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Meditare con la vita (2022) di A. Montano e V. Iadeluca – Recensione

L’obiettivo delle autrici di Meditare con la vita è quello di avvicinare chi, per diversi motivi, vuole iniziare a praticare la mindfulness.

 

La pratica della mindfulness s’ispira alla millenaria tradizione vipassana e consente di avere un atteggiamento di consapevolezza, di essere sé stessi nel momento presente, sospendendo valutazioni e giudizi. Con l’attenzione focalizzata su ciò che semplicemente è, viene disattivato quello che può essere considerato un pilota automatico che ci fa agire come fossimo dei robot programmati e, pertanto, ci consente di aumentare la nostra libertà e un maggiore controllo sulla nostra vita.

Il modo mindful, per entrare nella vita di ognuno, ha bisogno di essere trasformato in un’esperienza continua alimentata dalla pratica formale e, per far sì che il lettore familiarizzi con questa impostazione, già nell’introduzione del libro è presentato un esercizio di consapevolezza del respiro, uno dei tanti che sono illustrati nel testo.

Il libro è articolato in tre parti.

La prima è dedicata a definire che cosa sia la mindfulness, a tracciarne lo sviluppo storico e i principi di fondo che ne rappresentano il cuore. L’esperienza come gioco di equilibrio tra corpo, emozioni e pensieri. La distanza dalle doverizzazioni, giudizi e desideri. La modalità dell’essere, come atto di resa totale e accettazione di ciò che è nel momento in cui è, contrapposta alla modalità del fare, che ci fa vivere in automatico, senza essere consapevoli di ciò che accade. Il respiro come àncora, punto di riferimento da cui allontanarsi e a cui ritornare. L’osservazione non giudicante per lasciare andare i pensieri che sono semplicemente eventi passeggeri. Fino a raggiungere una consapevolezza di interconnessione (inter-essere) di interdipendenza tra l’io e il tutto che, attraverso un atteggiamento equanime e compassionevole, ci fa cogliere l’impermanenza di tutte le cose, dandoci serenità d’animo.

La seconda parte è concepita per avvicinare alla mindfulness nei suoi vari formati: dalla meditazione seduta, alla meditazione camminata, sino alla pratica informale o non strutturata. Si tratta di incamminarsi lungo il sentiero stretto della semplicità, non molto congeniale alla nostra cultura.

La terza e ultima parte illustra diverse applicazioni della mindfulness per la cura delle persone, prendendo in esame il protocollo standard di riduzione dello stress, e una delle possibili applicazioni per bambini.

Il volume si chiude con una rassegna degli approcci alla psicoterapia che utilizzano la pratica.

Il libro è un ottimo compendio di esercizi per allenare una mente mindful, con indicazioni pratiche molto utili a chi vuole cimentarsi per rendere la propria vita degna di essere vissuta con un atteggiamento verso sé stessi, gli altri e il mondo, di comprensione empatica, compassione, accoglienza non giudicante, presenza consapevole.

 

Il legame tra rischio di suicidio e solitudine dopo un lutto

In che modo la solitudine e l’isolamento dopo un lutto improvviso influenzano il rischio di suicidio?

 

L’associazione tra solitudine e rischio di suicidio

Per ogni persona che si suicida, all’incirca 800.000 persone all’anno in tutto il mondo, altre 20 tentano il suicidio (WHO, 2014). Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ipotizzato che un senso di isolamento potesse essere considerato un fattore di rischio per il suicidio. Il senso di isolamento può essere provocato sia dalla solitudine che dall’isolamento sociale. La solitudine è stata concettualizzata come un’esperienza spiacevole che si verifica quando la rete di relazioni sociali di una persona è insufficiente dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo; come una sensazione interiore di non essere connesso agli altri e infine come una sensazione negativa di mancanza o perdita di compagnia. L’isolamento sociale è invece una mancanza oggettiva di contatti sociali (de Jong Gierveld, 1998). Entrambi questi costrutti hanno degli effetti negativi sulla salute fisica e mentale, sembrano infatti associati al tasso di suicidi (Stickley & Koyanagi, 2016). È probabile, infatti, che le persone che si sentono sole siano insoddisfatte della propria vita e che percepiscano di avere scarse connessioni sociali. Inoltre la solitudine può aumentare lo stress cronico, la bassa autostima e accrescere la sintomatologia depressiva.

Diversi sono i modelli teorici che hanno tentato di spiegare l’associazione tra solitudine e suicidalità: il costrutto dell’appartenenza contrastata, per esempio, descrive ciò che insorge quando il bisogno fondamentale di formare e mantenere relazioni interpersonali forti e stabili non è soddisfatto, con conseguenti sentimenti di disconnessione; la teoria interpersonale del suicidio considera l’appartenenza contrastata come inclusiva sia della solitudine sia dell’assenza di relazioni di cura (Ma et al., 2019). Il modello integrato motivazionale volitivo (IMV) propone invece che l’appartenenza contrastata e l’idea che la propria esistenza sia un peso per gli altri spieghino il passaggio dall’ideazione suicidaria al tentativo di suicidio (O’Connor & Kirtley, 2018).

Il rischio di suicidio dopo un lutto improvviso

Anche la solitudine derivante da un lutto improvviso può essere un fattore di rischio per il suicidio in quanto il lutto improvviso è esso stesso un fattore di rischio, soprattutto quando la morte è avvenuta per suicidio. Sembra infatti che alcuni fattori come la solitudine, l’isolamento sociale e il poco sostegno sociale siano coinvolti nel rischio di suicidio dopo un lutto improvviso. La solitudine dopo una morte improvvisa può essere provocata da un senso di perdita di una relazione. Inoltre il suicido spesso genera imbarazzo e tabù nelle persone che circondano il defunto, che causano un conseguente isolamento sociale per evitare di dover dare spiegazioni. Infine, la consapevolezza degli atteggiamenti negativi degli altri verso la perdita causata da un lutto improvviso, è uno dei principali fattori che causano solitudine, poiché alcuni individui percepiscono che gli altri possano fare pettegolezzo sul defunto, possano attribuire la colpa a qualcuno e si cerca quindi di evitare ogni contatto. Tale stigma viene esperito nei familiari, soprattutto a seguito delle morti improvvise, e ancor di più per quelle per suicidio. Alcune possibili spiegazioni religioso-culturali dell’imbarazzo provato vedono il suicidio come un atto deplorevole e le morti accidentali come un atto irresponsabile. Inoltre lo stigma percepito di un lutto improvviso è associato al rischio di pensieri e tentativi di suicidio. Ovviamente non è sempre detto che il lutto inatteso influenzi tutti gli individui; gli esiti negativi dipendono dalla vulnerabilità personale, dalla qualità della relazione con il defunto e dal supporto sociale che si ha dopo un evento traumatico.

Il legame tra solitudine e rischio di suicidio dopo un lutto improvviso

Per comprendere meglio il ruolo che l’isolamento sociale e la solitudine hanno nella suicidalità, Pitman e colleghi nel 2020 hanno condotto uno studio per indagare se una maggiore solitudine fosse associata a una maggiore probabilità di tentativi di suicidio o ideazione suicidaria dopo un lutto improvviso, distinguendo un lutto suicida da un lutto non suicida. Gli autori hanno quindi analizzato i dati raccolti nel UCL Bereavement Study del 2010, identificando 3193 intervistati che avevano vissuto un lutto improvviso. Per ciascun partecipante sono stati rilevati: la solitudine, utilizzando una misura a otto voci estrapolate dall’Adult Psychiatric Morbidity Surveys (APMS; McManus et al., 2009) e i tentativi di suicidio e l’ideazione suicidaria auto-riferiti (Bebbington et al., 2010). Inoltre ai soggetti sono stati somministrati il Composite International Diagnostic Interview (CIDI; Robins et al., 1988)) per misurare la depressione; la Standardised Assessment of Personality-Abbreviated Scale (SAPAS; Moran et al., 2003) per identificare un possibile disturbo di personalità; una sottoscala del Grief Experience Questionnaire (GEQ; Bailley et al., 2000) che misura lo stigma percepito della perdita improvvisa e infine una parte dell’Interview Measure for Social Relationships (IMSR) per valutare la dimensione della rete sociale. I risultati mostrano che, negli adulti in lutto, la solitudine era significativamente associata alla probabilità di un tentativo di suicidio e all’ideazione suicidaria post-lutto; tale associazione non è però spiegata dalla mancanza di amici o familiari o dal sentirsi stigmatizzati dalla perdita.

Il senso di solitudine non ha avuto un effetto maggiore sulla suicidalità tra le persone in lutto per suicidio rispetto alle persone in lutto per una morte differente, sebbene le persone in lutto per suicidio avessero una probabilità significativamente più alta di tentativo di suicidio post lutto (Pitman et al., 2016). Sarebbero necessari ulteriori studi per analizzare più nello specifico le associazioni tra stigma, solitudine, malattia mentale, supporto sociale e suicidalità nelle persone che hanno subìto un lutto. I risultati suggeriscono la necessità di figure professionali come medici di medicina generale, organizzazioni di volontariato e reti che sostengono le persone in lutto, di indagare sulla solitudine e considerare i modi per affrontarla. È possibile però che lo stigma di ammettere di sentirsi soli possa condizionare l’identificazione del problema, soprattutto nelle persone che desiderano nascondere il loro senso di isolamento. Un gruppo di supporto per il lutto tra pari può essere un modo per creare relazioni tra le persone in lutto, in particolare coloro che sono escluse dal gruppo di coetanei non in lutto. I gruppi, infatti, potrebbero fornire loro un contesto in cui esprimere il dolore sentendosi accettati e capiti dalle altre persone (Young et al., 2016).

 

La psicologia dell’anziano – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il quarto episodio del podcast dedicato alla psicologia dell’anziano. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Roberta Sciore.

Dove ascoltare il quarto episodio:

 

“Ti ferisco per colpa tua”: la gelosia nella violenza relazionale

Maggiore è la considerazione che viene data all’onore, più frequente è l’utilizzo della gelosia come giustificazione dei comportamenti aggressivi attuati sul partner.

 

La violenza all’interno della coppia

Devries e colleghi (2013) hanno riportato che almeno un quarto delle donne, nella propria vita, esperisce una qualche forma di violenza da parte del proprio partner. La violenza da parte del partner può comportare una serie di conseguenze negative per la salute, come depressione, abuso di sostanze, malattie sessualmente trasmissibili e morte (Pichon et al., 2020).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS; 2021) definisce quattro tipologie di violenza da parte del partner: (1) la violenza fisica, la quale include una serie di comportamenti fisici che vanno dal tirare schiaffi all’omicidio; (2) la violenza sessuale, che include coercizione sessuale; (3) la violenza psicologica, come insulti, umiliazioni e minacce; (4) i comportamenti di controllo, che comprendono l’isolare il partner da familiari e amici, monitorare i suoi spostamenti e impedirgli una serie di attività che possono essere ricreative o lavorative. È stato osservato che la violenza psicologica è molto più frequente (81%) rispetto alla violenza fisica (12%) (Sebastiàn et al., 2014). Inoltre, entrambi i generi possono perpetrare violenza nei confronti del partner, tuttavia le donne attuerebbero un tipo di violenza più psicologica che fisica rispetto agli uomini, i quali invece utilizzano più frequentemente violenza fisica (Sebastiàn et al., 2014). Tali comportamenti spesso possono essere causati dal fatto che un individuo percepisca il proprio partner relazionale come una persona infedele (Puente e Cohen, 2003). L’infedeltà è definita come l’atto di avere un rapporto sessuale con qualcuno che non sia il proprio partner ufficiale

La gelosia relazionale

La gelosia relazionale compare quando l’individuo percepisce una minaccia, o una reale perdita, riguardo una relazione ritenuta significativa con un’altra persona a causa di un rivale, sia esso reale o immaginario, che può attirare le attenzioni del partner (DeSteno e Salovey, 1996). È importante notare che la sola preoccupazione per la perdita del partner non risulta essere una condizione sufficiente ad attivare i meccanismi della gelosia; infatti, l’elemento determinante della gelosia sembra essere la presenza del rivale e che egli venga percepito come minaccia reale alla relazione (Desteno e Salovey, 1996; Pfeiffer e Wong, 1989). Il risultato della gelosia è un insieme di diverse emozioni, che possono differire in base al contesto e alla cultura, come la frustrazione, la rabbia, l’insicurezza, la tristezza, la vergogna e l’umiliazione (Pichon et al., 2020).

La gelosia può essere inoltre vista come un insieme di tre differenti dimensioni che possono essere attive in concomitanza, ovvero: (1) la dimensione cognitiva, che fa riferimento ai pensieri riguardanti la gelosia; (2) la dimensione emotiva, che fa riferimento all’attivazione emotiva causata da pensieri o situazioni legate alla gelosia; (3) la dimensione comportamentale, che fa riferimento ai comportamenti di controllo e prevenzione attuati per evitare che avvenga un atto di tradimento da parte del partner con una terza figura (Pfeiffer e Wong, 1989).

La percezione di infedeltà del proprio partner può condurre l’individuo ad esperire una forte gelosia nella coppia (Puente e Cohen, 2003). Se elicitata da pensieri di gelosia, la violenza relazionale viene erroneamente giudicata a volte come giusta e, a causa di ciò, molti comportamenti violenti vengono visti come “atti d’amore”. È stato osservato che circa il 32% delle persone che attuano comportamenti di violenza in risposta alla gelosia li percepiscono come derivanti dall’amore nei confronti del partner. Il dato interessante è che anche il 27% delle vittime di tali violenze li giustificano per la medesima ragione. Alcune donne sembrano vivere la violenza da parte dei propri partner come una sorta di impegno nella relazione.

Le giustificazioni della violenza e il concetto di onore

È stato osservato che gli individui che attuano dei comportamenti violenti nei confronti del partner tendono ad utilizzare la dimensione cognitiva come mezzo per giustificare le proprie azioni (Rodríguez-Espartal, 2021). Infatti, in alcuni casi, i pensieri antecedenti ai comportamenti di violenza sono collegati ad ideologie, come la percezione di inferiorità del genere femminile e l’idea di superiorità dell’uomo.

Sono inoltre presenti altri bias cognitivi, che non sono direttamente legati alla percezione del ruolo della donna, come il concetto di onore e l’uso della violenza come mezzo legittimo per risolvere delle situazioni conflittuali (Rodrìguez-Espartal, 2021). In base alla cultura, il concetto di onore è stato spesso utilizzato per giustificare le azioni aggressive nei confronti del partner. La cultura dell’onore, in questo caso, può far riferimento alle reazioni emotive causate dalla minaccia a qualcosa che viene percepito come proprio, sia esso un oggetto o una persona. Per quanto riguarda l’ambito della relazione di coppia, la cultura dell’onore vede al suo centro una società patriarcale, dove l’uomo comanda e la donna ha il dovere di obbedire. Qualora la donna dovesse rifiutarsi di eseguire ciò che il partner comanda, verrebbe meno l’onore di quest’ultimo, autorizzandolo così ad utilizzare la violenza come mezzo per ristabilire la propria posizione di potere, supportato dal concetto di onore stesso e dalla società. È interessante constatare che in molte culture l’onore e la gelosia sono aspetti direttamente collegati, infatti, generalmente, l’idea che la propria partner possa avere una relazione extra-coniugale è considerata una grande onta. Così, maggiore è la considerazione che viene data all’onore, più frequente è l’utilizzo della gelosia come giustificazione dei comportamenti aggressivi attuati sul partner.

Torrado A. (2004), mediante l’utilizzo di interviste qualitative a dei detenuti di genere maschile condannati per violenza sessuale e domestica nei confronti del proprio partner, ha sottolineato che il 70% degli intervistati abbia usato il comportamento della donna come una giustificazione per attuare dei comportamenti di violenza, il 60% afferma che la violenza è stata una risposta di difesa verso l’aggressione attuata dalla partner, il 40% giustifica la violenza come mezzo per riguadagnare l’autorità perduta nel contesto familiare e il 30% afferma che è stata colpa dell’abuso di alcol.

Alcune conseguenze della violenza psicologica

Per quanto riguarda la violenza psicologica, le conseguenze possono essere uguali o peggiori rispetto a quelle causate dalla violenza fisica (Schumacher, Slep e Heyman, 2001). La violenza generata dalla gelosia può non arrecare danni fisici al partner ed essere manifestata in forma di controlli e divieti. Un esempio può essere osservato nell’ambito dei social network, la cui sempre crescente popolarità ha ampliato le modalità con cui le persone comunicano ed interagiscono tra loro, spesso influenzando le relazioni romantiche (Daspe et al., 2018). Ciò favorisce l’emissione di comportamenti di controllo virtuale, che comprendono il divieto di accettare richieste di amicizia da parte di altre persone o di condividere foto ritenute inopportune. È inoltre possibile che si cerchino le password del partner al fine di utilizzare i suoi profili, invadendo così la sua privacy. Un altro esempio è quello degli abusi psicologici, la cui principale conseguenza sembra essere la comparsa di sintomi depressivi (Morland et al., 2008). È molto frequente anche la comparsa di sintomi ansiosi, e in alcuni casi è possibile che si presentino anche il Disturbo da Stress Post-Traumatico, condotte autolesive o suicidarie (Daspe et al., 2018; Morland et al., 2008). La violenza psicologica è attuata anche nei confronti delle donne in gravidanza e ciò può avere degli effetti significativamente negativi sia sulla madre che sul bambino (Tiwari et al., 2008). L’abuso psicologico da parte del proprio partner durante la gravidanza può causare una serie di complicazioni, come un parto prematuro, l’interruzione spontanea della gravidanza e la comparsa di depressione post-partum (Tiwari et al, 2008).

Conclusioni

In conclusione, la violenza relazionale -esito della gelosia- è un comportamento che può avere ricadute sulla vita e il benessere psicologico di entrambi i partner. È interessante notare come sia ampia la numerosità di uomini che utilizza la gelosia come mezzo per giustificare un’aggressione psicologica o fisica. Ulteriori ricerche potrebbero porre il focus sulle tipologie di violenza emessa dal genere femminile.

 

La dimensione psicosociale dei disturbi neurocognitivi

Nel trattamento dei disturbi neurocognitivi si sta passando da un’ottica centrata sulla malattia ad un’ottica centrata sulla persona, tenendo in considerazione la volontà e le motivazioni del paziente ad essere agente attivo della propria cura.

 

L’impatto di un disturbo neurodegenerativo differisce fortemente in base alle caratteristiche del paziente, della famiglia e del contesto ambientale in cui è inserito. Considerare gli aspetti puramente medici è un approccio utile, ma non sufficiente a comprendere a fondo cosa caratterizza questi disturbi a livello individuale e sociale. Infatti, se da una parte l’ottica biomedica ha permesso di attuare grandi passi nella ricerca, dall’altra rischia di indurre a sottovalutare aspetti molto importanti che influenzano sia l’esordio che il decorso della malattia.

Un cambiamento di approccio

Ormai da qualche decennio l’approccio elettivo della scienza psicologica è il modello biopsicosociale, concettualizzato da Engel nel 1977 ed improntato a contrastare i riduzionismi che il modello biomedico apporta. Un esempio classico di riduzionismo si può ritrovare nella concezione di un dualismo mente-corpo, che porta ad immaginare la psiche divisa dal soma e comporta di conseguenza una frammentazione corporea corroborante, tra gli altri, i disturbi psicosomatici riscontrabili in numerose persone. Il modello biopsicosociale si basa sulla teoria generale dei sistemi e mira a superare la causalità diretta che si credeva fosse alla base delle malattie, individuando invece come ci sia una presenza di fattori multipli in una ottica di causalità circolare (Delle Fave e Bassi, 2013). In questa concezione, si può pensare ai disturbi neurocognitivi come causati da – e causanti – una complessa rete di problematiche presente a livello biologico, psicologico e sociale. Vi è stato quindi un ripensamento della salute in termini soggettivi più che oggettivi, concentrandosi maggiormente sulla prevenzione a priori piuttosto che sulla cura a posteriori, seppur riconoscendo l’importanza di entrambe. Il significato di questo è esemplificabile attraverso il cambiamento in atto nel trattamento delle malattie neurodegenerative: si sta passando da un’ottica centrata sulla malattia ad un’ottica centrata sulla persona, tenendo in considerazione la volontà e le motivazioni del paziente ad essere agente attivo della propria cura (Converso, 2015).

L’approccio centrato sulla persona

L’approccio centrato sulla persona è stato inizialmente introdotto da Balint negli anni ’40, il quale sottolineava la necessità di comprendere il paziente nella sua umanità e unicità, ponendo attenzione soprattutto alla rappresentazione soggettiva della malattia da parte del paziente, contrapposta alla malattia organica a sé stante (Michie et al., 2003). In inglese, i due termini si possono tradurre rispettivamente con illness e disease, permettendo di differenziare le due componenti (Eisenberg, 1977). L’approccio è una filosofia di cura che si basa sul modello biopsicosociale e sulla visione del paziente come persona, considerando il suo vissuto, i suoi stili di coping e le risorse individuali e ambientali che gli permettono di adattarsi alla malattia. Tra professionista e paziente vi è una condivisione di potere e di responsabilità che si esplicita in un percorso terapeutico costruito insieme, valorizzando l’esperienza e le aspettative di entrambi (Delle Fave e Bassi, 2013).

In definitiva, si dovrebbe cercare di costruire una alleanza terapeutica, promossa soprattutto da atteggiamenti come empatia, coerenza, disponibilità ed apertura incondizionate. Infatti, è compito del professionista facilitare l’alleanza terapeutica, poiché è proprio questo – insieme ad una modalità di coinvolgimento attiva – che influisce sulla futura aderenza al trattamento.

Impatto sul trattamento dei disturbi neurocognitivi

Un documento pubblicato nel 2016 dalla British Psychological Society, intitolato Psychological Dimensions of Dementia: Putting the Person at the Centre of the Care, esprime chiaramente che cosa significa adottare un approccio centrato sulla persona nell’ottica dei disturbi neurocognitivi. Gli interventi devono focalizzarsi sulla persona invece che sulla malattia, con una enfasi su ciò che può aiutare questi pazienti a vivere la miglior vita possibile, permettendo loro di assumere potere decisionale e di essere attivi nella loro cura. Il modo migliore per diagnosticare, trattare e supportare gli individui affetti da disturbi neurocognitivi, e le patologie croniche progressive in generale, è attraverso un team multidisciplinare che include medici, infermieri, operatori sanitari, psicologi e psicoterapeuti (Converso, 2015). L’elemento chiave è non far perdere il senso di controllo, l’identità e connessione con le persone, per quanto i deficit cognitivi lo permettano, durante tutte le fasi della malattia. Inoltre, aumentare i contributi psicologici in questo campo ha molti benefici, tra i quali diagnosi più precoci, meno disagio psicologico, una riduzione del bisogno di farmaci, una riduzione dei pazienti in case di riposo ed una maggior qualità di vita degli anziani.

I temi affrontati nel documento sono prevenzione, assessment, pianificazione della cura e trattamento.

Prevenzione

Innanzitutto, prevenire significa ridurre il rischio di mortalità e morbilità e prolungare la tempistica dell’esordio (Middleton e Yaffe, 2009). Si fonda su una rete complessa di fattori come i geni, lo stile di vita e l’ambiente, ed è particolarmente vantaggiosa per le forme non prevalentemente genetiche di disturbo neurocognitivo, come può essere l’MCI, il morbo di Alzheimer e la demenza vascolare (Escher, 2019). È stato stimato, infatti, che un terzo dei casi di Alzheimer è attribuibile a fattori biopsicosociali potenzialmente modificabili come la ipertensione arteriosa, l’obesità, l’inattività fisica, la depressione, il fumo e la bassa scolarità. La letteratura concorda nel considerare la presenza di multipli fattori di rischio come un indice importante che porterebbe ad una precisione diagnostica maggiore. Per quanto riguarda i fattori di protezione, l’impegno sociale, l’attività fisica, la stimolazione cognitiva e una dieta sana sono tra quelli più accreditati, incrementati da interventi di prevenzione e promozione della salute basati su teorie motivazionali e di cambiamento comportamentale.

Assessment

L’assessment può essere definito come il processo diagnostico che inevitabilmente cambierà la vita della persona affetta da demenza. Dato che sottoporsi ad esso può creare un forte disagio, il supporto psicologico a priori e a posteriori è essenziale. Esso è utile in quanto permette di ascoltare le preoccupazioni del paziente e tranquillizzarlo, assicurando che comprenda le informazioni che gli vengono date e portandolo a capire che non verrà lasciato solo ad affrontare questo cambiamento. Le sedute di counseling a questo proposito si rivelano adatte, poiché permettono di concentrarsi sul problema specifico riguardante il disturbo neurocognitivo, dando anche informazioni sui test neuropsicologici, la loro natura e i possibili risultati. È importante assicurarsi il consenso informato del paziente per fare in modo che comprenda in che cosa consiste il procedimento diagnostico e quali sono le sue opzioni. La comunicazione della diagnosi deve essere fatta in maniera sensibile, con alcune linee guida da seguire, rivolte agli psicologici ma soprattutto ai medici che non hanno ricevuto un training specifico in questo.

Pianificazione della cura

L’aderenza al trattamento si basa spesso sui meccanismi di difesa e sulle strategie di coping messi in atto successivamente alla comunicazione della diagnosi (Delle Fave e Bassi, 2013). Vi sono pazienti che la accettano e si attivano per migliorare la situazione, mentre altri la negano o la sottovalutano, probabilmente per non subire la pressione psicologica di una comunicazione così nefasta. La non consapevolezza della malattia può comunque essere data dai deficit cognitivi, se questi sono già abbastanza avanzati, e in quel caso la pianificazione viene svolta principalmente con il caregiver e la famiglia, tenendo in considerazione la probabile volontà del paziente. Il supporto deve essere il più possibile individualizzato ed è rilevante mantenere contatti regolari che, oltre all’aspetto più prettamente clinico, svolgono il ruolo di ancorare alla realtà e instaurare un senso di fiducia e connessione, mitigando l’impatto di alcuni sintomi.

Il trattamento

La tematica finale riguarda il trattamento, nel quale l’aspetto farmacologico dovrebbe essere corredato da interventi psicosociali evidence-based (non solo cognitivo-comportamentali, ma anche sistemici, psicodinamici etc..) a supporto del paziente e della famiglia (Brodaty et al., 2003). Gli interventi più efficaci in questo ambito rimandano alla creazione di un senso di appartenenza, come la creazione di comunità di anziani affetti dalle stesse problematiche che si impegnano in attività di reminiscenza collettiva, stimolazione cognitiva, attività creative, stimolazione sensoriale e così via. Il supporto sociale e la creazione di una rete amicale permetterebbero un aumento del benessere con conseguente diminuzione del bisogno di farmaci.

Gli interventi dovrebbero essere volti anche ad aiutare la transizione del paziente in una casa di riposo dato che può essere destabilizzante sia per quest’ultimo che per la famiglia. A questo proposito, è stato messo in luce come la maggior parte dei pazienti metta in atto comportamenti bizzarri una volta diventati residenti, e come spesso la risposta degli operatori sanitari sia di prescrivere antipsicotici o tranquillanti. Viene quindi proposto di utilizzare un approccio farmacologico solo successivamente ad aver tentato un intervento psicosociale, che tenga conto del significato del comportamento, piuttosto che considerarlo inevitabile data la malattia, e che possa in questo modo prevenirlo (Brooker et al., 2016). Per quanto riguarda la frequente comorbidità con altre patologie, viene raccomandato di trattarle solo se è nei migliori interessi della persona.  Lo stesso concetto si applica al trattamento in fase terminale della malattia: si privilegia la qualità della vita piuttosto che la quantità, per cui è preferibile mantenere solo cure palliative piuttosto che tentare interventi straordinari, se in questi ultimi vi è uno sbilancio tra la quantità di sofferenza imposta e i probabili risultati (Trabucchi, 1998)

Interventi con i caregiver

In ultimo, diventa estremamente importante supportare i caregiver e coinvolgerli nel processo decisionale del trattamento con interventi atti ad aumentare la resilienza, le strategie di coping adattive e a ridurre il distress psicologico. La modalità migliore consisterebbe nell’offrire approcci psicologici multicomponenziali a breve termine con un contatto mantenuto anche in seguito.

Qualunque sia la natura del disturbo neurocognitivo, è inevitabile che il caregiver sperimenti emozioni come tristezza, rabbia e frustrazione. Di conseguenza, i vari interventi psicologici disponibili, elencati dai medesimi autori, devono innanzitutto permettere l’espressione delle inevitabili emozioni negative viste spesso come inaccettabili, in modo da normalizzarle e rielaborarle. In secondo luogo si dovrebbe spronare il caregiver a ritagliarsi un po’ di tempo per svolgere le proprie attività, informando sui servizi disponibili a riguardo (es. centro diurno o gruppo di supporto).

 

Incantato: dentro gli attacchi di panico di M. Razzetti – Recensione

Michele Razzetti si è laureato in Scienze Linguistiche. È giornalista collaboratore anche di Vanity Fair, ideatore di linguinsta.com, consulente di comunicazione ed autore del romanzo Incantato: dentro gli attacchi di panico, edito con pubblicazione indipendente nel gennaio 2022, un libro che intende cambiare il punto di vista sul disturbo di panico.

 

Il protagonista del romanzo di Razzetti è un giovane insegnante, Lorenzo, la cui vita viene sconvolta dal manifestarsi di un disturbo d’ansia invalidante, quale è il disturbo di panico. Attraverso la storia di Lorenzo, la cui vita si sbriciola a causa della comparsa degli attacchi di panico, tanto che rischia di perdere tutto (il lavoro, le relazioni sociali e la stessa possibilità di sopravvivenza) Razzetti non solo descrive ciò che si prova durante l’attacco di panico e quanto sia limitante soffrire di disturbo di panico, ma indica la strada per attraversare la tempesta generata dall’ansia ed uscirne positivamente.

Il termine panico, per gli antichi greci, indicava quel timore misterioso ed indefinibile che essi ritenevano causato dalla presenza del dio Pan, dio delle montagne e della vita agreste. Nel linguaggio psicologico il panico corrisponde alla forte ansia che porta chi la vive a trovarsi in uno stato di confusione caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali. Questa forte ansia in alcuni casi si associa ad agorafobia o ad una condotta di evitamento fobico. Esperire il panico significa provare il timore per una minaccia che genera un sentimento d’allarme caratteristico dello stato d’ansia, che si rivela anche attraverso il linguaggio del corpo. L’ansia anticipatoria, presente nel disturbo di panico, può essere definita come la paura che si prova pensando che un nuovo attacco possa sopravvenire, in questo caso chi ne soffre inizia a convivere con uno stato di allerta persistente. A lungo andare si strutturano condotte di evitamento che, nella maggior parte dei casi, si organizzano per l’intensificarsi della frequenza delle crisi e per la tendenza ad associare gli attacchi con situazioni e luoghi specifici (Castrucci, 2021; Nuzzo, 2021).

Così Lorenzo ha il timore di non riuscire più ad entrare in un’aula scolastica e a condurre la sua vita.

L’opera di Michele Razzetti ha dei riferimenti autobiografici, come lo stesso autore ha rivelato nell’intervista pubblicata da Vanity Fair: “Sì, so per esperienza diretta cosa significa convivere 24 ore al giorno con un pensiero che ti perseguita e al quale è impossibile sfuggire, perché non c’è velocità che non possa eguagliare. Per me è importante dirlo con disinvoltura perché più ne parliamo più aumenta la possibilità che un domani le persone che soffrono per questi disturbi non si sentano drammaticamente sole e titubanti nel chiedere aiuto”.

In questa dichiarazione si ritrova lo spirito del romanzo; i disturbi di panico e le altre psicopatologie, che durante la pandemia Covid hanno visto aumentare la loro incidenza, sono vissute con vergogna e rappresentano uno stigma sociale. Razzetti, scrivendo un romanzo, anziché un manuale od un saggio, si rivolge così ad un pubblico il più ampio possibile, per comunicare come il disturbo di panico, al pari di altre situazioni di crisi, è superabile attraverso la sua accettazione ed attraverso un paziente e costante esercizio quotidiano. Razzetti contribuisce con il suo libro a combattere la stigmatizzazione dei disturbi psicologici ed offre un contributo al cambiamento con cui si vuole modificare il modo in cui il disturbo di panico è attualmente considerato. Si può rimanere “incantati”, cioè bloccati, dall’ansia o si può riuscire a trovare i risvolti positivi, che esistono anche in questa situazione, e farli divenire punti di forza.

 

“Ho solo vent’anni”: la crisi del quarto di vita

Lo scopo dello studio di Agarwal et al. (2020) è stato quello di esplorare se la crisi del quarto di vita è rappresentata nei social media utilizzando caratteristiche linguistiche che possono fornire illuminazioni empiriche sulle crisi che i giovani adulti vivono in questa fascia d’età.

 

Cosa si intende con crisi del quarto di vita?

La “crisi del quarto di vita” (Quarter-Life Crisis, QLC) è un fenomeno riguardante le sfide della prima età adulta (Rosen, 2019). Secondo la teoria di Arnett (2000) vi sono cinque caratteristiche di sviluppo che definiscono la fascia d’età 18-28 anni, quali: (1) sentirsi ambigui nei panni dell’adulto – i giovani in questa fascia d’età tipicamente si descrivono come se fossero in un limbo tra l’adolescenza e l’età adulta; (2) un periodo di esplorazione attiva di sé e del mondo; (3) un periodo di instabilità nei ruoli e nelle relazioni derivante da una continua mancanza di legami a lungo termine che permette cambiamenti nello stile di vita, nel ruolo e nella residenza; (4) un periodo di auto-focalizzazione adattiva in cui i giovani cercano di investire nel proprio futuro; (5) un periodo di concentrazione sul futuro e ottimismo. Gli episodi di crisi si verificano tipicamente verso l’ultima fase della prima età adulta e durano circa un anno (Robinson, 2016). Si tratta di periodi di instabilità, di transizione e di emozioni intense accompagnati da una messa in discussione della propria identità nel contesto dei ruoli e delle relazioni. A seguito della crisi, ci può essere una crescita se vengono apportate modifiche sostanziali allo stile di vita, o sentimenti di depressione e diminuzione dell’autostima se i tentativi di farvi fronte falliscono (Robinson e Wright, 2013).

La crisi del quarto di vita sui social network

La rappresentazione scritta di eventi ed esperienze autobiografiche sui social media è un’importante frontiera per la ricerca psicologica (Toseeb e Inkster, 2015), in quanto attinge a costrutti generici collegati a preoccupazioni culturali più ampie (van Dijck, 2007). I post che si riferiscono a eventi ed esperienze di vita reali servono, inoltre, a reificare il passare del tempo in una storia di vita semplificata e documentata pubblicamente, che può aiutare l’individuo a creare una narrazione significativa dei suoi cambiamenti di vita (Rettberg, 2009).

Lo scopo dello studio di Agarwal et al. (2020) è stato quello di esplorare se la “crisi del quarto di vita” è rappresentata nei social media utilizzando caratteristiche linguistiche che possono fornire illuminazioni empiriche sulle crisi che i giovani adulti vivono in questa fascia d’età.

I dati analizzati in questo studio sono stati derivati dai post pubblici condivisi su twitter fra il 2011 ed il 2015. Utilizzando l’interfaccia di programmazione delle applicazioni (API) delle ricerche su Twitter, i ricercatori hanno ottenuto un campione composto da 3,200 utenti, inglesi ed americani, di età compresa fra i 18 ed i 30 anni, che avessero menzionato di essere in una crisi del quarto di vita (QLC).

Dopo aver filtrato i post, escludendo tematiche specifiche (es. tweet di auguri, ironia sulla QLC) sono rimasti 1,390 utenti. Per ogni utente è stata ottenuta una timeline di tweet, per un totale di 1.5 milioni di messaggi. I dati di questi utenti sono stati utilizzati per formare il gruppo “QLC” e sono stati paragonati con i dati di un gruppo di controllo formato da utenti coetanei che non avessero menzionato in nessuna occasione la QLC. Visto che il campione risultava essere composto principalmente da donne, confrontando i dati con la letteratura precedente, i ricercatori hanno dedotto che la crisi del quarto di vita sembra colpire maggiormente le donne (Robinson & Wright, 2013), le che e stesse tendono a condividere sui social più frequentemente le esperienze emotive  (Kivran-Swaine et al., 2012).

I dati sono stati impiegati in un’analisi linguistica ottenuta grazie a tre tipologie di analisi: (a) Open-vocabulary clustering, (b) Linguistic Inquiry Word Count (LIWC) analysis, (c) Theory-based analysis.

L’Open-vocabulary clustering è stata impiegata per identificare gli argomenti maggiormente discussi nel gruppo QLC, rispetto al gruppo di controllo. Questa analisi è stata condotta grazie al “toolkit” DLATK (Schwartz et al., 2017). Per ogni post sono state identificate le parole e le emoticons (es :) o :-D) maggiormente utilizzate per poter formare dei network di parole in ordine per cui più frequentemente fossero state utilizzate, più sarebbero state visivamente in evidenza (colori, dimensioni delle scritte all’interno del network).

Per quanto riguarda la Linguistic Inquiry Word Count (LIWC), le parole dei tweet selezionati sono state suddivise in 73 categorie (es. Soldi, Famiglia) per valutare quanto fossero associabili a caratteristiche degli utenti quali livelli di stress, benessere e personalità (Pennebaker et al., 2015). Da ciascun post su Twitter è stata calcolata la frequenza delle singole parole e delle frasi (composte da due o tre parole consecutive). Grazie al software LIWC è stato creato un dizionario delle parole maggiormente utilizzate, suddivise in categorie specifiche. Per quanto riguarda la Theory-Based Analysis, grazie ad una revisione concettuale e tematica degli studi qualitativi sulla QLC, sono stati identificati 20 concetti chiave legati alle caratteristiche linguistiche dei contenuti sulla QLC socialmente condivisi (Robinson et al., 2013; Robinson, 2019).

Secondo queste analisi, i termini maggiormente utilizzati sarebbero: bloccato, provare, lasciare, cambiare, disoccupato, solo, senza speranza, sopraffatto, ingiusto, fallire, affrontare, debito, significato, intrappolato, provare, nuovo, identità, licenziato, soldi.

Crisi del quarto di vita vissuto e difficoltà dei giovani adulti Fig 1

L’associazione tra crisi del quarto di vita e lavoro

Nello specifico, la parola “lavoro” risulta essere più fortemente associata alla QLC. Ciò riflette il principio secondo cui i resoconti di questa fase di vita ruotano principalmente attorno a problemi inerenti la ricerca o l’andamento del lavoro. Le caratteristiche prevalenti nella crisi del quarto di vita erano “sentirsi intrappolati in un lavoro in cui non vorrei essere” e “sperimentare un forte livello di stress e pressione nel lavoro” (Robinson e Wright, 2013).

Inoltre, è emersa l’associazione della parola “tempo” con la QLC, la quale mostra la presenza di un focus sul futuro con termini come “domani”, che preparano e anticipano gli eventi. Ciò si adatta a una delle cinque caratteristiche principali della prima età adulta, ovvero la preoccupazione ottimistica per il futuro. Allo stesso modo, anche i pronomi personali nei tweet inerenti alla QLC si adattano ai risultati precedenti, i quali mostrano un uso maggiore dei pronomi personali da parte degli utenti con problemi di salute mentale rispetto ai gruppi di controllo (De Choudhury et al., 2013).

Inoltre, tali risultati si adeguano ai postulati teorici riguardanti la prima età adulta secondo cui i giovani che stanno attraversando questa fase hanno una maggiore concentrazione su di sé rispetto agli adulti di altre fasce d’età (Arnett, 2000), in quanto le crisi implicano un’estesa messa in discussione dell’identità in termini di “chi sono” nel contesto della società, dei ruoli e delle relazioni (Robinson et al., 2013). Gli argomenti inerenti l’esercizio fisico, viaggi, alcol e sport riflettono molti dei modi attraverso cui i giovani adulti si impegnano per far fronte allo stress (Arnett, 2014) e possono essere collegati alla crisi del quarto di vita come strategie di coping (Cairney et al., 2014). La ricerca epidemiologica mostra come il consumo di alcol raggiunga picchi nella prima età adulta (McManus et al., 2016) e che l’alcol potrebbe essere una forma di automedicazione contro lo stress e l’ansia (Cooper et al., 1992). Una nuova scoperta emersa dallo studio è l’associazione tra la QLC e l’idiosincrasia ortografica che può essere utilizzata per trasmettere l’intensità dell’esperienza, per cui espandere la parola in termini di dimensioni accresce la forza del suo significato. Per quanto concerne i risultati del LIWC, è stato riscontrato che la QLC correla con parole che si riferiscono al tempo, al cambiamento e al movimento, riflettendo come la crisi del quarto di vita sia spesso un momento di cambiamento e transizione.

 

Deepfake: la “uncanny valley” di Mori e il perturbante

Masahiro Mori, scrive un celebre articolo nel 1970 dal titolo The Uncanny Valley (bukimi no tani), sul fenomeno percettivo legato al senso di affinità (o familiarità) che le persone provano rispetto alla visione di automi robotici.

 

Il politico conservatore Sud-coreano Yoon Suk-yeol, si è recentemente reso noto per essere stato il primo candidato politico al mondo ad aver fatto ricorso ad una tecnica di Intelligenza Artificiale durante la sua campagna elettorale. Si è infatti manifestato pubblicamente, durante una conferenza stampa, presentando un avatar digitale creato attraverso l’uso di una tecnica chiamata deepfake.

Attraverso l’uso di sistemi di Machine Learnings sempre più sofisticati, è infatti possibile riprodurre facce di personaggi famosi, in modo talmente perfetto da poter ingannare l’occhio umano: è possibile poi “applicare” tali immagini sopra il viso di un attore e, facendolo recitare come il personaggio in questione, si potrebbe ingannare lo spettatore in modo del tutto convincente. È infatti possibile vedere tutta una serie di episodi (anche comici) che coinvolgono questa tecnologia: ne troviamo diversi esempi in ambito politico, cinematografico, e in diversi altri ambiti, per esempio sono stati utilizzati per creazione di accounts falsi su LinkedIn (Broad, 2020).

Questa tecnologia si serve di algoritmi che, una volta appreso a distinguere tra immagini reali e false, generano prototipi che il sistema stesso ritiene realistici. Per la produzione di prodotti deepfakes viene utilizzata una metodologia specifica di Machine Learning chiamata Generative Adversarial Network. Due componenti agiscono all’unisono e in modo competitivo: il “generatore” propone esempi random di immagini umane alla seconda componente, chiamata “discriminatore”, che in secondo momento dovrà decidere se tale immagine è reale oppure no (Broad, 2020). Il sistema, a seconda dei feedback nati dalle due componenti, apprende quali patterns e caratteristiche permettono di “ingannare” l’occhio umano al punto tale da creare immagini del tutto identiche a quelle reali.

Al di là delle ragioni politiche che hanno spinto il candidato Sud-coreano verso tale scelta, questo tipo di tecnologia richiama la necessità di interrogarsi sugli effetti percettivi legati a questo tipo di prodotto. L’oggetto reale e la sua copia digitale sono veramente indistinguibili? E se così non fosse, quali effetti susciterebbe nell’osservatore la visione di una copia umana – di certo simile- ma non perfetta?

La “Uncanny Valley” di Masahiro Mori

Il professore di robotica presso il Tokyo Institute of Technology, Masahiro Mori, scrive un celebre articolo nel 1970 dal titolo The Uncanny Valley (bukimi no tani). Lo studio verte sul fenomeno percettivo legato al senso di affinità (o familiarità) che le persone provano rispetto alla visione di automi robotici.

L’ipotesi di fondo si basa su un concetto semplice: tanto più un robot assume fattezze umane, tanto più alto sarà il grado di affinità emotiva (Shinwakan) che il partecipante prova nei confronti dell’automa. È opportuno quindi tenere a mente queste due variabili: la prima è il grado di somiglianza che l’oggetto ha rispetto all’essere umano; la seconda verte su un giudizio espresso dalla persona circa la percezione di familiarità che quell’oggetto evoca.

Prendiamo per esempio i robot industriali: sebbene svolgano movimenti ed azioni simili a quelli umani -basti pensare ad un braccio che si piega, ad una pinza che afferra- essi hanno un basso grado di somiglianza con gli esseri umani, e quindi registreranno dei bassi indici di affinità nei partecipanti. In altri termini, possiamo chiedere a dei partecipanti “quanta affinità emotiva provi nei confronti di una pressa industriale?”, e sarebbe facile immaginare dei feedback abbastanza bassi per quanto riguarda la percezione che si ha per questo oggetto.

Andiamo oltre. Ora, come nell’ipotesi di Mori, proviamo a considerare un robot giocattolo: avremmo adesso a che fare con un meccanismo che non solo imita le azioni funzionali degli esseri umani, ma ne riproduce alcune fattezze (per esempio ha delle gambe, una faccia, ha dei capelli sulla testa). In questo caso il grado di affinità cresce, ed infatti non è un caso che tali oggetti siano altamente presenti nel mercato dedicato ai bambini, allo svago e alla creatività. Finora, quindi, se dovessimo immaginare un asse cartesiano contenente una curva, saremmo nella parte crescente e le cose rispetterebbero un andamento lineare descritto dalla funzione y = f(x). Possiamo affermare, quindi, che tanto più cresce il grado di somiglianza del robot preso in esame, tanto più cresce il grado di affinità percepita dai partecipanti nei loro confronti.

Il problema evidenziato dagli studi di Mori, però, complica la situazione: sembrerebbe infatti che all’aumentare del grado di somiglianza umana dell’automa esista un punto oltre il quale il grado di affinità percepita registra una ripida riduzione. Questo calo di familiarità percepita può essere descritto come una reazione emotiva negativa nei confronti di un oggetto inanimato che -nel suo tentativo di sembrare umano- fallisce.

Per illustrare questo fenomeno immaginiamo questa volta una protesi robotica a forma di mano: essa riprodurrà fedelmente sia i movimenti meccanici funzionali umani, sia le fattezze umane, solo che adesso il grado di somiglianza umana cresce maggiormente rispetto ai giocattoli usati nello step precedente (immaginiamola con unghie di plastica, e una pelle sintetica fatta di materiale che riproduce l’epidermide). Adesso le reazioni degli ipotetici partecipanti diventano improvvisamente negative e, usando le parole dell’autore, “we lose our sense of affinity, and the hand becomes uncanny”. La sensazione “uncanny” (perturbante) di stringere una mano meccanica come se fosse vera, e la freddezza ad essa associata, fa cambiare radicalmente la percezione di affinità: adesso la curva decresce, fino a toccare il fondo di quello che abbiamo chiamato finora la Uncanny Valley. Siamo nel punto più basso della curva.

A questo punto, Mori illustra un altro oggetto: prendiamo una bambola Bunraku (una bambola giapponese tradizionale usata negli spettacoli teatrali). Adesso l’oggetto sarà caratterizzato da aspetti umani funzionali (si muove e agisce come un umano), da apparenze umane concrete (capelli, occhi, espressioni facciali), e da una maggiore somiglianza con l’essere umano rispetto allo step precedentemente illustrato dalla mano meccanica (in quanto adesso l’oggetto viene presentato nella sua interezza). Vedremo crescere il grado di familiarità percepito, fino al punto tale da uscire fuori dalla profondità della Uncanny Valley: in altre parole, assistere ad uno spettacolo teatrale di bambole giapponesi non suscita nello spettatore quelle emozioni negative tanto evidenti nella mano meccanica; l’oggetto in questione avrebbe guadagnato un grado di somiglianza umana tale per cui il suo “tentativo” di somiglianza con l’umano sembrerebbe soddisfacente e abbastanza riuscito. Siamo tornati, quindi, sulla curva ascendente: abbiamo lasciato la Uncanny Valley e ritroviamo l’associazione (questa volta positiva) tra somiglianza umana e familiarità percepita. L’ultimo step, infatti, vede un oggetto robotico che, assunte le fattezze umane più totali e indistinguibili, si comporta, si muove, ed appare, esattamente come un essere umano “sano”. Tale robot acquisirebbe un punteggio alto per entrambe le variabili: sarebbe altamente simile all’umano e avrebbe alti livelli di affinità percepita.

Il fenomeno della mano meccanica, che troviamo nel punto più basso della Uncanny Valley, è utile a descrivere come la modalità di interazione tra uomo e automa non sia del tutto lineare e semplice, ma si articola in un rapporto dinamico e complesso: il rapporto tra similarità umana e piacevolezza deve risolvere un problema profondo, nato dal fatto che quando un oggetto tenta di sembrare umano, ma fallisce, evoca un profondo senso di non familiarità, di emozioni negative, che possono alterare il rapporto tra oggetto e utente. A questo punto Mori rivolge un messaggio ai designers: creare automi con fattezze umane è una disciplina che deve fare i conti con la Uncanny Valley. La sfida è quella di creare un livello stabile e sicuro, dove un oggetto robotico, sebbene simile all’umano, non evochi emozioni negative nell’utente che ne usufruisce. Una possibile soluzione è quella di creare oggetti aventi un design deliberatamente non umano. Prendiamo dei semplici occhiali da vista: se questi avessero fattezze umane – per esempio presentando all’interno delle lenti, o in qualsiasi altro modo, un design simile agli occhi umani – cadrebbero all’interno della Uncanny Valley. In realtà ciò non accade, perché invece di sembrare organici, gli occhiali semplicemente enfatizzano aspetti estetici in modo alternativo; sono oggetti che aiutano ad enfatizzare elementi estetici umani, ma non tentano di diventare umani essi stessi. Per la protesi umana della mano meccanica segue lo stesso ragionamento: tentare di creare un oggetto troppo umano che, riproducendo unghie, epidermide, e colorazione della pelle, fallisce nel suo tentativo emulativo, determina il rischio di ricadere nella Uncanny Valley. Ciò non accade, invece, per le mani di legno delle statue buddiste illustrate da Mori nell’articolo: sebbene dotate di articolazioni e unghie, questi oggetti di legno non determinano alcuna emozione negativa, proprio per il fatto che rinunciano deliberatamente ad emulare le fattezze umane (il colore è quello del legno, le pieghe della mano sono segni delicatamente abbozzati).

Quale è la spiegazione di Mori al fenomeno descritto? La sensazione di negatività associata alla mano meccanica sembrerebbe una sorta di istinto di protezione verso una fonte di pericolo (un senso di auto-preservazione): la sensazione negativa che si riscontra per la mano meccanica (oggetto mobile) viene riscontrata anche per i cadaveri (oggetti non mobili), in quanto entrambi sarebbero associati ad una sensazione di freddezza, mancanza di vita organica e morte. Infatti, se nella profondità della Uncanny Valley troviamo questi due oggetti, dall’altra parte, al vertice della curva, troviamo un oggetto che è stato in grado di assumere alla perfezione le fattezze di una “persona sana”, dotata di vita, che non necessita l’attivazione di alcun meccanismo di auto-preservazione.

Esempi culturali di Uncanny Valley: cinema e “Final Fantasy”

Esistono diversi esempi culturali di prodotti caratterizzati da un tentativo emulativo fallace, destinato a evocare profonde sensazioni negative negli osservatori.

Nell’opera dal titolo “The Uncanny Valley in games and animation” (2015) la studiosa Angela Tinwell indica una serie di esempi che aiutano a tradurre l’esperimento di Mori in una chiave più pragmatica. Se il video gioco The Last of Us (Naughty Dog, 2013) viene descritto come “un capolavoro” in grado di aver superato l’abisso della Uncanny Valley, esistono diversi prodotti che non sono stati in grado di oltrepassare questo abisso. In ambito cinematografico tra gli esempi più classici troviamo Polar Express (Zemeckis, 2004), The Adventures of Tintin: Secret of the Unicorn (Spielberg, 2011), Cats (Tom Hooper, 2019), Beowulf (Zemeckis, 2007) (Tinwell, 2010).

Tra questi, merita una particolare menzione il film Final Fantasy: The spirits Within (Sakaguchi, 2001). Questo film è stato, infatti, il primo ad attirare l’attenzione dei media verso il tema della Uncanny Valley, e rappresenta quindi un esempio iconico di questo fenomeno nel mondo cinematografico (Tinwell, 2015). Nell’articolo “A-Life and the Uncanny in Final Fantasy” (2004) la studiosa Livia Monnet descrive il film come un prodotto di “pura science fiction”, non solo rispetto alla trama e i contenuti legati alla celebre saga videoludica di successo, ma soprattutto per l’enorme retorica pubblicitaria legata al prodotto. Nato dalla creazione di uno spazio “iper-reale” digitale, questo film viene descritto come qualcosa destinato a cambiare il futuro del cinema e della cultura popolare (Monnet, 2004). In realtà il film andrà incontro ad un profondo fallimento commerciale: le entrate al box office furono così basse da costringere lo studio di produzione Square’s Honolulu studio a ritirare tutti i progetti futuri legati al proseguimento della serie cinematografica (furono investiti 137 milioni di dollari con un ritorno complessivo di soli 85 milioni) (Monnet, 2004). Parte della spiegazione di tale insuccesso deriva proprio dall’aspetto dei personaggi presentati sulla scena. Questi furono accolti da un generale stato di ostilità e incertezza: Peter Plantec (2007) scriverà di come la protagonista per tutto il film tenti di imitare i gesti e le intenzioni di un essere umano come fosse un cartone animato. Monnet (2004) descriverà il film come “disturbante” soprattutto per il fatto che i personaggi umani sembrano “breathtakingly undead”: “gli attori virtuali recitano come vampiri (zombies) digitali” e ciò è legato sia ai limiti insiti nell’uso di software di animazione, sia al fatto che essi agiscono nel corso della trama come “androidi di plastica”, sospesi nello spazio-tempo.

Il concetto di “Uncanny”: Freud e il perturbante

Nella definizione di Mori rimane tutt’ora ambiguo l’utilizzo del termine “familiarità” o “affinità percepita”. Infatti, l’origine stessa del concetto di “Uncanny” poggia sulla definizione del concetto di bukimi che può essere tradotto come “strano”, “misterioso”, “inquietante” (Tinwell, 2011). Per altri autori il significato originale andrebbe addirittura perso quasi del tutto nella traduzione dal giapponese (Bartneck, 2009). Per tradurre questo termine può essere d’aiuto indagarne la controparte: la parola shinwa-kan è l’etimo usato nell’articolo originale di Mori, con riferimento a qualcosa di “familiare”. Un oggetto la cui apparenza è ben conosciuta viene descritto con questo termine, e viene usato per esempio per descrivere una persona culturalmente famosa e conosciuta (Tinwell, 2011). Alcuni autori utilizzano quindi questa parola (“familiarità”) per indagare a livello sperimentale la validità della teoria di Mori: per esempio si indaga il “grado di familiarità” di un item attraverso il quesito “quanto familiare-comune è questa immagine?”, oppure, “quanto strana e ambigua è questa immagine?”. Altri studiosi, invece, sembrano propendere verso il termine “piacevolezza”.

Rispetto a questo tema l’opera di Freud Il Perturbante (1919) offre una possibile chiave di lettura sia del termine “Uncanny” sia del meccanismo psicodinamico alla base. Con il termine unheimlich Freud intende descrivere due principali aspetti legati ad un oggetto: il primo si riferisce a qualcosa che è familiare, accessibile e piacevole; il secondo si riferisce a qualcosa che deve rimanere nell’ombra, inaccessibile, rimosso, e la cui accessibilità provoca un profondo senso di negatività. (Tinwell, 2011)

Con le parole stesse di Freud, il perturbante è “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.” (Freud, 1919). Egli prende avvio nell’opera Il Perturbante considerando il lavoro dello psicologo tedesco Ernst Jentsch (1906) rispetto alla sensazione di Unheimlich: secondo quest’ultimo, il racconto di Ernst Theodor Amadeus Hoffman (1817) Sandmam rappresenterebbe questo sentimento attraverso la figura di Olimpia, un automa con fattezze umane di cui il protagonista del racconto si innamora. Secondo Jentsch, “una condizione particolarmente favorevole al sorgere di sentimenti perturbanti si verifica quando si desta un’incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia vivente, o quando ciò che è privo di vita si rivela troppo simile a ciò che è vivo” (Freud, 1919). Questo sentimento sorgerebbe, quindi, quando difronte a oggetti ambivalenti, come bambole e manichini di cera, la persona si troverebbe in uno stato di “incertezza intellettuale” tale da non essere capace di distinguere se l’oggetto sia vivo o no.

Il punto suggerito da Freud verte sull’idea che il perturbante sia una sensazione nata dalla rivelazione di un qualcosa che sarebbe dovuto rimanere celato, nascosto, e la cui natura non è necessariamente “non familiare” ed estranea: spesso anzi è qualcosa di familiare, legato alla propria costellazione psicologica infantile, che è stato rimosso, o dimenticato, e la cui rivelazione- presente- suscita in noi uno stato di allerta.

In ogni situazione quotidiana dove si dovesse presentare un evento caratterizzato da un confine labile tra fantasia e realtà, avremmo a che fare con una serie di fattori che “trasformano l’angoscioso in perturbante”: ciò è dovuto al fatto che l’elemento della “onnipotenza dei pensieri”, come anche l’animismo, la magia, gli incantesimi, il malocchio, sono tutti elementi che caratterizzano la vita psichica dell’essere umano “fin dai tempi antichissimi” e che ritroviamo espressi nella costellazione psichica infantile; tali elementi, che di fatto non rappresentavano niente di angoscioso durante la vita infantile, una volta ripresentati durante la vita adulta suscitano in noi un forte elemento perturbante per il fatto che tali contenuti sono stati soggetti al processo di “rimozione” durante l’arco di vita.

Con il concetto di rimozione trova una piena spiegazione anche l’etimo “unheimlich”: “Anche in questo caso, quindi, un heimlich è ciò che un giorno fu heimisch [patrio], familiare. E il prefisso negativo “un” è il contrassegno della rimozione” (Freud, 1919).

La Mano mozzata: da Mori a Freud

Torniamo quindi all’esperimento di Mori (1970): abbiamo evidenziato come sul fondo della curva discendente -chiamata Uncanny Valley – legata alla massima percezione negativa di “affinità, familiarità umana” di un automa ipotetico, troviamo una protesi robotica con fattezze e funzionalità simili ad una mano umana. Abbiamo accennato al fatto che secondo Mori un oggetto che fallisce nel suo intento emulativo – nonostante l’effettiva vicinanza umana- crea una forte sensazione negativa di “Uncanny” (bukumi) legata all’attivazione di meccanismi fisiologici di allerta rispondenti alla necessità umana di auto-preservazione.

Rispetto al tema della “mano mozzata” è possibile aggiungere la riflessione freudiana contenuta nel saggio del 1919. Esisterebbero infatti diversi racconti tratti dalla letteratura greca e dai racconti folcloristici che riguardano arti mozzati e mani tronche, ma che non suscitano in noi alcun sentimento perturbante: infatti, spiegare il perturbante attingendo all’idea di un ritorno di una costellazione psichica infantile ormai “rimossa” (in questo caso una concezione “animista” di un oggetto inanimato che torna in vita, come appunto una mano mozza) di per sé trova molti controesempi. Conosciamo molte favole, racconti, film di animazione, che raffigurano oggetti animati che cantano, ballano e fluttuano nell’aria, senza che a queste immagini segua per forza una sensazione perturbante: “chi oserebbe definire perturbante Biancaneve quando riapre gli occhi?” (Freud, 1919). La chiave di comprensione di questi fenomeni, quindi, richiede una riflessione aggiuntiva. Innanzitutto, occorre separare il perturbante della “finzione letteraria” da quello sperimentato nella vita vissuta. Fare esperienza diretta di un fenomeno “animista” è del tutto diverso rispetto a farne una indiretta: nei controesempi presentati la componente perturbante contenuta nelle favole e nei racconti si affievolisce proprio perché, appunto, sono racconti di finzione la cui analisi non necessita un personale esame di realtà profondo. Per quanto riguarda, invece, il perturbante sperimentato direttamente, la chiave per comprenderne la natura si cela nel concetto di “rimozione” e “superamento”. Più nello specifico, la sensazione di perturbante che coinvolge fenomeni animisti (come nel caso della mano mozzata o delle bambole che prendono vita) si verifica quando “complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da un’impressione” o anche “quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato una nuova convalida” (Freud, 1919).

Per arricchire questi due punti di vista si possono citare dei contributi aggiuntivi. Alcuni studi tendono a considerare le due principali dimensioni utilizzate da Mori (somiglianza – familiarità) troppo semplicistiche per spiegare il fenomeno della Uncanny Valley: per esempio la motivazione dei personaggi, il suono emesso, e l’età dei partecipanti possono complicare il rapporto lineare tra le due variabili (Tinwell, 2011). Inoltre, sembra che esistano più “abissi” nella curva, e quindi la forma classica della curva discendente potrebbe essere ancora più complessa di quanto si evince dall’ipotesi di Mori: all’aumentare del grado di somiglianza dell’oggetto, quindi, la percezione individuale dei soggetti andrebbe incontro a un numero maggiore di “discese negative” rispetto all’ipotesi originale, andando a complicare il rapporto tra oggetto e percezione di familiarità.

Chissà cosa penserebbe Freud dell’avatar digitale del candidato Sud-coreano: sicuramente la straniante percezione di avere difronte a noi un essere umano nei suoi più minuziosi dettagli, sapendo però che tale immagine umana non lo è, riporta alla luce sia le riflessioni freudiane che le ipotesi di Mori, lasciando ancora molte domande in sospeso.

 

Intelligenza e immaginazione: esiste un legame?

L’immaginazione è un gioco libero della mente o un’attività mirata e intenzionale: è il luogo in cui creare nuove esperienze e provare ad anticiparne le conseguenze; consente l’ispirazione creativa, l’invenzione e la scoperta di nuove possibilità (Daniels, Piechowski, 2008).

 

Ci si può chiedere se esista una correlazione tra immaginazione e intelligenza e se queste due funzioni abbiano un legame tra di loro.

L’analisi di tale relazione è stata oggetto di diversi studi e approfondimenti.

Innanzitutto per capire se vi sia un legame tra immaginazione e intelligenza si devono analizzare le peculiarità che caratterizzano le persone plusdotate.

Tra queste vi è certamente l’intensità delle percezioni che compare già in età precoce (Maulucci, 2021, Piechowski, Wells, 2021; Tiller, Mendaglio, 2006; Webb, Amend, Beljan, Webb, Kuzujanakis, Olenchak, Goerss, 2016).

Proprio tale particolarità ha spinto lo psicologo polacco Kazimierz Dabrowski ad approfondire le caratteristiche mostrate dalle persone intelligenti correlate all’intensità e ad elaborare le osservazioni sulle c.d. “Overexcitabilities”, ovvero sulla presenza di iper-eccitabilità in alcuni individui (Daniels, Piechowski, 2008; Lovecky, 2004; Tiller, Mendaglio, 2006).

Plusdotazione cognitiva e overexcitabilities

Le riflessioni sulle “Overexcitabilities” hanno enormemente influito sulla comprensione degli adulti e dei bambini plusdotati. Si tratta di uno studio sullo sviluppo emotivo, basato sull’osservazione di individui intelligenti, i quali vivono le esperienze in maniera più vivida, più profonda e più sentita rispetto al resto della popolazione.

Le persone ad alto potenziale cognitivo infatti mostrano una maggiore attenzione agli stimoli e al mondo circostante e presentano esperienze di vita che, non solo si rivelano più complesse, ma anche più intense e sono tali da poter influenzare il loro comportamento (Daniels, Piechowski, 2008; Piechowsli, Wells, 2021).

Secondo Dabrowski e il suo successore Michael Piechowski, queste overexcitabilities si manifestano in cinque aree: intellettiva, emotiva, sensoriale, psicomotoria e, appunto, immaginativa. Alcuni plusdotati presentano tutte queste iper-eccitabilità, altri solo alcune (Barley, 2010; Maulucci, 2021; Piechowski, Wells, 2021).

Pertanto anche l’overexcitability immaginativa è tipica di molte persone intelligenti, pur manifestandosi con declinazioni di intensità diverse.

Overexcitability e immaginazione

Gli individui che mostrano l’overexcitability immaginativa presentano generalmente schemi immaginativi complessi, fantasia attiva, creatività, ricchezza di associazioni mentali, preferenza per ciò che è inusuale, prospettiva divergente, tendenza ad essere sognatori ad occhi aperti (Daniels, Piechowski, 2008; Webb, Amend, Beljan, Webb, Kuzujanakis, Olenchak, Goerss, 2016).

In particolare i bambini con tale peculiarità possono prediligere giochi di creatività e uso di metafore insolite, ma anche mischiare fantasia e realtà, essere sognatori, avere amici immaginari, vivere in un mondo fantastico e amare le invenzioni. Queste connotazioni li possono portare a prendere le distanze dai coetanei e dagli interessi che da questi ultimi sono considerati rilevanti. Possono astrarsi dalla realtà circostante e non essere a proprio agio nelle giornate di scuola improntate a schemi; è possibile che sembrino distratti e questo può creare delle difficoltà nel contesto scolastico (Bayley, 2010; Daniels, Piechowski, 2008; Gotlieb, Hyde, Immordino-Yang, Kaufman, 2016;  Lovecky, 2004; Piechowski, Wells, 2010; Shenfiels, 2021).

Anche da adulte queste persone continuano a presentare menti creative e divergenti, pensieri originali, che possono portarli a sentirsi differenti dagli altri: spesso denotano capacità di visualizzazioni dettagliate, un buon senso dello humor, passione per l’arte e la musica, sogni elaborati, ma anche bassa tolleranza per la noia e bisogno di novità (Tiller, Mendaglio, 2006; Webb, Amend, Beljan, Webb, Kuzujanakis, Olenchak, Goerss, 2016).

L’overexcitability immaginativa, associata a quella intellettiva, crea una combinazione particolarmente interessante. Queste due peculiarità insieme all’overexcitability emotiva contribuiscono a delineare lo sviluppo emotivo delle persone (Daniels, Piechowski, 2008).

Negli anni successivi, e ancora oggi, queste osservazioni di Dabrowski sono state rielaborate in numerosi studi di diversi autori (Bayley, 2010; Piechowski, Wells, 2021; Tiller, Mendaglio, 2006) che confermano l’esistenza di una correlazione tra le overexcitabilities e l’intelligenza.

Il legame tra immaginazione e intelligenza

Anche altre ricerche si sono occupate del legame tra immaginazione e intelligenza. Tra queste ricordiamo la teoria delle multiple intelligenze elaborata dallo psicologo statunitense Howard Gardner, il quale considera l’intelligenza non come un aspetto unitario, ma piuttosto come un’entità composta da specifiche modalità, da singole abilità.

In particolare una di queste abilità è l’intelligenza spaziale che secondo Gardner trasforma le percezioni e ricrea gli aspetti di una esperienza visuale utilizzando proprio l’immaginazione (Gardner, 2006).

Alle stesse conclusioni è giunto anche uno studio dell’Università della Florida condotto da Thomas Oakland e pubblicato sul Journal Gifted Child Quarterly. Da questa ricerca è emerso che gli studenti plusdotati tendono ad avere più immaginazione attiva rispetto alla media degli alunni, preferendo l’immaginazione alla pratica. Essi sembrano essere più “immaginativi” dei compagni e tale caratteristica pare essere ancora più diffusa nella popolazione femminile (Oakland, 2000).

Possiamo dunque rispondere alla domanda che ci eravamo posti all’inizio in modo affermativo: sembra davvero esistere una correlazione tra immaginazione e intelligenza, anche se non tutte le persone intelligenti sono necessariamente anche dotate di intensa immaginazione (Shenfield, 2021).

L’immaginazione è quindi quella parte dell’intelligenza che aiuta a pensare fuori dagli schemi e in prospettiva divergente, è il motore della creatività, è la fonte dell’originalità.

L’immaginazione, tuttavia, è anche un volo libero che talvolta permette alle persone intelligenti di evadere dall’intensità con cui sperimentano la vita.

 

Introduzione alle neuroscienze sociali (2022) – Recensione del libro

Gli esseri umani, come molti altri animali, sono una specie altamente sociale. Ma in che modo i nostri sistemi biologici implementano i comportamenti sociali e in che modo questi processi modellano il cervello e la biologia? Introduzione alle neuroscienze sociali affronta questa tematica.

 

Introduzione alle neuroscienze sociali è il primo libro in questo ambito che cerca di coinvolgere sia gli studenti che gli studiosi nell’esplorazione dell’interazione tra aspetti biologici e psicosociali. Questo libro di testo di ampio respiro è organizzato in nove capitoli principali più due appendici e fornisce una base eccellente per comprendere i meccanismi psicologici, neurali, ormonali, cellulari e genomici alla base di processi sociali così diversi come solitudine, empatia, teoria della mente, fiducia e cooperazione.

Stephanie e John Cacioppo ipotizzano che il nostro cervello sia il nostro principale organo sociale. Mostrano come la stessa relazione oggettiva possa essere percepita come amichevole o minacciosa a seconda degli stati mentali degli individui coinvolti in quella relazione.

Inoltre, presentano esercizi e risultati basati sull’evidenza scientifica che i lettori possono mettere in pratica per comprendere meglio le radici neurali del cervello sociale e le implicazioni cognitive di un cervello sociale sia funzionale, sia disfunzionale (Cacioppo e Cacioppo, 2022).

Possiamo affermare che questo testo si contraddistingue in particolare per la sua completezza, integrando gli studi umani e animali, presentando casi clinici, nonché proponendo un’analisi multifattoriale su diversi argomenti – dai geni alla società- sempre applicando una vasta metodologia.

Questo libro ha permesso, grazie alla grande esperienza e maestria dei suoi autori, di apportare novità allo studio dell’anatomia e della funzione del cervello sociale, ampliando così la comprensione scientifica dell’interazione umana nella società.

Possiamo concludere che tale opera sia fondamentale per arricchire le nostre conoscenze in materia, aiutando a comprendere quanto la socialità nei tempi odierni sia importante e come questa influenzi e sia influenzata da fattori biologici, riconfermando la necessità di una maggiore integrazione multidisciplinare. Questo volume non solo si rivolge ad un pubblico di professionisti del settore, ma risulta di facile lettura anche per studenti o semplicemente per chiunque desideri acquisire nuove conoscenze.

 

Emozioni manifeste e latenti: comunicare con la mimica facciale

Poiché le emozioni vengono trasmesse attraverso espressioni facciali, cambiamenti corporei e posturali, secondo alcuni approcci che studiano le emozioni di base esistono dei prototipi associati a specifiche emozioni.

 

Espressioni facciali ed emozioni

Il volto è la parte corporea maggiormente evidente di una persona. Ogni giorno si intrattengono conversazioni faccia a faccia o tramite l’utilizzo di piattaforme elettroniche e, negli ultimi anni, capita spesso di vedere fotografie e video sui social network (Barrett et al., 2019). La percezione dei visi è una delle prime abilità che si sviluppa dopo la nascita, capacità utile che permette al bambino di avere delle informazioni a disposizione per poter interagire con gli altri e per muoversi nel mondo sociale man mano che cresce: si sceglie chi amare, di chi fidarsi e chi è colpevole di un crimine in base alla mimica facciale (Todorov, 2017; Zebrowitz, 1997; 2017; Zhang et al., 2018).

Comprendere le emozioni sottostanti ad un’espressione è un obiettivo importante dal momento che molte persone comunicano e si aspettano di essere comprese attraverso configurazioni specifiche dei movimenti muscolari facciali (Barrett et al., 2019). Barrett e colleghi (2019) hanno svolto una revisione sistematica su sei emozioni specifiche – rabbia, disgusto, tristezza, paura, felicità e sorpresa – suggerendo come vi siano emozioni manifestate in modo differente tra culture o tra persone all’interno di una situazione specifica. Le sei emozioni sono state riprese sia perché si ancorano a credenze comuni sull’espressività, studiate da Charles Darwin, che ha stipulato come le configurazioni facciali siano espressioni di determinate emozioni, sia perché sono state l’obiettivo principale della ricerca sistemica per quasi un secolo, con lo scopo di fornire un ampio focus di ricerca (Barret et al., 2019).

Dato che un’emozione viene trasmessa attraverso caratteristiche fisiche, come movimenti facciali e cambiamenti corporei e posturali, e mentali, come eccitazione o minaccia nei confronti di una situazione nuova, secondo alcuni approcci che studiano le emozioni di base esistono dei prototipi associati a specifiche emozioni. Ad esempio, la felicità viene manifestata attraverso sorrisi, labbra separate, testa all’indietro e apertura corporea, la rabbia con aggrottamento delle sopracciglia, sguardo fisso, labbra chiuse e postura ferma.

Quando le espressioni si associano a diverse emozioni

Gli autori (2019) sottolineano come alcune espressioni facciali possano manifestare più di una singola emozione sottostante, raccomandando un’attenta osservazione di come le persone muovono i loro volti per esprimere informazioni sociali all’interno di vari contesti in cui sono immerse quotidianamente (Barret et al., 2019). Possono essere presenti delle inferenze inverse, presenti quotidianamente, dove le persone cercano di dedurre se effettivamente dietro un sorriso si nasconda un’altra emozione mascherata. Se una persona è arrabbiata avrà una mimica facciale e movimenti espressivi tipici della rabbia, mentre se una persona afferma di essere arrabbiata e manifesta comportamenti coerenti con la preoccupazione è più probabile che stia cercando di nascondere un sentimento di paura. Al contrario, una persona preoccupata che manifesta atteggiamenti provocatori e aggressivi è probabile che stia celando un sentimento di rabbia (Barrett et al., 2019).

Oltre alle compagnie tecnologiche che investono molto nella ricerca della lettura delle emozioni – si pensi a Microsoft Emotion API che cerca di capire che cosa l’individuo prova e sente attraverso video immagini – anche le emoji utilizzate sui social e le riviste stampate ogni giorno attribuiscono determinate espressioni facciali a determinati stati d’animo ed emozioni della persona (Barrett et al., 2019).

Le espressioni facciali in ambito clinico

In ambito clinico, la configurazione facciale è necessaria per formulare diagnosi basate su stati emotivi, nonché per formulare un piano di terapia o dei trattamenti utili per determinati disturbi: ad esempio, attraverso l’analisi delle caratteristiche facciali fotografate, il Reading the Mind in the Eyes Test contribuisce alla formulazione di piani terapeutici per persone con autismo o con altri disturbi dove vi sono delle difficoltà a riconoscere queste configurazioni facciali come espressioni emotive (Baron-Cohen et al., 2004; Kouo & Egel, 2016). Ricerche future potrebbero focalizzarsi maggiormente sul significato culturale attribuito non solo a determinate emozioni, ma anche ai movimenti e ai comportamenti non verbali manifestati dalle persone, con il fine di comprendere come strutturare dei programmi terapeutici funzionali e flessibili.

 

Le illusioni non si creano, non si distruggono, ma si trasformano: integrare enterocezione e metacognizione

Il tentativo del seguente articolo è quello di proporre una panoramica di quanto, ad oggi, può essere inteso sotto il concetto di illusione e alcuni spunti della letteratura presente sulle sue manifestazioni.

 

Abstract

Il seguente articolo si propone di esporre una panoramica di quanto, ad oggi, può essere inteso sotto il concetto di “illusione” e alcuni spunti della letteratura presente sulle sue manifestazioni: da illusioni corporee e sistemi percettivi, fino a credenze sul proprio funzionamento mentale. La costruzione di una realtà propria è qui intesa in un’ottica complessiva e sfaccettata e di un’interazione costante tra corpo e mente, per l’articolazione di un senso del sé nucleare. Nel testo si propone, infine, anche l’applicazione di un approccio multimodale e integrativo delle varie componenti che partecipano a questo processo, col fine ultimo di ottenere una visione globale del singolo individuo e della sua prospettiva nella comprensione di se stesso e dell’ambiente circostante.

L’illusione come soggettiva percezione del mondo e di noi stessi

In psicologia il termine illusione fa normalmente riferimento a una distorsione dei sensi o una misinterpretazione degli stimoli sensoriali “reali” (Todorović, 2020). Il nostro apparato sensoriale crea in noi l’illusione che il mondo sia luminoso e colorato, trasformando i dati grezzi forniti dai nostri organi di senso in colori, suoni, sapori, odori, sensazioni di caldo e freddo (e dolore).

Talvolta tali informazioni sono palesemente fuorviate dalla nostra percezione. Si pensi a quelle immagini, a rischio giramenti di testa, che possono provocare illusioni ottiche nell’osservatore (Todorović, 2020). L’etichetta di “illusione visiva” è generalmente usata per riferirsi, in modo un po’ vago, a tutti i tipi di presentazioni visive sorprendenti, intriganti, che “sfidano il senso comune” o “confondenti”. L’immagine sottostante, ad esempio, è una raffigurazione che, se osservata attentamente per qualche istante, provocherà nell’osservatore un’illusione ottica di movimento (Fig. 1).

Illusioni integrare enterocezione e metacognizione Fig 1

Nel 1973, la filosofa Susan Stebbing (come citata da Todorović, 2020) ha ritenuto che non abbia senso dire di “soffrire di un’illusione”, a meno che la persona non sappia cosa significa “non soffrire di un’illusione”. Infatti, qualsiasi definizione di percezione illusoria implica logicamente una corrispondente definizione del suo opposto: una percezione reale. Sono stati molti gli autori e gli studiosi ad aver proposto un modello che descrivesse o meglio rappresentasse il fenomeno dell’illusione percettiva.

Proviamo ora a intendere il concetto di illusione in una cornice più ampia e non solo come distorsione dei sensi, ma come soggettiva percezione del mondo e di noi stessi. L’illusione è, in quest’ottica, un concetto riferibile a tutte le nostre percezioni e convinzioni sul nostro funzionamento. È forse l’essenza stessa della percezione. La nostra esperienza del corpo non è diretta; piuttosto, è mediata da informazioni percettive, influenzata da informazioni interne, e ricalibrata attraverso delle rappresentazioni corporee implicite ed esplicite presenti in memoria (Riva, 2018). Possiamo osservare i nostri processi di pensiero e la nostra mente e sentire di essere delle persone che “capiscono sempre gli altri” o che “fanno fatica a ricordare i nomi”. Allo stesso modo possiamo ascoltare il nostro stomaco e sentirci sazi, nauseati o persino innamorati (le famose “farfalle nello stomaco”).

Il tentativo che si pone il seguente articolo è quello di proporre una panoramica di quanto, ad oggi, può essere inteso sotto il concetto di “illusione” e alcuni spunti della letteratura presente sulle sue manifestazioni, partendo da illusioni corporee e sistemi percettivi fino a arrivare a credenze sul proprio funzionamento mentale. Infine, si proporrà una riflessione sulla necessità di un approccio integrato e complessivo nell’ambito delle discipline psicologiche.

I sistemi percettivi e le illusioni del corpo

Per iniziare, è importante partire con l’idea che il corpo e la mente siano intrinsecamente legati tra loro e in continua comunicazione reciproca (Thayer & Lane, 2000). Tale interconnessione permette un costante adattamento alle necessità ambientali e corporee e, dunque, una globale flessibilità fondamentale alla sopravvivenza dell’organismo, che si riflette su gran parte delle nostre funzioni.

L’elaborazione percettiva, ad esempio, è un fenomeno complesso, integrato con altri domini della funzione cerebrale. La percezione visiva, infatti, può essere influenzata da una molteplicità di fattori, tra i quali lo stato emotivo dell’individuo, le sue aspettative o il suo livello attentivo (Harrison et al., 2021).

Anche la consapevolezza corporea, ovvero la consapevolezza pre-riflessiva del corpo e del suo funzionamento, gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della generale consapevolezza di sé (Horváth et al., 2020). Questa presenta due aspetti principali: la sensazione di poter agire nel mondo attraverso il nostro corpo (agency) e quella che il nostro stesso corpo ci appartenga (body ownership). Per quanto riguarda la ricerca su quest’ultimo costrutto, uno dei paradigmi più utilizzati è quello della Rubber Hand Illusion (RHI).

Il paradigma della RHI (o illusione della mano di gomma) prevede un braccio/mano di gomma osservato da un soggetto nello spazio peripersonale (cioè lo spazio vicino al corpo), il quale viene percepito come parte del proprio corpo se il braccio del soggetto stesso viene toccato sincronicamente fuori dalla sua vista (Fig. 2; Horváth et al., 2020). Dunque, la propriocezione del soggetto, ovvero, la percezione del suo corpo nello spazio, viene alterata principalmente da due canali sensoriali: il tatto (la stimolazione contemporanea del proprio braccio e del braccio di gomma) e la visione (quella del braccio di gomma stimolato). La persona giungerà, quindi, a credere che il braccio di gomma sia il proprio.

Illusioni integrare enterocezione e metacognizione Fig 2

Fig. 2: La Rubber Hand Illusion

Recenti studi hanno rilevato come alcune funzioni percettive possano avere un’influenza su quanto la persona si immedesimi in questa illusione corporea. L’enterocezione, ad esempio, ovvero quel sistema sensoriale che ci permette di sentire e capire quanto avviene nel nostro corpo e i segnali che questo ci manda, sembrerebbe influenzare i livelli di immedesimazione in tale paradigma sperimentale (Mehling, 2016). Questo complesso sistema sensoriale è comunemente suddiviso in costrutti, che ne costituiscono diverse funzioni. Tra questi, la sensibilità enterocettiva corrisponde alla personale percezione dei propri segnali corporei viscerali, mentre la sensitività (o accuratezza) enterocettiva è l’accuratezza e la precisione con cui un individuo rileva e riconosce i propri segnali corporei. Quest’ultima viene normalmente misurata attraverso il conteggio dei battiti: tale metodo verifica che il numero di battiti percepiti e contati dal soggetto corrisponda ai battiti effettivamente avvenuti e rilevati da un dispositivo (normalmente un elettrocardiogramma). Secondo alcuni studiosi, entrambi questi due costrutti avrebbero un ruolo nella personale esperienza della RHI, e viceversa la RHI potrebbe modificare l’accuratezza enterocettiva del soggetto (​​Dobrushina et al., 2021; Suzuki et al., 2013; Xu et al., 2018).

Tuttavia, alcuni studi non confermano questi risultati o non hanno riscontrato tali relazioni (Butler, 2021; Crucianelli et al., 2018; Horváth et al., 2020). Lo studio di Butler (2021) ha valutato se le differenze individuali nell’accuratezza e nella sensibilità enterocettive fossero rilevanti nella forza dell’illusione di afferrare un oggetto. Tale studio ha, in realtà, notato come la forza dell’illusione di afferrare non fosse direttamente influenzata da queste due funzioni, ma che queste divenissero rilevanti nel momento in cui lo sperimentatore introduceva dei suggerimenti verbali. In altre parole, se lo sperimentatore chiedeva attivamente ai soggetti di focalizzare l’attenzione sul braccio, la forza dell’illusione aumentava nei partecipanti che presentavano livelli più bassi di accuratezza e sensibilità enterocettive.

Gli stessi due costrutti avrebbero un ruolo anche nella percezione dello spazio peripersonale (Bogdanova et al., 2021). In particolare, gli studiosi Ardizzi e Ferri (2018, come citati da ​​Bogdanova et al., 2021) hanno rilevato che una maggiore accuratezza enterocettiva è in grado di predire dei confini più ristretti di spazio peripersonale.

È importante sottolineare come la sensibilità enterocettiva non giochi sempre a nostro favore o sfavore. Secondo alcuni autori (Mehling, 2016) è possibile differenziare una sensibilità enterocettiva adattiva, basata su un approccio mentale non giudicante e orientato alla percezione delle sensazioni corporee nel momento presente, ed una sensibilità maladattiva, caratterizzata da un’attenzione disfunzionale ai segnali corporei. Con attenzione disfunzionale possiamo intendere, da una parte, uno stato di allerta verso tali segnali, il quale ci pone nella condizione di iper-valutarli o anche di ritenerli pericolosi; dall’altra una tendenza all’evitamento e alla distrazione verso tali segnali, spesso legata al timore di star male o a determinate credenze, quali “non riuscirei a sopportarlo” o “non è una cosa importante”: anche in questo caso, l’influenza reciproca di mente e corpo risulta evidente. Questa particolare distinzione sembra essere, inoltre, di fondamentale importanza per la cura clinica, poiché uno stile di attenzione disfunzionale è spesso associato a ipocondria, disturbi d’ansia e somatizzazioni, mentre quello più funzionale è stato notato essere sano, adattivo e in grado di migliorare le capacità di resilienza di un individuo.

Infine, la consapevolezza enterocettiva viene definita come la consapevolezza metacognitiva dell’accuratezza enterocettiva, ed è da intendere come la corrispondenza tra la fiducia soggettiva e l’accuratezza oggettiva della propria rilevazione del battito cardiaco (Mehling, 2016). In questo contesto, quindi, la metacognizione (concetto di cui discuteremo ampiamente in seguito) è interpretabile come “consapevolezza dell’errore”, o meglio consapevolezza di quanto il numero di battiti percepiti si distanzi da quello dei battiti realmente avvenuti.

Un recente studio di Bekrater-Bodmann e colleghi (2020) ha tentato una manipolazione della percezione della locazione del corpo nello spazio, sia attraverso input enterocettivi che esterocettivi. I canali esterocettivi raccolgono le informazioni provenienti dall’esterno, tra cui le stesse informazioni propriocettive. Più nel dettaglio, utilizzando un setup automatizzato avanzato, gli autori hanno manipolato la prospettiva dei partecipanti rispetto al corpo (prospettiva in prima o in terza persona) durante una stimolazione visuo-tattile. Tra le variabili raccolte, essi notarono che la consapevolezza metacognitiva enterocettiva era correlata negativamente all’illusione delle esperienze corporee mediate da percezioni esterne. In altre parole, più i partecipanti erano consapevoli delle loro percezioni interne, minori erano i livelli di illusione e dislocazione corporea in seguito alle manipolazioni di percezione esterna.

Le illusioni cognitive: le credenze e la metacognizione

Le credenze sono definite come l’accettazione mentale o la convinzione della veridicità o dell’attualità di un’idea (Schwitzgebel, 2010, come citato da Connors & Halligan, 2015). Molti filosofi analitici consideravano le credenze come “atteggiamenti proposizionali”: in quanto proposizione, un significato specifico può essere espresso sotto forma di frase e può essere interiorizzato sotto forma di atteggiamento che implica un contenuto rappresentativo e la presunta veridicità della proposizione stessa (ad es., un bambino che nel fare esperienza si sente spesso dire la frase “come sei stato bravo” potrà manifestare atteggiamenti e comportamenti che rivelano una sua idea di sentirsi “bravo” e volenteroso) (Schwitzgebel, 2010; Stephens & Graham, 2004, come citati da Connors & Halligan, 2015). Le credenze descrivono rappresentazioni ontologiche indiscusse del mondo e comprendono convinzioni su cause, eventi, azioni e oggetti tramite i sensi, che in modo non verbale rivelano aspetti della realtà, come le relazioni con altre persone e le azioni che portano a determinati risultati in futuro (ad es., “se studio, passerò l’esame” oppure “se non è geloso/a, allora vuol dire che non tiene abbastanza a me”; Connors & Halligan, 2015).

È importante notare che le credenze non devono essere consce o articolate linguisticamente (Connors & Halligan, 2015), in quanto condividono una serie di proprietà comuni e sono da considerare come multidimensionali. Possono, inoltre, formarsi attraverso l’esperienza diretta o raccogliendo informazioni da una fonte certa (Hughes & Sims, 1997; Landgon, 2013, come citati da Connors & Halligan, 2015). Alcune credenze hanno alti livelli di evidenza, altre meno (Lamont, 2007, come citato da Connors & Halligan, 2015) e sono mantenute a diversi livelli di consapevolezza: alcune comportano una notevole preoccupazione e una ruminazione conscia, mentre altre sono implicite ed evidenti deduttivamente attraverso i comportamenti, ergo non suscettibili di controllo riflessivo (Young et al., 2003, come citato da Connors & Halligan, 2015). Secondo altri autori (Riva, 2018), la nostra esperienza corporea non è diretta, ma mediata da una varietà di informazioni, tra le quali rappresentazioni corporee implicite ed esplicite, precedentemente interiorizzate e incarnate (una memoria corporea). La generalità delle credenze può riferirsi ad oggetti o persone singole, oppure a gruppi di oggetti e di persone (Freeman, 2007, come citato da Connors & Halligan, 2015). Queste ultime variano anche nel loro grado di riferimento personale: ad esempio, “io sono unico” è una credenza riferita all’individuo specifico che può essere estesa ad amici o parenti (Connors & Halligan, 2015).

Esistono diversi gradi di fiducia rappresentanti le credenze, gradi che rimangono invariati in posizioni ferme (ad esempio, si pensi alle leggi della fisica) o che variano con una relativa incertezza (ad esempio, argomenti non familiari al soggetto; Peters et al., 2004, come citati da Connors & Halligan, 2015). Tuttavia, i gradi possono variare e fluttuare nel tempo o all’interno di contesti diversi (Bisiach et al., 1991; Connors & Coltheart, 2011, come citati da Connors & Halligan, 2015). Di conseguenza, le credenze variano nella loro resistenza al cambiamento in risposta alle controprove e alla pressione sociale, così come variano il loro impatto sulla cognizione e sul comportamento: le persone possono agire in base a determinate convinzioni e non sulla base di altre che sono approvate verbalmente (Bortolotti, 2013, come citato da Connors & Halligan, 2015).

Il concetto di illusione cognitiva è stato introdotto nel IX secolo dal medico, fisiologo e fisico tedesco Hermann von Helmholtz (History 101, 2021). Secondo lo studioso, le illusioni cognitive si verificano quando le nostre ipotesi predeterminate sull’ambiente non si allineano con la realtà. Un’illusione cognitiva verifica, quindi, le nostre aspettative rispetto alla conoscenza preesistente sul mondo, basate sia su informazioni visive che su inferenze cognitive. I primi studi sull’illusione del sapere sono stati portati avanti da Glenberg, Wilkinson ed Epstein (come citati da Avhustiuk et al., 2018), i quali dimostrarono come le persone tanto poco conoscono un concetto, tanto più si sentono sicuri di conoscerlo, e viceversa. Questo fenomeno è noto in letteratura come overconfidence bias (Tversky & Kahneman, 1974), ed è il frutto di scorciatoie mentali, definite euristiche. Le euristiche vengono utilizzate per ridurre il tempo di ragionamento e la quantità di risorse cognitive applicate, e sono, perciò, associate all’incombenza di alcuni errori di ragionamento (i suddetti bias). Un ulteriore esempio di questi errori è l’hindsight bias, ovvero la sensazione che un evento, una volta avvenuto, sia prevedibile, con un livello di certezza maggiore rispetto alla prevedibilità percepita prima dell’evento stesso (Pohl, 2004). Questo fenomeno si può sviluppare negli esercizi di memorizzazione di un elenco di parole, in quanto le persone tendono spesso a sopravvalutare le loro capacità di ricordarle in un secondo momento (Avhustiuk et al., 2018) e di conoscerle in prospettiva (Avhustiuk et al., 2021). In questo contesto, si può introdurre il concetto di monitoraggio metacognitivo, capacità che fa riferimento ad un pensiero che ha come obiettivo esplicito e dichiarato la conoscenza del pensiero stesso (Lai, 2011). La regolazione cognitiva avviene con il contributo delle strategie messe in atto, da parte del soggetto, per raggiungere uno stato desiderato sulla base dello stato attuale (Caselli et al., 2017). Oltre a produrre conseguenze emotive, mutano nella misura in cui sono condivise da altre persone oppure permangono, contribuendo e causando un notevole disagio (Beck, 1976; David, 1999, come citati da Connors & Halligan, 2015). Ellis (1962, come citato da Ruggiero, 2011) identificò alcune credenze scatenanti la sofferenza psicologica che ha definito come “sciocche frasi” che diciamo a noi stessi, parole che vengono autosomministrate e che generano disagio (Ruggiero, 2011). Sostanzialmente, queste parole assumono una connotazione definizionale di se stessi che etichetta il soggetto e che lo fa soffrire in quanto definito, e che si irrigidisce così all’interno di un modello ripetitivo che trasforma la sofferenza psichica in un vero e proprio disturbo: soffriamo anche per quei pensieri che vengono attivati in modo consapevole e che conferiscono un significato generale. Ellis intuì come le persone provino disagio quando si tende a sopravvalutare la possibilità che si verifichino delle situazioni di pericolo e quando si sottovalutano le proprie capacità per gestire tali situazioni (Ruggiero, 2011). Alla base esiste la convinzione che le delusioni della realtà siano intollerabili, il soggetto si etichetta così come “patologico” se ne soffre molto (“non è normale rimanerci così male”). Le risposte fisiologiche, dovute alle illusioni metacognitive, che possono manifestarsi soggettivamente, possono essere ad esempio rossore, sudorazione o battito cardiaco accelerato. Non solo: un’inferenza nei confronti di un evento può portare ad una revisione o ad una conferma di un’idea di sé già definita, come il corpo “personale, oggettificato e sociale”, che richiede l’introduzione di nuove rappresentazioni relative all’esperienza (Riva, 2018).

Legate al concetto di monitoraggio cognitivo, le credenze cognitive, o metacredenze, si riferiscono “a convinzioni che le persone hanno sulla propria mente, sui suoi prodotti (es. pensieri ed emozioni) e sulle sue funzioni” (pensiero, attenzione e memoria; Wells, 2000, come citato da Caselli et al., 2017, p. 36). Le metacredenze possono essere: sulle emozioni e sui pensieri automatici, cioè sulle intrusioni mentali, sull’utilità delle strategie utilizzate (i.e. il rimuginio e il pensare a come comportarsi in un determinato contesto assumono un ruolo utilitaristico) e sull’incontrollabilità del pensiero (ad esempio, “se inizio a pensarci non riesco a smettere”; Caselli et al., 2017). Le metacredenze riguardo l’utilità e l’importanza del rimuginio sono dette positive, mentre quelle sulla pericolosità e sull’incontrollabilità sono definite come negative (Wells, 2009, come citato da Caselli et al., 2017). Nello specifico, alcune strategie di regolazione cognitiva mirano al mantenimento del rimuginio, vissuto come una trappola da parte della persona. Tutto ciò può, dunque, portare un individuo ad una percezione globale di se stesso come incapace, disattento, folle o, d’altra parte, come particolarmente previdente e, per certi versi, anche brillante.

Il sistema cognitivo umano viene costruito basandosi su una logica dell’errore meno costoso: vengono, così, sviluppati pregiudizi utili a rilevare i modelli dell’ambiente con l’obiettivo di prevedere risultati importanti (Blanco, 2017). Di conseguenza, possono verificarsi alcuni falsi allarmi, come nel caso di quando rileviamo un nesso causale tra due eventi che non sono correlati effettivamente (i.e. un’illusione causale). Le implicazioni associate alle illusioni erronee possono essere positive o negative: un comportamento persistente, fisso e non necessariamente collegato all’esito desiderato, si modella con una sovrastima della causalità, mentre un beneficio legato alla perseverazione stessa può portare anche ad un comportamento che migliora la sensazione di controllo per raggiungere uno scopo e riduce i livelli di ansia esperiti dal soggetto (Blanco, 2017). Come ribadiremo anche in seguito, l’azione di illudersi può avere diverse accezioni e funzionalità.

La metamemoria è, infine, la conoscenza e il controllo che le persone esercitano sulla propria memoria (Schaper & Bayen, 2021). In letteratura, la metamemoria viene distinta tra monitoraggio e controllo meta-mnestico, cioè tra la valutazione dei propri stati di apprendimento e tra i processi che mirano al raggiungimento del livello di memoria desiderato (Nelson & Narens, 1990, come citati da Schaper & Bayen, 2021). Schaper e Bayen (2021) per primi testarono l’illusorietà dell’effetto aspettativa meta-mnemonico: questo effetto consiste nella convinzione soggettiva di avere abilità mnemoniche migliori verso ciò che si ritiene più “scontato” o coerente. Ciò implica che le persone si impegnino di più nella memorizzazione di aspetti apparentemente discordanti, a discapito di altri più concordanti, all’interno di uno stesso compito. Tale focalizzazione potrebbe portare ad un peggioramento dell’immagazzinamento in memoria delle stesse informazioni, nonché delle conseguenze sullo stesso processo di apprendimento. L’effetto di aspettativa meta-mnemonica è, dunque, illusorio e talvolta fuorviante.

Integrazione di Metacognizione ed Enterocezione

Molti tra gli studi finora analizzati, tuttavia, si concentrano su domini isolati della conoscenza di sé. Eppure, gli esseri umani sperimentano un sé unificato che integra le nostre vite mentali e i nostri corpi fisici (Riva, 2018). Mentre la cognizione è spesso considerata separata o distinta dai processi corporei, c’è un crescente riconoscimento del fatto che in effetti la cognizione possa essere incarnata (embodied), cioè che i processi cognitivi si basino su rappresentazioni neurali del corpo (Chua & Bliss-Moreau, 2016; Riva, 2018). Alcune prove di neuroimaging indicano infatti che sia la metamemoria che l’enterocezione reclutano l’insula, una regione coinvolta nell’integrazione delle informazioni omeostatiche e nel controllo viscero-motorio.

Basandosi sulla prospettiva che il corpo e la mente siano intrinsecamente legati tra loro, uno studio del 2016 (Chua & Bliss-Moreau, 2016) si è proposto di analizzare la relazione tra metacognizione ed enterocezione, indagando, dunque, credenze sulle proprie abilità sia mnemoniche che enterocettive. I risultati mostrano come le credenze sulla memoria erano positivamente correlate a quelle sull’enterocezione, e che, in generale, gli individui con una migliore accuratezza meta-mnemonica presentavano anche una maggiore accuratezza enterocettiva.

D’altra parte, lo studio di Yoris e colleghi (2015) ha indagato il ruolo dei costrutti di metacognizione enterocettiva (i.e. credenze e pensieri riflessivi sulle proprie sensazioni corporee) e di accuratezza enterocettiva nel disturbo di panico, riscontrando differenze significative nelle credenze metacognitive enterocettive tra gruppo di controllo e pazienti con disturbo di panico. In particolare, questi ultimi presentavano maggior preoccupazione e pensieri catastrofici riguardo le proprie sensazioni somatiche e sintomi ansiosi.

Conclusioni

Con tutto ciò non si vuole far intendere che l’illusione sia soltanto una tendenza dell’essere umano a “prendersi in giro”, e neppure che le nostre percezioni non siano affidabili in assoluto. Avere delle illusioni soggettive, memorizzate grazie a una varietà di fattori esperienziali, ci “aiuta a vivere”, o perlomeno può risultare funzionale ad adottare uno stile di pensiero in grado di confortarci ed autogestirci quando proviamo dolore, o a prevenire un’eventuale sofferenza. Ad esempio, la sensazione di trovarsi in un ambiente familiare o anche l’idea di avere una buona memoria possono avere un’influenza sul senso di sicurezza nonché sullo stato emotivo. Se prima di un esame importante iniziassimo a pensare di non ricordarci nulla e di non essere abbastanza preparati fino a convincercene, risulterà difficile sostenere bene quell’esame. Il dubbio, in altre parole, infrangerebbe il senso di sicurezza (l’illusione) di sapere, che, in quello specifico contesto, ci avrebbe probabilmente permesso una migliore performance. È, inoltre, interessante riportare l’effetto del “realismo depressivo” (Alloy & Abramson, 1979, come citati da Blanco, 2017). Secondo gli autori, livelli più alti di depressione sono negativamente correlati all’illusione della casualità, e, al contrario, coloro che non presentano sintomi depressivi importanti mostrano una varietà di bias ottimistici e di autoesaltazione, i quali aiuterebbero a mantenere uno stato psicologico ben adattato e sano.

Numerosi studi hanno indagato la validità clinica dell’utilizzo della realtà virtuale su vari fenomeni, tra cui la stessa percezione del dolore (Matamala-Gomez et al., 2021). La percezione e la consapevolezza corporea possono, infatti, essere alterate non solo da cause neurologiche, ma anche da esperienze extra corporee indotte attraverso realtà virtuali. Nello specifico, alcuni tra questi studi hanno sottolineato come delle totali illusioni corporee (Full Body Illusion) possano indurre a modificazioni visuo-tattili (Ehrsson, 2007; Lenggenhager et al., 2007, come citati da Matamala-Gomez et al., 2021) e alla sensazione di “essere situati al di fuori del proprio corpo” (Pamment & Aspell, 2017, come citati da Matamala-Gomez et al., 2021). Attraverso l’uso di illusioni corporee, sarebbe, dunque, possibile modulare questa rappresentazione interna del corpo quando è stata distorta a causa di una condizione clinica (ad esempio, dolore cronico, disturbo alimentare, disturbo motorio, ecc) al fine di recuperare la sua struttura funzionale (Matamala-Gomez et al., 2021). Su questa linea di ricerca, Schmalzl e colleghi (2011) osservarono una riduzione del dolore dell’arto fantasma in pazienti esposti ad una full body illusion, che prevedeva la visione in prima persona del corpo di un manichino in realtà virtuale mentre erano sottoposti a una stimolazione visuo-tattile sincronizzata.

L’effetto placebo, definito come una sostanza o una procedura priva di attività specifica per la condizione trattata (Shapiro & Morris, 1978 come citati da Brascher et al., 2018 ), può essere una forma di condizionamento importante per il trattamento del dolore cronico (Vlaeyen & Linton, 2000 come citati da Brascher et al., 2018). Gli effetti positivi di tale fenomeno sono stati dimostrati in studi con pazienti affetti da dolore muscoloscheletrico (Muller et al., 2016 come citati da Brascher et al., 2018) e lombalgia cronica (Peerdeman et al., 2016 come citati da Brascher et al., 2018). D’altra parte, l’alleanza terapeutica che contribuisce all’esito di una terapia positiva deve focalizzarsi sugli effetti positivi di un trattamento, in quanto l’effetto nocebo, la versione negativa dell’illusione del placebo, può diventare una persistente causa di fallimenti terapeutici nel trattamento del dolore cronico. Le evidenze empiriche mostrano come suggestioni verbali, condizionamento classico e apprendimento osservazionale possono portare a ipoalgesia, cioè a una diminuzione del dolore tramite effetto placebo, o a iperalgesia, cioè a un’aumentata sensibilità nei confronti di stimoli dolorifici tramite quello nocebo (Brascher et al., 2018).

Da un passaggio del libro “Da persona a persona”: “Il mondo in cui viviamo non ‘deve’ necessariamente essere così com’è. Tra tutte le possibilità abbiamo scelto di farlo così” (Rogers & Stevens, 2017, pp. 150-151). È dunque possibile non illuderci? È possibile percepire una realtà oggettiva? Probabilmente no. La percezione soggettiva derivante dai sensi ci induce a creare e formare in noi delle credenze specifiche a proposito della realtà come certa e oggettiva. La realtà viene percepita da parte di tutti in modo meno simile di quanto erroneamente si creda. Ad esempio, quando ascoltiamo il racconto di un episodio di vita altrui, spesso tendiamo ad immedesimarci e ad empatizzare “sentendo” attraverso delle credenze già interiorizzate – e incarnate –, piuttosto che ad “ascoltare” gli eventi con il punto di vista del narrante. “L’interpretazione dell’esperienza è un’altra cosa. […] Scoprii che mentre potevo decidere a favore dello psichico o del somatico, non appena avevo sospeso la mia decisione, essi erano entrambi presenti – a interagire ora come avevano fatto per tutta la mia vita” (Rogers & Stevens, 2017, p. 259).

Tornando alle premesse iniziali, le nostre esperienze corporee non sono dirette, bensì mediate da informazioni percettive che sono a loro volta influenzate da informazioni interne. Tali esperienze vengono, quindi, calibrate attraverso delle rappresentazioni corporee, esplicite o implicite, che sono state precedentemente memorizzate (Riva, 2018). Studiosi come Giuseppe Riva (2018) hanno indagato le origini delle rappresentazioni del corpo umano per comprendere i processi di sviluppo e la relazione con un concetto di Sé adottato e costruito in modo esplicito. Il ricercatore in questione sottolinea lo sviluppo di sei matrici corporee – tra queste, il sé che agisce, o “corpo attivo”, il sé come persona e come oggetto – che possono essere combinate in una rappresentazione coerente di noi stessi. Le matrici corporee sono definite come i confini del corpo, definiscono anche dove il “sé” è presente in quel momento, nonché come si percepisce la persona attraverso la sua modalità di percezione soggettiva.

In conclusione, costruirci una memoria incarnata degli eventi o, più in generale, “illuderci” secondo una rappresentazione soggettiva degli stessi, presenta aspetti sia disfunzionali che funzionali alla nostra esistenza: a seconda di come ci raccontiamo gli eventi e di come rielaboriamo le informazioni sensoriali che esperiamo quotidianamente, abbiamo il potere di interpretare il nostro vissuto in maniera adattiva e salutare, piuttosto che vivere in stato di allarme o preventivo in risposta ai continui cambiamenti ambientali. Clinicamente parlando, si potrebbe dire che ognuno esperisce la propria sofferenza come una percezione non oggettiva della realtà, a livello, al contempo, sia cognitivo che corporeo.

D’altra parte, in linea con la letteratura esposta nel corso del testo, è fondamentale sottolineare l’importanza di applicare alla ricerca nell’ambito, come alla clinica, un approccio integrato e completo di aspetti emotivi, cognitivi, sensoriali e fisiologici. Il tentativo di proporre un approccio integrato e complessivo è già stato portato avanti da numerosi autori (Shiffman et al., 2008), che rimarcano l’importanza di seguire gli individui nel loro contesto di appartenenza e nelle loro costanti fluttuazioni di stato. Secondo gli autori, infatti, le stesse abilità mnemoniche e percettive sono influenzate da variabili contestuali e dallo stato emotivo del soggetto. Si vuole risaltare, in altre parole, un approccio che evidenzi la personale ed individuale integrazione di tali aspetti per la definizione del sé (Riva, 2018).

 

Eutanasia, lutto ed empatia

Il tema dell’eutanasia – letteralmente “buona morte” – è da sempre divisivo: se da una parte c’è chi sostiene che porre fine alle proprie sofferenze irreversibili sia il diritto di ogni essere umano, altri ritengono che la vita vada comunque tutelata e che il confine tra sostegno al suicidio ed istigazione, seppur implicita, a quest’ultimo sia molto sottile.

 

Negli scorsi giorni la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il referendum sull’eutanasia attiva, richiesto dall’associazione “Luca Coscioni” tramite una raccolta di firme.

Il tema dell’eutanasia – letteralmente “buona morte” – è da sempre divisivo: se da una parte c’è chi sostiene che porre fine alle proprie sofferenze irreversibili sia il diritto di ogni essere umano, altri ritengono che la vita vada comunque tutelata e che il confine tra sostegno al suicidio ed istigazione, seppur implicita, a quest’ultimo sia molto sottile. Ciò si collega con il dato di realtà, fotografato dall’ultimo rapporto Istat, che evidenzia come chi decide di porre fine alla propria vita lo faccia anche senza il benestare dello stato, molto spesso attraverso pratiche violente e dolorose.

Eutanasia, morte e perdita

Facendo un passo indietro – azione che talvolta corrisponde a farne uno in avanti, come per apprezzare meglio certi quadri impressionisti – emerge che a fronte di confronti specifici legati al fine vita, all’eutanasia ed al suicidio assistito, c’è un tema più profondo che rimane in ombra: la morte, e con essa la perdita.

Nonostante sia un’esperienza che tutti conosciamo – nel corso della nostra vita sperimentiamo molte perdite, concrete o simboliche che siano – quello della morte è un aspetto che rimane solitamente al di fuori delle dinamiche collettive, restando confinato nella sfera privata. Proprio questo termine, privato, nella sua duplice lettura di sostantivo e di verbo, è particolarmente esplicativo: chi subisce una perdita, quindi un profondo dolore privato, rischia di essere privato del sostegno di cui ha bisogno.

Fatta eccezione per chi ha la forza di affrontare questo momento di grande difficoltà con il sostegno di uno psicoterapeuta, le altre persone si trovano a gestire da sole – o se si è fortunati con il supporto della propria rete familiare, anch’essa però provata dalla perdita – un momento di profonda crisi, rischiando non solo di non riuscire ad elaborare il lutto, ma anche di non aver consapevolezza di questa mancata elaborazione.

In quest’ottica da alcuni anni le pubblicazioni sull’argomento tendono a definire “lutto complicato” quei quadri caratterizzati dalla mancata risoluzione spontanea delle manifestazioni psicologiche associate alla perdita. Anche il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) ha inserito nell’ultima edizione il “disturbo da lutto persistente complicato” come una delle “condizioni che necessitano di ulteriori studi”, evidenziando somiglianze e differenze cliniche che intercorrono tra esso, la depressione ed il disturbo da stress post-traumatico.

Rispetto ad altre culture o ad epoche passate, la società contemporanea pur raccontando mediaticamente episodi legati alla morte – si pensi alla cronaca giornalistica e televisiva della scomparsa d’importanti personaggi della cultura, dello sport o della politica tramite speciali e dirette tv – tende a non dare altrettanta importanza alla dimensione emotiva e relazionale di tale evento.

Dalla “pornografia della morte” alla morte come tabù

Nell’ articolo “La pornografia della morte” l’antropologo Geoffrey Gorer è stato uno dei primi ad analizzare come nel ‘900 fosse socialmente accetabile parlare di morte ma del tutto sconveniente fare riferimento alla sessualità, basti pensare alle resistenze ed alle aspre critiche che hanno suscitato i lavori di Sigmund Freud, oggi considerato padre della psicoanalisi ma al tempo profondamente osteggiato.

Con il passare degli anni la situazione è progressivamente cambiata: se prima si faceva della morte quotidiana un’esperienza condivisa, come nel caso delle cerimonie funebri pubbliche e partecipate, con il superamento dei valori e della morale imposti nel ‘900 il fenomeno si è progressivamente ridotto e parlare di morte è diventato sconveniente, se non un vero e proprio tabù.

Da quando questo saggio è stato pubblicato la società è inoltre cambiata ulteriormente: il consumismo e la rivoluzione tecnologica (e con essa internet, i social network, i like, l’esposizione costante della propria vita agli amici virtuali) ha sollecitato le persone a mettere in risalto successi e presunta felicità, ponendo sempre più in ombra – non solo agli occhi del mondo ma anche ai propri – tutto quel che provoca dolore, spavento o vergogna. Si mostra il proprio lato patinato, impreziosito dall’ultimo status symbol, e si nascondono quegli aspetti di noi stessi che riteniamo essere più brutti o fragili.

Come tutti ricordano lo shock per l’attacco in diretta alle torri gemelle nel 2001, in pochi sono rimasti impassibili alla triste processione delle bare dei morti per Covid trasportate dai camion militari a Bergamo nel 2020. L’esposizione ad un evento così doloroso, più del funerale di stato di qualunque personalità pubblica, ha infranto un tabù collettivo molto profondo e delicato: in quelle bare non c’era Steve Jobs o Diana Spencer, c’eravamo noi. Noi che siamo abituati alla morte raccontata in tv come narrazione dell’altro – del famoso o del delitto di cronaca – non associata a quella normalità che ci contiene, attraversa e rappresenta.

Il tabù della morte e la riflessione sull’eutanasia: quale il ruolo dell’empatia?

Ed è in questo contesto, con l’aumento dei disturbi legati ad ansia e depressione certificato da numerosi studi (si pensi a quello pubblicato su The Lancet nel 2021), che le persone sono state sollecitate ad una riflessione legata all’eutanasia, cioè ad esseri umani che scelgono consapevolmente di morire. Quanto tutto ciò si presta a narrazioni che, invece di sollecitare una riflessione sulla dignità della vita, fanno leva su di un più generico valore assoluto di quest’ultima, favorendo il giudizio più dell’empatia?

Ultimamente di empatia si parla spesso ed è un bene perché può rappresentare una chiave fondamentale per entrare in relazione con l’altro. Quel che però non si dice altrettanto spesso è che l’empatia non è una chiave che si compra bella e pronta dal ferramenta, ma uno strumento che limiamo noi stessi, giorno dopo giorno, magari alla luce di tutte le altre chiavi che abbiamo costruito nel tempo. La vera empatia passa tramite un modo nuovo, autentico e talvolta difficile, di partecipare all’esperienza del prossimo attraverso la propria esperienza personale, cercando nel proprio vissuto quanto più di simile a quel che l’altro sta provando. Citando lo psicoanalista Stephen Mitchell “c’è una differenza enorme tra la falsa empatia, superficiale ed artefatta, e l’empatia autentica, a cui si arriva attraverso falsi indizi, incomprensioni, ed un profondo lavoro personale da parte di entrambi” i soggetti che partecipano alla relazione.

Lo psicoanalista Heinz Kohut ha definito l’empatia “introspezione vicariante”, se non è possibile entrare direttamente nel mondo interiore dell’altro per sperimentale i suoi stati mentali – positivi o negativi che siano – visto che ognuno ha accesso solamente al proprio mondo interno, è possibile prestare agli altri la propria capacità introspettiva.

In tal senso prestare attenzione in modo empatico alla sofferenza altrui non significa solo dire “mi dispiace”, quanto cercare di ricordare esperienze proprie analoghe a quelle che l’altro sta provando, che suscitino in noi una risposta emotiva in cui possa risuonare l’esperienza altrui.

Esprimere un parere o prendere posizione – qualunque essa sia – su di un tema che riguarda una dimensione talmente profonda come quella del fine vita o del lutto senza aver prima fatto questo lavoro intersoggettivo, significa non entrare in quella giusta risonanza empatica che può illuminare il nostro sentire, soprattutto in una società che – non parlando di morte – può implicitamente suggerire che si tratti di una questione di cui vergognarsi.

La realtà, le relazioni, non ci arrivano solo attraverso i nostri sensi, ma anche tramite quest’introspezione che caratterizza il lavoro del professionista ma può rappresentare un modello utile a chiunque voglia empatizzare con il prossimo. Citando nuovamente Mitchell “il ponte che mette in relazione con gli altri non è fatto di una razionalità che prende il posto della fantasia e dell’immaginazione, ma di sentimenti vissuti come reali, autentici, generati dall’interno, piuttosto che imposti dall’esterno, in stretta relazione con la fantasia e l’immaginazione“.

 

 

Etica dell’intelligenza artificiale (2022) di L. Floridi – Recensione

Che cos’è l’Intelligenza Artificiale? Come funziona e come opera? Ha senso parlare di etica delle tecnologie? Cosa ci prospetta il futuro? Queste sono solo alcune delle domande che tutti noi ci poniamo e che trovano risposta nel libro Etica dell’intelligenza artificiale del Professor Luciano Floridi.

 

La tecnologia ci circonda e noi ne siamo dipendenti. Ogni giorno interagiamo con essa e lo facciamo secondo diversi strumenti e modalità. Oggi sembra una cosa normale, la tecnologia fa parte a tutti gli effetti della nostra vita e ci risulta difficile immaginare l’opposto.

Se dovessimo fare la maggior parte delle cose senza l’aiuto della tecnologia, probabilmente ci sentiremmo smarriti, o meglio, non saremmo più in grado di farle. In questo modo l’autore evidenzia e chiarifica che è il mondo a essersi adattato alla tecnologia e non l’inverso, come si potrebbe pensare inizialmente.

Ciò viene spiegato in maniera molto dettagliata e precisa nel libro Etica dell’Intelligenza Artificiale di Floridi, composto da due parti.

La prima parte è denominata Comprendere l’Intelligenza Artificiale. In essa la storia dell’evoluzione tecnologica è ripercorsa in tre capitoli, partendo dalle origini della rivoluzione digitale, con l’importante trasformazione da mondo analogico a digitale, per passare allo stato attuale in cui si analizzano le numerose definizioni esistenti di Intelligenza Artificiale (IA), mettendo in evidenza il concetto di IA come controfattuale. In questo frangente, in cui viene spiegata la differenza tra cervello e computer, ci viene poi regalata una fotografia di quanta “intelligenza” c’è nel digitale e viene enunciato un pilastro fondamentale: il “divorzio” tra capacità di svolgere i compiti con successo in ottica di uno specifico scopo e l’esigenza di essere intelligenti nel farlo. Infine, vi è uno sguardo dedicato al futuro, alle prospettive e ai possibili sviluppi legati all’IA che dovranno essere affrontati. Questo con una particolare attenzione sulla direzione che sta intraprendendo l’IA e sul tracciare la mappa delle sfide etiche che andrebbero considerate.

La seconda parte è Valutare l’Intelligenza Artificiale. In questi undici capitoli l’autore analizza parecchie tematiche, come per esempio la quantità di principi etici esistenti per disciplinare l’IA e la conseguente identificazione di cinque principi fondamentali e dei criteri base che essi soddisfano. Naturalmente l’autore completa il quadro relativo ai principi tramite l’evidenziazione dei rischi di comportamento contrari all’etica, i quali sono tutti individuabili ed evitabili attuando un approccio preventivo.

Per le persone più curiose e che hanno poche conoscenze tecniche come il sottoscritto, una parte davvero fondamentale ed interessante del libro l’ho trovata nei due capitoli dedicati rispettivamente alle cattive e buone pratiche dell’uso dell’IA. Si passa dallo studio dei crimini di IA, intesi come tutte le tecnologie dell’IA che agevolano gli atti criminali, all’IA sfruttato per il bene sociale.

Altro aspetto di particolare interesse è la netta esclusione di una possibile elaborazione di scenari fantascientifici che vengono accantonati tramite argomentazioni ed esempi e quindi bollati come “fuorvianti” e “irresponsabili”. Da qui il focus su problemi reali a cui dobbiamo dare il massimo impegno: il cambiamento climatico e il conseguente utilizzo dell’IA per modellare gli eventi connessi ad esso. Qui si capisce l’importanza di aver sviluppato e di essere in grado di governare eticamente l’IA.

In conclusione, questo libro ha il pregio di essere un “manuale accademico” sull’Intelligenza Artificiale in grado di restituire al lettore una narrazione storica della tematica (fondamentale per capire e contestualizzare), una fotografia dello stato attuale e una visione sul futuro del mondo tecnologico, analizzando e spiegando nel dettaglio i contenuti, tramite anche esempi concreti.

 

Paura del giudizio e bassa autostima nella solitudine in adolescenza

Lo studio di Geukens e colleghi (2022) ha studiato la solitudine durante l’adolescenza, con l’intento specifico di testare se i cambiamenti nei livelli di solitudine avvengono in concomitanza con cambiamenti della paura del giudizio negativo e dell’autostima.

 

Il costrutto di solitudine

La solitudine è considerata uno stato soggettivo negativo in cui le persone si sentono insoddisfatte delle loro relazioni sociali, considerando la propria rete sociale limitata o sperimentando una bassa qualità delle relazioni (Peplau & Perlman, 1982). Nonostante possa essere sperimentata a tutte le età, gli adolescenti sono a maggior rischio, perché durante questo periodo di vita si va incontro a drastici cambiamenti nella propria rete sociale tra l’indipendenza dalle figure genitoriali e un maggiore avvicinamento ai coetanei (Goossens, 2018). In generale, la solitudine raggiunge un picco all’età di 13 anni e diminuisce successivamente per tutta l’adolescenza (Qualter et al., 2013).

Sebbene la solitudine sia di per sé un’esperienza negativa, la teoria evolutiva della solitudine (Cacioppo & Cacioppo, 2018) sottolinea che essa sottintende anche aspetti positivi, dal momento in cui ci spinge a riconnetterci con altri significativi. In altre parole, l’esperienza della solitudine mette in moto diversi processi, chiamati anche moti di ri-affiliazione, che aiutano le persone a riconnettersi con gli altri e, di conseguenza, a ridurre i loro sentimenti di solitudine. Tuttavia, non tutte le persone che provano solitudine sembrano essere in grado di riconnettersi con gli altri (Qualter et al., 2013). È proprio la solitudine prolungata a mostrare collegamenti con diversi esiti negativi per la salute fisica e mentale (Heinrich & Gullone, 2006) come ad esempio la depressione (Qualter et al., 2010).

È stato ipotizzato che le interpretazioni negative delle informazioni sociali e le cognizioni disfunzionali, come ad esempio una bassa autostima e una maggiore paura del giudizio negativo, potrebbero ostacolare il processo di riconnessione (Spithoven et al., 2017; Qualter et al., 2015).

La paura del giudizio negativo è la paura che gli individui hanno di essere valutati negativamente dagli altri in situazioni sociali (Leary, 1983). Durante l’adolescenza, la paura della valutazione negativa tende ad aumentare (Nelemans et al., 2019). Quando si teme un giudizio negativo, si potrebbe essere reticenti nel fare passi per riconnettersi con gli altri e si potrebbe rimanere soli nel tempo. All’aumentare di questa paura, aumenterebbe anche la solitudine. Al contrario, quando non si ha paura delle valutazioni negative da parte degli altri, si potrebbe essere più audaci nel riconnettersi con altre persone.

L’autostima è invece considerata “la valutazione soggettiva di un individuo del suo valore come persona” (Donnellan & Trzesniewski, 2011, p. 718). In adolescenza, una solitudine più pronunciata è associata a una minore autostima (Heinrich & Gullone, 2006). Quando si ha una bassa autostima, si potrebbe non avere il coraggio di prendere provvedimenti per ristabilire legami con gli altri e si potrebbe rimanere soli nel tempo. Al contrario, quando si ha un’autostima più alta, si potrebbe essere più audaci in queste situazioni.

Uno studio su solitudine, paura del giudizio ed autostima

Uno studio di Geukens e colleghi (2022) ha studiato la solitudine e il suo sviluppo durante l’adolescenza, con l’intento specifico di testare se i cambiamenti nei livelli di solitudine avvengono in concomitanza con cambiamenti della paura del giudizio negativo e dell’autostima.

I risultati ottenuti hanno dimostrato che, in linea con le aspettative degli autori, i livelli iniziali di solitudine erano positivamente associati ai livelli iniziali di paura di una valutazione o di un giudizio negativo. Inoltre, all’aumentare della solitudine, è aumentata anche la paura della valutazione negativa. Gli stessi risultati sono stati ottenuti per l’autostima; i livelli iniziali di solitudine e autostima erano associati negativamente. Gli adolescenti i cui sentimenti di solitudine sono aumentati, hanno mostrato una diminuzione dell’autostima nel tempo e viceversa.

Nel complesso, i tre costrutti erano fortemente correlati tra loro; questo potrebbe sollevare domande riguardo alla distinguibilità della solitudine dalla paura della valutazione negativa e dalla bassa autostima. Tuttavia, una ricerca precedente ha dimostrato che la paura del giudizio negativo e la solitudine sono costrutti correlati ma distinti (Danneel et al., 2019). Per l’autostima e la solitudine, tuttavia, non sono disponibili ricerche di questo tipo. La distinzione tra solitudine e bassa autostima potrebbe essere una strada interessante per la ricerca futura.

Lo studio in questione ha anche mostrato una leggera diminuzione della solitudine durante l’adolescenza, in linea con le ricerche precedenti sullo sviluppo della solitudine (ad esempio, Qualter et al., 2013). Nel complesso però, i cambiamenti della solitudine nel tempo sembrano essere piuttosto lievi, suggerendo che, durante l’adolescenza, la solitudine rimane relativamente stabile. Allo stesso modo, anche la paura della valutazione negativa e l’autostima sembrano rimanere piuttosto stabili nel tempo.

Conclusioni

In conclusione, i risultati ottenuti sono in linea con la teoria evolutiva della solitudine che suggerisce che gli individui soli sono soggetti a cognizioni negative e disfunzionali (Cacioppo & Cacioppo, 2018). La paura di un giudizio negativo e l’autostima potrebbero giocare un ruolo nello sviluppo e nel mantenimento della solitudine nell’adolescenza. Quando si teme un giudizio negativo da parte degli altri o si ha una bassa autostima, l’ambiente sociale è percepito come più minaccioso. Questa minaccia percepita potrebbe impedire agli individui che si sentono soli di riconnettersi con gli altri. In questo modo, l’adolescente può rimanere bloccato in un circolo vizioso di solitudine e cognizioni disfunzionali.

Nel trattare la solitudine, i professionisti spesso si concentrano sul miglioramento delle abilità sociali e sull’ampliamento della rete sociale. Tuttavia, come già indicato dal lavoro precedente con gli adulti, gli interventi che si concentrano sui pregiudizi cognitivi sono più efficaci per affrontare la solitudine (Masi et al., 2011). Implementare l’autostima potrebbe essere un ulteriore spunto di lavoro utile per trattare questo problema tra gli adolescenti.

 

Abuso di sostanze in adolescenza – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo Abuso di sostanze in adolescenza: alla ricerca di emozioni forti per star bene.

 

L’adolescenza è un momento fondamentale per lo sviluppo della capacità di regolazione emotiva: studi su individui con sviluppo tipico suggeriscono un’efficacia limitata delle strategie di regolamentazione interna nella prima adolescenza, spostandosi verso un maggiore uso di strategie adattive e un minor uso di strategie disadattive con l’età. Questo sviluppo coincide con i cambiamenti nell’ambiente sociale e nella struttura del cervello. Il comportamento di assunzione che porta alla dipendenza è sostenuto da uno stato che viene definito di vulnerabilità, che a sua volta viene condizionato da fattori biologici, sociali e psichici. La disponibilità delle sostanze dipende invece da fattori ambientali, ma anche dalla cultura e dai rituali sociali più o meno propensi all’uso.

L’incontro di questi due fattori può portare a comportamenti reiterati nel tempo che legano l’individuo alla sostanza per arrivare ad uno stato di dipendenza che può essere considerato una vera e propria malattia. Nell’adolescenza si assiste ad una reattività accentuata agli incentivi ed una immaturità nel controllo degli impulsi, che hanno una base biologica rintracciabile nello sviluppo asincronico dei sistemi limbici di ricompensa rispetto ai sistemi di controllo situati nella corteccia prefrontale. Gli apparenti vantaggi dell’uso di sostanze e dei comportamenti di dipendenza sono le modifiche dell’umore e delle esperienze personali, il rilassamento e il piacere, le strategie per affrontare l’ansia sociale, l’angoscia, la tensione e, soprattutto, la gestione di stati emotivi dolorosi persistenti. Tuttavia, questi cambiamenti rafforzano pesantemente la dipendenza, rappresentando una soluzione temporanea o una strategia di coping continuativa per la gestione dei compiti di sviluppo e innescando così un circolo vizioso che potrebbe avere ripercussioni significative anche in età adulta.

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L’efficacia dei training di memoria per l’anziano sano

I training possono riguardare diverse funzioni, ma, essendo la memoria una delle facoltà che maggiormente si deteriora con l’avanzare dell’età, è stato dato molto spazio ai training di memoria.

 

 È noto che con l’avanzare dell’età il cervello subisca modificazioni in diverse aree cerebrali che si ripercuotono direttamente sulle performance cognitive. Il tema del Cognitive Aging risulta essere molto popolare al giorno d’oggi perché ci stiamo muovendo verso un sempre più consistente invecchiamento della popolazione, quindi esiste una fascia della popolazione in forte crescita che sperimenta questi cambiamenti cognitivi.

Come si modifica la memoria con l’invecchiamento?

La memoria risulta essere una di quelle abilità maggiormente intaccate dal passare degli anni, anche se non in tutti i suoi aspetti: la memoria semantica, così come la componente autobiografica e quella implicita, tendono a rimanere preservate, mentre altre tipologie di memoria come la memoria prospettica, quella episodica e la working memory tendono a declinare. Il declino di queste componenti mnestiche potrebbe essere legato alla minore attivazione che è stata riscontrata in vari studi di neuroimaging in aree come dlPFC (corteccia prefrontale dorsolaterale) e MTL (lobo mediotemporale). Queste aree sono infatti classicamente implicate in codifica e recupero delle informazioni. È però importante rimarcare che questi cambiamenti cognitivi non sono affatto inevitabili, ma negli ultimi decenni sono stati messi a punto tantissimi trattamenti chiamati training che mirano a ridurre questo declino agendo sulla riserva cognitiva dell’anziano sano, in modo tale da ritardarlo sempre di più e da rendere l’anziano autonomo per più tempo possibile.

Cosa sono i training di memoria?

I training possono riguardare diverse funzioni, ma, essendo la memoria una delle facoltà che maggiormente si deteriora, è stato dato molto spazio ai training di memoria, e questi hanno come fondamentali target quelli di codifica e recupero di cui prima si accennava. I training di memoria si basano sull’assunto per cui la cognizione, così come il cervello, sono plastici anche in età avanzata seppure in maniera minore se si fa un paragone con la plasticità posseduta per esempio in adolescenza: il cervello anziano infatti si riorganizza in modo da far fronte al deterioramento cerebrale causato dall’atrofia relata all’età delle strutture. I training di memoria implementano la plasticità facendo utilizzare all’anziano varie strategie (per esempio l’associazione, la categorizzazione, i metodi immaginativi ecc…) per migliorare i processi di codifica e recupero. È necessario spiegare all’anziano prima dell’inizio del training il funzionamento della memoria per rendere sensato ai suoi occhi il lavoro di potenziamento su componenti specifiche. Lo scopo dei training sarebbe quello di indurre gli anziani ad utilizzare delle strategie per stimolare le funzioni cognitive trattate in modo tale da preservarle più a lungo possibile. Questo dovrebbe ripercuotersi anche su un aumento della qualità della vita per cui sarebbe necessaria una generalizzazione degli effetti di tali training. Una componente su cui bisogna inoltre lavorare è la percezione che l’anziano ha della propria memoria oltre che sulla performance oggettiva e, infine, anche sulla trasformazione delle attitudini dell’anziano verso le proprie capacità mnestiche: in altri termini aumentare l’autostima e il senso di autoefficacia dell’anziano lo aiuterebbe a sfruttare al meglio le strategie acquisite. Molto spesso infatti è l’anziano stesso ad avere pregiudizi sul proprio funzionamento mnestico, quindi spiegargli quanto la componente motivazionale può interferire o al contrario supportare il funzionamento di memoria è di primaria importanza.

I training di memoria sono efficaci?

 Nonostante i training di memoria su anziani sani siano un ottimo trattamento non farmacologico per prevenire l’insorgenza di demenze, sembra che non tutti gli studi siano in accordo su alcuni aspetti dell’efficacia dei training e sulla loro utilità sociale. Questo disaccordo in letteratura riguarda soprattutto la generalizzazione dei benefici alla vita quotidiana, la durata, quindi gli effetti a breve e a lungo termine, ma anche la definizione dei destinatari che più possano beneficiare di questi training. Infatti solo recentemente è stata posta attenzione sui fattori prognostici di riuscita dei training come le differenze individuali; per esempio in uno studio di Cavallini et al (2019) ci si è concentrati su quali fossero gli individui più responsivi al training oltre che capire quale specifica componente dell’intervento fosse responsabile del miglioramento della performance dopo il training. Comunque il problema maggiore resta la mancanza di generalizzazione che potrebbe avere diverse cause:

  • potrebbe essere che senza una pratica estesa su materiale specifico e diversificato gli anziani risultino incapaci di applicare le nuove strategie acquisite a materiale non direttamente trattato;
  • oppure potrebbe essere che gli anziani non sappiano che le nuove tecniche mnemoniche apprese possono e potrebbero essere applicate all’apprendimento di materiale non trattato durante il training.

In sostanza però si può affermare che i training di memoria per l’anziano sano sembrano avere un’efficacia significativa, dato documentato da vari studi nella letteratura recente (Butler, 2018; Hudes, 2019; Zimmermann, 2016). Fra tutti sembra che i più efficaci siano i training che forniscono un più alto numero di strategie, forse perché in tal modo è più facile che l’anziano abbia la possibilità di scegliere quale strategia è per lui più adeguata e la internalizzi per poi utilizzarla nella vita quotidiana. I training effettivamente potenziano il funzionamento mnestico, anche se questo miglioramento sembra essere limitato nella maggior parte degli studi al dominio trattato, ma si ha comunque un miglioramento nell’autoefficacia percepita o nel benessere psicologico. Alcuni studi hanno sollevato il problema delle differenze individuali, che dovrebbero essere tenute in considerazione perché si possano strutturare training con adeguata richiesta cognitiva, infatti adattare i training ai profili individuali sembra essere un predittore della riuscita degli stessi. Alla luce di ciò sarebbe interessante costruire training di memoria individualizzati e valutarne l’efficacia. Sarebbe anche utile sfatare i pregiudizi sul declino della memoria che sembrano essere ancora radicati per incentivare l’adesione degli anziani ai training di memoria. La principale criticità resta certamente la generalizzazione, perché sembra che la maggior parte dei soggetti trattati, anche se acquisiscono le strategie durante il training, non le utilizzino nella quotidianità. Questo forse potrebbe dipendere dal fatto che molto spesso le strategie acquisite con tali interventi sono estremamente specifiche e limitate al materiale trattato. La promozione attiva nel corso dei training della generalizzazione a vari aspetti della vita quotidiana potrebbe essere una soluzione, quindi una buona prospettiva futura è quella di capire in che modo rendere le strategie trattate nei training il più ecologiche e generalizzabili possibile.

 

Tre caratteri (2022) di Christopher Bollas – Recensione del libro

La chiave di lettura di Bollas in Tre caratteri, sta nel far arrivare il messaggio che “non esistono due borderline, due maniaco- depressivi e due narcisisti uguali”, ponendosi pertanto in una posizione che miri ad allentare la tendenza di molti clinici a patologizzare ai limiti della disumanizzazione del paziente.

 

La radice di tutti i disturbi del carattere è il dolore mentale e il vantaggio rappresentato da ogni struttura caratteriale consiste nel fatto che la sua ripetitività rende individuabile la sofferenza della persona (Bollas, 2022).

Questa è una delle parti introduttive del testo di Bollas, in cui l’autore sottolinea la peculiarità, nonché il “particolare” a detta di Recalcati, di ogni struttura di personalità, non trascurando il continuum dimensionale nel livello di funzionamento della persona. Ciascun disturbo del carattere, scrive Bollas, preclude la fecondità ricettiva e disseminativa della personalità e ne consegue, quindi, quanto nella relazione d’aiuto sia importante che il clinico/terapeuta, si permetta di entrare in risonanza con quelle che sono le strategie utilizzate dal paziente. In quelle strategie, in quel modo di stare con se stesso e con gli altri che il paziente riporta, c’è molto di una dimensione esistenziale connessa alla sopravvivenza ed emerge quindi un tentativo “intelligente” di trovare una soluzione ad un’angoscia esistenziale intollerabile. In questo processo quindi, che si ricollega alla “coazione a ripetere” esposta da Freud (1920), ci sono anche delle risorse. Se pertanto il clinico permette a se stesso e al paziente di stare nel processo, in una dinamica di “attenzione fluttuante”, di tollerare l’assenza di un’interpretazione da riferire al paziente e quindi di accogliere i propri stati e gli stati della mente del soggetto per come si presentano nel “qui e ora della relazione”, incentiva anche la possibilità di coltivare quelli che Winnicott definisce “spazi potenziali”. Viene colta in questo la “specifica intelligenza e configurazione del soggetto”, che, a detta di Bollas, viene incoraggiato a “farne uso” nell’imprevedibilità e nell’ingovernabilità che l’esperienza umana porta con sé. Bollas scrive:

Cogliere la specifica intelligenza e aiutare l’analizzando a comprenderla, è ciò che permette un naturale processo di disintossicazione.

Nello specifico, l’autore, fa riferimento a tre caratteri: il narcisista, il borderline e il maniaco-depressivo. Queste strutture di personalità risultano già ampiamente analizzate e discusse nella letteratura psicoanalitica e quindi, come evidenziato dall’autore, prendono in considerazione elementi scelti dai saggi di clinici come Kohut, Kernberg, Winnicott ecc.. Purtuttavia, la chiave di lettura di Bollas, sta proprio nel far arrivare il messaggio che “non esistono due borderline, due maniaco- depressivi e due narcisisti uguali”, ponendosi pertanto in una posizione che miri ad allentare la tendenza di molti clinici a patologizzare ai limiti della disumanizzazione del paziente. In ciò, danno al soggetto l’incentivo a porsi come “vittima delle circostanze” e quindi a fuggire il cambiamento psichico e qualunque esperienza di trasformazione. Ma andiamo per ordine.

Tre caratteri: la struttura narcisistica

La prima configurazione caratteriale presentata da Bollas è quella narcisistica. Caratteristica centrale dell’universo narcisistico è l’immagine di sé e la richiesta di attenzione con cui il narcisista pressa l’altro al fine di alimentare un’omeostasi di idealizzazioni contingenti. Bollas, in questo, fa riferimento al “contratto narcisistico”, in cui l’idea prevalente alla base della sopravvivenza sta nell’introdurre l’altro in una realtà creata da lui, e in cui possono emergere credenze che si estrinsecano in: “Ti incoraggio ad esaltare te stesso; tu fai lo stesso con me; insieme offriamo un servizio agli altri”. È questo ciò che può essere definito un innesto relazionale rassicurante e che porta con sé un senso di trionfo sulla realtà, in cui il sé grandioso e l’invulnerabilità emergono all’insegna di quello che Recalcati definisce “fantasma sacrificale” e di un vuoto, come esito di un sé considerato più affidabile rispetto all’altro e quindi di isolamento psichico. Di fatto, ciò che emerge, secondo Bollas, è l’assenza di una struttura interna, compensata dalla costruzione di un sé ideale. Non vi è quindi la possibilità di un abbondante nutrimento interno e ciò promuove un’intensificazione dell’avidità, in cui il sé risulta fagocitato in un senso di insoddisfazione senza soluzione di continuità. Il contatto con l’altro, con la realtà, viene costantemente svuotato di possibilità trasformative. Il narcisista non può coinvolgersi autenticamente con l’altro, non può darsi il permesso di sentirsi reale e quindi vulnerabile. In un contesto terapeutico, egli può essere vissuto come un ascoltatore attento ma, di base, ogni commento positivo rivolto dal terapeuta, viene consumato rapidamente e non per essere elaborato e trasformato come punto di partenza per un pensiero ulteriore, ma per essere ingerito. Quindi, scrive Bollas, egli funziona nella posizione Bioniana -k, in cui gli stimoli in entrata rimangono grezzi. Ciò implicherebbe il cedere ad una dimensione di affidabilità e dipendenza, insita in ogni rapporto sano e che, in questo caso, è stato perlopiù vissuta all’insegna delle aspettative degli altri significativi e delle possibili ricompense, in un circolo vizioso fondato su un insostenibile bisogno di riconoscimento e ammirazione. Kohut, in merito, scrive:

Essendo questi individui, minacciati nel mantenimento di un sé integrato, perché nella loro infanzia sono mancate adeguate risposte di conferma (rispecchiamento) da parte dell’ambiente, si sono rivolti alla stimolazione del sé per conservare la coesione precaria del loro sé che sperimenta e agisce”.

Il bambino quindi dà inizio alla propria linea di sviluppo narcisistico, in cui il sé diventa il legislatore di sé stesso. Il terapeuta può spesso fare esperienza di un intenso stato di annullamento, l’impressione di essere “tagliato fuori”. Ciò mira a costringere l’analista nel fare ammenda e dare spazio pertanto ad una violenta rivendicazione di “innocenza”. Per esempio, il soggetto può uscirsene con affermazioni del tipo: “Non so davvero di cosa stia parlando”. Ciò che il terapeuta dice, va a collidere con il legislatore interno, il quale, però, non va confuso con una struttura super-egoica rigida, ma invece rispecchia proprio un’assenza di struttura, un sé ideale, un oggetto/sé grandioso-onnipotente a detta di Kohut, il grande Altro a detta di Recalcati. Questo legislatore interno, nega l’esistenza dell’altro, allo scopo di annientare l’ordine materno fagocitante e tuttavia di mantenere un sé potenziale incontaminato. Emerge quindi la mancanza nella possibilità di coltivare in maniera sana quelli che Winnicott definisce “fenomeni transizionali”. In particolare, egli fa riferimento a delle aree intermedie di esperienza tra l’esperienza interna e l’esterno. Relazioni “sufficientemente buone” con i caregiver, in cui, inizialmente quest’ultimo si adatta in maniera quasi perfetta ai bisogni del bambino, per poi dare spazio graduale al raggiungimento di un equilibrio tra esperienze di “illusione e delusione”, portando l’individuo ad acquisire un “senso di sicurezza nel cambiamento” e quindi a fare esperienza della frustrazione come uno “stato mentale” con dei limiti temporali. Il caregiver dà al bambino la possibilità di illudersi, fin quando non sarà possibile che cominci a svilupparsi la capacità di una relazione con la realtà esterna. Winnicott scrive: “La madre colloca il seno, laddove il bambino è pronto a crearlo” (Winnicott, 1965). Questo evidenzia come, senza sufficienti occasioni di illusione, di onnipotenza, di contingenza quasi perfetta, non ci possa essere per l’essere umano alcun significato o, per meglio dire, nessuna possibilità trasformativa che derivi dall’incontro con la realtà esterna. Le aree intermedie di esperienza, se coltivate con continuità durante il percorso di vita, costituiscono la base per la creatività e per incontrare l’altro su un piano umano. Ora, secondo Bollas, il bisogno del narcisista di essere rispecchiato, si estrinseca in quello che Winnicott definisce “madre ambiente” e quindi in tutta una serie di oggetti che permettono di mantenere l’omeostasi rassicurante di una realtà creata da lui. Emerge quindi la fantasia di “autocreazione” come trionfo, ma in questa “autocreazione”, in questo nutrimento autoerotico, si percepisce chiaramente, secondo Bollas, “l’impossibilità di creare”. L’autore lo sottolinea in merito a quello che lui definisce “narcisismo negativo”. La distruzione, per lui, rappresenta un’alternativa alla vita creativa, fornendo nondimeno un sentimento di potere compensatorio a ciò che non vi è stato. È in questa condizione che si può cogliere in modo particolare la tirannia del legislatore, o come Bollas lo definisce con un linguaggio a mio parere alquanto evocativo, “Il leader mafioso”. In questa configurazione narcisistica negativa, il soggetto scinde gli aspetti amorevoli di sé con quelli che si comportano come una gang guidata da un mafioso. Egli reperisce il nutrimento nell’onnipotenza della distruttività, nell’odio, dinamiche che spesso emergono nel fondamentalismo e che può portare a dimensioni deliranti. Il soggetto, in questo caso, si identifica con un grande altro, secondo Yalom, un salvatore ultimo con il quale sancire una dimensione contrattuale che gli consenta di salvaguardare la propria innocenza. Infatti, in questo può impegnarsi in azioni missionarie, guidato da quella che nel testo viene definita “autorizzazione alla confessione”, in cui può sembrare che stia empatizzando e comunicando con gli altri in maniera autentica, ma in realtà si sta occupando di ripristinare l’idealizzazione. È un dare, un debito verso l’altro che in realtà contiene l’aspettativa di ricompensa e credito, di accumulare punti per un’immagine di sé incontaminata e che lo esoneri completamente da un senso di responsabilità verso la propria vita. Ovviamente, in tutto questo, ciò che prende rilievo, è una componente di “vita non vissuta” che non può essere tollerata, e quindi viene negata. Tuttavia, secondo Bollas, ad un certo punto dell’esistenza del narcisista, emerge una profonda angoscia esistenziale, che può portare l’individuo a sperimentare uno stato depressivo di rilevanza clinica non indifferente. L’individuo semplicemente interrompe ogni modalità di funzionamento: si mette a letto, guarda la tv e parla a monosillabi. Cosa sta avvenendo? Egli comincia a sentire che la vita non ha significato e inizia un incontro con la realtà della morte. Questo, per Bollas, rappresenta il ritorno dell’ucciso.

Ma cosa lo spinge a chiedere la terapia? In genere, è proprio l’emergere della dimensione depressiva e di deterioramento somatico, che lo porta a chiedere aiuto e che in alcuni casi può manifestarsi in una depressione psicotica. Di fondo, dopo decenni di diniego della realtà mentale e del dolore annesso, il narcisista ha imparato automaticamente a funzionare soltanto all’insegna del sé grandioso, soffocando pertanto le parti non psicotiche della propria struttura di personalità e sviluppando quindi una soglia di attivazione più bassa al funzionamento psicotico. Insomma, in parole semplici, non ha avuto possibilità di coltivare altri modi di funzionare e stare con se stesso. Pertanto, quella che è stata definita prima come angoscia esistenziale, viene alimentata proprio dal sé grandioso compensatorio, che soffoca l’esplorazione di altre parti del sé. Così, ad un certo punto della vita, queste difese crollano e l’angoscia di morte diventa intollerabile. D’altronde, come afferma Yalom: “Più elevata è la componente di vita non vissuta, più alta è l’angoscia di morte” (Yalom, 1980). Nel testo, vengono presentati alcuni assiomi della logica narcisistica e quello che può, a mio avviso, rappresentare di più il periodo in cui il soggetto abbia maggiore probabilità di chiedere aiuto, è il seguente: “Devo infine sperimentare l’ineluttabilità della scomparsa delle mie illusioni e affrontare il creatore con me stesso come assassino” (Bollas, 2022). Secondo Bollas, per il paziente narcisista, da un punto di vista clinico e terapeutico, risulta di rilevante importanza il concetto di “transfert idealizzante” elaborato da Kohut. Infatti, egli argomenta che, per consentire al paziente di sperimentare un’esperienza di intimità, è importante che la relazione terapeutica offra un’alternativa alla vita delirante. In pratica, sottolinea Bollas, è fondamentale che, nella relazione terapeutica, il paziente venga rispecchiato nelle sue “proteste”. Nel dialogo con Sacha Bollas, nella parte finale del libro, l’autore mette in risalto questo punto, facendo l’esempio di un potenziale paziente che si lamenta degli immigrati e del fatto che egli sia convinto che, a causa loro, la sua propria vita stia andando distrutta. È importante che il terapeuta verbalizzi la protesta del paziente, rispecchiando quindi il suo punto di vista. Così, lo incoraggia anche ad entrare in contatto con altri punti di vista e quindi altre parti di sé. Ciò permette anche di dare “spazio psichico” a quella che si presenta come una convinzione ben radicata e quindi consente anche un processo di mentalizzazione. In poche parole, Bollas aspetta che “il paziente corregga sé stesso”.

Tre caratteri: la struttura borderline

Altra configurazione trattata è la struttura borderline, alla cui base, secondo l’autore, c’è il bisogno di questi soggetti di introdurre il dolore nel sé per appropriarsi dell’ombra dell’oggetto. Egli afferma: “Il borderline amplifica il dolore in un abbraccio frenetico”. In particolare, la mancanza di continuità dell’esperienza del sé e dell’altro, cristallizzata nelle esperienze di attaccamento con caregivers in cui emerge il carico di un’imprevedibilità angosciante. Il soggetto, quindi, vive un senso di sé estremamente confuso e un’altrettanta spinta ad evacuare all’esterno di sé stati della mente in cui l’esperienza della realtà è sopraffatta da un dolore intollerabile. Bollas evidenzia quello che risulta essere il contratto bordeline e, nello specifico, come in questa dinamica emerga il senso di confusione del terapeuta. Emerge un’ossessione dubitativa tra ciò che sia reale o meno con un quesito che esprime abbastanza chiaramente l’angoscia sottostante: “È l’altro a provocare questo dolore oppure il paziente sta proiettando nell’altro il negativo?”. Naturalmente alla base di questa dinamica, c’è l’utilizzo dell’identificazione proiettiva. Bollas parla di un’identificazione proiettiva eviscerativa, per cui il particolare perde la propria identità e che porta il soggetto a non poter riportare i dettagli dell’esperienza con se stesso e con l’altro, ma soltanto degli slogan astratti, delle allegorie (Bollas, 2022). Quindi, alla base di questo contratto, vi è un mondo di “relazioni abortite” basate sulla turbolenza, senza soluzione di continuità, con immagini, sensazioni, emozioni, pensieri guidati da un interruttore, il cui pilota automatico le incastra in compartimenti che non comunicano tra di loro. L’altro viene idealizzato, per poi mutare radicalmente. Il borderline, vive in una sorta di autoannullamento, in un costante stordimento alimentato da una scissione interna e quindi alla ricerca costante di un altro come contenitore di stati mentali intollerabili. Lo spazio della terapia, sottolinea Bollas, in quanto spazio potenziale, può essere vissuto come un buco nero. La cronicità della paura, della rabbia, della vergogna, dell’angoscia, rende per esempio insopportabile l’imprevedibilità delle libere associazioni. A proposito della rabbia, Bollas, fa una distinzione fondamentale tra la rabbia narcisistica e quella borderline. La prima nasconde la paura che l’equilibrio omeostatico del sé grandioso possa venire destabilizzato, e quindi un tentativo di ripristinarlo. La seconda, invece, fa riferimento al fulcro di quello che l’autore definisce “intimità borderline”. Egli scrive: “La rabbia è l’oggetto primario ed egli la intensifica al fine di intensificare la relazione oggettuale”. Questo perché, alla base degli assiomi della logica borderline, secondo Bollas, sta l’affermazione: “Non possiedo un senso originario di chi sono ma possiedo un “me” che si instaura in una reazione ad un altro che arreca disturbo. Reagisco a quello che fai tu” (Bollas, 2022). Altro aspetto fondamentale sottolineato da Bollas, di cui ho accennato all’inizio, è il suggerimento per clinici e terapeuti di non collassare sul deficit. Ciò, non farebbe altro che rinforzare la struttura borderline e l’angoscia di separazione, in una dinamica difensiva che non farebbe altro che proteggere entrambi dalla paura del cambiamento psichico. Un ultimo, a mio avviso, importante aspetto che viene sottolineato da Bollas, a proposito del borderline, riguarda quella che lui definisce “scissione per opera dell’altro”. Il soggetto è stato scisso per opera di un altro caleidoscopico. Il sé diventa quindi uno strano contenitore di compiti casuali, venendo a mancare quindi, quella che Winnicott definisce continuità del sé e pertanto reazioni automatiche ad un altro “disturbante”.

Tre caratteri: la struttura maniaco depressiva

Ultima configurazione presa in esame, è il maniaco depressivo. Caratteristica fenomenologica centrale, evidenziata da Bollas, è che questi individui risultano essere un vulcano di idee. Durante la fase maniacale, questi soggetti, parlano ad una velocità sorprendente e l’autore, durante la propria esperienza terapeutica con loro, permettendosi di ascoltarli liberamente, si rende conto che in realtà essi stiano producendo libere associazioni. Alla base del processo di cambiamento secondo Bollas, vi è quello che lui definisce “rallentamento terapeutico”. Egli si focalizza sulla raccolta della storia del paziente, guidandolo sotto il peso dei ricordi, dinamica che, di per sé, rallenta l’episodio maniacale. Questo sancisce il legame con la quotidianità del soggetto, restituendogli pertanto il contesto della propria mania e il recupero di parti depressive scisse. In questo senso, il terapeuta stesso costituisce un elemento depressivo. Ma quale background contribuisce all’accelerazione maniacale e alla conseguente caduta depressiva con sentimenti di perdita di agentività e distruzione di significato?

Partendo dal presupposto che entrambe costituiscano una sorta di immunizzazione psichica contro il lavoro di insight, il soggetto cresce in un clima di accudimento in cui nessuno lo sta ascoltando perché nessuno ha il tempo di farlo. Allora, in queste condizioni, la mente del bambino accelera ulteriormente per dimostrarsi più interessante. Gradualmente si va intensificando una condizione in cui la trascuratezza da parte delle figure di accudimento porta l’individuo ad attingere a una indispensabile fonte di nutrimento della mente, la quale però viene percepita come abbastanza separata da lui. Nasce quindi una segreta collaborazione tra le menti di autori, musicisti, artisti e la sua mente, il tutto nell’ottica di una fuga da un sé banale, sperimentato con un’impotenza estrema durante la fase depressiva. In questo stato, egli vive un abbandono da parte della mente. Si percepisce come un angelo caduto e quindi vive nell’ombra dell’epoca d’oro della sua mente, nell’inerzia più totale di un ritorno tra i morti viventi. Nello stato maniacale, la mente costituisce il salvatore ultimo e che molto spesso conduce all’identificazione con Dio e alla consegna della sua parola. La ripetuta esperienza di non essere ascoltati, porta ad un’identificazione proiettiva con un sé che non ascolta nessuno. Proprio in relazione all’esperienza di non essere stato ascoltato, emerge uno stato cronico di rabbia, che emerge durante la fase depressiva, che risulta connessa al senso di ingiustizia e tradimento legato al destino depressivo e che è diretta principalmente ai genitori che lui ritiene abbiano soffocato la propria vitalità. Per lui è fondamentale convertire gli altri al proprio modo di vedere il mondo. Il maniaco depressivo quindi mette in atto un continuo processo di suzione dalla propria mente e, in terapia, il terapeuta può sentirsi coinvolto in maniera controtransferale in questa dinamica. Il tutto per fuggire dalle potenzialità trasformative offerte da una “mente differente” e quindi dalla relazione autentica con l’altro. Ma la “mente differente”, e quindi l’esperienza della “separatezza del pensiero del terapeuta”, pur rappresentando un forte elemento depressivo e quindi un incontro con “la morte”, tuttavia rappresenta uno spazio potenziale in cui le libere associazioni smontano il senso di grandiosità e i significati che il paziente presumeva di aver compreso.

Conclusioni

Vorrei terminare la recensione di questo testo sottolineando uno dei temi che a mio parere risulta centrale all’interno dello scritto. Mi riferisco all’incontro con la morte. In tutte le configurazioni caratteriali prese in esame, c’è un quantitativo intenso di “vita non vissuta”. In seduta, è come se il paziente intimasse al terapeuta: “Non azzardarti a riportarmi in vita”. Carotenuto, in merito, riporta il tema dell’individuazione e come la “vita non vissuta”, in realtà contenga la paura di affrontare un altro stadio dell’esistenza, un modo maggiormente consapevole di approcciarsi alla sofferenza e quindi a quel passaggio che equivale alla morte. Carotenuto scrive:

Scegliere di crescere, implica anche un simbolico gesto suicida, una tensione alla trasformazione che il dolore dell’anima rende improcrastinabile (Carotenuto, 1991).

 

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