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La funzione sociale dello psicoterapeuta (2020) di Luigi D’Elia – Recensione

Il volume La funzione sociale dello psicoterapeuta descrive vari casi clinici dando maggiore enfasi, rispetto a uno psicoterapeuta individuale, allo sfondo sociale in cui nasce il disagio.

 

 Avrei dovuto recensire il libro di Luigi D’Elia almeno un anno fa e sono in colpevole ritardo. Non è la pigrizia l’unica responsabile. Il ritardo è rivelatore: ero disorientato di fronte all’argomento perché, come molti di noi, non conosco a fondo la psicologia sociale e ancor meno quale sia la funzione sociale dello psicoterapeuta. Un’ignoranza inquietante, perché non generava curiosità ma confusione. La stessa che mi ha accompagnato in questi mesi in cui il libro giaceva sulla mia scrivania. Lo avevo lasciato lì a ricordarmi che prima o poi avrei dovuto decidermi a leggerlo.

Il libro di D’Elia parte dalla consapevolezza di questa lacuna e tenta di colmarla, istruendoci sugli aspetti sociali della nostra professione. Inizia con una panoramica della condizione dello psicoterapeuta italiano, della sua singolare condizione di figura professionale formata quasi sempre nel servizio privato e destinata a lavorare privatamente. Di qui la trascuratezza per l’aspetto sociale di questa professione. Da questa osservazione parte la riflessione di D’Elia sullo psicoterapeuta, la cui funzione sociale è quella di superare la dicotomia mondo-mente in termini che vadano al di là delle consuete opposizioni che rimangono individuali, anch’esse da superare ma al fondo più ristrette: mente-corpo, ragione-emozione e così via. Occorre andare sulla sponda sociale, magari per incontrare nuove opposizioni.

L’intento di D’Elia è di porre la sofferenza mentale al centro di un disagio che non è solo mentale e nemmeno è solo individuale. L’individuo soffre, scrive D’Elia, perché la società soffre, e la società soffre perché non è abbastanza sociale. Essa è deteriorata dalla tendenza all’individualismo e all’aggregazione puramente funzionale dell’organizzazione economica, non solo privata ma anche pubblica. D’Elia connette, per tutto il libro, il malessere emotivo a queste disfunzioni sociali: i disturbi di personalità sono espressione primaria di questo deterioramento ma anche le psicosi, pur colpite da un fattore biologico, presentano un decorso meno ottimale a causa del degrado della società. Lo psicoterapeuta ha quindi un mandato sociale, non può limitarsi a lavorare nel suo studio, ma deve andare negli ambienti dove è nato il disturbo e può farlo non solo quando gli è richiesto dal ruolo, ad esempio quando lavora in comunità o nei servizi sociali, ma anche quando potrebbe rinchiudersi nell’attività privata.

Dopo questo quadro iniziale, D’Elia descrive vari scenari lavorativi e sociali in cui lo psicoterapeuta potrebbe assumere questo ruolo sociale ed evadere dalla gabbia della psicoterapia individuale. Lo studio di psicoterapia diventa un osservatorio sociale privilegiato da cui cogliere le modificazioni individuali facilitate dal cambiamento sociale. La società atomizzata, lacerata e povera di basi comunitarie crea disagi psicologici specifici che D’Elia descrive con esattezza, dai disturbi alimentari ai casi di violenza giovanile fino agli hikikomori, tutti malesseri che partono dall’isolamento, dalla spersonalizzazione funzionale ed economica dei rapporti fino alla competizione sempre più aspra che può poi sfociare nella violenza fisica.

 Per questo D’Elia descrive vari casi clinici dando maggiore enfasi, rispetto a uno psicoterapeuta individuale, allo sfondo sociale in cui nasce il disagio. Ecco che conosciamo le difficoltà lavorative e aziendali di Doriana, Isabella e Luciano e quelle sociali e familiari di Pietro, Ivana e Nadia. Nella sezione successiva troviamo i casi dell’amore esitante, ovvero la difficoltà di tante persone, non solo pazienti, a impegnarsi in progetti affettivi a lungo termine, il cui contraltare apparentemente opposto ma complementare è quello delle coppie di quarantenni che iniziano a desiderare i figli in età avanzata in uno stile superficiale e naif che non sembra tenere conto dei limiti biologici. Infine, troviamo interessanti considerazioni sull’incagliarsi del femminismo, dopo i successi dell’inizio e degli anni ’60 del ‘900, in una incompiutezza della realizzazione individuale delle donne, spesso arenatesi in atteggiamenti evitanti e poco assertivi dopo aver ottenuto i diritti pubblici.

A tutto questo D’Elia risponde proponendo una impostazione che va oltre la diagnosi individuale per generare una formulazione sociale del caso che si fonda su un’analisi dei rapporti economici e politici del tardo capitalismo, incapace di assicurare quella parallela crescita sociale che fino agli anni ’60 accompagnava quella economica e, anzi, incancrenitosi in una crescita senza limiti che non fornisce progresso intellettuale e morale e al tempo stesso minaccia il clima e il benessere del pianeta. Come scrive D’Elia a pag. 59, “lo psicoterapeuta con formazione psicosociale legge il materiale del paziente non solo come elemento intrapsichico e relazionale (…) ma come elemento della realtà sociale”. I vari interventi sono riletti in questa luce sociale: ecco che l’ansia non è curata solo nei termini individuali della tolleranza dell’apprensione e dell’adattamento, ma anche come insegnamento all’assertività, nella rivendicazione dei propri diritti sociali compromessi dal degrado sociale e lavorativo, così come l’accettazione dei propri limiti diventa anche la capacità di sottrarsi alle sirene del successo individualistico vissuto in misura parossistica. L’ambiente sociale del paziente è analizzato con puntualità per comprenderne l’effetto sull’emotività del paziente stesso e per immaginare strade per fuoriuscirne. Il repertorio di interventi sociali proposto da D’Elia va ad arricchire l’armamentario dello psicoterapeuta.

Naturalmente limitarsi a sviluppare l’aspetto sociale dell’intervento psicoterapeutico sarebbe stato limitante per gli obiettivi del libro. Ecco che D’Elia, per rispondere a questo bisogno, propone un intervento sociale diretto che vada al di là della seduta e individua nella rete il mezzo sociale più potente messo a disposizione dalla società. D’Elia progetta un portale che: 1) colleghi la domanda e l’offerta di psicoterapia secondo logiche che non siano di mercato, bensì di aiuto sociale praticato a tariffe ridotte oppure finanziato dallo stato sociale; 2) stimoli l’intervento pubblico a incrementare l’investimento in psicoterapia, storicamente trascurato a favore di quello farmacologico e comunitario; 3) censisca gli operatori e le strutture che già propongono le tariffe ridotte. Il tutto è finalizzato a creare una sorta di contro-mercato sociale e non economico in cui la psicoterapia sia davvero intervento sociale a favore del debole e del bisognoso. Il progetto è iniziale ma non acerbo: il portale, consultabile cliccando qui, era giunto al suo secondo anno di vita al momento della pubblicazione del libro di D’Elia nel 2020 e ora è quindi al suo quarto anno di vita e continua a inseguire i suoi sogni.

 

Felicità, benessere soggettivo e comportamenti pro-sociali 

La maggior parte di noi desidera essere felice e nel tentativo di esserlo si ritrova alla ricerca costante di nuove modalità con cui raggiungere la propria felicità

 

 In Occidente, la ricerca della felicità è vista come un’impresa personale che richiede un’azione finalizzata al raggiungimento di obiettivi e programmi personali (Oishi et al., 2013). Tuttavia, la letteratura sembra dimostrarci che, piuttosto che focalizzarsi su sé stessi, il focus dovrebbe essere riposizionato, forse in modo controintuitivo: per essere veramente felici può essere necessario “dimenticarsi” di se stessi e preoccuparsi principalmente della felicità degli altri.

A sostegno di tale ipotesi, uno studio di Dunn e colleghi (2008) ha riscontrato che i soggetti che spendevano denaro per gli altri si sentivano più felici rispetto a quelli che spendevano la stessa somma di denaro per se stessi. Nelson e colleghi (2016) hanno dimostrato invece che l’essere gentili con gli altri porta a sperimentare più emozioni positive, meno emozioni negative e più benessere psicologico, rispetto agli atti di gentilezza focalizzati su se stessi.

La felicità nel Modello delle Attività Eudaimoniche

Questi risultati sono ben inquadrati nel Modello delle Attività Eudaimoniche (EAM; Sheldon et al., 2019), il quale ipotizza che i miglioramenti del benessere soggettivo e della felicità possono essere ottenuti attraverso l’impegno in attività eudaimoniche, come le attività legate alla crescita e allo sviluppo, alla promozione di valori intrinseci e alla pro-socialità. Pertanto, secondo l’EAM, rendere felici gli altri dovrebbe rivelarsi più efficace per il proprio benessere, poiché non mira direttamente alla felicità del soggetto in questione, ma porta a benefici attraverso il comportamento pro-sociale.

La domanda che sorge è quindi: qual è il meccanismo alla base di questi benefici?

Un risposta logica potrebbe essere il sentimento di connessione che si crea tra chi dona e chi riceve. Molte teorie propongono, e molti studi hanno riscontrato, che le relazioni strette sono un importante determinante del benessere delle persone (ad es., Lyubomirsky et al., 2005) e che le persone più felici di solito hanno reti sociali più ampie rispetto a quelle meno felici (Myers, 2000). La teoria dell’autodeterminazione (Self-Determination Theory; SDT) suggerisce che tutte le persone hanno bisogno di relazionarsi con gli altri, mostrando che i sentimenti di relazionalità, insieme ai sentimenti di competenza e di autonomia, sono importanti predittori di benessere (Reis et al., 2000; Sheldon et al., 1996). Inoltre, esaminando le tendenze prosociali, Martela e Ryan (2016b) hanno scoperto che la relazione tra comportamento pro-sociale e benessere può essere spiegata dal soddisfacimento dei bisogni psicologici di base. Sembra ragionevole che il tentativo di rendere felice un’altra persona ispiri sentimenti di vicinanza nella persona che compie il gesto. Questi sentimenti potrebbero quindi spiegare gli effetti positivi dell’attività focalizzata sull’altro sul benessere della persona.

Tuttavia, l’aumento del benessere non deriva da qualsiasi esperienza sociale, ma dalle esperienze in cui siamo concentrati sulla felicità degli altri piuttosto che sulla nostra.

Alcuni esperimenti sulla ricerca della felicità

Sulla base di quanto riportato, uno studio condotto da Titova e Sheldon (2021) ha analizzato l’effetto del “cercare di rendere felice se stessi” e “cercare di rendere felice un’altra persona” sulla felicità e il benessere percepiti in 5 progetti sperimentali differenti.

 Nei primi 3 studi i risultati hanno dimostrato che, sia retrospettivamente (quindi ricordando di aver cercato di rendere qualcun’altro più felice) che al momento attuale dello studio (facendo qualcosa per rendere più felice un’altra persona) impegnarsi per la felicità degli altri portava a un aumento del benessere soggettivo maggiore, rispetto al tentativo di rendere più felice se stessi o di passare del tempo a socializzare.

Nei successivi esperimenti gli autori hanno utilizzato una condizione di confronto diversa: essere resi più felici dagli altri. Anche in questo caso, i risultati hanno dimostrato che cercare di rendere felici gli altri è un modo più efficace per raggiungere la propria felicità, anche più di quando gli altri cercano di rendere felici noi.

Riassumendo, ciò che lo studio ha riportato sembra confermare l’ipotesi che rendere felici gli altri sia un modo più funzionale per raggiungere la propria felicità, anche rispetto all’essere resi felici dagli altri.

È interessante notare che non è necessaria un’azione faccia a faccia con l’altra persona: i partecipanti dello studio hanno comunque sperimentato benefici dal tentativo di rendere felici gli altri anche senza averli mai visti o senza mai averci parlato. Inoltre, nello studio presentato, le persone non si conoscevano tra loro, quindi anche il livello di familiarità con le persone oggetto dell’attività di aumento della felicità non è necessariamente importante per ottenere l’effetto indagato.

Le reazioni ottenute in tutte e cinque le condizioni sperimentali erano mediate dal soddisfacimento del bisogno di relazione. Come suggerito dalla STD, le persone hanno bisogno di soddisfare tutti e tre i bisogni fondamentali per vivere una vita soddisfacente (Ryan e Deci, 2000a; 2000b). Non sorprende che la soddisfazione del bisogno di relazione, in particolare, derivi da un’attività progettata per far sentire bene un’altra persona.

Sebbene questo studio non sia longitudinale, quindi non sono stati osservati cambiamenti nel tempo, sembra confermare l’ipotesi per la quale impegnarsi in azioni che puntano a migliorare l’umore e la felicità degli altri invece che la propria, aumenti il proprio benessere soggettivo. Lo studio presentato sembra inoltre supportare il Modello delle Attività Eudaimoniche, il quale afferma che lavorare per migliorare direttamente la propria felicità non è una strada percorribile per diventare più felici nella vita (Sheldon, 2016; Sheldon et al., 2019). Invece, concentrarsi su sforzi eudaimonici, che includono lo spostamento dell’attenzione da sé agli altri, è un modo funzionale per raggiungere il benessere personale.

 

Figli… che stress! Come la Mindfulness può aiutare nella sfida della genitorialità – Podcast

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Figli… che stress! Come la Mindfulness può aiutare nella sfida della genitorialità”.

 

Negli ultimi anni la mindfulness ha ricevuto crescente attenzione non soltanto come pratica meditativa in grado di migliorare la salute fisica e psicologica, ma anche come stile di vita e come mezzo per approcciarsi in maniera più consapevole al mondo del lavoro, dello studio e delle relazioni interpersonali. La mindfulness può essere descritta come “il processo di prestare attenzione in modo particolare, di proposito, al momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento” (J. Kabat-Zinn, 1994).

Il protocollo più diffuso e conosciuto è quello per la riduzione dello stress basata sulla mindfulness (Mindfulness Based Stress Reduction) validato da test e studi scientifici a partire dagli anni ’70, da cui si sono sviluppati diversi interventi e protocolli in ambito preventivo e clinico. Tra questi, per aiutare e sostenere i genitori nel difficile compito parentale, la psicologa e ricercatrice olandese Susan Bogels ha strutturato un protocollo molto efficace, validato da oltre un decennio di ricerca. La mindfulness nel parenting aiuta a divenire più consapevoli delle risposte stressanti, a gestire la naturale reattività di fronte alla frustrazione che la relazione con i figli genera e a diventare maggiormente capaci di scegliere risposte personali ai bisogni dei figli piuttosto che reagire allo stress o secondo schemi noti dalla nostra infanzia.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Nicoletta Serafini, Psicologa, Psicoterapeuta.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Tre caratteri (2022) di Cristopher Bollas – Recensione del libro

Il testo di Bollas, Tre caratteri, raccoglie il materiale di conferenze tenute dai partecipanti al Chicago Workshop e alla Arild Conference, lungo un arco temporale piuttosto esteso (dal 1983 al 2010), consentendo un dialogo trasversale con psicoanalisti, psicologi e psicoterapeuti facenti parte dei progetti. 

 

 Ciascun incontro si focalizzava su un singolo caso clinico, permettendo una discussione puntuale e precisa, ma soprattutto di viverne per interposta persona l’evoluzione lungo gli anni. Come quasi ogni lavoro di Bollas, nonostante l’estrema chiarezza di pensiero e di espressione, sarebbe bene affrontarne la lettura avendo quantomeno presente alcuni termini o tematiche di stampo psicoanalitico.

La particolarità di questa raccolta è che ogni capitolo, dedicato a una struttura specifica del carattere (quelli che nel DSM vengono definiti disturbo di personalità Borderline, Narcisistico, Disturbo Bipolare), si conclude con un racconto in prima persona, scritto e ideato dall’autore, consentendoci (e consentendogli) di vivere pensieri ed emozioni “in diretta”.

Già questo potrebbe essere un “suggerimento” clinico: esprimere i pensieri e le emozioni dei propri pazienti in prima persona aiuta non solo a comprenderli maggiormente, ma soprattutto a definirli laddove spesso ci capita di lavorare con persone in “via di definizione” o che non si conoscono e che si rivolgono a noi per aprire finestre su un mondo interno sconosciuto.

Come ci ricorda Bollas, nonostante nel libro siano raccolte riflessioni specifiche per tre disturbi differenti, nessun caso sarà uguale all’altro.

Si possono evincere e definire degli argini comuni all’interno dei quali la mente, i pensieri e le emozioni di pazienti che condividono una stessa diagnosi si muovono, ma questo non limita e non definisce la loro persona.

La radice di ogni disturbo è il dolore mentale e avere uno “schema noto” consente di rendere individuabile la sofferenza della persona, che – come già detto – spesso è vissuta, ma difficile da raccontare.

Non è da dimenticare che ciascun disturbo costituisce un tentativo intelligente di trovare una soluzione a un problema esistenziale, e questo va prima di tutto rispettato e in secondo luogo “indagato”: spogliare una persona delle proprie soluzioni (per quanto disfunzionali o distoniche) senza averne prima create insieme di nuove, equivarrebbe a una violenza.

Per ogni “disturbo del carattere” Bollas porta riferimenti culturali (es: il mito di Narciso), storici (il testo è ricco di note che rimandano ad articoli e terapeuti) che aiutano a contestualizzare l’evoluzione del pensiero analitico in merito a quello specifico disturbo.

Bollas è un autore generoso e lineare: minuziosamente e senza annoiare coinvolge il lettore in una disamina ricca e puntuale, offrendo un “buffet teorico” che può valere la pena riprendere a più riprese.

 Vengono sottolineati i rischi e i passi falsi più comuni della terapia con determinati soggetti, ma anche le cosiddette autorizzazioni del carattere. Bollas utilizza questa metafora: ogni disturbo porta con sé un’autorizzazione, una sorta di distintivo che ha lo scopo di spiegare all’altro cosa è accaduto. Il Borderline ha un’autorizzazione che dichiara: “Fuori controllo”. Il Narcisista: “Concordo prontamente con te”, perché abbiamo fatto un patto tale per cui io rispecchio te e tu rispecchi me senza in realtà comprendere appieno, e così via. Può sembrare che stia comunicando con gli altri o che stia cercando di aiutarli, ma in realtà si sta occupando semplicemente di ripristinare la propria idealizzazione.

Come già sottolineato, risultano preziosi gli “esempi di vita quotidiana” che consentono al lettore di trovare tradotti concetti complessi in parole molto semplici, nei quali ritrovare non solo i propri pazienti, ma anche cogliere nell’immediato cosa si intenda per “contratto borderline” e/o “festival del dolore”.

Ogni macro capitolo si conclude, inoltre, con “gli assiomi di logica” di quello specifico disturbo. Frasi semplici che riassumono quanto esposto nei paragrafi precedenti e che possono fungere da “piccolo manuale sintetico” per il clinico.

Interessante, infine, la riflessione di Bollas rispetto alle terminologie eziologiche: quando un disturbo diventa largamente conosciuto, si rischiano categorizzazioni e generalizzazioni che nulla hanno a che vedere con il disturbo specifico, generando non solo confusione ma anche – e soprattutto – un “appiattimento” del disturbo.

L’esempio più semplice è il dichiarare Bipolare una persona che non ha mai manifestato episodi maniacali nell’arco della vita, rischiando non solo ovviamente una diagnosi (e, di conseguenza, una terapia) errata, ma anche di sottovalutare il dolore mentale provato da quello specifico paziente.

Infine, nell’ultima parte del testo è presente un interessante dialogo-intervista tra Sacha Bollas (clinico, ricercatore) e l’autore, che ripercorre i temi trattati e i punti salienti discussi.

In conclusione, Tre Caratteri non vuole essere, e non si limita a essere, un “manuale” di clinica psicoanalitica, bensì un testo tecnico scritto con un linguaggio professionale ma chiaro, avvolgente e coinvolgente che può funzionare da bussola per l’attività di ogni terapeuta. La premessa, già sottolineata, è la conoscenza degli assiomi psicoanalitici e la condivisione di un modello che non si limita a ragionamenti legati alla causa-effetto, ma che mette in luce i meccanismi fondanti della mente di ciascuno.

 

Le conseguenze della separazione dal proprio cane guida per una persona con disabilità visiva

In uno studio del 2021, Lloyd e colleghi hanno esaminato come i sentimenti alla fine della collaborazione con un cane guida possano influenzare le relazioni dei loro padroni con i cani successivi.

 

La relazione con un cane guida

 I cani guida sono ausili primari per la mobilità destinati a migliorare lo stile di vita delle persone con disabilità visiva (cieche o ipovedenti), facilitando gli spostamenti in autonomia. Tra gli ulteriori vantaggi offerti al proprietario del cane guida vi sono l’amicizia, la compagnia, l’aumento delle funzioni sociali e il miglioramento dell’autostima e della fiducia in sé stessi (Lloyd et al., 2008). La letteratura scientifica si è occupata di studiare molti aspetti di questo rapporto, tra cui i benefici per la mobilità e il benessere, il funzionamento degli addestramenti, la salute e la riproduzione, ma pochissimi studi hanno esplorato l’esperienza di possedere un cane guida (York e Whiteside, 2018).

I pochi studi presenti sono stati condotti da Lloyd e colleghi (2008), che hanno valutato la compatibilità, il successo o l’insuccesso della relazione tra una persona e il suo primo cane guida e la complessità degli abbinamenti tra cani guida e padroni. Tali studi affermano che è necessario considerare alcuni fattori, oltre alle abilità di orientamento e mobilità, come il comportamento sociale del cane all’interno e all’esterno dell’ambiente domestico.

Esistono pochissimi studi, però, che analizzano le conseguenze della separazione di un proprietario cieco o ipovedente dal suo cane guida, a causa della sua morte, della restituzione all’istituto di addestramento o qualsiasi altro motivo. La fine di una collaborazione così intensa può portare non solo a una riduzione dell’orientamento e della mobilità di una persona, ma potrebbe avere anche effetti psicosociali a causa della perdita di autostima e dell’esperienza del lutto (Schneider, 2005).

La fine del rapporto con un cane guida

Uno studio di Nicholson e colleghi del 1995, per esempio, dopo aver esaminato i sentimenti causati dal termine di un rapporto con un cane guida, ha concluso che le emozioni provate dal proprietario potessero essere paragonabili a quelle sperimentate per la perdita di un amico, un parente stretto o addirittura al momento in cui hanno perso la vista. Talvolta queste emozioni sono esperite anche dopo la morte di un cane da compagnia. Un ulteriore studio che ha analizzato le conseguenze del lutto nei proprietari dei cani, ha evidenziato come molto frequentemente questi animali vengono umanizzati tanto che la loro perdita può causare una visione negativa della vita.

La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969) fornisce un modo per comprendere le relazioni degli esseri umani con gli animali da compagnia, ovvero il concetto che ci leghiamo emotivamente ai nostri animali in modo simile a quanto facciamo con le persone. Il legame uomo-animale esiste da migliaia di anni, tanto che l’American Veterinary Medical Association (AVMA, 2021) lo definisce come “una relazione dinamica e reciprocamente vantaggiosa tra persone e animali, influenzata da comportamenti essenziali per la salute e il benessere di entrambi. Ciò comprende, tra l’altro, le interazioni emotive, psicologiche e fisiche tra persone, animali e ambiente”. Infatti, i cani (e altri animali) aiutano da secoli le persone con disabilità fisiche e forniscono supporto emotivo.

Uno studio sulla perdita del proprio cane guida

 Sebbene quindi la reazione a un lutto per la perdita di un cane, sia di assistenza sia da compagnia, sia ancora sottovalutata, visto il numero crescente di cani guida o da servizio utilizzati in tutto il mondo, comprenderla è di grande importanza per il benessere delle persone che ne scelgono la compagnia (Zapf e Rough, 2002). Per tali ragioni, uno studio di Lloyd e colleghi del 2021, ha esaminato come i sentimenti alla fine della collaborazione con un cane guida possano influenzare le relazioni dei loro padroni con i cani successivi. Gli autori hanno esplorato inoltre come la perdita di un cane assistenziale influenzi la qualità della vita delle persone cieche o ipovedenti. Nello studio sono state analizzate le esperienze e i sentimenti di 36 persone che hanno vissuto la fine di una o più collaborazioni con un cane guida (77 coppie in totale), al fine di esplorare i problemi che emergono al termine della collaborazione e il modo in cui ciò può influire sulle relazioni con i cani successivi. I risultati dello studio dimostrano che l’esistenza del legame cane-padrone è importante per il benessere sia di uno che dell’altro, in quanto influenza il modo in cui le persone si sentono riguardo all’acquisto di un successivo cane guida e la relazione che si forma nella diade, oltre ad avere un impatto diretto sul benessere dei proprietari al termine della collaborazione. I dati indicano infatti che la maggior parte dei padroni ha sperimentato una riduzione della qualità della vita dopo la fine della relazione a causa della diminuzione della mobilità indipendente, seguita da sentimenti di perdita di un amico o compagno, da una riduzione delle interazioni sociali, e una perdita di autostima o fiducia in se stessi. La fine della relazione ha colpito le persone in modi diversi: alcuni hanno “accettato” la fine della collaborazione, altri si sono sentiti in colpa o arrabbiati, soprattutto con gli allevamenti dei cani che glieli avevano sottratti. La maggior parte ha richiesto subito un altro cane, poiché il bisogno di mobilità era elevato, mentre altri hanno preferito aspettare e un numero minore non ha ripresentato la domanda. I sentimenti provati dopo il primo allontanamento hanno influenzato anche le relazioni dei padroni con i cani guida successivi: oltre un quarto di loro ha sperimentato un effetto negativo. Inoltre, sembra che il ritiro di un cane guida (per qualsiasi motivo) non sia difficile solo per il conduttore, ma anche per la sua famiglia, gli amici, i colleghi e, infine, per il cane. In aggiunta, molti proprietari hanno espresso sentimenti di estremo dolore quando la collaborazione è finita, indipendentemente dal fatto che abbia avuto successo o meno. Infine, dopo la perdita del primo cane i partecipanti hanno sperimentato sentimenti di estremo dolore e la profondità dell’emozione è risultata essere paragonabile alla perdita di un familiare o di un’altra persona cara, come emerso in alcune relazioni tra persone e animali domestici.

Una migliore comprensione dei problemi legati alla fine di tale relazione, compreso il legame uomo-animale, aiuterà il settore dei cani guida a capire come supportare al meglio i clienti in questo periodo e nel passaggio da un cane all’altro.

 

Il ruolo della co-ruminazione tra gli operatori sanitari durante la pandemia – Report

Al Forum di Ricerca in Psicoterapia la Dott.ssa Chiara Mariani ha riportato lo studio condotto con le colleghe Dott.ssa Jessica Anselmi e Dott.ssa Isabella Egidi dal titolo L’impatto psicologico della pandemia Covid-19 sugli operatori sanitari: uno studio sul ruolo svolto dai processi di ruminazione e co-ruminazione sulla regolazione emotiva a seguito di eventi di vita stressanti.

 

 La ricerca è stata svolta tra il 2020 e il 2021, quindi nel pieno dell’emergenza da Covid-19, che ha comportato per tutti profondi cambiamenti relativi a lavoro, famiglia, tempo libero, vita sociale. Non sorprende, dunque, che possano esserci delle ripercussioni a livello psicologico. Sperimentare emozioni spiacevoli come ansia, paura, rabbia o tristezza è comprensibile ma, se non riconosciute o mal gestite, queste possono facilitare la comparsa di sintomi legati allo stress. A questo proposito, diventano molto importanti l’autoconsapevolezza emotiva e la regolazione emotiva.

Sebbene tutti noi siamo stati colpiti dalla pandemia, gli operatori sanitari sono stati tra i più a rischio e, essendo impegnati in prima linea, sono stati esposti ad un maggiore carico emotivo. Se cronicizzate e prolungate nel tempo, le condizioni di stress possono avere un impatto sulla salute, come problemi di concentrazione e memoria, disturbi somatici e alterazioni del comportamento, fino a sintomi di ansia e depressione, senso di impotenza e stati di sofferenza conclamata, come il disturbo da stress post traumatico (PTSD).

La ricerca è nata dalla spinta a capire come gli operatori sanitari stessero vivendo e affrontando la pandemia, focalizzando l’attenzione sul vissuto emotivo e su come e quanto i processi di ruminazione e co-ruminazione incidano sulla regolazione emotiva a seguito di eventi di vita stressanti, come quello attuale.

Dalla letteratura scientifica è emerso che nelle situazioni di emergenza come la pandemia, il personale sanitario è esposto a una serie di fattori di rischio, come l’esposizione agli agenti patogeni e quindi al potenziale contagio, lo stigma sociale che deriva da questa esposizione, la paura di essere contagiati e di contagiare i pazienti e i propri familiari, un distanziamento sociale maggiore e in alcuni casi l’isolamento e, infine, il contatto con la morte di pazienti e colleghi. Inoltre, sono stati necessari orari di lavoro più prolungati, una richiesta di reperibilità sempre crescente, l’attivazione di procedure straordinarie, la fatica fisica legata all’indossare continuamente i dispositivi di protezione, oltre al fatto che nelle fasi iniziali tali dispositivi erano carenti.

Tutto questo ha portato a un sovraccarico emotivo e psichico e a condizioni di stress che, se prolungate nel tempo e cronicizzate, possono avere un impatto sulla salute mentale degli operatori sanitari.

In un contesto così complesso è fondamentale regolare le proprie emozioni. La regolazione emotiva è un aspetto fondamentale del benessere psicologico e si riferisce a tutti quei processi attraverso i quali riconosciamo le emozioni che proviamo e le esprimiamo. Alcune strategie di regolazione emotiva, come ristrutturazione cognitiva, problem solving e accettazione, sono adattive, mentre altre, come la soppressione dell’esperienza emozionale, l’evitamento, il rimuginio e la ruminazione, sono meno adattive.

La ruminazione, il processo preso in considerazione dalla ricerca in oggetto, è un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero astratto, ripetitivo, focalizzato su sensazioni e pensieri negativi e sulle loro conseguenze. A differenza del rimuginio e della sua emozione predominante di ansia, la ruminazione è associata tipicamente alla perdita, al fallimento e allo sviluppo di pensieri depressivi. La co-ruminazione viene invece definita come una discussione eccessiva e ripetitiva dei problemi personali con un amico intimo. Questi problemi personali vengono discussi frequentemente, dettagliatamente e ripetitivamente all’interno di una relazione diadica, nella quale vi è mutuo incoraggiamento nel parlare di tali problemi, individuandone cause e conseguenze, e focalizzandosi sui sentimenti negativi che ne derivano.

 Per quanto riguarda la co-ruminazione, la ricerca scientifica ha evidenziato che tale strategia non funziona come fattore di protezione per il distress emotivo, ma anzi si associa a livelli più alti di ansia e depressione. La co-ruminazione condurrebbe da un lato a vicinanza e soddisfazione relazionale, dall’altra a una compromissione del funzionamento psicologico, in particolare ansia, depressione, disturbi psicosomatici e accresciuta risposta allo stress.

Il campione della ricerca era formato da:

  • un gruppo sperimentale di operatori sanitari che lavoravano in reparto covid,
  • un gruppo di controllo di operatori sanitari che lavoravano in reparto non covid,
  • un gruppo di controllo di persone appartenenti alla popolazione generale.

Ai partecipanti sono stati somministrati i questionari Difficulties in Emotion Regulation Scale sulla regolazione emotiva, Ruminative Response Scale (RRS) sulla ruminazione, Co-Rumination Questionnaire (CRQ) per la coruminazione e Impact of Event Scale – Revised (IES-R), per misurare l’impatto psicologico degli eventi di vita stressanti.

Dalle analisi emergono differenze significative tra il gruppo sperimentale e i gruppi di controllo in diverse sottoscale dei questionari DERS, RRS, CRQ. Emergono correlazioni tra sottoscale dell’impatto di eventi di vita stressanti (IES) e sottoscale della difficoltà nella regolazione emotiva (DERS), ruminazione (RRS) e co-ruminazione (CRQ). Sottoscale di DERS e CRQ sono risultate, inoltre, predittori di sottoscale IES.

Ruminazione e co-ruminazione comportano difficoltà nella regolazione emotiva, peggiorando l’impatto degli eventi di vita stressanti. La difficoltà di accettazione, riconoscimento e controllo delle emozioni, il desiderio di discutere continuamente del problema e la tendenza a incoraggiare gli altri a focalizzarsi sul problema a spese di altre attività, inoltre, sono risultati predittori di pensieri intrusivi.

Quindi tra i sanitari impegnati in reparti Covid i predittori di pensieri intrusivi sono risultati essere la difficoltà di distrazione e uno stile di pensiero negativo, ripetitivo e astratto, come lo sono i processi di ruminazione e co-ruminazione.

Lo studio ha contribuito a chiarire e ad approfondire l’impatto della pandemia da Covid-19 sul benessere psicologico degli operatori sanitari. Come sottolineato durante la presentazione, sarebbe interessante indagare quanto rilevato anche nel lungo termine con un’osservazione longitudinale dei soggetti.

Infine, sarebbe utile mettere in atto interventi volti a fornire un supporto psicologico agli operatori sanitari, soprattutto nei contesti in cui il carico emotivo è più alto, rendere le strategie di regolazione delle emozioni più adattive e gli operatori sanitari più consapevoli dei processi di ruminazione e co-ruminazione che mettono in atto, per permettere loro di riconoscerli e interromperli, visti gli effetti negativi sulla salute mentale.

 

Amore online (2021) di Federica Sibilla e Chiara Imperato – Recensione

Come la rete condiziona le modalità di approccio e di conoscenza di potenziali partner sentimentali? Il volume Amore online affronta e approfondisce questa tematica, ad oggi di particolare interesse.

 

 L’uso di internet e dei social media è divenuto negli anni uno strumento a cui sempre più utenti fanno ricorso per la ricerca di un partner sentimentale. L’isolamento imposto nei mesi della pandemia ha ulteriormente favorito l’imporsi della rete come mezzo elettivo per stabilire contatti, fare nuove conoscenze e mantenere quelle già esistenti.

Questo processo di ampliamento delle possibilità di conoscenza interpersonale è reso più rapido e intuitivo non solo dai social media, ma anche dai numerosi siti dedicati agli incontri online, a cui un numero sempre crescente di utenti affida la ricerca di un partner.

Il libro Amore online analizza le modalità attraverso cui si strutturano e nascono le relazioni sentimentali di partner che si sono conosciuti e incontrati attraverso la rete. Questa analisi si declina ripercorrendo le tappe di un rapporto sentimentale a partire dalla conoscenza reciproca e dall’innamoramento, analizzando la vita di coppia on line, fino al subentrare di criticità relazionali e alla conseguente rottura sentimentale.

Le tappe delle relazioni nate e mantenute online non differiscono da quelle che nascono in contesti interpersonali reali, se non per alcuni aspetti legati all’impiego del mezzo virtuale.

Come la rete condiziona le modalità di approccio e di conoscenza di potenziali partner sentimentali?

La conoscenza reciproca tramite il mezzo virtuale consente, almeno nelle fasi iniziali della relazione, di proporre un’immagine di sé migliorata. Spesso l’utente alla ricerca di un potenziale partner crea strategicamente una rappresentazione di sé lievemente migliorata, in cui viene data enfasi alle caratteristiche personali alle quali si desidera che il potenziale interlocutore presti attenzione. La selezione di alcune caratteristiche personali rispetto ad altre rappresenta una prima forma di filtro nella ricerca del partner. Dando enfasi ad alcuni tratti implicitamente le persone si rivolgono a coloro per i quali quei tratti sono significativi e/o interessanti.

L’aspetto che più caratterizza la modalità di ricerca di un partner on line è determinato dalla natura stessa del mezzo a cui ci si affida, il computer o più genericamente la rete. La comunicazione mediata dal computer (CMC) differisce significativamente dalla comunicazione faccia a faccia (FtF) per quattro aspetti.

  • La dimensione temporale. Le comunicazioni CMC possono avvenire in maniera asincrona, sono cioè slegate da vincoli di natura temporale. L’utente decide quando connettersi alla rete, senza che vi sia obbligo o condizionamento sociale nel farlo. L’utente può così decidere di rispondere alle comunicazioni dell’interlocutore secondo i propri tempi, valutando l’opportunità di rispondere e decidendo come farlo.
  • La comunicazione non verbale. Nella comunicazione FtF sono presenti molti segnali non verbali (espressione del viso, tono della voce, postura) che arricchiscono e sostengono lo scambio verbale. Nella comunicazione CMC tali segnali si declinano in modo diverso, ad esempio attraverso l’uso delle emoticon che mirano a simulare graficamente lo stato d’animo associato alle parole scritte. Tuttavia l’assenza dello sguardo proprio dell’interazione FtF rende la comunicazione CMC meno impegnativa dal punto di vista emotivo, consentendo spesso maggiori gradi di libertà espressiva.
  • L’anonimato. Se nella comunicazione FtF l’identità dell’interlocutore è sempre nota, così non è – almeno nelle fasi iniziali di conoscenza – nella CMC, dove spesso l’identità è nascosta attraverso l’uso di un nickname. L’anonimato conferisce spesso un senso di maggiore libertà espressiva all’utente, in quanto svincolato dall’esigenza di dare coerenza alla propria immagine sociale e dalle preoccupazioni rispetto a ripercussioni future del proprio atto comunicativo.
  • Le norme sociali. Se nella FtF sono socialmente condivise, nella CMC restano più ambigue e indefinite. Questo determina la percezione di un maggior grado di libertà espressiva, con due possibili esiti antitetici: l’utente può comportarsi in maniera più autentica e sincera di quanto non farebbe nella modalità FtF; al contrario, può anche agire in maniera più irresponsabile o aggressiva di quanto non farebbe in un contesto di interazione reale.

La rete è un canale comunicativo potenzialmente sempre aperto fra i partner. Questo, da una parte, può sostenere la relazione, consentendo una comunicazione svincolata da limiti temporali e di distanza; dall’altra, la potenzialità comunicativa illimitata può rendere necessario negoziare all’interno della coppia regole comunicative che normino lo scambio di messaggi fra i partner.

 Le relazioni sentimentali, sia online che offline, sono spesso contraddistinte da sentimenti di curiosità per la vita privata del partner e non di rado da sentimenti di gelosia nei confronti di quest’ultimo. La rete offre strumenti di “sorveglianza” elettronica (status, accessi on line), che, se da una parte possono ridurre l’incertezza della relazione, dall’altra possono alimentare l’insicurezza e il malessere legati a questa incertezza, attivando fantasie di infedeltà e dubbi sulle intenzioni del partner.

L’uso della rete aumenta significativamente la possibilità di contatti con potenziali partner alternativi: questo di per sé è spesso inteso come un rischio che minaccia la solidità di una coppia. Tuttavia, le autrici sottolineano che non vi sono sufficienti evidenze per determinare se sia la rete ad aumentare le probabilità di rottura relazionale o se invece siano le coppie in crisi a fare maggiormente ricorso alla rete proprio perché insoddisfatte della loro relazione.

Nelle relazioni, sia in quelle nate online sia offline, sempre più spesso la rottura viene sancita attraverso una comunicazione online. Per quanto ritenuta dai più una scelta non adeguata, spesso è preferita, in quanto riduce al minimo su di sé l’impatto emotivo della propria decisione di interrompere la relazione.

Chi riceve la comunicazione circa la decisione del partner di chiudere la relazione si trova così a dover gestire in modo individuale le conseguenze emotive di tale rottura, senza che questo gravi emotivamente su chi ha agito la scelta.

Le autrici evidenziando le potenzialità, ma anche i rischi, connessi alla ricerca di un partner sentimentale in rete, forniscono tre utili suggerimenti per destreggiarsi nella ricerca dell’amore online.

  • Essere chiari e negoziare. La comunicazione online può essere più ambigua di quella reale. Pertanto, l’uso di modalità comunicative chiare e trasparenti preserva la relazione da incomprensioni ed erronee attribuzioni di significato. Nello specifico, le autrici sottolineano che “appare piuttosto chiaramente l’importanza di trovare accordi che si rivelino funzionali per entrambi i partner in merito ai comportamenti online e ai loro significati, al fine di evitare la delusione delle reciproche aspettative” (Sibilla e Imperato, 2021).
  • Essere equilibrati e flessibili. La relazione deve declinarsi in entrambe le forme possibili: sia quella online, sia quella offline. L’alternanza dei due ambiti impedisce che le dinamiche relazionali online si sostituiscano a quelle offline e permette che le modalità comunicative della CMC si alternino con quelle della FtF.
  • Essere consapevoli e prendersi cura. “La consapevolezza delle difficoltà che potrebbe incontrare una coppia nata online, consente di mettere in atto strategie compensative (…); comportamenti quali la ruminazione e la sorveglianza hanno origine in stati di incertezza e spesso favoriscono un incremento del malessere, anche innescando circoli viziosi” (Sibilla e Imperato, 2021).

 

Quando potrò ricominciare a dormire? Come variano i ritmi del sonno delle mamme nelle fasi di vita di un bambino

Alcuni fattori psicologici che insorgono con la gravidanza e nel periodo perinatale possono causare difficoltà nell’addormentamento delle madri, anche dopo che i figli hanno raggiunto un ritmo del sonno accettabile.

 

 Quando nasce un bambino entrambi i genitori cominciano una nuova fase della vita, caratterizzata da numerosi cambiamenti fisiologici, psicologici e comportamentali che scombussolano la loro quotidianità. Tra questi vi è il ritmo del sonno che risulta frammentato e di scarsa qualità, per un periodo di tempo non ben definito. Il fatto che tale periodo sia di durata estremamente variabile, spesso non consente ai membri della coppia di prendere decisioni, come ricorrere a un aiuto supplementare oppure stabilire quando tornare a lavorare o a studiare. Inoltre, la maternità porta con sé diverse aspettative positive, per esempio quella che i bambini “dormano bene”, che generano frustrazione quando non vengono soddisfatte. Tali aspettative, però, sono spesso irrealistiche, dal momento che provengono da fonti informali come amici o parenti. Quindi, potrebbe essere utile determinare in modo più accurato la durata del periodo di alterazione del sonno, per poter consentire ai genitori di affrontarla al meglio.

Le alterazioni del sonno dopo il parto

Le stime rispetto al tempo che un genitore impiega per tornare ai ritmi di sonno che aveva prima del parto corrispondono al periodo post-partum, quindi circa 6 mesi. Questo periodo inizia con il parto e l’espulsione della placenta, responsabile della secrezione di molti ormoni che alterano i ritmi del sonno; prosegue durante l’allattamento fino a quando il sonno del bambino non si regolarizza seguendo un ritmo prevedibile del ciclo sonno-veglia (Lee, 1998).

Alcuni studi, però, si sono occupati di analizzare il sonno di alcune madri due anni dopo il periodo post-partum e hanno osservato che molte di loro soddisfacevano ancora i criteri per l’insonnia (Sivertsen et al., 2015). Sembra quindi che, nonostante i fattori interni che determinano il ciclo sonno-veglia del bambino si sviluppino tra i 3 e i 6 mesi di vita, e che progressivamente le madri comincino a dormire un numero di ore maggiore, vi siano anche alcuni fattori esterni da tenere in considerazione che influenzano il benessere delle donne, tra cui l’allattamento, l’organizzazione generale della famiglia e il lavoro. In aggiunta, alcuni fattori psicologici che insorgono con la gravidanza e nel periodo perinatale possono causare difficoltà nell’addormentamento delle madri, anche dopo che i figli hanno raggiunto un ritmo del sonno accettabile (Fallon et al., 2016).

 Esistono alcune tappe fondamentali nello sviluppo di un bambino dopo i 6 mesi che contribuiscono a ridurre il carico dei genitori. Tra queste, le principali sono lo sviluppo del linguaggio dopo il decimo mese e l’imparare a camminare ed esplorare l’ambiente circostante al quattordicesimo. Inoltre a 24 mesi i bambini sono più indipendenti, hanno competenze linguistiche sufficienti per comunicare, che li aiutano a gestire le emozioni negative, e sono in grado di focalizzare la loro attenzione lontano dagli stimoli stressanti per gestire più efficacemente il disagio (Dennis, 2006). Sarebbe quindi opportuno estendere fino ai 24 mesi dal parto la ricerca sui disturbi del sonno nelle madri. Tali disturbi possono essere di vario genere, tra cui riduzione o frammentazione del sonno, oppure sonnolenza diurna. L’interruzione del sonno notturno causa sonnolenza diurna, che influisce sulle attività quotidiane delle madri o causa bassa produttività sul lavoro (Lee, 1998). Il problema più comune è la privazione del sonno durante i primi mesi di vita del figlio, spesso associato all’alimentazione, alle cure e ai ritmi di sonno del neonato stesso, che non sono ancora consolidati e i suoi bisogni di nutrimento, affetto, pulizia e attività che non sono ancora sincronizzati con il ritmo dei genitori; sia la madre che il padre sono quindi spesso privati del sonno, in termini di quantità e qualità. Questo porta a svariati effetti negativi sulle relazioni sociali e la salute psicofisica dei genitori (Sharma e Mazmanian, 2003). Uno studio di Okun e colleghi (2018), per esempio, ha riscontrato che i sintomi depressivi e ansiosi di un gruppo di donne erano correlati alla scarsa qualità del sonno.

Il sonno delle madri dopo il primo semestre

Comprendere e mitigare l’impatto che i disturbi del sonno hanno sulla vita delle mamme è quindi importante per la loro salute; per tali ragioni, uno studio di Sánchez-García e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di verificare se la quantità e la qualità del sonno in un campione di madri di neonati nei primi 2 anni di vita del bambino differissero da quelle di donne con caratteristiche simili senza un figlio a carico, e analizzare se le differenze fossero limitate al primo semestre o proseguissero oltre questo periodo. È stato reclutato un campione di 113 donne, alcune delle quali con un bambino di 2 anni, altre invece con un figlio di età superiore ai 6 anni. Queste hanno riferito la durata, le interruzioni e la qualità del sonno, e hanno risposto a questionari sulla qualità del sonno e sulla sonnolenza diurna. Le risposte sono state analizzate al fine di valutare l’ipotesi che sia la qualità sia la quantità del sonno goduto dalle donne con un bambino a carico fossero ridotte rispetto alle altre donne, non solo durante il primo semestre di vita del neonato, ma anche successivamente.

I risultati dimostrano che le madri con neonati hanno il sonno disturbato rispetto ad altre donne: è emersa una relazione positiva tra l’età del bambino e la durata del sonno delle madri, inoltre la durata del sonno per loro era simile a quella delle donne del gruppo di controllo circa 6 mesi dopo la nascita. Tuttavia, la frammentazione del sonno, la sonnolenza diurna e i problemi di sonno erano più elevati per le madri con bambini di età compresa tra 6 e 12 mesi. In conclusione, i risultati evidenziano che i problemi di sonnolenza di una madre non si risolvono entro il primo semestre di vita del bambino. Infatti, sembrerebbe che le madri con figli di 12 mesi sono quelle che necessitano di maggiore aiuto.

 

Attaccamento e vulnerabilità in un’ottica LIBET – Angoli Clinici

State of Mind presenta la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast: un ciclo di appuntamenti alla scoperta di alcuni interessanti temi teorici, clinici e applicativi della Psicoterapia.

 

 È online la nuova stagione di Angoli Clinici in formato podcast.

In ogni episodio la Dott.ssa Rossana Piron intervista un esperto del team di Studi Cognitivi, per approfondire insieme diverse tematiche della Psicoterapia, da un punto di vista teorico, clinico e applicativo.

Un argomento diverso ogni settimana. Nel quinto episodio si parla di attaccamento e vulnerabilità in un’ottica LIBET con il Dott. Walter Sapuppo.

 

Dove ascoltare il quinto episodio:

 

 

Captology: la persuasione 4.0

B. J. Fogg ha approfondito il tema dell’applicazione della captologia evidenziando i ruoli che le macchine possono ricoprire per essere considerate persuasive durante l’interazione con gli umani.

 

Cos’è la captology?

 Il termine captology (o captologia) è stato coniato da B.J. Fogg nel 1996 (dal 2005 l’autore non utilizza più questo termine ma ancora oggi viene usato) a partire dall’acronimo CAPT che sta per “Computers As Persuasive Technologies”. Esprime la possibilità di persuadere le persone mediante l’uso di computer o di tecnologie. In particolare, per comprendere a pieno questo concetto è necessario conoscere cosa vuol dire persuadere.

Cos’è la persuasione?

La persuasione, nell’uso comune del termine, è influenzare le persone facendo fare o pensare loro quello che si vuole. In realtà, da un punto di vista psicologico, questo termine presenta delle difficoltà nella definizione e varia in base allo specifico campo di applicazione. Considerando il campo della captologia, Fogg (2003) ha definito la persuasione come il tentativo di modificare gli atteggiamenti, i comportamenti o entrambi senza l’uso di coercizione o inganno. Quindi, non è necessario obbligare o ingannare qualcuno per promuovere il cambiamento del suo comportamento, è possibile farlo anche attraverso altre modalità come, ad esempio, l’uso di computer, app e altri dispositivi. (Da qui in avanti verrà usato il termine “macchine” per indicare tutte le applicazioni e dispositivi che possono essere usati per persuadere).

Come è possibile persuadere le persone mediante l’uso delle tecnologie?

Una risposta parziale a questa domanda è stata fornita già da Khalil e Abdallah (2013), che hanno esaminato l’efficacia dell’uso di motivatori e avatar personalizzati per incoraggiare le persone a fare più esercizio fisico, a mangiare i cibi giusti e a impegnarsi in stili di vita più sani, evidenziando come questi tipi di applicazioni possano ottenere dei risultati importanti per quanto riguarda la promozione di un cambiamento del comportamento.

Una risposta completa è stata data da B. J. Fogg, che ha elencato le principali proprietà che rendono le macchine più persuasive delle persone.

  • Persistenza. Possono essere molto più persistenti nel tempo e nella richiesta rispetto alle persone. Ad esempio, richiedere più e più volte di registrarsi per accedere a un servizio.
  • Anonimato. Offrono anonimato agli utenti che possono navigare senza che “nessuno” sappia cosa stiano facendo. Un esempio sono le app di dating che consentono di ricercare persone senza la possibilità di essere rintracciati.
  • Dati. Hanno un’enorme quantità di dati da utilizzare per persuadere gli utenti (big data), rispetto a una persuasione fatta da persone in cui si dispone di pochi dati e informazioni.
  • Modalità. Le modalità utilizzabili dalle tecnologie per persuadere sono molteplici e si adattano alle persone mediante l’uso dei big data (video, immagini, musica, etc.), mentre le modalità utilizzabili dalle persone sono molte meno, sia in quantità che qualità.
  • Scalabili. Le macchine possono contare su una rete diffusa che consente loro di trasmettere un messaggio in modo ampio ed efficace. Mentre le persone hanno risorse inferiori e poco efficaci.
  • Ubiquità. L’uso della tecnologia è molto diffuso, ciò implica che la persuasione può avvenire ovunque, mentre le persone non hanno questa capacità.

Mediante queste proprietà appare chiaro come l’uso massivo di tecnologie degli ultimi anni abbia aumentato la possibilità e la facilità nel persuadere le persone. In particolare, B. J. Fogg approfondisce il tema dell’applicazione della captologia evidenziando i ruoli che le macchine possono ricoprire per essere considerate persuasive durante l’interazione con gli umani.

Cosa si intende con “triade di Fogg”?

B. J. Fogg propone la cosiddetta “triade funzionale”, cioè tre principali modalità attraverso cui le macchine riescono a essere persuasive. In particolare, l’autore descrive le macchine come tool, medium e social actor.

1. Tool. Le macchine sono persuasive perché sono viste come strumenti attraverso cui è possibile:

  • Ridurre, ovvero semplificare il più possibile procedure complesse o che richiedono tempo per essere svolte. Un esempio è l’inserimento del tasto “acquista subito” che riduce i tempi necessari per il pagamento, in favore della rapidità e della minore complessità della fase di acquisto.
  • Canalizzare, o “tunneling”, cioè consentono di accompagnare l’utente durante una specifica procedura presentando i passi successivi necessari per portarla a termine. Questo accade, ad esempio, quando bisogna installare un programma e si presentano una serie di passaggi da confermare che semplificano il compito, sviluppando un senso di sicurezza nell’utente, come se entrasse in un “tunnel” in cui può solo proseguire andando avanti.
  • Personalizzazione, o “tailoring tech”, cioè sviluppare tecnologie che diano informazioni su misura e specifiche per la persona. Personalizzare l’esperienza con la tecnologia, proporre informazioni specifiche per la persona invece di quelle generali (ad esempio, scorecard, conoscere in modo specifico l’ambiente prima di andare nel luogo ricercato).
  • Suggerire, o “suggestion tech”, consiste nel fornire un “consiglio” nel momento giusto, così da facilitare e massimizzare la persuasione (viene ripresa l’idea del Dio Kairos, principio del Kairos studiato molto in psicologia, secondo cui, specifiche situazioni rendono le persone facilmente suggestionabili, persuase). Per massimizzare l’effetto ci vuole tempismo e quindi bisogna riconoscere le situazioni adatte ed essere presenti nelle stesse (le macchine sono ubique quindi possono fornire sempre questi suggerimenti).
  • Auto-monitorare, le tecnologie che offrono feedback sono molto persuasive, in quanto le persone usano questi riscontri per direzionare il proprio comportamento per arrivare al cambiamento sperato.
  • Sorvegliare, usare tecnologie per osservare il comportamento delle persone con il loro consenso. In questo modo, le persone attueranno il comportamento desiderato quindi saranno persuase al cambiamento e al mantenimento dello stesso. L’importante è che le persone sappiano di essere “monitorate”, per far sì che l’effetto persuasivo possa presentarsi.
  • Condizionare, indica l’utilizzo di tecnologie con lo scopo di attuare un condizionamento operante, così da poter modificare il comportamento dei soggetti mediante la presentazione di rinforzi positivi una volta raggiunto il comportamento desiderato. (Per esempio: Telecycle, cioè bici collegata alla TV, più si aumenta il passo, maggiore è la nitidezza dell’immagine, viceversa la qualità peggiora).

2. Medium. Le macchine possono essere utilizzate come mediatrici dell’esperienza, ovvero fornire la possibilità di simulare comportamenti o esperienze. Questa simulazione può avvenire in tre modi:

  • Causa-effetto: possibilità di utilizzare le tecnologie per comprendere fin da subito quali potrebbero essere le conseguenze di una specifica causa. Questo consente di poter modificare il comportamento prima che si abbiano delle conseguenze nella “realtà” incentivando un comportamento corretto (esempio: Hiv roulette).
  • Di ambienti: possibilità di ricreare ambienti e poter attuare dei comportamenti in esso. Questo consente di poter replicare alcuni comportamenti anziché altri, così da incentivarne alcuni ed eliminarne altri (esempio: Tectix Vr Bike).
  • Di oggetti:  consiste nell’utilizzare degli oggetti che possono essere usati anche nella realtà e che consentono di simulare l’esperienza, in maniera sicura e controllata, così da comprendere le possibili conseguenze di un dato comportamento (esempio: Drunk Drive).

3. Social actor. Le macchine possono essere anche costruite e percepite come attori sociali. I primi studi di Clifford Nass (2000) hanno dimostrato come le persone traslano dei comportamenti protoumani alle macchine quando interagiscono con esse. Questo senso di reciprocità tra macchina e persona è alla base del terzo fattore della triade di Fogg. Infatti, è possibile persuadere le persone con macchine che diventano attori sociali e quindi sempre più “vicini” alla persona. Questo è possibile mediante l’uso di specifici cue (indizi) sociali.

  • Fisici. La presenza di stimoli fisici quali occhi, faccia, movimenti e corpo nelle “macchine” può indurre una maggiore persuasione (esempio: “Baby take over it”). Questa maggiore persuasione aumenta rendendo la macchina “attraente”. Infatti, l’attrattività sviluppa una serie di comportamenti umani propensi alla fonte di attrazione. Anche se tutto ciò ancora non è ben chiaro, a partire da studi dell’Università di Boston (Parise et al. 1999), si è scoperto che le persone apprezzano in modo “protoumano” che un avatar sia attraente e sono più propensi ad aiutarlo per questo motivo.
  • Psicologici. Le persone attribuiscono delle emozioni, delle preferenze, degli umori e delle personalità alle macchine; ciò può favorire o meno la persuasione. In particolare, studi della Stanford University (Fogg, 2003) sulla collaborazione con macchine, hanno progettato una di queste per avere un “modo di fare” dominante, mentre l’altra aveva un approccio più collaborativo; i risultati finali hanno mostrato che le persone si ritrovano maggiormente con la macchina che è più simile a loro, ampliando quello che è il principio della similarità (siamo più propensi ad aiutare e “stare bene” con persone che sono più simili a noi, in questo caso bisogna aggiungere “le macchine” che sono più simili a noi).
  • Linguaggio. Il linguaggio utilizzato può influire in modo determinante sulla persuasione esercitata tra persone, ma lo stesso può accadere tra macchina e umano. Ad esempio, ricevere un messaggio di avviso “direttamente” dal computer in modo direttivo (“Fai la pulizia del disco”) o in modo non direttivo (“È necessario fare la pulizia del disco, riavvia in seguito?”) può far variare il comportamento applicato dagli utenti.
  • Dinamiche sociali. Le macchine possono persuadere mediante l’utilizzo delle dinamiche sociali. In uno studio di Clifford Nass (2000) si sono formati due gruppi che avevano il compito di portare a termine un compito mediante l’utilizzo di un computer. Attraverso alcuni accorgimenti un computer è stato reso “più collaborativo”, mentre l’altro “meno collaborativo”. Dopo aver concluso il primo compito, si chiedeva a entrambi i gruppi, di aiutare il computer a scegliere alcuni colori per il proprio desktop. Il gruppo che aveva lavorato con il computer “collaborativo” era maggiormente disposto a dare una mano mentre il gruppo con il computer “poco collaborativo” era più restio a portare a termine il secondo compito. Questo mostra come ci possa essere una reciprocità anche tra umani e macchine.
  • Ruolo sociale. Ultimo cue sociale, utile alla persuasione, è il ruolo sociale “rappresentato” dalla macchina. Si è scoperto che le persone vengono influenzate da immagini, titoli o testi che rimandano a ruoli sociali rilevanti (dottore, ingegnere, etc.) quando sono associati a software o a tecnologie che hanno funzioni simili ai ruoli sociali di riferimento (esempio: Dottor Norton).

La captologia è pericolosa o può essere utilizzata per promuovere il benessere delle persone?

 I principi della captologia, così come qualsiasi tecnologia e strumento utilizzato dall’umano, possono essere usati sia per promuovere il benessere delle persone sia per persuadere il comportamento per altri scopi. Nel primo caso, i principi della captologia sono stati e vengono tuttora applicati per la progettazione di dispositivi wearable (indossabili), che consentono di ottenere un feedback riguardo a diversi parametri fisiologici con la possibilità di salvaguardare il proprio benessere (ad esempio, i principi usati in questo caso sono la personalizzazione, l’auto-monitoraggio, la sorveglianza e il condizionamento). Quando invece lo scopo è diretto ad altri risultati è possibile usare questi principi, per esempio, per invogliare il consumo di cibo e bevande, come venne ipotizzato nel laboratorio di Stanford (the Mc Bear Experiment). L’idea era di sfruttare un geo-localizzatore contenuto dentro a un orsetto venduto dalla nota catena di fast food che consentisse di emettere una richiesta ogni qual volta la persona si avvicinasse nei paraggi di un fast food, applicando il principio di Kairos così da suggestionare la persona.

Concludendo, l’utilizzo della captologia è nelle mani di tutti noi, quindi sia chi produce questi dispositivi sia chi li utilizza è bene che tenga a mente la possibilità di essere persuasi da delle macchine.

 

Ridurre l’ansia del vostro bambino nello spettro autistico – Recensione

Il libro Ridurre l’ansia del vostro bambino nello spettro autistico aiuta i genitori di bimbi dai 4 agli 8 anni con diagnosi di autismo ad accompagnarli nella regolazione emotiva e diminuire l’ansia.

 

 Ridurre l’ansia del vostro bambino nello spettro autistico. Divertirsi con i sentimenti è un manuale esplicativo e operativo pubblicato in Italia nel 2022, scritto da Tony Attwood, considerato uno dei massimi esperti dei disturbi dello Spettro dell’Autismo e da Michelle Garnett e colleghi, tutti clinici e ricercatori. David Vagni e Davide Moscone ne curano l’edizione italiana.

Questa guida operativa si rivolge ai genitori di bambini nello Spettro dell’Autismo (termine comprensivo di tutti i sottotipi dell’autismo), dalla scuola dell’infanzia alle prime tre classi della scuola primaria e li coinvolge attivamente suggerendo strategie educative efficaci ed efficienti per la regolazione emotiva.

Il manuale si configura come un’introduzione al mondo dell’educazione cognitivo-affettiva, creando continuità tra l’intervento precoce evolutivo-comportamentale e le successive terapie cognitivo-comportamentali (CBT). Si rivela utile soprattutto per quelle famiglie che non hanno accesso a specialisti nel campo dell’autismo, in quanto può essere usato autonomamente a casa.

Come si evince anche dal titolo, il taglio operativo del manuale riflette un approccio di tipo CBT, che si è dimostrato efficace all’interno dei programmi di regolazione emotiva e gestione dell’ansia in bambini, adolescenti e adulti, sia con sviluppo tipico sia atipico (come l’autismo). Nello specifico, la proposta contenuta nel manuale deriva da due programmi sulla gestione delle emozioni sviluppati dall’autore Tony Attwood, che sono stati poi valutati da ricercatori indipendenti, i quali ne hanno confermato l’efficacia.

La necessità dell’intervento anche da parte dei genitori in questa specifica popolazione nasce dal divario nella comunicazione sociale presente tra i bambini con sviluppo tipico e atipico. La comprensione delle emozioni risulta fondamentale nella comunicazione sociale: riconoscere, esprimere e comprendere le emozioni aiuta i bambini a dare un senso alle loro esperienze e a organizzarle. Una delle problematiche maggiori per i bambini nello Spettro, superata la prima infanzia e prima dell’adolescenza, consiste proprio nella fatica a riconoscere ed elaborare le emozioni; ciò può portarli a esperire alti livelli di ansia rispetto a situazioni a cui non riescono a conferire un significato. Il bambino dello Spettro, ad esempio, fatica a capire lo stato emotivo dell’altro poiché non accede alla comunicazione non verbale: un volto accigliato e contrito, un tono di voce alterato e le braccia conserte in un corpo teso non gli comunicano che l’altro in quel momento è arrabbiato.

Il programma ha tre principali obiettivi:

  • conoscere e identificare le emozioni di base in sé e negli altri;
  • usare il linguaggio verbale per identificare e riconoscere l’intensità delle emozioni;
  • conoscere e usare strategie di rilassamento e regolazione emotiva con l’aiuto di un adulto.

Il percorso mira a sostenere lo sviluppo del bambino in queste aree, che saranno la base fondamentale per le competenze emotive e sociali più avanzate.

 Il manuale crea quindi un vero e proprio percorso che consente ai più piccoli di accostarsi al complesso mondo delle emozioni e della loro regolazione, migliorando gradualmente la relazione con i genitori, e ai genitori di diventare partecipanti attivi del processo terapeutico. Nello specifico, si articola in dieci tappe, pensate per essere attuate una alla settimana. Lo scopo delle prime quattro tappe è quello di spiegare ai genitori come usare il programma con i propri figli, illustrando le caratteristiche dell’ansia e dell’autismo. Le successive sei tappe corrispondono alle sei attività in cui si articola il libro interattivo Divertirsi con i sentimenti. Il manuale è infatti corredato di un Libretto di Attività, da svolgere con il bambino, che ha l’obiettivo di accompagnarlo verso l’esplorazione e la consapevolezza dei propri stati emotivi e verso l’individuazione delle strategie di autoregolazione più funzionali. Alcuni simpatici personaggi accompagnano il bambino nell’esplorazione delle caratteristiche dei principali stati emotivi attraverso immagini e racconti, lo aiutano a misurare l’intensità emotiva esperita nelle situazioni quotidiane e a maturare maggiore consapevolezza attraverso il riconoscimento delle espressioni facciali corrispondenti a ogni emozione. Schede riepilogative permettono poi di essere in grado di valutare il cambiamento che ogni strategia adottata è stata in grado di generare.

Il valore pragmatico dell’intera guida è dovuto alla sua struttura chiara e alla presenza di molti spunti e attività pratiche. I concetti sono espressi in modo semplice e ordinato. La suddivisione delle tappe consente di stabilire degli obiettivi a breve termine, raggiungibili facilmente grazie all’utilizzo di piani settimanali e alla chiarezza con la quale gli autori esemplificano i passaggi e le azioni da intraprendere. Le tappe sono strutturate con una sintetica spiegazione iniziale, la successiva illustrazione dello strumento e la richiesta finale di riflessione per consolidare quanto appreso. In coda al capitolo sono inoltre proposte delle “domande frequenti”, che rappresentano le difficoltà comunemente incontrate riguardo allo specifico tema affrontato e per le quali vengono suggeriti alcuni consigli per gestirle.

Divertirsi con i sentimenti – Un manuale per genitori basato sulla CBT si rivela un utile strumento con cui il genitore può imparare a conoscere le peculiarità della condizione del proprio figlio appartenente allo spettro autistico, inerente sia la manifestazione degli stati d’ansia che l’individuazione delle strategie funzionali di gestione della stessa, attraverso passaggi concreti che rimandano a obiettivi chiari, realistici e misurabili.

 

Motivazione e apprendimento negli studenti di medicina

La motivazione è vista come la base del comportamento, quella spinta che fa mettere in atto delle azioni per perseguire uno scopo e raggiungere un determinato obiettivo.

 

Le teorie sulla motivazione

 La teoria dell’autodeterminazione offre una cornice utile per comprendere come i fattori personali possono minare o facilitare la motivazione individuale, incrementando la funzionalità e il benessere delle persone (Babenko et al., 2019). Un altro approccio è quello delle auto-teorie sulle proprie capacità, le quali spiegano l’importanza di soddisfare i bisogni attraverso condizioni ottimali: infatti esaminano le convinzioni che gli individui hanno circa le proprie capacità, o la propria intelligenza, e come queste ultime si riferiscono alle loro motivazioni e ai comportamenti che vengono messi in atto (Dweck, 1999; 2012; Rattan et al., 2012; Teunissen e Bog, 2013). Un’altra teoria sulla motivazione riguarda il raggiungimento dell’obiettivo nella quale vengono prese in considerazione le risposte degli individui ai fattori ambientali, combinate con specifiche caratteristiche personali, per spiegare i tipi di cognizione che vengono sviluppati in contesti di realizzazione. Contemplando anche la possibilità del fallimento, questa teoria propone che gli individui adottino un orientamento subconscio mentre si avvicinano al punto di realizzazione di determinati obiettivi (Elliot e McGregor, 2001).

La motivazione tra gli studenti di medicina

Il percorso di studi in medicina pone molte pressioni e sfide per le persone che aspirano a carriere sanitarie: gli studenti che hanno lo scopo di frequentare tale facoltà spesso mirano ad avere un alto rendimento, sono orientati agli obiettivi e motivati a realizzarsi. Tali aspirazioni possono portare anche problemi psicologici, legati a stress, ansia e burnout (Villwock et al., 2016), i quali sono riportati da circa il 50-60% degli studenti in questo campo (Dyrbye et al., 2006; 2010; 2014). Nello specifico, il concetto di burnout fu descritto per la prima volta da Herbert Freudenberger nel 1974 e, oltre a definire lo stress legato al lavoro a lungo termine, questo termine include depersonalizzazione, mancanza di realizzazione in caso di scarse prestazioni e sentimenti di inefficacia anche quando si raggiunge un buon traguardo (Freudenberger, 1974; Nunn & Isaacs, 2019). Al contrario, alcuni studenti rispondono in modo adattivo alle richieste accademiche e si impegnano nella formazione permanente, dove è garantito un aggiornamento professionale costante durante l’arco della vita (Babenko et al., 2019).

Basandosi sulle tre teorie motivazionali, lo studio di Babenko e colleghi (2019) ha esaminato le relazioni tra costrutti motivazionali, stress, burnout e apprendimento negli studenti di medicina. Utilizzando i modelli di equazioni strutturali, gli autori (2019) hanno testato un modello su un totale di 267 studenti che hanno partecipato allo studio longitudinale durato 4 anni (con un tasso di risposta del 42%). Gli studenti sono stati invitati a completare un questionario contenente misure di soddisfazione di tre bisogni psicologici (autonomia, competenza e relazionalità), quesiti relativi alle auto-teorie delle capacità (Dweck, 1999), raggiungimento degli obiettivi (Baranik et al., 2007), stress, burnout (Demerouti e Bakker, 2008), formazione permanente (Wetzel et al., 2010) e caratteristiche di base (informazioni anamnestiche). Gli autori hanno considerato le seguenti ipotesi: a) la soddisfazione dei bisogni psicologici è positivamente correlata all’avvicinamento degli obiettivi e negativamente correlata all’evitamento di questi ultimi; b) le convinzioni che gli individui hanno sulle proprie capacità e sulla motivazione correlata sono associate al raggiungimento degli obiettivi e alla padronanza dell’approccio utilizzato c) l’approccio adottato per il raggiungimento degli obiettivi e la padronanza con cui viene utilizzato dal soggetto è associato positivamente alla formazione permanente, mentre d) l’evitamento è correlato allo stress e al burnout (Babenko et al., 2019).

 I risultati hanno ampiamente confermato le relazioni ipotizzate: come anticipato, la soddisfazione dei bisogni psicologici quali autonomia, competenza e relazionalità è risultata correlata positivamente al perseguimento degli obiettivi, alla padronanza dell’approccio verso gli obiettivi e alla formazione permanente, mentre è correlata negativamente con l’evitamento, il burnout e lo stress. La padronanza dell’approccio applicato per raggiungere un obiettivo è positivamente collegata al burnout e allo stress, mentre l’elusione delle prestazioni è correlata solo al burnout e non allo stress (Babenko et al., 2019). Il perseguimento degli obiettivi è correlato positivamente alla formazione permanente ma non al burnout.

Conclusioni

I risultati suggeriscono come, negli studenti di medicina, la soddisfazione dei bisogni psicologici e una mentalità di crescita hanno percorsi distinti verso cognizioni adattive (cioè, trovare un approccio personalizzato nello studio e riuscire ad applicarlo in modo funzionale) e pratiche di formazione permanente (Babenko et al., 2019). I dati ottenuti hanno inoltre evidenziato che i bisogni psicologici insoddisfatti e una mentalità fissa sono associati a cognizioni disadattive (cioè, il perseguimento dell’evitamento) e disagio psicologico (cioè, stress elevato e burnout). Le motivazioni analizzate da un punto di vista adattivo, coltivate attraverso fattori personali e ambientali, possono aiutare a proteggere gli studenti di medicina dal disagio psicologico e migliorare la loro crescita teorica e pratica per tutta la vita. Comprendere i meccanismi e i percorsi verso risultati desiderabili e indesiderabili negli studenti è fondamentale per creare ambienti funzionali all’apprendimento (Babenko et al., 2019).

 

Improving Public Access to effective Psychological Therapies (IAPT): lezioni dal programma inglese – Report

Lo IAPT (Improving Public Access to effective Psychological Therapies) mira a formare un gran numero di psicoterapeuti per erogare i trattamenti psicoterapici di consolidata efficacia indicati dal NICE per le problematiche comuni di salute mentale su tutto il territorio inglese.

 

Recentemente ha avuto luogo online il Forum Biennale di Ricerca in Psicoterapia delle Scuole della rete nazionale di Studi Cognitivi – Formazione, che ha visto protagonisti gli specializzandi e alcuni ospiti speciali internazionali. Nello specifico, il keynote del Dott. David Clark ha aperto la giornata del 7 Maggio 2022.

L’intervento del Dott. Clark, introdotto dal Prof. Ruggiero, ha riguardato la discussione dell’esperienza inglese del programma pubblico IAPT per l’erogazione di cure psicologiche, di cui il Dott. Clark è il principale fautore.

Le necessità per le quali nasce il programma IAPT

Il dato preoccupante, con cui il Dott. Clark motiva l’importanza del programma riguarda la percentuale di popolazione adulta che, nel 2007, nel Regno Unito, ha ricevuto assistenza psicologica basata su evidenze empiriche per problematiche di salute mentale legate ad ansia e depressione, che equivale a meno del 5%. In aggiunta, gli utenti avrebbero atteso in molti casi più di un anno prima di iniziare il trattamento. A livello socioeconomico, invece, ansia e depressione non trattate producono un decremento del PIL del 4%, causato dall’assenteismo sul luogo di lavoro, e un incremento dei costi per la sanità pubblica nazionale.

Tali dati acquistano rilevanza alla luce di quanto raccomandato dalle linee guida cliniche del National Institute for Health and Care Excellence (NICE), ente di autorevolezza globale che si occupa proprio di revisionare gli studi di efficacia dei vari interventi psicologici. Dunque, le linee guida NICE, come interventi di prima scelta per problemi di salute mentale comuni (ovvero disturbi d’ansia e depressivi), indicano terapie psicologiche basate su prove di efficacia scientifica (es., Cognitive and Behavioral Therapy; CBT) di breve durata, fino a 14-20 incontri. Inoltre, sembra che alcuni sondaggi abbiano mostrato che le persone preferiscono le psicoterapie ai farmaci, in un rapporto di 3:1. Tuttavia, sembra che in nessun paese del mondo le terapie psicologiche siano più diffuse di quelle farmacologiche.

La soluzione IAPT: in cosa consiste?

Lo IAPT è il servizio attuato in Inghilterra per promuovere l’accesso alla psicoterapia, in modo da sopperire alle necessità appena citate. Il programma, nato da una coalizione di clinici, ricercatori ed economisti, è attivo dal 2008 ed è stato implementato all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.

Lo IAPT mira innanzitutto a formare un gran numero di psicoterapeuti (attualmente sono 9.800 gli specialisti che fanno parte del programma) per erogare i trattamenti di consolidata efficacia indicati dal NICE, valutando e monitorando le loro competenze nel corso del tempo. L’obiettivo primario è quello di distribuire i servizi di assistenza psicologica in base a livelli di gravità (modello Stepped Care) per le problematiche comuni di salute mentale su tutto il territorio inglese. Il modello Stepped Care prevede una gradazione degli interventi in funzione dell’entità dei bisogni del paziente e implica differenti condizioni di trattamento che vanno da quelli a bassa intensità (es., interventi psicoeducativi o gruppi di auto-mutuo-aiuto) a quelli ad alta intensità (es., psicoterapia o integrazione di farmaci). Ciò consente di trattare il maggior numero di persone possibile e raggiungere il più alto grado di remissione della sintomatologia (NCCMH, 2021), oltre che monitorare, e quindi misurare, l’andamento clinico di tutti i pazienti che gravitano nel sistema di cure psicologiche.

Attualmente questo sistema registra oltre 1 milione di accessi ogni anno, 640.000 persone hanno completato un ciclo di trattamento, l’attesa media è di 20 giorni e si hanno importanti dati clinici (pre-post intervento) per il 99% dei pazienti. Inoltre, la soddisfazione degli utenti rispetto all’ascolto e all’aiuto ricevuto è molto alta (91-98%).

Cosa si può imparare dai dati a oggi?

L’accesso ai dati clinici riguardanti l’andamento di tutte le tipologie di intervento del programma e la loro conseguente analisi consente di migliorare l’erogazione delle cure fornite.

Per esempio, è stato osservato che seguire le raccomandazioni delle linee guida NICE per la scelta del trattamento garantisce una maggiore percentuale di remissione. Così come una descrizione accurata del problema e bassi tempi di attesa (<6 mesi) aumentano la probabilità di guarigione dei pazienti. Inoltre, sono stati registrati risultati migliori laddove era maggiore il numero medio di sessioni (>10). Un altro dato interessante è il divario emerso in termini di risultati del percorso terapeutico in base alle diverse aree sociali: nelle zone più socialmente svantaggiate del Paese il grado di remissione era inferiore; perciò, l’obiettivo è stato quello di incrementare la qualità delle cure erogate.

Poi il Covid-19. Il programma IAPT, come tutti i servizi, non era preparato a una pandemia. Tuttavia, prevedendo che le misure pandemiche e il virus stesso avrebbero influito sulla salute mentale dei cittadini, i professionisti hanno deciso di mantenere attivo il programma, adattandolo rapidamente alle nuove misure di sicurezza. Dunque, sono stati implementati servizi di terapia da remoto (es., video e telefonate) e formazione online (es., webinar e risorse web) per i clinici rispetto alle nuove modalità. Ciò ha consentito al programma di assistere e curare lo stesso numero di pazienti trattati nella condizione non-pandemica. Nonostante l’efficacia delle modalità remoto-in presenza sia quasi equiparabile, il Dott. Clark riporta che alcuni pazienti da subito hanno rifiutato il format da remoto, per i quali sono state mantenute le forme in presenza; invece, altri pazienti dopo la fine della pandemia, potendo scegliere la modalità, hanno preferito tornare alla modalità faccia-a-faccia.

Un ulteriore aspetto rispetto al quale il programma si sta organizzando riguarda la gestione della comorbilità tra psicopatologie e condizioni fisiche a lungo termine, poiché attualmente non sono previsti interventi coordinati tra salute fisica e mentale. Infatti, i dati mostrano un’elevata percentuale di comorbilità (40%) nelle persone con depressione o ansia che presentano anche una malattia fisica a lungo termine (es., diabete, problemi cardiovascolari o respiratori). Ciò ha ricadute economiche importanti in termini di assistenza sanitaria fisica.

I primi risultati dello IAPT-LTC (IAPT-Long Term Conditions) hanno mostrato dei buoni risultati in termini di recupero (48%) e miglioramento (65%), una significativa riduzione dei costi di assistenza sanitaria fisica e un aumento del 9% dell’occupazione in termini lavorativi dei pazienti. Questo specifico programma adesso diventa utile anche per la gestione del long-covid.

Cosa può essere migliorato?

Nonostante i risultati soddisfacenti e promettenti ottenuti in 14 anni di attività del progetto, il dott. Clark sostiene che, migliorando la strutturazione del programma, si possa superare il tasso di remissione, che attualmente rispetto al numero di sessioni è in media del 50%. Infatti, è stato osservato che la maggior parte degli utenti ha ricevuto da 2 a 7 incontri di trattamento. Tuttavia, per coloro che hanno ricevuto solo 2 sessioni (perché magari hanno deciso di interrompere la terapia) i tassi di remissione e miglioramento sono molto bassi; invece, all’aumentare del numero di sessioni vi è un incremento anche delle percentuali di remissione e miglioramento, che raggiungono picchi rispettivamente del 65% e 75% circa. Un dato interessante, emerso dalle analisi condotte sulle informazioni acquisite dai monitoraggi clinici, rivela che i tassi di remissione e miglioramento diminuiscono oltre 29-30+ sessioni terapeutiche.

La discussione avviata dal dott. Clark sul tema della diffusione delle terapie psicologiche evidence-based ha contribuito ad arricchire il dibattito che si sta svolgendo attualmente anche in Italia (es., pubblicazione del documento della Consensus Conference, la conferenza sulle terapie psicologiche efficaci per i disturbi d’ansia e depressivi e il loro implemento sul territorio). Il tema della discussione è stato successivamente ripreso dallo stesso David Clark, da Steven Hollon e da Giovanni Maria Ruggiero durante l’interessante Tavola Rotonda.

Come as you are. Risveglia e trasforma la tua sessualità – Recensione

Il libro Come as you are parla senza filtri di sesso, piacere, eccitazione e desiderio al femminile provando a rispondere, senza tabù e senza utilizzare ricette preconfezionate, alle tante domande che frequentemente le donne si fanno, animate dalla volontà di migliorare la propria vita sessuale.

 

 L’autrice, Emily Nagoski, ha lavorato come educatrice e docente presso il Kinsey Institute for Research in Sex, Gender, and Reproduction, tenendo corsi universitari e specialistici inerenti alla sessualità umana, alle relazioni e alla comunicazione.

Alla luce delle competenze maturate nel suo percorso professionale e formativo –dottorato sui comportamenti legati alla salute, in riferimento alla sessualità umana, conseguito presso la Indiana University e laurea in Psicologia presso l’Università del Delaware– si occupa di tematiche legate al benessere della vita sessuale da diversi anni, adottando un taglio divulgativo, condito da una sana dose di ironia, senza tuttavia banalizzare temi complessi o rinunciare al rigore scientifico.

Il testo in esame propone alle lettrici di promuovere il benessere sessuale attraverso la conoscenza di sé e del proprio corpo. La parola d’ordine è rifuggire dalle generalizzazioni, per poter imparare a capire qual è il proprio modo, unico per ogni donna, di vivere la sessualità in modo spontaneo e soddisfacente.

I sensi di colpa, il timore di non essere “come le altre”, la vergogna, vengono alleggeriti dalla consapevolezza che il sesso non è riconducibile ad una prestazione da adempiere, ma è, a partire dalla fase di eccitazione, un comportamento complesso influenzato da numerosi fattori, legati alla persona, al contesto e alla relazione.

 In questo senso ogni donna può provare a intraprendere un viaggio alla scoperta del proprio corpo e delle proprie emozioni, un viaggio non giudicante per poter capire cosa le piace, cosa la fa stare bene e cosa la mette a disagio. Invece di criticare sé stessa nella errata convinzione che le sensazioni e le emozioni che prova non siano adeguate, perché non corrispondono alle aspettative, proprie e/o altrui.

Nagoski, attraverso esempi e storie cliniche di sue pazienti, spiega, rassicura e incoraggia le lettrici a vivere bene nel proprio corpo, offrendo informazioni tecniche, risposte a dubbi più frequenti, spunti di riflessione utili a identificare i messaggi interiori ed esteriori che impattano, in senso positivo o negativo, su come il sesso viene vissuto.

Nove capitoli di prosa scorrevole per sfatare falsi miti e per aiutare ogni donna a comprendere meglio quale sia il suo personale modo di trarre piacere e benessere dal proprio corpo, concedendosi di vivere una sessualità serena e appagante.

 

Il ruolo del trasporto mentale nella nostalgia

La nostalgia, nei film o nei contenuti mediatici, solitamente è caratterizzata dal tema del rivivere momenti passati o da flashback.

 

 Il rivivere sembra essere una componente importante dell’esperienza nostalgica. Nel corso degli anni sono state date differenti definizioni alla nostalgia, la quale talvolta è descritta come un’emozione che implica sentimentalismo e malinconia (Sedikides et al., 2015), a cui altre volte vengono aggiunte componenti cognitive come riflettere e rivivere (Hepper et al., 2012). Sebbene spesso sia descritta come negativa, perché associata a una sensazione di mancanza, la nostalgia può includere invece gioia e contentezza ed è un’emozione universale che tutti sperimentano nell’arco della vita. Comporta una riflessione tenera e affettuosa su eventi importanti del passato, accompagnata da un sentimento di rimpianto.

I benefici della nostalgia

Diversi studi in letteratura hanno scoperto che provare nostalgia può avere tre benefici psicologici:

  • il primo è un aumento della connessione sociale e il senso di accettazione e appartenenza (Sedikides e Wildschut, 2019);
  • il secondo è il rafforzare la percezione che la propria vita abbia un significato personale (Routledge et al., 2012);
  • l’ultimo è invece un aumento dell’autostima, dell’ottimismo, dell’aspirazione e in particolare della continuità del sé ovvero la connessione tra sé passato e sé presente (Sedikides e Wildschut, 2020).

Tuttavia, non è ancora chiaro il modo tramite il quale provare l’emozione nostalgica possa conferire tali benefici (Van Tilburg et al., 2015). Inoltre, alcuni studi hanno evidenziato che ricordare eventi passati non nostalgici non porta gli stessi risultati (Van Tilburg et al., 2015).

Una possibile spiegazione è quella che la nostalgia non coinvolga soltanto la memoria, e quindi il ricordo di dettagli di alcuni eventi importanti, ma includa anche un viaggio mentale nel tempo che consente di rivivere l’esperienza come se si fosse lì tramite la coscienza autonoetica. Quest’ultima è una forma di traslazione mentale basata sull’immaginazione e associata al recupero della memoria episodica e quella autobiografica. Durante la codifica di un ricordo di un evento importante, immagini dettagliate associate all’evento (suoni, sapori, ecc) diventano parte dello schema di memoria per quell’evento e al momento del recupero vengono riattivate tramite un processo di attivazione diffusa; tale attivazione permette di rivivere il ricordo in modo fluente (Conway e Pleydell-Pearce, 2000). A causa della loro importanza personale, infatti, questi eventi sono stati debitamente apprezzati e dunque è più probabile che siano impregnati di immagini, codificati in modo più elaborato e con maggiore probabilità di essere ricordati in maniera dettagliata (Abeyta et al., 2015).

Trasporto mentale e nostalgia

Tra i processi di memoria basati sull’immaginario vi è il trasporto mentale, nel quale gli individui lasciano mentalmente il loro spazio fisico attuale e si trasferiscono in una narrazione (Green e Brock, 2000). Dal momento che il trasporto mentale svolge funzioni simili a quelle della nostalgia, è possibile che sia richiamato da quest’ultima. Quando un evento nostalgico viene rievocato si attivano dapprima le conoscenze specifiche codificate come parte di quell’evento, incluse le immagini; successivamente, rivivendo l’evento, le persone vengono sempre più trasportate mentalmente in esso, immaginandolo con tutti i suoi dettagli. Grazie al trasporto mentale, infatti, i benefici della nostalgia sopra menzionati aumentano. Un esempio di collegamento tra nostalgia e trasporto mentale è ben espresso nel libro di Proust, “La strada di Swann” (1992, pp. 36-39) in cui l’autore assaggiando una madleine ricorda le fette di torta con cui la zia lo accoglieva da bambino, nella sua camera da letto. Tale ricordo nostalgico lo trasporta in quelle visite, trasformandosi in un’esplosione di immagini, suoni e profumi.

 Nel 2021 Evans e colleghi hanno voluto approfondire il ruolo del trasporto mentale utilizzando il diario giornaliero e due esperimenti, in un campione di 514 soggetti. Nel primo studio gli autori hanno ipotizzato che le esperienze quotidiane di nostalgia e di trasporto mentale fossero positivamente correlate. In particolare, che la propensione alla nostalgia fosse positivamente associata alle esperienze nostalgiche quotidiane e al trasporto mentale quotidiano e che nei giorni in cui i partecipanti avessero riferito di essere più nostalgici, essi avrebbero riportato un trasporto mentale più elevato. Nei successivi studi, invece, hanno ipotizzato che il ricordo di un evento autobiografico nostalgico (rispetto a quello ordinario) fosse collegato a un aumento del trasporto mentale auto-riferito e che il ricordo nostalgico (rispetto a quello ordinario) conferisse più benefici psicologici. I partecipanti hanno completato la Southampton Nostalgia Scale (SNS; Sedikides et al., 2015) che misura la propensione alla nostalgia, alcune domande sul trasporto mentale giornaliero derivate dalla scala di Green e Brock (2000), e la scala del trasporto mentale (Green e Brock, 2000). Inoltre, i soggetti hanno completato valutazioni giornaliere che misuravano i pensieri, i sentimenti, i comportamenti e gli eventi quotidiani dei partecipanti.

I risultati mostrano che esiste un legame tra la nostalgia e il trasporto mentale: la propensione alla nostalgia era associata positivamente alla frequenza delle esperienze di trasporto mentale giornaliero e, nello specifico, la nostalgia giornaliera prediceva il trasporto mentale giornaliero. Inoltre, negli studi in cui sono stati utilizzati i due esperimenti è emerso che il ricordo di un evento nostalgico della propria vita (rispetto a quello autobiografico ordinario) era associato a una maggiore fluidità del trasporto mentale. Dall’ultimo esperimento il trasporto mentale è risultato essere associato positivamente agli stessi benefici psicologici della nostalgia. È stato osservato infatti che il trasporto mentale media l’influenza benefica della nostalgia sulla connessione sociale, sul significato della vita, sull’ottimismo, sull’ispirazione e sull’auto-continuità.

Il trasporto mentale sembra essere quindi un meccanismo chiave alla base dei benefici psicologici della nostalgia e può contribuire a influenzare atteggiamenti, emozioni e intenzioni (Murphy et al., 2013).

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (2022) – Recensione

Nel libro La formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale si percorre un viaggio all’interno della Terapia Cognitivo Comportamentale (Cognitive Behavioral Therapy; CBT), dai suoi esordi fino ad arrivare agli sviluppi più recenti.

 

Ciascun approccio viene presentato sostenendo l’importanza della formulazione condivisa del caso, base unica per una efficace gestione dell’alleanza terapeutica e della relazione, da cui dipende il risultato del trattamento.

Se è vero che per raggiungere obiettivi clinici è necessario intervenire a livello trattamentale, ciò risulta impossibile senza una chiara visione, nella mente del terapeuta, del caso clinico, ovvero delle cause della sofferenza del paziente. L’orientamento CBT è basato sulla collaborazione ed il paziente gioca un ruolo attivo nel percorso del suo cambiamento: senza una chiara visione del suo disturbo, difficilmente riuscirà a muoversi consapevolmente verso obiettivi chiari.

Per tale motivo non si può prescindere da una preliminare formulazione condivisa del caso clinico. Inizialmente utilizzata all’interno della psicoterapia comportamentale, che applicava i principi della teoria dell’apprendimento, essa veniva schematizzata in antecedenti, risposte comportamentali e conseguenze, fornendo un’analisi funzionale del comportamento. In tal modo era possibile identificare specifiche situazioni attivanti il comportamento disfunzionale e ciò che lo rinforzava, mantenendolo attivo.

Aspetto centrale di tutti gli approcci CBT è il principio clinico cognitivo per il quale i disturbi emotivi dipendono da contenuti mentali distorti che possono essere rielaborati attraverso la riattribuzione verbale cosciente. Ciò presuppone che ciascun evento, interno o esterno, venga elaborato e valutato in termini cognitivi, conducendo, di conseguenza, a specifiche risposte, emotive e comportamentali. Non è, dunque, l’evento specifico, come erroneamente spesso il paziente crede, a condurre alla risposta, in quanto quest’ultima è mediata dal soggetto stesso, ovvero dal suo sistema di credenze e convinzioni. Laddove si verifica un cambiamento comportamentale, si presuppone, pertanto, uno shift cognitivo verso sistemi di pensiero maggiormente funzionali.

Tali punti vengono approfonditi nei vari approcci CBT in maniera differente, al punto da condurre a diverse formulazioni del caso.

Beck, padre della Terapia Cognitiva, attenziona le ‘credenze negative sul sé’, quali colpevoli dirette del disturbo psicologico: rendere il paziente cosciente dei suoi bias cognitivi lo porterebbe, nel lavoro clinico, a poter togliere le lenti distorte, per guardare il mondo con occhi differenti. Sebbene Beck abbia parlato fin dall’inizio di empirismo collaborativo, le critiche mossegli dai costruttivisti riguardano la matrice eccessivamente direttiva e meccanicistica, nonché razionalista, di tale modus operandi, che vedrebbe, almeno all’inizio, il paziente essere spettatore passivo di tale disvelamento. Beck ha, comunque, il merito di aver incluso, fin dall’inizio, la formulazione condivisa del caso nella procedura terapeutica, pur utilizzando un nome differente. Il terapeuta utilizza le componenti del Diagramma di Concettualizzazione Cognitiva (Cognitive Conceptualization Diagram [CCD]; Beck, 2011), focalizzando credenze centrali, credenze intermedie e strategie di coping, al fine di condividere con il paziente un modello della psicopatologia, volto a favorire la defusione dai pensieri.

A partire dall’identificazione dei pensieri automatici, in seno a situazioni specifiche, si procede con la tecnica del downward arrow (freccia verso il basso), per disvelarne il significato personale e profondo, ovvero per identificare i bisogni dell’individuo.

La CBT standard, almeno nella sua formulazione esplicita, sembra trascurare il ruolo svolto dagli scopi, ovvero dalle motivazioni e dai piani, senza i quali le credenze svolgerebbero una mera funzione epistemica. Particolarmente rilevanti sono, in tale ottica, gli anti-scopi sovrainvestiti, ovvero gli scenari temuti, inaccettabili nella mente del paziente. Un caso ben formulato deve individuare non solo l’anti-scopo, che blocca il paziente, ma anche gli obiettivi sani, che fungono da bussola per la psicoterapia.

Senza conflitti tra scopi, le credenze perdono qualsiasi colore emotivo e non possono acquisire potere patogeno.

L’essere umano disinveste uno scopo laddove questo viene percepito come improduttivo, troppo costoso, o quando è legittimo o doveroso ridurlo.

Nella Terapia Emotiva Razionale del Comportamento (Rational-Emotive Behaviour Therapy; REBT) di Ellis, il terapeuta condivide sin da subito i principi ed il razionale del trattamento, ovvero la procedura ABC-DEF, sottolineando la connessione B-C (pensieri-comportamenti). A partire dall’analisi degli obiettivi funzionali (F), il terapeuta mette in discussione, attraverso la disputa (D), le credenze irrazionali, al fine di perseguire il pensiero funzionale, o nuovo effetto (E).

A differenza della CBT, nella REBT siamo di fronte ad una formulazione del problema, piuttosto che a una formulazione del caso: ogni singolo ABC-DEF è relativo ad una singola situazione e non ricondotto ad una struttura di credenze di base.

Dalla fine degli anni Novanta si assiste ad una svolta nel panorama delle scienze cognitive applicate alla psicoterapia, con l’affermarsi delle terapie di processo di ‘terza ondata’, quali l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), la Dialectical Behavior Therapy (DBT), la Functional Analysis Psychotherapy (FAP).

A differenza di quanto pensava Beck, i modelli di processo della terza ondata suggeriscono che i disturbi emotivi non dipendono da rappresentazioni mentali distorte di sé, bensì sono il frutto dell’interazione disfunzionale tra processi volontari e regolatori, quali attenzione e controllo esecutivo, e processi associativi automatici, carichi emozionalmente.

Se nella CBT tradizionale il focus terapeutico era il cambiamento, tali approcci raccomandano flessibilità nel bilanciare accettazione e cambiamento.

Nella Schema Therapy di Jeffrey Young la formulazione del caso assorbe elementi processuali, mantenendo un forte interesse per gli schemi del sé, che, tuttavia, mostrano anche un forte aspetto emotivo ed interpersonale. Tali caratteristiche interpersonali, i cosiddetti modes, risultano modelli stereotipati e inflessibili, nati dalle esperienze infantili. In tal modo l’attenzione si sposta dal momento presente alla storia di apprendimento del paziente, con lo scopo di identificare i momenti salienti in cui ha interiorizzato credenze patogene, che verranno trattate in terapia con l’imagery, il role playing, la rieducazione esperienziale.

Il testo propone nella parte finale il modello LIBET (Life themes and semi-adaptive plans: Implications of biased Beliefs, Elicitation and Treatment; Sassaroli et al., 2016). Con l’obiettivo di fornire al paziente una spiegazione del suo disturbo emotivo e al fine di monitorare i progressi della terapia vengono analizzati tre diversi ABC:

  • ABC del presente (problema attuale);
  • ABC di apprendimento (episodi di esperienza e apprendimento di temi e piani);
  • ABC di invalidazione (episodi precipitanti e/o insorgenza del problema).

Una volta raccolti gli episodi, questi vengono riassunti in temi di vita (stati mentali di attenzione focalizzata sulle sensibilità emotive rappresentate nella coscienza come credenze di sé) e piani semi-adattivi (rigide strategie di gestione dei temi di vita).

Dunque, il processo di concettualizzazione consiste nella costruzione del modello clinico, e questa è tra le più sofisticate abilità del terapeuta. Negli approcci CBT, i clinici, spesso assorbiti dall’esplorazione delle credenze irrazionali e delle distorsioni cognitive, hanno potuto sottovalutare la condivisione esplicita della formulazione del caso, dandola per scontata.

Nel corso del tempo, una crescente consapevolezza sembra essere emersa nella letteratura CBT: è necessario istruire esplicitamente il terapeuta a condividere la formulazione del caso con il paziente. È facile perdere questa consapevolezza perché troppi passi possono sembrare ovvi agli occhi del terapeuta, il quale quindi rischia di non condividerli con il paziente.

La formulazione del caso deve essere il primo passo nella presa in carico del paziente e deve essere condivisa, al fine di favorire l’alleanza di lavoro; tuttavia, non è da intendersi come uno schema definitivo, ma, al contrario, può essere revisionato, modificato, arricchito in corso d’opera. Al suo interno occorre includere fattori predisponenti, precipitanti, di mantenimento e fattori protettivi: occorre capire cosa ha generato lo scompenso e su quali risorse può contare il paziente.

 

Uno sguardo sul ruolo dei social media nei disturbi alimentari

Un terzo degli adolescenti affetti da disturbi alimentari hanno riportato di aver visualizzato contenuti inerenti al fitness sui social media, e di aver imparato nuove tecniche per perdere peso o per compensare l’assunzione di cibo.

 

Social media e fitspiration

 I social media sono tra gli strumenti di comunicazione più utilizzati dai giovani (Carrotte et al., 2015). Il lavoro di influencer è diventato oramai una vera e propria professione, soprattutto sui social media più famosi, come Instagram e TikTok dove, tramite alcune funzioni come il like o i tag, si possono condividere con gli altri alcuni contenuti che gli influencer inseriscono sulle proprie pagine. Navigando sui social media, infatti, si possono trovare un’infinità di contenuti diversi, molti di questi relativi al fitness. Grazie alla possibilità di utilizzare questi strumenti per diffondere informazioni rapidamente, anche l’ambiente del fitness ha iniziato a espandersi digitalmente, rendendo i social media una diffusa fonte di informazioni riguardo ad allenamenti, diete e forma fisica in generale. Tra i contenuti che si possono trovare, uno di questi è chiamato “fitspiration”, che rappresenta la tendenza a ispirare le persone a raggiungere obiettivi inerenti alla forma fisica o alla salute, quasi sempre attraverso l’esercizio fisico o la dieta. I tipici contenuti che gli influencer del fitness condividono con i propri followers sono immagini o video che contengono dei corpi muscolosi e quasi totalmente privi di massa grassa, uniti a frasi motivazionali che hanno lo scopo di attivare, in chi visualizza questi post, la voglia di raggiungere la forma fisica che viene mostrata. Un altro contenuto a scopo motivazionale che viene spesso utilizzato è la strategia del “prima e dopo”. Attraverso questa storia l’influencer racconta come, da una iniziale condizione di disagio verso il proprio corpo in sovrappeso o estremamente magro, sia riuscito a raggiungere la forma fisica a cui tanto aspirava attraverso il duro allenamento o una particolare dieta. Altri messaggi che si possono trovare sui social media riguardano alcune diete particolari che permettono di perdere molto peso in poco tempo proponendo dei regimi alimentari “detox”. Infine, è possibile che siano anche le stesse aziende che producono determinati prodotti relativi al fitness a pubblicizzare l’efficacia dei propri prodotti sui social media.

I contenuti che si possono trovare sui social media sono quindi moltissimi e spesso possono essere delle armi a doppio taglio (Carrotte et al., 2015). Infatti, i social media possono avere un ruolo fondamentale nel modellare la credenza che ha un individuo riguardo il proprio corpo e il proprio peso. Queste credenze possono essere indotte e/o alimentate dalla continua esposizione dell’individuo a contenuti con immagini e video di fisici ideali con i quali inevitabilmente ci si compara, con il rischio che si giunga a esperire sentimenti negativi verso il proprio corpo o body shaming rivolto verso sé stessi. È inoltre frequente che gli individui che decidono di condividere con i propri followers i successi raggiunti in realtà non concentrino l’attenzione sul progresso, bensì su aspetti negativi che secondo loro sono ancora presenti. Un esempio potrebbe essere un individuo che condivide la propria foto dopo alcuni mesi di allenamento e, nonostante un miglioramento generale della forma fisica, come descrizione scrive “sono ancora molto grasso”, puntando il focus non sugli obiettivi raggiunti ma su ciò che ancora c’è da migliorare. Quello che non risulta essere di conoscenza comune, è che i contenuti che vengono condivisi dagli influencers sono quasi sempre immagini o video che vengono modificati o ritoccati per mostrare solamente il meglio.

Dalla fitspiration ai disturbi alimentari

 Circa un terzo degli adolescenti affetti da disturbi alimentari hanno riportato di aver visualizzato contenuti inerenti al fitness sui social media, e di aver imparato nuove tecniche per perdere peso o per compensare l’assunzione di cibo (Carrotte et al., 2015). Secondo alcuni studiosi (Holland e Tiggermann, 2017) la crescente espansione di questi fenomeni è preoccupante, soprattutto alla luce di alcuni siti web in cui vengono condivisi messaggi riguardanti la perdita di peso, con lo scopo di indurre sensazioni di colpa nei lettori. Così come la continua promozione e normalizzazione di comportamenti estremi legati all’ambito alimentare, con frasi come “digiunare va bene, vomitare va bene, le lacrime vanno bene, il dolore va bene, rinunciare è inaccettabile” (Holland e Tiggermann, 2017). Un interessante studio condotto da Holland e Tiggermann (2017) ha dimostrato che molte donne che condividono messaggi legati alla fitspiration, e che quindi condividono contenuti apparentemente “sani”, hanno in realtà riportato un punteggio maggiore per quanto riguarda la presenza di disturbi alimentari ed esercizio compulsivo.

Anche se il messaggio iniziale di allenarsi e mangiare correttamente per stare in salute ha uno scopo positivo, non sono state pienamente considerate tutte le conseguenze negative che possono derivare dalla condivisione di tale contenuto a un pubblico non informato (Holland e Tiggermann, 2017). L’associazione tra disturbi alimentari e social media è molto forte, e i crescenti numeri di persone che sviluppano disturbi alimentari a causa dei social media è un fatto preoccupante, che necessita di maggiore attenzione e sensibilizzazione soprattutto per i giovani utenti.

 

Diventare un professionista certificato della Mindfulness: intervista alla Federazione Italiana Mindfulness

Conosciamo la Federazione Italiana Mindfulness, la comunità italiana degli istruttori di mindfulness il cui Presidente è il prof. Gioacchino Pagliaro, psicologo e psicoterapeuta, direttore dell’U.O.C. di Psicologia Clinica Ospedaliera dell’AUSL di Bologna, già docente di psicologia clinica dell’Università di Padova.

 

Perché è nata la Federazione Italiana Mindfulness?

La Federazione Italiana Mindfulness è nata per tutelare i professionisti della Mindfulness con lo scopo di diffondere e promuovere cultura, pratiche e protocolli Mindfulness di qualità sul territorio italiano.

In Italia, nell’ultimo decennio è notevolmente cresciuto l’interesse per questa pratica e per la sua applicazione in ambito clinico, sanitario e del benessere per la persona. In risposta a questa crescente attenzione, si sono diffusi numerosi corsi di formazione in Mindfulness, spesso poco professionali, che hanno contribuito al dilagare di professionisti non preparati adeguatamente.

La Federazione ha inoltre l’obiettivo di riconoscere la formazione a coloro che abbiano conseguito percorsi certificati con un’elevata qualità formativa. Per assolvere a questo compito, la Federazione si avvale di un Comitato Tecnico Scientifico composto da professori e professionisti che lavorano nel campo della Mindfulness da più di vent’anni.

La Federazione è l’ente che certifica la formazione per ottenere le Certificazioni e gli Open Badge Nazionali ed Internazionali. Di cosa si tratta nello specifico?

La Federazione è referente per l’Italia di protocolli Mindfulness tutelati da copyright. Inoltre garantisce gli Open Badge Nazionali ed Internazionali che sono sistemi di certificazioni utilizzati dalle più importanti università del mondo e che vengono riconosciuti ai professionisti che acquisiscono competenze in relazione a determinati ambiti della Mindfulness, riconoscono la competenza attraverso la formazione secondo determinate linee guida.

A seconda dei percorsi formativi svolti, siano essi master di ampio respiro piuttosto che corsi su specifici protocolli, i professionisti possono vedersi riconosciuti uno o più Open Badge attestanti la competenza acquisita.

I protocolli della Mindfulness su cui formarsi sono svariati, ricordiamo tra i più importanti l’MBSR – Mindfulness Based Stress Reduction, per la riduzione dei livelli di stress generali, per il trattamento dei disturbi d’ansia, dolore cronico e numerosi disturbi medici e l’MBCT – la Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness per la riduzione dei sintomi depressivi e per prevenire il rischio di una ricaduta depressiva.

Com’è possibile farsi riconoscere Certificazioni e Open Badge?

Grazie alla collaborazione con prestigiosi enti di formazione e università italiane abbiamo iniziato a certificare e accreditare corsi e master di elevato livello, la cui frequenza consentirà automaticamente l’ottenimento di specifiche certificazioni e Open Badge.

Nel caso di formazione tramite altri percorsi di studio, il Comitato Tecnico Scientifico dei docenti e del programma e valuterà il grado di conoscenza di protocolli e pratiche Mindfulness al fine di assegnare le relative Certificazioni e Open Badge. Il professionista così riconosciuto avrà quindi diritto ad essere inserito nell’Albo Nazionale Mindfulness.

A proposito di questo, perché l’esigenza di un Albo Nazionale Mindfulness?

L’Albo Nazionale Mindfulness è uno strumento a tutela del professionista e dell’utenza in quanto registra solo i professionisti certificati. L’inserimento e l’aggiornamento dei dati sull’Albo Nazionale Mindfulness sono gratuiti. Da quando è nato, stiamo osservando le molte potenzialità dell’Albo: oltre a essere una vetrina pubblicitaria per il professionista e uno strumento di promozione, aiuta gli utenti a trovare un professionista della Mindfulness in relazione all’area geografica e alle specifiche competenze di cui ha necessità.

Oltre all’impegnativo compito di cui si sta facendo carico la Federazione, ci sono altri obiettivi sul piano di lavoro?

Certamente. La Federazione si impegna ogni giorno nella promozione della cultura della Mindfulness attraverso i suoi canali divulgativi (social e web), proponendo news e aggiornamenti ai propri professionisti e a tutte le persone interessate alla Mindfulness. Inoltre, si impegna nell’accreditamento di seminari, workshop e percorsi per promuovere la formazione continua dei professionisti certificati.

Siamo inoltre già al lavoro per la realizzazione, nel 2023, del Congresso Nazionale di Mindfulness, che vedrà la partecipazione di grandi professionisti e farà il punto della situazione sulle più recenti teorie e pratiche in uso.

Per il resto, il nostro desiderio costante è creare una realtà che appartenga ai suoi membri, in cui ci sia un continuo scambio di idee, in cui ciascuno si senta vicino agli altri e possa condividere le sue esperienze per crescere insieme come professionista e come persona.

Un’ultima domanda. Dove è possibile trovare informazioni relative alla Federazione Italiana Mindfulness?

È possibile accedere a tutte le informazioni relative alla Federazione Italiana Mindfulness sul sito federmindfulness e sulla Pagina Facebook federmindfulness.

Consultando il sito potrete rimanere aggiornati su tutti gli eventi, i corsi di formazione e le news della Federazione. È inoltre possibile consultare il sito dell’Albo Nazionale Mindfulness.

 

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