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Integrazione e inclusione dei bambini stranieri nelle scuole italiane

Supportare l’integrazione dei bambini migranti attraverso un buon supporto sociale può aiutarli in questa loro transizione di vita ed evitare lo sviluppo di disturbi psicologici.

 

Introduzione

In letteratura è stata constatata, negli anni, la trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione, con in essa una quantità diversa di densità migratoria a seconda delle varie regioni e città, ma pur sempre presente. Per promuovere l’integrazione effettiva di bambini e adulti immigrati occorre garantire politiche mirate di inclusione, nei vari ambienti sociali. Nel caso dei primi anni di vita e di crescita, un ruolo chiave nel processo di inserimento sociale è svolto dalla scuola, una delle principali agenzie di formazione, la quale deve assicurare aule integrate ove vi sono più gruppi culturali insieme e seguire strategie atte a diminuire i tassi di abbandono scolastico di bambini migranti. Inoltre, essa deve tener conto delle storie di migrazione e delle biografie linguistiche differenziate possedute dai bambini stranieri attualmente presenti tra i banchi delle scuole italiane. La letteratura di riferimento conferma che l’inclusione sociale, linguistica e scolastica di minori stranieri è favorita da un’acquisizione della seconda lingua che inizia già nella fase prescolare. Pertanto, la promozione e l’inserimento dei bambini stranieri nella scuola dell’infanzia costituisce una delle misure che dà maggiori risultati positivi in questo contesto.

Aspetti psicologici

Vi sono alcuni aspetti psicologici legati alla possibile condizione di svantaggio socio-economico, linguistico e culturale dei bambini stranieri, la quale può riversarsi in difficoltà scolastiche e sociali per varie ragioni, quali ad esempio la difficoltà a comprendere la lingua, la paura sociale di essere considerati come estranei, il terrore di essere giudicati, la preoccupazione per le proprie capacità linguistiche e il timore che gli altri possano essere più capaci e abili.

Per tale ragione, è possibile che tali bambini sperimentino nel loro percorso ansia generale, sociale e linguistica.

Tutto questo può essere associato ad una mancanza di fiducia e ad un’identità non definita. Infatti, anche gli aspetti legati all’identità sociale si complicano nella situazione dei bambini stranieri in quanto loro devono identificarsi con il loro gruppo di origine e con quello nuovo presente nel contesto di arrivo. Tali problematicità possono sfociare in problemi psicologici e comportamentali.

Ricevere un buon supporto sociale può invece aiutare i bambini migranti in questa loro transizione di vita ed evitare lo sviluppo di disturbi psicologici. Gli stessi educatori ed insegnanti, sia della scuola materna che della scuola primaria, devono porre attenzione a questi aspetti e cercare di stimolare e coinvolgere il bambino, oltre a creare un ambiente positivo, affinché egli non sviluppi problemi di apprendimento o comportamentali.

Linguistica acquisizionale e interlingua

Le principali difficoltà con le quali devono scontrarsi i minori che arrivano in Italia da paesi stranieri sono la conoscenza e la comprensione della lingua italiana.

La complessità legata all’apprendimento di una lingua nuova, diversa da quella materna, è stata mostrata dagli studi di linguistica acquisizionale e la nozione di interlingua nasce proprio in rapporto agli sforzi di comunicazione verbale compiuti da colui che apprende una seconda lingua. È stato Selinker nel 1972 a dar vita alla teoria dell’interlingua, definendola come un sistema il cui obiettivo è rispettare delle regole, risultato da una grammatica mentale, cioè di un insieme di regole che possono essere ricondotte alla lingua materna (L1), alla lingua da apprendere (L2) e ai meccanismi mentali. Le ricerche condotte nell’ambito della linguistica acquisizionale hanno rivelato che, anche se vi sono percorsi di apprendimento vari e individuali, sussistono delle sequenze fisse di acquisizione, che sono obbligatorie per coloro che apprendono e devono essere seguite con lo stesso ordine, seppur in tempi alquanto differenti o con esiti finali più o meno avanzati. Infatti, gli esseri umani sin dalla loro nascita, hanno la capacità di apprendere una lingua, ma i metodi che consentono di giungere alla conoscenza di un dato sistema linguistico variano. Tale diversificazione dipende da fattori quali l’età, la natura dell’input e l’aver intrapreso il compito per la prima volta (acquisizione della prima lingua) o meno (acquisizione della seconda lingua). D’altronde, nonostante le strutture da acquisire siano complesse e gli input da ricevere siano piuttosto devianti, i bambini sono in grado di apprendere la lingua madre con un’evidente facilità e velocità, seppur la capacità di apprendere una seconda lingua non è esclusiva dei bambini, in quanto tale apprendimento è possibile durante ogni tappa della vita.

Acquisizione linguistica

Per quanto concerne l’acquisizione della prima lingua, quest’ultima è la lingua che ogni essere umano acquisisce a partire dalla nascita e permette lo sviluppo mentale ed emotivo. Nel caso di bambini o adolescenti stranieri risulta essere importante anche l’acquisizione della seconda lingua, che è “il processo mediante il quale le persone sviluppano la padronanza di un’altra lingua, straniera” (Richards et al., 1985, p. 252). Nel processo di apprendimento e di acquisizione di una seconda lingua, diviene indispensabile la grammatica interlingua, ossia l’uso delle regole grammaticali della lingua già appresa che si integrano con la nuova lingua. L’acquisizione della seconda lingua è influenzata da svariati fattori, tra cui la motivazione e il desiderio di imparare una lingua, l’età, l’intelligenza, l’attitudine, cioè l’abilità naturale posseduta nell’apprendere una nuova lingua e l’autostima; infatti, riguardo quest’ultima, è stato scoperto che se gli individui hanno una concezione positiva di sé e delle proprie capacità, impareranno più facilmente una seconda lingua.

Strategie per l’apprendimento didattico e metodi per imparare e arricchire il lessico

Attualmente, una sfida importante per il sistema scolastico italiano, anche in seguito alla catastrofica guerra in corso in Ucraina in questi mesi del 2022 e al trasferimento in Italia di molteplici bambini e madri provenienti dalla nazione bellica, è proprio l’integrazione dei minori di cittadinanza straniera. Un momento considerevole di inizio dei percorsi didattici deve essere dedicato all’accoglienza dei bambini stranieri, anche attraverso canzoni danzanti e presentazioni pittoriche, saluti fatti di grandi sorrisi al fine di consentire un loro primo inserimento in un contesto nuovo. Questo può essere permesso dall’insegnamento del valore della diversità ai bambini italiani in un’ottica di accettazione dell’altro, dunque di integrazione, e dalla professionalità dei docenti o educatori. La scuola deve, in ogni momento, rappresentare il luogo dove le disuguaglianze esistenti si riducono e la socializzazione è consentita. Spesso i bambini stranieri, a causa delle condizioni economiche delle famiglie di origine, sono esposti ad una “povertà educativa”, ma la scuola può costituire per loro un’occasione di contatto con la cultura e le istituzioni del paese ospitante. Le figure professionali presenti a scuola, nella fase di acquisizione della seconda lingua, devono rispettare i tempi del bambino e dare lui gradatamente input linguistici che siano rilevanti. Oxford (1990) ha definito delle strategie di apprendimento linguistico, ovvero azioni specifiche e intenzionali attuate dagli alunni per far sì che diventino abili in una determinata lingua e che consentono di facilitare l’interiorizzazione, l’immagazzinamento, il recupero o l’uso delle nuove conoscenze linguistiche. Diversi studiosi hanno cercato di classificare le strategie di apprendimento linguistico, ma in generale vi è un accodo sul considerare tra strategie didattiche per l’apprendimento dell’italiano, come anche di altre lingue, il rispetto dei ritmi di apprendimento dell’alunno, facendo attenzione a non causare “affaticamento”, la capacità di diluire l’input linguistico, alternandolo con attività un po’ più semplici, l’imitazione ed infine, ma non per importanza, la pratica. Un’altra strategia che si configura molto efficace è quella del gioco, il quale crea un ambiente collaborativo e interattivo, stimola il bambino ad apprendere, garantisce elevati livelli di motivazione ad apprendere e fa sì che il bambino mantenga un’attenzione costante rispetto a ciò che sta facendo. Con il gioco, molto proposto nelle scuole materne e nelle strutture educative, il bambino può assimilare suoni e imparare un lessico. Nell’asilo nido e nella scuola dell’infanzia, la dimensione orale appare come una condizione rilevante della comunicazione e dello sviluppo del linguaggio e i bambini stranieri sono immersi in un ambiente pieno di input, che permette loro di realizzare sin da subito l’apprendimento della lingua, oltre che lo sviluppo dal punto di vista cognitivo. Per poter apprendere una nuova lingua, è necessario che i bambini abbiano del tempo settimanale a disposizione, anche qualche ora, due o tre volte a settimana, per narrare, ascoltare, imparare il nuovo vocabolario e comunicare con gli altri. Pertanto, è fondamentale che la scuola abbia uno spazio riservato alla narrazione e all’ascolto di storie e alla conversazione tra pari o tra un adulto e un bambino e che queste attività avvengano in modo tranquillo e sereno; ad esempio si possono proporre laboratori di lettura o scrittura, a seconda dell’età, durante i quali si fanno sedere i bambini tutti in cerchio. Per poter comunicare o decifrare un messaggio, assume rilievo anche la conoscenza del lessico, delle parole giuste da dire. Per tale ragione, a scuola si devono conoscere i metodi per arricchire il lessico, ossia denominare le cose, le persone e i luoghi presenti nelle situazioni comuni e trovare i sinonimi e contrari delle parole, ma anche i nomi derivati e alterati, o ancora indovinare cosa rappresenta quella determinata parola e a cosa serve. Per consentire al bambino di conoscere la dimensione temporale dei racconti o degli eventi sulla base del presente, passato o futuro, si fa spesso ricorso alla visualizzazione di album fotografici. Infine, affinché si migliori la pronuncia, che è uno degli aspetti più complessi, sono necessari parecchi anni e si devono ascoltare e ripetere parole o frasi più volte. Per questo scopo si può far ascoltare al piccolo delle canzoni, filastrocche o poesie all’inizio molto corte. Il tempo che l’insegnante dedica al bambino per dargli input linguistici e il contesto in cui viene vissuta l’esperienza fanno la differenza. Per quanto concerne il fattore tempo, è importante che l’avvicinamento alla lingua da apprendere sia ampio e continuativo e che si verifichi attraverso interventi brevi, ma fatti con costanza. A questi elementi si aggiunge poi la predisposizione dell’apprendente relativamente ai fattori di personalità, temperamentali e caratteriali.

Mantenimento della lingua e cultura di origine

Importante può diventare per i bambini stranieri anche mantenere un riferimento con la propria cultura e lingua di origine, soprattutto quando quest’ultima è già stata acquisita. Spesso, infatti, l’arrivo in una nuova nazione e la graduale acquisizione della lingua parlata in essa, può far dimenticare quasi del tutto la lingua appresa nel proprio ambiente natale. Se la lingua madre viene parlata con i propri genitori e fratelli, essa viene mantenuta maggiormente, ma questo non sempre avviene. Per tale motivo, la scuola può attivare percorsi didattici finalizzati alla valorizzazione di culture differenti e alla presentazione delle abitudini quotidiane della cultura d’origine dei bambini stranieri presenti nelle aule. Soprattutto, il mantenimento della lingua materna consentirebbe al bambino straniero di avere una conoscenza bilingue, o in alcuni casi plurilingue, molto utile nei contesti lavorativi in futuro. Un aspetto legato al plurilinguismo è quello del dialetto locale da inserire nel repertorio linguistico. Gli stranieri nati in Italia lo hanno sentito maggiormente e lo fanno proprio nel corso degli anni, ma può divenire importante ai fini dell’inclusione sociale insegnarlo anche a coloro che in Italia ci arrivano in un’età più tardiva. Ovviamente i cittadini stranieri possiedono una diversità linguistica a seconda della loro provenienza geografica. La scuola italiana, quindi, deve sviluppare un plurilinguismo equilibrato, analizzando il vissuto linguistico di tutti i bambini, al fine di potenziare lo sviluppo delle abilità relative alle due lingue durante le varie attività, scolastiche ed extrascolastiche.

Conclusioni

Nel contesto attuale, i bambini presenti nelle classi italiane provengono da tutte le parti del mondo. La scuola, negli ultimi anni, rappresenta perciò un contesto educativo multiculturale e plurilingue. Essa deve permettere ai bambini stranieri una buona integrazione e una positiva inclusione attraverso la proposta di strategie didattiche e metodologie anche innovative. I bambini stranieri, ma anche quelli italiani, attraverso lo sviluppo di una competenza bilingue precoce, possono crearsi scenari e prospettive di vita inedite, ma questo è favorito dal supporto sociale ricevuto durante l’apprendimento delle lingue, che possono offrire agenzie formative attente ai bisogni di tutti i bambini.

La guerra come malattia. Storia del disturbo da stress post traumatico

Anche prima di una rigorosa definizione scientifica il disturbo da stress post traumatico era comunque ampiamente documentato, anche se non ampiamente compreso.

 

 Sono presenti testimonianze della sintomatologia del disturbo da stress post traumatico nell’epopea di Gilgamesh e nell’Iliade, ma all’epoca non esisteva ancora la psicologia scientifica perciò, solo con l’avvento della prima guerra mondiale si cominciò ad analizzare clinicamente il PTSD.

Inizialmente non si imputava e non si voleva imputare la guerra come possibile fattore scatenante del PTSD. Si parlava di febbre/mal di trincea, di shell Shock, di vento degli obici e come cause si ipotizzavano danni al sistema nervoso per via dell’esposizione a forti rumori, onde d’urto dei bombardamenti e l’avvelenamento da monossido di carbonio (questa tesi era in particolar modo sostenuta da Charles Myers). Solo in seguito queste teorie vennero smentite, dato che anche i soldati lontani dai bombardamenti sviluppavano sintomi da PTSD, ossia difficoltà nel controllo delle emozioni, irritabilità, rabbia improvvisa o confusione emotiva, depressione, ansia, insonnia, perdita della percezione del sé e attacchi di panico, così si ipotizzò che i soldati affetti da PTSD avessero qualche disturbo latente che la guerra fosse in grado di slatentizzare. Ma anche queste teorie caddero nel vuoto così gli psicologi della scuola psicoanalitica (Freud, Victor Tausk, Karl Abraham, Sandor, Frenczi) e della scuola classica (Jean Lhermitte, William Rivers, Charles Myer e Thomas Solomon) iniziarono a ipotizzare che il PTSD, al tempo noto come nevrosi da guerra, avesse come eziologia l’esposizione ad intensi eventi bellici.

Questa nuova visione della guerra cambiò profondamente anche il metodo di trattamento della malattia, che fino ad allora veniva affrontata con massaggi, riposo, dieta appropriata e trattamento con scosse elettriche, oppure nel caso in cui si individuasse una possibile fonte psicologica, la terapia si basava sulla “cura della parola”, ipnosi e riposo. Ovviamente questo tipo di terapia non aveva nessuna efficacia. Difatti su 80.000 uomini trattati con queste terapie solo 1/5 fu considerato in grado di tornare al fronte. I pazienti non dovevano solo affrontare questa “tortura” clinica ma dovevano anche portare il peso di uno stigma sociale, erano visti come deboli, codardi ed effeminati, in Italia venivano scherniti, con il termine feroce quanto ingiusto di: scemi di guerra. Con l’inizio della guerra in Vietnam il PTSD si iniziò a manifestare in proporzioni sempre più ampie. E alla fine del 1970 si riuscì a ottenere l’inserimento del PTSD nel DSM. Oggigiorno i sintomi del PTSD sono divisi in quattro categorie:

  • Sintomi di intrusione: pensieri e ricordi che si ripetono in maniera involontaria.
  • Evitamento: le persone affette da PTSD possono evitare persone, luoghi o cose che li riportano all’evento traumatico.
  • Cambiamenti negativi dei pensieri.
  • Cambiamenti nell’eccitazione e nella reattività.

Perciò si può sostenere che la guerra è un evento naturale, si pensi alla guerra che conducono alcune specie di formiche, ma l’essere umano è alienato dalla natura, con la sua elevata coscienza di sé e percezione delle cose può solo essere infettato dalla guerra e lentamente consumato. La guerra è per l’uomo un gas letale che lo consuma da dentro e gli fa bruciare gli occhi.

 

Consumo di tè e depressione: quali benefici?

Recentemente si è sviluppato un interesse scientifico per gli effetti del tè sulla cognizione e sull’umore, spingendo i ricercatori ad identificare i principali composti attivi del tè che possono aiutare ad alleviare i disturbi mentali tra cui la depressione, l’ansia e il declino cognitivo legato all’età.

 

Il disturbo depressivo maggiore è un disturbo mentale altamente debilitante che presenta una prevalenza di circa il 15% tra gli adulti nei paesi ad alto reddito (Bromet et al., 2011). È caratterizzato, tra gli altri sintomi, da un umore significativamente basso, anedonia e funzioni cognitive alterate, che diminuiscono gravemente la qualità della vita e il funzionamento sociale delle persone colpite (APA, 2013).

Anche in individui sani, i sintomi depressivi sub-clinici sono molto comuni (Gawlik et al., 2013). Sia la psicoterapia che il trattamento farmacologico mostrano dei limiti o delle resistenze per casi di depressione molto grave (Weitz et al., 2015); a causa di questi limiti, la ricerca di strade alternative per la prevenzione e per la cura della depressione è sempre più importante.

Depressione e stile di vita

Molti studi hanno testato l’influenza che possono avere determinati stili di vita sullo sviluppo e sul mantenimento di alcuni disturbi mentali, tra cui anche la depressione (Lange, 2018). Ad esempio, il consumo di diete di tipo mediterraneo, con un elevato apporto di verdura, frutta, semi, noci, cereali integrali e pesce, nonché basse quantità di alimenti trasformati, sembra essere associato negativamente al rischio di depressione, mentre le diete in stile occidentale, con elevate quantità di zucchero, grassi e alimenti trasformati, hanno dimostrato di essere correlate positivamente alla depressione (Opie et al., 2015). Sulla base di questi risultati, la ricerca si è sempre più focalizzata sui potenziali benefici terapeutici di vari bioattivi alimentari, tra cui antiossidanti, probiotici e acidi grassi polinsaturi, sui disturbi mentali tra cui la depressione (ad es, Lange et al., 2020). Un alimento potenzialmente benefico è il tè. Da tempo sono riconosciuti gli effetti stimolanti e calmanti della pianta del tè (Camellia sinensis), dato anche il frequente utilizzo nella meditazione o nel rilassamento. Solo recentemente però si è sviluppato un interesse scientifico per gli effetti del tè sulla cognizione e sull’umore, spingendo i ricercatori ad identificare i principali composti attivi del tè che possono aiutare ad alleviare i disturbi mentali tra cui la depressione, l’ansia e il declino cognitivo legato all’età (Camfield et al., 2014).

Studi epidemiologici hanno collegato il consumo di tè a livelli ridotti di stress psicologico (Hozawa et al., 2009) e depressione (Hintikka et al., 2005), sottolineandone inoltre effetti anti-infiammatori. Gli effetti del tè sulla depressione sono degni di esplorazione dal momento che il tè è una delle principali fonti di assunzione alimentare di polifenoli (Ferruzzi et al., 2010). I polifenoli contenuti nel tè, in particolare le catechine, sono in grado di entrare nel cervello e possono svolgere un ruolo protettivo contro lo sviluppo della depressione (Belmaker & Agam, 2008).

Depressione e consumo di tè

Nonostante alcuni studi su animali sostengano l’efficacia dei composti del tè rispetto ai sintomi depressivi (Shen et al., 2019), va sottolineato che la capacità dei roditori e di altri modelli animali di rappresentare gli stati mentali e i disturbi umani è limitata, e gli studi osservazionali sugli esseri umani, per quanto degni di nota, non possono stabilire delle relazioni causali. Gli studi di intervento clinico sugli esseri umani, in particolare gli studi randomizzati controllati con placebo, che valutano gli effetti del tè o dei suoi composti sulla depressione sono rari.

In uno studio di Zhang e colleghi (2013), la somministrazione orale di tè verde ha dimostrato di avere ridotto i punteggi di depressione rispetto ai controlli placebo. Questo risultato suggerisce che l’assunzione regolare di tè ogni giorno può contribuire a una riduzione del rischio di sintomi depressivi in persone sane. Un ulteriore studio di Hidese e colleghi (2017) ha testato l’effetto della L-teanina somministrata oralmente (in aggiunta agli psicofarmaci prescritti) per 8 settimane in soggetti con depressione maggiore che non avevano mostrato alcuna remissione con i soli farmaci antidepressivi. I risultati hanno dimostrato una riduzione significativa dei sintomi depressivi tramite i punteggi sulla Hamilton Depression Rating Scale (HAMD-21). Una possibile spiegazione degli effetti antidepressivi della L-teanina potrebbe essere legata alla riduzione dello stress.

La somministrazione di L-teanina si è rivelata funzionale anche nella riduzione dei livelli di cortisolo, nell’aumento di rilassamento dopo l’esecuzione di compiti che inducono stress e nell’aumento dell’attività oscillatoria alfa, cioè onde cerebrali a bassa frequenza che indicano una veglia rilassata in soggetti maggiormente ansiosi (White et al., 2016; Gomez-Ramirez et al., 2007).

Nonostante i risultati riportati, la scarsità di studi clinici disponibili non permette di trarre conclusioni sull’efficacia preventiva e terapeutica del tè sulla depressione. Saranno necessari studi controllati con placebo per confermare l’effetto antidepressivo dei composti contenuti nel tè.

Conclusioni

Quindi, in conclusione, la letteratura disponibile suggerisce che i composti presenti nel tè possono avere un potenziale sfruttabile per la prevenzione della depressione o nel suo trattamento come aggiunta alle terapie stabilite. Nonostante il tè mostri come sostanza delle componenti possibilmente antidepressive, fino a quando i meccanismi fisiopatologici della depressione sono poco conosciuti, una valutazione del ruolo dei composti del tè per quanto riguarda i correlati neurobiologici della depressione, come la disfunzione dell’asse HPA, neuroinfiammazione, alterata neuroplasticità e alterata neurotrasmissione monoaminergica, è difficile.

Nonostante la limitata conoscenza a riguardo, la L-teanina o i polifenoli, possono agire contemporaneamente e sinergicamente su più meccanismi fisiopatologici coinvolti nella depressione, e la messa a punto di queste attività potrebbe infine portare a una riduzione del rischio complessivo o effetto terapeutico per quanto riguarda questo disturbo.

Il miglioramento dell’umore osservato in persone sane non dovrebbe portare ad una sopravvalutazione dei possibili effetti clinici in individui con disturbo depressivo maggiore. Se gli effetti positivi sull’umore sono confermati, il consumo di tè potrebbe diventare un mezzo efficace in termini di costi a sostegno della salute mentale, per esempio nelle persone anziane. Futuri studi randomizzati sono necessari per stabilire una relazione causale tra depressione e composti bioattivi presenti nel tè.

 

L’ergoterapia in psichiatria: il caso “D.” e l’esperienza di Alteya

In Italia l’ergoterapia trova vari campi di applicazione e tra questi quello del trattamento dei disturbi mentali, sia dei soggetti istituzionalizzati sia presso il domicilio del paziente.

 

Gli interventi di ergoterapia o terapia occupazionale promuovono la salute ed il benessere attraverso l’occupazione. Si tratta di azioni di tipo riabilitativo che usano come mezzo principale il fare. La finalità dell’intervento è quella di migliorare l’adattamento fisico, psicologico e sociale delle persone che hanno una disabilità.

L’ergoterapia viene, da tempo, utilizzata con vantaggio in psichiatria ed in psicoterapia, ambiti in cui si ritrovano diversi modelli teorici e di prassi (Donatello M., Toffolo 2001).

Nel 1929 Herman Simon, modificando gli schemi medico-terapeutici del tempo, propose la rivalutazione, in senso curativo, del lavoro all’interno delle istituzioni psichiatriche. Il fare doveva divenire un mezzo di terapia specifico per riplasmarne la personalità dei pazienti (Simon H. 1929).

La storia dell’ergoterapia

Durante le due guerre mondiali, come documentato da Spackman, l’ergoterapia ebbe un notevole sviluppo tanto che, nel 1967 in Inghilterra, la maggior parte degli ospedali psichiatrici possedeva un laboratorio protetto, dove i pazienti svolgevano attività lavorative. Il lavoro era parte integrante del programma di riabilitazione psichiatrica (Spackman W. 1958; Watts e Bennett, 1983).

Nel 1978 Jacques sostenne che svolgere un’attività lavorativa richiede all’individuo di integrare le proprie aspettative inconsce con la realtà vissuta quotidianamente e questa integrazione permette di tollerare l’angoscia e l’incertezza. Secondo Jacques è proprio questa la potenzialità terapeutica del lavoro (Jaques E. 1978).

In Italia l’ergoterapia trova vari campi di applicazione e tra questi quello del trattamento dei disturbi mentali, sia dei soggetti istituzionalizzati sia presso il domicilio del paziente. La recente pandemia da Covid, oltre a generare un aumento dell’incidenza dei disturbi di tipo psichiatrico, ha imposto di ricorrere alla telematica per poter garantire agli utenti la prosecuzione dei trattamenti ergoterapici (Ascani C., Tamburro A. 2021).

Fare, è fonte di gratificazione e di soddisfazione personale. L’attività lavorativa, insieme alla vita affettiva e sociale, contribuisce a mantenere una buona autostima ed a definire se stessi (Pullia G. 2001). Secondo Carl Rogers e la psicologia umanista, centrata sulla persona, le motivazioni che spingono ogni individuo ad agire non sono istintuali ma derivano dal bisogno di conoscere e di realizzarsi (Rogers, C. R. 2012).

L’ergoterapia aiuta le persone con disabilità psichica a soddisfare questo bisogno.

L’applicazione dell’ergoterapia nella cooperativa sociale onlus Alteya

La RSA Villa Albani, una struttura pubblica, appartenente alla Asl Roma 6, in cui i servizi residenziali ed assistenziali sono gestiti dalla cooperativa sociale onlus Alteya; accoglie pazienti con patologie psichiatriche e fornisce un’assistenza che si rifà al modello bio-psico-sociale.

Tra i vari progetti realizzati, quelli per evitare l’utilizzo massivo di farmaci e per migliorare la qualità di vita dei pazienti, prevedono l’uso dell’ergoterapia. La realizzazione di questi interventi è stata preceduta da uno studio pilota, realizzato per ottimizzare l’intervento terapeutico in un caso di schizofrenia.

D. è un paziente schizofrenico di 56 anni con lieve deficit cognitivo che presenta un delirio persecutorio, umore instabile, crisi d’ ansia con agitazione psicomotoria e tabagismo. Esegue terapia farmacologica con antipsicotico, stabilizzatore del tono dell’umore ed ansiolitici. I dosaggi ed i principi attivi utilizzati per la terapia sono stati più volte modificati senza però ottenere un cambiamento sostanziale della sintomatologia. D. cerca di sedare la propria agitazione fumando e per contenere tale abitudine riceve un numero contingentato di sigarette giornaliere. Tutti i membri dell’equipe multidisciplinare hanno osservato che esistono alcune situazioni in cui la sintomatologia di D. si attenua indipendentemente dai farmaci. Si tratta dei momenti in cui vengono svolte attività di vita quotidiana (allestire la tavola, raccogliere i rifiuti ecc.) all’interno della struttura o quando vengono effettuati laboratori o attività al di fuori della struttura. Ogni volta che D. rimane inoperoso aumenta la probabilità che manifesti un delirio o una crisi d’ansia. Supportata da queste osservazioni, l’equipe ha ideato un progetto personalizzato per un intervento di ergoterapia. È stato concordato con D. che si sarebbe occupato, nel primo pomeriggio, della pulizia del cortile antistante la RSA. Al termine del lavoro avrebbe potuto effettuare una pausa per consumare un caffè e fumare una sigaretta. La pausa è stata concepita all’interno del progetto come un rinforzo positivo per aumentare e consolidare l’adesione di D. all’intervento ergoterapico. Inoltre sono stati forniti a D. una tuta da lavoro, dei guanti e degli strumenti professionali per la pulizia, testimonianza dell’importanza che l’equipe dà all’attività che D. deve svolgere. Gli operatori quotidianamente sottolineano l’importanza del lavoro di D., che permette a tutti di soggiornare in un luogo più pulito ed accogliente. Analogamente a quanto osservato in altre situazioni, quando D. è impegnato nell’ergoterapia i suoi sintomi diminuiscono per frequenza ed intensità.

Alcuni altri pazienti, con lieve deficit cognitivo, ospitati nella RSA osservando D. hanno spontaneamente richiesto all’equipe di “poter lavorare”. Attualmente si stanno approntando diversi altri progetti individuali di ergoterapia per i pazienti ospitati presso Villa Albani.

 

Paura: lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia – Recensione

Adottare la paura come unico pattern comportamentale non consentirà di evitare le stesse conseguenze disadattive da cui, proprio con un eccesso di prudenza, si cerca di difendersi.

 

In assenza della paura gli istinti di sopravvivenza e autoconservazione risulterebbero senza dubbio meno “garantiti”. La storia, e anche questa opera di Blumstein, lo dimostrano ampiamente. Ma ad onor del vero non è solo l’aspetto opportuno e opportunistico della paura ad essere evidenziato nel testo.

L’intento dell’autore, ben più onesto ed equilibrato, è volto mettere in luce un risultato scientifico che attribuisce alla paura un aspetto dicotomico e tuttavia non contraddittorio: da una parte si tratta di un mezzo di autodifesa utile alla sopravvivenza della specie, e dall’altra di un invalicabile limite alla gratificazione di bisogni primari. A partire da quello riproduttivo e di nutrimento.

L’abilità dell’essere umano, come dell’animale, è proprio quella di accettare questi aspetti senza schierarsi in favore di uno o dell’altro in una sorta di difesa ad oltranza, ma imparando piuttosto a sfruttare gli effetti vantaggiosi di entrambi, massimizzando i guadagni e limitando il più possibile le perdite.

L’aspetto salvifico della paura

Per evidenziare il valore adattivo della paura l’autore si affida ad efficaci esemplificazioni tratte dal mondo animale. Esperienze di vita che si susseguono lungo i dodici capitoli complessivi, dai quali è possibile intravedere non soltanto la pluriennale esperienza di Blumstein in campo etologico, ma anche le numerose affinità, istintuali e genetiche, che ci accomunano al mondo animale.

In primo luogo l’effetto difensivo della paura.

È grazie allo stato di allerta imposto dalla paura che un branco può proteggersi dall’attacco di predatori, mantenersi indenne dai numerosi rischi connessi all’habitat naturale e garantirsi una maggiore possibilità di fitness. Cadere nella trappola del predatore comporta non soltanto la perdita della vita, ma anche della possibilità di riprodursi, assolutamente prioritaria nell’animale come nell’uomo.

Dunque è necessario non solo difendersi, ma farlo prima e meglio possibile.

Per riuscire in questa quotidiana e mai scontata missione di sopravvivenza, anche gli animali si avvalgono di un apparato biologico naturalmente predisposto alla vigilanza, all’arousal, alla risposta ambientale modulante, grazie alla quale una semplice condotta di prudenza può trasformarsi in una fuga salvifica o in un attacco difensivo.

È la scelta imposta del fight or flight, processo che attiva quella serie di competenze muscolari, motorie e circolatorie necessarie ad una fuga o ad uno scontro, inibendo tutte le altre (Alcock, Rubenstein, 1975). E al di là di un efficace supporto sensoriale- un allarme può essere agevolmente identificato anche attraverso l’utilizzo di vista, udito, olfatto-  la paura può contare anche su un apposito substrato mnestico, grazie al quale gli stimoli pericolosi vengono immagazzinati e rievocati al momento opportuno, in una sorta di apprendimento esperienziale in grado di modificare i comportamenti non soltanto hic et nunc, ma anche e soprattutto sul lungo termine.

Ma scappare non è sempre possibile.

Talvolta il predatore è così vicino che sfuggirgli è praticamente impensabile, e l’attivarsi del complesso e dispendioso processo di risposta simpatica causerebbe più perdite che guadagni. Ce lo insegna l’opossum, che per difendersi da una cattura ormai inevitabile utilizza la strategia della tanatosi: in pratica si finge morto, sperando che il predatore non sia disposto a cibarsi della carne di una preda già morta, forse già in putrefazione e potenzialmente tossica (Manning, Stamp Dawkins, 2015). Con un po’ di fortuna l’opossum riuscirà a salvarsi senza aver sprecato preziose energie in una fuga impossibile, se non addirittura dannosa.

Da qui il sorgere della domanda che nel corso del testo si reitera con puntuale frequenza: avere paura è sempre utile? O ci sono casi in cui la paura si rivela più pericolosa del rischio stesso?

La risposta si genera da sola, gradualmente, attraverso l’analisi di dati che si susseguono in una sorta di maieutica socratica, latrice di una verità già molto evidente.

L’altra faccia della medaglia

La paura genera una risposta neurochimica altamente adattativa che coinvolge parti specializzate del cervello, una serie di circuiti neuronali specializzati e un mix di molecole – ormoni e altre sostanze chimiche – che viaggiano tra le cellule nervose tramite le sinapsi e attraversano il sistema circolatorio per modulare un’ampia gamma di risposte (Blumstein, p. 25).

I correlati biologici della paura ne convalidano l’innato valore adattivo; ma testimoniano anche come, nel corso dei millenni, gli esseri viventi siano stati oggetto di mutamenti genetici imposti dal trasformarsi delle condizioni ambientali, in una sorta di selezione darwiniana che ha garantito la possibilità di fitness soltanto alle caratteristiche genetiche maggiormente flessibili.

Appare chiaro che, di fronte a questa mutevolezza di scenari e contesti, la paura debba mostrarsi egualmente flessibile. Per continuare a mantenere il proprio valore opportunistico, essa non deve risultare una risposta massiva o aprioristica, ma un pattern reattivo da attuare soltanto nei casi di necessità, quando la sua assenza costituirebbe un autentico rischio per la sopravvivenza.

Contrariamente gli effetti potrebbero risultare dannosi. Specie sul lungo termine. Uno stormo di rondini che, spaventato dall’arrivo del predatore lascia indietro il cibo, si garantirà forse una possibilità di sopravvivenza, ma volerà via a stomaco vuoto. E se questa scelta prudenziale si ripeterà troppo spesso, la fame diventerà un sicario non meno spietato di un rapace bramoso. Riprodursi sarà difficile per coloro che, nel tentativo di approvvigionarsi, verranno attaccati dal predatore. Ma sarà altrettanto complicato per quegli animali che sceglieranno di scampare il pericolo predatorio rinunciando continuamente ad occasioni di nutrimento.

Adottare la paura come unico pattern comportamentale non consentirà di evitare le stesse conseguenze disadattive da cui, proprio con un eccesso di prudenza, si cerca di difendersi. Se un individuo scappa troppo presto, perde un’opportunità. Se scappa troppo tardi, il predatore potrebbe riuscire nel suo intento (Blumstesin, p. 115). Il risultato non è mai garantito, né il rischio sempre evitato. È un gioco di equilibri che coinvolge prede e predatori, e comporta valutazioni di natura prettamente economica: quando il costo della fuga è maggiore dei benefici dalla stessa apportati, non è il caso di mettersi a correre. Sarebbe un inutile spreco di energia.

La specie animale, come quella umana, deve prediligere un comportamento volto a massimizzare in ogni circostanza le risorse vitali e riproduttive:

In altre parole, gli animali dovrebbero scappare quando i benefici della fuga superano i costi del rimanere. Più in generale, gli ecologi comportamentali considerano ottimale il comportamento di un individuo che, davanti a un insieme di possibili strategie, selezioni quella che produce la massima fitness, che si tratti di fuggire immediatamente quando si accorge di un predatore, aspettare dieci secondi prima di fuggire, o fuggire quando i benefici sono massimi rispetto ai costi ( p. 116).

Una gestione consapevole della paura

Attivare una strategia di paura comporta un costo enorme, in termini di energie vitali. Correre per avvertire i propri simili dell’arrivo di un predatore, emettere un segnale di richiamo (la marmotta può emetterne anche più di 1800 in un breve lasso di tempo!), ma anche semplicemente fiutare la presenza del cacciatore a miglia di distanza, richiede un considerevole dispendio di energie e causa la perdita di occasioni di nutrimento.

Una mancata parsimonia nell’utilizzo della paura e uno spreco di comportamenti difensivi avranno ripercussioni dannose sulla salute, anche sul lungo termine. Un carico stressogeno eccessivo debilita l’immunitario e la sua funzione difensiva da agenti patogeni, rendendo possibile l’insorgenza di malattie, e forse una morte precoce. Questo corrisponde ad una perdita di fitness, e dunque ad un’impossibilità riproduttiva che impedisce, di per sé, il tanto ambito “vantaggio evolutivo”.

Da dove siamo partiti? Il significato complessivo del testo

Il libro non insegna ad evitare la paura, né a provarla sempre. Piuttosto mostra come sia necessario utilizzarla con parsimonia, modulandola con astuzia e persino con un po’ di cinismo, per non lasciarsene immobilizzare totalmente.

È necessario operare una scelta ponderata tra rischio e prudenza, ispirata da una politica di bilanciamento tra costi e benefici che, qualsiasi sia l’opzione di preferenza, comporteranno un prezzo da pagare. Il coraggio avrà la sua contropartita, e in egual modo la prudenza. In mezzo sta tutto il resto. Quella terra di confine costruita su sottili equilibri che, se gestiti adeguatamente, restituiranno alla paura il suo significato salvifico, privandola di ogni controvalore paralizzante. Del resto, i sistemi di difesa più efficaci ed affidabili sono quelli flessibili e adattivi, non quelli statici e atrofici. La storia e l’esperienza non si stancano di dimostrarcelo.

L’opera di Blumstein offre un’importante lezione di vita senza averne la pretesa, e – valore aggiunto- lo fa senza alcun intento retorico:

Non dobbiamo soltanto imparare a convivere con la paura, ma anche a capire quando e come utilizzarla, cercando di discriminare ciò che costituisce un pericolo da ciò che non lo è affatto, e comportarci di conseguenza.

E quando il pericolo sembra inevitabile, dobbiamo essere tanto astuti da scegliere il male minore. Quello che, in pratica, ci comporterà un minor prezzo da pagare. In termini di rischi e di energie.

Anziché strutturare un contesto di lettura complesso e cattedratico, Blumstein si rivolge al lettore esponendo le sue esperienze di ricerca con tono chiaro e diretto, reso comprensibile anche per quei fruitori che non possono vantare una consolidata preparazione in materia.

I dati scientifici non languiscono mai in un tecnicismo lezioso e inaccessibile, proprio perché espressi con uno stile colloquiale che, con la complicità degli aneddoti biografici inseriti, conferisce al testo la piacevole foggia di un romanzo. E forse proprio di questo si tratta; di un racconto di vita scritto per comprendere e decifrare i segreti della vita stessa, in tutte le sue forme, in tutti i suoi  aspetti. Nel tentativo di renderci quanto più possibile capaci di viverla al meglio. Un po’ da aquile, un po’ da marmotte.

Al termine di una lettura oltremodo gradevole la paura apparirà sotto una veste diversa, spesso messa in ombra, o comunque sconosciuta ai più. Magari qualche lettore cesserà di aver “paura” della paura, qualcun altro inizierà a valutarne l’insospettabile valore salvifico, altri apprenderanno a dosarla opportunamente, riducendo gli sprechi; la maggior parte, presumibilmente, si limiterà a beneficiare dei numerosi spunti psicoeducativi offerti dal testo, per renderli, con un po’ di fortuna, preziosi “investimenti esistenziali”.

Da applicare nel presente e nel futuro.

…È consolante sapere che la mia paura deriva da un lungo lignaggio di antenati, umani e non umani. È un tesoro che ho ereditato, una potente alleata. Eppure, è anche una compagna fastidiosa e talvolta insopportabile. È una bussola che, se ben tarata, ci allontana dal pericolo e ci dirige verso l’opportunità. Da certi punti di vista, il nostro rapporto con la paura è un insegnamento che ci deriva dalla vita. Essendo impossibile eliminare del tutto i rischi, paure e ansie ci aiutano a prendere le decisioni giuste. Dato che non possiamo cancellare le nostre paure, dobbiamo accettarle e affrontarle. Come scrisse nel 1997 Mary Schmich, giornalista del Chicago Tribune: “Ogni giorno fa’ una cosa che ti spaventa.” ( Blumstein, p. 251).

 

Perché il bullismo esiste? Figure e tipologie di forme

Un fenomeno diffuso che riguarda molte istituzioni è il bullismo, una condizione dove vengono messe in atto azioni ripetute nel corso del tempo da parte di uno o più compagni che mirano deliberatamente a danneggiare o a prevaricare il soggetto preso di mira (Olweus, 1986; 1991).

 

Le caratteristiche del bullismo e del bullo

Allodola (2020), in un articolo volto a favorire una conoscenza più approfondita di questo fenomeno, ha innanzitutto proposto una distinzione tra conflitto e violenza: il conflitto permette lo sviluppo di una relazione senza accordo tra due parti ma ben gestita, mentre la violenza è “qualsiasi atto che provoca, o che può provocare, danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione e la deprivazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata” (ONU, 1993, artt. 1 e 2; Allodola, 2020).

Le diverse condizioni che permettono il bullismo riguardano la continuità delle aggressioni (in quanto presenti ripetitività e prevaricazione protratte nel tempo), l’asimmetria nella relazione (dove vi è ineguaglianza di forza e potere), l’intenzionalità delle aggressioni (in quanto vengono messi in atto comportamenti discriminatori intenzionali per causare danno e sofferenza nella vittima), infine la natura sociale del fenomeno (la quale implica che gli episodi si verificano in presenza di terze parti, spettatori o complici che sostengono o legittimano le azioni del bullo) (Allodola, 2020). Il bullo “dominante” ad esempio può prendere in giro i compagni, rivolgendosi in particolare agli studenti più insicuri e apparentemente deboli; il bullo “ansioso”, che spesso affianca il bullo dominante, si caratterizza per una personalità insicura e nella maggior parte dei casi per un basso rendimento scolastico; infine il bullo “vittima” è colui che viene a sua volta denigrato dai compagni e che mette comunque in atto uno stile di interazione reattivo (Allodola, 2020).

Nonostante il bullo venga visto come caratterizzato da insicurezza ed una bassa autostima, Olweus (1972) descrive i bulli dominanti, sicuri di sé e come persone che difficilmente mettono in dubbio il loro valore (Allodola, 2020). Esistono invece due tipologie di vittime: quelle “passive” sono le persone attaccate che generalmente presentano una bassa autostima e un pattern di insicurezza, mentre quelle “provocatrici” sembrano manifestare dei comportamenti che infastidiscono i bulli stessi e che elicitano delle reazioni discriminatorie. A differenza del bullo vittima, la vittima provocatrice mostra maggiori livelli di vittimizzazione (Allodola, 2020).

Le forme del bullismo

Il bullismo ha diverse forme, in quanto vengono messi in atto comportamenti fisici, come attaccare la vittima o sottrarle qualcosa in suo possesso, verbali quando sono presenti insulti, minacce e offese, non verbali o visive quando si gesticola in modo minaccioso e osceno, oppure indirette e relazionali quando si formano delle coalizioni o dei gruppi contro una persona, con lo scopo di denigrare o isolare quest’ultimo (Allodola, 2020). Secondo alcuni autori il bullismo riguarda una forma di oppressione e prevaricazione in cui ogni membro ricopre un ruolo specifico (Salmivalli et al., 2010; Karna et al., 2008): le figure sono il bullo, gli aiutanti e sostenitori del bullo, la vittima, i difensori della vittima e la maggioranza silenziosa (Salmivalli, 1999). Quest’ultima appare come molto pericolosa, in quanto mentre il bullo viene rinforzato dal supporto e dall’attenzione che riceve da parte di terzi, questa maggioranza è indifferente alla situazione generale e passa un messaggio silenzioso di mancanza di interesse (Menesini, 2008). Un altro mito da sfatare nella realtà scolastica è la persona bullizzata: tali fenomeni non si verificano soltanto tra compagni, bensì ci sono alunni che aggrediscono i docenti e, al contrario, docenti che bullizzano i loro studenti. Negli ultimi anni sono state proposte diverse ipotesi psicoeducative e protocolli per fronteggiare questa condizione sempre più diffusa, ma perché il bullismo esiste?

Nel 2009, Esposito ha scritto un libro sul tema evidenziando come i fattori familiari, ambientali e culturali influenzano quei comportamenti che spesso definiamo come devianti: le relazioni deteriorate determinano una mancata acquisizione delle norme culturali e la confusione dei ruoli può portare ad un’identità negativa, cioè non stabile e contornata da tratti antisociali (Esposito, 2009). Ricerche utili in futuro potrebbero focalizzarsi principalmente sulle dinamiche familiari vissute e sull’importanza dei rinforzi sociali di cui necessitano quegli individui che hanno bisogno di dominare all’interno di un contesto, con lo scopo di poter applicare in modo maggiormente funzionale gli interventi esistenti per prevenire tali forme di discriminazione.

 

Psicoterapia e nuove tecnologie: l’utilizzo della realtà virtuale – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il quinto episodio del podcast dedicato all’uso della realtà virtuale in psicoterapia. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Greta Riboli.

 

Dove ascoltare il quinto episodio:

 

La gestione del trauma dal punto di vista di un survivor

Ancora soffro dei miei stessi ricordi. Mentre scrivo sono nella prima fase del trattamento del trauma orientato per fasi sostenuto da Judith Herman, ossia in quella in cui cerco e creo sicurezza e stabilità nel presente per superare la disregolazione corporea ed emotiva (Herman, 2005).

 

La mia mente, il mio corpo e il mio cervello stanno tentando ogni strategia possibile pur di sopravvivere alle memorie traumatiche (Van der Kolk, 2015) legate ed attivate da trigger sconvolgenti. L’attività onirica, tra speranza e ricordo, si fa spesso spaventosa. Mi sembra di impazzire ogni volta che nel quotidiano lotto strenuamente per la mia vita.

Alle persone che mi circondano non arriva la decodifica con cui la mente blocca i pensieri patogeni, ma la soluzione più rapida e indolore possibile che in quel momento ho trovato efficace. Scopro che la soluzione però ha un effetto alterato e la risposta è illusoria rispetto a un problema che è invece reale e che così non viene risolto. Nel tentativo di adattarmi al cambiamento che mi ha investito e al quale ho assistito impotente, infatti, il sistema neurobiologico e comportamentale va in sovraccarico. Nell’intuizione della mia sofferenza, il Sè è distrutto da uno scombussolamento inquietante. La consapevolezza non mi rende libera: sono intrappolata in un sequestro interiore dove l’aggressione dei ricordi non è reversibile. Osservando la mia disperazione, attraverso il modello della dissociazione strutturale (van der Hart et al., 2006), vedo il trauma smarrire parti di me nelle galassie psichiche.

Nel provarlo posso sostenere che quando una persona soffre del Disturbo da Stress Post-Traumatico, seppur latente, pur di non sentire il dolore mette in atto tutta una serie di strategie di coping volte a fronteggiarlo e ad alleviarlo, sebbene a breve termine. Ne sono un esempio i comportamenti autolesionistici (come bere alcol) e quelli che non gestiscono gli impulsi (non prendersi cura di sé stessi ma anzi deliberatamente ricorrere ad azioni rischiose) né calmare il corpo (mantenersi quindi ipervigili in attesa di un pericolo, reale o percepito che sia). La soluzione che metto in atto per non sentire il dolore è dunque falsa, basata su una percezione alterata che va ad incentivare la creazione di schemi che sono nati e che si nutrono del trauma stesso e che configurano una proiezione che dal passato riemerge e si fortifica nel presente attraverso flashback, stato di allerta, vulnerabilità emozionale, scarsa capacità di concentrazione, compromissione della lucidità mentale, bassa autostima, uso eccessivo del controllo che sembra proteggere dai carichi di stress ma che con il tempo sfinisce, somatizzazione, sfiducia negli altri, paura dell’abbandono, rabbia, impulsività, pensieri accelerati.

Con la psicoeducazione comprendo che non è tanto importante ricordare e raccontare quanto ho subito, per quanto la terapia dell’esposizione narrativa si riveli spesso d’aiuto (Schauer et al., 2011), ma di impatto è importante che io conosca e riconosca nel dettaglio i miei sintomi e da che cosa vengono attivati per poi espandere la finestra di tolleranza in modo da riuscire, nei piccoli passi che compongono il quotidiano, a perdonare, a trasformare e ad apprezzare il vissuto come parte integrante della mia storia di guarigione.

Ed è tutt’altro che facile, ci sono alti e bassi e voli pindarici: avere a che fare con il dolore, pur con l’aiuto di una psicoterapia mirata e il sostegno della rete sociale di appartenenza, rende il vivere scomodo, soprattutto se a buttar sale sulla ferita sono io stessa. Metaforicamente si potrebbe dire: nessuno mi sta bombardando, sono io a spararmi contro.

Questo perché i meccanismi di difesa che ho nei riguardi di reazioni che avvengono in situazioni di pericolo apparente, come quelle che si agganciano a ricordi intrusivi che fanno rivivere il trauma, sono istintivi e conflittuali a seconda della prospettiva con la quale il cervello si sintonizza.

Aspetti impliciti o non verbali dei ricordi continuano ad attivare quel senso nefasto di immediato pericolo e, per quanto la mia mente vorrebbe mantenersi nel qui e ora, il mio corpo si mobilita per reagire non sapendo che sto ricordando una minaccia che mi ha colpito in passato ma che non sono minacciata in quel momento (Fisher, 2021). Per ironia della sorte, la corteccia prefrontale si disattiva proprio a causa della minaccia percepita, per risparmiare le risorse, ma così facendo non mi permette di razionalizzare quello che sto provando.

Nel tempo che impiego a sentirmi altrove e poi ritornare, sparire, insistere, mi ritrovo di nuovo catapultata in un buco nero che ha forme depressive e non lascia scampo al senso che tutto questo potrebbe avere. Ciò che è veramente insopportabile non è l’oscurità, ma l’assenza e la mancata prossimità che prima era ed ora non è più.

L’affascinante studio della neurobiologia e della plasticità del cervello mi introduce alla conoscenza del sistema nervoso autonomo e dell’ipotalamo, responsabile dell’elaborazione delle emozioni e delle sensazioni di piacere e dolore, e dell’amigdala che dà significato emozionale e sensoriale agli stimoli. Il cervello ne ha capacità, ma i ricordi disfunzionali non lo aiutano a guarire perché lo riportano e lo inchiodano sempre al passato, non agiscono sulla coscienza ma anzi la privano di quel sollievo necessario a ristabilire un equilibrio e un amor proprio. Non posso riprendere in mano la mia vita senza sospendere il giudizio e senza una adeguata ricerca del mio benessere psico-fisico, al di là del baratro nel quale in ogni istante potrei ragionevolmente cadere.

Ho trent’anni e il mio sistema nervoso è traumatizzato ma, per fortuna, non sembra voler tollerare di rimanere sconvolto. Si ostina a tenermi occupata anche quando, nel lento e complesso percorso di elaborazione, mi sento sopraffatta e inibita. Per questo oggi ho voluto scriverne. La consapevolezza non è abbastanza per cambiare le mie abitudini di sopravvivenza, ma posso imparare a identificare le mie emozioni come comunicazioni provenienti da una parte di me che è condizionata a causa di ciò che attiva il ricordo traumatico, stimolando il cervello pensante a interpretare in modo positivo quello che provo, anziché facilitare la ricaduta verso azioni distruttive che alla lunga mi feriscono ulteriormente (Fisher, 2021).

Centrandomi con costanza, ma non senza fatica, talvolta riesco già a proiettarmi nel futuro. Bramo di arrivare incolume all’ultima fase, perché solo nell’accettazione il dolore si trasforma. Solo allora resta l’amore, la convinzione di essere stata vista almeno una volta. Solo allora il trauma, che per me è un lutto grande, diventa una restituzione e non più una perdita. La testimonianza che reca coraggio, la cura che coinvolge la vita.

 

Sentieri di cura (2021) di W. Paganin e S. Signorini – Recensione

Sentieri di cura si articola in tre capitoli, il primo esplora la cura attraverso la storia della medicina, dell’antropologia culturale, sino ad attraversare la sociologia, la psicologia e la psicoterapia, il secondo analizza il gruppo come dispositivo di cura, il terzo entra nel merito dei Gruppi Psicoanalitici Multi Familiari (GPMF).

 

Qual è il significato della cura, della terapia e della psicoterapia individuale e di gruppo? Quali sono i sentieri della cura, i presupposti teorici, gli approcci e le metodologie nella psicoterapia? Qual è il ruolo dei servizi e le proposte terapeutiche offerte? Queste domande sottendono lo sviluppo del libro Sentieri di curache si pone l’obiettivo di analizzare in modo pluri-prospettico i concetti di cura, terapia e psicoterapia attraverso due linee di approfondimento: la prima di natura descrittiva – esplicativa in cui si affronta l’excursus storico, dal concetto di cura a quello di psicoterapia, analizzando le implicazioni storiche, filosofiche e sociali, fino alla nascita e sviluppo delle psicoterapie; la seconda metodologica legata ai risvolti della terapia multifamiliare. Il libro si compone di tre capitoli.

Sentieri di cura: il primo capitolo

Il primo capitolo esplora la cura attraverso la storia della medicina, dell’antropologia culturale, sino ad attraversare la sociologia, la psicologia e la psicoterapia. Una disamina del concetto di cura e delle terapie dalla fine del Settecento ad ora. Il punto di partenza è l’analisi etimologica della cura dai greci, ai romani, alla filosofia di Heidegger. Un’accurata analisi etimologica che approfondisce i significati del verbo servire, prestare servizio o prendersi cura, sino a terapia, che indica il servizio e il terapeuta che è il “servitore di colui che assiste”. I romani utilizzavano i verbi sano o medeor con il significato di sanare e rimediare a fianco del termine medico che era connesso “all’arte del preparare pozioni”. Oltre a questo aspetto era presente anche il concetto di “farsi carico, sollecitudine, premura e interesse per qualcuno”.

Si arriva all’analisi dei termini paziente e cliente nei loro diversi significati culturali e alla dimensione pedagogico – filosofica della cura in una prospettiva che coinvolge la dimensione intenzionale del prendersi cura dell’essere come nelle cure materne e paterne o degli insegnanti. È qui che si arriva alla “primarietà della cura” nella proposta di Heidegger come fondamento ontologico dell’essere umano: “non c’è vita se non c’è cura di sé e degli altri”.

L’analisi storica inizia dalle cure mediche a partire dal 3000 a.C., presenti nel Codice di Hammurabi, con le descrizioni dei concetti di salute, malattia e delle prestazioni professionali della cura. Una medicina religiosa poiché ancorata ad un concetto di malattia come castigo, che richiedeva l’arte della divinazione, dell’osservazione degli astri. Su un modello simile, l’antico Egitto concepiva la medicina in una logica sapienziale, con una delega dei compiti di cura al sacerdote che si appellava alla divinità per risolvere la malattia. L’excursus attraversa l’Antica Grecia analizzando i principali filosofi e il ruolo della tragedia greca nella contrapposizione tra divino e umano e nella tensione tra forze contrastanti come ira, follia e disperazione. Un momento decisivo della riflessione è l’excursus sul dolore e sulle cure da Anassàgora, a Gorgia, Antifonte, Aristotele, Platone, sino a Ippocrate. In questi autori ci sono le radici della psicoterapia “liberando la medicina dal peso della magia e del mito e costituendo una medicina a cui legare i bisogni del paziente di cui prendersi cura” (p. 42). Ippocrate ha descritto i primi sintomi psichici con la prima visione sistemica legata alle influenze ambientali, fisiche e sociali del paziente. La riflessione continua attraverso l’alto e il basso medioevo, attraverso il pensiero della medicina medioevale nello sguardo della Chiesa cattolica, sino a Leonardo da Vinci che, con la sua curiosità per il funzionamento del corpo, è un esempio del metodo osservativo e sperimentale. Successivamente l’avvento dell’illuminismo ha apportato un contributo importante per la psicopatologia con “i preziosi contributi delle classificazioni delle malattie di François Boissier de Sauvages de Lacroix e di William Cullen il quale ha concepito un suo nuovo sistema teorico di classificazione nosologica delle malattie”. La fine del settecento è descritta dagli autori sottolineando il primo trattamento di gruppo dell’età moderna con Mesmer, a cui sono seguiti gli interventi di ipnosi e le teorie di Jean-Martin Charcot sino a Janet con l’uso dell’ipno-suggestione a scopo terapeutico. Parallelamente gli autori seguono l’evoluzione del pensiero sulla cura dell’anima di Bènèdict-Auguste Morel con la teoria della degenerazione mentale con l’identificazione delle cause della sua insorgenza, come l’avvelenamento, l’ambiente sociale, il temperamento patologico, la malattia morale, i danni innati o acquisiti e l’ereditarietà.

L’excursus prosegue con J. É. D. Esquirol che di fatto ha compiuto un passaggio importante di medicalizzazione dei trattamenti nei confronti dei malati mentali e della permanenza negli ospedali specializzati, seguiti da medici.

Gli autori arrivano alla nascita del termine psichiatria introdotto nel 1808 da Psychiatherie dello psichiatra J. C. Reil a cui va il merito di aver scoperto il Locus Ceruleus e l’analisi della corrente romantica della psichiatria  tedesca. È un periodo fertile per la definizione del linguaggio clinico: con Heinroth compaiono i termini psicosomatico nel 1818 e somatopsichico nel 1828, l’Uberuns (coscienza), l’Ego (mente, emozioni e volontà) e Fleish (unità di base, rappresentativa della natura peccaminosa dell’uomo).

Verso la fine dell’Ottocento E. Kraepelin ha promosso la psichiatria a scienza medica attraverso l’esame fenomenologico, descrittivo e prognostico delle malattie psichiatriche. Lo psichiatra ha distinto le psicosi endogene in Dementia Praecox e Psicosi Maniaco-Depressiva come entità cliniche separate. Lo sguardo sul novecento si apre verso la psicoanalisi e la psicoterapia con S. Freud, che ha sperimentato la tecnica dell’ipnosi e delle associazioni libere dei pazienti rappresentando la nascita della psicanalisi. Dagli inizi del novecento il pensiero psicoanalitico ha attivato un grande dibattito e gli autori attraverso il pensiero di A. Adler,  di C. G. Jung, sino a S. Sullivan e J. M. É. Lacan.

A questo punto gli autori proseguono con l’analisi della genesi del termine psicoterapia arrivando alla sua attuale definizione rappresentata dalle definizioni in enciclopedia e dizionari di medicina e di psicoterapia con la descrizione della distinzione operata da R. H. Cawley nel 1987 dei vari livelli di psicoterapia; procedono poi nella descrizione dei gruppi terapeutici con la definizione delle variabili che caratterizzano gli interventi gruppali (obiettivo, metodo di leadership, comunicazione, clima, sviluppo e i fattori terapeutici; I.D. Yalom). Tra questi speranza, universalità, informazione, altruismo, ricapitolazione correttiva del gruppo primario familiare, tecniche di socializzazione, comportamento imitativo, apprendimento interpersonale, coesione di gruppo, catarsi e fattori esistenziali. Sulla base di questi compiono un confronto con le proposte di S. Bloch e E. C. Crouch, di K.R. MacKenzie, M. Di Blasi e G. Lo Verso, per arrivare alla presentazione dell’attaccamento al gruppo attraverso la rivisitazione della teoria sull’attaccamento di J. Bowlby negli interventi terapeutici di gruppo.

Sentieri di cura: il secondo capitolo

Il secondo capitolo entra nel merito del lavoro di cura e analizza il gruppo come dispositivo di cura  proponendo una riorganizzazione teorica in cui il gruppo è una connessione fondante per la salute mentale.  Siamo di fronte ad una diversa concezione relazionale e intersoggettiva della vita psichica che valorizza il gruppo come substrato essenziale della vita e della salute mentale della persona.

Gli Autori entrano nelle origine psicoanalitiche proponendo un excursus storico sul pensiero di Freud e Reich, per arrivare alle relazioni oggettuali di Melanie Klein e Donald Winnicott, alla psicologia umanista di Rogers, e alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’approccio ai gruppi considera la psicoanalisi dei gruppi di Bion e la gruppoanalisi di S. H. Foulkes sino alla presentazione del pensiero S. A. Mitchell che promuove la svolta relazionale.

L’analisi dei gruppi in psicoterapia inizia ad essere approfondita in funzione del lavoro con gli psicotici nella proposta di P. C. Racamier: il lavoro si articola intorno alla sicurezza nel gruppo, alla cura come co-produzione prolifica e transizionale tra paziente e équipe terapeutica. Il passaggio successivo è la terapia familiare in America attraverso il pensiero di G. Bateson focalizzando l’attenzione sui sistemi complessi e il concetto di doppio legame, sulla famiglia con  M. Bowen e l’ottica triadica come sviluppo della rigidità presente nella diade di S. Minuchin.

A questo punto si procede con la specificazione dei diversi gruppi psico-dinamici sempre utilizzando un approccio di ricostruzione storica del pensiero degli autori con particolare riferimento alla distinzione tra analisi in gruppo, analisi di gruppo, analisi attraverso il gruppo.

Infine vengono analizzati i contributi della scuola francese di D. Anzieu e R. Kaes, per poi passare alla ricerca sui gruppi in Italia con i gruppi interattivi, oggetto delle riflessioni di R. Spaltro, G. Trentini, L. Ancona e P. Gallo. L’approfondimento attraversa anche l’intervento psico-educazionale nei gruppi tematici, le terapie della terza ondata con l’analisi della prospettiva cognitivo-comportamentale con i metodi della ristrutturazione cognitiva, della promozione delle capacità di coping, di problem solving e infine alla terapia metacognitiva, la Schema Therapy, l’EMDR di  Shapiro, la psicoterapia sensomotoria di Pat Ogden e le terapie psicologiche di supporto.

Sentieri di cura: il terzo capitolo

Il terzo capitolo entra nel merito dei Gruppi Psicoanalitici Multi Familiari (GPMF) seguendo il modello di J. G. Badaracco e la loro evoluzione sino alla proposta degli autori di indicazioni e tecniche operative attraverso  la testimonianza del loro utilizzo della Psicoanalisi Multifamiliare nel Centro di Salute Mentale. Anche in questo capitolo l’excursus storico è ricco ed elaborato. Inizia con l’analisi del primo modello di terapia multifamiliare di Peter Laqueur, per poi affrontare in modo preciso e articolato i modelli di Lewis Foster, di Coliseum, di Murray Bowen, di Edward Kaufman, di W.  R. McFarlane e di E. Asen. A questo punto gli autori entrano nel  modello ecologico multifamiliare con l’analisi delle proposte per i pazienti con malattie somatiche croniche di P. Steinglass. Il punto di arrivo sono le psicoterapie dei gruppi di analisi multifamiliare che riprendono il modello proposto da J. G. Badaracco. La prospettiva dello psicanalista argentino promuove l’intervento multifamiliare in una ottica psicoanalitica delimitando ambiti, specificando modalità e descrivendo indicazioni e azioni.

Il libro si chiude con l’esplorazione delle tecnologie mediatiche in relazione all’esperienza della cura durante  pandemia da Covid-19.

Una proposta che attraversa in modo completo la trattazione dei diversi approcci alla cura e alla terapia,  l’analisi delle diverse prospettive e delle tecniche sino alla presentazione della tecnica dei GPMF, che ha il merito di valorizzare l’importanza di riunire in un gruppo circolare pazienti, familiari e operatori come presupposto per un lavoro terapeutico.

È un libro che ha l’obiettivo di presentarsi ad un pubblico ampio in funzione di un linguaggio accessibile, trasversale e libero da potenziali confronti di confine tra approcci epistemologici diversi. Questa scelta permette di avvicinare qualsiasi lettore che intende esplorare i diversi sentieri di cura e la loro evoluzione nelle psicoterapie in ambito sociologico, psicologico e psichiatrico nel mondo occidentale.

 

La vela migliora la qualità della vita dopo un cancro al seno

Alcuni studi in letteratura hanno notato che le persone che sono sopravvissute ad un tumore, in particolare al cancro al seno, possono avere molto giovamento dall’attività sportiva.

 

Effetti del cancro al seno

 Sebbene oggi il tasso di mortalità delle persone con cancro al seno (Breast Cancer; BC) si sia notevolmente ridotto, spesso i trattamenti a cui sono sottoposte le donne hanno delle conseguenze fisiche e un elevato distress psicologico che permangono nel lungo termine (Carreira et al., 2017). Tali conseguenze sono per esempio una riduzione della forza degli arti superiori che talvolta provocano ostruzioni linfatiche; dolore e instabilità nella postura con conseguenti alterazioni dell’immagine corporea che possono causare ansia, depressione, rabbia, disturbi dell’umore e un’alterazione della qualità della vita (QoL) (Mirandola et al., 2014). In aggiunta le persone che sono guarite da un cancro al seno spesso hanno un’elevata paura di averlo nuovamente e sono sottoposte ad esami di follow up che causano loro una forte angoscia.

Gli effetti positivi dell’attività fisica e della barca a vela

Recenti studi hanno dimostrato che l’attività fisica-sportiva è fondamentale per la salute delle persone e aumenta la qualità della vita (QoL). Anche il funzionamento sociale e il benessere emotivo possono migliorare tramite la pratica di attività sportiva, soprattutto lo sport di squadra sembra avere risultati di salute soddisfacenti grazie alla natura sociale della partecipazione (Eime et al., 2013). Alcuni interventi come il Tai Chi, che implicano una forte connessione mente-corpo, sono spesso praticati in gruppo e forniscono numerosi benefici sia fisici che psicologici per i sopravvissuti al cancro (Zeng et al., 2019). Anche la danza di gruppo ha dimostrato di migliorare il benessere psicofisico e la qualità della vita. La letteratura ha recentemente proposto la pratica della vela per migliorare il benessere psicofisico e la qualità della vita nelle persone con disabilità (Marchand et al., 2017); la vela coinvolge infatti l’integrazione di diversi stimoli sia esterocettivi che propriocettivi, essendo praticata in ambienti stimolanti come il mare o il lago. Inoltre è uno sport che coinvolge la praticità ed è sufficientemente sicuro da poter essere praticato da persone disabili.

Alcuni degli effetti positivi riguardano l’autostima e la salute generale: talvolta può essere considerata come una parte integrante della riabilitazione. Le persone con disabilità psicosociali e gravi disturbi mentali che hanno partecipato ad un programma strutturato di vela hanno mostrato miglioramenti significativi in svariati ambiti tra cui la qualità della vita e la sintomatologia clinica. In aggiunta, alcuni studi hanno dimostrato che andare in barca a vela può migliorare la qualità della vita di bambini e adolescenti disabili con problemi neurologici di coordinazione motoria e di equilibrio (Aprile et al., 2016).

Gli effetti della barca a vela in donne sopravvissute al cancro al seno

Dal momento che non sono ancora stati studiati i possibili effetti positivi di questo sport per le donne sopravvissute al cancro, nel 2020 Mirandola e colleghi hanno condotto un’indagine ai fini di valutare se un’esperienza in barca a vela potesse migliorare significativamente la qualità della vita (QoL) e il distress psicologico (PD) nelle donne che hanno avuto un cancro al seno. 19 donne di età compresa tra 43 e 68 anni hanno partecipato ad un programma di vela di una settimana, accompagnate da uno skipper, alcuni insegnanti di vela, due psicologi e da uno specialista dello sport. Tale programma prevedeva alcune lezioni teoriche e una fase pratica in mare aperto seguita da sessioni psicologiche di gruppo nelle quali manifestare le impressioni e i sentimenti sull’esperienza, per migliorare le abilità sociali e comunicative, l’autostima e la fiducia in sé stessi. Le donne hanno completato un questionario strutturato online per valutare la QoL e il distress psicologico sia alla partenza (baseline) che una settimana dopo il ritorno (follow-up). Il questionario includeva una prima parte nella quale venivano richieste alcune caratteristiche sociodemografiche, la pratica di attività fisiche/sportive e la soddisfazione dell’esperienza di navigazione; la seconda parte prevedeva invece la somministrazione dei questionari Short Form-12 (SF-12; Apolone, 2001) per valutare la QoL, State/Trait-Anxiety Inventory form Y (STAI-Y; Spielberger et al.,1971) per valutare l’ansia di stato e il Distress Thermometer (Bellè et al., 2016) per valutare lo stress dei soggetti. I risultati ottenuti mostrano un miglioramento statisticamente significativo nei punteggi del SF-12 e una riduzione nei punteggi di entrambe le componenti dello STAI-Y (stato e tratto) e del termometro del distress, dopo l’esperienza di navigazione.

Un’esperienza di vela strutturata può quindi essere utilizzata come intervento per aumentare il benessere psicologico e migliorare la QoL e altri sintomi psicologici nelle donne che hanno avuto un tumore. È importante che gli psicologi, i professionisti e i medici di riabilitazione oncologica siano consapevoli dell’importanza dell’esercizio fisico per la salute, strutturino interventi efficaci che includano attività di squadra in ambienti stimolanti e ne promuovano la partecipazione (Mirandola, 2020).

 

Stereotipi di genere e cartoni animati

Considerando che la tv è stata vista, da sempre, come uno strumento potente nel plasmare il comportamento dei più piccoli nei confronti dei ruoli di genere nella società, è importante indagare sulla rappresentazione dei personaggi maschili e femminili nei cartoni animati.

 

Gli stereotipi nei cartoni animati

Il termine stereotipo indica un insieme di opinioni o attributi generalizzati, precostituiti che vengono associati e/o applicati a persone o a tutti i membri di un determinato gruppo (Hinton; 2017). Nello specifico, uno stereotipo di genere è “un insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti, l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”.

Molto spesso, i programmi televisivi trasmettono messaggi che possono consolidare intensamente la discriminazione di genere (Hinton; 2017), specialmente quando presentano uno dei due sessi come dominante: a volte, in TV, i personaggi maschili sono mostrati come più abili, capaci di esprimere idee, furiosi, al contrario di quelli femminili, ritratti come più compassionevoli e/o bisognosi di protezione.

Gli stereotipi di genere possono essere rafforzati anche dai cartoni animati che, se da un lato possono essere validi strumenti di intrattenimento, dall’altro, in maniera sottile, sono in grado di trasmettere ai bambini una serie di messaggi negativi legati al genere dei personaggi.

Certo, l’uso di rappresentazioni stereotipate all’interno dei programmi televisivi è una necessità; agli spettatori devono essere fornite scorciatoie per comprendere i personaggi e i ruoli che interpretano. Tuttavia, immagini standardizzate o generalizzazioni, in particolare quelle basate su idee sbagliate, possono rappresentare un problema soprattutto per i bambini.

Quali stereotipi di genere sono presenti nei cartoni animati?

Considerando che la tv è stata vista, da sempre, come uno strumento potente nel plasmare il comportamento dei più piccoli nei confronti dei ruoli di genere nella società (Ahmed, Wahab; 2014), è importante indagare sulla rappresentazione dei personaggi maschili e femminili nel genere televisivo animato. A tale scopo, è stata condotta una ricerca sui cartoni animati trasmessi da Cartoon Network, un noto canale televisivo per bambini (Ahmed, Wahab; 2014); sono stati selezionati 10 cartoni animati popolari, tra cui Ben 10, Scooby Dooby Doo, Tom e Jerry, Pokémon, Superchicche, Dragon Ball Z, Batman e, nella maggior parte, sono stati individuati tratti comuni nei personaggi maschili e femminili. La ricerca ha dimostrato che, in molti cartoni animati, i personaggi maschili e femminili vengono ritratti in modo parziale e stereotipato: le caratteristiche più frequentemente attribuite ai personaggi maschili sono la forza fisica, il coraggio, l’intelligenza, mentre quelle attribuite ai personaggi femminili sono  debolezza fisica, emotività e premurosità, bellezza fisica, dipendenza dagli altri, passività.

Alla luce di ciò, si potrebbe concludere che la miglior difesa contro i potenziali effetti negativi delle rappresentazioni stereotipate sugli schermi, è cercare di comprendere e analizzare criticamente ciò che viene, dagli stessi, presentato.

 

EMDR e dolore cronico. Quando a parlare è il corpo (2022) – Recensione

Il testo EMDR e dolore cronico intende fornire delle linee guida sull’utilizzo dell’EMDR al trattamento del dolore cronico, in quanto, sebbene ne sia ormai riconosciuta la natura multifattoriale, la psicoterapia non rappresenta ancora la strada maestra per curare tale disturbo.

 

L’EMDR, acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing, è un approccio terapeutico scoperto dalla ricercatrice americana Francine Shapiro nel 1989. Basato sulla desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, l’EMDR viene impiegato per il trattamento di traumi e stress psicologici di entità severa.

A livello procedurale, al paziente viene chiesto di fornire un quadro descrittivo e quantificativo dei propri disturbi, rievocando il ricordo da cui desiderano ottenere un sollievo, rappresentato dall’immagine peggiore associata all’evento o dalla prima traccia mnestica dello stesso.

Dopo aver identificato l’unità soggettiva di disagio (SUD), lungo una scala da 0 a 10, dove 0 equivale a nessun disturbo e 10 al peggior livello di disturbo esperito, si procede alla fase di desensibilizzazione, richiamando la cognizione negativa e prestando attenzione alla stimolazione bilaterale (movimenti delle dita, tapping o stimolazione uditiva), procedura nota come Dual Attention Stimulus.

Shapiro ha diviso le cognizioni negative in 3 temi: mancanza di sicurezza/vulnerabilità, mancanza di controllo/potere e responsabilità/difettosità. Se il dolore è di origine traumatica, la cognizione negativa è più probabile sia basata su un tema di sicurezza/vulnerabilità, mentre se il dolore è correlato a cause mediche, la cognizione negativa è più probabile che rifletta mancanza di controllo/potere e/o sentimenti di difettosità.

La richiesta fatta al paziente è semplicemente di “notare” e “lasciare che succeda quello che deve succedere”. In seguito a tale processo è interessante notare le affermazioni di stupore sulla riduzione del disagio e dell’angoscia: il problema viene descritto come “più lontano”, “non più così importante”.

Nel momento in cui il disagio raggiunge un SUD di 1 o 0, si installa la cognizione positiva, che viene valutata rispetto alla percezione di veridicità su una scala da 1 a 7.

I cambiamenti affettivi associati all’EMDR hanno permesso di estenderne l’utilizzo al trattamento del dolore cronico, un contesto prioritariamente somatico.

Sono emersi importanti punti di affinità tra dolore cronico e Disturbo da Stress Post Traumatico (PTDS): all’origine di entrambi vi sarebbe un evento causale di natura traumatica, a cui farebbe seguito una risposta fisiologica che, sebbene di natura differente, svolge la medesima funzione, ovvero indurre il soggetto ad evitare situazioni che rievocano l’evento traumatico.

Il testo intende fornire delle linee guida sull’utilizzo dell’EMDR al trattamento del dolore cronico, in quanto, sebbene ne sia ormai riconosciuta la natura multifattoriale, la psicoterapia non rappresenta ancora la strada maestra per curare tale disturbo.

Tradizionalmente il dolore è stato considerato come conseguente ad una lesione fisica e le percezioni dolorose persistenti, in assenza di lacerazioni cutanee o, comunque, continuative oltre il tempo di guarigione, sembravano inspiegabili.

Il dolore si distingue in acuto e cronico: nel primo caso esso consegue ad una lesione quale una frattura o una lacerazione muscolare, da cui originano segnali nervosi, volti a proteggere l’area danneggiata; col tempo la lesione guarisce e il dolore scompare. Il dolore acuto è limitato nel tempo e generalmente gestibile. Al contrario, il dolore cronico, che si sviluppa in seguito ad una malattia o ad una lesione, si rivela prolungato nel tempo e non rispondente ai trattamenti.

Il dolore cronico può presentarsi sotto diverse forme, quali mal di schiena, fibromialgia, sciatalgia, emicrania, disturbo da somatizzazione e chiama maggiormente in causa le aree coinvolte nella memoria e nelle emozioni.

Il moderno approccio al trattamento del dolore cronico vede il suo precursore in Pierre Janet che, alla fine del XIX secolo, ha sottolineato come i sintomi fisici inspiegabili fossero frutto della dissociazione, un modo per riprodurre il trauma o lo stress, quando il sistema nervoso centrale viene sopraffatto, conducendo ad una separazione tra conscio e inconscio:

Le tracce di memoria del trauma permangono come idee fisse inconsce che non possono essere “liquidate” fintanto che non siano state tradotte in una narrazione personale e che invece continuano a intrudere nella forma di percezioni terrificanti, preoccupazioni ossessive ed esperienze somatiche. La capacità di adattamento collassa e il paziente finisce in uno stato di impotenza cronica che si esprime attraverso sintomi sia psicologici sia somatici.

L’approccio Cognitivo Comportamentale (CBT) rappresenta l’orientamento elettivo nel trattare il dolore cronico, riconducendo a pensieri, emozioni e comportamenti negativi il persistere della sintomatologia dolorosa. Il target del trattamento divengono allora le convinzioni del paziente sul proprio dolore, considerati il vero fattore di mantenimento: attraverso il rinforzo positivo il soggetto convalida le proprie teorie ingenue e per mezzo del rinforzo negativo evita le situazioni e circostanze che innescano o esacerbano il dolore stesso.

Ciononostante la CBT riesce ad ottenere un effetto debole, non sollevando dal dolore persistente.

Il trattamento tramite EMDR è in grado di modificare le dimensioni sensoriali ed emotive del PTDS e del dolore, favorendo la diminuzione dell’arousal fisiologico e del disagio emotivo, incrementando il rilassamento e conducendo ad un distanziamento dal problema. Sfruttando la neuroplasticità l’EMDR sembra determinare effetti che si mantengono nel tempo.

Gli esatti meccanismi attraverso cui l’EMDR agisce sul cervello non sono ancora chiari; Bergmann suggerisce che il trattamento del PTDS alteri la forza delle memorie episodiche mediate dall’ippocampo e l’emotività mediata dall’amigdala per mezzo di un circuito di attivazione e disattivazione della risposta di orientamento.

Le testimonianze di coloro che hanno beneficiato dell’EMDR sottolineano la maggiore lucidità mentale, la percezione di maggiore sintonia con sé stessi, nonché la capacità di creare nuove risposte e collegamenti.

Il protocollo EMDR per il trattamento del dolore, così come originariamente sviluppato per il PTDS, è un processo in 8 fasi: Raccolta della storia, Preparazione, Assessment, Desensibilizzazione, Installazione, Scansione Corporea, Chiusura e Rivalutazione. Queste 8 fasi sono progettate per essere di supporto alla procedura di “desensibilizzazione” che è il cuore dell’EMDR.

Considerando l’impatto che il trauma pregresso e gli effetti del dolore hanno sull’identità e sul funzionamento nella vita quotidiana del soggetto, occorre confrontarsi con 7 compiti chiave:

  • domare il dolore;
  • rielaborare i traumi;
  • regolare le emozioni;
  • scoprire il significato del proprio dolore;
  • far fronte agli altri fattori di stress;
  • promuovere la cura di sé;
  • favorire la reintegrazione.

Il testo comprende nella parte finale diverse risorse per il terapeuta e per il paziente da utilizzare durante il trattamento.

 

Come si sente un terapeuta di fronte ad un paziente difficile?

Le emozioni spesso sperimentate dai clinici che hanno a che fare con i pazienti difficili sono senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento, che portano il terapeuta a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale.

 

Chi sono i pazienti difficili?

I pazienti difficili sono figure note tra i contesti clinici e la salute mentale pubblica (Foster, 2013). Nello specifico, i dati epidemiologici di paesi diversi mostrano che la prevalenza dei pazienti percepiti come difficili da parte del personale clinico varia dal 15% al 60% nei contesti sanitari generali (Hahn et al., 1996; Hahn, 2021; Jackson & Kroenke, 1999) e dal 6% al 28% nelle istituzioni psichiatriche (Koekkoek et al., 2011; Modestin, Greub & Brenner, 1986). Tale etichetta di paziente difficile, quando formulata, tende a rimanere incollata al paziente e influenza l’impostazione di un trattamento, in quanto anche i clinici attribuiscono a tale classificazione una persona che crea resistenze e che mina intenzionalmente il trattamento (Ekdawi, 1967). Nonostante l’esistenza riconosciuta di questi casi, non è chiaro che cosa renda difficile un paziente (Colson et al., 1985; Groves, 1978; Koekkoek et al., 2006). La conseguenza è che vengono definiti come pazienti difficili tutte quelle categorie di persone affette da disturbi che resistono in modo maggiore ai trattamenti: si pensi alle tossicodipendenze e ai pazienti psicotici (Sellers et al., 2012), alla depressione che resiste alle terapie farmacologiche (Greden, 2001; McCrone et al., 2018) e ai disturbi di personalità che, nei contesti di salute mentale, rappresentano una popolazione difficile da curare dai terapeuti che varia dal 32% al 46% (Koekkoek et al., 2011).

Secondo gli autori, alcune delle difficoltà riscontrate da parte dei terapeuti sono gli atteggiamenti definiti come aggressivi, esigenti, manipolativi o dipendenti che i pazienti mettono in atto (Beryl & Volm, 2018; Cleary et al., 2002; James & Cowman, 2007). Oltre ai pazienti, numerosi studi sono stati fatti per comprendere il punto di vista e le difficoltà che il clinico riscontra quando è di fronte a questi atteggiamenti, considerando che le percezioni possono esercitare un’enorme influenza su di sé, sul paziente e sul processo terapeutico (Colson et al., 1985). Riprendendo il concetto psicodinamico di controtransfert, cioè le risposte emotive che il paziente evoca nel terapeuta, i clinici riferiscono di sentire spesso degli atteggiamenti di chiusura, esigenti, impulsivi, autodistruttivi, non collaborativi e non aderenti alle raccomandazioni cliniche del trattamento (Bos et al., 2012).

Le emozioni spesso evocate nei terapeuti sono tendenzialmente negative, come senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento (Gallop & Wynn, 1987; Garcia et al., 2016) che portano il terapeuta stesso a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale (Bachrach et al., 1987; Colli et al., 2014; Colson et al., 1985; Mohr, 1995). Esistono numerosi studi che si concentrano sulla descrizione e sulla categorizzazione di tali pazienti, mentre un numero minore di ricerche si concentra sulla definizione di linee guida utili ad aiutare i terapeuti nel riconoscimento e nella regolazione di tali reazioni emotive (Fischer et al., 2019).

Il vissuto dei terapeuti davanti ai pazienti difficili

Fischer e colleghi (2019) hanno svolto uno studio per comprendere l’esperienza vissuta da parte di dieci terapeuti cileni attraverso delle interviste qualitative semi-strutturate. I terapeuti lavoravano nel servizio sanitario pubblico, avevano avuto esperienze con pazienti difficili e svolgevano una formazione continua sul trattamento dei disturbi di personalità. La trascrizione delle interviste è stata riportata utilizzando i principi generali della Grounded Theory (Strauss & Corbin, 1998) con alcune modifiche (Foster, Hays & Alter, 2013). I risultati dell’analisi sono organizzati in quattro dimensioni: le caratteristiche dei pazienti, gli atteggiamenti dei pazienti nei confronti dei terapisti o dell’equipe, gli effetti dei pazienti sui terapeuti e il contesto di trattamento.

Per quanto riguarda la prima dimensione, i terapeuti riportano disturbi di personalità spesso in comorbilità con disturbi da uso e abuso di sostanze, associati a storie traumatiche, neglect, povertà o mancanza di supporto sociale. Tali esperienze contribuiscono a difficoltà interpersonali mantenute da aggressività e deficit nelle relazioni sociali, difficoltà emotive e comportamenti autolesivi (Fischer et al., 2019). Alcuni terapeuti riportano un basso funzionamento cognitivo in questi pazienti. La sottocategoria degli atteggiamenti include le difficoltà legate ad una percepita mancanza di impegno per gli appuntamenti fissati o l’adesione al trattamento solamente nei momenti di crisi: secondo gli intervistati, questi pazienti si presentano al trattamento con un senso di scoraggiamento e sentendo che non sarà utile (Fischer et al., 2019). Molti pazienti presentano aspettative irrealistiche sul trattamento, facendo pressione o manifestando aggressività con il terapeuta.

L’effetto sul terapeuta da parte di questi pazienti include emozioni negative, come tensione e sentirsi esauriti o, al contrario, sensazione di noia (Fischer et al., 2019). Infine, per quando riguarda il contesto di trattamento, le sottocategorie citate sono il sovraccarico di lavoro, cioè la qualità terapeutica che diminuisce in relazione ad una maggiore quantità di pazienti, le scarse risorse, come la mancanza di personale, o i trattamenti inadeguati causati della bassa frequenza di sessioni e dal tempo insufficiente assegnato ad ogni incontro (Fischer et al., 2019).

 

I fattori psicologici alla base della Great Resignation

Riflettendo sulla quantità di dimissioni dell’ultimo periodo, che prende il nome di Great Resignation, quali fattori psicologici spingono il dipendente a prendere questa decisione in un periodo di forte incertezza?

 

Cos’è la Great Resignation?

La pandemia da COVID-19 ha impattato significativamente sulla salute mentale, coinvolgendo diversi strati demografici e diversi contesti. Le recenti ricerche, infatti, si sono principalmente concentrate sulle ricadute psico-fisiche delle misure di restrizione e di tutta la condizione pandemica, in ambito clinico (Xiong et al., 2020). Pochi studi, invece, si sono occupati dei fattori psicologici legati all’emergente fenomeno della “Great Resignation”.

Con il termine “Great Resignation” si fa riferimento ad un aumento notevole di dimissioni, fenomeno che spaventa parecchio tutte le aziende del mondo. Da uno studio di McKinsey (2021) si rileva come il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare posizione nei prossimi mesi. Anche in Italia, in base alle rilevazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, tra aprile e giugno 2021 sono state registrate quasi mezzo milione di dimissioni.

A cosa è dovuta la Great Resignation?

Osservando, quindi, il fenomeno dal punto di vista dei lavoratori, quali fattori psicologici spingono il dipendente a prendere questa decisione in un periodo di forte incertezza? Per rispondere a questa domanda, è possibile far riferimento ad uno studio in cui si rileva che uno dei più importanti predittori di dimissioni riguarda l’esperire situazioni di significativa pressione emotiva, che generano sintomi quali ansia e depressione (Jiskrova, 2022). Dallo studio emerge che tra i lavoratori più colpiti c’è il personale di industrie tecniche, del settore dell’ospitalità e dei servizi, ma anche i datori di lavoro di piccole imprese. Secondo alcuni autori (Horn, 2021), queste situazioni di alterazione emotiva si sono esasperate a seguito di una promessa nell’assicurare l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Con la pandemia, infatti, molti lavoratori sono passati da lavoratori tradizionali a “telelavoratori” (Papapicco & Quatera, 2021), avendo l’opportunità di lavorare in remoto a tempo pieno. Questo cambiamento ha modificato radicalmente il rapporto lavoratore-luogo di lavoro. In termini psicologici, infatti, i luoghi di lavoro non sono più un mezzo utile a raggiungere obiettivi professionali, per cui, i lavoratori si aspettano sempre più. Si aspettano, ad esempio, che i loro datori di lavoro forniscano benefici, indennità, flessibilità e un equilibrio maggiore tra lavoro e vita privata. E se le aziende non soddisfano i loro bisogni, porteranno il loro lavoro altrove.

La Great Resignation spiegata dalla psicologia dei bisogni

Una spiegazione alla base di questo fenomeno potrebbe essere ripresa dalle teorie classiche sulla psicologia della motivazione. Una delle più famose è la teoria di Maslow (Neher, 1991), che afferma che le nostre azioni sono motivate da determinati bisogni fisiologici. È spesso rappresentata da una piramide di bisogni, la cui base è costituita dai bisogni più elementari, fino ad arrivare ai bisogni più complessi, che si trovano al vertice. La gerarchia dei bisogni teorizzata da Maslow può essere suddivisa in due tipi: bisogni di carenza e bisogni di crescita. I bisogni di carenza contengono i bisogni fisiologici, di sicurezza, sociali e di stima, i quali sorgono a causa della privazione. Soddisfare queste esigenze di livello inferiore è importante per evitare spiacevoli conseguenze.

I bisogni di crescita, invece, occupano il vertice della piramide. Questi bisogni non derivano dalla mancanza di qualcosa, ma piuttosto dal desiderio di crescere come persona.

Mentre la teoria è generalmente descritta come una gerarchia abbastanza rigida, Maslow ha notato che l’ordine in cui questi bisogni sono soddisfatti non segue sempre questa progressione standard.

Nella Great Resignation, l’emergere dei bisogni individuali risulterebbe una risposta all’incertezza nei confronti degli stimoli ambientali. Per contenere questo fenomeno, infatti, le aziende dovrebbero attrezzarsi maggiormente con “strumenti psicologici”, in grado di comprendere i nuovi bisogni dei lavoratori.

 

Come pesci fuor d’acqua di Faggian e Fistarollo (2022) – Recensione

Subissati dalla presenza di crescenti obblighi e responsabilità, veniamo spinti all’interno di un vortice ipercinetico e fagocitante, che ha accelerato i nostri ritmi quotidiani, rendendoli letteralmente insaziabili.

 

Il testo Come pesci fuor d’acqua, scritto a quattro mani da Faggian e Fistarollo, si presenta come l’arguta risposta ad una domanda, ben poco confortante, che le attuali contingenze ci spingono a porci: perché la quotidianità si costella di mali e malesseri cui spesso non troviamo un riscontro organico, ma che con la loro disfunzionalità invasiva sono in grado di danneggiare più o meno stabilmente il benessere psicofisico?

Indubbiamente la qualità della vita è migliorata, rispetto ai tempi dei nostri antenati. Possiamo contare su un’esistenza più confortevole, meno irta di pericoli e insidie. Certo non dobbiamo temere il continuo attacco di feroci predatori in cerca del pane quotidiano, né dobbiamo addentrarci in perigliose avventure di caccia per procurarci il cibo. Tutto sembra molto più agevole, pratico, a portata di mano.

Ma questo improvviso proliferare di agi e comodità è un vantaggio veritiero o soltanto apparente?

Vivere più a lungo, si chiedono gli autori, significa sempre vivere meglio?

Per quanto auspicabile, una risposta positiva non sembra possibile. I dieci capitoli in cui si articola il testo danno dimostrazione del “silenzioso assedio” cui la nostra esistenza è quotidianamente sottoposta. Fattori interferenti, nemici insospettabili di cui talvolta neppure ci accorgiamo, ma che ci vessano con impietosa ricorsività, fino a condizionarci completamente. Subissati dalla presenza di crescenti obblighi e responsabilità, veniamo spinti all’interno di un vortice ipercinetico e fagocitante, che ha accelerato i nostri ritmi quotidiani, rendendoli letteralmente insaziabili. Dobbiamo non solo far di più e bene, ma dobbiamo anche far meglio degli altri, per sopravvivere ad una selezione spietata che, proprio come un predatore affamato, non ci lascia scampo.

Certo non combattiamo con fionda e clava, ma le cose non sembrano essere molto cambiate, dai tempi dei nostri antenati ad oggi. Anche adesso lottiamo per la sopravvivenza, e per riuscirci mettiamo in gioco tutte le risorse di cui siamo in possesso. Con risultati, ahimè, non sempre proficui.

Il culto del “troppo”

Gli autori descrivono i probabili “errori gestionali” che l’uomo ha compiuto lungo il corso della storia, e lo fanno con impeccabile rigore scientifico, per quanto volutamente stemperato da un tono distensivo e coinvolgente, a tratti persino ironico.

All’interno delle pagine le tematiche si susseguono con ritmo incalzante, disegnando un orizzonte diacronico che attraversa velocemente tutta la storia, dandoci dimostrazione dei numerosi obiettivi evolutivi raggiunti dalla specie umana: dalle braccia lunghe e ingombranti dell’homo erectus, che sapeva a stento arrampicarsi sugli alberi, alla motricità fine delle dita che si muovono sullo smartphone. Dall’alimentazione a base di bacche e radici, alle tavole imbandite di cibi e leccornie. Dallo scarseggiare di medicinali ad un eccesso di farmaci; da inadeguate condizioni igieniche alla costruzione di ambienti sin troppo puliti…tanto da mandare in tilt il sistema immunitario, provocando lo scatenarsi di allergie e intolleranze.

Non è solo questione di microbiota impazzito.

Forse ci siamo lasciati prendere un po’ la mano, in ossequio ad un “culto dell’eccesso” che, spiegano gli autori, ci sta impoverendo anziché arricchirci. Ci sta rendendo più deboli, quando avrebbe dovuto rafforzarci. Il “troppo” ci ha fatto perdere di vista il senso della misura. E così siamo fuori rotta. Fuori posto. Come pesci fuor d’acqua.

Un progressivo adattamento

Il mutare delle caratteristiche ambientali ha provocato un impatto nel patrimonio genetico dell’essere umano, comportandone il cambiamento: nulla di miracolistico o inspiegabile, in realtà. Si tratta di una selezione naturale il cui fattore discriminante risulta proprio una capacità di adattamento più o meno flessibile. Solo gli individui in grado di adattarsi al mutare delle condizioni ambientali hanno avuto la possibilità di sopravvivere e di trasmettere le proprie caratteristiche genetiche alla progenie, garantendosi una sopravvivenza non solo individuale, ma di specie.

Pensiamo soltanto che ai tempi dell’Homo Erectus la capacità di digerire il lattosio terminava con lo svezzamento, ma quando le carestie sempre più frequenti hanno reso meno possibile affidarsi alla caccia per l’approvvigionamento, ecco che l’uomo ha dovuto di nuovo mutare la propria struttura genetica, ripristinando la possibilità di digerire il lattosio anche in età adulta. Dunque soltanto coloro che riuscivano a cibarsi di latte e a trasmettere questa capacità ai propri discendenti guadagnavano una possibilità di continuazione della specie. Una concreta opportunità di fitness.

Ma quello adattivo è un processo che richiede il rispetto di un’adeguata tempistica. Non si può pensare ad una trasformazione genetica o epigenetica senza un timing adeguato. Il rischio, in caso contrario, è quello di un autentico “collasso evolutivo”: quello che gli autori chiamano mismatch evoluzionistico è proprio il mancato rispetto della sequenza temporale che consente al corpo di assimilare adattivamente i mutamenti imposti dall’ambiente, quelle trasformazioni cui la specie umana è stata spinta per garantire la propria continuazione, la perpetuazione del processo di fitness.

Dall’omeostasi all’allostasi

La velocità di cambiamento che ci siamo imposti è invece eccessiva, per certi aspetti distruttiva. Gli autori parlano molto efficacemente di autogol (p. 23) per indicare il danno che siamo riusciti a provocarci, in maniera avventata e anche un po’ ingenua. L’equilibrio omeostatico che garantisce il perdurare dei rapporti sistemici si è trasformato nel ben meno vantaggioso effetto allostatico, inteso come il prezzo che l’organismo è costretto a pagare, in termini stressori e di disagio, pur di adattarsi alle modifiche ambientali necessarie alle sopravvivenza e alla continuazione della specie.

Le conseguenze sono dannose, talvolta irreversibili, e quello che dovrebbe risultare un normale processo di adattamento ambientale diventa un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire: più siamo stressati più sentiamo il bisogno di fare, più siamo attivi e reattivi e maggiore è il nostro livello di stress.

Il miglioramento della qualità della vita è puramente illusorio, evidenziano gli autori.

I mali non sono diminuiti. Si sono soltanto trasformati, in isomorfismo con gli scenari esistenziali che abbiamo costruito. Ad un pericolo acuto e improvviso si è sostituita la presenza di un logoramento cronico, forse meno percepibile, ma non certo meno distruttivo e mortale: gli effetti di uno stress reiterato si ripercuotono sulla qualità e sulla durata della vita, accorciandone il corso e diminuendo, di conseguenza, anche le possibilità riproduttive.

Dunque dov’è il vantaggio evolutivo?

Dati alla mano, il cortisolo distrugge il sistema immunitario, e con esso la possibilità di difenderci dalle malattie. Lo stress favorisce l’insorgenza di disagi psichici di varia entità. Si conta che gli psicofarmaci accorcino l’aspettativa di vita di circa dieci anni, e che 8 milioni di morti all’anno siano dovute a patologie mentali (Faggian, Fistarollo, 2022). Ma chi non ha bisogno di psicofarmaci per riuscire a sostenere i ritmi vertiginosi che ci siamo imposti e a gestire lo stress che ne deriva? Dobbiamo essere svegli e operativi, e alla fine lo diventiamo talmente tanto da non riuscire più a prender sonno. Dunque ricorriamo alle benzodiazepine… una notte. Poi un’altra, e un’altra ancora. Fino a che non possiamo più farne a meno.

Tutto questo imperversare di farmaci e medicinali- soprattutto di antibiotici- ha finito col rendere più debole il nostro sistema immunitario, col risultato che, proprio per evitare il diffondersi di malattie, abbiamo finito per aumentarne la tipologia e la potenza virale.

Ma i conflitti paradossali dei nostri giorni non sono finiti qui. Abbiamo incrementato le competenze di linguaggio verbale per lasciarci irretire dal fascino di mezzi di comunicazione che non prevedono l’impiego delle parole. Vogliamo rispondere prontamente ad ogni sorta di stimolo e ci troviamo a fare i conti con l’ADHD. Aneliamo la libertà e siamo vulnerabili ad ogni tipo di dipendenza, inneggiamo all’individualismo ma temiamo la solitudine, amiamo essere al centro dell’attenzione –gli autori denunciano l’imperversare della Sindrome del Vip – per poi difendere strenuamente la nostra privacy, o nasconderci dietro la tastiera di un computer.

Il risultato è ben poco promettente. Un iperinvestimento sui mezzi informatici ha favorito il consolidarsi di un deficit di intelligenza creativa nelle nuove generazioni. I c.d. bambini digitali si limitano ad elaborare i dati passivamente percepiti dalla rete: stimoli non stimolanti e immagini senza immaginazione che, nel paradossale intento di svegliare le menti, le sovraccaricano di dati inutili rallentandone il funzionamento. Ancora una volta, nel tentativo di raggiungere un obiettivo, abbiamo ottenuto l’esatto contrario.

Il significato dell’autogol

Il nostro stress risulta, per così dire, poco utile; una continua allerta di fondo alla quale non segue mai un vero e proprio sollievo. Queste continue gocce di stress risultano maggiormente logoranti di un forte acquazzone (p. 22):  questa significativa frase del testo in un certo senso ne sintetizza efficacemente il ben più ampio contenuto.

Stiamo sprecando inutilmente energia e salute, condannandoci a condizioni di vita che non ci procurano alcun vantaggio. La battaglia non è più contro predatori esterni, ma contro nemici interni non meno letali. La società che abbiamo costruito si sta rivelando una trappola mortale, foriera di aspetti abortivi più che generativi: si vive, ma si vive male, e pagando un prezzo innegabilmente alto.

Il tono divagante e ironico con cui gli autori sono capaci di esprimersi non deve trarre in inganno sulla complessità delle tematiche oggetto del libro: abbiamo sopravvalutato le nostre possibilità. Siamo giganti con i piedi di argilla che, a fronte di un ritmo così vertiginoso, non sanno tenere il passo. E il paradosso è che crediamo di esserci fatti un favore. Così, quelle che abbiamo etichettato come agevolazioni sono diventate difficoltà, quelle che sembravano liberazioni ci hanno messo in gabbia. Non ci siamo dati il tempo per affrontare le modifiche ambientali che noi stessi, con la nostra compulsiva frenesia fattiva, abbiamo provocato. Lo scenario che si prospetta è quello di una colossale sconfitta evolutiva, o quantomeno di una vittoria di Pirro.

Allora è tutto da rifare?

Forse no. Eliminare lo stress si dimostra la chiave risolutiva del dilemma. Più facile a dirsi che a farsi. Ma è necessario. In fondo non siamo cambiati poi così tanto, rispetto ai nostri antenati; gli istinti primari sono rimasti i medesimi: anche oggi desideriamo trovare il compagno giusto, riprodurci e garantirci la fitness, aspiriamo all’approvvigionamento quotidiano e alla possibilità di superare l’avversario nella conquista della preda, sperando di non divenire prede a nostra volta. Solo che tante sovrastrutture ci hanno spinto a barattare l’obiettivo principale con dettagli periferici e fuorvianti.

Dobbiamo riprendere la rotta. Ci riusciremo, senza tenderci sabotanti trappole antievolutive?

In attesa di trovare una risposta godiamoci il libro di Faggian e Fistarollo, cercando di cogliervi il ritratto di una società che, per quanto inadeguata, non si è certo costruita da sola. E che, armati di spirito di consapevolezza, autoefficacia e senso critico siamo ancora in grado di modificare.

Per cambiare in tempo basta, forse, darsi il tempo di cambiare.

 

Come un trauma infantile influenza il funzionamento sessuale adulto?

Il meccanismo fisiologico alla base della correlazione tra disfunzione sessuale e trauma infantile sembra essere l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il principale sistema responsabile della risposta allo stress.

 

I traumi infantili

Gli anni dell’infanzia sono considerati un periodo importante per lo sviluppo psicosessuale: traumi e abusi durante questa fase possono influenzare la crescita sociale, il funzionamento interpersonale e quello sessuale in età adulta, spesso causando la paura dell’intimità (Maltz, 2002). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riportato che le donne e gli uomini che riferiscono di aver subito un abuso sessuale infantile (Childhood Sexual Abuse; CSA) sono rispettivamente 1 su 5 e 1 su 13. Anche il numero degli abusi fisici sembra essere molto elevato, pari ad un quarto della popolazione adulta mondiale (WHO, 2018).

Sebbene non tutte le persone che hanno vissuto un abuso sessuale infantile abbiano un funzionamento sessuale compromesso in età adulta, tra le persone che si rivolgono ad un professionista per una terapia sulle disfunzioni sessuali, la maggior parte di loro ha subìto avversità infantili (56% delle donne e 37% degli uomini; Berthelot et al., 2014) e la ricerca scientifica spesso non ha ben chiari i fattori psicologici che influenzano la sessualità della vittima e i principali obiettivi da affrontare.

Nello specifico, si ritiene opportuno identificare i meccanismi che possono essere alla base o mediare la relazione tra le esperienze traumatiche infantili e il funzionamento sessuale adulto. La letteratura, con il passare degli anni, ha tentato di studiare i meccanismi fisiologici e psicologici che potessero spiegare la relazione tra disfunzione sessuale adulta e trauma infantile, individuando l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) come un possibile mediatore fisiologico mentre la depressione e lo stress quotidiano come mediatori psicologici. Questi ultimi infatti sono correlati al trauma infantile, alla disfunzione sessuale e al funzionamento dell’asse HPA (Heim & Nemeroff, 2001).

Il legame tra disfunzioni sessuali e traumi infantili

Negli ultimi decenni è stata infatti esplorata, tramite studi longitudinali epidemiologici e trasversali, la correlazione tra disfunzione sessuale e trauma infantile. Sebbene i risultati non siano sempre coerenti, gli studi sono concordi nel ritenere che le esperienze traumatiche infantili, in particolare il trauma sessuale, possa essere considerato un fattore di rischio per la disfunzione sessuale adulta. Questa spesso include bassi livelli di desiderio sessuale, difficoltà nel raggiungimento dell’orgasmo e problemi nell’eccitazione sessuale nelle donne che hanno subìto maltrattamenti nell’infanzia (Rellini, 2005).

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il principale sistema responsabile della risposta allo stress, sembra invece essere il meccanismo fisiologico alla base della correlazione tra disfunzione sessuale e trauma infantile. In situazioni altamente stressanti, essendo molto plastico, l’asse HPA subisce delle alterazioni che provocano una disregolazione a lungo termine. Gli effetti di un trauma infantile, che rientra nelle situazioni altamente stressanti sopra menzionate, raggiungono livelli molto elevati sull’asse HPA in età adulta. Inoltre le alterazioni del cortisolo sono molto importanti nel funzionamento sessuale, in quanto sono implicate nella motivazione e nella risposta sessuale. In molte persone che hanno subìto traumi infantili si sono osservate alterazioni nella secrezione di cortisolo come ad esempio ipo-cortisolismo, iper-cortisolismo e i livelli di cortisolo, che solitamente è alto al risveglio e cala progressivamente fino a sera, rimanevano invariati durante la giornata. Le variazioni del ritmo del cortisolo e delle funzioni regolative hanno infatti delle conseguenze negative sulla salute fisica e mentale (Adam et al., 2017). Una ricerca, per esempio, ha sottolineato che alcune donne con disturbo da desiderio sessuale ipoattivo avevano livelli diurni di cortisolo invariati (Basson et al., 2019). Inoltre, le donne che hanno avuto esperienze traumatiche infantili, spesso hanno una maggiore sensibilità per i fattori di stress generali e un sottosviluppo delle capacità di far fronte allo stress quotidiano; quest’ultimo ha effetti altamente negativi per il funzionamento sessuale ed è correlato a una minore qualità coniugale che può influire sulla funzione sessuale (Hamilton & Julian, 2014). Quando si fa una diagnosi di disturbo del desiderio sessuale è necessario quindi tenere in considerazione gli effetti di uno stress significativo (APA, 2013). Infine la depressione può potenziare la relazione tra difficoltà sessuali e traumi infantili in quanto è spesso in comorbilità sia con le une che con gli altri. I cambiamenti della gravità dei sintomi depressivi sembrano corrispondere alle variazioni della risposta sessuale durante lo stesso giorno (Kalmbach et al., 2014).

Traumi infantili, depressione e disfunzioni sessuali

O’Loughlin e colleghi, nel 2020 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare i contributi della disregolazione dell’asse HPA, del trauma infantile, dei sintomi depressivi e dello stress quotidiano sulla funzione sessuale (valutata tramite il desiderio sessuale e cioè tramite la presenza di disturbo ipoattivo del desiderio sessuale, in inglese: hypoactive sexual desire disorder HSDD), in un campione di donne non clinicamente depresse. 275 donne sono state incluse nel campione e sono stati loro somministrati il Decreased Sexual Desire Screener (DSDS; Clayton et al., 2009 ) per valutare il disturbo da desiderio sessuale ipoattivo; il Sexual Interest and Desire Inventory-Female (SIDI-F; Clayton et al., 2006) per ottenere una misura continua del desiderio sessuale; il Beck Depression Inventory-II (BDI-II; Beck et al., 1996) per misurare la severità dei sintomi depressivi; il Questionario sul trauma infantile (CTQ) che valuta la gravità di vari tipi di esperienze traumatiche infantili (Bernstein & Fink, 1998); la Scala dello stress percepito (PSS; Cohen & Williamson, 1988); la Scala di valutazione delle relazioni (RAS) per valutare la soddisfazione globale delle relazioni (Hendrick, 1988); infine è stato rilevato il cortisolo salivare. I risultati mostrano che la depressione è il predittore più potente della diagnosi di disturbo ipoattivo del desiderio sessuale, anche tenendo conto della funzione dell’asse HPA, dello stress percepito e del trauma infantile: le avversità infantili sono collegate al desiderio sessuale soprattutto tramite i sintomi depressivi e non tramite le variazioni diurne di cortisolo né tramite lo stress percepito. Inoltre la variazione diurna di cortisolo, coerentemente con gli studi che avevano sottolineato il ruolo del cortisolo nella motivazione e nella risposta sessuale, è risultata essere significativamente associata al disturbo ipoattivo del desiderio sessuale. Le avversità infantili sono associate sia ai sintomi depressivi che allo stress quotidiano, sebbene quest’ultimo non sia significativamente associato al desiderio sessuale. Infine sembrerebbe che non vi sia una relazione significativa tra il trauma infantile e le variazioni giornaliere di cortisolo.

I risultati ottenuti evidenziano l’utilità di una valutazione della depressione nelle donne con problemi nel desiderio sessuale: quando le donne hanno avuto un trauma infantile e presentano depressione e basso desiderio sessuale, la depressione può essere un punto di intervento efficace per il trattamento. In conclusione sembra che un grave trauma infantile influisca sul desiderio sessuale tramite una disregolazione del cortisolo provocata da dei problemi del funzionamento dell’asse HPA.

Selettività alimentare in età pediatrica – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Mio figlio non mangia niente! Selettività alimentare in età pediatrica’.

 

Nel 2013 il disturbo evitante-restrittivo dell’assunzione del cibo è stato incluso nella categoria dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Con il termine alimentazione selettiva si descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi. Quando il genitore tenta di ampliare la gamma di cibi il bambino reagisce con ansia e disgusto. Tale disturbo ha un importante impatto sul funzionamento sociale del bambino e sulle dinamiche familiari, per questo richiede un trattamento multidisciplinare che includa interventi dal punto di vista psicologico, nutrizionale e medico.

Nell’episodio del podcast dal titolo ” ‘Mio figlio non mangia niente! Selettività alimentare in età pediatrica”, l’argomento sarà approfondito dalla Dott. ssa Lucia Candria, Psicologa, Psicoterapeuta e dalla Dott.ssa Valeria Bracalenti, Biologa Nutrizionista.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Alta ruminazione e musica triste: quale effetto sull’umore?

Ascoltare musica è una strategia efficace usata per regolare specifici momenti di tristezza, ma è ancora in dubbio se ascoltare musica triste quando si è tristi sia benefico per le persone con un alto livello di ruminazione.

 

Quotidianamente le persone possono provare tristezza in risposta a specifici fattori ambientali, sperimentando per un tempo più o meno circoscritto cognizioni e sintomi corporei vari (Barrett, 2006). Infatti, la tristezza, è considerata un’emozione transitoria con episodi che in genere si attenuano entro 30 minuti dall’inizio (Verduyn et al., 2009). Tuttavia, la tristezza può anche essere uno stato d’animo più duraturo, non specifico, e questo può essere conseguente a una cattiva regolazione delle emozioni (Gross, 1998).

Alcuni studi precedenti hanno suggerito che la musica può essere spesso utilizzata come modo per regolare le emozioni negative (ad es, Vidas et al., 2020). Con questo intento, le persone possono preferire l’ascolto di musica che esprime l’emozione vissuta in quel momento (Taylor & Friedman, 2015).

Le proprietà della musica nel regolare le emozioni

Dingle e colleghi (2019) hanno sostenuto che l’ascolto di musica emotivamente congruente è un modo adattivo per regolare le emozioni. Il modello Access-Awareness-Autonomy (AAA) della competenza socio-emotiva musicale postula che le proprietà emotive della musica consentano una maggiore consapevolezza e accesso alle istanze emotive (Saarikallio, 2019). Infatti, gli interventi che impiegano l’uso dell’esplorazione emotiva con l’ascolto di musica emotivamente congruente sono stati correlati a una migliore regolazione delle emozioni e alla salute psicologica (Dingle & Fay, 2017; Dingle, Hodges, & Kunde, 2016). Questi risultati sembrano essere anche più frequenti tra i più giovani; I giovani adulti (17-25 anni) hanno riportato una preferenza per l’uso della musica per immergersi nella tristezza rispetto agli adulti con più di 25 anni (Dingle, Sharman, & Larwood, 2019).

L’ascoltare musica è una strategia efficace usata per regolare specifici momenti di tristezza, ma è ancora in dubbio se ascoltare musica triste quando si è tristi sia benefico per le persone con un alto livello di ruminazione (Garrido & Schubert, 2013).

In letteratura è stato dimostrato che la musica triste (sia essa selezionata dallo sperimentatore o selezionata dal partecipante) aumenta la tristezza, e che le persone con un alto livello di ruminazione hanno mostrato maggiori preferenze per la musica triste durante la tristezza indotta sperimentalmente (Garrido & Schubert, 2013).

Garrido e Schubert (2015a, 2015b) hanno considerato la ruminazione di tratto un predittore per l’aumento di tristezza durante l’ascolto di musica triste selezionata dai partecipanti. In entrambi gli studi, Garrido e Schubert (2015a, 2015b) hanno scoperto che quando i partecipanti hanno ascoltato una musica auto-nominata che induce alla tristezza in uno stato di base, la tristezza è aumentata dal pre al post ascolto. Ma, in merito, i risultati presenti in letteratura sono discordanti (Dingle et al., 2019).

Per spiegare l’influenza della musica sugli stati emotivi, è stato formulato il modello BRECVEMA (Juslin, 2013). Il modello BRECVEMA include il meccanismo del contagio emotivo, dove l’ascoltatore fa proprie le emozioni espresse dall’artista, le associazioni e/o i ricordi specifici che la canzone rievoca all’ascoltatore (Juslin, Harmat, & Eerola, 2014). Per ora, non esistono risultati in merito al collegamento tra ruminazione e meccanismi di induzione musicale proposti nel modello BRECVEMA.

Musica triste e ruminazione

Per testare il ruolo della ruminazione in questo processo, uno studio di Larwood e Dingle (2021) ha indagato l’effetto della ruminazione nel predire i cambiamenti nella tristezza quando si ascolta musica triste. Il campione utilizzato era di giovani adulti (18-25 anni) perché questo riflette la propensione delle persone sotto i 25 anni a usare la musica per regolare le loro emozioni (Dingle et al., 2019; Vidas et al., 2020). I brani ascoltati durante le sessioni sperimentali sono state scelte dai partecipanti stessi, permettendo così una variazione nei meccanismi BRECVEMA sperimentati, in particolare le associazioni e i ricordi.

I risultati hanno dimostrato che, coerentemente con Garrido e Schubert (2015b), è stato riscontrato un effetto moderatore della ruminazione, per cui i partecipanti con un alto livello di ruminazione hanno sperimentato un maggiore aumento della tristezza da prima a dopo l’ascolto.

Quando le altre variabili, come ad esempio i ricordi legati alla canzone, venivano inseriti nel modello, la ruminazione non mostrava più un effetto moderatore nella relazione.

Le analisi esplorative hanno suggerito che gli aumenti di tristezza dal pre al post ascolto musicale sono stati predetti dalla presenza di contagio emotivo, memorie e condizionamento, ma non dalla ruminazione. Questo risultato è in linea con altri studi (ad es, Cespedes-Guevara & Eerola, 2018), che specificano che i meccanismi di BRECVEMA si verificano in base alla canzone ascoltata e alla relazione che l’ascoltatore ha con essa.

Nonostante i risultati delle analisi esplorative non abbiano confermato l’effetto moderatore della ruminazione, ciò non nega la scoperta che la ruminazione ha predetto un aumento della tristezza dal pre al post ascolto. Tuttavia, suggerisce che i risultati potrebbero non essere puramente attribuibili alla ruminazione a livello di tratto. È possibile che le persone con un alto livello di ruminazione selezionino canzoni che hanno più probabilità di innescare certi meccanismi di BRECVEMA o che le persone con un alto livello di ruminazione siano più suscettibili allo sperimentare meccanismi di BRECVEMA.

In conclusione, è stato riscontrato un effetto della ruminazione tale che punteggi più alti di ruminazione prevedevano maggiori aumenti di tristezza dal pre al post ascolto. Tuttavia, questo effetto non sembra essere indipendente dai noti meccanismi di induzione delle emozioni musicali. La ricerca futura è quindi necessaria per stabilire se il tratto di ruminazione influenzi la selezione di canzoni che inducono tristezza o se il tratto di ruminazione predice una sensibilità generale ai meccanismi del BRECVEMA. Infine, i risultati dello studio suggeriscono che quando si considera l’uso della musica come una strategia di regolazione delle emozioni con giovani adulti ad alto rischio di disturbi dell’umore, si deve prestare attenzione al loro stile di ascolto, alla personalità e ai processi psicologici associati a canzoni specifiche.

 

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