognani, 2000). Difatti, laddove il soggetto propende per la gravità della propria patologia e ha la convinzione che il percorso di cura proposto sia quello giusto, egli aderirà completamente al piano terapeutico. A questo proposito, diverse ricerche svolte (Ibidem) sottolineano che solo il 30% dei pazienti segue correttamente il percorso di cura, il 50% lo adotta in parte e una percentuale che oscilla fra il 20 e il 50% non lo segue.

Riguardo alle caratteristiche personali del medico, i pazienti rispondono meglio ad un farmaco nella misura in cui il medico che lo prescrive si dimostra ottimista, ha un atteggiamento terapeutico piuttosto che sperimentale, ovvero utilizza l’espressione “ti prescrivo questo farmaco efficace” piuttosto che dire “proviamo questo farmaco e vediamo che effetto ha”, e si mostra gioviale nei confronti del paziente (Amendolagine, 2021).

In rapporto agli aspetti relazionali che si instaurano fra medico e paziente, si possono fare alcune considerazioni. Differenti ricerche hanno messo in evidenza che l’adesione del paziente al trattamento proposto dipende da alcune variabili che sono elicitate dalla comunicazione che si instaura fra medico e paziente. In sostanza, il soggetto segue più facilmente il percorso terapeutico nella misura in cui è soddisfatto delle spiegazioni ricevute e ha compreso fino in fondo in maniera inequivocabile quanto gli è stato detto (Zani, Selleri e David, 1994). Per quanto riguarda la soddisfazione mostrata dal paziente, sono stati proposti due modelli esplicativi, ossia un modello affettivo e un modello cognitivo (Zani e Cicognani, op. cit.).

Secondo il modello affettivo, la soddisfazione del paziente origina dai comportamenti affettivi mostrati dal medico, ovvero

il suo essere amichevole piuttosto che distaccato e manageriale, mostrare di capire i timori (del paziente) […], essere dotato di abilità comunicative positive (Ibidem, pp. 144).

Secondo il modello cognitivo, la soddisfazione dell’utente è in funzione dell’efficacia razionale della comunicazione ricevuta, ossia l’input comunicazionale ricevuto deve essere inteso totalmente, espresso in parole semplici, che possono essere ricordate con facilità (Ley, 1989).

In aggiunta, la relazione che si instaura fra curato e curante ha anche una finalità psicopedagogica, che deve essere soddisfatta. In altre parole, tale relazionalità si pone come obiettivo l’insegnare al paziente a prendersi cura di sé e, soprattutto, a ricercare dentro di sé le risposte alle sue domande. Affinché questo avvenga, il medico, o in generale chi si occupa della cura del paziente, deve avere alcune caratteristiche, quali:

  • sviluppare uno stile relazionale improntato alla positività e all’ottimismo;
  • avere l’abilità di mettersi nei panni di chi ha di fronte e considerarlo nella sua globalità, ovvero come una persona da accettare senza remore o preconcetti (Amendolagine, op. cit.).

A tal riguardo, giova da parte del medico una forma di riflessione su di sé, che, in accordo con Ripamonti (op. cit.), deve rispondere ad alcune domande, quali:

Mi arrabbio facilmente, sono irritabile, mi metto sulle difensive?
Sono emotivo, mi rattristo facilmente, ho paura di certe situazioni?
Sono troppo brusco e impaziente?
Quanta compassione ed empatia ho per persone che mi sono totalmente estranee?
Qual è il mio livello di flessibilità?
Sono amichevole oppure asociale?
Posso sembrare calmo anche quando in realtà sono ansioso?
Ho il senso dell’umorismo e so come utilizzarlo in modo appropriato?
Devo sempre avere il controllo della situazione?
Sono capace di accettare le critiche?
Ho dei pregiudizi che possono influenzare la mia oggettività?.

In conclusione, esistono differenti fenomenologie di pazienti, che richiedono degli approcci relazionali diversificati. Fra di essi, si possono citare il paziente oppositivo, il manipolativo, il richiedente, l’irascibile, il piacevole e quello che “sa tutto”. L’adesione del paziente al trattamento terapeutico proposto dipende da più fattori, rapportabili alle caratteristiche di personalità del paziente, a quelle del medico e agli aspetti comunicazionali che si strutturano nel rapporto fra chi cura e chi è curato.

 

Il piacere digitale (2020) di Michele Spaccarotella – Recensione del libro

Nell’era digitale, in una società di iper-connessi, l’autore di Il piacere digitale mette a disposizione degli addetti ai lavori e non, un’ampia panoramica circa l’universo del virtuale, le dinamiche psicologiche, le tentazioni, i rischi e i pericoli, analizzati con attenzione e professionalità.

 

Tocchiamo più volte lo schermo del cellulare che il corpo della persona amata. Lo schermo si è sostituito alla pelle.

Questa è una delle frasi del libro Il Piacere digitale che più mi ha colpito, che rimanda ad una realtà tristemente e fortemente vera e che in modo più o meno intenso coinvolge tutti, professionisti e non, giovani e meno giovani.

Il Piacere digitale, un testo ricco di contenuti espressi in modo accessibile a tutti, è scritto da Michele Spaccarotella, psicologo e psicoterapeuta, responsabile della didattica e di scienze del corso biennale in Psicosessuologia presso l’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica (IISS) di Roma, cultore della materia presso la Cattedra Parafilie e Devianza dell’Università degli Studi dell’Aquila, impegnato in attività di ricerca, formazione e divulgazione nell’ambito della psicologia e sessuologia.

Nell’era digitale, in una società di iper-connessi, il lavoro di Michele Spaccarotella mette a disposizione degli addetti ai lavori e non, un’ampia panoramica circa l’universo del virtuale, le dinamiche psicologiche, le tentazioni, i rischi e i pericoli, analizzati con attenzione e professionalità.

Da un punto di vista psicologico verranno infatti approfondite dinamiche psicologiche sia individuali che relazionali dell’homo digitans, come cambia la dimensione del piacere, del corpo, mode e tendenze di massa, la smania dei selfie e condivisione del proprio mondo, dove proprio il condividere ed il postare diventa più importante del vivere nel reale.

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Imm.1 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Imm.2 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Imm.3 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Ma la realtà virtuale rimane sempre una grande tentazione che riesce ad affascinare tutti, giovani ed adulti, single e coppie e all’interno del testo l’autore approfondirà riflessioni, dati e studi su ciò che sempre di più si verifica in rete e le relative dinamiche psicologiche in gioco. Il mondo digitale, dove è possibile tutto, è un mondo affascinante ma anche pericoloso, un mondo interessante ed importante da conoscere ed il libro diventa un validissimo strumento in tal senso.

Tanti i termini attinenti a questo mondo di iper connessi, ampiamente spiegati dall’autore, ma vediamone alcuni: sexting (crasi dei termini inglesi sex e texting, consistente nella pratica di inviare messaggi di testo o immagini a sfondo sessuale), revenge porn (riferita ad una forma di vendetta che uno dei due partner agisce alla fine di una relazione, diffondendo delle foto intime dell’ex senza il consenso della persona), grooming (adescamento di un minore online), ghosting (dinamica in cui dopo una frequentazione senza apparente motivo, uno dei due partner scompare ed interrompe ogni forma di comunicazione), smombie (neologismo che descrive questo comportamento antisociale consistente nel tenere lo sguardo fisso sul telefono quando si è in giro, ignorando tutto ciò che ci circonda), vamping (la pratica, più diffusa tra giovani ed adolescenti, di stare svegli fino a tarda notte per navigare su internet e svolgere attività sui social), flaming (l’offesa magari anche volgare, rivolta a qualcuno fatta sui social pubblici) e tanti altri.

Ed ancora app a disposizione per tutti e pronte a soddisfare ogni forma di desiderio e/o bisogno, il ruolo ed i cambiamenti intercorsi nell’ambito della pornografia, dinamiche di dipendenza o compulsive agite in tali mondi virtuali che possono sfociare in patologie, ripercussioni sulle relazioni amicali e sentimentali dovute alla presenza/assenza di questo terzo incomodo (virtuale/reale).

Un mondo dunque veramente ampio e complesso, che l’autore direi essere riuscito in pieno a farci conoscere e scoprire scorrendo le varie pagine del suo libro, un mondo che come sottolinea Michele Spaccarotella, non è da considerare a monte come buono o cattivo, ma che di certo l’educazione e la conoscenza dello stesso può aiutare ad un uso più consapevole.

Un testo dunque consigliatissimo quanto agli addetti ai lavori che all’ampio pubblico.

 

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