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Come la gratitudine influenza l’invidia

Diversi risultati in letteratura hanno trovato una correlazione positiva tra invidia e sintomi che indicano una compromissione della salute mentale, con problematiche a livello personale e sociale.

 

Gratitudine ed emozioni

Quando si riceve un regalo o un beneficio personale che non è stato guadagnato, meritato o atteso, a causa delle buone intenzioni di un’altra persona, una tipica risposta emotiva è la gratitudine (Emmons & McCullough, 2003). McCullough e colleghi (2001) hanno tentato di concettualizzare la gratitudine concludendo che quest’ultima svolge la funzione di rinforzo morale: le persone tendono ad essere grate in risposta a benefici che apprezzano e che sono forniti loro intenzionalmente da parte di un benefattore ad un certo costo. Inoltre, tali benefici, per generare maggiore gratitudine devono essere offerti gratuitamente, piuttosto che obbligatoriamente, e implicare quindi gentilezza piuttosto che interesse personale. In aggiunta, la gratitudine prevede un elevato grado di consapevolezza delle cose buone che accadono poiché riconoscere e sentire l’impatto positivo che gli altri hanno sul nostro benessere fornisce una chiara indicazione del valore di determinate relazioni e mostrare gratitudine può aumentare le possibilità che un benefattore agisca di nuovo gentilmente in futuro. Con lo sviluppo della psicologia positiva, la gratitudine ha attirato una significativa attenzione in quanto è un’emozione positiva indotta da esperienze positive (Froh et al., 2011). Gli effetti positivi della gratitudine sono numerosi, tra cui quello di promuovere la felicità e migliorare la salute fisica e mentale (Zhang & Hou, 2010). Inoltre sembra che le persone che sperimentano maggiore gratitudine abbiano la possibilità di concentrarsi su quanto di bello accade nella loro quotidianità e abbiano, di conseguenza, una visione più positiva della vita. Alla luce di ciò, è possibile affermare che una delle principali funzioni della gratitudine è quella di inibire le emozioni negative (Wood et al., 2008).

Che cos’è l’invidia

L’invidia, al contrario, è un’emozione negativa spesso causata da un confronto sociale che provoca comportamenti immorali e si manifesta con senso di inferiorità, ostilità e risentimento (Takahashi et al., 2009). Diversi risultati della letteratura hanno trovato una correlazione positiva tra invidia e sintomi che indicano una compromissione della salute mentale (Xiang et al., 2019), con problematiche a livello personale e sociale. Alcuni studi hanno dimostrato che la gratitudine può influenzare l’invidia, in quanto le persone con alti livelli di gratitudine sono più propense a concentrarsi su ciò che hanno e sperimentano livelli inferiori di invidia; coloro che provano invidia sono invece concentrati nel notare quando gli altri hanno qualcosa che a loro manca. Wood, Joseph e Linley, in uno studio del 2007, hanno esplorato il ruolo della gratitudine di stato, un sentimento emotivo immediato e duraturo prodotto quando le persone ricevono favori. I risultati dello studio mostrano che in situazioni di stress elevato le persone con alti livelli di gratitudine di stato, esprimendo emozioni più positive, sono propense ad utilizzare strategie di coping più funzionali e positive.

Una delle situazioni stressanti menzionate è il confronto con coloro che hanno un ruolo sociale più elevato, il quale spesso può portare a provare invidia. Sembra infatti che in queste occasioni le persone con elevata gratitudine di stato sappiano regolare le emozioni negative e mostrare maggiormente quelle positive, focalizzandosi sulla possibilità che l’altro possa influenzarle positivamente anziché concentrarsi su ciò che l’altro ha più di loro. Inoltre, uno studio di Lv e Zhou (2019), ha mostrato come una maggiore gratitudine possa anche migliorare la propria autovalutazione di base diminuendo l’invidia del confronto sociale. Anche la gratitudine di tratto, che è concettualizzata come un tratto di personalità che apprezza e si concentra sugli aspetti positivi della vita (Wood et al., 2010) sembra avere un’influenza diretta sull’invidia; Fredrickson nel 2004 ha proposto la teoria dell’ampliamento e della costruzione delle emozioni positive secondo la quale il tratto di gratitudine può ampliare le mappe cognitive e aiutare le persone a costruire risorse positive. L’autostima, per esempio, è spesso costruita anche grazie alla gratitudine di tratto che aumenta i giudizi positivi degli individui su sé stessi, sugli altri e sul mondo (Wood et al., 2010). Siccome un danno alla propria autostima può essere considerato anch’esso motivo di invidia verso gli altri, una maggiore autostima può quindi contribuire a ridurre l’invidia situazionale.

Gli effetti della gratitudine sull’invidia

Uno studio di Mao e colleghi del 2021 aveva come obiettivo quello di verificare l’effetto inibitorio della gratitudine di stato e della gratitudine di tratto sull’invidia situazionale. Sulla base della teoria del coping e della teoria dell’allargamento e della costruzione delle emozione positive, gli autori hanno ipotizzato che la gratitudine di stato inibisse l’invidia situazionale e che la gratitudine di tratto inibisse l’invidia situazionale attraverso il ruolo di mediazione della gratitudine di stato. 326 studenti universitari hanno completato il Gratitude Questionnaire (GQ-6; McCullough et al., 2002) per misurare i punteggi dei partecipanti sull’intensità, la densità di frequenza e l’ampiezza della gratitudine e la Dispositional Envy Scale (DES; Smith et al., 1999) per misurare la frequenza con cui hanno sperimentato l’invidia nella vita quotidiana. I risultati mostrano una significativa correlazione negativa tra gratitudine e invidia: la gratitudine di stato inibisce l’invidia situazionale; inoltre la gratitudine di stato gioca un ruolo di mediazione parziale tra la gratitudine di tratto e l’invidia situazionale. Come ipotizzato, sembrerebbe quindi che le persone con alti livelli di gratitudine adottino strategie positive nel confronto sociale inibendo emozioni negative come l’invidia e concentrandosi su ciò che i coetanei di successo possono dare loro piuttosto che su quello che non hanno. Lo studio fornisce quindi alcune indicazioni sull’importanza dell’educare i ragazzi a coltivare la gratitudine in quanto può facilitare una più rapida integrazione nella società adulta, aiuta ad affrontare situazioni stressanti e accresce la capacità di risolvere problemi e inibire emozioni negative come l’invidia (Froh et al., 2010).

 

Il caregiver – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia.

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il terzo episodio del podcast dedicato alla figura del caregiver. Ospite dell’incontro: il Dott. Guido Edoardo D’Aniello.

Dove ascoltare il terzo episodio:

 

 

Attaccamento prenatale: agli albori della vita

A seguito della maggiore attenzione prestata al mondo della perinatalità, ha iniziato a farsi strada il concetto di attaccamento prenatale quale investimento mentale, affettivo e fisico della coppia nei confronti del nascituro già durante i nove mesi che precedono la nascita. 

 

Una definizione di attaccamento prenatale

Uno dei primi autori a fornire una definizione di attaccamento prenatale è stato Cranley, il quale lo definì come “la misura in cui ogni madre si impegna a mettere in atto comportamenti interattivi finalizzati alla creazione di un legame con il suo bambino non ancora nato” (Rollè, Giordano, Santoniccolo, Trombetta; 2020). Successivamente, Leifer identificò una serie di indicatori del costrutto, tra cui parlare con il feto, chiamarlo per nome o dargli un soprannome. Winnicott, invece, parlò di Preoccupazione Materna Primaria quale tendenza della madre ad identificarsi inconsciamente con il feto (Mcbride; 2018), verso il quale investe intense fantasie, attenzioni, pensieri.

La sensibilità e l’affetto materno/paterno, dunque, possono avere origine ancor prima che un bambino venga al mondo: già durante la fase della gestazione, è possibile creare una relazione calorosa con il proprio figlio. L’attaccamento prenatale si propone come costrutto bidirezionale, considerati i feedback continui e le influenze dinamiche tra madre/padre/feto, e coinvolge tre elementi principali: cognitivo, emotivo e comportamentale. L’elemento cognitivo si riferisce alla capacità di concettualizzazione astratta del feto come persona, alle rappresentazioni cognitive del feto che possono includere scenari immaginari tra madre/padre e figlio, nonché all’attribuzione, da parte del genitore, di caratteristiche fisiche ed emotive al proprio figlio; quello emotivo indica il legame emozionale con il feto, mentre quello comportamentale include l’interazione con lo stesso.

Attribuire un nome al nascituro, parlargli, fargli ascoltare musica, accarezzare il pancione, leggere un libro al bambino, sono tutte condotte che contribuiscono alla creazione dell’attaccamento prenatale. In particolare, gli ultimi tre mesi di gravidanza sono il momento in cui l’alchimia madre-figlio raggiunge il culmine per la sensibilità fetale (in termini di aspetto emotivo o fisico) alla madre.

Attaccamento prenatale e coinvolgimento genitoriale post-natale

Molti autori sottolineano che bassi livelli di attaccamento prenatale siano associati a bassi livelli di investimento affettivo genitoriale post-natale; di contro, l’investimento affettivo, cognitivo e fisico genitoriale nei confronti del nascituro durante il periodo di gestazione, aiuterebbe a considerare il feto come parte integrante del nucleo familiare e faciliterebbe l’acquisizione dei futuri ruoli di madre e padre. Si pensi all’ultimo trimestre di gravidanza, periodo durante cui il feto inizia a mostrare modelli distinti di riposo e attività che le madri sembrano riconoscere e a cui imparano a rispondere in modo sempre più sincronizzato (Siddiqui,  Hagglof; 2000).

Proprio per questo, la gravidanza è stata identificata come finestra preziosa per la salute materna e fetale, oltre che per l’emergere di determinate componenti chiave per la genitorialità (Sacchi, Mascioscia, Visentin, Simonelli; 2021).

L’attaccamento materno-fetale durante il terzo trimestre di gravidanza sembra essere associato ad un maggior coinvolgimento materno postnatale; di contro, l’assenza di attaccamento prenatale può consentire di identificare quelle donne che probabilmente avranno più difficoltà a stabilire un’interazione ottimale con il proprio figlio (Siddiqui, Hagglof; 2000). Inoltre, l’attaccamento prenatale potrebbe aumentare la messa in atto di pratiche di buona salute da parte delle gestanti (Lindgren; 2001), e ciò è fondamentale sia per la salute materna che del bambino: si pensi all’importanza dell’assunzione di acido folico, fondamentale per la prevenzione dei difetti del tubo neurale (es. spina bifida), e/o ad un regime alimentare corretto, che non preveda, ad esempio, uso di bevande alcoliche. Una dimensione dell’attaccamento prenatale è appunto la tendenza materna ad adottare pratiche di auto-cura (es. dieta sana, stile di vita sano), per il bene proprio e del feto: l’impegno materno in pratiche di salute prenatale positive e comportamenti che trasmettono cura, impegno e interazione con il nascituro, sottolineano l’instaurazione di una relazione prenatale unica (Sacchi, Mascioscia, Visentin, Simonelli; 2021).

Fattori di rischio per un basso attaccamento prenatale

Tra i principali fattori di rischio che potrebbero ostacolare la creazione di un legame precoce madre-padre-feto rientrano: scarsa qualità della relazione di coppia, gravidanza non desiderata, mancanza di supporto sociale, complicazioni durante la gravidanza, depressione e ansia perinatale, età materna e paterna (si pensi alle gravidanze in adolescenza). In modo particolare, la depressione gestazionale può essere un precursore della depressione post-natale e può rendere difficile lo sviluppo di una buona relazione con il proprio bambino: non a caso, i figli di madri depresse sono molto più a rischio di andare incontro a problematiche dello sviluppo rispetto a quelli di madri non depresse (Lindgren; 2001). Un ulteriore fattore di rischio è la gravidanza a rischio, a causa della quale la madre potrebbe evitare di “affezionarsi” al bambino durante il periodo prenatale, e questo a causa dei sentimenti di preoccupazione per il feto che potrebbe non sopravvivere. Il fatto di percepire la gravidanza come minacciosa o potenzialmente dannosa per se stessa, per il feto o per la vita di coppia, può compromettere la capacità materna di svolgere adeguatamente i normali compiti di sviluppo della gravidanza.

In sintesi, l’attaccamento prenatale materno e paterno, che si alimenta gradualmente con il progredire della gravidanza, oltre ad essere un possibile precursore dell’attaccamento postnatale, rappresenta un legame unico tra genitori e figli; perciò, è importante incrementare, attraverso specifici programmi di intervento perinatali rivolti alle future coppie genitoriali, la consapevolezza e la conoscenza di quali siano i benefici di una sana relazione genitore-bambino per l’intero nucleo familiare.

 

Due di cuore (2021) di Silvano Bordignon – Recensione del libro

Due di cuore. Il fascino discreto della relazione racconta la scommessa delle coppie del futuro: l’armonizzazione di due desideri, quello fusionale di una relazione appagante e quello dell’autorealizzazione personale.

 

Dall’attività di relatore in corsi prematrimoniali su tematiche psicologiche e quella di consulente e psicologo presso centri di ascolto per coppie, nasce Due di cuore. Il fascino discreto della relazione, un contributo snello e pratico, che delinea una articolata riflessione sull’universo relazionale, riportando una serie di immagini e metafore consolidate in tre decenni di incontri con centinaia di coppie e persone in sofferenza relazionale.

Il titolo è emblematico perché racconta del tentativo di realizzare un sogno utopico, la scommessa delle coppie del futuro: l’armonizzazione di due desideri, quello fusionale di una relazione appagante, quindi un unico cuore, e quello dell’autorealizzazione personale, quindi due cuori con tempi, spazi, risorse personali e distinte, ognuno con una propria capanna (Bordignon, 2021).

Il libro è strutturato in quattro blocchi che raggruppano immagini simboliche e metafore:

  • Le grandi immagini, nel tentativo di proporre una riflessione sui meccanismi e le difficoltà del passaggio da una vita da single a una vita di coppia;
  • Le istantanee, o piccole metafore, una serie di frammenti che colgono aspetti interessanti della vita di coppia;
  • Coppia e dintorni, che analizza tematiche frequenti nella vita di relazione.
  • Angoli di famiglia, scatti di vita familiare che aprono le porte dell’universo domestico dell’autore, a testimonianza personale dei contenuti proposti (Bordignon, 2021).

Tra le grandi immagini, spicca quella del celebre Fiume Rubicone, legato al condottiero romano Giulio Cesare, come metafora della coppia: le due rive possono rappresentare i due partners, desiderosi di ricongiungersi e arrivare all’altra sponda, tuttavia, l’attrazione e la voglia di stare insieme non sono ingredienti sufficienti. Per realizzare un congiungimento delle due sponde della coppia occorre creare un legame strutturato attraverso una serie di collegamenti che permettano la transizione affettiva, cognitiva e sentimentale da una sponda all’altra, da un cuore all’altro. L’autore propone una serie di metaforici ponti, come il contatto della pelle, che sia un abbraccio o una carezza; lo scambio intellettuale di diversi punti di vista da integrare in una visione molteplice e sfaccettata della vita; la realizzazione personale che giova della presenza di un altro che moltiplica le proprie possibilità, sia a livello di competenze, conoscenze, gusti e hobby, sia attraverso un allargamento delle reti sociali amicali e lavorative; il riconoscimento pubblico nell’essere coppia anche durante appuntamenti sociali come feste e cerimonie; un ponte rafforzativo del sé grazie al quale, all’interno di una relazione sana e di un amore fatto di benevolenza, ci si restituisce reciprocamente un’immagine identitaria positiva dell’altro; il legame-ponte del piacere, esperienza ludica non relegata soltanto all’ambito sessuale; il progetto generativo che crea un ponte indissolubile tra due persone, nella soddisfazione di poter realizzare un’opera così importante con una persona che si ama, che si stima, che si apprezza come genitore dei nostri figli (Bordignon, 2021).

Diversi i frammenti interessanti che accendono i riflettori sulle contraddizioni e peculiarità della vita di coppia. Molte suggestioni, come l’immagine della coppia-fisarmonica, in grado di espandersi nel mondo, facendo il pieno di aria – vita –, per poi ritrovarsi insieme, condensando tutta l’aria aspirata – esperienze, contatti, cultura –  in una comunicazione reciproca, in un dialogo sereno ed armonico; l’idea di coppia, in perenne equilibrio instabile, che rispecchia le dinamiche della bilancia nella gestione del peso all’interno dell’unione (Bordignon, 2021).

Intrigante l’approfondimento etimologico sulla locuzione inglese falling in love, che descrive molto bene cosa significa innamorarsi:

Falling in love dicono gli inglesi, cadere. Innamorarsi è come il cadere dentro la buca della bicicletta, una esperienza spesso improvvisa, inaspettata, non voluta, in una situazione emotiva che ti ammacca, ti coinvolge, ti fa soffrire, ti prende tutto (Due di Cuore, Bordignon, 2021).

Nella sezione Coppia e dintorni, Bordignon tratteggia una serie di ritratti della vita di coppia in virtù della sua collaborazione come psicologo presso un settimanale, specchio dei tempi delle coppie moderne. Le dinamiche più frequenti riguardano la diversa conformazione delle famiglie moderne, esemplificata nell’immagine “un cuore, due capanne”, a simboleggiare l’unione di due famiglie unipersonali che vivono insieme e hanno figli insieme, mantenendo però un proprio reddito, con una gestione economica indipendente, in una rigida separazione dei beni; la difficoltà di vivere, intorno ai sessant’anni, l’esperienza del “nido vuoto” quando i propri figli lasciano casa, e la pensione, per cui risulta necessario reinvestire nella relazione coniugale e nella propria identità (Bordignon, 2021).

Interessante la suggestione linguistica proposta da Bordignon (2021) che evidenzia l’importanza di stimare e apprezzare la persona amata, partendo dall’utilizzo latino del verbo “diligo” per indicare il legame affettivo, termine che ha come primo significato “apprezzo, do valore”.

Infine, in Angoli di famiglia sono riportati alcuni stralci che aprono una finestra sull’ambiente domestico di Bordignon, come il ricordo delle colazioni mattutine in un piccolo appartamento con i suoi tre bambini, l’importanza di mantenere le promesse fatte, considerato dall’autore uno dei “lasciti più preziosi” dei suoi genitori, un patrimonio ideale da tramandare. Inoltre, vieni qui proposto “un piccolo diario personale” dell’esperienza di lockdown, vissuta tra Marzo e Aprile 2020, come coppia e famiglia.

Due di cuore. Il fascino discreto della relazione è un trattato chiaro e incisivo, accessibile a tutti per il linguaggio semplice ed evocativo adottato dall’autore, in grado di offrire molti spunti interessanti a coppie giovani e meno giovani.

 

“Pure il mio oroscopo dice che sono superiore!”: astrologia, personalità ed intelligenza

L’astrologia è così pervasiva nella società occidentale che chiunque stia leggendo quest’articolo probabilmente, almeno una volta nella vita, ha letto il proprio oroscopo.

 

Quasi tutti i principali giornali e riviste pubblicano oroscopi giornalieri o mensili; i siti web di appuntamenti permettono agli utenti di cercare partner romantici in base a presunti segni zodiacali compatibili; e numerose celebrità e programmi televisivi chiedono il consulto di astrologi professionisti. Nonostante la mancanza di supporto scientifico (Allum, 2011), non è chiaro perché questa antica pratica di studiare le posizioni e i movimenti dei corpi celesti, con la convinzione che influenzino il comportamento umano, sia sempre più in auge.

Perché le persone si affidano all’astrologia e all’oroscopo?

Secondo la letteratura, quando le persone si trovano sotto stress o minaccia sono più propense a rivolgersi all’astrologia e ad altre credenze infondate (Grech, 2017). Ricerche precedenti mostrano inoltre una relazione tra crisi di vita personali e credenze nell’astrologia (Lillqvist & Lindeman, 1998). Anche se non vi è consenso su ciò che rende alcune persone più suscettibili di altre alle credenze pseudoscientifiche, i fattori comunemente menzionati sono i tratti di personalità e i bias cognitivi (Bensley et al., 2020). La teoria più accettata riguardo alle differenze individuali è quella dei tratti di personalità Big Five, ovvero apertura, coscienziosità, estroversione, amicalità e nevroticismo (Costa & McCrae, 1992). Oltre le dimensioni dei Big Five, preziose quando si studiano le differenze individuali, esistono i cosiddetti “tratti oscuri” (Kajonius et al., 2015). Tra questi, il narcisismo sembra essere rilevante in relazione alla credenza nell’astrologia a causa della prospettiva focalizzata su di sé che può essere al centro di entrambi i fenomeni. L’intelligenza è altresì comunemente utilizzata negli studi sulle differenze individuali. In particolare, l’apertura ha dimostrato di correlare con le misure di intelligenza (DeYoung et al., 2014) e, in generale, si pensa che l’intelligenza sia negativamente correlata all’accettazione della pseudoscienza (Musch & Ehrenberg, 2002).

Ma i tratti di personalità e l’intelligenza possono predire la credenza nell’astrologia?

Lo studio di Andersson et al. (2021) ha tentato di dare una risposta coinvolgendo 264 partecipanti, mediamente 29enni e principalmente donne (87%).

La batteria di questionari è stata prodotta grazie alla piattaforma Qualtrics e i partecipanti sono stati reclutati tramite passaparola su Facebook. Per indagare la credenza all’astrologia è stato utilizzato il Belief in Astrology Inventory (BAI) di Chico & Lorenzo-Seva (2006). Dei 24 items di cui si compone il BAI, i ricercatori ne hanno selezionati otto per creare una versione breve. Per ogni item i partecipanti erano tenuti ad indicare, su una scala da 1 (fortemente in disaccordo) a 5 (assolutamente d’accordo), quanto sentissero affini le affermazioni elencate. Alla versione breve del BAI, i ricercatori hanno aggiunto un item in cui veniva chiesto “quanto pensi che l’astrologia sia scientificamente provata?”, per creare successivamente la variabile “supporto scientifico”. Per indagare le caratteristiche personologiche è stata utilizzata la IPIP-30 Personality Scale, versione breve derivata dall’IPIP-NEO-120 (Kajonius & Johnson, 2019).

Per misurare la grandiosità narcisistica sono stati utilizzati i 9 items della Short Dark Triad of Personality (SD3-Narcissism) (Persson et al., 2019). L’ultima sezione era composta da rotazioni di immagini 3D (R3D*) tratte dall’International Cognitive Ability Resource (ICAR) (Condon & Revelle, 2014). Il compito consisteva nel mostrare 4 diverse figure con otto possibili risposte per completare ciascuna figura proposta, di cui una sola corretta. La finalità di quest’ultima parte era di indagare l’intelligenza dei partecipanti. Per quanto riguarda i dati anagrafici sono stati richiesti l’età e l’identità di genere.

Astrologia e personalità: i risultati dello studio

Dallo studio è emerso che credere nell’oroscopo ha una forte correlazione con il narcisismo. Infatti, il risultato principale ha mostrato come il narcisismo sia il più grande predittore della fede nell’astrologia. Una possibile spiegazione a questa associazione positiva potrebbe trovarsi nella visione egocentrica del mondo che accomuna narcisisti e amanti dell’oroscopo. Una seconda spiegazione plausibile concerne gli aspetti culturali dei millennial caratterizzati da una forte attenzione nei confronti dell’unicità degli individui, i quali potrebbero contribuire ulteriormente ad una visione egocentrica del mondo e, quindi, riguardare tratti narcisistici. Inoltre, le previsioni astrologiche e gli oroscopi hanno un carattere predittivo connotato da positività, e ciò può attirare la personalità narcisista dacché tali previsioni rafforzano i sentimenti di grandiosità che li caratterizzano. Infatti, i dati raccolti dimostrano che i tratti narcisistici correlano con la convinzione che l’astrologia sia supportata dalla scienza.

Infine, è emersa una correlazione tra intelligenza e credenza nell’astrologia: all’aumentare del livello di intelligenza (Musch & Ehnrenberg, 2002) diminuisce il grado di credenza nell’astrologia.

 

Tratti di personalità associati al consumo eccessivo di alcol

L’esperimento di Satchell e colleghi (2019) si focalizza sui tratti della personalità associati al consumo eccessivo di alcol, per consentire una migliore identificazione dei soggetti a rischio e lo sviluppo di strumenti efficaci per intervenire in modo tempestivo e mirato.

 

Il disturbo da uso di alcol è comune in quanto la prevalenza in un anno, negli Stati Uniti, è stimata intorno al 4,6% negli individui tra i 12 e i 17 anni e all’8,5% negli adulti dai 18 anni in su (APA, 2013). I tassi sono maggiori negli uomini (12,4%) rispetto alle donne (4,9%) e la prevalenza diminuisce nella mezza età, mentre aumenta tra i 18 e i 29 anni (16,2%; APA, 2013).

Consumo di alcol e psicopatia

Nonostante la maggior parte delle ricerche su alcolismo e psicopatia utilizzino campioni forensi e non generali, Hemphill e colleghi (1994) hanno scoperto che la psicopatia clinica è correlata a intossicazione da alcol in giovane età, mentre Sylvers e colleghi (2011) hanno osservato come gli studenti universitari con punteggi elevati nei tratti impulsivi avessero maggiori probabilità di impegnarsi in un consumo intenso e continuativo (Satchell et al., 2019). Lo studio di Kazemi e colleghi (2014), insieme a quello di Read e O’Connor (2006) ha evidenziato come l’impulsività sia un tratto di personalità positivamente correlato al consumo di alcol in un campione di studenti americani.

Le tre dimensioni associate alla psicopatia, ovvero la Meschinità (mancanza di empatia, insensibilità), la Disinibizione (mancanza di autocontrollo, impulsività) e l’Audacia (tolleranza al pericolo, impavidità, bassa ansia) sono state oggetto di studio per comprendere i sintomi internalizzanti e la sintomatologia “nevrotica” (Satchell et al., 2019). L’elevata audacia, ad esempio, sembra essere un fattore protettivo per quelle persone che mostrano distacco emotivo; mentre la disinibizione risulta associata a disturbi internalizzanti (come ansia e depressione), probabilmente dovuti proprio all’insoddisfazione verso la propria condotta disinibita (Oerback et al., 2019). Anker e colleghi (2017) hanno evidenziato come i disturbi internalizzanti siano associati a loro volta all’abuso di alcol; si può ipotizzare quindi come la disinibizione e la disregolazione emotiva nei soggetti psicopatologici trovi soluzione nell’audacia, vista in questo caso come fattore protettivo contro l’abuso di sostanze alcoliche (Satchell et al., 2019).

Possiamo quindi ipotizzare che i disturbi da uso di sostanze possano essere predetti da bassi livelli di audacia e da alti livelli di disinibizione, in quanto sul piano neuroscientifico è stata individuata un’attivazione nel cingolo anteriore e nel giro frontale medio, con un conseguente autocontrollo scarso da parte del soggetto (Satchell et al., 2019).

I tratti di personalità associati al consumo di alcol

L’esperimento di Satchell e colleghi (2019) si focalizza sui tratti della personalità associati al consumo eccessivo di alcol, con il fine di consentire una migliore identificazione dei soggetti a rischio e lo sviluppo di strumenti efficaci per intervenire tempestivamente, in modo maggiormente mirato. Gli autori ipotizzano che due possibili predittori siano i tratti dell’impulsività e dell’ansia. Il campione è composto da 349 partecipanti (di cui 232 donne) reclutati online attraverso la somministrazione di un sondaggio su Qualtrics.

I partecipanti selezionati hanno compilato due questionari per indagare la personalità: il Reinforcement Sensitivity Theory of Personality (RST-PQ; Corr & Cooper, 2016) ha 65 elementi e si focalizza sui tre tratti del sistema comportamentale, cioè “approccio” (BAS), “inibizione comportamentale” (BIS) e “attacco-fuga-freezing” (FFFS). Un alto indice di FFFS indica una maggiore possibilità di recepire informazioni sconosciute come potenzialmente dannose, un indice di BIS elevato è correlato ad una maggiore preoccupazione, ansia, ruminazione e indecisione (avvicinamento e/o evitamento) verso stimoli nuovi nel mondo, infine un’elevata evidenza del tratto BAS suggerisce l’interesse a nuove esperienze, nonché una maggiore reattività a ricompense minime. La Triarchic Psychopathy Personality (TriPM; Patrick, 2010) riporta i tre tratti utili a riflettere la psicopatia, come audacia, meschinità e disinibizione. Tale test, a cui bisogna rispondere affermativamente o negativamente come per l’RST-PQ, è stato precedentemente validato in campioni comunitari, quindi è un questionario adatto al campione di questa ricerca. La percezione delle conseguenze negative derivanti dai comportamenti messi in atto è stata misurata dal Cognitive Appraisal of Risky Events (CARE; Fromme, Katz & Rivet, 1997), mentre il consumo di alcol è stato misurato con l’AUDIT (Saunders et al., 1993).

I risultati dello studio sono in linea con le ipotesi degli autori, in quanto i tratti di impulsività e ansia sono correlati al consumo problematico di alcol: la disinibizione di TriPM e i tratti di personalità ansiosi della RST sono infatti associati a punteggi maggior all’AUDIT e dunque alla scala che misura il consumo di alcol. 

Sebbene gli autori abbiano fatto ulteriore luce sui tratti di personalità legati al consumo di alcol, utili da conoscere a fine diagnostico, preventivo e psicoterapico, future ricerche potrebbero approfondire ulteriormente il legame tra tratti di personalità e consumo di alcol e, magari, estendere l’indagine anche sulla percezione da parte degli individui degli aspetti positivi e negativi legati al bere, ponendo maggiore attenzione sui processi metacognitivi.

Efficacia della terapia metacognitiva per ansia e depressione

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici.

 

Il modello metacognitivo è un modello transdiagnostico che vede il mantenimento di tutta la psicopatologia legato allo stile di pensiero perseverante della CAS (Sindrome Cognitivo-Attentiva), ovvero una particolare modalità di reagire ad alcuni pensieri negativi colti dalla nostra consapevolezza. La CAS si declina in varie forme di pensiero ripetitivo (come rimuginio e ruminazione) e in diversi comportamenti disfunzionali di coping (come evitamento e soppressione del pensiero) che una persona impiega nel tentativo maldestro di gestire pensieri e sentimenti angoscianti.

Terapia Metacognitiva, ansia e depressione

La CAS è ben visibile in chi soffre d’ansia e depressione (ma non solo). I disturbi d’ansia, ad esempio, si distinguono per uno stato di preoccupazione costante ed eccessivo (in durata, intensità e frequenza o in proporzione alle reali conseguenze degli eventi temuti) in risposta a diverse situazioni. Il rimuginio è un elemento centrale del disturbo. Rimuginare significa pensare e ripensare continuamente alle cose negative che potrebbero capitare al fine di prevederle o prevenirle. Tutto ciò porta a irrequietezza, affaticamento, difficoltà di concentrazione e memoria, irritabilità, disturbi del sonno, ecc. Chi soffre d’ansia fatica a controllare i propri pensieri e il proprio rimuginio, non riesce a smettere di pensare agli scenari temuti e a concentrarsi su altro.

Chi soffre di depressione, invece, mostra frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone depresse vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi, gli altri e il proprio futuro. La ruminazione è stata riconosciuta già da tempo come un elemento chiave della fenomenologia depressiva, che si esplicita principalmente in riflessioni sul “perché” del proprio stato. La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi negativi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013). Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, nonché le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004). La ruminazione quindi si attiva come tentativo di controllo dell’emozione negativa, ma nel tempo tale processo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, abbassando ulteriormente l’umore e aumentando la percezione negativa di se stessi e dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Secondo la Terapia Metacognitiva è dunque il modo con cui un individuo si relaziona ai propri pensieri che sarebbe discriminante in termini psicopatologici e quindi, rispetto alle forme di psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, la Terapia Metacognitiva si focalizza sui processi di pensiero piuttosto che sui contenuti. Obiettivo della Terapia Metacognitiva è dunque aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione.

L’efficacia della Terapia Metacognitiva

Chiarito il quadro teorico del modello metacognitivo, cosa ci dice la ricerca sull’efficacia della Terapia Metacognitiva?

Diversi studi hanno indagato l’efficacia di questo approccio psicoterapico, uno dei più importanti risulta essere lo studio di Normann e colleghi (2014): una meta-analisi condotta su 16 studi (di cui 9 controllati), per un totale di 384 soggetti, che ha valutato l’effetto della Terapia Metacognitiva su ansia e depressione.

La meta-analisi ha messo in luce un’elevata efficacia della Terapia Metacognitiva nel trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia (dato che risulta confermato anche al follow-up). Ma non è tutto: lo studio ha mostrato delle riduzioni sostanziali anche dei sintomi secondari di ansia e depressione, e dei cambiamenti duraturi nelle metacognizioni del paziente. Tale dato supporta la logica teorica della Terapia Metacognitiva, ovvero che le convinzioni e i processi metacognitivi disadattivi mantengono il disagio psicologico e che, attraverso il cambiamento metacognitivo, si può ottenere il cambiamento terapeutico. Ciò suggerisce come la Terapia Metacognitiva abbia un potenziale nel trattamento efficace della psicopatologia da un punto di vista transdiagnostico.

Nello studio in questione sono stati analizzati i livelli di efficacia della Terapia Metacognitiva, comparata ad assenza di trattamento e alla CBT standard. L’effetto maggiore della Terapia Metacognitiva si è riscontrato, come è facile immaginare, nel confronto con l’assenza di trattamento. Ma anche nel confronto con la CBT standard, la Terapia Metacognitiva si è mostrata più efficace, sebbene si sia registrato un effetto più contenuto.

I risultati dello studio di di Normann e colleghi (2014) sono stati confermati anche da una più recente meta-analisi condotta da Normann & Morina (2018), estesa a un numero più ampio di studi (sia controllati che non). Obiettivo dei ricercatori è stato quello di indagare se la Terapia Metacognitiva portasse a dei miglioramenti nei sintomi dei disturbi psicologici, su variabili di esito sia primarie che secondarie, rispetto alle condizioni di controllo. Sono stati analizzati 25 studi sulla Terapia Metacognitiva per una varietà di disturbi psicologici (depressione, disturbo d’ansia generalizzato, PTSD e altro), esaminando complessivamente 780 pazienti adulti.

I risultati hanno confermato l’ipotesi di partenza: la Terapia Metacognitiva sembrerebbe migliorare i sintomi dei disturbi psicologici sulle variabili di esito primarie e secondarie rispetto alle condizioni di controllo. Inoltre i dati raccolti hanno messo in luce l’efficacia della Terapia Metacognitiva nel modificare le metacognizioni disadattive.

Gran parte degli studi esaminati in questa meta-analisi avevano come focus di intervento disturbi d’ansia (PTSD incluso) o depressione. Di conseguenza, i risultati ottenuti da questa meta-analisi sono generalizzabili soprattutto ai quadri ansioso-depressivi. Gli effetti della Terapia Metacognitiva per altri disturbi psicologici (es. dolore cronico, schizofrenia, disturbo di dismorfismo corporeo, disturbo da desiderio iposessuale e disturbo ossessivo compulsivo), sono stati esaminati solo in uno studio tra quelli presenti nella meta-analisi, il quale ha comunque messo in luce risultati molto promettenti.

L’effetto della Terapia Metacognitiva si è mostrato anche in questa meta-analisi superiore alla lista d’attesa e alle condizioni di controllo del trattamento attivo, CBT compresa.

Anche questa meta-analisi, mostrando come la Terapia Metacognitiva sia efficace nell’alleviare i sintomi secondari di ansia e depressione, confermerebbe la teoria secondo cui attraverso la Terapia Metacognitiva si interviene su quei processi transdiagnostici che mantengono la psicopatologia (Wells, 2009). Questa conclusione sembra confermata anche dai dati raccolti al post-trattamento e al follow up dove, ancora una volta, la Terapia Metacognitiva si è mostrata efficace nel produrre cambiamenti duraturi nelle convinzioni e nei processi metacognitivi.

Gli effetti della Terapia Metacognitiva sono stabili nel tempo?

L’efficacia della Terapia Metacognitiva può dirsi dunque stabile nel tempo? Per rispondere a questa domanda, Solem, Wells et al (2021) hanno condotto un importante studio che ha valutato gli effetti della Terapia Metacognitiva (comparati alla CBT) ad un follow-up di 9 anni su pazienti con Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Partendo da un precedente studio di Nordahl e colleghi (Metacognitive therapy versus cognitive–behavioural therapy in adults with generalised anxiety disorder), sono stati analizzati i dati raccolti al follow-up a lungo termine. Nello studio di partenza, la Terapia Metacognitva è risultata associata a tassi di guarigione significativamente più elevati (65%) rispetto alla CBT (38%) e l’effetto della Terapia Metacognitiva si è mantenuto stabile anche al follow-up di 2 anni. Ripartendo da queste conclusioni, Solem e Wells hanno indagato i tassi di recupero e di ricaduta dei partecipanti, i cambiamenti nei loro sintomi e il loro stato diagnostico a distanza di 9 anni.

In particolare sono stati analizzati i possibili effetti a lungo termine della CBT e della Terapia Metacognitiva per i pazienti con GAD. Il tasso di partecipazione è stato del 65% del campione originale dello studio di Nordahl e colleghi. I risultati hanno mostrato un netto “vantaggio” – in termini di efficacia – della Terapia Metacognitva rispetto alla CBT osservato nel post-trattamento e nel follow-up a medio termine che è stato mantenuto anche al follow-up a lungo termine di 9 anni.

I tassi di recupero a distanza di 9 anni risultano del 57% per la Terapia Metacognitiva e del 38% per la CBT. Nel gruppo CBT inoltre, al 23,1% dei partecipanti è stato nuovamente diagnosticato un disturbo d’ansia generalizzata (GAD) rispetto al 9,5% nel gruppo Terapia Metacognitiva.

La differenza nei risultati al follow-up a lungo termine può riflettere diversi gradi di cambiamento nei meccanismi psicologici sottostanti: mentre la CBT si concentra sullo sviluppo delle capacità di rilassamento e sulla messa in discussione del contenuto delle preoccupazioni, la Terapia Metacognitiva ha un focus molto diverso. Nella Terapia Metacognitiva, il terapeuta lavora sulle metacredenze (ciò che penso delle mie preoccupazioni) e non sul contenuto, ciò aiuta il paziente a scoprire come regolare i processi di preoccupazione in un modo che sminuisce l’importanza dei pensieri. Ciò avrebbe effetti positivi “a cascata”, come abbiamo visto precedentemente, anche sui sintomi secondari.

Approcci transdiagnostici efficaci- quale quello metacognitivo – consentono dunque ai terapeuti di concettualizzare più facilmente i processi di mantenimento comuni su questioni clinicamente rilevanti fornendo strategie di trattamento all’interno di un unico protocollo. Ciò aumenta non solo l’efficacia, ma anche l’efficienza del trattamento e la facilità di attuazione.

In arrivo il Masterclass Internazionale di Terapia Metacognitiva

I risultati fin qui riportati non sono che una parte della crescente letteratura che negli ultimi anni sta mostrando un maggiore livello di efficacia della Terapia Metacognitiva rispetto alla CBT e agli altri tipi di interventi.

L’innovazione che la Terapia Metacognitiva ha introdotto nella concettualizzazione e nel trattamento dei disturbi psicologici sta creando nei professionisti una sempre maggiore curiosità e una crescente domanda verso percorsi formativi che consentano di conoscere gli aspetti teorici ma soprattutto di padroneggiare gli aspetti pratici di questo nuovo approccio.

Per tale motivo, l’MCT-Institute, in collaborazione con MCT-Italia, organizzerà un Masterclass per colleghi psicoterapeuti e specializzandi di lingua italiana.

Il Masterclass rappresenta il primo livello di competenza nella Terapia Metacognitiva e certifica l’iscrizione nell’elenco internazionale degli psicoterapeuti metacognitivi.

Sarà un corso dalla durata di due anni (dal 2022 al 2024), organizzato prevalentemente online tramite piattaforma ZOOM con traduzione in italiano. Il corso sarà composto da 8 incontri di due giorni, dedicati all’applicazione pratica della Terapia Metacognitiva e alla supervisione di casi clinici.

Il Masterclass sarà condotto interamente dai fondatori dell’MCT-Institute e della Terapia Metacognitiva: Prof. Adrian Wells e Prof. Hans Nordahl.

 

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L’umorismo sul luogo di lavoro: potenzialità e rischi

Grazie all’umorismo è possibile costruire e mantenere buone relazioni tra i dipendenti che contribuiscano all’armonia lavorativa, creando un senso di solidarietà fra colleghi.

 

Il lavoro è una delle più importanti forme di creazione ed estrinsecazione dell’identità sociale di un individuo. Per molto tempo umorismo e lavoro sono stati visti come fenomeni contrapposti, vedendo il primo come un elemento leggero e dispersivo ed il secondo come un ambiente dove serietà e seriosità sono viste come requisito imprescindibile della produttività, senza lasciare spazio alcuno a divertimento, gioco e scherzosità. Tuttavia, un numero sempre maggiore di ricerche mostra come l’umorismo possa avere un impatto interpersonale di primaria importanza nell’ambito delle organizzazioni, sul benessere dei dipendenti, sulla produttività e come competenza dei manager (Scheel, & Gockel, 2017). L’umorismo è un aspetto altamente significativo dell’esperienza umana e l’analisi dell’umorismo sul posto di lavoro permette di capire l’organizzazione e la cultura che la contraddistingue, identificando aspetti salienti sui quali intervenire per migliorare la qualità delle relazioni interpersonali (Dionigi & Gremigni, 2010). Gli studi scientifici ci dicono che sono numerosi i benefici dell’utilizzo dell’umorismo nelle organizzazioni: di seguito vengono approfonditi quelli maggiormente studiati in letteratura.

L’umorismo diminuisce la tensione lavorativa

Un effetto importante e positivo dell’uso dell’umorismo sul lavoro è quello di moderare l’influenza degli eventi che accadono, sia positivi sia negativi (Romero & Cruthirds, 2006). L’umorismo può essere utilizzato per ridurre lo stress e sviluppare coesione fra i lavoratori: attraverso commenti divertenti si può creare un clima giocoso, che porta ad aumentare la collaborazione fra colleghi, la disponibilità al supporto emotivo e ad un miglior senso di autoefficacia (Cheng et al., 2021). L’utilizzo di un umorismo benevolo può aumentare la soddisfazione sul lavoro perché il divertimento induce uno stato d’animo positivo, che si traduce in un maggior grado di soddisfazione lavorativa ed un minor livello di burnout (Greenberg 2005). Inoltre, rendendo il posto di lavoro più piacevole, si può anche offrire alle persone la possibilità di discutere eventi personali dolorosi in un formato che riduce l’angoscia e l’ansia.

L’umorismo favorisce il team building

Utilizzare l’umorismo in maniera affiliativa rappresenta una strategia molto utile per favorire la cooperazione e aiutare la creazione di una squadra sul posto di lavoro (Holmes & Schnurr 2005). Grazie all’umorismo è possibile costruire e mantenere buone relazioni tra i dipendenti che contribuiscano all’armonia lavorativa, creando un senso di solidarietà fra colleghi; in altre parole, è un sistema efficace per “fare gruppo” sul posto di lavoro (Holmes & Marra, 2002). Ovviamente deve trattarsi di una modalità di umorismo benevolo, usato in modo abile e appropriato, volto a far divertire se stessi e gli altri e non basato sulla presa in giro e sul sarcasmo, altrimenti può ritorcersi contro e causare disarmonia. L’umorismo spontaneo e collaborativo favorisce l’interazione fra colleghi ed è in grado di modellare differenti aspetti dell’identità dell’individuo, specialmente all’interno delle relazioni sociali.

L’umorismo diminuisce la conflittualità

Un’altra funzione svolta dall’umorismo è quella di alleggerire il peso nel contesto lavorativo, non solo quando si svolgono attività noiose e ripetitive, ma anche in relazione a situazioni più impegnative e di difficile gestione.  L’umorismo svolge un grande numero di importanti funzioni sociali nelle relazioni interpersonali (Martin & Ford, 2018). Oltre ad essere una forma di gioco che permette alle persone di diminuire la tensione e aumentare il divertimento, l’umorismo è un modo di comunicare che è spesso utilizzato per convogliare certi tipi di informazione che altrimenti sarebbero più difficoltose da esprimere utilizzando una modalità più seria. Siccome il mondo del lavoro è spesso caratterizzato da ambiguità e incertezza, l’umorismo può essere utilizzato per esprimere il proprio parere, ma potendo sfruttare una via di uscita (León-Pérez et al., 2021). Ad esempio, un dipendente che non è d’accordo con la scelta del superiore può provare a esprimere il proprio dissenso con un commento umoristico, per testare la situazione. Nel caso in cui questo venisse accolto, potrebbe proseguire in maniera seria e approfondire, mentre se dovesse vedere una reazione negativa, potrebbe ritrattare dicendo che si trattava solamente di uno scherzo. Tuttavia, l’aspetto saliente dell’umorismo nel gestire i conflitti non risiede unicamente nel fare battute (Blanchard et al., 2014). L’umorismo spesso viene utilizzato come modalità per strutturare il processo comunicativo e nel diminuire la tensione fra i colleghi, favorendo il confronto su un terreno comune. L’umorismo è quindi un prezioso strumento in questi contesti per mantenere efficaci relazioni di gruppo al lavoro e non ingenerare conflitti aperti.

L’umorismo sviluppa la creatività

L’umorismo sul lavoro rappresenta senz’altro un approccio intelligente per cambiare prospettiva, vedere situazioni e problemi in modo diverso. L’umorismo, in quanto richiama il pensiero divergente, è un potente strumento di insight all’interno della complessità lavorativa delle aziende. Attraverso l’umorismo è più facile introdurre e scambiare nuove idee a basso rischio, sperimentare con nuovi comportamenti potenzialmente rischiosi e impegnarsi in conflitti costruttivi (Romero & Pescosolido, 2008). L’umorismo incoraggia anche il pensiero creativo e innovativo evidenziando le discrepanze nella logica e nelle credenze personali, ad esempio quando l’immagine della realtà presente è in netto contrasto con l’immagine di una realtà ideale (Martin & Ford, 2018). Inoltre, è stato dimostrato come i lavoratori che cercano di spezzare la noia provocata dalla ripetizione di attività poco stimolanti attraverso scherzi e battute con i propri colleghi, inducendo un migliore clima organizzativo, sono dotati di una maggiore creatività (Lang & Lee, 2010).

Umorismo e leadership

È stato spesso suggerito che un buon senso dell’umorismo è un’importante caratteristica del buon leader, insieme ad altre competenze quali l’intelligenza, la creatività, una buona capacità di dialogo e l’empatia. L’uso dell’umorismo positivo da parte di un leader è stato associato a un miglioramento nelle prestazioni di lavoro subordinato, riduzione dei licenziamenti e miglioramenti nella coesione del gruppo di lavoro (Mesmer-Magnus, et al., 2012). La varietà delle funzioni dell’umorismo sembra offrire grande potenziale per migliorare l’efficacia della propria leadership, ma anche per diminuirla. Gli effetti di leadership positiva si hanno solo nel momento in cui si utilizza un umorismo benevolo, mentre se viene utilizzato un umorismo negativo i risultati possono essere controproducenti. I leader dovrebbero essere consapevoli che non esiste un approccio unico per integrare l’umorismo nel loro comportamento, ma che si tratta di una competenza che va adeguata al contesto specifico.

Conclusioni

L’umorismo è inevitabile e può avere conseguenze di vasta portata: questi sono i due motivi principali per sostenere l’importanza dello studio dell’umorismo nelle organizzazioni (Scheel & Gockel, 2017). Riassumendo, possiamo dire che l’utilizzo di un umorismo positivo, funzionale e improntato al ridere con i colleghi è un elemento positivo per la promozione del benessere organizzativo. Questo, ovviamente, non significa snaturare l’essenza del lavoro e renderlo un parco giochi. Si tratta piuttosto di comprendere quali possono essere quegli strumenti utili per migliorare l’ambiente lavorativo, attraverso strategie umoristiche. Nonostante questi aspetti positivi, anche l’umorismo in questo contesto ha i suoi lati negativi. Ad esempio, l’umorismo può distrarre dal lavoro o danneggiare la nostra credibilità. Non si tratta quindi di un unico costrutto, bensì di un fenomeno con aspetti positivi e negativi con una moltitudine di funzioni ciascuno. Per questo motivo, nel corso degli ultimi anni, sono stati progettati diversi interventi volti sia a promuovere l’integrazione dell’umorismo positivo nel contesto organizzativo sia a riconoscere e limitare l’utilizzo di un umorismo disfunzionale.

Il metodo del post-razionalismo ontologico in adolescenza – Recensione

Recensione dell’articolo pubblicato su Prospettive Post-Razionaliste incentrato su Juan Balbi, dal titolo ABT (Affective Bond Therapy) Il metodo del post-razionalismo ontologico per il trattamento dei disturbi psicopatologici complessi negli adolescenti (I parte).

 

Juan Balbi è una delle maggiori personalità nell’ambito del cognitivismo post-razionalista. Nato in Argentina, da diversi anni risiede prevalentemente a Roma. È didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e dell’Associazione Argentina di Terapia Cognitiva, direttore del Master in Terapia Cognitiva Post-razionalista presso la Università di Santiago di Cile. Ha fondato e dirige dal 1992 l’Istituto CETEPO, attualmente con sedi in Italia, Argentina, Cile e Colombia. È autore dei libri: La mente narrativa. Verso una concezione post-razionalista dell’identità personale, Franco Angeli, 2009 e Terapia cognitiva post-razionalista. Conversazioni con Vittorio Guidano, Alpes, 2014. Proprio il confronto personale con Vittorio Guidano, ideatore della psicoterapia cognitivo sistemica post-razionalista, costituisce un elemento fondamentale del suo pensiero e si può senz’altro affermare che Balbi è tra i più profondi, rigorosi e originali continuatori del pensiero di Guidano.

L’articolo in oggetto è stato recentemente pubblicato nella rivista semestrale online Prospettive Post-Razionaliste, nata nel 2019, che intende essere luogo di confronto tra le diverse voci presenti nell’ambito sempre più ampio del movimento post-razionalista. È apparsa la prima parte, dedicata ai riferimenti teorici che stanno a monte dell’ABT, mentre nella seconda parte, di prossima pubblicazione, si entrerà nel merito della pratica clinica.

L’articolo è molto denso e non è possibile riprodurlo in forma di riassunto senza rischiare di banalizzarlo. Esso stesso rappresenta un sunto degli anni di studio di Balbi. Merita una lettura integrale da cui risulterà evidente quanto ogni rigo sia meditato.

Per Balbi l’eziologia dei disturbi psicopatologici che compaiono nella fase evolutiva, che termina con la fine dell’adolescenza, risiede in un livello eccessivo di stress da attaccamento da parte di entrambi i membri della diade (genitore-figlio), che si retro-alimenta in modo automatico e spontaneo. Dunque, l’eziologia del disturbo va ricercata nello stato del sistema di reciprocità affettiva al momento attuale della manifestazione sintomatica e non in cause remote pregresse.

Egli non intende l’attaccamento come sistema motivazionale primario, ma ne privilegia la dimensione relazionale tra un adulto che chiede reciprocità affettiva a un bambino, a cui è già emotivamente collegato, e un bambino che, in virtù di questo contatto umano, avverte una piacevole riduzione del proprio livello di stress e che, quindi, risponde legandosi al genitore dando vita al sistema di reciprocità affettiva.

Il trattamento ABT punta a modificare le attuali dinamiche intrinseche del sistema di reciprocità affettiva mediante una riduzione della tendenza di feedback positivo che provoca l’insorgere dei sintomi.

Ma, per comprendere la genesi del modello ABT, occorre risalire alla cornice teorica che concepisce il Sé come un sistema complesso di elaborazione di esperienze personali, affettive e intenzionali, che evolve nel tempo in un inesauribile processo generativo, che non giunge mai a uno stato di equilibrio finale. Balbi su questo punto è fermo: non può esservi modello efficace di psicoterapia che non parta da un’analisi approfondita dei processi del Sé, del suo sviluppo e della sua disfunzione. È ovvio che l’adolescenza rappresenta la fase di sviluppo più complessa, con i forti mutamenti che avvengono nel senso di identità, e questo spiega la vulnerabilità psicopatologica di questo periodo del ciclo di vita.

Per Balbi, che fa proprio non solo il pensiero di Guidano, ma ha ben presente anche la lezione di Maturana, il Sé è un sistema complesso, auto-organizzato e chiuso che ci consente di mantenere la nostra identità pur in presenza della costante evoluzione della nostra rete di relazioni.

In questo sistema, in estrema sintesi: 1) l’esperienza immediata di sé è da subito integrata ma prevalentemente tacita; 2) il senso di sé, sebbene sperimentato a livello esplicito, non è tuttavia il risultato di una valutazione riflessiva né di una riorganizzazione narrativa, ma si forma nell’ambito pre-riflessivo simultaneo all’esperienza tacita immediata di sé; 3) solo la narrativa dell’esperienza umana è riflessiva, dipendente dal significato delle parole e in grado di organizzare in una dimensione tematica solo una parte dell’esperienza personale continua di ciascuno, quella che si cristallizza nella coscienza fenomenica.

Poiché, per Balbi, il disturbo psicopatologico non si organizza in questa dimensione esplicita, ma trae origine nel mondo pre-riflessivo e tacito, questo spiega come la terapia non debba rivolgersi ad un cambiamento mentale o delle opinioni coscienti, bensì deve raggiungere e integrare contenuti affettivi. Il lavoro non avviene dunque sulle capacità metacognitive o di mentalizzazione del paziente, ma sui contenuti esperienziali, taciti ed  espliciti, che fanno parte della sua reazione di fronte allo squilibrio affettivo.

È chiaro che qui il discorso si allarga all’inconscio, che non è più visto nella prospettiva psicoanalitica.

Come detto, rimando alla lettura completa e ragionata dell’articolo, che merita grande attenzione e si consiglia davvero. In attesa di leggere con grande curiosità la seconda parte del lavoro.

Per ora, precisiamo solo che l’ABT non è una terapia familiare, né una terapia individuale del genitore, quanto piuttosto un trattamento del legame affettivo tra genitore e adolescente. Nella prima parte vi sono sedute individuali con il giovane per individuare il genitore di riferimento. Con questi, lavora un altro terapeuta con lo stesso orientamento post-razionalista per modificare il pattern di reciprocità affettiva alla base del sintomo. Un ruolo centrale è affidato allo sviluppo della capacità di auto-osservazione, per poter meglio distinguere i sentimenti e gli stati intenzionali taciti verso se stesso e gli altri.

 

Come emoji e emoticon differiscono dai volti nell’esprimere emozioni

Le emoji e le emoticon svolgono un’importante funzione di trasmissione di contenuti emotivi da un mittente a un destinatario nella comunicazione di messaggistica online.

 

Emoji ed emoticon

Le emoticon derivano da “emotion icon” (Pavalanathan & Eisenstein, 2015) e consistono in simboli tipografici di caratteri ASC-II (American Standard Code for Information Interchange), un codice americano per la codifica di caratteri (Guibon et al., 2016). Oggi esistono emoticon di stile occidentale, come ad esempio :-), ed emoticon di stile orientale: ∧_∧ (Rodrigues et al., 2018). Gli emoji, invece, sono simboli a colori che non esprimono soltanto espressioni facciali ed emozioni ma possono simboleggiare anche oggetti, concetti astratti, piante e tanto altro. Esistono infatti, secondo Emojipedia, un sito web che elenca tutte le diverse varianti di emoji, 3.304 emoji per esprimersi. Alcune funzioni delle emoji sono infatti quella di chiarire un messaggio ambiguo, visualizzare significati emotivi, esprimere atteggiamenti negativi e positivi o possono essere usati anche come spunti di contestualizzazione.

Spesso però sia emoji che emoticon possono essere interpretate ambiguamente in quanto non hanno un significato standard uguale per tutti, ma quest’ultimo dipende dal contesto in cui sono inserite. Inoltre esistono tanti dispositivi di telefonia mobile come iOS o iPhone che creano ulteriori malintesi nell’interpretazione di tali stimoli emotivi tanto che un emoji inviato da una persona può generare un’emozione completamente diversa nel destinatario. Solitamente gli emoji sono valutati più positivamente e come più eccitanti delle emoticon: alcuni studi hanno visto tassi più alti nella dimensione dell’attrazione estetica, della familiarità, della chiarezza e della significatività; inoltre gli emoji hanno punteggi di arousal più alti rispetto alle emoticon (Rodrigues et al.,2018).

L’espressione delle emozioni attraverso le emoji

Uno studio di Shoeb e de Melo (2020) ha tentato di esaminare l’associazione tra emoji ed emozioni specifiche ottenendo che solo pochi emoji mostrano una relazione con emozioni come rabbia, disgusto, paura, tristezza o sorpresa; solo la gioia ha una vasta gamma di associazioni con emoji sia facciali che di oggetti. A differenza degli emoji, gli studi sui volti umani, rivelano invece che quest’ultimi possono essere molto specifici e allo stesso tempo universali nell’esprimere un’emozione.

A causa della grande varietà del contenuto emotivo vi sono anche grandi differenze in alcune dimensioni affettive tra cui la valenza e l’arousal; tali dimensioni affettive condizionano e influenzano l’elaborazione delle emozioni, sia per i volti umani, sia per gli emoji e le emoticon.

A questo proposito, alcuni studi inerenti alle espressioni facciali, hanno rivelato differenze nei tempi di reazione per volti felici rispetto alle altre emozioni (Calvo & Lundqvist, 2008); altri studi hanno ottenuto risultati opposti (Hansen & Hansen, 1988). I risultati di un ulteriore studio che confronta i tempi di reazione di volti umani, emoji o parole mostrano tempi di reazione più brevi per le emoji rispetto agli altri due stimoli (Kaye et al., 2021). Non è chiaro, quindi, se tali differenze nel tempo di reazione siano determinate dal tipo di stimolo o dalle differenze nella valenza e nell’arousal. Gli studi che indagano i giudizi affettivi delle parole emotive e neutre, per esempio, dimostrano che le persone spesso rispondono più velocemente alle parole positive legate a sé stessi rispetto alle parole negative o neutre (Meixner e Herbert, 2018). In generale sembrerebbe esserci quindi un bias di positività nella percezione ed elaborazione di volti ed emoticon.

Dal momento che, come menzionato, studi precedenti hanno esaminato i giudizi affettivi di immagini, volti e parole, suggerendo che questi stimoli mostrano differenze nelle due dimensioni delle emozioni (valenza ed arousal) e che gli emoji e le emoticon sono stati recentemente studiati per il loro significato affettivo, uno studio di Brigitte Fischer e Cornelia Herbert del 2021 aveva come obiettivi quello di ottenere valutazioni dei significati emotivi dei volti, degli emoji e delle emoticon e quello di raccogliere i tempi di reazione dei partecipanti al fine di indagare se esistessero differenze tra le categorie di stimoli e le emozioni specifiche.

Infine le autrici hanno tentato di osservare se ci fosse effettivamente un bias di positività. 83 partecipanti hanno preso parte allo studio e valutato 60 stimoli: 18 emoji, 18 emoticon e 24 volti che rappresentavano sei diverse espressioni emotive. Gli stimoli selezionati sono stati classificati in diverse emozioni specifiche, corrispondenti alla classificazione di Ekman (1992) (felicità, rabbia, paura, tristezza, sorpresa) e una condizione neutra; il disgusto è stato escluso poiché non vi erano abbastanza emoji rappresentativi. Ai soggetti sono state quindi somministrate la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS; Janke e Glöckner-Rist, 2014) per misurare l’affetto positivo e negativo prima e dopo la valutazione affettiva degli stimoli e la Self-Assessment-Manikin-Scales per misurare la valenza e l’arousal di ciascuno stimolo (Bradley e Lang, 1994). Infine l’emotività degli stimoli è stata misurata su una scala Likert a 9 punti che valutava quanto intenso fosse lo stimolo che rappresentava un’emozione.

Un confronto tra emoji, emoticon e volti

I risultati ottenuti rivelano effetti principali significativi sia per la categoria dello stimolo, che rappresenta punteggi di emotività significativamente più alti per le facce e gli emoji rispetto alle emoticon, sia in termini di emozione specifica: i valori di emotività, valenza ed arousal sono più alti per l’emozione della felicità rispetto a tutte le altre categorie di stimoli. Inoltre, per quanto riguarda la differenza tra categorie, gli emoji sembrano suscitare il massimo dell’arousal mentre gli stimoli relativi alla felicità sono stati valutati con la massima valenza in tutte le categorie di stimoli; le emoji arrabbiate sembrano invece avere maggiore emotività. Infine le associazioni ad emozioni specifiche sono state riconosciute più facilmente nelle emoji, seguite dagli stimoli del volto umano e dalle emoticon. In conclusione sembrerebbe che gli emoji e i volti umani possono ridurre l’ambiguità e rappresentare le emozioni associate in maniera abbastanza efficace rispetto alle emoticon. Queste ultime invece sono risultate ambigue e poco chiare anche relativamente alla felicità, che sembra essere l’emozione maggiormente riconosciuta in modo corretto. Infine i tempi di reazione sono influenzati dai valori di valenza ed arousal e sembrano essere molto inferiori per i volti e per gli emoji (per quasi tutte le emozioni) rispetto alle emoticon (Fischer & Herbert, 2021).

 

Comprendere l’adolescente: incontro con l’autore – Podcast State of Mind

Podcast State of Mind: presentiamo oggi l’episodio “Comprendere l’adolescente: incontro con l’autore“- L’adolescenza è una fase complessa per ragazzi, genitori e per la famiglia nella sua complessità: l’episodio affronta la tematica grazie a un dialogo stimolante con una delle autrici del libro.

 

Simona Scaini intervista la Dott.ssa Marika Ferri, una delle due delle autrici del libro Comprendere l’adolescente, in un salotto di confronto che vuole non solo illustrare gli elementi centrali di questo nuovo testo, ma anche creare un momento di riflessione intorno a quella fase particolare di sviluppo psicologico ed identitario rappresentata dall’adolescenza. L’ episodio, attraverso le parole del libro in cui vengono presentate le linee teoriche basate sulla più recente letteratura che guidano il lavoro psicoterapeutico con gli adolescenti secondo la prospettiva cognitivo-comportamentale, vuole promuovere l’elicitazione negli ascoltatori di una genitorialità più competente e di una pratica clinica maggiormente efficace e specifica.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Composizione musicale e sinestesia: il documentario su Ennio Morricone

La parola sinestesia deriva dal greco antico e significa ‘sensazione’, in senso esteso, ‘incrocio di sensazioni’, ed indica la capacità di stimolazione di un senso di risvegliare la sensazione di un altro.

 

Il 17 Febbraio 2022, nella sale cinematografiche italiane, è stato distribuito “Ennio”, un emozionante omaggio di Giuseppe Tornatore al compositore italiano Ennio Morricone, scomparso nel luglio 2020. 

Che cos’è la sinestesia?

Nella trama, si fa spesso riferimento alla genialità di Ennio Morricone, il quale ha composto delle “immortali” melodie e colonne sonore per il cinema. Nei quadri narrativi, che si intersecano attraverso interviste a registi e compositori, emergono chiari riferimenti a ciò che, in psicologia, è conosciuta come sinestesia (Baron-Cohen & Harrison, 1997). Si tratta di quella condizione che coinvolge il sistema sensoriale/percettivo, in cui le stimolazioni provenienti da una via sensoriale o cognitiva inducono a delle esperienze, automatiche e involontarie, in un secondo percorso sensoriale o cognitivo. La parola sinestesia deriva dal greco antico e significa ‘sensazione’, quindi, in senso esteso, ‘incrocio di sensazioni’, cioè la capacità di stimolazione di un senso di risvegliare la sensazione di un altro. È studiato da medici e psicologi come un disturbo della percezione, soprattutto quando questa sensazione secondaria si verifica involontariamente e intensamente, come una sensazione reale. Ci sono diversi tipi di sinestesie. Il tipo più frequente è il grafema-colore, ma sono molto comuni anche le sinestesie che coinvolgono suoni e colori, suoni e colori musicali, nomi di note musicali e colori. Avendo il suono come stimolo primario, si possono trovare anche la sinestesia suono-movimento, suono-odore, suono-gusto, suono-temperatura, suono-tatto. 

Sinestesia e composizione musicale

Su questa base, alcune ricerche, come quella di Bragança (2010), studiano il rapporto tra sinestesia e composizione musicale, da cui emerge che la sinestesia può essere un modo per aumentare il coinvolgimento e, quindi, può diventare un vero e proprio strumento educativo e di apprendimento musicale. Invero, alcune qualità sinestetiche sono intercambiabili, cioè lo stesso brano musicale può essere percepito come trasparente, in una sinestesia visiva, o leggero, in un riferimento tattile di pressione, o freddo, dalla sinestesia tattile del calore. I parametri sonori contribuiscono insieme, ma spesso con pesi diversi, alla produzione di sinestesia. Così, una sinestesia del movimento come la percezione dell’agitazione in un passaggio musicale ha un forte contributo del parametro ritmico, ma può essere rafforzata da un dato timbro o record. Un senso di leggerezza può essere costruito combinando intensità, tono, registrazione e parametri ritmici.

La sinestesia, quindi, ha un’applicazione diretta nell’analisi fenomenologica della musica, creando la base per una metodologia di analisi musicale che parte dalla percezione sinestetica della musica e dalla comprensione delle costruzioni che condizionano tali percezioni. L’approccio sinestetico può anche aiutare lo studente di composizione a mettere in relazione alcuni risultati sonori (sinestetici) con alcuni sistemi di costruzione musicale.

Sinestesia intrasensoriale ed extrasensoriale nella musica

Studi successivi, come quello di Egido (2011) introducono, più specificamente, la differenza tra sinestesia intrasensoriale ed extrasensoriale nella composizione musicale. Infatti, nella sinestesia extrasensoriale si hanno sensi diversi, ognuno dei quali è associato ad una proprietà degli oggetti che, di solito, viene percepita attraverso il suo senso corrispondente, ma, per una ragione neurologica, questa relazione cambia e, quindi, una proprietà dell’oggetto è percepita da un senso diverso. La sinestesia intrasensoriale, invece, comprende un solo sistema sensoriale caratterizzato da proprietà diverse (esempio il timbro, l’intensità e la durata del suono), in modo tale che, nello stesso sistema sensoriale, una proprietà del suono è riconosciuto come se fosse un altro.

Il compositore sinestesico

In questo panorama, si possono porre due quesiti: come si riconosce un compositore sinestesico? E cosa cambia nella cultura contemporanea? Per rispondere alla prima domanda, è necessario considerare, come affermato sempre da Bragança (2010), che per riconoscere un “talento” sinestesico è necessario saper studiare efficacemente il fenomeno. Infatti, l’analisi dalla sinestesia può essere intesa come una branca dell’approccio fenomenologico all’analisi musicale. La fenomenologia affronta la questione della relazione tra soggetto e oggetto, affrontando la visione positivista, che considera reale solo la conoscenza risultante dai fatti osservati. Questa corrente di pensiero postula che la verità si trova quando un soggetto osserva con neutralità il mondo esterno, dotando, quindi, lo studio del fenomeno di un rigoroso metodo scientifico. Si presenta così una dicotomia tra soggetto e oggetto, in cui il mondo esterno esiste come verità indipendente, in attesa di un soggetto che, dall’esterno di questo mondo, decifra le sue leggi fondamentali. Il positivismo si manifesta nello studio musicologico quando si isola una partitura della percezione musicale e dell’intero contesto, per studiarla con una meticolosa metodologia di analisi, scoprendone le leggi compositive.

Nel mondo contemporaneo, invece, la rivoluzione digitale e, soprattutto, i sistemi immersivi e altamente multimodali (ad esempio la Realtà Virtuale o Realtà Aumentata) aprono a riflessioni innovative (De Blasio, 2012) sui mezzi a disposizione di un compositore, che potrebbero mettere in crisi i paradigmi fino ad ora conosciuti sulla sinestesia.

 

Una presenza umana prima che clinica. Bruno Callieri – Recensione

Il merito principale del libro Bruno Callieri. Dallo scacco dell’ombra all’incontro intersoggettivo è la chiarezza con cui l’autore riesce a spiegare i concetti propri della psicopatologia fenomenologica delle psicosi.

 

Lo scoglio maggiore per chi, anche da professionista del settore, si avvicina alla psicologia e psicopatologia fenomenologica, è probabilmente l’imperversare di un linguaggio oscuro, a volte astruso, che ricalca impropriamente quello di alcuni filosofi del Novecento a cui i clinici di quell’orientamento si rifanno e che spesso imitano ingenuamente, come se descrivere o approfondire l’esperienza interiore dell’uomo da un punto di vista filosofico, e provare a comprenderla e a generare in essa dei cambiamenti da un punto di vista clinico, sia cosa sovrapponibile. L’impressione che si ricava spesso dalla lettura di psicologi e psichiatri di orientamento fenomenologico è purtroppo quella di un circolo chiuso che parla a pochi addetti ai lavori, una dinamica simile a quella che caratterizza molti circoli psicoanalitici che da quelli fenomenologici spesso sono stati criticati per un’inclinazione clinica latamente meccanicistica e a volte per l’aura di sacralità ed esclusività che ha caratterizzato le loro pratiche terapeutiche.

È proprio, a mio avviso, da questa nebulosità della fenomenologia applicata alla clinica che il libro di Marco Monaco trae per contrappunto il proprio valore. Il testo, uscito per i tipi delle Edizioni Universitarie Romane a fine 2021, approfondisce la figura umana e la teorizzazione di Bruno Callieri, uno dei maggiori psicopatologi italiani di orientamento fenomenologico del Novecento, ricordato anche attraverso una serie di fotografie incluse nel volume che ritraggono lo psichiatra romano in momenti conviviali con amici e colleghi in occasione di convegni, presentazioni e incontri di studio.

Il merito principale del libro è la chiarezza con cui l’autore riesce a spiegare i concetti propri della psicopatologia fenomenologica delle psicosi (ambito in cui la fenomenologia ha dato i maggiori contributi), aspetto che rivela non solo il suo studio attento della materia, ma anche la sua capacità di fare seria divulgazione. Il testo risulta ben scritto, scorre bene come un romanzo e porta il lettore a dividersi piacevolmente tra l’evoluzione della teoria di Callieri sulla psicosi – partendo dai concetti principali della psicopatologia fenomenologica ispirati da Husserl, Jaspers, Heidegger, Schneider e altri – e la narrazione di alcuni periodi della sua vita professionale, resa impervia dalla sua indipendenza di pensiero in una psichiatria italiana bloccata dentro a ristrette visioni organiciste. Ciò che spicca nel ritratto delineato da Monaco è certamente l’umanità, l’umiltà scientifica e l’autentica apertura all’incontro col paziente di Callieri, uomo prima che psichiatra, impegnato nell’approfondimento dell’esperienza psicotica. In tal senso, particolare rilievo è dato nel libro ai concetti da lui elaborati di “perplessità” e di “atmosfera delirante” quali aspetti centrali della fase prodromica della psicosi, da separare almeno parzialmente dal successivo esito delirante. Quella prodromica è, per Callieri, una fase molto importante in termini clinici (come dimostrerà la ricerca successiva), una fase in cui gli esiti del disturbo non sono ancora scritti e in cui è quindi più facile fare qualcosa per scongiurare la cristallizzazione del delirio. Al contempo è significativo rilevare come autori anche succedanei a Callieri (ad esempio Blankenburg, Parnas, ma non solo) abbiano effettuato osservazioni simili sui propri pazienti psicotici e abbiano elaborato concetti analoghi sugli stati psicotici senza menzionare il nostro, indice sia dell’atteggiamento di Callieri – potremmo forse dire modesto e riservato – sia della difficoltà del pensiero fenomenologico italiano di imporsi a livello europeo, ma soprattutto della qualità e dell’originalità del suo lavoro teorico.

Il libro si conclude con uno sguardo sulle “cose ultime”, ovvero sul concetto di morte per Callieri da un punto di vista sia filosofico che psicologico che religioso, ambiti che egli cercò sempre di far comunicare innanzitutto dentro di lui, ritenendo non solo che la spiritualità fosse una dimensione importante dell’essere umano e come tale potesse essere presa in considerazione anche in un ambito più strettamente clinico, ma anche che, in generale, chi si occupi di sofferenza mentale debba avere una propensione all’apertura, alla complessità di pensiero e all’integrazione delle discipline scientifiche e umanistiche, come lui stesso ha cercato coerentemente di fare fino agli ultimi momenti della sua vita.

 

Il fenomeno del partner-phubbing: come i telefoni influenzano le relazioni sentimentali

Uno studio di Beukeboom & Pollmann (2021) ha tentato di analizzare gli effetti negativi del phubbing nelle relazioni sentimentali, nello specifico in relazione all’insoddisfazione relazionale.

 

I telefoni cellulari sono ormai diventati onnipresenti nella nostra vita quotidiana, e di conseguenza influenzano anche le dinamiche delle relazioni intime. Da un lato l’utilizzo del telefono può avere effetti positivi nelle relazioni, in quanto permette ai partner di rimanere in contatto e mostrare interesse quando l’altro non è presente (Pollmann et al., 2021). D’altra parte, quando un cellulare viene utilizzato in presenza del proprio partner, può distrarre dalla conversazione presente ed essere fonte di fastidio e conflitto (Dwyer et al., 2018).

Cos’è il phubbing?

L’uso di un telefono cellulare durante una conversazione è chiamato phubbing (Ugur & Koc, 2015). Il termine phubbing (un incrocio tra ‘phone’ e ‘snubbing’) si riferisce all’atto di concentrarsi sul proprio cellulare durante una conversazione invece di prestare attenzione all’interlocutore (Ugur & Koc, 2015). Se questo atto si verifica all’interno delle relazioni, è chiamato partner-phubbing (pphubbing; Roberts & David, 2016). Nel partner-phubbing si può distinguere un phubber e un phubbee. Il phubber è la persona che, durante un’interazione sociale co-presente, concentra tutta o parte della sua attenzione sul suo cellulare. Il phubbee è la persona che non viene considerata (o “snobbata”) dal partner che usa il cellulare (Chotpitayasunondh & Douglas, 2016).

La letteratura ci dimostra che il partner-phubbing è negativamente correlato alla soddisfazione delle relazioni (ad es, David & Roberts, 2021), proprio perché l’uso di un telefono durante le interazioni co-presenti crea una situazione in cui si è fisicamente presenti, ma non lo si è mentalmente. Questo fenomeno infatti provoca delle sensazioni di “assenza-presenza” (Gergen, 2002) o di stare “soli insieme” (cfr. Turkle, 2011). La soddisfazione relazionale è meglio descritta come il grado in cui il partner soddisfa i desideri e i bisogni dell’altro. Per la soddisfazione relazionale, la qualità della comunicazione tra i partner è molto importante e sembra essere più importante del tempo che i partner trascorrono insieme (Guldner & Swensen, 1995).

È importante saperne di più su questi fattori, perché potrebbero fornire un potenziale rimedio contro gli effetti dannosi dell’uso (quasi inevitabile) del telefono nelle relazioni. Anche se sono state condotte diverse ricerche sul phubbing (Vanden Abeele, 2020), il numero di studi che si sono concentrati sul phubbing nelle relazioni intime, analizzando i meccanismi sottostanti al legame tra utilizzo del telefono e scarsa soddisfazione, è limitato.

Phubbing e insoddisfazione all’interno della coppia

Uno studio di Beukeboom & Pollmann (2021) ha tentato di analizzare gli effetti negativi del phubbing nelle relazioni sentimentali, nello specifico in relazione all’insoddisfazione relazionale.

I risultati dello studio sottolineano che la misura in cui un partner usa il proprio telefono durante le interazioni co-presenti è correlata negativamente alla soddisfazione della relazione, confermando i risultati precedenti (ad es, McDaniel et al., 2020). Avendo ottenuto dati di natura correlazionale, non si possono trarre conclusioni sulla causalità di questo effetto; il partner-phubbing potrebbe causare una riduzione della soddisfazione relazionale, ma è altrettanto possibile l’effetto opposto. Gli autori propongono una relazione reciproca tra queste variabili, dove il partner-phubbing provoca una ridotta soddisfazione nella relazione, che a sua volta potrebbe indurre più phubbing durante le interazioni. Come tale, il phubbing potrebbe giocare un ruolo avverso in una spirale discendente della qualità della comunicazione e della soddisfazione della relazione.

Un secondo obiettivo dello studio è stato quello di testare potenziali variabili che mediano questa relazione tra uso del telefono e insoddisfazione relazionale, che potessero quindi spiegare il meccanismo sottostante. I risultati mostrano che il legame tra il partner-phubbing e la soddisfazione relazionale è del tutto mediato da sentimenti di esclusione tra i partner, dalla percezione di avere meno reattività da parte del partner e dalla percezione di sperimentare meno intimità con il/la partner.

Nonostante il phubbing abbia mostrato delle correlazioni positive anche con la gelosia e con il conflitto sull’uso del telefono (variabili che correlano negativamente con la soddisfazione nella relazione), l’effetto di queste due variabili svaniva nel momento in cui venivano presi in considerazione i sentimenti di esclusione, la reattività percepita del partner e l’intimità percepita. Questo suggerisce che il conflitto e la gelosia di per sé non sono il meccanismo primario attraverso il quale il phubbing si traduce in una ridotta soddisfazione di relazione. Gli effetti dannosi del partner-phubbing sulla relazione sembrano essere principalmente spiegati dalla misura in cui ci si sente esclusi o ignorati dal proprio partner durante le interazioni sociali, e dalla misura in cui il phubbing provoca una ridotta reattività del partner e sentimenti di intimità durante le interazioni. Questi risultati sono in linea con le ricerche che mostrano effetti negativi dell’uso del telefono durante le interazioni sulla qualità della conversazione e sull’empatia percepita del partner (Gonzales & Wu, 2016; Misra et al., 2016).

Contrastare gli effetti del phubbing attraverso la condivisione

Un risultato molto interessante risiede nel fatto che l’uso condiviso del telefono potrebbe essere un potenziale rimedio contro gli effetti dannosi dell’uso del telefono nelle relazioni. Questo dimostra che più si è informati e coinvolti dal proprio partner nell’uso del telefono (cioè, mostrando e spiegando le proprie attività telefoniche), meno ci si sente esclusi, e meno si sperimenta una ridotta reattività e intimità del partner. Questo a sua volta attenua gli effetti negativi sulla soddisfazione della relazione.

Per concludere, per molte persone oggi è difficile resistere alla tentazione dei social media e di altre app in cerca di attenzione sul proprio smartphone (Du et al., 2019). La paura che i rapporti si allentino (Rozgonjuk et al.,  2020), l’aspettativa di una disponibilità costante da parte degli amici (Miller-Ott & Kelly, 2017), o anche la semplice presenza di un telefono (Misra et al., 2016) possono distogliere l’attenzione da un’interazione che sta avendo luogo con il proprio partner. L’uso del proprio telefono in presenza di un partner, però, ha un effetto dannoso per la relazione, in quanto il partner si sente escluso e danneggia la reattività e l’intimità sperimentata nelle interazioni in cui si è coinvolti. Gli effetti dannosi possono essere ridotti mantenendo il partner coinvolto e informato su ciò che si sta facendo con esso, poiché coinvolgendo e informando il partner sulle proprie attività telefoniche, e rendendo il proprio uso del telefono rilevante e funzionale nell’interazione, è possibile ridurre i sentimenti di esclusione e mantenere più reattività e intimità nella conversazione.

 

Il ruolo del cervelletto oltre gli aspetti motori

Il cervelletto è una struttura nota perlopiù per il suo coinvolgimento nell’apprendimento motorio e in aspetti come la coordinazione; ha, tuttavia, un ruolo anche in funzioni emotive e cognitive.

 

Il cervelletto

Innanzitutto, cerchiamo di descrivere brevemente questa struttura localizzata nella fossa cranica posteriore, inferiormente rispetto ai lobi occipitali degli emisferi cerebrali.

Il cervelletto ha un corpo centrale ed allungato, definito verme, e due parti laterali, chiamate emisferi cerebellari, con avanti due piccole formazioni, una per lato, denominate flocculi (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

Il cervelletto è collegato per mezzo dei tre peduncoli cerebellari al tronco encefalico: quelli superiori sono due fasci paralleli che si dirigono verso il mesencefalo; i peduncoli cerebellari medi sono due fasci più voluminosi che si protraggono con il ponte; i peduncoli cerebellari inferiori, infine, si incurvano in avanti e raggiungono il midollo allungato (Castano & Donato, 2006).

Sebbene il cervelletto costituisca il 10% del volume cerebrale, contiene il più elevato numero di neuroni di tutte le suddivisioni cerebrali.

Riceve numerose afferenze: somatosensitive dal midollo spinale, informazioni motorie dalla corteccia cerebrale e informazioni concernenti il senso dell’equilibrio dagli organi vestibolari dell’orecchio interno. Si consideri, infatti, che gli assoni che raggiungono il cervelletto sono 40 volte più numerosi di quelli che lo lasciano (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

Dunque, è importante per il mantenimento della postura, per la coordinazione e la regolazione fine dei movimenti e per l’apprendimento delle abilità motorie.

Le lesioni cerebellari, infatti, provocano alterazioni della precisione spaziale e della coordinazione temporale dei movimenti, deficit dell’equilibrio e riduzione del tono muscolare, oltre a gravi deficit dell’apprendimento motorio.

Le malattie cerebellari presentano sintomi e segni caratteristici, tra i principali possiamo elencare: ipotonia, ossia una diminuzione della resistenza al movimento passivo degli arti; mancanza di coordinazione nell’esecuzione di movimenti volontari; presenza di una particolare forma di tremore (tremore cinetico) durante l’esecuzione di un movimento (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

Cervelletto, funzioni cognitive ed emozioni

Per tali ragioni, in passato, il cervelletto è stato considerato come una struttura prevalentemente motoria. Negli ultimi anni, tuttavia, studi neuropsicologici e l’utilizzo di strumenti di neuroimaging hanno rilevato contributi del cervelletto nella modulazione di processi relativi alla sfera cognitiva ed affettivo-comportamentale, grazie a una cospicua afferenza ai nuclei pontini proveniente da particolari aree associative del neocortex. Esistono dei circuiti cerebro-cerebellari (circuito cortico-ponto-cerebellare e circuito cerebello-talamo-corticale) che collegano il cervelletto con le cortecce motorie, la corteccia associativa e le regioni paralimbiche dell’emisfero cerebrale (Kandel, Schwart, Jessell, 2014).

È il lobo anteriore del cervelletto ad essere impegnato principalmente nel controllo motorio, invece il verme cerebellare è coinvolto nell’elaborazione emotiva (tanto da essere indicato come “cervelletto limbico”) e il cervelletto posteriore contribuisce a funzioni cognitive complesse, grazie al sistema di circuiti neurali che lo collega a corteccia prefrontale, temporale, parietale posteriore e limbica (Schoch et al., 2006).

Inoltre, disabilità linguistiche possono sorgere in seguito a lesioni dell’emisfero cerebellare destro, che contribuisce a modulare i processi linguistici non motori e le funzioni cognitive. I deficit linguistici che si verificano in seguito a lesioni cerebellari sono diversi da quelli prodotti da lesioni corticali, causando una forma di “incoordinazione linguistica” (Silveri & Misciagna, 2000). Mentre, lesioni dell’emisfero cerebellare sinistro possono portare a difficoltà visuo-spaziali (Gottwald et al., 2004).

In letteratura sono presenti dati che suggeriscono un coinvolgimento del cervelletto nell’identificazione ed espressione delle emozioni, soprattutto l’espressione della tristezza. Si ipotizza che una riduzione della comprensione dell’espressione emozionale potrebbe essere causata da un danno nel collegamento funzionale tra il cervelletto e il lobo frontale (Schmahmann et al., 2007). Inoltre, diversi tipi di intonazione emotiva della voce e l’esposizione a immagini o espressioni facciali emotive attivano una serie di regioni all’interno del cervelletto (Paradiso et al., 1999).

Sindrome cerebellare cognitivo affettiva

Si parla addirittura di “Sindrome cerebellare cognitivo affettiva” per indicare uno specifico quadro di sintomi dato da: un insieme di deficit nelle funzioni esecutive (pianificazione, ragionamento astratto, fluenza verbale, working memory), con perseverazione, distrazione, compromissione della cognizione spaziale (organizzazione visuo-spaziale e memoria visuo-spaziale); cambiamenti di personalità con ottundimento affettivo, comportamento disinibito e inappropriato, difficoltà nella produzione linguistica (disprosodia, agrammatismo e lieve anomia). Tale Sindrome cerebellare cognitivo affettiva è stata rilevata più facilmente nei pazienti con danno bilaterale (Schmahmann & Sherman, 1998).

Tavano e colleghi (2007) hanno studiato un gruppo di 27 pazienti, sia bambini che adulti, con malformazioni congenite cerebellari. Le indagini neuropsicologiche e cliniche hanno evidenziato la presenza di deficit in vari domini, così da supportare l’importante ruolo giocato dal cervelletto nell’acquisizione di abilità cognitive complesse e perfino affettive. Un risultato rilevante di tale studio consiste nel fatto che i deficit motori sono generalmente meno gravi e tendono a migliorare lentamente e progressivamente, raggiungendo in alcuni casi la funzionalità quasi completa, al contrario dei sintomi della Sindrome cerebellare cognitivo affettiva.

 

‘Scatole’ dei Pinguini Tattici Nucleari: lettera a Riccardo Zanotti

Scatole è un brano appartenente al penultimo album dei Pinguini Tattici Nucleari, chiamato Fuori dall’Hype (2019). È una canzone che Riccardo Zanotti, cantante e autore del testo, dedica al padre. La melodia è caratterizzata da un interessante arpeggio di chitarra in ‘Mi’, tonalità che si presta molto a questo tipo di brani.

 

Scatole è un brano appartenente al penultimo album dei Pinguini Tattici Nucleari, chiamato Fuori dall’Hype (2019). Fa parte della non troppo stretta categoria delle ‘canzoni dedicate al padre’, nell’onorevole gruppo a cui appartengono Father and Son di Cat Stevens, My father’s eyes di Eric Clapton, Sometimes you can’t make it on your own degli U2, ma anche le italiane Canzone del Padre di De Andrè e PadreMadre di Cesare Cremonini, per citarne solo alcune. Insomma, non proprio titoli di scarso rilievo. Potremmo forse dire che è la più ‘indie’ delle canzoni dedicate al padre e che sicuramente, data la profondità e la bellezza del testo, non sfigura in questo gruppo. Personalmente trovo sia la canzone più intima dell’album. La melodia è caratterizzata da un interessante arpeggio di chitarra in ‘Mi’, tonalità che si presta molto a questo tipo di brani.

Qual è il significato della canzone?

Il protagonista del brano è Riccardo Zanotti stesso, per chi non lo conoscesse cantante e autore del testo, che cresce in un paesino della provincia bergamasca, contesto (non me ne vogliano i lettori bergamaschi) notoriamente più dedito alle attività pratiche, manuali e lavorative che a quelle artistiche e musicali…I Pinguini Tattici Nucleari (PTN) non hanno mai nascosto il loro legame con le terre bergamasche, sottolineandolo in canzoni, solo per fare due esempi, come Bergamo e Castagne Genge, termine orobico che ho appreso grazie a questa canzone essere l’equivalente di ‘castagne matte’.

Il padre di Riccardo, come recita la canzone ‘ha sempre fatto il muratore‘ e ‘odia chi si lamenta, chi sta zitto e gli ottimisti, ha sempre poco tempo per l’amore e tutte le altre cose inventate dai comunisti..’ è un uomo tutto d’un pezzo, dedito ai suoi successi, tiene ‘il suo diploma da geometra appeso in soffitta da vent’anni, in una teca polverosa‘, riuscendo in parte a trasmettere l’etica del lavoro al caro figlio Riccardo (‘e da piccolo sognavo anch’io di avere una teca che dicesse che so fare qualche cosa‘). L’unico problema è che Riccardo non ne voleva sapere nulla di calcare le orme del padre, che gli chiedeva di ‘fare gli studi da architetto oppure da ingegnere‘, coltivando fin da subito il sogno di fare il musicista e di ‘far piangere la gente’, perchè ‘davanti a dei mattoni nessuno si commuove‘.

Il padre non prende benissimo l’idea di Riccardo e gli ribadisce, dolcemente e con i dovuti modi (questo a detta di Riccardo, ma sarebbe bello sentire l’altra versione dei fatti), ‘Non capisci proprio un cazzo della vita, perché solo a chi si sporca le mani è concesso il privilegio di avere una coscienza pulita‘. Riccardo, fortunatamente per i fan dei PTN non lo ascolta, vola a Londra a studiare musica, si forma e diventa famoso con la sua band. Il resto della storia lo conosciamo tutti…

Il brano gioca molto bene, come Zanotti ci ha ormai ampiamente dimostrato di saper fare, sul significato del termine scatole, dandogli una connotazione sia esteriore che interiore: le case in fondo sono ‘scatole dove la gente si rifugia quando fuori piove‘, ma anche ‘le canzoni in fondo sono solo scatole dove la gente si rifugia quando fuori piove‘.

Non voglio mettere in discussione una canzone che trovo molto bella e vera, in cui mi rivedo davvero tanto (con la differenza che non sono diventato un artista famoso…).

Però, caro Riccardo, c’è una cosa che davvero non mi va giù del testo; alla fine dell’ultima strofa tu scrivi, riferito a tuo padre, ‘io sono diverso, io sono migliore’. Ai primi ascolti sono rimasto un po’ stranito, poi mi ha dato quasi fastidio. Scrivo da vostro fan di lunga data, vi seguo dal 2016, quando suonavate alle feste popolari e si chiacchierava dopo i concerti, penso anche di avere qualche piccola conoscenza di psicologia e quindi mi prendo la licenza di bacchettarti su questa cosa, ovviamente sempre con affetto.

Non puoi scrivere che sei migliore di tuo padre, questo proprio non lo accetto e non mi sembra bello, nemmeno per licenza poetica, nemmeno per effetto catartico sul pubblico.

Sono curioso di saperlo, cosa ti ha detto tuo padre dopo avere ascoltato questa canzone? Come si sarà sentito?

Tutti noi abbiamo le nostre scatole che ci portiamo dentro, dobbiamo imparare ad accettarle e poi ‘svuotarle’. Essere ‘migliori’, come tu scrivi, dei nostri genitori significa avere imparato a comprendere i loro difetti accettandoli, e, comprendendoli, evitare di farli noi stessi, nella nostra vita e con i nostri eventuali figli. Non significa però pensare di essere migliori di loro.

Non significa provare rabbia e senso di rivalsa verso di loro, sentimenti che, se presenti, significa che probabilmente abbiamo bisogno ancora un po’ di tempo per metabolizzarli.

Sempre un vostro affezionatissimo fan, ormai ‘di vecchia data’, per cui spero non vi risentiate della piccola ‘critica’.

 

SCATOLE – Ascolta il brano:

Il pianto in seduta: influenza su alleanza e cambiamento in terapia

Il pianto è un’importante forma di espressione emotiva considerata anche un’esperienza benefica dal momento che può avere un impatto positivo sull’umore e sui sentimenti, portando alla risoluzione o alla riduzione della tensione e dei sentimenti negativi (Vingerhoets, 2013; Capps et al., 2015).

 

I pochi studi disponibili sul tema del pianto in terapia suggeriscono che i pazienti piangono nel 14/21% delle sessioni di terapia (ad es, Robinson et al., 2015), sottolineando l’alta frequenza e la rilevanza del pianto in questo contesto. La letteratura sottolinea che il pianto può essere considerato un indice di coinvolgimento da parte del paziente nel processo terapeutico e come un indicatore di un processo di guarigione (Rottenberg et al., 2008; Vingerhoets, 2013); questo risulta particolarmente vero quando un’esperienza di pianto è seguita da un intervento terapeutico di comprensione profonda e un’integrazione delle emozioni riguardanti l’episodio (Capps et al., 2015).

L’esperienza del pianto può anche avere un impatto sull’alleanza terapeutica e su una relazione di lavoro favorevole e produttiva. Quando i pazienti sentono che il pianto ha permesso loro di comunicare qualcosa che non potevano esprimere a parole, sperimentano un maggiore senso di connessione, legame e lavoro collaborativo con il loro terapeuta (Zingaretti et al., 2017), giungendo spesso alla risoluzione della condizione stressante (Stanton et al., 2000). Alcuni studi riportano infatti che l’espressione attiva dei sentimenti dolorosi permette agli individui di sopportare il loro disagio come doloroso ma tollerabile e aumenta il senso di controllo personale (Lepore et al., 2000).

Pianto in terapia e attaccamento

Il pianto inoltre è considerato un comportamento legato all’attaccamento in quanto può essere una strategia per stabilire e mantenere la vicinanza del caregiver (Bowlby, 1982; Nelson, 2005). Anche se pochi studi hanno adottato un approccio di attaccamento-caregiving per esplorare le esperienze di pianto nel setting terapeutico, Nelson (2005) ha ipotizzato che i comportamenti di pianto dei pazienti in terapia suscitino un’esperienza di attaccamento e caregiving, poiché il pianto può ricordare le precedenti esperienze di attaccamento facendo sentire la relazione terapeutica come una base sicura (Ainsworth et al.,1978) dalla quale i clienti esplorano e sperimentano le loro emozioni. A sostegno di ciò, Robinson e colleghi (2015) hanno scoperto che il pianto era un modo possibile per i pazienti di esprimere i loro bisogni di attaccamento al loro terapeuta.

Pianto e alleanza terapeutica

Per approfondire i risultati già presenti in letteratura, uno studio molto recente di Genova e colleghi (2021) ha esplorato le associazioni tra l’esperienza del pianto dei pazienti e la loro percezione dell’alleanza di lavoro e del cambiamento terapeutico, oltre a considerare il ruolo dello stile di attaccamento dei pazienti.

I risultati hanno indicato che la maggior parte dei pazienti piange in terapia (83%), suggerendo che il pianto rappresenta un fenomeno relativamente comune.

Inoltre, le emozioni negative prevalenti riportate dopo il più recente episodio di pianto in terapia erano tristezza per 46 pazienti (53,5%), frustrazione per 33 (38,4%), e impotenza per 24 (28,2%).

La maggior parte (67,4%) dei pazienti ha parlato della loro esperienza di pianto con il loro terapeuta, molti (42%) pensavano che piangere migliorasse la loro relazione terapeutica, mentre nessuno di loro pensava che piangere la peggiorasse, confermando i risultati di Capps e colleghi (2015) che riportano che le esperienze di pianto dei pazienti, anche se tristi o frustranti, non portano necessariamente a un deterioramento o a un declino della relazione terapeutica.

Per quanto riguarda la relazione tra l’esperienza generale del pianto e l’alleanza terapeutica, i risultati hanno mostrato che più alta era l’alleanza di lavoro riportata dai pazienti, meno depressi e più sollevati si sentivano generalmente dopo il pianto, suggerendo quindi che quando l’alleanza di lavoro è percepita come forte, i pazienti sperimentano il loro pianto come un momento utile per la risoluzione dei sentimenti negativi. Inoltre, quando l’esperienza del pianto era seguita da una maggiore consapevolezza, quando era vissuta come un momento di genuina vulnerabilità e sentivano che il loro terapeuta era di supporto, i pazienti percepivano l’alleanza terapeutica come ancora più forte.

Questi risultati, nel complesso, suggeriscono che il pianto in terapia non è di per sé un indicatore di una scarsa alleanza terapeutica, piuttosto la qualità dell’esperienza del pianto, la sua successiva esplorazione come momento di maggiore consapevolezza, e le successive emozioni positive derivate da quel pianto possono essere correlate con una buona alleanza terapeutica.

Pianto e cambiamento terapeutico

Per quanto riguarda la relazione tra l’esperienza generale del pianto e il cambiamento terapeutico, i risultati hanno mostrato che i pazienti si sentivano più sollevati, più rilassati, più felici e meno tesi dopo il pianto se percepivano il loro processo terapeutico come efficace nel risolvere i loro conflitti intra-psichici, reazioni problematiche e problemi interpersonali. Inoltre, più alto era il cambiamento terapeutico riportato dai pazienti, più essi sperimentavano l’episodio di pianto come un momento di autenticità, di maggiore insight, auto-consapevolezza e auto-efficacia, insieme alla sensazione di essere più compresi ed emotivamente connessi con i terapeuti.

Conclusioni

In sintesi, i risultati di questo studio supportano ed estendono la rilevanza della qualità dell’alleanza di lavoro e del cambiamento terapeutico in relazione alla qualità dell’esperienza di pianto dei pazienti in terapia. Coerentemente con il modello clinico focalizzato sull’affetto di McCullough et al. (2003), i risultati di questo studio hanno riscontrato una relazione terapeutica e un cambiamento significativamente più elevati nei pazienti le cui esperienze di pianto in terapia sono state seguite da un maggiore senso di sollievo.

Inoltre, per i pazienti con stile di attaccamento preoccupato e respingente, i risultati hanno mostrato l’importanza dell’alleanza terapeutica e del cambiamento sulla sensazione di fiducia nel raggiungimento degli obiettivi terapeutici dopo il più recente episodio di pianto, e sulla tendenza generale a provare più sollievo e meno tensione dopo aver pianto in terapia.

Le dimensioni psicologiche del dolore cronico – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

  Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il secondo episodio del podcast dedicato alle dimensioni psicologiche del dolore cronico. Ospite dell’incontro: il Dott. Michael Tenti.

 

Dove ascoltare il secondo episodio:

 

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