expand_lessAPRI WIDGET

Il ruolo del senso di colpa e della vergogna nelle abbuffate

Uno studio di Bottera e colleghi del 2020, ha tentato di distinguere la vergogna e il senso di colpa in relazione alle abbuffate e al vomito auto-indotto.

 

Il rapporto tra abbuffate e affettività negativa

I disturbi alimentari spesso hanno come fattore di rischio transdiagnostico l’affettività negativa (negative affect; NA), tanto che diversi studi hanno dimostrato un rapido aumento di affettività negativa nelle ore precedenti e successive alle abbuffate (Berg et al., 2015). Heatherton & Baumeister, nel 1991 hanno proposto la teoria della fuga che può fornire una possibile spiegazione all’associazione tra abbuffate e affettività negativa. Tale teoria afferma che le emozioni negative che implicano un’autovalutazione come la colpa e la vergogna, in modo molto più efficace rispetto alle emozioni negative non auto-valutative (e.g. tristezza) possono “essere fuggite” mettendo in atto dei comportamenti che facilitano un restringimento cognitivo. Le abbuffate possono quindi momentaneamente alleviare emozioni come il senso di colpa e la vergogna attraverso il restringimento cognitivo. Il senso di colpa è risultato infatti essere maggiore rispetto ad altre emozioni come ostilità, paura e tristezza nelle ore precedenti e successive a un episodio di abbuffata e potrebbe quindi essere un aspetto dell’affettività negativa particolarmente rilevante per il verificarsi di quest’ultima (Berg et al., 2013). In particolare sembra che il senso di colpa sia diminuito maggiormente e più velocemente negli individui con bulimia nervosa che non si sono impegnati nel vomito auto-indotto rispetto a quelli con anoressia nervosa.

Senso di colpa e vergogna: quale differenza?

È importante però distinguere la vergogna dal senso di colpa: sebbene si assomiglino apparentemente, la vergogna e il senso di colpa possono essere associate in modo diverso ai comportamenti di un disturbo alimentare, poiché hanno importanti differenze concettuali che implicano conseguenze diverse. La vergogna è concettualizzata come il sentirsi male con sé stessi in seguito ad una trasgressione (e.g.: sono una brutta persona); inoltre è indice di un problema all’interno del sé che provoca conseguenti giudizi all’identità più che alle circostanze (Tangney & Dearing, 2002). Il senso di colpa implica invece il sentirsi male per un comportamento e un’autovalutazione negativa in seguito a qualche fattore esterno; può essere quindi visto come un’esperienza emotiva adattiva che promuove l’impegno in situazioni sociali attraverso azioni correttive (Lewis, 1971). La vergogna invece non provoca nessuna azione riparativa, può essere un’esperienza emotiva che si tenta di evitare tramite comportamenti di un disturbo alimentare.

Gli studi che si sono occupati di studiare le oscillazioni del senso di colpa, tuttavia, hanno utilizzato la subscala del Positive and Negative Affect Schedule (PANAS-X; Watson & Clark, 1999) che non permette di distinguere la colpa dalla vergogna; alcuni risultati della letteratura affermano però che i pazienti con disturbi del comportamento alimentare (DCA) mostrano una maggiore vergogna rispetto al senso di colpa (Oluyori, 2013). È possibile dunque che la vergogna sia un’altra componente importante della affettività negativa.

La relazione tra disturbi alimentari, vergogna e colpa

Sebbene molti studi abbiano studiato le relazioni tra la psicopatologia alimentare e gli stati affettivi, nessuno tra questi si è mai occupato di confrontare gli effetti della colpa e della vergogna sui comportamenti messi in atto dai pazienti con disturbi alimentari. Uno studio di Sanftner e colleghi del 1995, per esempio, ha sottolineato che la vergogna è più facilmente associata ad alcuni sintomi specifici tra i quali il desiderio di magrezza, il vomito auto-indotto e le abbuffate mentre il senso di colpa era negativamente associato ai comportamenti di un disturbo alimentare. La teoria della fuga suggerisce infatti che le abbuffate sono particolarmente efficaci per allontanare i sentimenti di vergogna; i comportamenti che seguono le abbuffate come il vomito auto-indotto, al contrario, possono essere interpretati come azioni riparative per tentare di annullare gli effetti di queste. È possibile quindi che il senso di colpa conseguente a un’abbuffata possa predire il vomito.

Abbuffate, vergogna e senso di colpa

Uno studio di Bottera e colleghi del 2020, ha tentato di distinguere la vergogna e il senso di colpa in relazione alle abbuffate e al vomito auto-indotto. Le ipotesi formulate dagli autori erano quindi che la tendenza a provare vergogna e la vergogna di stato fossero associate alle abbuffate in quanto queste ultime possono essere utilizzate per sfuggire alle esperienze stesse di vergogna; e che la tendenza a sentirsi in colpa e il senso di colpa di stato fossero positivamente associati al vomito negli gli individui che si abbuffano, in quanto può essere utilizzato come azione riparativa per le abbuffate. 347 partecipanti hanno completato le sottoscale di vergogna e colpevolezza del Test of Self-Conscious Affect (TOSCA-3; Tangney et al., 2000); la State Shame and Guilt Scale (SSGS; Marschall et al., 1994) per valutare la vergogna e il senso di colpa; la Eating Disorder Diagnostic Scale (EDDS; Stice et al., 2000) che valuta gli atteggiamenti e i comportamenti relativi al Disturbo Alimentare; infine le scale analogiche visive (VAS) utilizzate per valutare gli stati soggettivi (Wewers & Lowe, 1990) sono state create per valutare alcune variabili momentanee tra cui la fame, la voglia di abbuffarsi e la voglia di vomitare.

I risultati mostrano che la vergogna è associata soltanto alle abbuffate e all’impulso di abbuffarsi mentre il senso di colpa non risulta esserne significativamente legato. Inoltre, al contrario di quanto ipotizzato, il senso di colpa non è risultato associato al vomito auto-indotto tra coloro che si abbuffano. Tali risultati mostrano quindi che la vergogna e il senso di colpa hanno un ruolo differente nei sintomi di un disturbo alimentare: solo la vergogna sembra suscitare sempre il desiderio di abbuffarsi. 

 

ABC della sessualità: per costruire un’alleanza terapeutica – Podcast Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘ABC della sessualità: per costruire un’alleanza terapeutica migliore’.

 

È disponibile sulle principali piattaforme Terapeuti al Lavoro, il podcast realizzato da State of Mind dedicato ai professionisti della salute mentale, che raccoglie i più interessanti webinar di formazione su vari temi della psicoterapia e della psicologia clinica

Nell’episodio che pubblichiamo oggi per i nostri lettori parliamo di sessualità. Nell’episodio sono fornite le nozioni di base che riguardano la sessualità: sesso assegnato alla nascita, identità di genere, ruolo ed espressione di genere e l’orientamento affettivo e sessuale. Per comprendere maggiormente questi aspetti della sessualità verrà utilizzato il Genderbread Person nella versione italiana tradotta dal gruppo fluIDsex di Sigmund Freud University.

Sono illustrate, quindi, tutte le terminologie che vengono utilizzate per descrivere l’identità sessuale: gender fluid, non-binary, gender nonconforming, fluidità sessuale, poliamore e molto altro. Lo scopo di questo webinar è di condividere una terminologia comune per poter capire il mondo attorno a noi e la sua veloce evoluzione.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologa, Educatrice Pedagogica, Collaboratrice presso il Centro Età Evolutiva delle Cliniche Italiane di Psicoterapia e Docente presso Sigmund Freud University Milan e dal Dott. Luca Daminato, Dottore in Psicologia, Dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan

 

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Il Colloquio Rideterminativo: modello di intervento psicoterapeutico

Il Colloquio Rideterminativo conduce il paziente, attraverso una serie di domande mirate alla scoperta delle sue regole e dei suoi schemi interpretativi e valutativi, a un graduale sviluppo della consapevolezza sui diversi livelli rappresentazionali.

 

I processi taciti

Negli ultimi anni le terapie orientate cognitivamente hanno affinato i loro modi di affrontare gli aspetti centrali della conoscenza personale cercando di inglobare nel loro campo di indagine quelli meno accessibili, ampliando la prospettiva idiografica orientata al significato ed operando un marcato spostamento dall’analisi dei fatti oggettivi a quella dei significati soggettivi.

Questo spostamento si è gradualmente determinato sviluppando le impostazioni teoriche già presenti nella seconda rivoluzione cognitiva, si pensi alla Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly, al concetto di pensiero sovraordinato nei problemi Secondari di Ellis, sino alla più marcata accentuazione posta da Guidano con le Organizzazioni di Significato Personale.

Tali conclusioni hanno evidentemente modificato sostanzialmente l’idea che avevamo sul funzionamento dell’individuo, proponendo approfondimenti teorici che hanno avuto una chiara ricaduta nell’ambito procedurale di chi si occupa di psicoterapia, consentendo nel contempo di recuperare ed integrare coerentemente rilevanti intuizioni che non avevano avuto la giusta attenzione per ragioni di “coerenza interna” delle teorie di riferimento precedentemente accettate.

Tra i vari temi proposti quello sicuramente più rilevante risulta essere l’accettazione dei processi taciti come elementi fondamentali nella costruzione della conoscenza individuale.

Se all’interno di un quadro di riferimento evolutivo si assume una prospettiva motoria della mente, gli aspetti taciti (ordine sensoriale preverbale), ed espliciti (pensiero verbale cosciente), della conoscenza appaiono come l’espressione di due livelli di processi cognitivi reciprocamente interconnessi, sebbene differenti (Guidano, 1987).

I dati che provengono dalle neuroscienze hanno confermato questa ipotesi definendo i processi di elaborazione tacita come schemi emozionali connessi alle corrispondenti regole per gestirli.

Queste regole altro non sono che procedure automatiche le quali, basandosi su processi associativi di natura iconica, interpretano e valutano le esperienze confrontandole con situazioni precedenti che contengano elementi simili e utili ad una qualche comprensione dell’evento vissuto.

Tale comparazione risulta più efficace se avviene sulla base di una regola combinatoria, che appare più potente in termini di quantità di informazioni se si avvale di una rappresentazione per immagini e, inoltre, questo codice (analogico) svolge egregiamente il suo lavoro anche in assenza del codice simbolico del linguaggio che da un punto di vista evolutivo appare solo successivamente.

Le scene nucleari forniscono così i tratti fondamentali che consentono di ordinare il flusso delle esperienze fornendo una matrice interpretativa stabile, sebbene pre-cosciente, che permetterà gradualmente di costruire le prime rappresentazioni di sé e del mondo. Come sostiene Damasio:

Di fatto si potrebbe sostenere che il contenuto coerente della narrazione verbale della coscienza – indipendentemente dalle bizzarrie della sua forma – permette di dedurre la presenza dell’altrettanto coerente narrazione non verbale per immagini che io propongo come fondamento della coscienza (Damasio, 2000).

Ora, se la psicoterapia cognitiva si è da sempre caratterizzata sulla base di una prospettiva centrale che definisce i comportamenti del soggetto come conseguenti al significato soggettivo che egli attribuisce agli eventi, interni od esterni che siano, o in termini più costruttivisti, come l’individuo elabora la realtà che lo circonda utilizzando gli schemi conoscitivi a sua disposizione, appare evidente che debba coerentemente integrare in questa prospettiva gli elementi di elaborazione tacita utilizzati dal soggetto.

Il rendere esplicite queste conoscenze e convinzioni consente all’individuo di poterle rielaborare acquisendone i significati sottesi e di poterle riscrivere in termini più funzionali al proprio stile di vita.

Dopo che ne avrà modificato le eventuali distorsioni cognitive l’individuo le potrà inserire, coerentemente, nella rappresentazione del Sé. (Cicinelli 2003)

Questi nuovi significati potranno quindi indurre dei processi di riorganizzazione, offrendo in tal modo spunti di riflessione ed approfondimento secondo le capacità del paziente, capacità che saranno modificate ed incrementate dall’instaurarsi del processo di rideterminazione attuato.

Il problema principale che si pone quindi risulta essere connotato da difficoltà procedurali piuttosto che teoriche, di come cioè accedere a questo materiale e come utilizzarlo per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

Ellis, alla fine degli anni quaranta, di fatto sviluppò la terapia cognitiva spostando l’attenzione dello psicoterapeuta dai processi inconsci a quelli coscienti e formalizzando il Colloquio Psicoterapeutico Cognitivo presentando il Modello ABC.

Tale modello si struttura come una indagine lineare che ha lo scopo di rappresentare il rapporto esistente tra gli A, definiti come gli avvenimenti, gli antecedenti, che fungono da stimolo per il soggetto; i B, le credenze, i ragionamenti e comunque tutte le attività mentali riconducibili agli antecedenti ed i C intesi come conseguenze di natura emotiva e comportamentale.

Lo schema così proposto risulta apparentemente semplice e lascia supporre che anche la sua applicazione pratica nel trattamento risulti abbastanza agevole.

In realtà le cose non stanno esattamente così, l’indagine sui B impone la distinzione delle attività e dei processi cognitivi operanti, e la presa in esame delle varie e complesse attività psichiche come le valutazioni, le inferenze, i giudizi, le descrizioni, le anticipazioni, gli schemi di riferimento personali.

Un modello -del funzionamento umano- più esplicativo da un punto di vista teorico è quello proposto da Cesare De Silvestri elaborato sulla base del modello ABC e del Modello lineare a 8 punti di Richard Wessler (Wessler 1980) e riportato in Figura 1.

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 1

Schematizzando al massimo un singolo episodio di funzionamento, individuiamo al punto 1: il contesto, la massa degli stimoli provenienti dall’ambiente, uno di tali eventi viene in genere attivamente scelto dall’attenzione selettiva, punto 2: l’individuo sulla base delle aspettative di quel momento dipendenti dal suo attuale sistema di convinzioni, valori e regole. Questo stimolo, attivamente selezionato tra i tanti, viene percepito, descritto e definito al punto 3: simbolizzazione – dove viene rappresentato in termini analogici, iconici e/o linguistici e, successivamente, al punto 4: inferenze, interpretazioni – l’individuo gli attribuisce un senso ed un significato a fini previsionali operando una serie di interpretazioni e inferenze che lo portano ad emettere una specie di valutazione globale al punto 5: dove esprime in termini idiografici di giudizio e/o apprezzamento per la specifica importanza dell’evento considerato alla luce della sua concezione di benessere ed è qui che, secondo De Silvestri avverrebbe il più importante processo cognitivo della sequenza. Si realizza cioè il passaggio dai precedenti processi cognitivi relativamente “freddi” di definizione ed interpretazione della percezione dell’evento, a quelle che vengono chiamate “cognizioni calde”, marcate dall’assegnazione di valore intrinsecamente legata al significato attribuito all’evento in ragione di una complessa elaborazione, che ne definisce l’importanza  nel rapporto dei propri schemi personali di vita e di benessere.

Tale passaggio si accompagna ed induce una variazione più o meno marcata dello stato di attivazione del suo sistema nervoso autonomo, punto 6, che si manifesta attraverso risposte emozionali che provocano in genere una risposta neuromuscolare al punto 7, dove si attuata mediante un’azione o un  comportamento.

La variazione si esprime nell’ambiente in cui si trova l’individuo e può provocare quindi reazioni e risposte: punto 8, che chiudono il feedback relazionale individuo/ambiente e che a loro volta possono  determinare cambiamenti nel contesto: punto 1, che possono ulteriormente venir focalizzate dall’attenzione selettiva, punto 2, ed elaborate in un nuovo episodio di funzionamento.

Tale modello delinea più chiaramente le molteplici interazioni esistenti tra le varie funzioni cognitive, evidenziando la complessità delle variabili in causa nella elaborazione di un evento e proponendo implicitamente livelli di elaborazione non consapevoli.

Inoltre tale rappresentazione ci costringe ad abbandonare un livello di lettura lineare suggerendo come  tutte le attività cognitive siano in grado di influenzare più o meno direttamente le altre in una interconnessione a raggiera abilmente illustrata visivamente nel modello.

Modello che deve allora essere integrato con la presenza strutturale dell’elaborazione tacita, inserendo un elemento rappresentativo degli schemi personali di base che definisca teoricamente le ipotesi proposte.

Ecco quindi come si presenta il modello rivisitato (Figura 2):

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 2

Una particolare attenzione deve allora essere posta sul nucleo centrale dove abbiamo indicato la presenza degli schemi personali. Questi a loro volta possono essere individuati secondo i vari livelli di consapevolezza ed indicativamente suddivisi come in  Figura 3:

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 3

Inizialmente troviamo I Pensieri Automatici: sono le cognizioni più vicine alla consapevolezza, sono rappresentate da parole o da piccole frasi che attuano una prima lettura dell’evento. E’ questo il livello a cui fa riferimento Beck con la sua Analisi Cognitiva, interessata ai livelli inferenziali e alle varie distorsioni cognitive.

Esse sono regole che sono state elaborate consapevolmente, accettate come procedure vere e utili e che nel tempo, in ragione del principio del risparmio psichico, sono successivamente state automatizzate.

Sono anche quelle più facilmente confutabili ai fini di una rivisitazione o di un cambiamento in quanto in genere non attivano direttamente strutture cognitive più importanti.

Nel mezzo abbiamo le Convinzioni Intermedie: regole, opinioni, credenze che predicano comunque su noi stessi, gli altri e le relazioni con l’ambiente. Ci permettono di organizzare la nostra esperienza, prendere decisioni. Sono presenti sia in forma tacita che esplicita, risultano necessariamente molto stabili, ma sono soggette a possibili cambiamenti in ragione di particolari esperienze. Possono essere esprimibili verbalmente sebbene in forma telegrafica, mantenendo gran parte dei significati a livello sincretico.

Sono rigide e assolute, non tendono ad interpretare la realtà ma la rappresentano e la definiscono; potremmo dire che esse sono la realtà, così come è percepibile dagli occhi del soggetto. Possiamo collocare in questo stadio le Idee Disfunzionali di Ellis.

In ultimo troviamo i core beliefs: le convinzioni di base; convinzioni così profonde che le persone non le esprimono neanche a se stesse. Sono considerate più che verità assolute e indiscutibili in quanto identificano e definiscono sé stessi (schema di sé), gli altri (schema degli altri) e le relazioni con gli altri (schema interpersonale). Esse rappresentano i massimi livelli di organizzazione dell’individuo, quello che la persona “sente” potentemente dentro di sé come una tendenza a “fare”. Essendo costituite da schemi interpretativi di base sono essenzialmente stabili, rigide, analogiche. Il loro scopo è quello di strutturare i successivi livelli interpretativi. Non sono sempre verbalizzabili e quando è possibile renderle consapevoli vengono espresse con un linguaggio sincretico ove i significati sottesi restano preponderanti.

In termini clinici tali cognizioni risultano spesso inavvicinabili da un’analisi consapevole, tanto da dover imporre una completa “rideterminazione” dei sentiti emozionali, che devono essere interpretati e definiti sulla base delle conoscenze e convinzioni della persona, per facilitare la costruzione di una nuova narrativa di Sé, più articolata e funzionale.

La complessità del modello deriva dal fatto che i livelli taciti si strutturano gerarchicamente sia all’interno di uno stesso schema, definendo livelli di interpretazioni sovraordinati, quelli che io chiamo la scala inferenziale, sia attuando una gerarchia tra schemi differenti definiti primario, secondario e terziario, secondo il loro livello di insorgenza.

E’ per questo che spesso l’indagine effettuata durante il colloquio pone in evidenza l’intrusione di idee e convinzioni che non sono oggettivamente attribuibili agli altri elementi cognitivi presenti nella rappresentazione fornita. Cambiano i soggetti, le attivazioni emozionali sono varie e apparentemente contrastanti tra di loro, l’asse temporale dove vengono collocati gli eventi oscilla tra il passato e il futuro ecc.

Ellis aveva intuito che queste idee “estranee” sono dei pensieri sovra ordinati, sono cioè delle valutazioni che il soggetto fa non sugli avvenimenti scatenanti, ma sulle proprie reazioni a quegli avvenimenti, definendo tali considerazioni degli schemi secondari, successivi cioè agli schemi ABC primari di iniziale insorgenza. Formulando l’ipotesi degli ABC Secondari, egli aveva anticipato di fatto la teoria della metacognizione evidenziando come gli esseri umani non solo possono procurarsi un problema interpretando erroneamente la realtà, ma successivamente, valutando la condizione determinatasi, possono crearsi un ulteriore problema, attribuendo una serie di significati personali ai nuovi eventi comportamentali e/o emotivi vissuti.

Secondo lo schema proposto, si comprende allora che questi diversi livelli di “interpretazioni” di fatto determinano una scala metacognitiva di interpretazioni/valutazioni che si innestano su altre interpretazioni/valutazioni, definendo una vera e propria costellazione di livelli interpretativi che possono teoricamente essere organizzati in uno schema generale dove le sequenze ABC possono essere rappresentate sia linearmente che in una struttura a matrice dove l’organizzazione semplice, caratterizzata da due soli livelli gerarchici, primario e secondario, deve lasciare il posto ad una più ampia gamma di collegamenti verticali, che possono in parte sovrapporsi ed intrecciarsi fra di loro determinando una costellazione di problemi molto complessa.

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 4

Il Colloquio Rideterminativo

Il Colloquio Rideterminativo riprende quindi, sviluppandone le potenzialità, lo schema concettuale basato sul modello ABC e, seguendo i principi dell’ars maieutica, si presenta come uno strumento fortemente direttivo con il quale il terapeuta, partendo dalle affermazioni del paziente, lo conduce mediante una serie di domande mirate alla scoperta delle sue regole e dei suoi schemi interpretativi e valutativi, consentendogli un graduale sviluppo della consapevolezza sui diversi livelli rappresentazionali.

Attraverso una continua operazione di dettaglio si impone al paziente una lettura sempre più definita dei suoi processi inferenziali risalendo mediante le implicazioni consapevoli ai livelli cognitivi più radicali, quelli appunto che definiscono e costituiscono le euristiche di base con le quali il soggetto ha costruito e strutturato il suo mondo, i suoi valori, la sua personalità.

In altri termini il Colloquio Rideterminativo si definisce come un processo mediante il quale la conoscenza implicita nella mente diviene gradualmente conoscenza esplicita per essere utilizzata dalla mente.

In questo percorso a ritroso si parte quindi dai processi disponibili in termini analitici che in genere sono delle inferenze per definire conseguentemente i livelli più o meno taciti indicati negli schemi personali del modello esposto per poter approcciare quelle convinzioni e regole che rappresentano le certezze indiscutibili, il credo inviolabile, lo schema concettuale prototipico sul quale il soggetto ha poi costruito tutti gli altri schemi interpretativi di sé e del mondo.

È importante sottolineare come il sistema rappresentazionale dell’individuo sia più complesso di una semplice dicotomia fra rappresentazioni tacite ed esplicite; è ipotizzabile invece l’esistenza di livelli intermedi fra l’informazione procedurale implicita radicalizzata negli schemi senso motori e la conoscenza dichiarativa consapevole.

Pertanto, per raggiungere i suoi obiettivi, il terapeuta deve muoversi dentro la massa di materiale prodotto seguendo e cercando quel filo di coerenza che lega le varie correlazioni basandosi nella sua analisi su quella consequenzialità predittiva che giustifica l’utilizzo dei processi taciti cercando una coerenza interna che è sempre presente anche negli schemi disfunzionali che determinano i disturbi psicopatologici più gravi.

Inoltre, man mano che si procederà nella definizione delle singole cognizioni, e ci si avvicinerà alla comprensione degli schemi strutturali, il paziente incontrerà sempre più difficoltà nella verbalizzazione dei suoi stessi pensieri, fino a raggiungere la possibilità di rimandare solo a sensazioni corporee, non altrimenti verbalizzabili e definibili se non tramite un vissuto emozionale.

Egli si confronterà infatti con quelle convinzioni indiscutibili che rappresentano gli schemi concettuali basilari con i quali ha costruito gli altri schemi interpretativi e per i quali non dispone di schemi sovraordinati che ne consentano l’esplicitazione.

Infatti ciò che distingue uno stato cosciente da uno non cosciente è la condizione di avere un pensiero di ordine superiore su di esso che lo definisca.

Sono proprio questi gli schemi ai quali il terapeuta mira, è per ottenere le verbalizzazioni di questo “sentito” interno che il terapeuta lavora con il paziente inducendolo a rappresentarsi secondo degli schemi concettuali comprensibili il disagio espresso esclusivamente tramite sensazioni fisiche.

È proprio questa forzatura che gli renderà possibile acquisire la consapevolezza della motivazione che ha posto alla base del suo agire nel mondo; è nel dirsi e nel dire, è nel sentire le parole che descrivono ciò che pensa e ciò in cui crede, è udendo i significati attribuiti da se stesso ai suoi vissuti che realizza una consapevolezza frutto del proprio sforzo personale, che dimostra al paziente che la causa ultima del suo disagio è posta nel suo stesso essere, e che è quindi accessibile e modificabile al fine di ottenere quel cambiamento strutturale che implica l’accettazione di schemi alternativi a quelli rivelatisi disfunzionali.

Si comprende quindi che il Colloquio Rideterminativo non si limita ad un primo livello di intervento, quello riferito all’Analisi Cognitiva di Beck, focalizzato soltanto sul livello inferenziale esplicito, ma coinvolge tutti i significati soggettivi del paziente riconducendo le schematizzazioni operate sulla conoscenza, la generalizzazione, l’eliminazione e la distorsione delle informazioni ad elementi intermedi fortemente  condizionati dagli schemi personali.

Esso permette di definire gradualmente i vari ambiti dei significati sottesi ampliando il livello di consapevolezza del paziente che è spinto a tradurre le regole tacite, quindi inespresse verbalmente in rappresentazioni analitiche che, rilevando i significati compressi sincreticamente, restituiscono consapevolezza al paziente rispetto alle reali e concrete motivazioni che sostengono il suo disagio.

Tale graduale passaggio dal sentito emozionale alle prime rozze rappresentazioni verrà rinforzato sistematicamente dall’utilizzo di descrizioni verbali sempre più definite e consapevoli, proponendo il dialogo metacognitivo non come un semplice colloquio clinico, ma piuttosto come un procedimento finalizzato ad una vera e propria costruzione di significati.

Il terapeuta ricerca attivamente lo schema nascosto nel disordine espositivo del paziente, disordine dettato dalla miscela di espressioni consapevoli frammiste a convinzioni tacite, processi inferenziali, razionalizzazioni dei propri vissuti e di tutta la zavorra cognitiva che grava sulle confuse procedure utilizzate.

Presumendo che il sintomo sia coerente con una costruzione della realtà sostenuta da convinzioni radicali, esso potrà essere funzionalmente abbandonato solo quando sarà resa possibile una ricostruzione più adeguata e conveniente di queste stesse convinzioni.

Il raggiungimento di tale obiettivo caratterizza l’intervento che si focalizza sulla trasformazione delle costruzioni tacite in elementi consapevoli che, opportunamente modificati, possano essere inseriti in una diversa rappresentazione di sé.

Questa concettualizzazione del problema implica due obiettivi, conciliabili e coerenti della terapia: il primo connotato dall’individuazione e dalla decodifica in termini verbali espliciti dei significati sottesi alle sensazioni problematiche con l’arricchimento della gamma di significati attribuibili agli eventi; ed il secondo, conseguente, finalizzato alla correzione di alcune distorsioni, non perché più corrispondenti ad un supposta realtà, ma in quanto disfunzionali soggettivamente rispetto agli stessi schemi di riferimento dell’individuo, e l’inserimento di queste nuove rappresentazioni in una trama narrativa rappresentativa del sé.

Attraverso questa nuova narrazione assolviamo all’importante funzione di stabilire una continuità intellegibile  nelle nostre esperienze, ma l’elemento caratterizzante risiede nella possibilità di costruire una narrativa coerente, una storia di noi, che renda le nostre esperienze riconducibili a quello che pensiamo di noi stessi, ampliando la percezione di ciò che definisce noi stessi.

Secondo Guidano la discrepanza fra i processi taciti e quelli espliciti, rendendo indecodificabili le oscillazioni intense e significative emerse alla coscienza e quindi non più evitabili, ostacolano la capacità auto integrante del Sé basata sulle funzioni dei processi espliciti coscienti.

In questa prospettiva, pertanto, la caratteristica essenziale della dinamica di una disfunzione cognitiva consiste nella continua oscillazione tra due serie di processi conoscitivi, antagonisti competitivi tra loro, la cui integrazione in una nuova dimensione unitaria supera generalmente lo spettro delle possibilità di elaborazione esistenti, che a loro volta dipendono dal grado di astrazione che il soggetto è in grado di raggiungere (Guidano 1987)

Ecco allora che l’obiettivo di una psicoterapia è quello di far raggiungere all’individuo un equilibrio dinamico tra i due tipi di conoscenza che può essere ottenuto mediante un processo ricostruttivo delle proprie esperienze di vita che permetta di realizzare nel contempo una descrizione esplicativa e una riformulazione funzionale.

 

La nostra postura può influenzare la nostra autostima?

Uno studio di Körner e colleghi (2021) ha cercato di studiare possibili aumenti nell’autostima di stato a seguito dell’aver assunto una postura del corpo aperta e espansiva.

 

Cosa si intende con power pose?

Nel 2012, durante una conferenza TED, la psicologa Amy Cuddy introdusse il concetto di “power posing”, che potremmo tradurre come postura che trasmette forza e sicurezza. Il video riguardo la conferenza da lei tenuta, ad oggi, ha ottenuto più di 50 milioni di visualizzazioni (Cuddy, 2012). Da quel momento, numerosi allenatori e guide hanno sostenuto che alcuni tipi di posture del corpo rendono le persone più sicure di sé. Ma quanto riportato ha una reale base scientifica?

Il concetto di “power posing” è stato utilizzato per la prima volta nel 2010 e comprendeva posizioni corporee espansive come stare in piedi con il petto in fuori e le mani sui fianchi. Al contrario, le posture a bassa potenza sono state definite come tutte quelle posture in cui il corpo è floscio e contratto (Carney et al. 2010).

Alcuni studi in letteratura riportano risultati interessanti a riguardo: Carney e colleghi (2010), ad esempio, hanno riportato aumenti di testosterone, diminuzioni del cortisolo e maggiore tolleranza al rischio negli individui che assumevano una power pose e un pattern ormonale opposto dopo una postura a bassa potenza. I risultati ottenuti, però, non sono stati replicati. Altri ricercatori hanno dimostrato cambiamenti nella percezione: Lee e Schnall (2014) hanno riferito che, dopo aver assunto una power pose, le persone giudicavano dei pesi da sollevare meno pesanti, al contrario di quando assumevano posture a bassa potenza.

Vacharkulksemsuk e colleghi (2016) hanno riscontrato un’associazione positiva tra l’assunzione di una power posing e il fascino romantico; posture espansive erano anche associate alla probabilità di essere assunti in un colloquio di lavoro simulato (Cuddy et al. 2015).

Altri studi hanno osservato che una power pose aumenta l’esperienza di emozioni positive e riduce l’esperienza di emozioni negative (ad es. Nair et al. 2014). Welker et al. (2013) hanno sostenuto che una power pose è collegata a una maggiore autostima, ma non sono stati in grado di trovare prove empiriche a sostegno di questa affermazione. Carney e colleghi (2015) hanno discusso gli effetti delle posture espansive rispetto a quelle più contratte, sostenendo che le posture espansive aumentano l’autostima.

Nonostante tutti questi risultati riportati, finora non ci sono prove che una power pose aumenti l’autostima o che una postura di potere basso riduca l’autostima in situazioni standard senza induzione di stress.

Qual è la relazione tra postura e autostima?

Per colmare questa mancanza, uno studio di Körner e colleghi (2021) ha cercato di studiare possibili aumenti nell’autostima di stato a seguito di posture del corpo aperte ed espansive. Gli autori hanno ipotizzato inoltre che l’assunzione di posture chiuse e contratte portasse ad una diminuzione dell’autostima di stato percepita.

I loro risultati hanno riportato una maggiore autostima di stato negli studenti che avevano assunto posture ad alta potenza rispetto agli studenti del gruppo di controllo o del gruppo che ha assunto posture a bassa potenza. L’aumento dell’autostima di stato si è verificato anche in un ambiente ecologico (ovvero nel mondo reale, e non solo sperimentale), permettendo ai ricercatori di giungere alla conclusione che gli effetti della power pose, probabilmente, non sono limitati al solo ambiente di laboratorio.

Per quanto riguarda invece le posture a bassa potenza, gli autori non hanno riscontrato nessun effetto tra l’assunzione di queste e l’autostima, nonostante ci si aspettasse una diminuzione del valore personale percepito. Questo risultato potrebbe essere dovuto al fatto che una postura neutra potrebbe essere vista come simile alla postura a bassa potenza per i partecipanti, così da rendere confusa la differenza tra le due. Un’ulteriore spiegazione per questo risultato potrebbe essere che i partecipanti che assumevano posture a bassa potenza si sforzavano in maniera attiva di non sentirsi impotenti, evitando quindi cali nell’autostima proprio perché il mantenimento dell’autostima e il miglioramento di sé sono forti motivazioni umane (Sedikides & Strube 1995). Quindi nei partecipanti che si impegnano in posture a basso potere, che possono essere implicitamente associate a una perdita di autostima, può attivarsi il desiderio di proteggere l’autostima.

Rispetto allo studio di Carney e colleghi (2010), per analizzare i cambiamenti nell’autostima, i partecipanti dello studio di Körner hanno trascorso il doppio del tempo nelle posture a basso e alto potere. La quantità ottimale di tempo che dovrebbe essere speso in una postura del corpo per ottenere degli effetti non è ancora chiara; gli studi presenti hanno utilizzato diverse posture del corpo, un diverso numero di posture e diversi lassi di tempo.

Conclusioni

In conclusione, i meccanismi sottostanti alla relazione esistente tra una power pose e autostima non sono ancora chiari e dovrebbero essere oggetto di ricerche future. È stato riportato che una power pose aumenta a sua volta i sentimenti di sicurezza (Gronau et al. 2017), ed è stato dimostrato che il senso di sicurezza innesca il sistema di attivazione comportamentale (Keltner et al. 2003), che a sua volta è collegato a un aumento dell’orientamento all’azione e delle emozioni positive. Una spiegazione dell’aumento dell’autostima può derivare dall’ipotesi dello stress power buffer (Carney et al. 2013), che propone che avere sicurezza porti a una ridotta risposta allo stress e a una ridotta coscienza di sé. Allo stesso modo, le power pose migliorano la gestione dello stress (Nair et al. 2014). Un’altra possibile spiegazione per l’effetto della posa ad alta potenza proviene dalla teoria dell’auto-percezione (Bem, 1967), che postula che le persone sviluppano atteggiamenti auto-diretti osservando il proprio comportamento. Una persona in una power pose elevata può dedurre di essere sicura di sé se assume una postura del corpo espansiva e aperta.

Il potenziale di un tale intervento in termini di riparazione dell’autostima potrebbe essere ulteriormente testato in studi futuri e potrebbe essere una via interessante nelle applicazioni psicologiche cliniche.

 

Scienza dell’Esperienza: Podcast Fenomenologico Post- Razionalista

Il 3 Marzo 2022 nasce un Podcast di Psicologia e Psicoterapia, denominato Scienza dell’Esperienza, orientato alla discussione scientifica circa tematiche di interesse trasversale alla psicologa, psicoterapia e medicina a partire da una prospettiva fenomenologica post-razionalista.

 

Questa iniziativa mira soprattutto a sensibilizzare un vasto pubblico al complesso intreccio tra mente e corpo, in un rimando di legami tra segni, sintomi ed emozioni. Il podcast, accessibile tramite piattaforme come Spotify, è erogato dal canale Radio 32 e ideato dal dottor Edgardo Reali, in collaborazione con altri psicologi e psicoterapeuti.

L’obiettivo del podcast Scienza dell’Esperienza è quello di creare uno spazio di approfondimento, che raccoglie temi derivanti dalla psicologia e dalla medicina, con l’intento di promuovere un ruolo attivo e consapevole della cura di sé. Ma, soprattutto, il podcast ha la funzione di fornire, ad un pubblico vasto, le informazioni per la sensibilizzazione del legame tra segni, sintomi ed emozioni, ovvero il legame, spesso, ignorato tra mente e corpo.

La cornice di tutto il podcast è mostrare l’importanza del coinvolgimento del paziente nel percorso di cura e l’importanza dell’intervento psicoterapeutico, con focalizzazione sull’approccio fenomenologico post- razionalista, che si concentra, come spiegato nel titolo stesso del podcast, sull’esperienza unica ed emotivamente situata (Arciero, Bondolfi, Mazzola, 2019) del paziente.

Invero, durante la psicoterapia, l’esperienza, nella sua unicità, è riportata dal paziente, attraverso la narrazione, ovvero la traccia che la persona ha per accedere a sé; “là dove questa traccia non riesce ad essere colta ed accolta, il contesto (il mondo) è in ombra e continua a lavorare alle spalle del soggetto che ne subisce i movimenti non potendo interagire da uomo libero (libertà che per natura gli apparterrebbe)” (Marchese, 2021). Il significato dell’esperienza perde, quindi, la sua connotazione psichica per essere direttamente riferito all’esperienza vissuta. L’intenzionalità diventa struttura del significato ed è dalla continua coordinazione tra sé, l’altro e il mondo che emergono gli stati d’essere che segnalano dove si è e dov’è l’altro. Il senso emerge nell’incontro stesso con le cose del mondo (Conti e Arciero, 2021). L’esperienza di sé che si dà, che esiste, che c’è già prima ancora di averne contezza, in quanto a livello preriflessivo (Arciero, 2009), dice che il senso è già contenuto nell’esperienza. Il sé esperienziale, quindi, corrisponde all’essere sé già fin da sempre presso un altro/mondo e, nella dialettica della temporalità, è situato tra l’accadere sempre e comunque di nuovo e il ritrovarsi come il medesimo (Arciero e Bondolfi, 2010).

In questa continua apertura dell’esperienza, il sintomo, come il dolore cronico legato all’emicrania trattato dalla dott.ssa Claudia Ianni nel primo intervento del podcast, può chiudere il paziente in una circolarità che è tipica della cronicità e fa perdere le tracce di senso dell’esperienza in cui è immerso. In questo caso l’intervento dello psicoterapeuta diventa fondamentale al fine di iniziare a decostruire e ricostruire il significato del sintomo e cogliere i contesti in cui si manifesta. Il ruolo dello psicoterapeuta, infatti, è quello di comprendere la complessità della variabilità, non solo fisiologica ma soprattutto emotiva, partendo dall’unicità e dalla centralità del paziente.

 

 

Logistica ospedaliera – Uno sguardo dietro le quinte

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

 

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. È rilevante per tutti i dipartimenti e i processi all’interno di un ospedale, per esempio ha una grande influenza sulla disponibilità dei materiali medicali, dei beni di consumo o dei posti letto. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

Aspetti della logistica ospedaliera

La logistica ospedaliera si occupa dei processi logistici e dei flussi di trasporto all’interno degli ospedali e include diversi campi, tra i quali:

  • Pianificazione e organizzazione
  • Trasporto e stoccaggio
  • Approvvigionamento di materiali
  • Trasmissione di informazioni
  • Disponibilità del personale

La logistica ospedaliera deve rispondere ai requisiti di igiene, salute, sicurezza sul lavoro e protezione antincendio.

Come si svolge la logistica

La logistica è fondamentale per tutti i processi che interessano l’ospedale. Serve da collegamento tra le aree funzionali e i dipartimenti che forniscono i materiali. Le aree funzionali sono, per esempio

  • sale operatorie
  • reparti
  • pronto soccorso.

I dipartimenti che forniscono i materiali sono:

  • magazzino economale
  • cucina
  • farmacia dell’ospedale.

Logistica ospedaliera e tecnologia moderna

Se si analizza la logistica negli ospedali oggi, si deve sempre tenere presente la digitalizzazione. Soprattutto nei tempi della pandemia da Coronavirus, le esigenze del personale medico e dei pazienti stanno cambiando rapidamente, motivo per cui è necessario il supporto delle moderne tecnologie.

Un’opzione già usata abbastanza frequentemente è quella di dotare i vari articoli di un codice a barre. Gli elementi contrassegnati in questo modo possono essere registrati più facilmente, risparmiando tempo ed evitando errori. Per esempio, i farmaci vengono assegnati al paziente giusto tramite il codice a barre; questo è particolarmente importante perché un farmaco sbagliato può comportare gravi rischi per la salute. Anche gli strumenti della sala operatoria sono in parte dotati di codici a barre e possono essere quindi controllati e preparati più rapidamente.

Un’altra possibilità è quella di utilizzare l’identificazione a radiofrequenza (abbreviata in RFID). Grazie a questa tecnologia, le informazioni vengono trasmesse in tempo reale, garantendo la comunicazione tra le diverse aree e i dipartimenti.

In futuro, la logistica ospedaliera sarà ulteriormente snellita e anche altri processi si svolgeranno in modo completamente automatico, per poter prestare le migliori cure possibili nel modo più semplice ed economico. In questo contesto, diventerà un tema sempre più rilevante l’uso della robotica, già utilizzata, tra l’altro, nelle sale operatorie o come ausilio nell’assistenza infermieristica.

Vantaggi offerti dalla digitalizzazione della logistica ospedaliera

Riguardo ai processi logistici, la digitalizzazione di un ospedale porta soprattutto miglioramenti per la trasparenza, la sicurezza e l’efficienza. Il progetto “Hospital 4.0 – Lean digital-supported logistics processes in hospitals” (fonte) si è concentrato sull’esame della logistica di magazzino e della gestione dei posti letto.

Il motivo più importante per automatizzare i processi logistici tramite la digitalizzazione è quello di alleggerire il personale. Se determinati processi non devono più essere eseguiti dal personale sanitario, allora questo può concentrarsi maggiormente sui compiti a valore aggiunto. Per esempio, il trasporto di campioni di pazienti, farmaci, articoli di prima necessità e documenti può essere eseguito tramite la posta pneumatica. All’interno di bossoli appositamente progettati, il materiale viene trasportato da un luogo all’altro attraverso l’uso di aria compressa o creando un vuoto, senza rischio di contaminare o danneggiare campioni o altro materiale. Questa soluzione di trasporto è più efficiente, meno soggetta a errori, e alleggerisce il personale che può così prendersi cura in modo adeguato dei pazienti.

Dal momento che molti processi avvengono in modo automatizzato e le informazioni sulle quantità esatte di farmaci e materiali vengono trasmesse in tempo reale e con precisione, si riducono gli sprechi, preservando così le risorse.

Conclusione

La logistica ospedaliera è un ramo necessario della logistica che sta diventando sempre più importante e nei prossimi anni riceverà sempre più attenzione. I processi logistici sono perfettamente adatti alla digitalizzazione per poter alleggerire il personale e fornire cure migliori ai pazienti.

 

Pandemic fatigue: cos’è e come rimotivare alla prevenzione del Covid

L’OMS propone quattro strategie chiave e cinque principi trasversali per mantenere e rinforzare l’aderenza del pubblico ai comportamenti protettivi contrastando la demotivazione che prende il nome di pandemic fatigue.

 

È ormai opinione condivisa che il dilagare del SARS-CoV-2 abbia messo a dura prova la società moderna. L’impatto della pandemia che ne è derivata è stato talmente dirompente da spingere i governi degli Stati di tutto il mondo a ritenere necessaria l’emanazione di varie misure restrittive finalizzate alla tutela della salute della popolazione: dall’impiego di mascherine all’aperto e nei luoghi al chiuso all’invito a osservare il distanziamento sociale e a limitare le occasioni di assembramento, fino alla modifica delle modalità di lavoro e degli spostamenti. Tutto ciò ha inevitabilmente determinato un drastico cambiamento nelle abitudini e nello stile di vita delle persone.

A distanza di tempo dall’inizio della pandemia, l’OMS riferisce la preoccupante presenza nella popolazione di crescenti segnali di pandemic fatigue (WHO, 2020).

Pandemic fatigue: che cos’è?

La pandemic fatigue si configura come una forma di distress che si traduce in demotivazione nel seguire i comportamenti protettivi raccomandati. Si tratta di una fisiologica e prevedibile reazione a un’avversità prolungata e ai disagi ad essa associati (in questo caso una crisi di salute pubblica), che emerge gradualmente nel corso del tempo e che conduce a sentimenti di angoscia (WHO, 2020).

A causa della pandemic fatigue un numero crescente di persone sta progressivamente abbassando la guardia relativamente alla situazione pandemica. Questa “stanchezza e intolleranza” da COVID-19 è, infatti, in grado di causare una riduzione del rischio percepito collegato al COVID-19, cui seguono un minore interesse e impegno nel seguire le raccomandazioni, con successiva diminuzione dell’efficacia dei comportamenti precedentemente attuati.

Pandemic fatigue: da cosa è causata?

Di fronte a un evento critico la maggior parte delle persone tende ad attivare delle strategie di coping funzionali ad affrontare le difficoltà nel breve termine, ma, qualora le circostanze di stress acuto si protraggano, potrebbero insorgere stanchezza e demotivazione (Masten et al., 2016).

È quello che è accaduto nel caso della pandemia da COVID-19, laddove la motivazione individuale è stata negativamente influenzata dalla durata della situazione pandemica (WHO, 2020). Nello specifico, la minaccia percepita del virus può gradualmente assumere un peso minore a causa dei seguenti fattori:

  • le persone si abituano nel tempo all’esistenza del virus, perdendo interesse;
  • le conseguenze sul piano personale, sociale ed economico derivate dalle misure di contrasto alla pandemia (lockdown, restrizioni) acquisiscono una rilevanza maggiore rispetto al rischio connesso al SARS-CoV-2;
  • si genera un desiderio di libertà e autodeterminazione come reazione alle limitazioni imposte per contenere il virus.

Pandemic fatigue: come contrastarla?

L’OMS ha stilato delle linee guida, ossia strategie e indicazioni che possono fungere da punto di riferimento per i governi e i cittadini, al fine di gestire la pandemic fatigue, rinvigorire la motivazione della popolazione rispetto ai comportamenti protettivi e incrementare la collaborazione delle persone nella prevenzione della diffusione del SARS-CoV-2.

In particolare l’OMS propone quattro strategie chiave e cinque principi trasversali per mantenere e rinforzare l’aderenza del pubblico ai comportamenti protettivi.

Le quattro strategie chiave sono:

  • comprendere le persone: identificare i gruppi di popolazione più demotivati o con maggiore incidenza di contagio, capire i loro bisogni e usare tali conoscenze per orientare politiche e interventi;
  • ingaggiare le persone: coinvolgere i cittadini a livello individuale e collettivo per farli sentire parte della soluzione;
  • permettere alle persone di vivere le loro vite ma diminuire i rischi: applicare misure locali, mirate, limitate nel tempo e a rischio effettivo per ridurre la diffusione del COVID-19, ma al tempo stesso permettere il proseguimento di una vita relativamente normale;
  • riconoscere le difficoltà che le persone vivono: fornire sostegno finanziario, sociale, culturale e psicologico per alleviare il disagio della popolazione.

Invece, i cinque principi trasversali nella progettazione di politiche e interventi sono:

  • trasparenza
  • correttezza e imparzialità
  • coerenza
  • coordinamento
  • prevedibilità

Infine alcuni consigli concreti forniti dall’OMS sono:

  • anziché incolpare, spaventare o minacciare le persone, fare loro appello e riconoscere il fatto che tutti stanno dando il loro contributo;
  • raccomandare comportamenti facili e poco costosi;
  • utilizzare una comunicazione efficace;
  • fornire informazioni in modo conciso e chiaro.

In conclusione, nonostante siano attualmente disponibili vaccini e terapie per proteggerci e curare l’infezione da COVID-19, i comportamenti protettivi individuali e collettivi continuano a rappresentare una risorsa di centrale importanza per il contenimento del virus, dal momento che la pandemia non è ancora del tutto giunta al termine. Ecco perché la pandemic fatigue si presenta come una insidiosa minaccia relativamente ai risultati raggiunti fino ad ora: abbassare la guardia adesso, infatti, può significare vanificare tutti gli sforzi effettuati per tenere sotto controllo la diffusione del SARS-CoV-2, spesso con costi elevatissimi in termini economici e sociali. Risulta, pertanto, fondamentale costruire un giusto equilibrio che da un lato garantisca alla popolazione una soddisfacente qualità di vita e dall’altro continui a mantenere ridotti i rischi riferiti al dilagare della pandemia.

 

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento(2022)- Recensione

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento è composto da quattro capitoli: nel primo viene trattato il concetto di dipendenza affettiva, nel secondo quello di idolo, nel terzo le aspettative all’interno del rapporto con l’idolo, nell’ultimo la sindrome di Peter Pan e la paura di crescere.

 

Sono millenni che l’uomo si interroga su cosa sia l’amore. La tematica è complicata da analizzare e definire in tutte le sue sfaccettature relazionali ed emotive che investono le persone.

Ho percorso la lettura del libro in compagnia di diversi interrogativi; alcuni di essi sono soggettivi e spontanei, altri sono comparsi con la lettura, altri ancora sono proposti dall’autrice. Né è un esempio la questione se esista una ricetta univoca che, ponendo i giusti ingredienti insieme all’arte della lavorazione, sforni il giusto modo di amare. L’autrice interviene chiarendo che non esiste. Anzi, è un errore tipico pensarlo: non esiste una modalità unica di amare.

Semplificando, il modo in cui desideriamo essere amati non corrisponde a quello nel quale anche il nostro partner vorrebbe essere amato. Ecco che l’argomentazione su cosa sia l’amore si complica, arricchendosi.

Come anticipato, il libro nasce dalla volontà di comprendere alcune dinamiche dell’amare e, nello specifico della dipendenza affettiva. Si giunge ad attribuire, attraverso il gioco delle aspettative, la caratteristica di essere per se stessi l’unica possibilità per poter raggiungere la felicità, di essere felici.

Infatti, nella conclusione si legge che l’impegno era di cercare:

[…] una risposta al perché sentiamo il bisogno di riversare il nostro interesse e le nostre attenzioni su di un’altra persona, perché ci aspettiamo di trovare in lei tutto quello di cui sentiamo la necessità, perché finiamo per dipendere da lei e considerarla la nostra unica possibilità per essere felici.

Libro letto con vero piacere.

Oltre alla chiarezza d’esposizione e la qualità dei contributi presenti, sicuramente la piacevolezza della lettura è correlata al mio interesse verso la tematica della dipendenza affettiva; argomento verso il quale da anni ho sviluppato un interesse sempre maggiore che mi ha portato, e mi conduce attualmente, allo studio approfondito del fenomeno stesso.

L’autrice ha scritto Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento con attenzione accurata al lettore. Esso si troverà immerso nella narrazione. La scrittura fluida e arricchita da argomentazioni fruibili su tematiche importanti lo condurrà verso la scoperta del fenomeno contestualmente alle risposte presentate.

Il testo è composto da quattro capitoli. Nel primo viene trattato il concetto di dipendenza affettiva, nel secondo quello di idolo; il terzo e il quarto sviluppano la riflessione nei confronti delle aspettative all’interno del rapporto con l’idolo, per terminare nell’ultimo capitolo col tema relativo alla sindrome di Peter Pan e alla paura di crescere di alcune persone.

Troviamo un concetto che potrebbe apparire lontano, inizialmente difficile da capire. Velato di stranezza o impossibilità esistenziale, esso mette il lettore di fronte al concetto che per amare veramente è necessario vivere la condizione di autonomia, è fondamentale riuscire a stare da soli.

Successivamente, l’autrice ci guida verso una nuova riflessione. Il costrutto di dipendenza affettiva non è sempre definibile come espressione di patologia. Difatti, esistono diverse tipologie di dipendenza, alcune sane e, ahimè, altre patologiche.

Nello specifico, la dipendenza è sana quando la relazione arricchisce gli individui; sono le amicizie, gli affetti familiari, i rapporti sociali dove le attenzioni e i bisogni sono vicendevolmente riconosciuti e ripagati.

Diversamente, si può definire patologica la dipendenza quando un individuo si lega ad una persona che riveste la qualità di unico centro di interesse. Siamo nella situazione in cui viene a mancare la reciprocità della relazione sana, quando essa è incapace di dare in cambio qualcosa ma si nutre, assorbe l’energia dell’altra persona. È l’unica ragione di vita, ma ci annulla.

Come sottolinea l’autrice:

Il desiderio di amare qualcuno si traduce, come tutti i desideri umani, nel raggiungimento di uno stato di gioia, di soddisfazione, di crescita, il vero amore non può andare contro i nostri interessi e la nostra felicità, non può implicare che una persona si annulli nell’altra, non può causare dipendenza e rinuncia della propria individualità.

Quali sono le caratteristiche della dipendenza affettiva?

Esse vengono riassunte in sei punti: ricerca di equilibrio, perdita di sé, l’altro è perfetto, passione ed egoismo, delusione e transitorietà.

Per spiegare cosa si intende per idolo possiamo immaginare alcune situazioni dell’esperienza quotidiana che molti hanno vissuto. Chi siamo e chi vorremmo essere, la percezione di invidia e ammirazione verso una persona a cui vorremmo assomigliare o vedere qualcuno con occhi sognanti e idealizzarlo come un semidio. Questi sono esempi resi noti dal pensiero dell’autrice per rendere concreta la sensazione di possedere un idolo e, nello stesso tempo, sapere cosa significhi averlo.

Interessante il confronto con la sacralità: l’idolo ci offre un Dio non impossibile da raggiungere.

Esistono così idoli buoni e idoli cattivi. Quali sono le caratteristiche che li contraddistinguono? I primi si allineano alla crescita individuale dell’individuo, aiutano nella costruzione di un sé indipendente. Gli idoli cattivi, al contrario, “[…] sono quelli che ci isolano dalla realtà, sono un rifugio dove si decide di nascondersi, sono quelli che creano un effetto di dipendenza senza renderci veramente autosufficienti.

Per spiegare i rapporti esistenti tra noi e i nostri idoli, l’autrice prende in esame i concetti di imitazione e di identificazione.

In ulteriore analisi, l’idolo assume il ruolo di essere funzionale a qualcos’altro, diventa amato per la rappresentazione che l’individuo si crea di esso invece che per quello che realmente è.

I concetti di essere innamorati e amare assumono lo stesso significato?

No, non sono sinonimi. Tumultuosità dei sentimenti e forte passionalità rientrano nel quadro dell’innamoramento. Può condurre all’amore, può altresì esaurirsi prima di giungere alla meta pensata e vissuta inizialmente.

Proseguendo la lettura del libro, scopriamo che per Annalisa Balestrieri “chi ama sa di amare e chi è amato sa di essere amato”; la priorità principe è la felicità del partner. Situazione in cui non è presente la ricerca del possesso, bensì condizione in cui regna la fiducia e la libertà della realizzazione della persona amata.

A volte l’amore termina, finisce.

Scompaiono le affinità viste nell’incontro iniziale col partner, l’investimento emotivo e relazionale diventa meno, non corrisponde più alle nostre necessità. La persona diventa sempre più una estranea e vengono a mancare i dialoghi.

Di attualità nel contesto in cui viviamo è l’argomento trattato nell’ultimo capitolo: Peter Pan.

La capacità di sognare non è sempre valutata come manifestazione negativa, come espressione della volontà di fuggire dalla realtà, ma al contrario può indicare una prospettiva per arricchire la nostra vita. Affinché non ci sia la fuga dalla realtà, nondimeno l’autrice ricorda l’importanza della consapevolezza di come saper sognare sia una strada di vita, modalità che tuttavia non deve sostituire gli aspetti reali del quotidiano.

La vita va sempre vissuta in prima persona!

 

Coscienza e memoria: ipotesi di ricerca per studi futuri

Di Sarno e colleghi (2018) hanno proposto un’ipotesi di ricerca per comprendere più approfonditamente come mai certi elementi della quotidianità diventano parte della coscienza sotto forma di contenuti consapevoli.

 

Cos’è la coscienza?

Uno dei costrutti più difficili da definire in psicologia è la coscienza. Haladjian e Montemayor (2016) la definirono come l’esperienza soggettiva di essere consapevoli dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Dato che è un concetto complesso, per semplificare il costrutto vengono prese in considerazione due componenti: il livello di coscienza, cioè la vigilanza e il contenuto della coscienza, e la coscienza definita in termini di esistenza intrinseca, composizione, informazione, integrazione ed esclusione (Tononi & Koch, 1668; Di Sarno et al., 2018).

Secondo la teoria dell’informazione integrata (IITC), l’esistenza intrinseca riguarda ogni esperienza che esiste nel qui ed ora, vissuta in modo reale e intrinseco da parte del soggetto che la sperimenta, indipendentemente da chi osserva dall’esterno (Di Sarno et al., 2018). Si parla invece di composizione in quanto la coscienza è strutturata e ogni esperienza viene distinta in base all’esperienza stessa sperimentata dalla persona: ad esempio, posso riconoscere un determinato dipinto, il colore utilizzato e discriminarlo da un altro dipinto in cui si utilizza lo stesso colore. L’informazione riguarda invece la specificità della coscienza, in quanto ogni esperienza è composta da delle distinzioni che differenziano ogni esperienza come diversa e unica. L’integrazione si riferisce all’irriducibilità dell’esperienza, in quanto non può essere scomposta in distinzioni fenomeniche non interdipendenti come i fotogrammi di un film, bensì la coscienza è unificata (Tononi & Koch, 1668; Di Sarno et al., 2018). Infine, l’esclusione riguarda la definizione in termini spazio-temporali della coscienza stessa.

Tutti i sistemi biologici presentano forme di autorganizzazione tali da poter mantenere un’integrità nonostante degli stati fluttuanti (ad esempio, si pensi ai battiti cardiaci o alle oscillazioni dell’attività cerebrale). La teoria di Markov Blanket postula un’interrelazione tra stati interni ed esterni: i primi sono aperti ai secondi in modo che le funzioni energetiche possano essere descritte in termini di credenze probabilistiche, o teorie, codificate dagli stati interni stessi nel rispetto di quelli esterni (Di Sarno et al., 2018). Questo significa che un organismo non segue un modello nel mondo, bensì è esso stesso un modello che minimizza l’entropia dei suoi stati interni attraverso l’interazione dei sottosistemi neurali, differenziati e organizzati gerarchicamente (Ramstead et al., 2017; Sperandeo et al., 2017).

Su cosa si basa la coscienza?

Ma l’uomo come può essere consapevole della sua coscienza, organizzandola in diversi gradi e diventando così un modello funzionale del mondo in cui vive? Probabilmente grazie alla memoria. Numerosi lavori scientifici sono stati pubblicati negli ultimi anni, mettendo in relazione la coscienza e la memoria di lavoro con il fine di comprendere se gli elementi memorizzati fossero consci (Baddeley, 2003) o inconsci (Soto et al., 2011; Stein, Kaiser & Hesselmann, 2016; Di Sarno et al., 2018). La memoria gioca un ruolo fondamentale per l’adattamento dell’uomo, in quanto permette la formazione identitaria del soggetto: senza essere in grado di ricordare che cosa ci succede o che cosa sperimentiamo, il nostro essere può essere compromesso in modo significativo (Di Martino, 2016; Sperandeo et al., 2016; Sperandeo et al., 2017).

Partendo dalla letteratura che conferma il ruolo della memoria nella strutturazione dell’esperienza conscia, al contrario della memoria di lavoro che mostra come alcuni elementi siano interiorizzati in modo inconscio, Di Sarno e colleghi (2018) hanno proposto un’ipotesi di ricerca per comprendere più approfonditamente (attraverso un’esperienza immersiva con l’utilizzo della realtà virtuale) come mai certi elementi della quotidianità diventano parte della coscienza sotto forma di contenuti consapevoli (Di Sarno et al., 2018). Per quanto riguarda i questionari, raccomandano la somministrazione di un test neurocognitivo come la Repeatable Battery For Neuropsychological Status (RBANS, Randolph et al., 1998) per valutare l’integrità delle funzioni cognitive dei partecipanti. È consigliato il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 – Restructured Form (MMPI 2-RF; Sirigatti & Faravelli, 2012) per escludere la presenza di disturbi di personalità o di una sintomatologia che può inficiare lo studio. Una volta valutati questi aspetti, viene fornito un visore ai partecipanti, dove delle scene con stimoli neutri pian piano si sviluppano in scene più articolate e con dei contenuti emotivi più evidenti (l’esempio riportato descrive un soggetto che sorride mentre guarda il partecipante della ricerca). Gli autori dell’esperimento ipotizzano che a determinare tale consapevolezza degli elementi sia proprio la qualità degli stimoli interiorizzati: vivere un’esperienza vivida con la realtà virtuale, come sguardi, sorrisi e gesti, significativamente rilevanti, potrebbe attivare dei contenuti inconsci interiorizzati nella memoria di lavoro. Di conseguenza, dirigere l’attenzione in modo consapevole su questi elementi potrebbe rendere uno stimolo conscio, ipotizzando che il soggetto tenderà a ricordare una serie di dettagli ed elementi in modo direttamente proporzionale alla valenza emotiva dello stimolo osservato (Di Sarno et al., 2018). Svolgere questo esperimento non solo potrebbe essere utile per comprendere meglio come funziona la memoria o come quest’ultima sia correlata alla coscienza, bensì potrebbe apportare dei benefici in ambito terapeutico per quanto riguarda la strutturazione identitaria di un individuo in base a stimoli salienti o emotivi, percepiti come determinanti per la sua individualità.

 

Inizia il Forum di Ricerca in Psicoterapia – Report dall’intervento di apertura del Dr G. Caselli

Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Spetta al Dr. Gabriele Caselli dare avvio ufficialmente al Forum, la presentazione di apertura dell’evento conta più di 300 partecipanti.

 

Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Un appuntamento che gli allievi di Studi Cognitivi ben conoscono e aspettano con anticipazione ogni due anni. La pandemia ha però stravolto la tradizione: non solo facendo saltare l’edizione del 2021 ma spostando il Forum – prima chiamato colloquialmente “Forum di Riccione” in quanto la città romagnola fungeva da punto di incontro per tutte le sedi del gruppo Studi Cognitivi – dalle calde spiagge della riviera al meno soleggiato mondo online. L’interesse e l’entusiasmo però restano quelli di sempre.

Parte infatti la presentazione di apertura dell’evento e i partecipanti superano i 300. Spetta al Dr. Gabriele Caselli dare avvio ufficialmente al Forum.

Inevitabile è il riferimento a quanto gli ultimi due anni abbiano stravolto le nostre vite, personali ma anche professionali. Numerosi cambiamenti hanno toccato il lavoro del terapeuta: basti pensare allo spostamento dell’attività terapeutica online e al conseguente proliferare delle piattaforme di Psicoterapia a distanza. Ma anche il mondo della formazione – ricorda Caselli – ha subito non pochi cambiamenti e il gruppo Studi Cognitivi, in questo senso, ha dovuto affrontare numerose sfide non sempre facili, non sempre ben viste, ma necessarie e anche stimolanti. Perché “stimolanti”? Perché – sottolinea Caselli – tutto ciò ci ha portato a pensare quanto sia possibile cambiare se e quando il contesto lo richiede: nonostante le varie difficoltà infatti, la Scuola si è evoluta, ha saputo riconoscere le limitazioni date del periodo pandemico e ha saputo trasformarle in opportunità. Pensiamo al duro lavoro per spostare online le lezioni, ma anche all’impegno in campo clinico per portare, in un periodo così delicato, la terapia scientifica ed evidence based a chi ne ha bisogno (impegno che ha permesso la nascita del portale inTHERAPY). Al tempo stesso, negli ultimi due anni, il gruppo Studi Cognitivi ha continuato a diffondere conoscenza scientifica in campo internazionale in particolare sulla formulazione condivisa del caso e sulla pianificazione del trattamento.

Perché il futuro da raggiungere – auspica G. Caselli – è un futuro in cui il terapeuta non è più solo nella sua stanza, ma lavora in modo coordinato e controllato attraverso il confronto con i colleghi e con l’utilizzo di protocolli efficaci, soprattutto in un periodo in cui una rinnovata attenzione alla terapia attraverso le piattaforme online e le politiche sociali (come ad es. bonus psicologo e “vivere meglio”), può essere ricca di opportunità ma, in un certo senso, anche di rischi per il professionista che lavora isolato.

Il prof Caselli conclude il suo intervento osservando come la disseminazione su larga scala di terapia sia possibile in termini scientifici, a partire dalla diffusione di un pensiero critico e scientifico che eviti derive naif, e non a caso, nel corso del Forum, sono ospiti due personalità di spicco nel campo della Psicoterapia Cognitiva su larga scala: Steven Hollon e David Clark. L’intento è costruire un confronto con gli altri Paesi già impegnati con interventi pubblici di Psicoterapia, in modo da analizzare meglio i limiti e le risorse di tali interventi, per poter poi creare nuovi ponti tra ricerca e clinica in questo nuovo mondo.

La parola passa infine al Dr Giovanni M. Ruggiero che presenta il Prof. Steven Hollon e la sua Keynote, in cui ci parla di depressione e terapia cognitivo comportamentale (a cui nei prossimi giorni dedicheremo un report più approfondito).

Mancherà il palco con i relatori e gli allievi seduti in platea che ascoltano con curiosità, mancheranno le chiacchiere tra colleghi mentre si passeggia tra i tanti poster di ricerca esposti e mancheranno anche i momenti più conviviali e di leggerezza che il Forum di Riccione portava con sé, di certo però non mancheranno le occasioni di confronto e scambio che permettono ad ogni partecipante di crescere personalmente e professionalmente. Buon Forum a tutti!

 

Essere genitori in epoca Covid – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il sesto episodio del podcast dedicato all’essere genitori nel periodo pandemico. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Cristina Ferrari.

Dove ascoltare il sesto episodio:

 

Che cos’è la dismorfia digitale

Filtri delle app, videochiamate, foto ritoccate: la nostra immagine riflessa sullo schermo ci può portare a sovrastimare difetti ed imperfezioni e a farci sentire insoddisfatti, fino alla dismorfia digitale.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 29) Che cos’è la dismorfia digitale

 

Negli ultimi anni molti professionisti nell’ambito dell’estetica, come dermatologi e chirurghi plastici, hanno assistito ad un aumento di richieste di interventi.

Secondo diversi professionisti questo fenomeno è dovuto alla continua esposizione delle nostre immagini, continuamente postate e condivise su social e app, ma anche all’abitudine di modificarle che funge da innesco non solo all’essere insoddisfatti di se stessi, ma anche a vere e proprie forme di dismorfia (Ramphul e Mejias, 2018; Pfund et al, 2020). Difatti, spesso si tratta di richieste legate alla propria immagine digitale: addirittura, molti richiedono trattamenti che li facciano somigliare alle loro foto modificate con i filtri delle app.

Il dismorfismo corporeo e la dismorfia online

Nel DSM-5 il disturbo da dismorfismo corporeo o dismorfia (body dysmorphic disorder, BDD) viene classificato tra i disturbi ossessivo-compulsivi. Il nucleo di questo disturbo è l’eccessiva e persistente preoccupazione per difetti fisici anche minimi o assenti. Che siano presenti o meno, questi difetti compromettono significativamente la qualità della vita ed il funzionamento dell’individuo, causando forte disagio.

Da qualche tempo si parla di nuove forme di insoddisfazione corporea che nascono online: se legata principalmente a video e foto si parla di “Snapchat dysmorphia” o “Instagram dysmorphia” o più in generale “selfie dysmorphia” o ”filter dysmorphia”.

Invece ci si riferisce a “Zoom dysmorphia” quando il disagio è relativo alla propria immagine nelle videochiamate (Ramphul e Mejias, 2018), diventate la forma principale di comunicazione per lavoro, scuola e socializzazione soprattutto durante la pandemia. Anche i servizi di videochiamate, infatti, offrono filtri per ritoccare il proprio aspetto e che hanno rafforzato questa tendenza (Pfund et al, 2020).

Al di là del termine specifico, ciò che è cruciale è che si tratta di immagini di obiettivi digitali che possono essere modificate e filtrate; immagini e video che abbiamo sempre sott’occhio e proprio questa continua osservazione di noi stessi può portarci a notare ed esacerbare aspetti di noi che non ci piacciono.

Editing di noi stessi

L’influenza di standard di bellezza e idealizzazione corporea guidati dai media, come stampa e televisione, sono ben noti; si tratta però di modifiche riservate a specifiche figure professionali, come modelli o attori, con strumenti di editing professionali utilizzati da esperti (Hunt et al., 2018).

Quando entriamo nell’ambito dei social media parliamo di una marea di filtri e applicazioni a disposizione di tutti, senza contare che possiamo ricevere feedback immediati, cosa che ci porta ancora di più a prestare molta attenzione a rivedere e a rifinire ogni dettaglio, compresi quelli che riteniamo non apprezzabili o che lo diventano man mano che si fa pratica con i filtri.

Questi filtri consentono praticamente ogni tipo di modifica: sbiancare i denti, ingrandire gli occhi, eliminare le rughe, cambiare il colore della pelle, eccetera.

Si può pubblicare un’immagine di sé ottimizzata, curata, in alcuni casi irrealistica: si finisce col condividere l’immagine desiderata, il sé ideale, più che un riflesso di se stessi (Tiggemann e Barbato, 2018; Rajanala e Maymone, 2018; Jiotsa et al, 2021).

L’approccio adeguato

Se da un lato i social media ci aiutano a rimanere connessi, informati, aggiornati, dall’altro c’è il rischio che l’idealizzazione e l’eccessiva attenzione alle immagini ci facciano sentire insoddisfatti o portino a veri e propri disturbi psicologici.

D’altro canto sono parte integrante della nostra vita quotidiana: certamente è essenziale per i professionisti capirne a fondo le tendenze, le sfumature negli utilizzi, le potenzialità ed i rischi.

È fondamentale saper riconoscere i sintomi di disagio per la propria immagine corporea assicurando così al paziente supporto, aiuto e comprensione del problema prima di eseguire qualsiasi procedura chirurgica. La conoscenza e l’educazione digitale aiutano i professionisti a gestire anche questa tipologia di pazienti ed eventualmente indirizzarli a percorsi di supporto psicologico laddove necessario.

 

Il ruolo dei modelli nell’adolescenza

Durante l’adolescenza ci si trova dinnanzi un cammino, più o meno impervio e oscuro, che conduce ciascuno di noi al raggiungimento dell’età adulta. In questo periodo è naturale il ricorso a modelli che aiutano a scegliere in quale direzione indirizzare i propri sforzi nella ricerca di un nuovo equilibrio. 

Dall’adolescenza all’età adulta

Si pensa spesso all’adolescenza come ad un periodo di passaggio, una fase con un inizio e una fine abbastanza delineabili. In realtà, però, non è una fase che scompare per sempre, quello che impariamo in questo periodo ci sarà utile nel futuro. La sua memoria e i suoi effetti si prolungano per tutta la vita e riemergono nei momenti cruciali e nelle grandi tappe dell’esistenza, come sostenuto da Erikson nel trattare le fasi dello sviluppo della personalità.

Nell’adolescenza vediamo il cambiamento che ci riguarda e ne sentiamo la portata, è una fase costruttiva in cui sentiamo il bisogno di coerenza, unità, in cui deve essere forte la percezione di sé. Per la prima volta le nostre aspettative devono confrontarsi con la realtà, a costo di delusioni.

Questo è forse l’aspetto principale di quanto dovremo apprendere perché i problemi che incontreremo nell’età dell’adolescenza (scelte, dilemmi, rapporti con i cambiamenti) non vengono superati con essa, ma da quel momento diventano parte del panorama esistenziale di ognuno di noi. Per imparare ad affrontarli, la crisi tipica di questa età deve essere affrontata e attraversata con la consapevolezza che non può essere evitata.

Il difficile processo di differenziazione

Durante l’adolescenza ristrutturiamo l’immagine di noi attraverso le modifiche cognitive ed emotive e il raggiungimento del pensiero logico, formale e autoriflessivo.

La crisi adolescenziale non può essere collocata in un periodo preciso, per alcuni può aver luogo anche in età adulta, oppure non verificarsi per tutta la vita. In questo caso, però, difficilmente riusciremo ad emergere da quello stato di dipendenza che caratterizza il periodo dell’infanzia.

La ricerca dell’autonomia passa attraverso la ribellione ai genitori. Ausubel, psicologo dell’età evolutiva, ci parla di un processo di desatellizzazione dalle figure genitoriali. Spesso l’adolescente si rifiuta di rispondere alle loro aspettative, assume dei modelli che loro vedono come negativi, esprime la deidealizzazione del genitore attraverso la critica, le identità negative di cui parla Erikson. La ribellione dell’adolescente non ha però una connotazione esclusivamente negativa, ma va vista come un progetto di vita.

Gli adolescenti hanno un umore fluttuante, sono spesso ambigui, svogliati, confusi. Si sentono inadeguati perché il concetto di sé è carente, l’autostima è bassa per la difficoltà dei compiti evolutivi che devono affrontare, per i vacillamenti e i fallimenti cui vanno incontro.

Gli eccessi

Durante l’adolescenza, le situazioni da affrontare appaiono enormi e catastrofiche. Gli adolescenti hanno aspettative e ideali esasperati e impossibili, il confronto con le frustrazioni è quindi enorme.

Uno dei problemi principali che incontra l’adolescente è un retaggio dell’infanzia, il non saper sopportare l’intervallo di tempo che intercorre tra i desideri e la loro soddisfazione. È necessario imparare a confrontarsi con la realtà e sopportare le frustrazioni che nascono da un’immagine inadeguata che si ha di sé e della realtà, dalla discrepanza che esiste tra ideale e realtà. Un percorso naturale e indispensabile, che deve però essere considerato tipico dell’adolescenza e che non è più funzionale se continua ad esistere nell’età adulta.

Falso capo

L’adolescenza è il periodo della comparsa del falso capo, una figura sostitutiva del genitore che il giovane adolescente investe di quell’onnipotenza di cui nell’infanzia aveva investito il genitore e nella quale cerca quella sicurezza che non ha ancora trovato in se stesso. Cambia il tipo di base sicura di cui ci parla Bowlby: se per il bambino il rapporto è fatto di accudimento, per gli adulti è fatto di reciprocità.

Qualunque cosa può fungere da falso capo, come può esserlo una persona (ad esempio il fidanzato, vissuto come unico amore al mondo) così può esserlo un ideale, in entrambi i casi questi saranno caratterizzati dall’eccesso di onnipotenza che gli viene attribuita. L’adolescente va soggetto a grandi delusioni e frustrazioni perché investe troppo in questo falso capo.

Dalla crisi e dall’illusione si passa alla delusione. Il conflitto che ne deriva non è solo inevitabile, ma è salutare. Quando l’adolescente fa questo investimento su altri e poi, un po’ alla volta, si rende conto di aver fallito perché quello che si aspettava non è realizzabile, torna in sé.

Queste crisi sono funzionali al disinvestimento, si passa dall’onnipotenza dell’altro alla ricerca della propria identità, alla fiducia nel proprio potere personale.

La figura di riferimento e la fine del mito

Fulvio Scaparro, psicologo e psicoterapeuta, ci dice che di una figura di riferimento non si può fare a meno e non è vero, come comunemente si pensa, che queste muoiano sempre spontaneamente quando si raggiunge l’adultità.

Perché ciò avvenga è indispensabile che si sappia mantenere da esse la necessaria distanza così da non confondere la propria personalità con la loro; solo in questo caso potranno svolgere appieno la loro funzione positiva, per poi svanire quando non saranno più necessarie. Chi vuole troppo avvicinarsi al modello rischia di fondersi con lui vivendo una sorta di vita immaginaria.

L’adolescenza è un periodo di crisi, non sempre le esperienze che si fanno a questa età sono positive, se non lo sono si può correre il rischio che si verifichi un rifiuto alla crescita per paura che queste situazioni negative tornino a ripetersi, identificando addirittura con esse la stessa età adulta.

Ogni bambino ha un mito, un personaggio particolare che vuole imitare, un eroe dei fumetti, un divo del pallone che rappresenta per lui un modello. Sarà fortunato se capirà, e se qualcuno lo aiuterà a capire, che ciascuno di questi personaggi rappresenta solo un interprete del mito, ma non è il mito stesso.

Quando il personaggio viene meno, perde il suo fascino, delude, non corrisponde più, insomma, alle aspettative che ci si erano fatte su di lui, si deve poter capire che è solo un interprete del mito a cadere e non il mito che egli interpretava, il quale continua ad andare oltre i limiti che sono propri, invece, del personaggio.

In conclusione

Nonostante i rischi di cui abbiamo parlato, non si deve cadere nell’errore di concludere che sia meglio saper fare a meno di un modello, ciò non è assolutamente possibile perché la sua utilità rimane innegabile.

L’adolescente deve acquistare modelli morali accettabili e adatti alla società in cui vive, ma anche adatti e accettabili al suo mondo. La lotta degli adolescenti è integrare i modelli morali che hanno ricevuto in famiglia con il loro mondo, quello che loro si sono scelti e che risponde alle loro personali esigenze e aspettative.

La nascita di un terapeuta sistemico (2022) – Recensione del libro

Il tema attorno a cui ruota il volume La nascita di un terapeuta sistemico sono le esperienze formative che coinvolgono direttamente le famiglie d’origine, i partner e, in alcuni casi, anche gli amici più importanti dei futuri terapeuti familiari.

 

Va dato merito al giovane editore napoletano Luigi Guerriero per aver dato vita, nonostante i tempi di crisi generalizzate, ad un progetto editoriale di testi di psicologia e di scienze umane, nato da pochi anni e in continua progressione. Il titolo più importante sinora è a mio avviso Quando volano i cormorani, il libro di Alfredo Canevaro, pubblicato per la prima volta nel 2009, andato esaurito e successivamente introvabile per problemi della precedente casa editrice (vedi recensione). Con la pubblicazione di La nascita di un terapeuta sistemico prosegue l’operazione editoriale di rendere nuovamente disponibili per i lettori italiani i testi di Canevaro. Questo, curato insieme al terapeuta familiare belga Alain Ackermans, fu ideato dai due curatori raccogliendo gli stimoli e le suggestioni emerse in un affollato convegno dell’E.F.T.A. (European Family Therapy Association) tenutosi a Parigi nel 2010 proprio sui temi al centro del volume. Il lavoro fu pubblicato simultaneamente nel 2013 in italiano e in francese, a testimonianza di uno sforzo di condivisione internazionale e raccoglie contributi di autori italiani, belgi, francesi e sudamericani. Il tema attorno a cui ruota il volume sono le esperienze formative che coinvolgono direttamente le famiglie d’origine, i partner e, in alcuni casi, finanche gli amici più importanti dei futuri terapeuti familiari.

Le principali scuole sistemiche reputano che il training debba essere il luogo privilegiato anche per il lavoro sulla “persona”, con l’eccezione dei casi in cui è lo stesso allievo a formulare una richiesta di uno spazio terapeutico personale, che deve essere individuato all’esterno del training gruppale. Proprio per questa caratteristica, la convocazione della famiglia dell’allievo, pur non strutturandosi come una seduta di terapia familiare, rappresenta un’occasione privilegiata di conoscenza dei propri vissuti emotivi e dei propri modelli relazionali. In effetti, sin dagli albori della terapia familiare negli Stati Uniti si sono confrontati due modelli: il primo, nato nella costa occidentale, enfatizzava il problem-solving e l’acquisizione delle abilità tecniche, mentre l’altra impostazione ha puntato sulla persona del terapeuta, dando spazio al lavoro sulla famiglia d’origine, al genogramma e alla ricerca di pattern trigenerazionali. Nel tempo, il lavoro sul Sé del terapeuta è apparso inevitabile, anche se non tutte le scuole ricorrono alla presenza reale dei familiari. Il tema dell’isomorfismo tra il processo terapeutico e il processo formativo è quindi un altro filo rosso che collega i diversi contributi.

Il libro è suddiviso in due parti ed è introdotto da una bella prefazione di Gigi Onnis, scomparso nel 2015, che dell’EFTA è stato co-fondatore e tenace animatore.

Nella prima, curata da Canevaro, sono ospitati i capitoli di Stefano Cirillo, Matteo Delfini e Anna Maria Sorrentino, che descrivono l’esperienza della Scuola Mara Selvini di Milano nel coinvolgere le famiglie d’origine degli allievi; di Matteo Selvini, in merito ad un gruppo multifamiliare per terapeuti esperti, di Alfredo Canevari e altri autori sudamericani che descrivono analoga esperienza condotta a Santiago del Cile; di Federico Cardinali e Gabriella Guidi, che presentano il loro lavoro sulla famiglia d’origine degli allievi strutturato in quattro tempi diversi.

La seconda parte, curata da Ackermann, contiene altri 5 capitoli, che fanno riferimento al modello di Chantal Van Cutsem e del Centro Studi della Famiglia e dei Sistemi (CEFS) di Bruxelles, all’esperienza francese dell’APRTF di Parigi, che parte dal modello di risonanza familiare, ispirato al concetto chiave formulato da Mony Elkaim, per finire con l’esperienza inglese di Mark Rivetti e Jeremy Woodcock, operanti a Bristol, che anticipano i temi della mindfulness, proponendo tecniche per trascendere il Sé nella formazione dei terapeuti sistemici. Le conclusioni del volume sono pure affidate a Ackermans, che si occupa di riepilogare i punti di contatto e le divergenze tra le varie modalità di lavorare sui legami familiari degli allievi nelle diverse realtà formative europee presentate.

Il libro mi pare particolarmente utile a chi si occupa di formazione, non esclusivamente in ambito sistemico, e a quanti sono interessati a comprendere l’evoluzione nel tempo delle teorie e delle prassi dei training per psicoterapeuti.

 

I processi sottostanti alla formazione di un pregiudizio

Capire come si formano i pregiudizi è importante in quanto insieme al razzismo e allo stigma sono i principali problemi vissuti dai migranti in tutto il mondo.

 

I pregiudizi sono definiti come bias di percezione e valutazione nei confronti di membri esterni al proprio gruppo e sono un meccanismo alla base della discriminazione che ha un impatto significativo sulla sicurezza e sul benessere dei gruppi vulnerabili in tutto il mondo (Mattan et al., 2018). Compromettono quindi la coesione sociale e possono essere considerati come una forma di chiusura nei confronti dell’altro basata su una generalizzazione difettosa e inflessibile (Allport, 1954). All’interno di una prospettiva cognitiva, i pregiudizi deriverebbero da informazioni elaborate automaticamente (Devine, 2001): i pregiudizi espressi nei confronti delle minoranze, pertanto, possono a volte derivare da un sistema cognitivo automatico, iperattivato e inflessibile, a scapito di un “sistema di controllo” più ponderato (Devine, 1989). Tale sistema di controllo potrebbe infatti evitare che i pregiudizi verso le minoranze o i membri esterni vengano espressi (Devine, 1989). Negli ultimi decenni, numerosi studi di psicologia sociale hanno indagato se i pregiudizi scaturiscano dal sistema cognitivo automatico o da un’interruzione del sistema di controllo. In effetti, ci sono prove per entrambe le associazioni.

I pregiudizi razziali

I test di associazione implicita (IAT), per esempio, utilizzati per analizzare i pregiudizi razziali impliciti, indicano che questi ultimi – e gli stereotipi – possono essere innescati da associazioni automatiche (Greenwald et al., 1998). Dall’altro lato sembrerebbe però che le persone con alti pregiudizi non riescano ad inibire i pensieri che corrispondono allo stereotipo e a sostituirli con altri di uguaglianza, avvalorando così la tesi di un mancato controllo deliberativo (Devine, 1989). Inoltre, ci sono anche alcune prove che i soggetti con basse capacità di controllo cognitivo siano a rischio di mostrare maggiori pregiudizi razziali (Payne, 2005). Uno studio di Richeson e Shelton del 2003, ha trovato che i soggetti bianchi con alti livelli di pregiudizi hanno mostrato uno scarso controllo cognitivo (misurato tramite il Test di Stroop) dopo aver incontrato una persona scura di pelle, evidenziando così un’associazione negativa tra i pregiudizi e le risorse di controllo deliberativo. Spesso, però, è difficile distinguere il contributo dell’aumento delle risposte automatiche da una diminuzione delle risorse di controllo. Oggi uno dei pochi strumenti per separare il contributo dei due sistemi è la procedura di dissociazione dei processi (Payne et al., 2005) la quale permette di organizzare gli esperimenti in modo tale che in alcuni casi i processi automatici e controllati portino i soggetti a dare la stessa risposta, in altri casi risposte diverse. In questo modo alcuni studi tra cui quello di Lambert e colleghi del 2003, sono riusciti a dimostrare che una maggiore espressione di pregiudizi era associata soprattutto a una diminuzione del controllo cognitivo più che ad associazioni automatiche.

Il pregiudizi secondo il modello computazionale

Il modello computazionale del comportamento in un compito può essere considerato un ulteriore strumento per cui è possibile determinare il contributo di ciascun sistema. I modelli computazionali prevedono infatti che nel processo decisionale esistano due modalità molto simili a quelle automatica-controllata del modello cognitivo. La prima modalità è un sistema di controllo di natura associativa, abituale e senza un modello sottostante; la seconda è invece un sistema di controllo basato su un modello, diretto all’obiettivo, il quale pianifica le azioni in maniera prospettica in base all’ambiente circostante (Friedel et al., 2014). Il modello computazionale, essendo basato su modelli di apprendimento per rinforzo (RL) guidati dalla teoria, fornisce una comprensione meccanicistica dei processi decisionali sottostanti. Tramite il compito a due fasi alcuni autori sono infatti riusciti a dimostrare che gli esseri umani utilizzano sia la modalità automatica che quella diretta all’obiettivo e che esistono differenze individuali nell’equilibrio delle due componenti decisionali. È importante quindi capire come si formano i pregiudizi in quanto insieme al razzismo e allo stigma sono i principali problemi vissuti dai migranti in tutto il mondo: a volte gli individui appartenenti alle minoranze hanno meno probabilità di essere selezionati per un colloquio di lavoro o ricevono voti inferiori a parità di prestazioni se sono studenti. Per approfondire i processi sottostanti ai pregiudizi, Sebold e colleghi nel 2021 hanno condotto uno studio utilizzando il compito a due fasi, per quantificare il contributo del sistema di controllo senza modello e di quello basato sul modello. Inoltre gli autori hanno tentato di capire se i pregiudizi fossero palesi o sottili. Alcuni studi hanno dimostrato infatti che i pregiudizi sono composti da due sfaccettature: pregiudizi palesi e sottili (Pettigrew e Meertens, 1995). I pregiudizi palesi sono anche descritti come “caldi” e “diretti” e hanno una forte componente affettiva; i pregiudizi sottili, invece, sono descritti come “freddi” e “indiretti” e possono rappresentare una componente più razionale. 127 soggetti hanno quindi svolto il compito decisionale Markov a due fasi (Voon et al., 2017) e hanno completato la scala del pregiudizio palese e sottile Blatant and Subtle Prejudice Scale (BSPS; Pettigrew e Meertens, 1995). I risultati mostrano che i pregiudizi palesi verso le minoranze sono associati ad un minor controllo deliberativo e a una dominanza del processo decisionale abituale. Siccome il controllo deliberativo è considerato la strategia di selezione all’azione più razionale, tale associazione suggerisce che i soggetti che mostrano giudizi negativi affettivamente carichi, mostrano anche una tendenza ad agire meno deliberativa in un compito decisionale. Tali risultati forniscono alcuni suggerimenti per gli interventi che mirano a diminuire i pregiudizi nelle società. Una strategia efficace potrebbe essere quella di indurre le persone e provare empatia incoraggiandole ad immedesimarsi in una persona “esclusa” in una società con livelli elevati di pregiudizi (Batson e Powell, 2003). L’empatia sembra infatti correlare negativamente anche con i pregiudizi sottili ed è quindi un aspetto della moralità che può contribuire a ridurli.

 

I cambiamenti nella struttura cerebrale dovuti al Covid-19

L’infezione da Covid-19 può determinare una modificazione della struttura cerebrale come dimostra il confronto tra RMN prima e dopo l’infezione.

 

Introduzione

  Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature a nome di Gwenaëlle Douaud, ricercatrice e professore associato al Wellcome Center for Integrative Neuroimaging presso l’Università di Oxford, e dei propri collaboratori, ha preso in esame i cambiamenti strutturali a carico dell’encefalo post infezione da virus SARS Cov-2.

Lo studio ha confrontato le immagini da risonanza magnetica effettuate in tempi diversi, prima e post infezione da Covid-19.

Dalla ricerca è emerso che sono osservabili piccoli cambiamenti strutturali dell’encefalo anche dopo una lieve infezione, la dimensione complessiva del cervello è risultata leggermente ridotta, con meno materia grigia nelle parti legate all’olfatto e alla memoria. Coloro che si erano ripresi da poco dalla malattia hanno trovato più difficile rispetto al solito svolgere compiti mentali complessi.

La principale perdita di sostanza è stata osservata nelle aree olfattive, le ipotesi sul legame eziologico che è alla base di questo fenomeno sono relative alla possibilità che il virus attacchi direttamente queste regioni oppure che l’apoptosi cellulare sia dovuta all’ anosmia, e quindi correlata alla perdita di input sensoriali. È da segnalare che lo studio è stato compiuto su pazienti infettati dal virus originale o da variante Alfa, che erano caratterizzate dalla sintomatologia di perdita dell’olfatto e del gusto.

Materiale e metodi

Lo studio ha preso in esame le risonanze di 785 pazienti, di età compresa tra 51 e 81 anni, che per motivi di ricerca diversi erano stati sottoposti a due risonanze magnetiche al cervello a distanza di circa 36 mesi. Questi sono stati divisi in due gruppi: 401 di loro avevano contratto l’infezione tra una risonanza e la successiva (il 96% dei quali aveva sviluppato un Covid lieve) e 384 non avevano mai avuto la malattia.

Risultati

È emerso che alla seconda risonanza, i reduci dal Covid avevano diverse alterazioni strutturali e anatomiche del cervello come una maggiore riduzione dello spessore della materia grigia e del contrasto tissutale nella corteccia orbitofrontale e nel giro paraippocampale. Sono poi emersi maggiori cambiamenti nei marcatori di danno tissutale nelle regioni funzionalmente collegate alla corteccia olfattiva primaria. Il tutto si associa ad una maggiore riduzione delle dimensioni globali del cervello.

Il gruppo dei pazienti che avevano contratto l’infezione da Covid 19 ha anche mostrato in media un declino cognitivo maggiore tra i due punti temporali. È importante sottolineare che questi effetti longitudinali di imaging e cognitivi sono stati ancora osservati dopo aver escluso i 15 casi che erano stati ricoverati in ospedale.

Conclusioni

Grazie allo studio delle risonanze magnetiche si è giunti ad ipotizzare che i danni osservati possano essere i segni distintivi di una diffusione degenerativa della malattia attraverso vie olfattive, di eventi neuroinfiammatori o della perdita di input sensoriali a causa dell’anosmia.

Resta da capire se e quando il quadro clinico sia reversibile con il passare del tempo.

 

Metacredenze, rimuginio e problematiche sessuali femminili – PARTECIPA ALLA RICERCA

Data la forte relazione esistente tra disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e meta-credenze, un nuovo filone di ricerca sta indagando le possibili correlazioni tra questi fenomeni e le disfunzioni sessuali femminili.

 

Lo scopo del progetto di ricerca proposto è quello di indagare le possibili correlazioni esistenti tra insoddisfazione sessuale, metacredenze positive e negative e rimuginio in un campione non clinico di donne adulte.

Negli ultimi anni sta crescendo l’interesse nella comunità scientifica verso l’indagine dell’insoddisfazione sessuale femminile e dei correlati psicologici di questo fenomeno (es., Unäl et al., 2020).

Diversi studi in letteratura sottolineano una forte correlazione tra sintomi ansiosi e depressivi e disfunzioni sessuali (es., Kaplan, 1974). Tuttavia, il rapporto tra disfunzioni sessuali e disturbi dell’umore è multidirezionale e per questo non è ancora del tutto chiara la relazione causale tra queste problematiche (es., Laurent e Simons, 2009).

Diversi studi sottolineano come le disfunzioni sessuali potrebbero portare a un gran numero di problematiche fisiche e psicologiche (es., Yazdanpanahi et al., 2018). D’altro canto, vi sono anche diversi studi che sottolineano come i disturbi dell’umore possano essere essi stessi causa del peggioramento nella salute sessuale (ad es. Seidman & Roose, 2000).

Per esempio, le donne con disfunzioni sessuali mostrano in comorbilità ansia, stress, depressione (Yazdanpanahi et al., 2018) e insoddisfazione per l’immagine corporea (Rodrigues et al., 2020). Allo stesso tempo, la letteratura sottolinea che le disfunzioni sessuali potrebbero essere a loro volta una conseguenza della sintomatologia depressiva (Michael & O’Keane, 2000).

In sintesi, i disturbi psicologici possono contribuire a provocare problematiche in ambito sessuale o essere una conseguenza di disfunzioni sessuali preesistenti (McCabe, 2005).

Data la forte relazione esistente tra disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e meta-credenze (es. Wells, 1995) un nuovo filone di ricerca sta indagando le possibili correlazioni tra questi fenomeni e la salute sessuale (es., Giuri et al., 2017; Lawless et al., 2021; Dikmen et al., 2019); l’accento, in particolare, è posto sulle strategie di pensiero ripetitive e negative, come il rimuginio, che gli individui mettono in atto con la convinzione di migliorare le loro performance in ambito sessuale e sulle metacredenze che sorreggono questi processi (es., Giuri et al., 2017).

Lo scopo del progetto di ricerca proposto è quello di indagare la possibile relazione tra rimuginio, metacredenze e insoddisfazione sessuale in un campione non clinico di donne adulte.

Attualmente, in letteratura, non sono presenti ricerche che mettano in relazione tutti e tre i fenomeni; tuttavia, le evidenze scientifiche presenti dimostrano che ulteriori ricerche in questo ambito potrebbero rivelarsi utili per comprendere al meglio le relazioni tra stile di pensiero e distress sessuale.

La ricerca è rivolta a tutte le persone con sesso femminile assegnato alla nascita e di genere femminile che vorranno rispondere. Tutte le partecipanti dovranno essere sessualmente attive e aver compiuto almeno i 18 anni di età.

 

PER RISPONDERE AL QUESTIONARIO:

CLICCA QUI 9998

 

L’istigazione al suicidio in rete: suicidio consapevole ed accidentale

In adolescenza il suicidio risulta essere la seconda causa di morte più frequente e, solo nell’ultimo anno, i tentativi di suicidio e di autolesionismo tra gli adolescenti sono aumentati del 30%.

 

Il suicidio in adolescenza

Secondo una stima dell’OMS in Italia decidono di mettere in pratica azioni suicidarie legate ai social media circa 3500 ragazzi all’anno tra i 15 ed i 29 anni, utilizzando il web come palcoscenico per togliersi la vita (Mason, 2010).

All’interno dei social media sono nati tra i giovani i cosiddetti “patti della morte”: si tratta di patti stipulati tra ragazzi che si conoscono tramite le varie piattaforme online e che, dopo aver trascorso del tempo a parlare, decidono insieme dove, quando e come togliersi la vita; risale al 1998 il primo caso in cui la scoperta della morte di una donna per l’assunzione di una dose di cianuro, ha portato alla scoperta di altre nove vittime dovute allo stesso destino, tra le quali lo stesso venditore della sostanza (ibidem).

Riprendiamo le parole riportate dallo psicologo e professore di psicologia alla Niigata Seiryo University, Mafumi Usui:

La depressione giovanile e Internet sono un mix molto pericoloso, dalla dinamica dietro ai recenti suicidi di gruppo emerge che spesso questi giovani aspiranti suicidi decidono di attuare il loro progetto dopo essersi ritrovati con propri simili su un qualche sito che tratta l’argomento e che spesso suggerisce anche specifici modi di portare a termine il suicidio.

Egli sostiene inoltre che il problema principale di queste particolari tipologie di suicidi non sia ricollegabile totalmente ad Internet, poiché questo è solo un veloce mezzo attraverso il quale viene sostenuto il desiderio di porre fine alla propria vita (Mason, 2010). In America si parla di suicide-related contagion, letteralmente “contagio correlato al suicidio”, proprio perché la diffusione di tale fenomeno può avvenire sia tra individui che attraverso mezzi indiretti, quali i social media (Sumner – Burke – Kooti, 2020). I meccanismi utilizzati per diffondere comportamenti correlati al suicidio possono dipendere da diversi fattori quali: l’alterazione delle norme sociali per quanto riguarda il suicidio e l’identificazione con individui che presentano caratteristiche simili al soggetto (di per sé vulnerabile), il tutto accompagnato dal supporto della teoria dell’apprendimento, per la quale il comportamento si apprende tramite l’osservazione degli altri.

In adolescenza il suicidio risulta essere la seconda causa di morte più frequente, per lo più dovuto allo sviluppo di un senso di solitudine e di isolamento dal punto di vista socio-affettivo (State of Mind, 2019). Solo nell’ultimo anno i tentativi di suicidio e di autolesionismo tra gli adolescenti sono aumentati del 30%: ne parla il Neuropsichiatra dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma Stefano Vicari, che spiega come i giovani che ricorrono ad azioni autolesionistiche o suicidarie si dividano principalmente in due tipologie: coloro che per dimostrare la loro superiorità tendono a sviluppare comportamenti aggressivi, recando dolore a loro stessi e a chi li circonda; e coloro che invece di esternare la propria frustrazione tendono a chiudersi nel proprio mondo, rischiando di non volerne più uscire (Betti, 2021).

Tramite l’utilizzo dei social media sono aumentati i casi di quello a cui personalmente attribuisco il termine “suicidio accidentale”, che si presenta nel momento in cui la giovane vittima non ha come primo intento quello di mettere fine alla propria vita, ma a causa di challenge pericolose conosciute attraverso la rete, arriva a compiere un gesto insano, non totalmente inconsapevole, per il quale risulta impossibile tornare indietro.

A seguire verrà spiegata in maniera più esaustiva la differenza tra suicidio consapevole e suicidio accidentale.

Il suicidio consapevole

Il suicidio in adolescenza viene visto come possibile risoluzione al dolore psicologico: non si tratta di un gesto impulsivo, ma di un’azione che viene ponderata nel tempo in seguito alla necessità del ragazzo di allontanarsi da emozioni negative non più tollerabili (State of Mind, 2019). Tra le cause principali che possono indurre un adolescente a compiere un atto tanto estremo vi sono la depressione, l’ansia, i disturbi alimentari e l’abuso di sostanze (Rainone, et al., 2014). Per quanto riguarda la depressione è bene ricordare che circa il 70% degli adolescenti depressi hanno pensieri legati al suicidio: ciò che rende tali pensieri tanto contagiosi dipende dalla necessità di non rimanere più nell’anonimato, ma di diventare per una volta il protagonista della propria vita, anche se si tratta di una storia senza lieto fine (Zdanowicz, 2017).

Lo psichiatra Giovanbattista Maggì e la psicoterapeuta Alessandra Stringi, in un seminario tenuto a Palermo riguardo la prevenzione degli atti suicidari tra i giovani spiegano:

Il suicidio si verifica quando la realtà diviene insopportabile sofferenza e le fantasie di autoeliminazione, per evadere da tale condizione dolorosa, trovano realizzazione nell’agito. È un fenomeno intimo e complesso, non riducibile esclusivamente a sintomo di un disturbo mentale (Ganci, 2017).

Viene inoltre citata la Blue Whale Challenge che vede come vittime ragazzi che, a causa di questa sfida online, associano un’accezione positiva al suicidio, ritenendolo l’unica fonte di salvezza per le loro sofferenze (ibidem).

Il suicidio accidentale

Il suicidio accidentale si verifica nel momento in cui non è la vittima a decidere di mettere consciamente fine alla propria vita, ma lo fa attraverso delle challenge che spopolano tra i social, sfidano la sorte rischiando inconsapevolmente di arrivare al suicidio. Un esempio prorompente è quello dello Choking Game, una challenge molto diffusa tra i ragazzi attraverso il social media TikTok: sembrerebbe infatti che il 18% di coloro che conoscono tale sfida abbia provato anche a metterla in pratica, mentre il 30% conosce delle persone che hanno partecipato alla challenge (Almirante, 2021).

Il problema principale risiede nel fatto che i ragazzi reputano questi atti pericolosi come giochi o sfide da superare, la maggior parte delle volte spinti da un senso di onnipotenza che non permette loro di percepire il senso del limite: “è importante sottolineare che in quel momento ricercano la sensazione forte, non la morte” (Manca, 2018).

Dietro atti del genere però non vi sono ragazzi caratterizzati da una forte debolezza psichica e con carenze affettive importanti, ma adolescenti che, dopo aver scoperto la moda del momento, giusta o sbagliata che sia, agiscono mettendo in pratica l’emulazione, senza essere informati sui rischi a cui stanno andando incontro: l’importanza viene data maggiormente al fatto di essere a pari passo con i coetanei, senza preoccuparsi o immaginare che in tal modo potrebbero mettere a repentaglio la propria vita.

La Blue Whale Challenge e lo Choking Game in poco tempo hanno incuriosito numerosi ragazzi grazie, rispettivamente, alle tecniche manipolatorie utilizzate e alla velocità con cui hanno raggiunto un alto tasso di popolarità. La curiosità e la smania di provare nuove esperienze, spesso porta a sottovalutare le situazioni nelle quali il singolo si sta imbarcando, con il rischio di incorrere in un pericoloso naufragio: il suicidio, consapevole o accidentale.

 

cancel