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Come emoji e emoticon differiscono dai volti nell’esprimere emozioni

Le emoji e le emoticon svolgono un’importante funzione di trasmissione di contenuti emotivi da un mittente a un destinatario nella comunicazione di messaggistica online.

 

Emoji ed emoticon

Le emoticon derivano da “emotion icon” (Pavalanathan & Eisenstein, 2015) e consistono in simboli tipografici di caratteri ASC-II (American Standard Code for Information Interchange), un codice americano per la codifica di caratteri (Guibon et al., 2016). Oggi esistono emoticon di stile occidentale, come ad esempio :-), ed emoticon di stile orientale: ∧_∧ (Rodrigues et al., 2018). Gli emoji, invece, sono simboli a colori che non esprimono soltanto espressioni facciali ed emozioni ma possono simboleggiare anche oggetti, concetti astratti, piante e tanto altro. Esistono infatti, secondo Emojipedia, un sito web che elenca tutte le diverse varianti di emoji, 3.304 emoji per esprimersi. Alcune funzioni delle emoji sono infatti quella di chiarire un messaggio ambiguo, visualizzare significati emotivi, esprimere atteggiamenti negativi e positivi o possono essere usati anche come spunti di contestualizzazione.

Spesso però sia emoji che emoticon possono essere interpretate ambiguamente in quanto non hanno un significato standard uguale per tutti, ma quest’ultimo dipende dal contesto in cui sono inserite. Inoltre esistono tanti dispositivi di telefonia mobile come iOS o iPhone che creano ulteriori malintesi nell’interpretazione di tali stimoli emotivi tanto che un emoji inviato da una persona può generare un’emozione completamente diversa nel destinatario. Solitamente gli emoji sono valutati più positivamente e come più eccitanti delle emoticon: alcuni studi hanno visto tassi più alti nella dimensione dell’attrazione estetica, della familiarità, della chiarezza e della significatività; inoltre gli emoji hanno punteggi di arousal più alti rispetto alle emoticon (Rodrigues et al.,2018).

L’espressione delle emozioni attraverso le emoji

Uno studio di Shoeb e de Melo (2020) ha tentato di esaminare l’associazione tra emoji ed emozioni specifiche ottenendo che solo pochi emoji mostrano una relazione con emozioni come rabbia, disgusto, paura, tristezza o sorpresa; solo la gioia ha una vasta gamma di associazioni con emoji sia facciali che di oggetti. A differenza degli emoji, gli studi sui volti umani, rivelano invece che quest’ultimi possono essere molto specifici e allo stesso tempo universali nell’esprimere un’emozione.

A causa della grande varietà del contenuto emotivo vi sono anche grandi differenze in alcune dimensioni affettive tra cui la valenza e l’arousal; tali dimensioni affettive condizionano e influenzano l’elaborazione delle emozioni, sia per i volti umani, sia per gli emoji e le emoticon.

A questo proposito, alcuni studi inerenti alle espressioni facciali, hanno rivelato differenze nei tempi di reazione per volti felici rispetto alle altre emozioni (Calvo & Lundqvist, 2008); altri studi hanno ottenuto risultati opposti (Hansen & Hansen, 1988). I risultati di un ulteriore studio che confronta i tempi di reazione di volti umani, emoji o parole mostrano tempi di reazione più brevi per le emoji rispetto agli altri due stimoli (Kaye et al., 2021). Non è chiaro, quindi, se tali differenze nel tempo di reazione siano determinate dal tipo di stimolo o dalle differenze nella valenza e nell’arousal. Gli studi che indagano i giudizi affettivi delle parole emotive e neutre, per esempio, dimostrano che le persone spesso rispondono più velocemente alle parole positive legate a sé stessi rispetto alle parole negative o neutre (Meixner e Herbert, 2018). In generale sembrerebbe esserci quindi un bias di positività nella percezione ed elaborazione di volti ed emoticon.

Dal momento che, come menzionato, studi precedenti hanno esaminato i giudizi affettivi di immagini, volti e parole, suggerendo che questi stimoli mostrano differenze nelle due dimensioni delle emozioni (valenza ed arousal) e che gli emoji e le emoticon sono stati recentemente studiati per il loro significato affettivo, uno studio di Brigitte Fischer e Cornelia Herbert del 2021 aveva come obiettivi quello di ottenere valutazioni dei significati emotivi dei volti, degli emoji e delle emoticon e quello di raccogliere i tempi di reazione dei partecipanti al fine di indagare se esistessero differenze tra le categorie di stimoli e le emozioni specifiche.

Infine le autrici hanno tentato di osservare se ci fosse effettivamente un bias di positività. 83 partecipanti hanno preso parte allo studio e valutato 60 stimoli: 18 emoji, 18 emoticon e 24 volti che rappresentavano sei diverse espressioni emotive. Gli stimoli selezionati sono stati classificati in diverse emozioni specifiche, corrispondenti alla classificazione di Ekman (1992) (felicità, rabbia, paura, tristezza, sorpresa) e una condizione neutra; il disgusto è stato escluso poiché non vi erano abbastanza emoji rappresentativi. Ai soggetti sono state quindi somministrate la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS; Janke e Glöckner-Rist, 2014) per misurare l’affetto positivo e negativo prima e dopo la valutazione affettiva degli stimoli e la Self-Assessment-Manikin-Scales per misurare la valenza e l’arousal di ciascuno stimolo (Bradley e Lang, 1994). Infine l’emotività degli stimoli è stata misurata su una scala Likert a 9 punti che valutava quanto intenso fosse lo stimolo che rappresentava un’emozione.

Un confronto tra emoji, emoticon e volti

I risultati ottenuti rivelano effetti principali significativi sia per la categoria dello stimolo, che rappresenta punteggi di emotività significativamente più alti per le facce e gli emoji rispetto alle emoticon, sia in termini di emozione specifica: i valori di emotività, valenza ed arousal sono più alti per l’emozione della felicità rispetto a tutte le altre categorie di stimoli. Inoltre, per quanto riguarda la differenza tra categorie, gli emoji sembrano suscitare il massimo dell’arousal mentre gli stimoli relativi alla felicità sono stati valutati con la massima valenza in tutte le categorie di stimoli; le emoji arrabbiate sembrano invece avere maggiore emotività. Infine le associazioni ad emozioni specifiche sono state riconosciute più facilmente nelle emoji, seguite dagli stimoli del volto umano e dalle emoticon. In conclusione sembrerebbe che gli emoji e i volti umani possono ridurre l’ambiguità e rappresentare le emozioni associate in maniera abbastanza efficace rispetto alle emoticon. Queste ultime invece sono risultate ambigue e poco chiare anche relativamente alla felicità, che sembra essere l’emozione maggiormente riconosciuta in modo corretto. Infine i tempi di reazione sono influenzati dai valori di valenza ed arousal e sembrano essere molto inferiori per i volti e per gli emoji (per quasi tutte le emozioni) rispetto alle emoticon (Fischer & Herbert, 2021).

 

Comprendere l’adolescente: incontro con l’autore – Podcast State of Mind

Podcast State of Mind: presentiamo oggi l’episodio “Comprendere l’adolescente: incontro con l’autore“- L’adolescenza è una fase complessa per ragazzi, genitori e per la famiglia nella sua complessità: l’episodio affronta la tematica grazie a un dialogo stimolante con una delle autrici del libro.

 

Simona Scaini intervista la Dott.ssa Marika Ferri, una delle due delle autrici del libro Comprendere l’adolescente, in un salotto di confronto che vuole non solo illustrare gli elementi centrali di questo nuovo testo, ma anche creare un momento di riflessione intorno a quella fase particolare di sviluppo psicologico ed identitario rappresentata dall’adolescenza. L’ episodio, attraverso le parole del libro in cui vengono presentate le linee teoriche basate sulla più recente letteratura che guidano il lavoro psicoterapeutico con gli adolescenti secondo la prospettiva cognitivo-comportamentale, vuole promuovere l’elicitazione negli ascoltatori di una genitorialità più competente e di una pratica clinica maggiormente efficace e specifica.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Composizione musicale e sinestesia: il documentario su Ennio Morricone

La parola sinestesia deriva dal greco antico e significa ‘sensazione’, in senso esteso, ‘incrocio di sensazioni’, ed indica la capacità di stimolazione di un senso di risvegliare la sensazione di un altro.

 

Il 17 Febbraio 2022, nella sale cinematografiche italiane, è stato distribuito “Ennio”, un emozionante omaggio di Giuseppe Tornatore al compositore italiano Ennio Morricone, scomparso nel luglio 2020. 

Che cos’è la sinestesia?

Nella trama, si fa spesso riferimento alla genialità di Ennio Morricone, il quale ha composto delle “immortali” melodie e colonne sonore per il cinema. Nei quadri narrativi, che si intersecano attraverso interviste a registi e compositori, emergono chiari riferimenti a ciò che, in psicologia, è conosciuta come sinestesia (Baron-Cohen & Harrison, 1997). Si tratta di quella condizione che coinvolge il sistema sensoriale/percettivo, in cui le stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo. La parola sinestesia deriva dal greco antico e significa ‘sensazione’, quindi, in senso esteso, ‘incrocio di sensazioni’, cioè la capacità di stimolazione di un senso di risvegliare la sensazione di un altro. È studiato da medici e psicologi come un disturbo della percezione, soprattutto quando questa sensazione secondaria si verifica involontariamente e intensamente, come una sensazione reale. Ci sono diversi tipi di sinestesie. Il tipo più frequente è il grafema-colore, ma sono molto comuni anche le sinestesie che coinvolgono suoni e colori, suoni e colori musicali, nomi di note musicali e colori. Avendo il suono come stimolo primario, si possono trovare anche la sinestesia suono-movimento, suono-odore, suono-gusto, suono-temperatura, suono-tatto. 

Sinestesia e composizione musicale

Su questa base, alcune ricerche, come quella di Bragança (2010), studiano il rapporto tra sinestesia e composizione musicale, da cui emerge che la sinestesia può essere un modo per aumentare il coinvolgimento e, quindi, può diventare un vero e proprio strumento educativo e di apprendimento musicale. Invero, alcune qualità sinestetiche sono intercambiabili, cioè lo stesso brano musicale può essere percepito come trasparente, in una sinestesia visiva, o leggero, in un riferimento tattile di pressione, o freddo, dalla sinestesia tattile del calore. I parametri sonori contribuiscono insieme, ma spesso con pesi diversi, alla produzione di sinestesia. Così, una sinestesia del movimento come la percezione dell’agitazione in un passaggio musicale ha un forte contributo del parametro ritmico, ma può essere rafforzata da un dato timbro o record. Un senso di leggerezza può essere costruito combinando intensità, tono, registrazione e parametri ritmici.

La sinestesia, quindi, ha un’applicazione diretta nell’analisi fenomenologica della musica, creando la base per una metodologia di analisi musicale che parte dalla percezione sinestetica della musica e dalla comprensione delle costruzioni che condizionano tali percezioni. L’approccio sinestetico può anche aiutare lo studente di composizione a mettere in relazione alcuni risultati sonori (sinestetici) con alcuni sistemi di costruzione musicale.

Sinestesia intrasensoriale ed extrasensoriale nella musica

Studi successivi, come quello di Egido (2011) introducono, più specificamente, la differenza tra sinestesia intrasensoriale ed extrasensoriale nella composizione musicale. Infatti, nella sinestesia extrasensoriale si hanno sensi diversi, ognuno dei quali è associato ad una proprietà degli oggetti che, di solito, viene percepita attraverso il suo senso corrispondente, ma, per una ragione neurologica, questa relazione cambia e, quindi, una proprietà dell’oggetto è percepita da un senso diverso. La sinestesia intrasensoriale, invece, comprende un solo sistema sensoriale caratterizzato da proprietà diverse (esempio il timbro, l’intensità e la durata del suono), in modo tale che, nello stesso sistema sensoriale, una proprietà del suono è riconosciuto come se fosse un altro.

Il compositore sinestesico

In questo panorama, si possono porre due quesiti: come si riconosce un compositore sinestesico? E cosa cambia nella cultura contemporanea? Per rispondere alla prima domanda, è necessario considerare, come affermato sempre da Bragança (2010), che per riconoscere un “talento” sinestesico è necessario saper studiare efficacemente il fenomeno. Infatti, l’analisi dalla sinestesia può essere intesa come una branca dell’approccio fenomenologico all’analisi musicale. La fenomenologia affronta la questione della relazione tra soggetto e oggetto, affrontando la visione positivista, che considera reale solo la conoscenza risultante dai fatti osservati. Questa corrente di pensiero postula che la verità si trova quando un soggetto osserva con neutralità il mondo esterno, dotando, quindi, lo studio del fenomeno di un rigoroso metodo scientifico. Si presenta così una dicotomia tra soggetto e oggetto, in cui il mondo esterno esiste come verità indipendente, in attesa di un soggetto che, dall’esterno di questo mondo, decifra le sue leggi fondamentali. Il positivismo si manifesta nello studio musicologico quando si isola una partitura della percezione musicale e dell’intero contesto, per studiarla con una meticolosa metodologia di analisi, scoprendone le leggi compositive.

Nel mondo contemporaneo, invece, la rivoluzione digitale e, soprattutto, i sistemi immersivi e altamente multimodali (ad esempio la Realtà Virtuale o Realtà Aumentata) aprono a riflessioni innovative (De Blasio, 2012) sui mezzi a disposizione di un compositore, che potrebbero mettere in crisi i paradigmi fino ad ora conosciuti sulla sinestesia.

 

Una presenza umana prima che clinica. Bruno Callieri – Recensione

Il merito principale del libro Bruno Callieri. Dallo scacco dell’ombra all’incontro intersoggettivo è la chiarezza con cui l’autore riesce a spiegare i concetti propri della psicopatologia fenomenologica delle psicosi.

 

Lo scoglio maggiore per chi, anche da professionista del settore, si avvicina alla psicologia e psicopatologia fenomenologica, è probabilmente l’imperversare di un linguaggio oscuro, a volte astruso, che ricalca impropriamente quello di alcuni filosofi del Novecento a cui i clinici di quell’orientamento si rifanno e che spesso imitano ingenuamente, come se descrivere o approfondire l’esperienza interiore dell’uomo da un punto di vista filosofico, e provare a comprenderla e a generare in essa dei cambiamenti da un punto di vista clinico, sia cosa sovrapponibile. L’impressione che si ricava spesso dalla lettura di psicologi e psichiatri di orientamento fenomenologico è purtroppo quella di un circolo chiuso che parla a pochi addetti ai lavori, una dinamica simile a quella che caratterizza molti circoli psicoanalitici che da quelli fenomenologici spesso sono stati criticati per un’inclinazione clinica latamente meccanicistica e a volte per l’aura di sacralità ed esclusività che ha caratterizzato le loro pratiche terapeutiche.

È proprio, a mio avviso, da questa nebulosità della fenomenologia applicata alla clinica che il libro di Marco Monaco trae per contrappunto il proprio valore. Il testo, uscito per i tipi delle Edizioni Universitarie Romane a fine 2021, approfondisce la figura umana e la teorizzazione di Bruno Callieri, uno dei maggiori psicopatologi italiani di orientamento fenomenologico del Novecento, ricordato anche attraverso una serie di fotografie incluse nel volume che ritraggono lo psichiatra romano in momenti conviviali con amici e colleghi in occasione di convegni, presentazioni e incontri di studio.

Il merito principale del libro è la chiarezza con cui l’autore riesce a spiegare i concetti propri della psicopatologia fenomenologica delle psicosi (ambito in cui la fenomenologia ha dato i maggiori contributi), aspetto che rivela non solo il suo studio attento della materia, ma anche la sua capacità di fare seria divulgazione. Il testo risulta ben scritto, scorre bene come un romanzo e porta il lettore a dividersi piacevolmente tra l’evoluzione della teoria di Callieri sulla psicosi – partendo dai concetti principali della psicopatologia fenomenologica ispirati da Husserl, Jaspers, Heidegger, Schneider e altri – e la narrazione di alcuni periodi della sua vita professionale, resa impervia dalla sua indipendenza di pensiero in una psichiatria italiana bloccata dentro a ristrette visioni organiciste. Ciò che spicca nel ritratto delineato da Monaco è certamente l’umanità, l’umiltà scientifica e l’autentica apertura all’incontro col paziente di Callieri, uomo prima che psichiatra, impegnato nell’approfondimento dell’esperienza psicotica. In tal senso, particolare rilievo è dato nel libro ai concetti da lui elaborati di “perplessità” e di “atmosfera delirante” quali aspetti centrali della fase prodromica della psicosi, da separare almeno parzialmente dal successivo esito delirante. Quella prodromica è, per Callieri, una fase molto importante in termini clinici (come dimostrerà la ricerca successiva), una fase in cui gli esiti del disturbo non sono ancora scritti e in cui è quindi più facile fare qualcosa per scongiurare la cristallizzazione del delirio. Al contempo è significativo rilevare come autori anche succedanei a Callieri (ad esempio Blankenburg, Parnas, ma non solo) abbiano effettuato osservazioni simili sui propri pazienti psicotici e abbiano elaborato concetti analoghi sugli stati psicotici senza menzionare il nostro, indice sia dell’atteggiamento di Callieri – potremmo forse dire modesto e riservato – sia della difficoltà del pensiero fenomenologico italiano di imporsi a livello europeo, ma soprattutto della qualità e dell’originalità del suo lavoro teorico.

Il libro si conclude con uno sguardo sulle “cose ultime”, ovvero sul concetto di morte per Callieri da un punto di vista sia filosofico che psicologico che religioso, ambiti che egli cercò sempre di far comunicare innanzitutto dentro di lui, ritenendo non solo che la spiritualità fosse una dimensione importante dell’essere umano e come tale potesse essere presa in considerazione anche in un ambito più strettamente clinico, ma anche che, in generale, chi si occupi di sofferenza mentale debba avere una propensione all’apertura, alla complessità di pensiero e all’integrazione delle discipline scientifiche e umanistiche, come lui stesso ha cercato coerentemente di fare fino agli ultimi momenti della sua vita.

 

Il fenomeno del partner-phubbing: come i telefoni influenzano le relazioni sentimentali

Uno studio di Beukeboom & Pollmann (2021) ha tentato di analizzare gli effetti negativi del phubbing nelle relazioni sentimentali, nello specifico in relazione all’insoddisfazione relazionale.

 

I telefoni cellulari sono ormai diventati onnipresenti nella nostra vita quotidiana, e di conseguenza influenzano anche le dinamiche delle relazioni intime. Da un lato l’utilizzo del telefono può avere effetti positivi nelle relazioni, in quanto permette ai partner di rimanere in contatto e mostrare interesse quando l’altro non è presente (Pollmann et al., 2021). D’altra parte, quando un cellulare viene utilizzato in presenza del proprio partner, può distrarre dalla conversazione presente ed essere fonte di fastidio e conflitto (Dwyer et al., 2018).

Cos’è il phubbing?

L’uso di un telefono cellulare durante una conversazione è chiamato phubbing (Ugur & Koc, 2015). Il termine phubbing (un incrocio tra ‘phone’ e ‘snubbing’) si riferisce all’atto di concentrarsi sul proprio cellulare durante una conversazione invece di prestare attenzione all’interlocutore (Ugur & Koc, 2015). Se questo atto si verifica all’interno delle relazioni, è chiamato partner-phubbing (pphubbing; Roberts & David, 2016). Nel partner-phubbing si può distinguere un phubber e un phubbee. Il phubber è la persona che, durante un’interazione sociale co-presente, concentra tutta o parte della sua attenzione sul suo cellulare. Il phubbee è la persona che non viene considerata (o “snobbata”) dal partner che usa il cellulare (Chotpitayasunondh & Douglas, 2016).

La letteratura ci dimostra che il partner-phubbing è negativamente correlato alla soddisfazione delle relazioni (ad es, David & Roberts, 2021), proprio perché l’uso di un telefono durante le interazioni co-presenti crea una situazione in cui si è fisicamente presenti, ma non lo si è mentalmente. Questo fenomeno infatti provoca delle sensazioni di “assenza-presenza” (Gergen, 2002) o di stare “soli insieme” (cfr. Turkle, 2011). La soddisfazione relazionale è meglio descritta come il grado in cui il partner soddisfa i desideri e i bisogni dell’altro. Per la soddisfazione relazionale, la qualità della comunicazione tra i partner è molto importante e sembra essere più importante del tempo che i partner trascorrono insieme (Guldner & Swensen, 1995).

È importante saperne di più su questi fattori, perché potrebbero fornire un potenziale rimedio contro gli effetti dannosi dell’uso (quasi inevitabile) del telefono nelle relazioni. Anche se sono state condotte diverse ricerche sul phubbing (Vanden Abeele, 2020), il numero di studi che si sono concentrati sul phubbing nelle relazioni intime, analizzando i meccanismi sottostanti al legame tra utilizzo del telefono e scarsa soddisfazione, è limitato.

Phubbing e insoddisfazione all’interno della coppia

Uno studio di Beukeboom & Pollmann (2021) ha tentato di analizzare gli effetti negativi del phubbing nelle relazioni sentimentali, nello specifico in relazione all’insoddisfazione relazionale.

I risultati dello studio sottolineano che la misura in cui un partner usa il proprio telefono durante le interazioni co-presenti è correlata negativamente alla soddisfazione della relazione, confermando i risultati precedenti (ad es, McDaniel et al., 2020). Avendo ottenuto dati di natura correlazionale, non si possono trarre conclusioni sulla causalità di questo effetto; il partner-phubbing potrebbe causare una riduzione della soddisfazione relazionale, ma è altrettanto possibile l’effetto opposto. Gli autori propongono una relazione reciproca tra queste variabili, dove il partner-phubbing provoca una ridotta soddisfazione nella relazione, che a sua volta potrebbe indurre più phubbing durante le interazioni. Come tale, il phubbing potrebbe giocare un ruolo avverso in una spirale discendente della qualità della comunicazione e della soddisfazione della relazione.

Un secondo obiettivo dello studio è stato quello di testare potenziali variabili che mediano questa relazione tra uso del telefono e insoddisfazione relazionale, che potessero quindi spiegare il meccanismo sottostante. I risultati mostrano che il legame tra il partner-phubbing e la soddisfazione relazionale è del tutto mediato da sentimenti di esclusione tra i partner, dalla percezione di avere meno reattività da parte del partner e dalla percezione di sperimentare meno intimità con il/la partner.

Nonostante il phubbing abbia mostrato delle correlazioni positive anche con la gelosia e con il conflitto sull’uso del telefono (variabili che correlano negativamente con la soddisfazione nella relazione), l’effetto di queste due variabili svaniva nel momento in cui venivano presi in considerazione i sentimenti di esclusione, la reattività percepita del partner e l’intimità percepita. Questo suggerisce che il conflitto e la gelosia di per sé non sono il meccanismo primario attraverso il quale il phubbing si traduce in una ridotta soddisfazione di relazione. Gli effetti dannosi del partner-phubbing sulla relazione sembrano essere principalmente spiegati dalla misura in cui ci si sente esclusi o ignorati dal proprio partner durante le interazioni sociali, e dalla misura in cui il phubbing provoca una ridotta reattività del partner e sentimenti di intimità durante le interazioni. Questi risultati sono in linea con le ricerche che mostrano effetti negativi dell’uso del telefono durante le interazioni sulla qualità della conversazione e sull’empatia percepita del partner (Gonzales & Wu, 2016; Misra et al., 2016).

Contrastare gli effetti del phubbing attraverso la condivisione

Un risultato molto interessante risiede nel fatto che l’uso condiviso del telefono potrebbe essere un potenziale rimedio contro gli effetti dannosi dell’uso del telefono nelle relazioni. Questo dimostra che più si è informati e coinvolti dal proprio partner nell’uso del telefono (cioè, mostrando e spiegando le proprie attività telefoniche), meno ci si sente esclusi, e meno si sperimenta una ridotta reattività e intimità del partner. Questo a sua volta attenua gli effetti negativi sulla soddisfazione della relazione.

Per concludere, per molte persone oggi è difficile resistere alla tentazione dei social media e di altre app in cerca di attenzione sul proprio smartphone (Du et al., 2019). La paura che i rapporti si allentino (Rozgonjuk et al.,  2020), l’aspettativa di una disponibilità costante da parte degli amici (Miller-Ott & Kelly, 2017), o anche la semplice presenza di un telefono (Misra et al., 2016) possono distogliere l’attenzione da un’interazione che sta avendo luogo con il proprio partner. L’uso del proprio telefono in presenza di un partner, però, ha un effetto dannoso per la relazione, in quanto il partner si sente escluso e danneggia la reattività e l’intimità sperimentata nelle interazioni in cui si è coinvolti. Gli effetti dannosi possono essere ridotti mantenendo il partner coinvolto e informato su ciò che si sta facendo con esso, poiché coinvolgendo e informando il partner sulle proprie attività telefoniche, e rendendo il proprio uso del telefono rilevante e funzionale nell’interazione, è possibile ridurre i sentimenti di esclusione e mantenere più reattività e intimità nella conversazione.

 

Il ruolo del cervelletto oltre gli aspetti motori

Il cervelletto è una struttura nota perlopiù per il suo coinvolgimento nell’apprendimento motorio e in aspetti come la coordinazione; ha, tuttavia, un ruolo anche in funzioni emotive e cognitive.

 

Il cervelletto

Innanzitutto, cerchiamo di descrivere brevemente questa struttura localizzata nella fossa cranica posteriore, inferiormente rispetto ai lobi occipitali degli emisferi cerebrali.

Il cervelletto ha un corpo centrale ed allungato, definito verme, e due parti laterali, chiamate emisferi cerebellari, con avanti due piccole formazioni, una per lato, denominate flocculi (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

Il cervelletto è collegato per mezzo dei tre peduncoli cerebellari al tronco encefalico: quelli superiori sono due fasci paralleli che si dirigono verso il mesencefalo; i peduncoli cerebellari medi sono due fasci più voluminosi che si protraggono con il ponte; i peduncoli cerebellari inferiori, infine, si incurvano in avanti e raggiungono il midollo allungato (Castano & Donato, 2006).

Sebbene il cervelletto costituisca il 10% del volume cerebrale, contiene il più elevato numero di neuroni di tutte le suddivisioni cerebrali.

Riceve numerose afferenze: somatosensitive dal midollo spinale, informazioni motorie dalla corteccia cerebrale e informazioni concernenti il senso dell’equilibrio dagli organi vestibolari dell’orecchio interno. Si consideri, infatti, che gli assoni che raggiungono il cervelletto sono 40 volte più numerosi di quelli che lo lasciano (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

Dunque, è importante per il mantenimento della postura, per la coordinazione e la regolazione fine dei movimenti e per l’apprendimento delle abilità motorie.

Le lesioni cerebellari, infatti, provocano alterazioni della precisione spaziale e della coordinazione temporale dei movimenti, deficit dell’equilibrio e riduzione del tono muscolare, oltre a gravi deficit dell’apprendimento motorio.

Le malattie cerebellari presentano sintomi e segni caratteristici, tra i principali possiamo elencare: ipotonia, ossia una diminuzione della resistenza al movimento passivo degli arti; mancanza di coordinazione nell’esecuzione di movimenti volontari; presenza di una particolare forma di tremore (tremore cinetico) durante l’esecuzione di un movimento (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

Cervelletto, funzioni cognitive ed emozioni

Per tali ragioni, in passato, il cervelletto è stato considerato come una struttura prevalentemente motoria. Negli ultimi anni, tuttavia, studi neuropsicologici e l’utilizzo di strumenti di neuroimaging hanno rilevato contributi del cervelletto nella modulazione di processi relativi alla sfera cognitiva ed affettivo-comportamentale, grazie a una cospicua afferenza ai nuclei pontini proveniente da particolari aree associative del neocortex. Esistono dei circuiti cerebro-cerebellari (circuito cortico-ponto-cerebellare e circuito cerebello-talamo-corticale) che collegano il cervelletto con le cortecce motorie, la corteccia associativa e le regioni paralimbiche dell’emisfero cerebrale (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

È il lobo anteriore del cervelletto ad essere impegnato principalmente nel controllo motorio, invece il verme cerebellare è coinvolto nell’elaborazione emotiva (tanto da essere indicato come “cervelletto limbico”) e il cervelletto posteriore contribuisce a funzioni cognitive complesse, grazie al sistema di circuiti neurali che lo collega a corteccia prefrontale, temporale, parietale posteriore e limbica (Schoch et al., 2006).

Inoltre, disabilità linguistiche possono sorgere in seguito a lesioni dell’emisfero cerebellare destro, che contribuisce a modulare i processi linguistici non motori e le funzioni cognitive. I deficit linguistici che si verificano in seguito a lesioni cerebellari sono diversi da quelli prodotti da lesioni corticali, causando una forma di “incoordinazione linguistica” (Silveri & Misciagna, 2000). Mentre, lesioni dell’emisfero cerebellare sinistro possono portare a difficoltà visuo-spaziali (Gottwald et al., 2004).

In letteratura sono presenti dati che suggeriscono un coinvolgimento del cervelletto nell’identificazione ed espressione delle emozioni, soprattutto l’espressione della tristezza. Si ipotizza che una riduzione della comprensione dell’espressione emozionale potrebbe essere causata da un danno nel collegamento funzionale tra il cervelletto e il lobo frontale (Schmahmann et al., 2007). Inoltre, diversi tipi di intonazione emotiva della voce e l’esposizione a immagini o espressioni facciali emotive attivano una serie di regioni all’interno del cervelletto (Paradiso et al., 1999).

Sindrome cerebellare cognitivo affettiva

Si parla addirittura di “Sindrome cerebellare cognitivo affettiva” per indicare uno specifico quadro di sintomi dato da: un insieme di deficit nelle funzioni esecutive (pianificazione, ragionamento astratto, fluenza verbale, working memory), con perseverazione, distrazione, compromissione della cognizione spaziale (organizzazione visuo-spaziale e memoria visuo-spaziale); cambiamenti di personalità con ottundimento affettivo, comportamento disinibito e inappropriato, difficoltà nella produzione linguistica (disprosodia, agrammatismo e lieve anomia). Tale Sindrome cerebellare cognitivo affettiva è stata rilevata più facilmente nei pazienti con danno bilaterale (Schmahmann & Sherman, 1998).

Tavano e colleghi (2007) hanno studiato un gruppo di 27 pazienti, sia bambini che adulti, con malformazioni congenite cerebellari. Le indagini neuropsicologiche e cliniche hanno evidenziato la presenza di deficit in vari domini, così da supportare l’importante ruolo giocato dal cervelletto nell’acquisizione di abilità cognitive complesse e perfino affettive. Un risultato rilevante di tale studio consiste nel fatto che i deficit motori sono generalmente meno gravi e tendono a migliorare lentamente e progressivamente, raggiungendo in alcuni casi la funzionalità quasi completa, al contrario dei sintomi della Sindrome cerebellare cognitivo affettiva.

 

‘Scatole’ dei Pinguini Tattici Nucleari: lettera a Riccardo Zanotti

Scatole è un brano appartenente al penultimo album dei Pinguini Tattici Nucleari, chiamato Fuori dall’Hype (2019). È una canzone che Riccardo Zanotti, cantante e autore del testo, dedica al padre. La melodia è caratterizzata da un interessante arpeggio di chitarra in ‘Mi’, tonalità che si presta molto a questo tipo di brani.

 

Scatole è un brano appartenente al penultimo album dei Pinguini Tattici Nucleari, chiamato Fuori dall’Hype (2019). Fa parte della non troppo stretta categoria delle ‘canzoni dedicate al padre’, nell’onorevole gruppo a cui appartengono Father and Son di Cat Stevens, My father’s eyes di Eric Clapton, Sometimes you can’t make it on your own degli U2, ma anche le italiane Canzone del Padre di De Andrè e PadreMadre di Cesare Cremonini, per citarne solo alcune. Insomma, non proprio titoli di scarso rilievo. Potremmo forse dire che è la più ‘indie’ delle canzoni dedicate al padre e che sicuramente, data la profondità e la bellezza del testo, non sfigura in questo gruppo. Personalmente trovo sia la canzone più intima dell’album. La melodia è caratterizzata da un interessante arpeggio di chitarra in ‘Mi’, tonalità che si presta molto a questo tipo di brani.

Qual è il significato della canzone?

Il protagonista del brano è Riccardo Zanotti stesso, per chi non lo conoscesse cantante e autore del testo, che cresce in un paesino della provincia bergamasca, contesto (non me ne vogliano i lettori bergamaschi) notoriamente più dedito alle attività pratiche, manuali e lavorative che a quelle artistiche e musicali…I Pinguini Tattici Nucleari (PTN) non hanno mai nascosto il loro legame con le terre bergamasche, sottolineandolo in canzoni, solo per fare due esempi, come Bergamo e Castagne Genge, termine orobico che ho appreso grazie a questa canzone essere l’equivalente di ‘castagne matte’.

Il padre di Riccardo, come recita la canzone ‘ha sempre fatto il muratore‘ e ‘odia chi si lamenta, chi sta zitto e gli ottimisti, ha sempre poco tempo per l’amore e tutte le altre cose inventate dai comunisti..’ è un uomo tutto d’un pezzo, dedito ai suoi successi, tiene ‘il suo diploma da geometra appeso in soffitta da vent’anni, in una teca polverosa‘, riuscendo in parte a trasmettere l’etica del lavoro al caro figlio Riccardo (‘e da piccolo sognavo anch’io di avere una teca che dicesse che so fare qualche cosa‘). L’unico problema è che Riccardo non ne voleva sapere nulla di calcare le orme del padre, che gli chiedeva di ‘fare gli studi da architetto oppure da ingegnere‘, coltivando fin da subito il sogno di fare il musicista e di ‘far piangere la gente’, perchè ‘davanti a dei mattoni nessuno si commuove‘.

Il padre non prende benissimo l’idea di Riccardo e gli ribadisce, dolcemente e con i dovuti modi (questo a detta di Riccardo, ma sarebbe bello sentire l’altra versione dei fatti), ‘Non capisci proprio un cazzo della vita, perché solo a chi si sporca le mani è concesso il privilegio di avere una coscienza pulita‘. Riccardo, fortunatamente per i fan dei PTN non lo ascolta, vola a Londra a studiare musica, si forma e diventa famoso con la sua band. Il resto della storia lo conosciamo tutti…

Il brano gioca molto bene, come Zanotti ci ha ormai ampiamente dimostrato di saper fare, sul significato del termine scatole, dandogli una connotazione sia esteriore che interiore: le case in fondo sono ‘scatole dove la gente si rifugia quando fuori piove‘, ma anche ‘le canzoni in fondo sono solo scatole dove la gente si rifugia quando fuori piove‘.

Non voglio mettere in discussione una canzone che trovo molto bella e vera, in cui mi rivedo davvero tanto (con la differenza che non sono diventato un artista famoso…).

Però, caro Riccardo, c’è una cosa che davvero non mi va giù del testo; alla fine dell’ultima strofa tu scrivi, riferito a tuo padre, ‘io sono diverso, io sono migliore’. Ai primi ascolti sono rimasto un po’ stranito, poi mi ha dato quasi fastidio. Scrivo da vostro fan di lunga data, vi seguo dal 2016, quando suonavate alle feste popolari e si chiacchierava dopo i concerti, penso anche di avere qualche piccola conoscenza di psicologia e quindi mi prendo la licenza di bacchettarti su questa cosa, ovviamente sempre con affetto.

Non puoi scrivere che sei migliore di tuo padre, questo proprio non lo accetto e non mi sembra bello, nemmeno per licenza poetica, nemmeno per effetto catartico sul pubblico.

Sono curioso di saperlo, cosa ti ha detto tuo padre dopo avere ascoltato questa canzone? Come si sarà sentito?

Tutti noi abbiamo le nostre scatole che ci portiamo dentro, dobbiamo imparare ad accettarle e poi ‘svuotarle’. Essere ‘migliori’, come tu scrivi, dei nostri genitori significa avere imparato a comprendere i loro difetti accettandoli, e, comprendendoli, evitare di farli noi stessi, nella nostra vita e con i nostri eventuali figli. Non significa però pensare di essere migliori di loro.

Non significa provare rabbia e senso di rivalsa verso di loro, sentimenti che, se presenti, significa che probabilmente abbiamo bisogno ancora un po’ di tempo per metabolizzarli.

Sempre un vostro affezionatissimo fan, ormai ‘di vecchia data’, per cui spero non vi risentiate della piccola ‘critica’.

 

SCATOLE – Ascolta il brano:

Il pianto in seduta: influenza su alleanza e cambiamento in terapia

Il pianto è un’importante forma di espressione emotiva considerata anche un’esperienza benefica dal momento che può avere un impatto positivo sull’umore e sui sentimenti, portando alla risoluzione o alla riduzione della tensione e dei sentimenti negativi (Vingerhoets, 2013; Capps et al., 2015).

 

I pochi studi disponibili sul tema del pianto in terapia suggeriscono che i pazienti piangono nel 14/21% delle sessioni di terapia (ad es, Robinson et al., 2015), sottolineando l’alta frequenza e la rilevanza del pianto in questo contesto. La letteratura sottolinea che il pianto può essere considerato un indice di coinvolgimento da parte del paziente nel processo terapeutico e come un indicatore di un processo di guarigione (Rottenberg et al., 2008; Vingerhoets, 2013); questo risulta particolarmente vero quando un’esperienza di pianto è seguita da un intervento terapeutico di comprensione profonda e un’integrazione delle emozioni riguardanti l’episodio (Capps et al., 2015).

L’esperienza del pianto può anche avere un impatto sull’alleanza terapeutica e su una relazione di lavoro favorevole e produttiva. Quando i pazienti sentono che il pianto ha permesso loro di comunicare qualcosa che non potevano esprimere a parole, sperimentano un maggiore senso di connessione, legame e lavoro collaborativo con il loro terapeuta (Zingaretti et al., 2017), giungendo spesso alla risoluzione della condizione stressante (Stanton et al., 2000). Alcuni studi riportano infatti che l’espressione attiva dei sentimenti dolorosi permette agli individui di sopportare il loro disagio come doloroso ma tollerabile e aumenta il senso di controllo personale (Lepore et al., 2000).

Pianto in terapia e attaccamento

Il pianto inoltre è considerato un comportamento legato all’attaccamento in quanto può essere una strategia per stabilire e mantenere la vicinanza del caregiver (Bowlby, 1982; Nelson, 2005). Anche se pochi studi hanno adottato un approccio di attaccamento-caregiving per esplorare le esperienze di pianto nel setting terapeutico, Nelson (2005) ha ipotizzato che i comportamenti di pianto dei pazienti in terapia suscitino un’esperienza di attaccamento e caregiving, poiché il pianto può ricordare le precedenti esperienze di attaccamento facendo sentire la relazione terapeutica come una base sicura (Ainsworth et al.,1978) dalla quale i clienti esplorano e sperimentano le loro emozioni. A sostegno di ciò, Robinson e colleghi (2015) hanno scoperto che il pianto era un modo possibile per i pazienti di esprimere i loro bisogni di attaccamento al loro terapeuta.

Pianto e alleanza terapeutica

Per approfondire i risultati già presenti in letteratura, uno studio molto recente di Genova e colleghi (2021) ha esplorato le associazioni tra l’esperienza del pianto dei pazienti e la loro percezione dell’alleanza di lavoro e del cambiamento terapeutico, oltre a considerare il ruolo dello stile di attaccamento dei pazienti.

I risultati hanno indicato che la maggior parte dei pazienti piange in terapia (83%), suggerendo che il pianto rappresenta un fenomeno relativamente comune.

Inoltre, le emozioni negative prevalenti riportate dopo il più recente episodio di pianto in terapia erano tristezza per 46 pazienti (53,5%), frustrazione per 33 (38,4%), e impotenza per 24 (28,2%).

La maggior parte (67,4%) dei pazienti ha parlato della loro esperienza di pianto con il loro terapeuta, molti (42%) pensavano che piangere migliorasse la loro relazione terapeutica, mentre nessuno di loro pensava che piangere la peggiorasse, confermando i risultati di Capps e colleghi (2015) che riportano che le esperienze di pianto dei pazienti, anche se tristi o frustranti, non portano necessariamente a un deterioramento o a un declino della relazione terapeutica.

Per quanto riguarda la relazione tra l’esperienza generale del pianto e l’alleanza terapeutica, i risultati hanno mostrato che più alta era l’alleanza di lavoro riportata dai pazienti, meno depressi e più sollevati si sentivano generalmente dopo il pianto, suggerendo quindi che quando l’alleanza di lavoro è percepita come forte, i pazienti sperimentano il loro pianto come un momento utile per la risoluzione dei sentimenti negativi. Inoltre, quando l’esperienza del pianto era seguita da una maggiore consapevolezza, quando era vissuta come un momento di genuina vulnerabilità e sentivano che il loro terapeuta era di supporto, i pazienti percepivano l’alleanza terapeutica come ancora più forte.

Questi risultati, nel complesso, suggeriscono che il pianto in terapia non è di per sé un indicatore di una scarsa alleanza terapeutica, piuttosto la qualità dell’esperienza del pianto, la sua successiva esplorazione come momento di maggiore consapevolezza, e le successive emozioni positive derivate da quel pianto possono essere correlate con una buona alleanza terapeutica.

Pianto e cambiamento terapeutico

Per quanto riguarda la relazione tra l’esperienza generale del pianto e il cambiamento terapeutico, i risultati hanno mostrato che i pazienti si sentivano più sollevati, più rilassati, più felici e meno tesi dopo il pianto se percepivano il loro processo terapeutico come efficace nel risolvere i loro conflitti intra-psichici, reazioni problematiche e problemi interpersonali. Inoltre, più alto era il cambiamento terapeutico riportato dai pazienti, più essi sperimentavano l’episodio di pianto come un momento di autenticità, di maggiore insight, auto-consapevolezza e auto-efficacia, insieme alla sensazione di essere più compresi ed emotivamente connessi con i terapeuti.

Conclusioni

In sintesi, i risultati di questo studio supportano ed estendono la rilevanza della qualità dell’alleanza di lavoro e del cambiamento terapeutico in relazione alla qualità dell’esperienza di pianto dei pazienti in terapia. Coerentemente con il modello clinico focalizzato sull’affetto di McCullough et al. (2003), i risultati di questo studio hanno riscontrato una relazione terapeutica e un cambiamento significativamente più elevati nei pazienti le cui esperienze di pianto in terapia sono state seguite da un maggiore senso di sollievo.

Inoltre, per i pazienti con stile di attaccamento preoccupato e respingente, i risultati hanno mostrato l’importanza dell’alleanza terapeutica e del cambiamento sulla sensazione di fiducia nel raggiungimento degli obiettivi terapeutici dopo il più recente episodio di pianto, e sulla tendenza generale a provare più sollievo e meno tensione dopo aver pianto in terapia.

Le dimensioni psicologiche del dolore cronico – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

  Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il secondo episodio del podcast dedicato alle dimensioni psicologiche del dolore cronico. Ospite dell’incontro: il Dott. Michael Tenti.

 

Dove ascoltare il secondo episodio:

 

Tutto è così e sempre tale resterà. La convinzione nel panorama delirante

Secondo Jaspers il delirio lascia intravedere una frantumazione delle forme basilari della propria esperienza, in quanto avviene una trasformazione globale della coscienza di realtà del soggetto stesso.

 

La formazione, l’elaborazione ed il mantenimento dell’idea delirante si correla all’espressione di numerose influenze causali convergenti, ciascuna delle quali esercita un’influenza diversa nell’evoluzione della convinzione (Roberts1992).

Il processo di ragionamento nel trarre delle conclusioni relative ad una situazione esterna e/o ambientale risulta nettamente alterato nel soggetto delirante.

Il rischio dunque è che si venga a delineare quello che più comunemente viene definito “salto alle conclusioni”, un processo che riflette un nesso causale “troppo ovvio in un quadro probabilistico” (Huq 1988).

Quanto si riscontra è una modalità abnorme e distorta nell’elaborare le informazioni con le quali l’individuo entra a contatto, e dalle quali risulta toccato a livello emotivo.

L’anomalia del ragionamento e della percezione si correla inoltre con un ulteriore fattore: ossia l’incapacità di fare uso delle conoscenze acquisite in precedenza, possibilmente riguardanti il mondo, le relazioni e il proprio modo di viverle; con la drammatica conseguenza che le stesse informazioni disponibili possono essere soggette ad una ri-formulazione delirante (Garety 1991).

Una chiave di lettura aggiuntiva circa la natura del delirio deriva dal contributo di Kaney e Bentall (1989, 1992).

Gli autori infatti, tramite la teoria dell’attribuzione sociale, hanno riscontrato come i soggetti deliranti tendano ad estendere in maniera eccessiva il contenuto di un evento negativo, generando in tal modo attribuzioni globali annesse ad attribuzioni stabili e pertanto necessariamente esistenti.

Ma quanto conta il proprio passato e il proprio stile nel guardare e valutare il mondo?

Questi disturbi del pensiero sono legati sia al significato personale sia al confine del sé, infatti nello specifico l’attribuire qualcosa in maniera estesa e globale, spesso sottende l’impiego di prove ovvie connesse ad una lente intrapsichica con la quale l’individuo si è sempre mosso nel mondo.

La formazione delirante infatti si configura spesso come un meccanismo adattivo tramite il quale combattere la mancanza di solitudine, la disperazione, il senso di inferiorità e non ultima la consapevolezza dolorosa della rottura delle relazioni; procurando nondimeno un nuovo senso di identità, dietro il quale tuttavia si cela una rottura psicotica tra il proprio mondo intrapsichico ed interpersonale.

Si innesca così un nuovo modo di guardare il mondo, una nuova lente, che seppur disfunzionale, tuttavia promuove una nuova modalità autoregolatrice.

Il delirio è una convinzione?

Nella letteratura cognitiva e filosofica il concetto di convinzione viene di solito considerato un atteggiamento proposizionale in cui si assume che qualcosa sia vero, ma più nello specifico viene da chiedersi se il delirio rifletta una “falsa convinzione” o al contrario se il delirio possa essere percepito come esempio di convinzione o di asserzione sulla realtà.

Secondo Jaspers infatti il delirio lascia intravedere una frantumazione delle forme basilari della propria esperienza, in quanto avviene una trasformazione globale della coscienza di realtà del soggetto stesso (Jaspers 1963, Schneider, 1950).

Ciò che si modifica non è tanto la propria opinione sulla realtà, quanto la struttura stessa della prospettiva globale sul mondo: la cornice ontologico-esistenziale della persona. Tale cornice pertanto subisce modifiche accompagnate da distorsioni inerenti i parametri spaziali, temporali e identitari.

La propria “evidenza delirante” deriva principalmente da un’esperienza “sentita” che diviene il riferimento di un senso privato, assoluto e insostituibile.

Una certezza che non solo ha radici lontane nel tempo ma che risulta assoluta sin dall’inizio: “il senso di insicurezza dell’umore delirante è di per sé assolutamente sicuro” (Muller Suur 1950) e ciò che è stato, è e sarà per sempre.

Il palcoscenico emotivo e il delirio di infedeltà

I deliri risultano ricchi di sfumature ed infinitamente variabili nel loro contenuto, presentano una plasticità in rapporto alle esperienze di ciascun soggetto. Nondimeno infatti emerge un retroterra emotivo, che a differenza della forma, richiama un background culturale, intimo ed esperienziale del soggetto stesso.

Tra quelli maggiormente disturbanti e che spesso inficiano la vita relazionale dei soggetti, il delirio di infedeltà è quello che più di tutti riflette la presenza di una convinzione di fondo.

Accompagnato pertanto da una gelosia morbosa, questo disturbo del contenuto descritto da Ey (1950) presenta varie sfumature e/o sfaccettature: può dispiegarsi infatti in concomitanza di un’idea dominante, uno stato d’ansia e non ultimo uno stato depressivo.

Il sentimento di gelosia associato alla sensazione che l’oggetto amato “mi appartenga” descrive non solo un forte legame con un’altra persona, ma al contempo un pensiero che, se abnorme, può innescare una morbosità vera e propria.

Ma come si può distinguere una gelosia comprensibile e spesso fisiologica da un’altra chiaramente delirante?

A tal proposito Mullen (1997) ha classificato la gelosia morbosa tra i “disturbi passionali”, in cui prevalgono un senso esasperato di detenere un diritto e la convinzione che altri stiano “ledendo questo stesso diritto”.

Il rischio dunque è quello di costruire la propria identità e il proprio modo di sentire e percepire esclusivamente in funzione di una convinzione predominante; una convinzione che purtroppo innesca il desiderio di riaffermare ed esercitare il proprio controllo sull’altro al fine di punire la sua trasgressione.

In questa specifica sfumatura la convinzione delirante può non essere accompagnata da una rottura psicotica (Todd 1955).

Il profilo psicologico che si delinea risulta quello di una persona che dirige il proprio contenuto delirante nei confronti del partner, rispetto al quale sente un profondo attaccamento e da cui sovente risulta emotivamente dipendente.

Qualora la gelosia comprensibile si trasformi in morbosità emerge la convinzione che vi sia una minaccia al possesso esclusivo.

L’idea prevalente come alternativa al delirio

Un’idea prevalente è un’idea accettabile, comprensibile, perseguita al di là dei limiti della ragione. Di solito è associata con un profilo di personalità ossessivo – compulsiva, in cui il pensiero risulta alterato, ripetitivo e spesso dai connotati ritualistici.

Secondo McKenna (1984) con questo termine ci si riferisce ad una “credenza solitaria e abnorme” che tuttavia non risulta delirante ma è preoccupante per il grado in cui domina la vita di chi ne è affetto.

È prevalente in quanto provoca e determina un modo del tutto disturbato di funzionare o peggio ancora uno stato di sofferenza al soggetto e agli altri.

In concomitanza al delirio, quello che accomuna entrambi i quadri psicopatologici è il proprio background retrostante, un retroterra emotivo rispetto al quale il proprio modo di muoversi nel mondo non permette di accogliere nuove chiavi di lettura, se non appunto quella dominante, la sola ed unica.

Infatti le nuove chiavi di lettura non sono soggette ad una possibile revisione e/o acquisizione, bensì risultano soltanto secondarie a quella principale, a quella prevalente.

Quest’ultima infatti innesca un perno attorno al quale la vita e l’identità dell’individuo prendono vita, plasmando il suo modo di vedere, sentire ed agire nel mondo.

Rispetto a quest’ultimo, viene da chiedersi quale criterio di giudizio prevalga nella persona che lo esprime in riferimento a qualcosa.

Un giudizio è infatti un pensiero che esprime una visione della realtà, nondimeno per coglierne la differenza con l’idea prevalente bisognerebbe metterlo a confronto con il dato obiettivo.

Può quindi un’idea prevalente sfociare in un giudizio erroneo della realtà innescando un disturbo del contenuto del pensiero?

A tal riguardo la valutazione viene fatta non solo in base ad una propria credenza, bensì prendendo in esame la totalità del comportamento del soggetto in questione.

La natura del convincimento può concretizzarsi in una sentenza definitiva? Oppure al contrario essere flessibile e soggetta ad una ragionevole revisione?

La prestazione psichica richiesta per produrre un delirio è piuttosto indipendente dall’intelligenza, infatti il delirio prende vita in uno stato di coscienza lucido e la facoltà di giudizio può essere correlata alla capacità di ragionamento logico intrinseca del soggetto, sempre più propenso a difendere il suo convincimento.

Ma il suo ragionamento è idoneo e applicabile a tutte le sfere inerenti la sua vita?

Spesso infatti il modo in cui il paziente vive conferma la presenza di una distorsione avente radici lontane nel tempo, ossia da premesse correlate ad esperienze pregresse che promuovono idee e convinzioni distorte ed emotivamente disfunzionali.

Sulla base di una premessa distorta si costruisce una logica basata su quest’ultima, ossia una logica erronea e lontana dalla realtà di fatto.

Nondimeno lo stato emotivo sembra influenzare notevolmente il contenuto, di modo che la credenza errata diviene lo sviluppo logico derivante da un’anormalità estrema dell’umore.

Realtà, giudizio e percezione del mondo

Il reale viene solitamente definito come ciò che esiste indipendentemente dai nostri atti coscienti (fantasie o immaginazione) e in chiave fenomenologica la realtà riflette un “mondo vissuto”, un mondo intriso di significato, rilevanza ed obiettività.

Veri e propri ingredienti che nel loro insieme risultano co- costruiti dalla propria inter soggettività, connotata di dimensioni culturali, sociali e simbolico – comunicative (Parnas, Sass, 2008).

Nello specifico infatti la realtà non si affaccia ai nostri occhi quale semplice entità fisica, bensì come uno sfondo rispetto al quale le nostre radici di natura affettiva danno vita ad un orizzonte preriflessivo affettivo esistenziale che fa da cornice ai nostri rapporti quotidiani con gli oggetti, le situazioni e gli Altri (Husserl 1982).

Le emozioni e gli stati d’animo ci mettono in connessione con il mondo in modo “comprensibile” (Heidegger 1996) in quanto emerge un modo di “essere al nel mondo”.

L’affettività infatti comporta un tacito dispiegarsi nel mondo stesso, rispetto al quale il giudizio dispiega una credenza e/o un atteggiamento proposizionale nei confronti di un determinato stato di cose presenti nel mondo, tra cui le proprie esperienze passate in funzione delle quali rischiamo di vivere quelle presenti: dando vita così ad una lente certa e definitiva.

In cui il nostro vissuto sarà l’unico porto da cui far salpare il nostro modo di guardare, percepire e sognare un futuro.

 

“Amor ch’a nullo amato amar perdona”: cosa ci porta a perdonare un tradimento?

I risultati dello studio hanno rivelato che il perdono dell’infedeltà varia a seconda del tipo di comportamento, del genere di chi perdona e dei propri ideali.

 

Le relazioni romantiche sono altamente desiderabili e offrono una varietà di benefici, tra cui un senso di appartenenza e maggiori sentimenti di stabilità e sicurezza. Nonostante ciò, i tassi di infedeltà sono allarmanti, con ricerche che stimano che il 35-60% degli adulti ha messo in atto qualche forma di tradimento (Thompson & O’Sullivan, 2017). Questi dati sono ancora più preoccupanti se si considerano le conseguenze che spesso derivano dall’infedeltà, come il disagio fisico e psicologico e la dissoluzione del rapporto. Tuttavia, non tutte le relazioni finiscono dopo un caso di tradimento: il 25,3% degli adulti sceglie di perdonare il proprio partner e di rimanere nella relazione (Hall & Fincham, 2006). Tale scelta può essere ascrivibile al fatto che perdonare un tradimento non solo può incrementare l’armonia del rapporto, ma può anche portare con sé una serie di benefici fisiologici e psicologici. Heintzelman e colleghi (2014) hanno scoperto che il perdono dopo l’infedeltà predice la crescita personale e la percezione di un cambiamento in positivo.

Le tipologie di infedeltà

Consultando la letteratura, possiamo osservare che l’infedeltà è concettualizzata in quattro diverse categorie: sessuale/esplicita (avere rapporti sessuali, baciare), tecnologica/online (navigare su siti web per single, inviare messaggi sessualmente espliciti), emotiva/affettuosa (accompagnare qualcuno a un evento formale, innamorarsi), e comportamenti solitari (impegnarsi nella masturbazione). Alcuni studi hanno rivelato che i comportamenti sessuali/espliciti vengono giudicati come più indicativi di infedeltà, seguiti da quelli tecnologici/online, emotivi/affettuosi e da quelli solitari che vengono considerati meno infedeli (Thompson & O’Sullivan, 2016). Per quanto riguarda le differenze di genere, gli uomini riferiscono di essere più propensi a perdonare l’infedeltà emotiva mentre le donne riferiscono di essere più propense a perdonare l’infedeltà sessuale. In aggiunta, le partecipanti donne erano più propense a giudicare i comportamenti tecnologici/online, emotivi/affettuosi e solitari come più indicativi di infedeltà rispetto ai partecipanti maschi, ma non i comportamenti sessuali/espliciti. Il grado con cui un comportamento veniva giudicato come infedele era inoltre direttamente proporzionale al perdono e, di conseguenza, i comportamenti considerati come più indicativi di infedeltà erano valutati come più “imperdonabili” (Beltrán-Morillas et al., 2019).

Uno studio sul perdono di un tradimento

Ma quali sono le variabili che entrano in gioco quando si sceglie di perdonare un tradimento? Lo scopriamo nello studio di Thompson e colleghi (2020), che ha coinvolto 288 adulti impegnati in una relazione sentimentale da almeno sei mesi.

Per partecipare i soggetti dovevano accedere su Amazon Mechanical Turk® (MTurk®), compilare un modulo di consenso informato, rispondere ad alcune domande demografiche, completare il Definitions of Infidelity Questionnaire-R (DIQ-R ; Thompson & O’Sullivan, 2016) e l’Implicit Theories of Relationships Scale (ITRS; Knee, 1998).

Per quanto riguarda i dati demografici ai partecipanti sono state richieste informazioni rispetto all’identità sessuale, l’età, l’etnia, l’orientamento sessuale, l’esperienza rispetto all’infedeltà, l’attività sessuale e lo stato della relazione attuale.

Il DIQ-R (Thompson & O’Sullivan, 2016) è stato utilizzato per indagare la propensione al perdono. La scala contiene 32 items suddivisi in 4 sottoscale (sessuale/esplicita, tecnologica/online, emotiva/affettuosa e comportamenti solitari) che fanno riferimento ad una serie di comportamenti che possono essere ritenuti indice di infedeltà. Per quanto riguarda i comportamenti sessualmente espliciti nella scala vengono citati “essere coinvolti in un rapporto anale” o “praticare sesso orale a qualcuno”, mentre nella sottoscala “online” si fa riferimento a comportamenti quali “masturbarsi con qualcuno in webcam” o “crearsi un profilo su un sito di incontri”. Nella selezione di comportamenti “platonicamente infedeli” vengono proposti “flirtare con qualcuno” ed “aiutare qualcuno economicamente”, mentre per i comportamenti “solitari” si potrebbero considerare “guardare video pornografici” o “masturbarsi”. Nello specifico, ai partecipanti è stato chiesto di indicare fino a che punto avrebbero perdonato i loro partner nel momento in cui avessero attuato ciascuno dei comportamenti elencati nella scala, scegliendo un punteggio da 1 (non perdonerei in nessun modo) a 7 (perdonerei). È importante specificare che ai partecipanti non è stata data nessuna definizione precisa di perdono.

Per indagare gli ideali relazionali impliciti dei partecipanti è stata somministrata l’Implicit Theories of Relationships Scale (ITRS; Knee, 1998) che include 8 items suddivisi in due sottoscale: ideali di crescita (es. “la crescita relazionale ideale segue il corso del tempo”) ed ideali legati al destino (es. “la relazione ideale è data perlopiù dall’incontro di un partner compatibile”).

Cosa influenza il perdono di un tradimento?

I risultati dello studio hanno rivelato che il perdono dell’infedeltà varia a seconda del tipo di comportamento, del genere di chi perdona e dei propri ideali. Per quanto riguarda le variazioni del perdono legate al tipo di comportamento, i comportamenti solitari sono stati considerati i più perdonabili, seguiti dai comportamenti emotivi/affettuosi e tecnologici/online. I partecipanti maschi hanno valutato tutti i tipi di ipotetica infedeltà come più perdonabili rispetto alle partecipanti femmine, il che potrebbe essere legato al loro maggiore interesse per un tipo di relazione non monogama. Questo comporta che, sebbene i partecipanti maschi possano aver giudicato i comportamenti sessuali/espliciti come indicativi di infedeltà nella stessa misura delle partecipanti femmine, potrebbero essere più disposti a perdonare questi comportamenti. Nonostante le significative differenze di sesso scoperte nello studio, è importante tenere a mente che queste differenze erano spesso minime.

Per quanto concerne gli ideali, gli individui che credono nel destino tendono a perdonare i comportamenti sessuali/espliciti e tecnologici/online del partner in misura minore. Ciò può essere correlato sia alla loro tendenza a terminare rapidamente le loro relazioni dopo grandi trasgressioni, sia al fatto che, poiché i comportamenti emotivi/affettuosi e solitari sono meno espliciti, è possibile che gli individui non percepiscano questi comportamenti come segnali che la loro relazione non sia “destinata ad essere”. Invece, prendendo in considerazione gli individui con ideali legati alla crescita, essi vedono il conflitto come un’opportunità di apprendimento all’interno di una relazione e possono esplorare le opportunità di perdonare il partner dopo l’infedeltà in misura maggiore. I comportamenti sessuali/espliciti e tecnologici/online violano il presupposto primario della maggior parte delle relazioni romantiche, ovvero l’esclusività sessuale e, di conseguenza, sono stati percepiti dagli individui come troppo gravi e non come opportunità di crescita. D’altra parte, poiché i comportamenti emotivi/affettivi e solitari sono stati ritenuti forme più “leggere” di infedeltà, questi sono stati probabilmente interpretati come opportunità ideali per crescere e rafforzarsi all’interno della relazione, e quindi sono stati visti come più perdonabili.

 

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento (2022) – Recensione

Al giorno d’oggi si sente sempre più parlare di dipendenza affettiva, di questo terribile malessere da cui uscire da soli è difficile, e non ricaderci nuovamente lo è ancora di più.

 

Come è spiegato nel libro Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento, chiaramente ci sono dei motivi che fanno accadere tutto questo, a partire da traumi infantili, che richiedono un’elaborazione per poter disinnescare questi meccanismi che arrecano grande dolore.

Nel testo, l’autrice ha voluto non solo descrivere i soggetti più a rischio di dipendenza affettiva, ma anche chi si trova dall’altra parte: i partner che suscitano in loro maggior interesse. Il libro descrive in primo luogo che cosa è la dipendenza affettiva, mettendo in luce le difficoltà e le limitazioni che crea. Un capitolo particolarmente interessante riguarda il concetto di amore e la capacità di amare: cosa tutt’altro che scontata!

“So amare?” Questa è la domanda che potrebbe porsi il lettore inciampato in una relazione disfunzionale in cui si ritrova a riporre la sua felicità nelle mani di un’altra persona. Si tratta di una domanda a cui può essere molto difficile rispondere poiché implicherebbe il fatto di ammettere una grossa mancanza.

Molte altre sono le domande difficili da affrontare quando si tratta di dipendenza affettiva, come quelle che emergono da questo testo: perché tutta la felicità viene riposta solamente in una determinata persona? Perché si ama chi non sa ricambiare? Perché il partner che è così speciale non è anche realmente vicino? Perché, inoltre, nonostante tutto l’impegno, continua ad essere irraggiungibile? Ecc..

L’autrice ha messo in luce il fatto che ricercare una storia impossibile può anche essere un modo per sfuggire dalle proprie responsabilità; quello che in psicologia si potrebbe definire “evitamento attivo”. Si ha così la certezza di non poter costruire nulla di serio, di stabile, di concreto e di duraturo. Il partner ricercato dal dipendente affettivo, e adulato come se fosse un mito, potrebbe inoltre soddisfare dei bisogni che però non coincidono con le reali necessità, e allo stesso tempo potrebbero cambiare i bisogni stessi portando a una sorta di inseguimento continuo di un partner incapace di soddisfare le richieste.

Il tema trattato in questo libro è una dipendenza vera e propria, che coinvolge le aree cerebrali annesse e che, come ogni dipendenza, richiede sia un certo sforzo, sia le corrette strategie per essere superata. Ma il vero scoglio di una dipendenza è il paradosso tale per cui la soluzione sembra coincidere esattamente con ciò che nuoce.

Una diversa prospettiva sulla pandemia: e se avesse aiutato a far emergere la sofferenza latente?

Creando una situazione unica ed estrema, la pandemia può aver sottratto al sistema familiare quei fragili equilibri che consentivano alla sofferenza di sopravvivere sotterranea e ancora tollerabile. Creando l’opportunità di affrontare le nostre sofferenze, invece di fuggire da esse.

 

È innegabile che la pandemia da Covid sia stata per tutti un evento ad alto impatto. Si stima che la richiesta di aiuto psicologico sia aumentata in questo periodo di circa il 40% .

Uno studio che ha coinvolto 29 ricerche in tutto il mondo dimostra un significativo aumento di sintomi depressivi (dal 12,9% al 25,2%) e sintomi ansiosi (dal 11,6% al 27,1%) nella popolazione under 18. Fra la popolazione adulta si è osservato un sostanziale aumento di disturbi clinicamente maggiori (fonte: Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi CNOP).

In un rapporto pubblicato da UNICEF ad Ottobre 2021, 1 minorenne su 3 vive attualmente una condizione di disagio psicologico, 1 su 5 ha sintomi depressivi e 1 su 7 soffre di una patologia psichica strutturata.

Sembrerebbe quindi sussistere un rapporto fra pandemia e aumento generale del malessere psicologico nella popolazione. Ma come possiamo dare senso e significato a tale dato? La pandemia ha generato malessere psicologico?

E se la pandemia avesse invece accelerato il processo terapeutico?

Gli effetti della pandemia in una lettura sistemica

Nell’approccio sistemico relazionale non si parla di casualità lineare fra gli eventi ma di circolarità: le azioni all’interno di un sistema si influenzano reciprocamente; ogni azione è a sua volta causa ed effetto delle altre.

Vediamo quindi cosa può essere successo con l’arrivo della pandemia. Di fronte ad un evento di tale portata, il sistema familiare è stato costretto a riorganizzarsi. Le strategie individuali, di coppia e familiari, che sinora avevano garantito una omeostasi del sistema, non hanno più potuto funzionare come prima ma sono andate incontro a un diverso assetto.

Gli effetti immediati sul sistema familiare sono stati:

  • la riduzione delle relazioni esterne, in particolar modo la riduzione delle interazioni face-to-face con persone extrafamiliari significative (pari, educatori, colleghi, amici)
  • la riduzione della libertà di movimento
  • l’aumento delle interazioni intrafamiliari

Ognuno di tali elementi rappresenta, soprattutto in contesti di pregressa fragilità, un fattore di protezione dal malessere psicologico.

Creando una situazione unica ed estrema, la pandemia può aver quindi sottratto al sistema familiare quei fragili equilibri che consentivano alla sofferenza di sopravvivere sotterranea e ancora tollerabile.

Non solo. Rappresentando un “un nemico comune esterno”, la pandemia può aver agevolato la richiesta di aiuto, di fatto deresponsabilizzando l’individuo e rendendo il rivolgersi al terapeuta socialmente più accettabile.

Il caso di Diego: quando la pandemia “rompe il vetro” e agevola il cambiamento

Diego ha 16 anni; arriva nello studio a Gennaio 2020, inviato per una fatica scolare. Frequenta il III anno di un istituto tecnico e dall’inizio delle superiori, dopo un inizio brillante, mostra una battuta di arresto con il secondo quadrimestre con un crollo significativo del rendimento, difficoltà nelle interrogazioni, perdita di concentrazione e manifestazioni di ansia. L’inizio della III ha rappresentato un ulteriore aggravarsi delle sue difficoltà: il rendimento è stato da subito fluttuante; Diego, da sempre selettivo nelle amicizie, si è chiuso in casa e ha interrotto le poche frequentazioni precedenti; ha lasciato l’attività fisica. I genitori sono preoccupati si stia strutturando un disturbo ansioso.

La consultazione

Diego fatica a parlare di sé, si mostra sempre sorridente in modo marcato, dissimula le sue emozioni, si mostra reticente. Ha scarse frequentazioni. Ha una sorella minore, immunosoppressa per trapianto, con cui parla poco. I genitori descrivono un ragazzo a cui, da bambino, è stato chiesto di essere bravo e paziente mentre loro erano impegnati con la sorella, il cui stato di salute ha destato preoccupazioni.

La coppia genitoriale è formata da un padre sfuggente, spesso assente per lunghi periodi per lavoro, che dietro ad una parvenza di benessere si descrive come persona tesa e sotto stress. La madre, casalinga da quando è stata diagnosticata la malattia della figlia, si descrive anch’essa come una persona nervosa, impegnata in modo quasi ossessivo in palestra, sua “valvola di sfogo”.

La coppia mostra una parvenza di tranquillità ma emerge una immagine di reciproche solitudini e di forti tensioni: Diego riferisce di frequenti litigi quando i genitori pensano di non essere ascoltati; gli scambi verbali in seduta sono carichi di tensione ma non c’è esplicitazione di un conflitto. Emerge chiara la rappresentazione di una famiglia in cui tutto debba andar bene, in cui non vi sia spazio per esprimere e accogliere malessere, dove la richiesta esplicita è di far segreto delle sofferenze e aderire ad una aspettativa di buon funzionamento. La richiesta esplicita rivolta al terapeuta è che si aiuti Diego a tornare ad essere il “bravo bambino” che è sempre stato.

Diego sente il peso delle menzogne e al tempo stesso teme che il suo malessere possa infrangere il vetro di finto benessere dietro cui la sua famiglia nasconde le proprie difficoltà.

Arriva la pandemia

La famiglia si chiude in casa e taglia ogni rapporto con l’esterno. Lo stato di immunosoppressione della figlia impone restrizioni rigide e riattiva vissuti di preoccupazione elevata.

Diego mostra uno stato depressivo accentuato: dorme poco, ha un’importante riduzione dell’appetito, fatica a concentrarsi, si chiude nella sua camera e interrompe i pochi contatti ancor presenti con l’esterno.

Durante i colloqui Diego si mostra arrabbiato e deciso a smettere di fingere “che vada tutto bene”: i genitori litigano quotidianamente e ora in modo più acceso, data la convivenza forzata; prima della pandemia le liti si concludevano con l’allontanarsi del padre per più giorni e il ragazzo ha l’idea che il padre abbia una relazione extraconiugale. Le discussioni sono continue anche quando le sue idee sono divergenti da quelle dei genitori: aveva velleità umanistiche ma non è stato possibile far altro che seguire la carriera scolastica imposta dal padre; per ogni sua idea o bisogno chiede alla madre, la quale o media la richiesta con il padre, incassando un parere negativo, oppure convince Diego a non chiedere “per non far arrabbiare papà”. Il padre si arrabbia in modo acceso, non è violento, ma non è possibile parlare liberamente. La madre sembra far finta di nulla, si chiude in palestra e non condivide alcuna difficoltà. I figli stanno ognuno per conto proprio, in silenzio.

Il ruolo “terapeutico” della pandemia

La chiusura in casa rompe i fragili equilibri che consentivano alla famiglia di fingere benessere. I genitori interrompono le triangolazioni con l’esterno (la palestra, il lavoro, l’eventuale relazione extraconiugale). Lo stato di malessere del ragazzo diventa visibile e non eludibile, né circoscrivibile al solo ambito tollerabile della scuola. Appare evidente a tutti che il malessere è generalizzato e ha a che fare con le relazioni. E che non sia possibile “occuparsi solo di Diego” e “aggiustarlo”.

La famiglia sperimenta forse per la prima volta la possibilità di rivolgersi all’interno e di affrontare le proprie fragilità. L’obbligo di stare in casa è l’occasione per guardarsi e dirsi. Il sintomo così chiaro e urgente rende impossibile far finta.

L’opportunità offerta dal contesto terapeutico familiare agevola tale processo. Diego può finalmente dire le cose come stanno e fare una prima esperienza di sentirsi ascoltato. Sollevato dall’obbligo di aderire alla “facciata perfetta” proposto dalla famiglia, può dedicarsi alle relazioni e alla costruzione di una idea universitaria divergente dai piani paterni.

I genitori possono esplicitare apertamente il conflitto di coppia ai figli, riconoscendo come sia questo segreto di Pulcinella a generare sofferenza, più che la notizia in sé. Riescono a comprendere la loro esigenza di tenere in piedi una facciata perfetta come strumento per evitare il dolore. Possono fare individualmente ipotesi diverse per il futuro.

Conclusioni

Il caso proposto mette in evidenza il ruolo della pandemia come “acceleratore del processo terapeutico”. L’evoluzione del caso sarebbe stata la stessa senza la chiusura in casa imposta da ragioni di ordine sanitario? Probabilmente no. La prescrizione a tenere segrete le sofferenze familiari e aderire alla costruzione di una immagine esterna di famiglia perfetta avrebbe probabilmente prevalso, portando ad una interruzione del percorso terapeutico.

La pandemia ha allora assunto un ruolo positivo. Ha interrotto i fragili equilibri che continuavano a tenere insieme la coppia e a sorreggere l’immagine illusoria di perfezione. Ha reso evidente a tutti la sofferenza enorme e latente. Ha obbligato tutti a prendersene cura, ricostruendo una possibilità di dialogo e connessione nella famiglia. Ha imposto la necessità di posizioni autentiche e di esplicitazione dei bisogni.

È andata per tutti così? È probabile che ci siano state situazioni in cui le restrizioni abbiano costituito l’unico fattore di rischio esistente. Ma per mia esperienza, e in questo l’ottica sistemica mi dà ragione, la gran parte delle nuove richieste di aiuto psicologico poggiano su situazioni di sofferenza preesistente, che la pandemia ha reso visibili e ineludibili. Rompendo i fragili equilibri che ognuno di noi quotidianamente costruisce per consentirsi di andare avanti, la pandemia ha forse offerto l’opportunità di affrontare le proprie difficoltà invece che di fuggire da esse.

 

Oltre la trappola del panico (2021) di Alma Chiavarini – Recensione

Oltre la trappola del panico è un libro che raggruppa le voci di chi ha combattuto e di chi ancora combatte contro ansia e attacchi di panico, una vera e propria voce collettiva che evidenzia dolore, sofferenza, sensi di colpa, terrore di un disagio non semplice da superare, ma anche la possibilità di farcela.

 

Tutti noi proviamo ansia: si pensi all’attesa prima di un esame, al momento di un colloquio lavorativo, ma anche ad un nuovo incontro. L’ansia implica uno stato di arousal, ossia di attivazione del sistema nervoso simpatico che identifica uno stato di apprensione provato nell’anticipazione di un certo evento. Lo stesso vale per la paura, anche se quest’ultima sottolinea quel dato di immediatezza, in contrasto con l’aspetto di attesa della prima. Pertanto è fondamentale ricordarsi che fa parte della nostra vita quotidiana e aiuta a metterci in guardia da situazioni potenzialmente pericolose, ma ci collega anche all’essenza di ognuno di noi, costantemente in contatto con l’attenzione verso di sé e verso gli altri, proiettato al futuro, incerto, ma necessario per la stessa, medesima esistenza. Non di rado si assiste ad una deformazione dell’ansia abituale ponendo la grave questione della psichiatrizzazione di casi decisamente sotto soglia, mettendo in bilico quel limite tra “normale” e “patologico” che porta alla prescrizione, in maniera assolutamente troppo frequente di farmaci ansiolitici, oltrepassando l’importante ascolto della persona che, spesso, ha solo bisogno di una guida per meglio comprendersi.

Decisamente diversa, invece, è la condizione di tutti coloro, che, a causa di uno stato ansioso persistente, non sono più in grado di gestire la propria vita quotidiana, terrorizzati a tal punto da credere più sicuro il rimanere isolati, nella propria casa, a volte, addirittura rinchiusi nella propria stanza.

I disturbi d’ansia secondo DSM-5 sono molteplici e presentano diverse sfaccettature; proprio per questo è necessario un approccio integrato che possa avere il sostegno di più professionisti, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, che devono valutare con attenzione il livello di gravità, non tanto da manuale, quanto percepito. Ad aggiungersi, però, e la letteratura ne ha davvero molti esempi, un valido sostegno è arrivato dalla formazione di gruppi di mutuo aiuto, spesso associati dal sapere comune all’ambito delle dipendenze, come gli Alcolisti Anonimi, ma che, in realtà, possono sfruttare tutte le proprie potenzialità in diversi ambiti. Un esempio è proprio l’associazione Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, d’Agorafobia e da attacchi di Panico (Lidap) di cui la dottoressa Alma Chiavarini, autrice del libro, è una delle principali sostenitrici. Nel testo vengono riportate delle autentiche testimonianze di persone che, grazie al supporto dei vari professionisti, ma anche grazie a questi gruppi, sono riuscite a trovare il modo di evolvere, di arrivare perfino a dialogare con quel nemico invisibile, prima considerato un mostro esterno imbattibile.

In effetti, se ci appoggiamo alla letteratura, Lewin parla proprio, a proposito del gruppo, come di una potenza trasformatrice che sfrutta l’essere insieme, il senso di appartenenza, la condivisione di tematiche, puntando non tanto sulla similarità, ma sull’interdipendenza tra i membri. Il gruppo funziona proprio come un campo di forze in cui l’azione del singolo influenza tutti gli altri individualmente, ma anche nella totalità, facendo sì che ogni piccolo cambiamento possa generare un moto propulsivo che verte alla trasformazione, come accade in una Galassia, dove stelle, sistemi, gas e polveri si legano e interagiscono uniti da reciproca forza di gravità. Pertanto il gruppo diventa una dimensione di possibilità, dove predominante risulta essere il senso di identità sociale. Anche W. R. Bion studia il funzionamento del gruppo, sottolineando l’esistenza di una mentalità gruppale, ossia di un’esperienza che è prima di tutto sensoriale, emotiva, affettiva e poi cognitiva.

Ed il testo sposa bene questa filosofia, perché raggruppa le voci di chi ha combattuto e di chi ancora combatte contro questi disagi di ansia e di attacchi di panico, una vera e propria voce collettiva che evidenzia dolore, sofferenza, sensi di colpa, terrore di un disagio non semplice da superare, ma anche la possibilità di farcela. Questo non risulta un messaggio retorico, non propina false speranze, perché è proprio raccontato da chi soffre, da chi sta male, da chi è rimasto soffocato per mesi o anni tra le mura domestiche. È, come ben racconta il dott. Paolo Migone, una perlustrazione bottom-up, ossia dal basso verso l’altro: si parte con i piedi per terra, dalla terra nuda e cruda di chi ci è passato e di chi ancora combatte per poi, eventualmente, costruire una teoria. È un messaggio dunque non solo per coloro che pensano di non farcela, ma anche per gli stessi professionisti che, dal paziente, non possono che imparare. E, in effetti, da questi racconti ogni singolo concetto sembra scorrere sulla pelle del lettore, è palpabile, proprio perché espresso nel semplice linguaggio di chi la sofferenza la conosce per bene e, proprio per questo, ha il desiderio di aiutare chi potrebbe portarla dentro di sé come un macigno. Non si illude il lettore di poter avere un lieto fine in breve tempo, c’è un profondo rispetto per ogni singola persona in difficoltà, perché l’illusione non farebbe altro che trascinare ancora più a fondo chi è tanto fragile, in quanto lo porterebbe a sentirsi tradito. Ogni paziente racconta del proprio percorso, fatto spesso di terapia integrata, sottolineando la positività dell’esperienza gruppale e della necessità di cambiare prospettiva. C’è un senso di corresponsabilità tra queste persone, costruita sulla consapevolezza dell’inutilità dello scaricare la colpa su altri e della necessità, di contro, di imparare ad ascoltarsi, ad accettarsi, senza sentire quel senso di colpa che spesso è causa di cronicizzazione. E che cosa imparano ad ascoltare queste vite così diverse, ma allo stesso tempo così similari? Imparano ad ascoltare quella voce, quel sintomo, il panico che è, come dice bene Silvia nel testo, nemico, ma anche amico, in quanto in grado di darle quella scossa necessaria per poterle far riprendere in mano la sua vita.

Ad ogni singolo racconto di testimonianza nel libro segue sempre la parola di un esperto, che, a mio avviso, risulta particolarmente delicata, perché rispettosa di ogni singolo momento vissuto: è la parola del professionista che restituisce ad ognuna di queste persone un messaggio, che racchiude certo conoscenza e tecnica, fondamentali nella richiesta di aiuto, ma anche una profonda umanità e gratitudine per la condivisione di parti così intime di ognuno. Gli esperti sottolineano l’importanza della terapia, ognuno con l’esperienza del proprio orientamento, unita alla forza dei gruppi di mutuo aiuto, ma anche del profondo coraggio di ogni singolo paziente che lotta costantemente con abitudini disfunzionali, con senso di colpa e di vergogna, cercando una via di uscita.

Ma qual è il filo conduttore che lega queste testimonianze così diverse? Che da quel loop soffocante si può uscire, che da quegli anni così bui è possibile riemergere, che da quella paura della paura ci si può liberare, attraverso un percorso di accettazione, di trasformazione degli ostacoli in potenzialità, imparando anche ad amare quel panico, perché per accettare le proprie fragilità ed esprimere le proprie emozioni si deve amare la parte più vera di sé, come scrive Sebastiano nella sua testimonianza.

Questo testo è una vera e propria forma di amore, un amore che si affida al racconto di chi ci è passato, con l’intento di supportare e aiutare chi non sa dove andare, un amore onesto, perché contiene un messaggio reale: disagio e benessere non sono due dimensioni distinte, esse coesistono. Come ben scrive il dott. Migone citando Saffo: «Dove nulla è solo miele o solo assenzio».

 

Il potere dei colori nella scelta di una meta: Instagram e destinazioni

Lo studio di Yu, Xie e Wen (2020) ha analizzato le pratiche e le tecniche applicate su Instagram relative all’utilizzo dei colori nelle fotografie, per scoprire come la cromatura, la leggerezza e la tonalità delle foto influenzino la popolarità dei post in relazione al turismo.

 

Il marketing attraverso Instagram

La psicologia gioca un ruolo chiave, dall’imballaggio del prodotto fino alla sua vendita o alla sua sponsorizzazione tramite il marketing online. Esistono dei veri e propri spazi in rete, organizzati e gestiti dagli utenti, dedicati alla sponsorizzazione o alla promozione delle visualizzazioni di determinati prodotti: i contenuti generati dagli utenti (UGC) solitamente si trovano su piattaforme come Facebook, TripAdvisor e Instagram. Quest’ultima applicazione, con oltre 500 milioni di utenti attivi ogni giorno e con oltre 100 milioni di foto condivise in 24 ore, ha contribuito ai processi decisionali dei consumatori (Varkaris & Neuhofer, 2017) in quanto è uno strumento di marketing molto potente (Virtanen et al., 2017).

La China’s Greater Bay Area (GBA) (Ufficio del turismo del governo di Macao, 2017), evidenzia come Instagram sia in grado di promuovere una posizione o una tappa specifica nel mondo attraverso la visibilità: la popolarità dei post influenza le vendite, la consapevolezza del marchio e la fedeltà dei clienti (Rapp et al., 2013) ed è esaminabile attraverso il numero di “mi piace” dei consumatori e di commenti (Swani et al., 2017).

L’uso dei colori su Instagram

Lo studio di Yu, Xie e Wen (2020) ha analizzato le pratiche e le tecniche applicate su Instagram relative all’utilizzo dei colori nelle fotografie, per scoprire sia quali sono i colori più comuni sul social quando gli utenti pubblicano fotografie legate al turismo e per indagare come la cromatura, la leggerezza e la tonalità influenzino la popolarità dei post in base alle diverse tipologie fotografiche. In primo luogo, Xu e colleghi (2020) hanno svolto una revisione della letteratura, osservando che il concetto di identità è fondamentale in quanto la percezione dell’immagine del marchio da parte dei consumatori permette un riconoscimento identitario (Bernini et al., 2018; Que et al., 2011). Il branding di una destinazione contribuisce al valore percepito di un determinato luogo attraverso la combinazione di immagini con aspetti positivi, che restano radicate nella memoria dei turisti e che si differenziano dalle altre destinazioni proposte dai concorrenti (Cai, 2002; Legendre, Carter & Warnick, 2019; George, 2017).

Con la sua capacità di condivisione di video e foto, Instagram aiuta a generare consapevolezza per le differenti destinazioni (Bozhko, 2019; Yu, Xie & Wen, 2020) e, come suggeriscono alcuni studi, le persone desiderano riscontrare un impatto visivo prima di prenotare una meta specifica (Ryan, 2010). Gli autori hanno osservato come il colore comprenda tre dimensioni: brillantezza, cromatura e leggerezza (LCH; Gorn et al., 1997). La leggerezza si riferisce alla luminosità, permettendo così di discriminare tra un colore chiaro e uno scuro: Valdez e Mehrabian (1994) hanno mostrato come un colore brillante, tendente al biancastro, abbia un effetto maggiormente rilassante. La cromatura fa riferimento alla saturazione del colore, cioè alla presenza di un pigmento interno (Gorn, 1997). Sokolik e colleghi (2014) hanno presentato a dei partecipanti dei colori freddi (blu) e caldi (rosso) con diversi gradi di saturazione e hanno osservato come i colori più saturi sono stati scelti maggiormente grazie al maggior senso di attenzione e attivazione che forniscono.

A livello psicologico, i colori sono attribuiti a diverse associazioni: il nero è spesso associato a semantiche di potere, affidabilità, alta qualità ed è il più condiviso insieme al blu (Amsteus et al., 2015; Mehta & Zhu, 2009). Anche il blu è associato ad affidabilità e alta qualità, nonché altre caratteristiche come felicità e tranquillità (Madden, 2000; Singh, 2006). Bisogna comunque sottolineare che i colori hanno delle valenze individuali e culturali differenti: nei siti web, il rosso è associato alla felicità in Cina e al pericolo negli USA, mentre il giallo è associato a un senso di armonia per i canadesi e non per i giapponesi (Cyr et al., 2010).

I colori su Instagram e la scelta delle destinazioni

Dopo aver revisionato diversi profili Instagram e dopo aver selezionato delle foto relative a differenti destinazioni, i ricercatori hanno sottoposto le foto alla verifica dello spazio colore tramite Image Color Summarized. L’analisi dei dati è stata effettuata tramite LCH, un modello disegnato in base alla percezione umana del colore (Hsieh et al., 2018), che fa riferimento alla leggerezza, alla cromatura (scala da 0 a 100) e alla tonalità (scala da 0 a 360). Dopo aver raccolto i valori medi, le immagini selezionate sono state classificate in base alla loro tipologia (Yu, Xie & Wen, 2020).

I risultati hanno mostrato come gli individui sembrano maggiormente propensi a prediligere mete con fotografie più luminose e saturate. I colori che hanno contribuito in modo significativo alla popolarità dei post di diverse tipologie sono l’arancione, il giallo, il blu e il viola (Yu, Xie & Wen, 2020) Gli autori hanno dimostrato come il colore in generale contribuisca ad arricchire le percezioni dei turisti relative alle potenziali destinazioni. In conclusione, i risultati evidenziano come ci siano delle preziose implicazioni sull’utilizzo di Instagram come piattaforma per scegliere una meta di viaggio Yu, Xie & Wen, 2020).

Leggere per essere. Lettura condivisa e benessere

In questo articolo parleremo della lettura e delle sue varie applicazioni in ambito sociale e medico e di come diventi uno strumento condiviso e promotore di benessere all’interno di un centro diurno romano.

 

Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito […] perché la lettura è un’immortalità all’indietro. (Umberto Eco, 1991)

Introduzione

Se consideriamo la salute come “[…] uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto come assenza di malattia o infermità” (OMS, 1964), dobbiamo necessariamente interrogarci su come questo concetto venga declinato nel variegato e plurisettoriale ambito socio-sanitario della “salute mentale”. Uno di questi settori è la riabilitazione psicosociale, il cui principale obiettivo è quello di garantire che la persona con disagio psichico grave possa utilizzare tutte le abilità fisiche, emotive, sociali ed intellettuali indispensabili per raggiungere il maggior grado di autonomia possibile (Hume & Pullen, 1994; Liberman, 2016). Tra i luoghi dedicati al raggiungimento di questo obiettivo c’è il centro diurno (CD). Questa struttura opera a metà strada tra la dimensione “artificiale” della cura e quella “naturale” della vita quotidiana e, oltre a cura e riabilitazione, produce socialità, sapere e cultura, attività umane che possono essere esercitate in ogni luogo e in ogni momento al di là delle differenze individuali, sociali ed economiche.

In questo articolo parleremo della lettura e delle sue varie applicazioni in ambito sociale e medico e di come diventi uno strumento condiviso e promotore di benessere all’interno di un centro diurno romano.

Come e perché leggiamo

Che la lettura abbia sempre rivestito un’importanza particolare, è dimostrato dalla storia: verso la fine del dodicesimo secolo a.C., gli Assiri avevano collocato migliaia di tavolette d’argilla nel tempio di Assur, creando un archivio statale gestito dai sacerdoti che, col tempo, aggiungevano ad esso altre opere di tipo sacro e letterario. I Greci poi, giunsero ad attribuire una funzione terapeutica alla lettura, considerata psicologicamente e spiritualmente importante al punto che, dinanzi alle porte di accesso alle biblioteche venivano raffigurati dei segni che le indicavano come “luogo di guarigione per l’anima” (psychès iatreion). Questo concetto fu ripreso da Federico il Grande, che nel 1780 fece incidere sul frontone della biblioteca reale di Berlino la scritta Nutrimentum spiritus.

Sin dalla sua nascita, il libro faceva viaggiare idee, opinioni e conoscenza. In un momento successivo, l’uomo ha utilizzato la lettura anche per puro piacere personale, tanto da trasformarla in una necessità obbligatoria alla sopravvivenza, rendendola oggi quasi un vizio, almeno per alcuni, un “⦋…⦌ vizio impunito che ci dà l’illusione di condurci alla virtù” (Vitiello, 2021, p. 7). Leggere ci aiuta ad immedesimarci con qualcun altro, con qualcos’altro e ci fa sperimentare emozioni che non abbiamo ancora vissuto o, ancora meglio, ci aiuta a scavare a fondo in quelle che già conosciamo. Ci stimola, ci porta a crescere, a raggiungere una conoscenza superiore.

La lettura, quindi, stimola il cervello che, a differenza di quello che accade per il linguaggio orale, non sembra possedere una predisposizione biologica ad essa. Infatti, mentre impariamo il linguaggio orale spontaneamente poiché si tratta di una proprietà emergente del sistema biologico umano, per acquisire le capacità di leggere e scrivere abbiamo bisogno di un’istruzione formale ed esplicita. Sembra, infatti, che il sistema di elaborazione del linguaggio scritto si appoggi “⦋…⦌ su strutture cerebrali che sono sorte nel corso dell’evoluzione della specie Homo Sapiens per fare altro” (Crepaldi, 2020, p. 31).

Dal punto di vista filogenetico, la scrittura e la lettura ad essa correlata rappresentano un’invenzione culturale relativamente recente ma di cruciale importanza, se è vero che tramite esse la nostra specie si è liberata dai vincoli della memoria e ha avuto accesso ad un sapere che, non dipendendo più dalla ripetizione orale, può ampliarsi enormemente” (Fioroni, 2013, p. 225). In assenza di specifiche aree cerebrali dedicate alla lettura, è lecito chiedersi come faccia il nostro cervello a decodificare una parola scritta in pochi millisecondi. Dehaene (2009), formulando la teoria “del riciclaggio neurale”, ipotizza che, quando il bambino comincia a leggere, il suo cervello recluti spontaneamente alcuni circuiti che si adattano bene a questo scopo. Si tratta soprattutto di circuiti deputati alla vista, che poco hanno a che vedere con le strutture che processano il linguaggio. Significa, in sostanza, che la capacità di leggere è quasi del tutto indipendente da quella di parlare (Crepaldi, ibidem). Il nostro cervello “⦋…⦌ non è fatto per la lettura, ma in un modo o nell’altro vi si riconverte grazie alla sua innata plasticità. ⦋…⦌ L’attività del leggere sarebbe dunque possibile grazie al riciclaggio di dotazioni preesistenti nel nostro cervello, i cosiddetti neuroni della lettura, situati nella regione occipite-temporale sinistra” (Fioroni, ibidem). Durante la lettura, il cervello non si limita a decodificare segnali, ma riesce a ricordare, associare, progettare strategie e a provare emozioni. Gli studi di neuro-immagine dimostrano che durante la lettura, il cervello mostra una crescente attivazione del sistema limbico, sede della fisiologia delle emozioni, che è strettamente connesso ai processi cognitivi superiori (Berns et al., 2013). I ricercatori dell’Università di Emory hanno riscontrato che i movimenti realizzati dai personaggi dei libri attivano nel cervello dei lettori le stesse aree che si sarebbero attivate se ad agire fossero stati questi ultimi in prima persona. Cinque giorni dopo la lettura del romanzo, i soggetti della ricerca sono stati nuovamente sottoposti a risonanza magnetica: comparando i risultati dei diversi esami, è emerso un aumento della connettività nel ‘solco centrale’ e nella ‘corteccia temporale sinistra’, due aree cerebrali che sono coinvolte nel linguaggio, nella ricettività e nella creazione delle rappresentazioni sensoriali del corpo. L’aumento della connettività si è mantenuto inalterato anche quando i partecipanti allo studio non erano più impegnati nella lettura del romanzo (Berns et al., ibidem). Secondo i ricercatori, i benefici della lettura, che si conservano a lungo termine, deriverebbero dai meccanismi di identificazione da parte dei lettori con i protagonisti della storia; questo meccanismo causa l’attivazione di determinati neuroni associati alle attività che essi compiono, come ad esempio i neuroni specchio (Gallese, 2003, 2007). Non sempre però la lettura è un’esperienza felice: basti pensare ai libri di testo sui quali abbiamo studiato sin dalle scuole elementari. Tuttavia, ciò che può fare la differenza è l’incontro con la narrativa, con le storie che ci riguardano poiché “⦋…⦌ ognuno di noi è una storia e attraverso la narrazione, giorno dopo giorno, ci riconosciamo e costruiamo la nostra identità. Le storie ci permettono di confrontarci con noi stessi e con gli altri, di vivere vite diverse, di costruire pensieri nuovi e magari di mettere un po’ di ordine nelle nostre idee e nel caos dell’esistenza.  ⦋…⦌ Se siamo dentro una storia, possiamo diventare il protagonista o l’amico che gli sta accanto o semplicemente uno spettatore empaticamente partecipe delle sue vicende. Questa partecipazione a sentimenti, paure, desideri, rimpianti, rabbia ci rende meno soli. Chi immagina va oltre il proprio quotidiano, assorbe in sé altri esseri umani ed acquisisce autonomia e spirito critico: chi legge storie, insomma legge il mondo con maggiore profondità. Per questo le teocrazie e i regimi totalitari temono i libri e li bruciano” (Quarzo & Vivarelli, 2016, pp. 10-11). Possiamo affermare che leggere rende liberi, conferisce un potente senso di appartenenza e permette di “⦋…⦌ scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni.” (Fitzgerald, 2020). Leggere ci fa sentire meno soli, in modo particolare quando ci troviamo ad affrontare situazioni complesse o dolorose, perché, immedesimandoci empaticamente con le traversie dei nostri “eroi”, ne attingiamo incoraggiamento e conforto. E, in fondo, non è del tutto da sottovalutare il senso di soddisfazione che si prova nel portare a termine la lettura di un libro, soprattutto se impegnativo: un piccolo ma non trascurabile risultato che migliora la nostra autostima.

Lettura condivisa (LC), benessere e processi gruppali

La lettura a voce alta fa parte del nostro quotidiano più di quanto possiamo immaginare. Chi non ricorda i timori di momenti simili vissuti già alla scuola elementare, per non parlare di quando bisogna leggere una relazione, un progetto o qualsiasi testo ad un uditorio di colleghi, allievi e clienti? Diventa fondamentale superare i timori di leggere a voce alta se vogliamo valorizzarne pienamente i contenuti anche perché leggendo in questo modo, i protagonisti diventano tre: il testo, il lettore e il pubblico.

La lettura ad alta voce condivisa in gruppo, vista la flessibilità dello strumento, può essere utilizzata non solo in contesti educativi, ma anche in quelli sociali e terapeutici. In Gran Bretagna, ad esempio, grazie all’impegno di 25 Trust del Servizio Sanitario Nazionale (NHS), il fenomeno della lettura condivisa ha assunto dimensione nazionale. Inoltre, da alcuni anni l’università di Liverpool indaga i suoi benefici sulla salute ed il benessere, sostenendo che la lettura condivisa “[…] crea uno spazio per esplorare le vite umane, ordinarie e metterle in relazione con le nostre esperienze e quelle degli altri. È uno strumento potente che, secondo le ricerche, può ridurre e prevenire l’isolamento, migliorare il benessere psicologico e costruire resilienza”.

Josie Billington, del Center for Research into Reading, Literature and Society della stessa università, afferma che la lettura condivisa potrebbe incidere positivamente anche “[…] nel portare consapevolezza cosciente in aree di dolore emotivo che, altrimenti, il paziente subirebbe passivamente sotto forma di dolore cronico” (Billington et al., 2017).

L’atto di leggere insieme un testo letterario, non solo sfrutta il potere incisivo della lettura sulle funzioni cognitive (memoria, eloquio, concentrazione e capacità di problem solving), ma svolge anche un effetto coalizzante da un punto di vista sociale, lasciando ai lettori un’esperienza condivisa e soggettiva allo stesso tempo (Hodge et al., 2007) e restituendo loro il senso di avere un posto nel mondo (Billington, 2019). La lettura di per sé non è un’attività passiva, ma un atto partecipativo e creativo che permette al lettore di estendere i propri confini psichici: nel momento in cui si lascia trasportare in una “nuova dimensione”, egli ha la netta sensazione di uscire fuori dalla realtà oggettiva ed entrare in un’altra realtà (Fisch,1980).

Il gruppo di lettura prende corpo in un luogo accogliente, protetto e non giudicante, condiviso dai partecipanti (8-10 persone), compreso il conduttore che coordina e facilita le interazioni tra i vari membri. Il Liverpool Primary Care Trust offre un programma di lettura di gruppo, denominato GIR – Get into reading – (Dowrick et al., 2012), che è stato concepito allo scopo di aumentare i livelli di autostima, il senso di orgoglio e di realizzazione, nonché di incrementare i rapporti sociali, incentivando i pazienti a farne parte. L’attività si articola attraverso la lettura di brani di narrativa e di poesia, che vengono scelti dal gruppo stesso all’interno di una serie di materiali selezionati dal conduttore e che includono brani di vario genere, ma sempre caratterizzati da elevata espressività emotiva. Dowrick et al. (ibid.) ritengono che effettuare una lettura “seria” offra al pensiero e ai sentimenti una forma e un linguaggio tali da riuscire ad alleviare la sofferenza legata ai problemi personali producendo benefici terapeutici. La poesia stimola la concentrazione, mentre la narrativa favorisce la calma e il rilassamento psicofisico, quest’ultimo fortemente legato al metodo narrativo che, muovendosi nel tempo e nello spazio, consente al lettore di ricordare il punto di chiusura della sessione precedente.

La letteratura scientifica riporta l’utilizzo della lettura condivisa sia nel trattamento dei disturbi d’ansia e depressione di lieve e media entità, sia nella psicoeducazione, sia in ambito psichiatrico (Jeffcoat et al., 2012). Va ricordato che, sotto l’aspetto cognitivo, la lettura condivisa tende ad incrementare le abilità come la memoria, l’attenzione, la concentrazione, la riflessione e l’uso di strutture logiche (Moldovan et al., 2012). Tramite la comunicazione, leggere ad alta voce aiuta il paziente a mantenere un adeguato rapporto con la realtà esterna (Fisch, ibidem), oltre a svolgere un compito di autoformazione poiché permette all’individuo di porsi delle domande rispetto al proprio futuro (Dowrick et al., ibidem). Lewis (2009) sostiene che bastino pochi minuti al giorno di lettura di qualsiasi libro per ottenere effetti benefici anche a livello fisico, come il rallentamento del battito cardiaco, la diminuzione della tensione muscolare e la riduzione del livello di stress. Gruppi di lettura condivisa vengono utilizzati anche con persone affette da demenza (Clark et al. 2019): una recente ricerca (Rentera et al., 2019) dimostra che, proprio perché la lettura rafforza il cervello, il rischio di sviluppare decadimento cognitivo cerebrale sia più alto tra le persone che non leggono e che hanno un basso livello di istruzione.

Gli esseri umani fanno parte di complesse organizzazioni interpersonali (gruppo familiare, gruppo sociale di appartenenza, gruppo culturale e professionale) fin dalla nascita e per tutta la vita lavorano e vivono in gruppo, il quale ha lo scopo di trasmettere cultura e modelli relazionali che sono alla base del rapporto tra individui e collettività sociale. Per questo motivo, l’individuo non può essere visto come entità isolata, bensì come “nodo” di una complessa rete di interazioni che coinvolgono tutte le persone con le quali viene a contatto (de Marè,1973). Ai benefici della lettura condivisa si aggiungono fattori terapeutici strettamente legati ai processi che il gruppo mette in atto, considerando che di per sé esso offre supporto e senso di appartenenza e di uguaglianza (Yalom & Molyn, 2009). Le persone che hanno vissuto o vivono esperienze di passività e di esclusione, come spesso accade ai pazienti psichiatrici, hanno l’opportunità di potersi considerare appartenenti ad un gruppo con il quale identificarsi e dal quale ricevere partecipazione emotiva, comprensione e consigli. Inoltre, il gruppo è in grado di facilitare i processi di maturazione sociale e la sua coesione è l’elemento che gli consente la sopravvivenza nelle situazioni di stress di singoli membri o del gruppo in toto (Yalom & Molyn, ibidem).

Come già evidenziato, è importante che lo spazio dedicato alla lettura condivisa sia accogliente, familiare e confidenziale. Un testo interessante può promuovere una discussione su importanti temi di vita, permettere di sviluppare l’auto espressione ed incoraggiare la tolleranza reciproca e il sostegno tra pari. Leggere per gli altri è un antidoto contro la timidezza, contribuisce a rafforzare la personalità ed è un potente stimolante per l’immaginazione. Al di là di ogni considerazione, la lettura ad alta voce coinvolge la persona intera e non solo la parte malata (Fearnley & Farrington, 2019) e risulta essere un’attività flessibile, economica, relativamente facile e alla portata di tutti. Per tutti questi motivi, alcuni mesi fa abbiamo pensato di cominciare a leggere ad alta voce con alcuni dei pazienti di un centro diurno.

Lettura condivisa come gruppo a mediazione terapeutica? La nostra esperienza

Un gruppo a mediazione terapeutica utilizza un oggetto mediatore (giornale, libro, pittura, etc.) per attivare l’espressione di pensieri, affetti e la comunicazione tra i partecipanti. È “⦋…⦌ principalmente rivolto a persone chiuse in rigidità ideative e relazionali dove lo scambio con l’altro è fonte di angoscia e le emozioni hanno perso parola e modulazione. I gruppi a mediazione terapeutica non hanno come scopo l’apprendimento di tecniche o il semplice adattamento alla vita sociale, bensì quello di favorire la mobilizzazione di processi psichici utilizzando assieme produzioni immaginative, motricità e parola” (Petralito, 2018, pag. 154). L’oggetto mediatore serve da interprete, da trasformatore, da trasmettitore, da simbolizzatore tra realtà psichica e realtà esterna (Di Marco 2007).

Quando abbiamo coinvolto nella lettura ad alta voce alcuni degli utenti del nostro centro diurno, sostanzialmente pensavamo di migliorare la loro socializzazione e di intrattenerli. Nel rispetto delle procedure contro il contagio da Covid-19, abbiamo riunito in una stanza ampia ed arieggiata 2 operatori e 3 utenti, ai quali se ne aggiungevano altri 2/3 in videoconferenza. Per non passare il libro da una persona all’altra e per risparmiare carta, abbiamo scannerizzato il testo, lo abbiamo aperto sul nostro PC e proiettato su un grande schermo condiviso con i computer dei pazienti a casa. La scelta del materiale letterario è caduta su racconti brevi e semplici che potessero esaurirsi nel giro di 90/120 minuti e abbiamo lasciato ad ogni partecipante la scelta di leggere oppure no. I lettori si alternavano e, dopo i primi 40 minuti, si effettuava una pausa per poi riprendere per altri 30/40 minuti. Se qualcuno non capiva un passaggio, l’operatore interveniva con un chiarimento, ma in genere il suo è stato un ruolo di promotore, organizzatore e facilitatore. Terminata la lettura, la discussione successiva permetteva di condividere non solo pensieri e commenti sul testo, ma anche ricordi, emozioni e frammenti della propria vita. L’emersione fluida e spontanea degli spaccati di vita degli utenti sembrerebbe legata alla facoltà della narrativa di promuovere esperienze vicarie. Le vicende narrate divengono linguaggio comune, lo spazio neutro condiviso nel quale esprimersi (La Rovere, 2018). La lettura così può costituire il miglior allenamento per configurare e descrivere altri scenari, segnatamente nell’ambito di quella narrazione fondamentale che è la vita del lettore.

Il racconto consente di avvicinare e tollerare emozioni difficili da esprimere in prima persona, proprio perché è più facile riconoscerle in qualcosa che è “altro da sé”. Come ben espresso da una utente, “attraverso le parole di altri riesco a dare voce e senso alla mia sofferenza”.

Gli utenti si sono appassionati molto a questa attività e ad ogni incontro ci stupiscono le loro capacità di entrare in relazione sia con le situazioni narrate dal testo, sia con gli stati d’animo dei personaggi. La lettura di un brano permette di entrare in contatto con il variegato mondo di emozioni che accompagna le vicende dei protagonisti, di indagare il vissuto emotivo e cognitivo dei personaggi, nonché delineare le conseguenze del loro sentire e del loro agire. Ciò consente di abituarsi – attraverso il confronto e l’immedesimazione con essi – ad attribuire significati e a riconoscere le possibilità plurali di interpretazione, promuovendo processi mentali trasformativi per il lettore.

L’atmosfera gruppale è molto tranquilla, c’è sempre curiosità e gioiosità verso quella che sembra essere vissuta ogni volta come una nuova avventura. In genere, i nostri utenti hanno bisogno di essere sollecitati, guidati e mostrano ridotta iniziativa nelle attività riabilitative di gruppo. Nel caso della lettura condivisa, osserviamo invece una maggiore capacità di partecipazione e desiderio di condivisione. Sembra proprio che le storie lette e quelle che si andranno a leggere permettano ai nostri utenti di passare da una posizione di accondiscendente passività ad una forma di partecipazione attiva e di desiderio di condivisione: riferiscono, infatti, che, quando sono nel gruppo di lettura condivisa, il tempo vola, aumenta la curiosità, si sentono più tranquilli e meno tristi e qualcuno ha persino affermato che si sente spinto a leggere da solo.

Con nostra sorpresa, gli utenti non solo si sono appassionati alle storie lette, ma hanno anche apprezzato il confronto e le diverse modalità di lettura, quasi come manifestazioni essenziali dei modi differenti di essere. Un utente dice che “far parte di questo gruppo significa integrarsi, conoscersi e abituarsi a modi differenti di leggere”. Dopo alcuni mesi di esperienza, ci sembra che i membri di questo gruppo siano anche più consapevoli di se stessi e che le loro capacità di ascolto e di concentrazione siano migliorate. A differenza degli altri gruppi di riabilitazione attivi nel nostro centro, la lettura condivisa sembra possedere un’attrattiva particolare e i suoi membri si comportano come se condividessero qualcosa di speciale, tanto da manifestare molto dispiacere se un incontro viene annullato.

Il gruppo è aperto, i confini sono permeabili e il collegamento in videoconferenza non solo ha raggiunto persone isolate in casa, ma è diventato anche un’opzione per chi un giorno non si sente di recarsi fisicamente nei locali del centro diurno. Gli stessi operatori esprimono il proprio piacere, perché partecipare alla lettura condivisa consente di condividere un’esperienza significativa con gli utenti, entrando in relazione con la persona nella sua interezza – non soltanto con la sua “parte malata” – e avvicinando quegli aspetti vitali che non sempre emergono nella pratica clinica.

 

Meditare con la vita. Tutto quello che c’è da sapere sulla mindfulness (2022) di A. Montano e V. Iadeluca – Recensione

Il libro Meditare con la vita vuole essere una porta d’accesso alla mindfulness per i non adepti, oltre che rappresentare un’utile guida per i professionisti della salute.

 

La pratica della mindfulness rappresenta una variante laica della meditazione vipassana, dalla quale trae origine.

Da un punto di vista etimologico mindfulness deriva dalla parola sati dell’antica lingua pali delle scritture buddiste ed è traducibile con attenzione consapevole, consapevolezza.

L’obiettivo della pratica è sviluppare un atteggiamento mentale di pazienza, fiducia, sospensione del giudizio, non cercando risultati, accettando, lasciando andare, utilizzando la mente del principiante: questi sono i sette principi della mindfulness.

Come ogni training è necessario un allenamento costante, al fine di riuscire a vedere la mente come un contenitore di pensieri, in costante e continuo divenire, in noi contenuta, ma con la quale non occorre identificarsi. Il naturale chiacchiericcio della mente può essere paragonato, riprendendo una metafora buddista, ad una scimmia, che salta da un ramo all’altro, e da un albero all’altro della foresta in maniera capricciosa, inquieta e talvolta fuori controllo.

Nella società occidentale abbiamo sviluppato un’attitudine al multitasking, al fine di riuscire a compiere diverse attività contemporaneamente e star dietro ai numerosi ed impellenti impegni della quotidianità. Nel far ciò, in maniera abbastanza naturale, inseriamo una sorta di pilota automatico che ci permette di restare al passo con le svariate incombenze, il tutto ad un livello di consapevolezza sottosoglia, mentre la nostra mente vaga tra passato e futuro, pianificando, organizzando, ripensando ad eventi già accaduti o che ancora devono palesarsi.

In altre parole viviamo sospesi tra ciò che è stato e ciò che sarà, impedendoci di assaporare la bellezza del presente, che, come indica la parola stessa, rappresenta un dono!

Il testo è intriso di numerosi esercizi, finalizzati a prendere confidenza con la pratica mindfulness: il lettore potrà sperimentare, guidato dal testo, le sensazioni corporee esperite durante la respirazione, portando l’attenzione all’aria che entra ed esce dalle narici, al gonfiarsi e allo sgonfiarsi del petto, potendo notare tutti i segnali che il corpo stesso invia, tra cui formicolii, pruriti, tensioni.

L’invito è di osservare tutto ciò che arriva in maniera benevola, curiosa e mai giudicante.

La respirazione rappresenta l’ancora della pratica meditativa, essendo essa sempre presente, momento dopo momento: è il primo grido che emettiamo alla nascita, ci accompagna dalla culla alla tomba, ed è possibile farvi riferimento per connettere corpo e mente, in un tutt’uno che si influenza reciprocamente.

Secondo Jon Kabat-Zinn, padre della pratica meditativa nella sua versione Occidentale, per cogliere la ricchezza del momento presente bisogna riappropriarsi della curiosità ingenua, tipica dei bambini, sospendendo il giudizio, rifuggendo le etichette. Nell’agire tale processo di distanziamento, disidentificazione dalla propria attività mentale, che non equivale alla dissociazione, chi pratica mindfulness riuscirà, sessione dopo sessione, a raggiungere un senso di serenità, equilibrio ed equanimità.

È straordinario quanto risulta liberatorio sentirsi capaci di vedere che i nostri pensieri sono solo pensieri e non sono «noi», né la realtà. […] La semplice azione di riconoscere i nostri pensieri come pensieri e basta può liberarci dalla realtà distorta che essi spesso creano e conferirci una maggiore lucidità e il senso di poter gestire meglio la nostra vita (Kabat-Zinn, 1990).

Kabat-Zinn ha messo a punto uno specifico protocollo nel 1979, il Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), presso la Stress Reduction Clinic del Medical Center, all’interno dell’università del Massachusetts, finalizzato appunto alla riduzione dello stress. Da allora il protocollo è stato utilizzato in un’ampia popolazione clinica, mostrando benefici nel trattamento di disturbi psicosomatici, cancro, Aids, ipertensione, fino ad inglobare l’area del disagio psichiatrico.

In ambito psicoterapeutico hanno visto la luce approcci mindfulness-based, ovvero centrati sulla mindfulness, di stampo cognitivo e psicocorporeo.

Nello specifico, in ambito cognitivo-comportamentale, a partire dall’influenza del behaviorismo e proseguendo con l’integrazione cognitivista, la mindfulness rientra nella cosiddetta “terza onda”.

Secondo Beck (1976), padre fondatore del cognitivismo clinico standard L’uomo possiede la chiave della comprensione e soluzione del suo disturbo psicologico entro il campo della sua conoscenza. […] Evidenziando e correggendo le distorsioni del suo pensiero, l’uomo può costruirsi una vita più soddisfacente.

L’orientamento CBT (Cognitive Behavioral Therapy) colloca le radici della sofferenza umana nelle credenze di base patogene, dalle quali cresce il tronco delle credenze intermedie, che, a propria volta, danno vita alla chioma di foglie dei pensieri automatici: l’immagine dell’albero ben si presta alla comprensione della stratificazione e profondità di quelle che per il soggetto rappresentano verità assolute, apprese nel corso dello sviluppo. Dai pensieri emergono le risposte emotive, colmando in peculiari outcomes comportamentali.

La mindfulness, in tale cornice, entra a far parte della cassetta degli attrezzi del terapeuta cognitivo-comportamentale, accompagnando il paziente nel processo di riconoscimento dei propri processi di pensiero disfunzionali.

La psicoterapia corporea utilizza la mindfulness per accedere alle memorie implicite del paziente, ovvero al magazzino di apprendimenti inconsci, disvelando e portando attenzione a tutto ciò che si fa inconsapevolmente, in maniera automatica.

È possibile allenarsi a prestare attenzione consapevole attraverso la pratica formale, strutturata, che necessita di uno specifico setting, silenzioso e attraverso la pratica informale.

Quest’ultima può avvenire potenzialmente in qualsiasi momento della giornata, attraverso svariate attività, mentre si cucina, facendo una doccia, camminando, mangiando…da qui il titolo Meditare con la vita: l’obiettivo ultimo è far propria la meditazione, includendola nella propria esistenza, al fine di sviluppare un nuovo atteggiamento mentale, attento e consapevole, ma soprattutto scevro da etichette pregiudiziali.

Aprendo gli occhi alla vita, percependola con tutti i sensi di cui siamo dotati riusciremo gradualmente a riconoscere come le sofferenze con cui veniamo in contatto rappresentano, riprendendo una metafora buddista, una prima freccia, della quale non abbiamo controllo, ma impareremo a far cadere a terra la seconda freccia, scagliata generalmente dal lavorio mentale in cui si cade quando si inizia a ruminare e rimuginare, rimanendo invischiati in un circolo vizioso alimentato da domande quali Perché proprio a me? È colpa mia! Perché adesso?

 

Imparare a cucinare può aiutare a perdere peso?

Oltre alle numerose ricerche che hanno evidenziato come cucinare a casa sia associato ad una qualità dell’alimentazione migliore, vi sono altri studi che hanno dimostrato come l’avere buone abilità e conoscenze culinarie sia legato ad abitudini alimentari più sane.

 

Ultimamente, in particolare nell’ultimo ventennio, le abitudini alimentari sono cambiate drasticamente poiché vi è la tendenza sempre crescente di consumare i pasti fuori casa: al ristorante, in rosticceria, nei fast food o nelle mense. Inoltre si è riscontrato un aumento del consumo di snack, fast food, patatine fritte, dolci, torte, bibite, e un ridotto consumo di frutta e verdura (Deliens et al., 2013). Tale modifica nelle abitudini ha avuto delle ripercussioni sulla salute di molte persone, in quanto il cibo che si mangia fuori e i cibi pronti sono spesso significativamente più ricchi di calorie, grassi, sale e zuccheri rispetto ai cibi preparati in casa. Gli americani, per esempio, avendo infinite opzioni disponibili sia per mangiare fuori sia in termini di scelta di cibi pronti, hanno diminuito notevolmente la quantità dei pasti cucinati a casa, sebbene molti di loro affermino di spendere ingenti cifre per acquistare ingredienti per cucinare.

Abitudini alimentari e abilità in cucina

Per queste ragioni molti interventi di salute pubblica hanno tentato di rendere i pasti fuori casa più sani possibili (Todd et al., 2010). Sembra però che tali interventi non siano stati sufficienti e che il declino della cucina casalinga possa essere quindi responsabile di un aumento dell’obesità e di altri fattori di rischio per alcune malattie croniche. Alcuni risultati in letteratura hanno dimostrato infatti che i cambiamenti nel modo di preparare e cucinare i cibi possono influenzare le abilità culinarie degli individui e le conoscenze culinarie sia nel contesto familiare che in quello scolastico. Tali cambiamenti sono legati anche all’integrazione della tecnologia nel preparare il cibo a casa (e.g. il forno a microonde) e di prodotti alimentari pronti per facilitare la preparazione dei pasti (Caraher et al., 1999; Soliah et al., 2012). Queste tendenze influenzano notevolmente il tempo che si trascorre in cucina. Oltre alle numerose ricerche che hanno evidenziato come cucinare a casa sia associato ad una qualità dell’alimentazione migliore, vi sono altri studi che hanno dimostrato come l’avere buone abilità e conoscenze culinarie sia legato all’assunzione di cibo più sano. Inoltre alcuni autori segnalano un’associazione tra la cucina casalinga e un indice di massa corporea (BMI) minore (Kolodinsky & Goldstein, 2011).

Alla luce di ciò, c’è stato un aumento degli studi nella letteratura scientifica sulle abilità culinarie in relazione ad abitudini alimentari più sane (Hartmann & Siegrist, 2013; Raber et al., 2016). Gli studi hanno rafforzato l’importanza di incoraggiare programmi di intervento che mirano a sviluppare le abilità culinarie attraverso cambiamenti nella conoscenza della cucina, nell’atteggiamento e nel comportamento relativi ad abitudini alimentari più sane (Condrasky, 2006). Aggiungere corsi di cucina a un trattamento comportamentale per l’obesità ben collaudato può quindi migliorare la perdita di peso, il mantenimento del peso e la qualità della dieta. Solitamente, infatti, questi interventi vengono combinati con altre componenti tra cui una dieta accordata con un dietologo, l’esercizio fisico o la mindfulness. Inoltre gli interventi di cucina sono variabili sia nella durata, sia nell’impegno pratico dei partecipanti: alcuni apprendono semplicemente osservando, altri invece mettono “le mani in pasta” e apprendono abilità culinarie cucinando. Non esistono però interventi che valutino singolarmente l’efficacia di lezioni culinarie e non è quindi ancora chiaro se la cucina produca degli effetti nel dimagrimento da sola o soltanto combinata con altre componenti. Alpaugh e colleghi nel 2020 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di determinare se l’aggiunta di lezioni di cucina ad un intervento comportamentale per perdere peso avrebbe aumentato la perdita di peso e la qualità della dieta rispetto ad un intervento standard. Inoltre gli autori volevano valutare i cambiamenti nelle abitudini alimentari e la frequenza del cucinare.

Migliorare le abitudini alimentari nell’obesità

Sono stati reclutati 56 partecipanti obesi o sovrappeso con un indice di massa corporea (kg/m2) tra 25 e 50. Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad un trattamento comportamentale di perdita di peso della durata di 24 settimane, composto prevalentemente da dieta ed esercizio fisico. Successivamente il campione è stato suddiviso in due gruppi. Una parte di loro ha ricevuto un intervento di cucina attiva basato sul concetto di Food Agency (Trubek et al., 2017) che vede la cucina come un insieme di componenti sensoriali, socioculturali e fisiche; il trattamento prevede tre principali abilità: l’analisi sensoriale nella preparazione dei pasti, l’uso del coltello per trasformare gli ingredienti grezzi in cucinati e infine la funzione della “mise en place”. I restanti soggetti sono stati sottoposti ad un intervento dimostrativo che ha svolto la funzione di controllo: siccome la sola attenzione ha un impatto minimo nei cambiamenti dei comportamenti culinari, la condizione dimostrativa è stata usata per uguagliare il tempo e l’attenzione alla cucina dei partecipanti. Inoltre sono stati rilevati alcuni dati come peso e BMI e sono state somministrate l’Automated Self-Administered 24-h Dietary Assessment Tool (ASA24; Thompson et al., 2015) per misurare l’assunzione di cibo; l’Indice di alimentazione sana (HEI; Guenther et al., 2013) che è una misura della qualità complessiva della dieta; la scala di azione per la cottura e la fornitura di cibo (CAFPAS; Lahne et al., 2018) progettata per misurare la food agency che valuta le pratiche di cucina e preparazione del cibo; infine il Cooking Perceptions, Attitudes, Confidence, and Behaviors Survey progettato per valutare le percezioni, gli atteggiamenti e i comportamenti in cucina (Wolfson et al., 2016).

I risultati mostrano che i partecipanti, dopo il trattamento attivo, hanno perso significativamente più peso dopo sei mesi rispetto a quelli del trattamento dimostrativo (7.3% contro 4.5%). Inoltre entrambi i gruppi sono migliorati significativamente nei punteggi dell’ HEI e della scala per la food agency, sebbene non vi siano differenze significative tra le due condizioni di trattamento. I risultati dello studio suggeriscono che un intervento di cucina attiva unito ad un programma di perdita di peso standard può essere un metodo efficace per aiutare le persone a perdere peso e a dedicare più tempo alla cucina casalinga. Infine anche gli interventi dimostrativi, sebbene non aiutino direttamente a perdere il peso, possono portare a miglioramenti nella food agency e in un’alimentazione più sana ed equilibrata (Alpaugh et al., 2020).

 

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