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Una breve panoramica sul fenomeno del tilt negli esports

Il tilt è un fenomeno riscontrato negli esports che genera nel giocatore una forte frustrazione o altre emozioni negative, generato da un altro giocatore.

 

Il comportamento negativo su internet è una problematica che sta acquisendo sempre più rilevanza. L’aumentare di attività e di interazioni con gli altri che si possono fare sul web è concomitante ad un allarmante aumento di comportamenti negativi (Blackburn & Kwak, 2014). Il fatto che le interazioni tra persone manchino di un contatto diretto tra gli individui, o che spesso non sia neanche possibile vedere il volto dell’interlocutore, facilita la comparsa di una tendenza comportamentale ostile e aggressiva (Blackburn & Kwak, 2014).

Cosa sono gli esports?

Nelle ultime due decadi, la concezione del gioco online come semplice passatempo si è evoluta in vere e proprie professioni, dove i giocatori possono competere tra di loro a livello agonistico, per raggiungere premi che possono contemplare cifre di denaro significative, creando così la categoria degli “esports”, vere e proprie competizioni di videogiochi (Blackburn & Kwak, 2014). In questo caso, la competizione è considerata un elemento fondamentale per il divertimento, ma allo stesso tempo può favorire la comparsa di comportamenti negativi, definiti toxic behaviors, ovvero comportamenti tossici (Blackburn e Kwak, 2014). Infatti, circa il 70% dei giocatori di età compresa tra i 18 e i 24 anni riporta di aver subito ciò che viene definito come “digital harassment”, ovvero molestie digitali esito di comportamenti tossici, e il 62% riferisce che la molestia online sia un problema di sempre maggiore importanza (Duggan, 2018).

Il comportamento tossico è stato denominato così proprio perché il giocatore lo esperisce nell’interazione con gli altri giocatori, e il danno non viene causato solo al singolo, ma ne risente tutta la community (Blackburn & Kwak, 2014). È inoltre un comportamento difficile da definire, perché spesso i giocatori che attuano comportamenti tossici non si rendono conto di attuare tali comportamenti (Blackburn & Kwak, 2014). Alcuni esempi di comportamento tossico possono essere l’utilizzo di un linguaggio offensivo e abuso verbale, insulti razziali, il cyberbullismo, il sessismo, le minacce, l’abbandono della partita mentre i compagni di squadra continuano a giocare, l’utilizzo di programmi di hacking, il dare punti intenzionalmente alla squadra avversaria col fine di far perdere la propria (Blackburn e Kwak, 2014; Monge e O’Brien, 2022).

Il tilt negli esports

Durante una partita, l’attuazione di comportamenti tossici, o il subirli, può condurre l’individuo ad esperire una situazione denominata “tilt” (Wu, Lee e Steinkuehler, 2021). Il tilt è un fenomeno generato da un altro giocatore, o da un evento che avviene durante la partita, che genera nel giocatore una forte frustrazione o altre emozioni negative, compromettendo la sua capacità di attuare scelte razionali che possono portare alla vittoria della squadra, spingendolo ad attuare invece dei comportamenti che danneggiano le possibilità di vittoria. Il termine tilt deriva dal gioco del pinball, dove il giocatore, arrabbiato a causa della sconfitta, colpiva la macchina che di conseguenza andava “in tilt”. Questo termine si ritrova anche nel gioco del poker ed è utilizzato per descrivere una situazione in cui si trova un giocatore che, nonostante abbia perso molti soldi, continua a giocare attuando decisioni strategiche sbagliate. Tuttavia, avendo il giocatore una concezione di poker come gioco d’azzardo, egli spera che continuando ad attuare questo schema di comportamenti la fortuna possa finalmente farlo vincere. Come nel poker, anche negli esports il tilt è un modello di comportamenti ripetitivi che può condurre ad una serie di sconfitte ed alla perdita di punti, rischiando delle punizioni come l’impossibilità di giocare per alcuni giorni o permanentemente. Le motivazioni che sembrano essere dietro questi comportamenti sono un’intensa rabbia e frustrazione, e tutte le scelte errate che derivano da un decision making influenzato da tali emozioni.

È interessante notare come l’emissione di comportamenti tossici aumenti se è il giocatore stesso ad avere una performance non ottimale (Monge & O’Brien, 2022). Questo può suggerire che quando il proprio senso di efficacia personale è minacciato dai compagni di squadra, o da altre circostanze, la frustrazione e i comportamenti tossici sembrano essere più frequenti.

Il tilt negli esports è un comportamento che sta venendo sempre più riconosciuto come problematica e di conseguenza richiede attenzione clinica (Wu, Lee, & Steinkuehler, 2021). Alcune possibili strategie per gestire le emozioni che sono dietro a questo fenomeno potrebbero prevedere dei percorsi dove vengono apprese strategie di gestione di tali stati emotivi.

 

Mindfulness e Buddismo agnostico

Per capire fino in fondo la Mindfulness è opportuno elaborare un concetto che non sia sbilanciato né verso un’ottica mistica religiosa, né verso una pratica a sé stante rispetto alla cultura Buddista.

 

La mindfulness è una pratica meditativa che ha profondamente segnato la ricerca scientifica e il tessuto sociale degli ultimi venti anni: digitando sul motore di ricerca pubmed la parola mindfulness le pubblicazioni scientifiche arrivano a più di 26000 pubblicazioni, registrando una crescita esponenziale: se nel 2007 erano 85, nel 2016 il numero sale a 895 (De Pisapia, 2017). Molte di queste ricerche si concentrano sugli effetti benefici della meditazione su molti aspetti, tra i quali quelli a livello neurologico (Fox, 2014), a livello immunitario (Davidson, 2003), e la plasticità sinaptica (Lazar,2005).

Con questa forma di meditazione, che si evolve come una disciplina profondamente legata agli insegnamenti del principe indiano Siddharta Gautama, detto il Buddha, ci si riferisce ad un concetto teorico, una pratica di meditazione, o un processo psicologico, e rappresenta il cuore pulsante della psicologia Buddista di 2500 anni fa (Germer, 2013).

Per capire meglio la natura di questa forma di meditazione è opportuno fare chiarezza rispetto al ruolo che la meditazione di consapevolezza (Mindfulness) ha nei confronti della cultura Buddista. Esistono infatti due principali tendenze divergenti: la prima spinge verso una considerazione religiosa della dottrina, dove i quattro fondamenti della presenza mentale insegnati dal Buddha ai suoi discepoli sarebbero leggi, e la meditazione un’esperienza necessaria di trascendenza; una seconda tendenza spingerebbe invece verso un’interpretazione del tutto focalizzata sulla pratica della meditazione, elevandone l’importanza al punto tale da trascurare qualsiasi altro aspetto della dottrina (Batchelor. 20). Il rischio, in ognuno dei casi, sarebbe quello di avere una cultura Buddista marginalizzata e sempre meno capace di realizzarsi come cultura: cioè come set di valori e pratiche che animano creativamente tutti gli aspetti della vita umana (Batchelor. 20).

Per capire fino in fondo il concetto della Mindfulness, quindi, è opportuno elaborare un concetto che non sia sbilanciato né verso un’ottica mistica religiosa, né verso una pratica a sé stante rispetto alla cultura Buddista.

Mindfulness come parte di un percorso più grande

Abbiamo detto che la Mindfulness è una pratica di meditazione incentrata sul concetto di consapevolezza: a questo punto è opportuno analizzare quale è il ruolo che la meditazione ha all’interno degli insegnamenti del Buddha.

A livello etimologico la parola meditazione deriva dal latino mederi, che signfica curare, sanare, aiutare (da cui deriva il termine medicina); in sanscrito il Buddha utilizza la parola bhavana traducibile come «crescita spirituale» (Fabbro, 2018). Per capire il ruolo di questa pratica all’interno degli insegnamenti del Buddha è necessario affidarsi al Grande discorso sui fondamenti della presenza mentale (Goldstein, 2016). Grazie a quest’opera, infatti, è possibile conoscere quale “trattamento” il Buddha ha riservato per coloro che vogliano liberarsi dal peso della sofferenza.

Nell’ottuplice sentiero, che rappresenta le otto dimensioni che è giusto mettere in pratica per raggiungere la via della consapevolezza, troviamo la meditazione di consapevolezza (Mindfulness) occupare il settimo posto (Fabbro, 2018): al primo posto, invece, troviamo la comprensione appropriata, a cui seguono le dimensioni del pensiero appropriato, del linguaggio appropriato, dell’azione appropriata, dei mezzi di sostentamento appropriati e dello sforzo appropriato.

A questo punto possiamo concludere che, per quanto centrale e dominante, la pratica della meditazione di consapevolezza rappresenta in realtà solo una parte dell’ottuplice sentiero che conduce alla consapevolezza, al risveglio. La meditazione, da sola, non basta per raggiungere la via del risveglio. E, nonostante ciò, è soprattutto l’aspetto della meditazione quello che ha più colpito l’immaginario occidentale (Fabbro, Identità cultura e violenza).

Mindfulness come pratica non religiosa

Per riuscire a smarcare gli insegnamenti Buddisti da una interpretazione religiosa troppo stringente, è utile andare ad analizzare alcuni aspetti contenuti nei testi antichi della tradizione Buddista, il Canone Pali chiamato Tipitaka (Gombrich, 2009).

In questi testi, qualsiasi tentativo di interpretare gli insegnamenti del Buddha sotto una chiave mistica e trascendentale sono destinati a ridurne la complessità originaria, allontanando così i concetti della dottrina dal loro significato originario. Per esempio, interpretare l’esperienza del “risveglio” come un momento di rivelazione trascendente, come un incontro tra l’uomo e “la Verità assoluta”, “la Morte assoluta”, eccetera, altro non è se non una chiara misinterpretazione degli insegnamenti del Buddha, secondo il quale «ogni verità richiede di essere messa in atto secondo il proprio modo personale» (Batchelor).

I testi antichi testimoniano che gli insegnamenti del Buddha, attraverso un approccio altamente disciplinato, sistematico e individualizzato (Germer), si concentrano sullo scopo unico di alleviare la sofferenza umana senza ricorrere ad un sistema metafisico generale sovraordinato. Quando chiesero al Buddha cosa avesse intenzione di fare con i suoi insegnamenti, egli rispose “sto insegnando l’angoscia e la fine dell’angoscia”. Rispondeva col silenzio alle domande di natura metafisica che i suoi allievi gli ponevano, affermando che l’unico presupposto necessario per realizzare i suoi insegnamenti (dharma) è la libertà. Inoltre, è possibile affermare che non è contenuto nei testi antichi nessun commento ascrivibile al Buddha che noi potremmo tradurre oggi come “dio”, né ha mai parlato in termini di unicità, divinità, dogmi e leggi rivelate (Batchelor).

Un altro aspetto fondamentale è la sua personalità: in questi documenti la figura di Buddha appare quella di un essere umano con tratti di personalità ben definiti, tra cui spicca la sensibilità, la non violenza e l’estraneità verso ogni senso di superiorità.

Non volle dogmatizzare norme e precetti, ribadendo che la Via è come una zattera che aiuta le persone ad attraversare il fiume, e che una volta raggiunta la terraferma non è di alcuna utilità. «Scoraggiò anche la nascita di gerarchie nel gruppo dei suoi allievi. Nella Via non esistono maestri, ma soltanto amici che possono avere una maggiore esperienza. Ci sono infatti molti modi di concepire la Via, ma non c’è un modo migliore dell’altro» (Fabbro, 2011).

Inoltre, è utile ricordare come «gli insegnamenti del Buddha non si rivolsero solo all’élite religiosa del tempo (bramini, nobili e guerrieri), ma a tutti gli esseri umani. Per questa ragione il Buddha si oppose al sistema delle caste: a suo parere non esistono differenze negli esseri umani che lavorano per la propria liberazione.» (Fabbro, 2018).

Lo studioso Richard Gombrich interpreta gli insegnamenti del Buddha in chiave del tutto pragmatica. Egli suggerisce che, a causa delle traduzioni successive la morte del Buddha, oggi vi è una tendenza a dare un significato di “risveglio” e” concentrazione” che è frutto di una interpretazione fuorviante ed esageratamente profonda. In realtà, interpretando gli insegnamenti del Buddha in chiave pragmatica, è possibile vedere la pratica della meditazione di consapevolezza come un metodo per coltivare una personale comprensione intellettuale degli eventi del mondo. Il Buddha sarebbe quindi un motivatore e un maestro che mostra la via, e incentiva i suoi discepoli, verso lo sviluppo della propria facoltà intellettuale, necessaria alla costruzione di una base morale, etica ed intellettuale (Gombrich, 2009).

Buddismo agnostico

Nel 1997 lo scrittore ed ex monaco buddista britannico Stephen Batchelor pubblica il saggio Buddhism Without Beliefs, sviluppando un’analisi sul concetto filosofico di agnosticismo applicato alla cultura buddista, con l’intento di generare una visione più complessa e ricca di questa dottrina.

Innanzitutto, cosa intende l’autore con il termine “agnosticismo”? Il termine “agnostico” oggigiorno ha perso del tutto la sua forza, fino a descrivere quel comportamento di colui che afferma “non lo so e non voglio avere un’opinione al riguardo”: in realtà, questo termine fa riferimento ad una concezione coniata da T.H. Huxley nel 1869 (Science and Christian tradition) in riferimento ad un principio generale che, da Socrate alla Scienza Moderna, ha attraversato l’intero corso della storia occidentale. Tale principio si concretizza in due aspetti: “Segui la tua ragione fino a dove ti porta” (Follow your reason as far as it will take you); “Non considerare una conclusione certa quando non è dimostrata o dimostrabile (Do not pretend that conclusions are certain which are not demonstrated or demonstrable).

Questo principio (“the agnostic faith”) non solo si accorda perfettamente alla condotta del Buddha, ma ne arricchisce il ruolo e la dottrina. Innanzitutto, i suoi insegnamenti (dharma) sono sempre stati concepiti come una pratica, un metodo, e non un sistema chiuso (un -ismo) con potere esplicativo sul mondo: il dharma è qualcosa che si pratica e, posizionandosi su un piano del tutto parallelo rispetto a quello della scienza, non può mai entrare in conflitto con il pensiero scientifico «perché non offre la possibilità di smentire o convalidare nessun fenomeno scientifico. Il dharma si concentra interamente sulla natura dell’esperienza umana».

In secondo luogo, astenendosi completamente dal rivelare verità esoteriche riguardo la realtà fisica e metafisica, il Buddha si è sempre spinto a sfidare i suoi interlocutori in un tentativo condiviso di comprendere la natura della sofferenza umana. Come sottolineato da Stephen Batchelor, alla luce del principio agnostico di T.H. Huxley, è facile interpretare la condotta del Buddha come quella di un uomo mosso da una profonda aderenza a questo principio: rifiutando di considerare vera qualunque conclusione non dimostrata e certa, egli conduce una ricerca collettiva, per delineare un metodo pratico di eliminare la sofferenza umana, al di là di idee preconcette e dogmatiche.

Aderire a questo principio agnostico, per il Buddha, rappresenta un’attitudine generale verso ogni aspetto della vita, che non è da confondere con un approccio scettico: «così come l’agnosticismo ha perso la sua confidenza, cadendo verso lo scetticismo, anche il Buddismo si è teso verso una perdita delle sue caratteristiche essenziali, fino a scadere verso la religiosità» (Batchelor). Al contrario, l’aspetto agnostico arricchisce l’immagine del buddista, smarcandolo definitivamente dalla componente fideistica e dogmatica con cui spesso ed erroneamente si sono interpretati gli insegnamenti del Buddha. Il buddista agnostico non cerca negli insegnamenti del Buddha una risposta alle domande dell’esistenza fisica (dove siamo, cosa esiste dopo la morte, da dove proveniamo) ma delle metafore dell’esistenza che lo aiutano ad avere una consolazione e un confronto. Per tutte le altre domande egli si rivolgerà ad ambiti specifici della conoscenza umana (fisica, biologia, neuroscienze). Egli non è un “credente” nel senso tradizionale del termine («Un buddista agnostico rifiuta l’ateismo tanto quanto rifiuta il teismo») (Batchelor); non cerca verità svelate rispetto ad eventi paranormali e super naturali.

Aspetti conclusivi

Alla luce di quanto detto è possibile affermare alcune considerazioni rispetto alla natura della Mindfulness.

Prima di tutto, la meditazione di consapevolezza da sola non è la chiave con cui accedere ad uno stato di consapevolezza trascendente, di risveglio, ma una pratica calata all’interno di un percorso etico di comportamento pratico ben più ampio (Germer, 2005). E, come abbiamo visto, la posizione che assume questa pratica all’interno dell’ottuplice sentiero, ci ricorda come la meditazione, da sola, non basta e non è sufficiente a condurre le persone verso la consapevolezza.

In secondo luogo, l’inquadramento agnostico della cultura Buddista non si limita a smarcare la meditazione di consapevolezza Mindfulness da qualsiasi interpretazione religiosa e spirituale, ma offre anche una chiave di interpretazione di tutta la cultura Buddista che ne arricchisce gli insegnamenti e ne valorizza gli aspetti essenziali.

 

Tre caratteri (2022) di Christopher Bollas – Recensione del libro

Nel saggio Tre caratteri Christopher Bollas analizza e approfondisce tre differenti strutture di personalità: narcisista, borderline e maniaco-depressiva.

 

L’autore introduce la tematica specificando quanto sia importante cogliere l’unicità del paziente a prescindere dalla diagnosi di personalità: ciascun paziente è un individuo con caratteristiche peculiari che lo differenziano dagli altri. Al tempo stesso, vero è, che ci sono alcune caratteristiche che accomunano determinate strutture della personalità e Bollas in questo saggio ha cercato di identificare gli assiomi principali che ne guidano il comportamento. I disturbi della personalità e la psicopatologia non sono altro che tentativi della personalità per compensare e sopravvivere a un dolore mentale intollerabile. Il modo in cui questo si struttura può dipendere da molteplici fattori e si differenzia da un carattere all’altro.

Il saggio si apre approfondendo la personalità narcisistica, dal mito di narciso, alla costruzione dell’immagine di sè, per poi passare all’analisi del vuoto e del ritiro narcisistico. Secondo Bollas, la caratteristica più significativa dei narcisisti è la richiesta di attenzione che può operare in modo molto sottile. Il narcisista idealizza se stesso, aderendo all’assioma “Io sono chi e cosa sembro essere”, e tende a proiettare questa idealizzazione negli altri o nelle proprie attività. Avviene quindi uno scambio relazionale del tipo “io idealizzo te e tu idealizzi me”, il narcisista con il proprio modo di fare carismatico e idealizzante incoraggia l’altro a esaltare se stesso, a patto che l’altro faccia lo stesso con lui/lei. In questo modo si costruisce una base rassicurante per il sentimento del valore di sé, altrimenti molto fragile. Il narcisista meno disturbato può stabilire una relazione di intimità e nel migliore dei casi questo ha come risultato un rapporto reciprocamente idealizzante. Questa personalità quando si relaziona idealizza per proteggersi da un’immagine interiorizzata dell’altro invasiva, inaffidabile e predatoria. Poiché l’inconscio ha interiorizzato l’intimità con l’altro come pericolosa per il Sé, il narcisista si difende aderendo ad un’immagine idealizzata sia di Sé che dell’altro. Invece che vivere una relazione di profonda intimità, ciò comporta il relazionarsi con degli Altri poco invasivi che necessitano a loro volta di idealizzazione e che faranno da specchio al sé del narcisista. Tenendo l’altro ad una distanza di sicurezza dal Sé, questo gioco di specchi può andare avanti per molto tempo. Se il narcisista è di tipo positivo può cavarsela trovandosi un partner altrettanto narcisista e dedicarsi ad un gran numero di amici che forniranno esperienze di rispecchiamento positivo, in modo che non vi sia necessità di un coinvolgimento intimo più profondo. Il narcisista scinde il Sé in oggetti idealizzati e oggetti che non lo sono, questi ultimi o rivestono un modesto interesse, sono inutili, o sono rivestiti di odio e disprezzo. Spesso se l’Altro, inizialmente idealizzato, delude il narcisista, viene disprezzato e ricoperto di odio. In questo modo, proprio attraverso l’odio, il narcisista mantiene un collegamento con ciò che ha scartato. Proprio su questo aspetto Bollas sottolinea una distinzione diagnostica, narcisista positivo e narcisista negativo. Il narcisista positivo è meno disturbato e riesce a crearsi un mondo di legami sufficientemente appaganti; il narcisista negativo invece è la personalità che sottende un funzionamento psicotico. Nella forma negativa vediamo il fondamento del razzismo, del sessismo e del genocidio; il diverso da sè diviene una figura entro la quale depositare le parti non accettate del proprio sè, tenute a distanza attraverso la svalutazione, il disprezzo e nei casi più gravi la distruzione e uccisione dell’altro. Dal punto di vista clinico, per il narcisista l’analisi può essere l’opportunità per vivere una relazione di reale intimità ma, affinchè ciò accada, è necessario attraversare un iniziale transfert idealizzante. Poi, come sostiene anche Kouth, si verifica la crisi effettiva, quando il paziente si sente deluso sia dall’analista, sia dal Sè. Generalmente a questo punto, se tutto va bene, tale delusione porta ad una realizzazione, ovvero la consapevolezza profonda che nè il Sè nè l’altro sono perfetti e alla conquista di una maggiore intimità relazionale.

Il saggio procede attraverso l’analisi della personalità borderline. Si tratta di una persona con un dolore mentale intenso e costante e, diversamente dal narcisista, egli sembra non volersene liberare, ma anzi di ricercarla. Nella personalità border è necessario un altro al quale possa essere attribuito questo dolore, per questo si trova spesso a vivere relazioni, anche di lunga durata, estremamente turbolente e conflittuali. La personalità borderline non possiede un senso definito di identità, che appare indefinita e frammentata. Avendo interiorizzato una figura dell’altro come turbolento e inaffidabile, riesce a percepire un senso di sé dal legame con un altro che “arreca disturbo”. Bollas sottolinea come non sia chiara per questa personalità la distinzione tra l’altro reale, l’altro interiorizzato e le proprie emozioni; al clinico arriva un tutt’uno indifferenziato. Se una personalità border potesse definirsi – Bollas sostiene – direbbe “sono la turbolenza dell’altro e come suo effetto a posteriori stabilisco con lui un legame di attaccamento”. È proprio attraverso la turbolenza che il border cerca di trovare il proprio posto nel mondo. Se l’Altro si identifica nel ruolo di salvatore e cerca di offrire aiuto al border, spronandolo all’indipendenza, il border si sente inconsciamente profondamente minacciato e reagisce attaccando l’altro e trasformando gli sforzi benevoli dell’altro in vissuti persecutori che vengono trasmessi attraverso comportamenti dannosi per il Sé e per l’altro. In questo modo il border fa sentire l’altro confuso, proprio come internamente si sente lui/lei. Dal punto di vista clinico, Bollas ritiene che un paziente border può tollerare l’interpretazione degli assiomi del proprio carattere, ma il clinico deve essere pronto a scontrarsi con il feroce tentativo del paziente di impedire che questo avvenga. Superata questa fase, se il paziente continua l’analisi, sarà possibile approfondire anche altri aspetti e costruire un senso di sé più solido e una percezione dell’altro differente.

Con il termine di personalità maniaco-depressiva, Bollas fa riferimento a quello che oggi viene più comunemente chiamato disturbo bipolare. Una persona è bipolare quando il suo umore oscilla tra estremamente elevato ed estremamente basso. Tutti noi quotidianamente abbiamo alti e bassi e sperimentiamo delle oscillazioni dell’umore, ecco gli alti e bassi del bipolare non sono questo tipo di sbalzi d’umore. Dal punto di vista psicoanalitico, quali sono gli elementi strutturali della personalità bipolare? Secondo l’autore le persone che sviluppano un disturbo bipolare, hanno vissuto all’interno di una famiglia molto piatta emotivamente, depressiva, dove le emozioni erano coperte da un velo costante di apatia. I pochi momenti entusiasmanti e carichi di emozione vengono vissuti dal bambino intensamente e in modo travolgente. Generalmente sono bambini che si sentono diversi e distanti dai propri coetanei e frequenti sono i momenti di ritiro solitario dove i propri pensieri e le proprie fantasie diventano un mondo consolatorio ed eccitante. Sono bambini molto intelligenti con idee creative, che vengono poco accolte dall’ambiente famigliare, svalutante nei confronti di questi momenti di vitalità del bambino. Il sè del bambino interiorizza questa svalutazione, si identifica con essa, inizia a prendere forma così il nucleo depressivo. Con l’arrivo dell’adolescenza, il futuro bipolare, scopre la musica, la lettura, i film e spesso essi diventano il suo mondo e le menti degli scrittori e dei registi diventano gli altri ai quali si sente più vicino, come se si creasse una connessione tra la sua mente e le menti che hanno creato le opere a cui si appassiona. Ed è proprio in questa fase che scopre una sensazione di grandiosità se lascia andare la mente, scrivendo o parlando, dando libero sfogo ai pensieri; si struttura così la componente grandiosa difensiva “io appartengo alle grandi menti, sto seguendo un cammino differente. Poi improvvisamente le luci si spengono, era solo un sogno”. Dal punto di vista clinico, Bollas è un forte sostenitore dell’utilità della terapia per questo tipo di pazienti. Il lavoro richiede molto tempo e molta pazienza, sopportando spaventosi alti e bassi, ma questo fa sì che i due aspetti del Sé (quello grandioso e quello depressivo) possano essere messi sempre di più l’uno a contatto con l’altro. Citando Bollas “la normale salute è inconfondibile, ma anche deludente. Non si può avere tutto.”

 

Perché alcuni individui sono più gelosi di altri?

Uno studio di Kupfer e colleghi (2022) ha cercato di studiare la gelosia in gemelli monozigoti e dizigoti per stimare la misura in cui gli effetti genetici, gli effetti ambientali condivisi o gli effetti ambientali non condivisi sono alla base delle differenze esistenti.

 

La gelosia romantica è provocata dalla percezione di minacce nella relazione romantica, come ad esempio la percezione che il proprio compagno sia romanticamente interessato ad un’altra persona, o che qualcuno sia interessato al proprio compagno (White, 1981). Tale gelosia viene interpretata evolutivamente come un comportamento volto a scoraggiare tali minacce, motivando i comportamenti di protezione del compagno, come l’aumento della vigilanza o l’aggressione diretta al partner.

Si pensa che questi comportamenti riducano la probabilità di infedeltà o di abbandono del compagno, aumentando così il successo riproduttivo (Buss & Shackelford, 1997).

Negli ultimi tre decenni di ricerca sulla gelosia, gli autori si sono concentrati soprattutto sulle differenze di genere, scoprendo che la gelosia maschile è suscitata più dalla minaccia di infedeltà sessuale del compagno e la gelosia femminile dall’infedeltà emotiva (Buss et al., 1992). Sebbene questi risultati siano importanti per meglio comprendere questo costrutto, hanno apportato poche nuove informazioni sulle fonti delle differenze individuali nella gelosia. Eppure la ricerca mostra che le persone variano considerevolmente nella loro tendenza a provare gelosia, anche all’interno dei sessi (White, 1981).

Gelosia e attaccamento

Secondo la teoria dell’attaccamento, le aspettative degli adulti sulle relazioni romantiche – e le loro risposte a queste aspettative, come l’ansia da abbandono – sono trasmesse dai genitori durante l’infanzia (Bowlby, 1969; Verhage et al., 2016; Barbaro et al., 2017). A loro volta, queste aspettative possono determinare reazioni emotive, compresa la gelosia, verso le minacce percepite nelle relazioni (Mikulincer & Shaver, 2005). Seguendo questa ipotesi di trasmissione, i membri della famiglia possono mostrare somiglianze nella gelosia perché sono esposti agli stessi modelli di attaccamento dagli stessi genitori. Inoltre, queste somiglianze non dovrebbero essere interamente spiegate da somiglianze genetiche, cioè dovrebbero risultare da influenze ambientali familiari condivise.

Ma come mai alcune persone sono più gelose di altre? A quali fattori è riconducibile questa differenza? Uno studio di Kupfer e colleghi (2022) ha cercato di studiare la gelosia in gemelli monozigoti e dizigoti per stimare la misura in cui gli effetti genetici, gli effetti ambientali condivisi (ad esempio, la genitorialità), o gli effetti ambientali non condivisi (ad esempio, le esperienze di relazione romantica) sono alla base delle differenze esistenti. Secondariamente, gli autori hanno voluto indagare l’influenza di tre variabili: la discrepanza del “valore del compagno” (discrepanza tra il valore che attribuisco al mio compagno e a me stesso), l’affidabilità del partner e l’orientamento sociosessuale dell’individuo (Buss, 2013). I risultati suggeriscono che una maggiore discrepanza nel valore del compagno è associata a una maggiore gelosia (Sidelinger & Booth-Butterfield, 2007) e a più frequenti comportamenti di protezione del compagno motivati dalla gelosia (Buss & Shackelford, 1997). Questo potrebbe essere dovuto al fatto che pensare di avere un partner con un “valore di coppia” superiore al proprio può aumentare la minaccia di infedeltà, perché il partner suscita più interesse da parte dei rivali e può essere più capace di passare a un compagno di valore superiore (Buss, 2013). Inoltre, la gelosia aumenta quando il comportamento del partner indica una maggiore probabilità di infedeltà, come quando flirta con un’altra persona (Dijkstra et al., 2010). Di conseguenza, esperienze passate di infedeltà sono correlate ad un aumento della gelosia, soprattutto tra gli uomini (Bendixen et al., 2015). Al contrario, la sensazione che il partner sia degno di fiducia è associata negativamente alla gelosia (Kemer et al., 2016). Per quanto riguarda l’orientamento sociosessuale, le persone che perseguono relazioni più esclusive hanno più da perdere dal tradimento o dalla sola minaccia che possa accadere, poiché la loro forma fisica dipende maggiormente dalla riproduzione con un solo compagno. Quelli con un orientamento sociosessuale più ristretto potrebbero quindi sperimentare una maggiore gelosia (Brase et al., 2014), sebbene diversi studi non abbiano rilevato questa associazione.

I risultati ottenuti suggeriscono che le persone differiscono nella gelosia in parte a causa di influenze genetiche, ma soprattutto a causa di influenze ambientali non condivise. Nel complesso, il 29% della variazione della gelosia è attribuibile a fattori genetici, mentre il resto è attribuibile all’ambiente non condiviso, in linea con quelli di Walum e colleghi (2013). Anche se le donne hanno riportato una gelosia maggiore rispetto agli uomini, la variazione individuale della gelosia all’interno dei sessi è stata influenzata in modo simile da fattori genetici e ambientali.

I risultati inoltre sembrano disconfermare le teorie relative all’attaccamento secondo cui i modelli mentali delle aspettative riguardo alle relazioni sono trasmessi dai genitori ai bambini, attraverso l’apprendimento durante l’infanzia (Barbaro et al., 2017), non riscontrando un’influenza dei fattori ambientali familiari, come la genitorialità, sulle variazioni nella gelosia.

Gelosia e rischio di infedeltà

Le prospettive evoluzionistiche di mate-guarding (termine che fa riferimento ai comportamenti che hanno l’obiettivo di mantenere le opportunità riproduttive e l’accesso sessuale a un compagno), ipotizzano che la gelosia dovrebbe essere principalmente influenzata da fattori che aumentano il rischio di infedeltà da parte del proprio compagno (Buss, 2013). Questi sono spesso variabili socio-ecologiche (ad esempio, l’attrattiva del proprio compagno, o il numero di rivali nel proprio ambiente) che presumibilmente derivano più dall’ambiente non condiviso che dall’ambiente condiviso. I risultati di Kupfer e colleghi (2022), sostenendo questa ipotesi, hanno scoperto che le differenze nella gelosia sono influenzate soprattutto dall’ambiente non condiviso.

La gelosia è risultata ereditabile per il 29% e le influenze ambientali non condivise spiegano la varianza rimanente. Per le altre tre variabili indagate nello studio, i risultati hanno mostrato che i più forti predittori di gelosia erano l’atteggiamento e il desiderio sociosessuale più limitato. Inoltre, la predittività era più forte per le persone in una relazione e per le donne. Gli individui socio-sessualmente più limitati potrebbero essere più coinvolti in meno relazioni e più motivati a proteggerle e, quindi, provare più gelosia in risposta ai segnali di minacce di infedeltà (Brase et al., 2014; Buss, 2013). All’interno delle coppie di gemelli monozigoti, il gemello con un desiderio sociosessuale più ristretto e meno fiducia nel partner rispetto al suo co-gemello ha sperimentato una gelosia significativamente maggiore.

Inoltre, le persone che hanno riferito di essere state tradite in passato, quelle tradite nella loro attuale relazione o che hanno riportato di avere una minore fiducia nel proprio partner hanno riportato una maggiore gelosia. Pertanto, i risultati suggeriscono che le variabili che valutano la probabilità di infedeltà di un compagno (fiducia ed esperienze reali di infedeltà) influenzano particolarmente la gelosia sperimentata.

Infine, coerentemente con studi precedenti (Buss & Shackelford, 1997; Sidelinger & Booth-Butterfield, 2007), gli individui che hanno riportato un valore (per sé stessi) inferiore a quello attribuito al loro partner hanno riportato una gelosia maggiore. È interessante notare che, esaminando le associazioni solo tra i gemelli monozigoti, queste non risultavano esser significative, rendendo poco plausibile quindi la possibilità che la relazione riscontrata possa essere dovuta a geni simili che influenzano sia la discrepanza nel valore personale e del partner che la gelosia sperimentata.

In conclusione, lo studio conferma che le persone differiscono tra loro nella gelosia in parte a causa di influenze genetiche, ma soprattutto a causa di influenze ambientali non condivise. Discernere le cause della variazione della gelosia è un passo importante per affrontare le conseguenze socialmente dannose della gelosia, come la violenza domestica e l’omicidio.

 

Il trattamento della tricotillomania negli adolescenti

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo ‘Un diavolo per capello! Il trattamento della tricotillomania negli adolescenti” che affronta gli elementi caratterizzanti ed operativi dell’intervento cognitivo-comportamentale per adolescenti con tricotillomania.

 

La tricotillomania è un disturbo poco conosciuto e frequentemente sottodiagnosticato, caratterizzato dallo strappo ripetitivo di capelli e/o peli, tentativi ripetuti di diminuire o interrompere il comportamento di rimozione e disagio con compromissione significativa nelle aree funzionali di vita.

Le conseguenze di questa difficoltà, spesso incrementali nel tempo, comportano problematiche relative alla salute fisica (irritazione, alopecia autoindotta, affaticamento muscolare e dolore cronico) ed agli aspetti psicologici e sociali (tono dell’umore deflesso, ruminazione rabbiosa, forte vergogna, ritiro dai contesti di socializzazione, disimpegno nelle attività quotidiane). Una tale delineazione di faticabilità trova acuizione a causa della particolare fase evolutiva vissuta, se ad essere affetto da tricotillomania è un adolescente. In questa età la mediazione corporea è fondamentale nell’interazione con l’altro e nell’identità sociale faticosamente in costruzione.

Frequentemente le strategie di fronteggiamento promosse dai genitori o dai ragazzi stessi quali il ritiro sociale, il controllo diurno e notturno, il camuffamento mediante l’utilizzo di make-up o vestiario particolari o acconciature sistemate ad hoc per nascondere aree diradate, finiscono per cronicizzare senza efficacia la problematica vissuta non affrontata negli aspetti emotivi e relazionali spesso causativi e di mantenimento nell’evoluzione del disturbo.

Durante l’episodio si esplorano gli elementi caratterizzanti ed operativi dell’intervento cognitivo-comportamentale per adolescenti con tricotillomania.

 

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Integrazione e inclusione dei bambini stranieri nelle scuole italiane

Supportare l’integrazione dei bambini migranti attraverso un buon supporto sociale può aiutarli in questa loro transizione di vita ed evitare lo sviluppo di disturbi psicologici.

 

Introduzione

In letteratura è stata constatata, negli anni, la trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione, con in essa una quantità diversa di densità migratoria a seconda delle varie regioni e città, ma pur sempre presente. Per promuovere l’integrazione effettiva di bambini e adulti immigrati occorre garantire politiche mirate di inclusione, nei vari ambienti sociali. Nel caso dei primi anni di vita e di crescita, un ruolo chiave nel processo di inserimento sociale è svolto dalla scuola, una delle principali agenzie di formazione, la quale deve assicurare aule integrate ove vi sono più gruppi culturali insieme e seguire strategie atte a diminuire i tassi di abbandono scolastico di bambini migranti. Inoltre, essa deve tener conto delle storie di migrazione e delle biografie linguistiche differenziate possedute dai bambini stranieri attualmente presenti tra i banchi delle scuole italiane. La letteratura di riferimento conferma che l’inclusione sociale, linguistica e scolastica di minori stranieri è favorita da un’acquisizione della seconda lingua che inizia già nella fase prescolare. Pertanto, la promozione e l’inserimento dei bambini stranieri nella scuola dell’infanzia costituisce una delle misure che dà maggiori risultati positivi in questo contesto.

Aspetti psicologici

Vi sono alcuni aspetti psicologici legati alla possibile condizione di svantaggio socio-economico, linguistico e culturale dei bambini stranieri, la quale può riversarsi in difficoltà scolastiche e sociali per varie ragioni, quali ad esempio la difficoltà a comprendere la lingua, la paura sociale di essere considerati come estranei, il terrore di essere giudicati, la preoccupazione per le proprie capacità linguistiche e il timore che gli altri possano essere più capaci e abili.

Per tale ragione, è possibile che tali bambini sperimentino nel loro percorso ansia generale, sociale e linguistica.

Tutto questo può essere associato ad una mancanza di fiducia e ad un’identità non definita. Infatti, anche gli aspetti legati all’identità sociale si complicano nella situazione dei bambini stranieri in quanto loro devono identificarsi con il loro gruppo di origine e con quello nuovo presente nel contesto di arrivo. Tali problematicità possono sfociare in problemi psicologici e comportamentali.

Ricevere un buon supporto sociale può invece aiutare i bambini migranti in questa loro transizione di vita ed evitare lo sviluppo di disturbi psicologici. Gli stessi educatori ed insegnanti, sia della scuola materna che della scuola primaria, devono porre attenzione a questi aspetti e cercare di stimolare e coinvolgere il bambino, oltre a creare un ambiente positivo, affinché egli non sviluppi problemi di apprendimento o comportamentali.

Linguistica acquisizionale e interlingua

Le principali difficoltà con le quali devono scontrarsi i minori che arrivano in Italia da paesi stranieri sono la conoscenza e la comprensione della lingua italiana.

La complessità legata all’apprendimento di una lingua nuova, diversa da quella materna, è stata mostrata dagli studi di linguistica acquisizionale e la nozione di interlingua nasce proprio in rapporto agli sforzi di comunicazione verbale compiuti da colui che apprende una seconda lingua. È stato Selinker nel 1972 a dar vita alla teoria dell’interlingua, definendola come un sistema il cui obiettivo è rispettare delle regole, risultato da una grammatica mentale, cioè di un insieme di regole che possono essere ricondotte alla lingua materna (L1), alla lingua da apprendere (L2) e ai meccanismi mentali. Le ricerche condotte nell’ambito della linguistica acquisizionale hanno rivelato che, anche se vi sono percorsi di apprendimento vari e individuali, sussistono delle sequenze fisse di acquisizione, che sono obbligatorie per coloro che apprendono e devono essere seguite con lo stesso ordine, seppur in tempi alquanto differenti o con esiti finali più o meno avanzati. Infatti, gli esseri umani sin dalla loro nascita, hanno la capacità di apprendere una lingua, ma i metodi che consentono di giungere alla conoscenza di un dato sistema linguistico variano. Tale diversificazione dipende da fattori quali l’età, la natura dell’input e l’aver intrapreso il compito per la prima volta (acquisizione della prima lingua) o meno (acquisizione della seconda lingua). D’altronde, nonostante le strutture da acquisire siano complesse e gli input da ricevere siano piuttosto devianti, i bambini sono in grado di apprendere la lingua madre con un’evidente facilità e velocità, seppur la capacità di apprendere una seconda lingua non è esclusiva dei bambini, in quanto tale apprendimento è possibile durante ogni tappa della vita.

Acquisizione linguistica

Per quanto concerne l’acquisizione della prima lingua, quest’ultima è la lingua che ogni essere umano acquisisce a partire dalla nascita e permette lo sviluppo mentale ed emotivo. Nel caso di bambini o adolescenti stranieri risulta essere importante anche l’acquisizione della seconda lingua, che è “il processo mediante il quale le persone sviluppano la padronanza di un’altra lingua, straniera” (Richards et al., 1985, p. 252). Nel processo di apprendimento e di acquisizione di una seconda lingua, diviene indispensabile la grammatica interlingua, ossia l’uso delle regole grammaticali della lingua già appresa che si integrano con la nuova lingua. L’acquisizione della seconda lingua è influenzata da svariati fattori, tra cui la motivazione e il desiderio di imparare una lingua, l’età, l’intelligenza, l’attitudine, cioè l’abilità naturale posseduta nell’apprendere una nuova lingua e l’autostima; infatti, riguardo quest’ultima, è stato scoperto che se gli individui hanno una concezione positiva di sé e delle proprie capacità, impareranno più facilmente una seconda lingua.

Strategie per l’apprendimento didattico e metodi per imparare e arricchire il lessico

Attualmente, una sfida importante per il sistema scolastico italiano, anche in seguito alla catastrofica guerra in corso in Ucraina in questi mesi del 2022 e al trasferimento in Italia di molteplici bambini e madri provenienti dalla nazione bellica, è proprio l’integrazione dei minori di cittadinanza straniera. Un momento considerevole di inizio dei percorsi didattici deve essere dedicato all’accoglienza dei bambini stranieri, anche attraverso canzoni danzanti e presentazioni pittoriche, saluti fatti di grandi sorrisi al fine di consentire un loro primo inserimento in un contesto nuovo. Questo può essere permesso dall’insegnamento del valore della diversità ai bambini italiani in un’ottica di accettazione dell’altro, dunque di integrazione, e dalla professionalità dei docenti o educatori. La scuola deve, in ogni momento, rappresentare il luogo dove le disuguaglianze esistenti si riducono e la socializzazione è consentita. Spesso i bambini stranieri, a causa delle condizioni economiche delle famiglie di origine, sono esposti ad una “povertà educativa”, ma la scuola può costituire per loro un’occasione di contatto con la cultura e le istituzioni del paese ospitante. Le figure professionali presenti a scuola, nella fase di acquisizione della seconda lingua, devono rispettare i tempi del bambino e dare lui gradatamente input linguistici che siano rilevanti. Oxford (1990) ha definito delle strategie di apprendimento linguistico, ovvero azioni specifiche e intenzionali attuate dagli alunni per far sì che diventino abili in una determinata lingua e che consentono di facilitare l’interiorizzazione, l’immagazzinamento, il recupero o l’uso delle nuove conoscenze linguistiche. Diversi studiosi hanno cercato di classificare le strategie di apprendimento linguistico, ma in generale vi è un accodo sul considerare tra strategie didattiche per l’apprendimento dell’italiano, come anche di altre lingue, il rispetto dei ritmi di apprendimento dell’alunno, facendo attenzione a non causare “affaticamento”, la capacità di diluire l’input linguistico, alternandolo con attività un po’ più semplici, l’imitazione ed infine, ma non per importanza, la pratica. Un’altra strategia che si configura molto efficace è quella del gioco, il quale crea un ambiente collaborativo e interattivo, stimola il bambino ad apprendere, garantisce elevati livelli di motivazione ad apprendere e fa sì che il bambino mantenga un’attenzione costante rispetto a ciò che sta facendo. Con il gioco, molto proposto nelle scuole materne e nelle strutture educative, il bambino può assimilare suoni e imparare un lessico. Nell’asilo nido e nella scuola dell’infanzia, la dimensione orale appare come una condizione rilevante della comunicazione e dello sviluppo del linguaggio e i bambini stranieri sono immersi in un ambiente pieno di input, che permette loro di realizzare sin da subito l’apprendimento della lingua, oltre che lo sviluppo dal punto di vista cognitivo. Per poter apprendere una nuova lingua, è necessario che i bambini abbiano del tempo settimanale a disposizione, anche qualche ora, due o tre volte a settimana, per narrare, ascoltare, imparare il nuovo vocabolario e comunicare con gli altri. Pertanto, è fondamentale che la scuola abbia uno spazio riservato alla narrazione e all’ascolto di storie e alla conversazione tra pari o tra un adulto e un bambino e che queste attività avvengano in modo tranquillo e sereno; ad esempio si possono proporre laboratori di lettura o scrittura, a seconda dell’età, durante i quali si fanno sedere i bambini tutti in cerchio. Per poter comunicare o decifrare un messaggio, assume rilievo anche la conoscenza del lessico, delle parole giuste da dire. Per tale ragione, a scuola si devono conoscere i metodi per arricchire il lessico, ossia denominare le cose, le persone e i luoghi presenti nelle situazioni comuni e trovare i sinonimi e contrari delle parole, ma anche i nomi derivati e alterati, o ancora indovinare cosa rappresenta quella determinata parola e a cosa serve. Per consentire al bambino di conoscere la dimensione temporale dei racconti o degli eventi sulla base del presente, passato o futuro, si fa spesso ricorso alla visualizzazione di album fotografici. Infine, affinché si migliori la pronuncia, che è uno degli aspetti più complessi, sono necessari parecchi anni e si devono ascoltare e ripetere parole o frasi più volte. Per questo scopo si può far ascoltare al piccolo delle canzoni, filastrocche o poesie all’inizio molto corte. Il tempo che l’insegnante dedica al bambino per dargli input linguistici e il contesto in cui viene vissuta l’esperienza fanno la differenza. Per quanto concerne il fattore tempo, è importante che l’avvicinamento alla lingua da apprendere sia ampio e continuativo e che si verifichi attraverso interventi brevi, ma fatti con costanza. A questi elementi si aggiunge poi la predisposizione dell’apprendente relativamente ai fattori di personalità, temperamentali e caratteriali.

Mantenimento della lingua e cultura di origine

Importante può diventare per i bambini stranieri anche mantenere un riferimento con la propria cultura e lingua di origine, soprattutto quando quest’ultima è già stata acquisita. Spesso, infatti, l’arrivo in una nuova nazione e la graduale acquisizione della lingua parlata in essa, può far dimenticare quasi del tutto la lingua appresa nel proprio ambiente natale. Se la lingua madre viene parlata con i propri genitori e fratelli, essa viene mantenuta maggiormente, ma questo non sempre avviene. Per tale motivo, la scuola può attivare percorsi didattici finalizzati alla valorizzazione di culture differenti e alla presentazione delle abitudini quotidiane della cultura d’origine dei bambini stranieri presenti nelle aule. Soprattutto, il mantenimento della lingua materna consentirebbe al bambino straniero di avere una conoscenza bilingue, o in alcuni casi plurilingue, molto utile nei contesti lavorativi in futuro. Un aspetto legato al plurilinguismo è quello del dialetto locale da inserire nel repertorio linguistico. Gli stranieri nati in Italia lo hanno sentito maggiormente e lo fanno proprio nel corso degli anni, ma può divenire importante ai fini dell’inclusione sociale insegnarlo anche a coloro che in Italia ci arrivano in un’età più tardiva. Ovviamente i cittadini stranieri possiedono una diversità linguistica a seconda della loro provenienza geografica. La scuola italiana, quindi, deve sviluppare un plurilinguismo equilibrato, analizzando il vissuto linguistico di tutti i bambini, al fine di potenziare lo sviluppo delle abilità relative alle due lingue durante le varie attività, scolastiche ed extrascolastiche.

Conclusioni

Nel contesto attuale, i bambini presenti nelle classi italiane provengono da tutte le parti del mondo. La scuola, negli ultimi anni, rappresenta perciò un contesto educativo multiculturale e plurilingue. Essa deve permettere ai bambini stranieri una buona integrazione e una positiva inclusione attraverso la proposta di strategie didattiche e metodologie anche innovative. I bambini stranieri, ma anche quelli italiani, attraverso lo sviluppo di una competenza bilingue precoce, possono crearsi scenari e prospettive di vita inedite, ma questo è favorito dal supporto sociale ricevuto durante l’apprendimento delle lingue, che possono offrire agenzie formative attente ai bisogni di tutti i bambini.

La guerra come malattia. Storia del disturbo da stress post traumatico

Anche prima di una rigorosa definizione scientifica il disturbo da stress post traumatico era comunque ampiamente documentato, anche se non ampiamente compreso.

 

 Sono presenti testimonianze della sintomatologia del disturbo da stress post traumatico nell’epopea di Gilgamesh e nell’Iliade, ma all’epoca non esisteva ancora la psicologia scientifica perciò, solo con l’avvento della prima guerra mondiale si cominciò ad analizzare clinicamente il PTSD.

Inizialmente non si imputava e non si voleva imputare la guerra come possibile fattore scatenante del PTSD. Si parlava di febbre/mal di trincea, di shell Shock, di vento degli obici e come cause si ipotizzavano danni al sistema nervoso per via dell’esposizione a forti rumori, onde d’urto dei bombardamenti e l’avvelenamento da monossido di carbonio (questa tesi era in particolar modo sostenuta da Charles Myers). Solo in seguito queste teorie vennero smentite, dato che anche i soldati lontani dai bombardamenti sviluppavano sintomi da PTSD, ossia difficoltà nel controllo delle emozioni, irritabilità, rabbia improvvisa o confusione emotiva, depressione, ansia, insonnia, perdita della percezione del sé e attacchi di panico, così si ipotizzò che i soldati affetti da PTSD avessero qualche disturbo latente che la guerra fosse in grado di slatentizzare. Ma anche queste teorie caddero nel vuoto così gli psicologi della scuola psicoanalitica (Freud, Victor Tausk, Karl Abraham, Sandor, Frenczi) e della scuola classica (Jean Lhermitte, William Rivers, Charles Myer e Thomas Solomon) iniziarono a ipotizzare che il PTSD, al tempo noto come nevrosi da guerra, avesse come eziologia l’esposizione ad intensi eventi bellici.

Questa nuova visione della guerra cambiò profondamente anche il metodo di trattamento della malattia, che fino ad allora veniva affrontata con massaggi, riposo, dieta appropriata e trattamento con scosse elettriche, oppure nel caso in cui si individuasse una possibile fonte psicologica, la terapia si basava sulla “cura della parola”, ipnosi e riposo. Ovviamente questo tipo di terapia non aveva nessuna efficacia. Difatti su 80.000 uomini trattati con queste terapie solo 1/5 fu considerato in grado di tornare al fronte. I pazienti non dovevano solo affrontare questa “tortura” clinica ma dovevano anche portare il peso di uno stigma sociale, erano visti come deboli, codardi ed effeminati, in Italia venivano scherniti, con il termine feroce quanto ingiusto di: scemi di guerra. Con l’inizio della guerra in Vietnam il PTSD si iniziò a manifestare in proporzioni sempre più ampie. E alla fine del 1970 si riuscì a ottenere l’inserimento del PTSD nel DSM. Oggigiorno i sintomi del PTSD sono divisi in quattro categorie:

  • Sintomi di intrusione: pensieri e ricordi che si ripetono in maniera involontaria.
  • Evitamento: le persone affette da PTSD possono evitare persone, luoghi o cose che li riportano all’evento traumatico.
  • Cambiamenti negativi dei pensieri.
  • Cambiamenti nell’eccitazione e nella reattività.

Perciò si può sostenere che la guerra è un evento naturale, si pensi alla guerra che conducono alcune specie di formiche, ma l’essere umano è alienato dalla natura, con la sua elevata coscienza di sé e percezione delle cose può solo essere infettato dalla guerra e lentamente consumato. La guerra è per l’uomo un gas letale che lo consuma da dentro e gli fa bruciare gli occhi.

 

Consumo di tè e depressione: quali benefici?

Recentemente si è sviluppato un interesse scientifico per gli effetti del tè sulla cognizione e sull’umore, spingendo i ricercatori ad identificare i principali composti attivi del tè che possono aiutare ad alleviare i disturbi mentali tra cui la depressione, l’ansia e il declino cognitivo legato all’età.

 

Il disturbo depressivo maggiore è un disturbo mentale altamente debilitante che presenta una prevalenza di circa il 15% tra gli adulti nei paesi ad alto reddito (Bromet et al., 2011). È caratterizzato, tra gli altri sintomi, da un umore significativamente basso, anedonia e funzioni cognitive alterate, che diminuiscono gravemente la qualità della vita e il funzionamento sociale delle persone colpite (APA, 2013).

Anche in individui sani, i sintomi depressivi sub-clinici sono molto comuni (Gawlik et al., 2013). Sia la psicoterapia che il trattamento farmacologico mostrano dei limiti o delle resistenze per casi di depressione molto grave (Weitz et al., 2015); a causa di questi limiti, la ricerca di strade alternative per la prevenzione e per la cura della depressione è sempre più importante.

Depressione e stile di vita

Molti studi hanno testato l’influenza che possono avere determinati stili di vita sullo sviluppo e sul mantenimento di alcuni disturbi mentali, tra cui anche la depressione (Lange, 2018). Ad esempio, il consumo di diete di tipo mediterraneo, con un elevato apporto di verdura, frutta, semi, noci, cereali integrali e pesce, nonché basse quantità di alimenti trasformati, sembra essere associato negativamente al rischio di depressione, mentre le diete in stile occidentale, con elevate quantità di zucchero, grassi e alimenti trasformati, hanno dimostrato di essere correlate positivamente alla depressione (Opie et al., 2015). Sulla base di questi risultati, la ricerca si è sempre più focalizzata sui potenziali benefici terapeutici di vari bioattivi alimentari, tra cui antiossidanti, probiotici e acidi grassi polinsaturi, sui disturbi mentali tra cui la depressione (ad es, Lange et al., 2020). Un alimento potenzialmente benefico è il tè. Da tempo sono riconosciuti gli effetti stimolanti e calmanti della pianta del tè (Camellia sinensis), dato anche il frequente utilizzo nella meditazione o nel rilassamento. Solo recentemente però si è sviluppato un interesse scientifico per gli effetti del tè sulla cognizione e sull’umore, spingendo i ricercatori ad identificare i principali composti attivi del tè che possono aiutare ad alleviare i disturbi mentali tra cui la depressione, l’ansia e il declino cognitivo legato all’età (Camfield et al., 2014).

Studi epidemiologici hanno collegato il consumo di tè a livelli ridotti di stress psicologico (Hozawa et al., 2009) e depressione (Hintikka et al., 2005), sottolineandone inoltre effetti anti-infiammatori. Gli effetti del tè sulla depressione sono degni di esplorazione dal momento che il tè è una delle principali fonti di assunzione alimentare di polifenoli (Ferruzzi et al., 2010). I polifenoli contenuti nel tè, in particolare le catechine, sono in grado di entrare nel cervello e possono svolgere un ruolo protettivo contro lo sviluppo della depressione (Belmaker & Agam, 2008).

Depressione e consumo di tè

Nonostante alcuni studi su animali sostengano l’efficacia dei composti del tè rispetto ai sintomi depressivi (Shen et al., 2019), va sottolineato che la capacità dei roditori e di altri modelli animali di rappresentare gli stati mentali e i disturbi umani è limitata, e gli studi osservazionali sugli esseri umani, per quanto degni di nota, non possono stabilire delle relazioni causali. Gli studi di intervento clinico sugli esseri umani, in particolare gli studi randomizzati controllati con placebo, che valutano gli effetti del tè o dei suoi composti sulla depressione sono rari.

In uno studio di Zhang e colleghi (2013), la somministrazione orale di tè verde ha dimostrato di avere ridotto i punteggi di depressione rispetto ai controlli placebo. Questo risultato suggerisce che l’assunzione regolare di tè ogni giorno può contribuire a una riduzione del rischio di sintomi depressivi in persone sane. Un ulteriore studio di Hidese e colleghi (2017) ha testato l’effetto della L-teanina somministrata oralmente (in aggiunta agli psicofarmaci prescritti) per 8 settimane in soggetti con depressione maggiore che non avevano mostrato alcuna remissione con i soli farmaci antidepressivi. I risultati hanno dimostrato una riduzione significativa dei sintomi depressivi tramite i punteggi sulla Hamilton Depression Rating Scale (HAMD-21). Una possibile spiegazione degli effetti antidepressivi della L-teanina potrebbe essere legata alla riduzione dello stress.

La somministrazione di L-teanina si è rivelata funzionale anche nella riduzione dei livelli di cortisolo, nell’aumento di rilassamento dopo l’esecuzione di compiti che inducono stress e nell’aumento dell’attività oscillatoria alfa, cioè onde cerebrali a bassa frequenza che indicano una veglia rilassata in soggetti maggiormente ansiosi (White et al., 2016; Gomez-Ramirez et al., 2007).

Nonostante i risultati riportati, la scarsità di studi clinici disponibili non permette di trarre conclusioni sull’efficacia preventiva e terapeutica del tè sulla depressione. Saranno necessari studi controllati con placebo per confermare l’effetto antidepressivo dei composti contenuti nel tè.

Conclusioni

Quindi, in conclusione, la letteratura disponibile suggerisce che i composti presenti nel tè possono avere un potenziale sfruttabile per la prevenzione della depressione o nel suo trattamento come aggiunta alle terapie stabilite. Nonostante il tè mostri come sostanza delle componenti possibilmente antidepressive, fino a quando i meccanismi fisiopatologici della depressione sono poco conosciuti, una valutazione del ruolo dei composti del tè per quanto riguarda i correlati neurobiologici della depressione, come la disfunzione dell’asse HPA, neuroinfiammazione, alterata neuroplasticità e alterata neurotrasmissione monoaminergica, è difficile.

Nonostante la limitata conoscenza a riguardo, la L-teanina o i polifenoli, possono agire contemporaneamente e sinergicamente su più meccanismi fisiopatologici coinvolti nella depressione, e la messa a punto di queste attività potrebbe infine portare a una riduzione del rischio complessivo o effetto terapeutico per quanto riguarda questo disturbo.

Il miglioramento dell’umore osservato in persone sane non dovrebbe portare ad una sopravvalutazione dei possibili effetti clinici in individui con disturbo depressivo maggiore. Se gli effetti positivi sull’umore sono confermati, il consumo di tè potrebbe diventare un mezzo efficace in termini di costi a sostegno della salute mentale, per esempio nelle persone anziane. Futuri studi randomizzati sono necessari per stabilire una relazione causale tra depressione e composti bioattivi presenti nel tè.

 

L’ergoterapia in psichiatria: il caso “D.” e l’esperienza di Alteya

In Italia l’ergoterapia trova vari campi di applicazione e tra questi quello del trattamento dei disturbi mentali, sia dei soggetti istituzionalizzati sia presso il domicilio del paziente.

 

Gli interventi di ergoterapia o terapia occupazionale promuovono la salute ed il benessere attraverso l’occupazione. Si tratta di azioni di tipo riabilitativo che usano come mezzo principale il fare. La finalità dell’intervento è quella di migliorare l’adattamento fisico, psicologico e sociale delle persone che hanno una disabilità.

L’ergoterapia viene, da tempo, utilizzata con vantaggio in psichiatria ed in psicoterapia, ambiti in cui si ritrovano diversi modelli teorici e di prassi (Donatello M., Toffolo 2001).

Nel 1929 Herman Simon, modificando gli schemi medico-terapeutici del tempo, propose la rivalutazione, in senso curativo, del lavoro all’interno delle istituzioni psichiatriche. Il fare doveva divenire un mezzo di terapia specifico per riplasmarne la personalità dei pazienti (Simon H. 1929).

La storia dell’ergoterapia

Durante le due guerre mondiali, come documentato da Spackman, l’ergoterapia ebbe un notevole sviluppo tanto che, nel 1967 in Inghilterra, la maggior parte degli ospedali psichiatrici possedeva un laboratorio protetto, dove i pazienti svolgevano attività lavorative. Il lavoro era parte integrante del programma di riabilitazione psichiatrica (Spackman W. 1958; Watts e Bennett, 1983).

Nel 1978 Jacques sostenne che svolgere un’attività lavorativa richiede all’individuo di integrare le proprie aspettative inconsce con la realtà vissuta quotidianamente e questa integrazione permette di tollerare l’angoscia e l’incertezza. Secondo Jacques è proprio questa la potenzialità terapeutica del lavoro (Jaques E. 1978).

In Italia l’ergoterapia trova vari campi di applicazione e tra questi quello del trattamento dei disturbi mentali, sia dei soggetti istituzionalizzati sia presso il domicilio del paziente. La recente pandemia da Covid, oltre a generare un aumento dell’incidenza dei disturbi di tipo psichiatrico, ha imposto di ricorrere alla telematica per poter garantire agli utenti la prosecuzione dei trattamenti ergoterapici (Ascani C., Tamburro A. 2021).

Fare, è fonte di gratificazione e di soddisfazione personale. L’attività lavorativa, insieme alla vita affettiva e sociale, contribuisce a mantenere una buona autostima ed a definire se stessi (Pullia G. 2001). Secondo Carl Rogers e la psicologia umanista, centrata sulla persona, le motivazioni che spingono ogni individuo ad agire non sono istintuali ma derivano dal bisogno di conoscere e di realizzarsi (Rogers, C. R. 2012).

L’ergoterapia aiuta le persone con disabilità psichica a soddisfare questo bisogno.

L’applicazione dell’ergoterapia nella cooperativa sociale onlus Alteya

La RSA Villa Albani, una struttura pubblica, appartenente alla Asl Roma 6, in cui i servizi residenziali ed assistenziali sono gestiti dalla cooperativa sociale onlus Alteya; accoglie pazienti con patologie psichiatriche e fornisce un’assistenza che si rifà al modello bio-psico-sociale.

Tra i vari progetti realizzati, quelli per evitare l’utilizzo massivo di farmaci e per migliorare la qualità di vita dei pazienti, prevedono l’uso dell’ergoterapia. La realizzazione di questi interventi è stata preceduta da uno studio pilota, realizzato per ottimizzare l’intervento terapeutico in un caso di schizofrenia.

D. è un paziente schizofrenico di 56 anni con lieve deficit cognitivo che presenta un delirio persecutorio, umore instabile, crisi d’ ansia con agitazione psicomotoria e tabagismo. Esegue terapia farmacologica con antipsicotico, stabilizzatore del tono dell’umore ed ansiolitici. I dosaggi ed i principi attivi utilizzati per la terapia sono stati più volte modificati senza però ottenere un cambiamento sostanziale della sintomatologia. D. cerca di sedare la propria agitazione fumando e per contenere tale abitudine riceve un numero contingentato di sigarette giornaliere. Tutti i membri dell’equipe multidisciplinare hanno osservato che esistono alcune situazioni in cui la sintomatologia di D. si attenua indipendentemente dai farmaci. Si tratta dei momenti in cui vengono svolte attività di vita quotidiana (allestire la tavola, raccogliere i rifiuti ecc.) all’interno della struttura o quando vengono effettuati laboratori o attività al di fuori della struttura. Ogni volta che D. rimane inoperoso aumenta la probabilità che manifesti un delirio o una crisi d’ansia. Supportata da queste osservazioni, l’equipe ha ideato un progetto personalizzato per un intervento di ergoterapia. È stato concordato con D. che si sarebbe occupato, nel primo pomeriggio, della pulizia del cortile antistante la RSA. Al termine del lavoro avrebbe potuto effettuare una pausa per consumare un caffè e fumare una sigaretta. La pausa è stata concepita all’interno del progetto come un rinforzo positivo per aumentare e consolidare l’adesione di D. all’intervento ergoterapico. Inoltre sono stati forniti a D. una tuta da lavoro, dei guanti e degli strumenti professionali per la pulizia, testimonianza dell’importanza che l’equipe dà all’attività che D. deve svolgere. Gli operatori quotidianamente sottolineano l’importanza del lavoro di D., che permette a tutti di soggiornare in un luogo più pulito ed accogliente. Analogamente a quanto osservato in altre situazioni, quando D. è impegnato nell’ergoterapia i suoi sintomi diminuiscono per frequenza ed intensità.

Alcuni altri pazienti, con lieve deficit cognitivo, ospitati nella RSA osservando D. hanno spontaneamente richiesto all’equipe di “poter lavorare”. Attualmente si stanno approntando diversi altri progetti individuali di ergoterapia per i pazienti ospitati presso Villa Albani.

 

Paura: lezioni di sopravvivenza dalla natura selvaggia – Recensione

Adottare la paura come unico pattern comportamentale non consentirà di evitare le stesse conseguenze disadattive da cui, proprio con un eccesso di prudenza, si cerca di difendersi.

 

In assenza della paura gli istinti di sopravvivenza e autoconservazione risulterebbero senza dubbio meno “garantiti”. La storia, e anche questa opera di Blumstein, lo dimostrano ampiamente. Ma ad onor del vero non è solo l’aspetto opportuno e opportunistico della paura ad essere evidenziato nel testo.

L’intento dell’autore, ben più onesto ed equilibrato, è volto mettere in luce un risultato scientifico che attribuisce alla paura un aspetto dicotomico e tuttavia non contraddittorio: da una parte si tratta di un mezzo di autodifesa utile alla sopravvivenza della specie, e dall’altra di un invalicabile limite alla gratificazione di bisogni primari. A partire da quello riproduttivo e di nutrimento.

L’abilità dell’essere umano, come dell’animale, è proprio quella di accettare questi aspetti senza schierarsi in favore di uno o dell’altro in una sorta di difesa ad oltranza, ma imparando piuttosto a sfruttare gli effetti vantaggiosi di entrambi, massimizzando i guadagni e limitando il più possibile le perdite.

L’aspetto salvifico della paura

Per evidenziare il valore adattivo della paura l’autore si affida ad efficaci esemplificazioni tratte dal mondo animale. Esperienze di vita che si susseguono lungo i dodici capitoli complessivi, dai quali è possibile intravedere non soltanto la pluriennale esperienza di Blumstein in campo etologico, ma anche le numerose affinità, istintuali e genetiche, che ci accomunano al mondo animale.

In primo luogo l’effetto difensivo della paura.

È grazie allo stato di allerta imposto dalla paura che un branco può proteggersi dall’attacco di predatori, mantenersi indenne dai numerosi rischi connessi all’habitat naturale e garantirsi una maggiore possibilità di fitness. Cadere nella trappola del predatore comporta non soltanto la perdita della vita, ma anche della possibilità di riprodursi, assolutamente prioritaria nell’animale come nell’uomo.

Dunque è necessario non solo difendersi, ma farlo prima e meglio possibile.

Per riuscire in questa quotidiana e mai scontata missione di sopravvivenza, anche gli animali si avvalgono di un apparato biologico naturalmente predisposto alla vigilanza, all’arousal, alla risposta ambientale modulante, grazie alla quale una semplice condotta di prudenza può trasformarsi in una fuga salvifica o in un attacco difensivo.

È la scelta imposta del fight or flight, processo che attiva quella serie di competenze muscolari, motorie e circolatorie necessarie ad una fuga o ad uno scontro, inibendo tutte le altre (Alcock, Rubenstein, 1975). E al di là di un efficace supporto sensoriale- un allarme può essere agevolmente identificato anche attraverso l’utilizzo di vista, udito, olfatto-  la paura può contare anche su un apposito substrato mnestico, grazie al quale gli stimoli pericolosi vengono immagazzinati e rievocati al momento opportuno, in una sorta di apprendimento esperienziale in grado di modificare i comportamenti non soltanto hic et nunc, ma anche e soprattutto sul lungo termine.

Ma scappare non è sempre possibile.

Talvolta il predatore è così vicino che sfuggirgli è praticamente impensabile, e l’attivarsi del complesso e dispendioso processo di risposta simpatica causerebbe più perdite che guadagni. Ce lo insegna l’opossum, che per difendersi da una cattura ormai inevitabile utilizza la strategia della tanatosi: in pratica si finge morto, sperando che il predatore non sia disposto a cibarsi della carne di una preda già morta, forse già in putrefazione e potenzialmente tossica (Manning, Stamp Dawkins, 2015). Con un po’ di fortuna l’opossum riuscirà a salvarsi senza aver sprecato preziose energie in una fuga impossibile, se non addirittura dannosa.

Da qui il sorgere della domanda che nel corso del testo si reitera con puntuale frequenza: avere paura è sempre utile? O ci sono casi in cui la paura si rivela più pericolosa del rischio stesso?

La risposta si genera da sola, gradualmente, attraverso l’analisi di dati che si susseguono in una sorta di maieutica socratica, latrice di una verità già molto evidente.

L’altra faccia della medaglia

La paura genera una risposta neurochimica altamente adattativa che coinvolge parti specializzate del cervello, una serie di circuiti neuronali specializzati e un mix di molecole – ormoni e altre sostanze chimiche – che viaggiano tra le cellule nervose tramite le sinapsi e attraversano il sistema circolatorio per modulare un’ampia gamma di risposte (Blumstein, p. 25).

I correlati biologici della paura ne convalidano l’innato valore adattivo; ma testimoniano anche come, nel corso dei millenni, gli esseri viventi siano stati oggetto di mutamenti genetici imposti dal trasformarsi delle condizioni ambientali, in una sorta di selezione darwiniana che ha garantito la possibilità di fitness soltanto alle caratteristiche genetiche maggiormente flessibili.

Appare chiaro che, di fronte a questa mutevolezza di scenari e contesti, la paura debba mostrarsi egualmente flessibile. Per continuare a mantenere il proprio valore opportunistico, essa non deve risultare una risposta massiva o aprioristica, ma un pattern reattivo da attuare soltanto nei casi di necessità, quando la sua assenza costituirebbe un autentico rischio per la sopravvivenza.

Contrariamente gli effetti potrebbero risultare dannosi. Specie sul lungo termine. Uno stormo di rondini che, spaventato dall’arrivo del predatore lascia indietro il cibo, si garantirà forse una possibilità di sopravvivenza, ma volerà via a stomaco vuoto. E se questa scelta prudenziale si ripeterà troppo spesso, la fame diventerà un sicario non meno spietato di un rapace bramoso. Riprodursi sarà difficile per coloro che, nel tentativo di approvvigionarsi, verranno attaccati dal predatore. Ma sarà altrettanto complicato per quegli animali che sceglieranno di scampare il pericolo predatorio rinunciando continuamente ad occasioni di nutrimento.

Adottare la paura come unico pattern comportamentale non consentirà di evitare le stesse conseguenze disadattive da cui, proprio con un eccesso di prudenza, si cerca di difendersi. Se un individuo scappa troppo presto, perde un’opportunità. Se scappa troppo tardi, il predatore potrebbe riuscire nel suo intento (Blumstesin, p. 115). Il risultato non è mai garantito, né il rischio sempre evitato. È un gioco di equilibri che coinvolge prede e predatori, e comporta valutazioni di natura prettamente economica: quando il costo della fuga è maggiore dei benefici dalla stessa apportati, non è il caso di mettersi a correre. Sarebbe un inutile spreco di energia.

La specie animale, come quella umana, deve prediligere un comportamento volto a massimizzare in ogni circostanza le risorse vitali e riproduttive:

In altre parole, gli animali dovrebbero scappare quando i benefici della fuga superano i costi del rimanere. Più in generale, gli ecologi comportamentali considerano ottimale il comportamento di un individuo che, davanti a un insieme di possibili strategie, selezioni quella che produce la massima fitness, che si tratti di fuggire immediatamente quando si accorge di un predatore, aspettare dieci secondi prima di fuggire, o fuggire quando i benefici sono massimi rispetto ai costi ( p. 116).

Una gestione consapevole della paura

Attivare una strategia di paura comporta un costo enorme, in termini di energie vitali. Correre per avvertire i propri simili dell’arrivo di un predatore, emettere un segnale di richiamo (la marmotta può emetterne anche più di 1800 in un breve lasso di tempo!), ma anche semplicemente fiutare la presenza del cacciatore a miglia di distanza, richiede un considerevole dispendio di energie e causa la perdita di occasioni di nutrimento.

Una mancata parsimonia nell’utilizzo della paura e uno spreco di comportamenti difensivi avranno ripercussioni dannose sulla salute, anche sul lungo termine. Un carico stressogeno eccessivo debilita l’immunitario e la sua funzione difensiva da agenti patogeni, rendendo possibile l’insorgenza di malattie, e forse una morte precoce. Questo corrisponde ad una perdita di fitness, e dunque ad un’impossibilità riproduttiva che impedisce, di per sé, il tanto ambito “vantaggio evolutivo”.

Da dove siamo partiti? Il significato complessivo del testo

Il libro non insegna ad evitare la paura, né a provarla sempre. Piuttosto mostra come sia necessario utilizzarla con parsimonia, modulandola con astuzia e persino con un po’ di cinismo, per non lasciarsene immobilizzare totalmente.

È necessario operare una scelta ponderata tra rischio e prudenza, ispirata da una politica di bilanciamento tra costi e benefici che, qualsiasi sia l’opzione di preferenza, comporteranno un prezzo da pagare. Il coraggio avrà la sua contropartita, e in egual modo la prudenza. In mezzo sta tutto il resto. Quella terra di confine costruita su sottili equilibri che, se gestiti adeguatamente, restituiranno alla paura il suo significato salvifico, privandola di ogni controvalore paralizzante. Del resto, i sistemi di difesa più efficaci ed affidabili sono quelli flessibili e adattivi, non quelli statici e atrofici. La storia e l’esperienza non si stancano di dimostrarcelo.

L’opera di Blumstein offre un’importante lezione di vita senza averne la pretesa, e – valore aggiunto- lo fa senza alcun intento retorico:

Non dobbiamo soltanto imparare a convivere con la paura, ma anche a capire quando e come utilizzarla, cercando di discriminare ciò che costituisce un pericolo da ciò che non lo è affatto, e comportarci di conseguenza.

E quando il pericolo sembra inevitabile, dobbiamo essere tanto astuti da scegliere il male minore. Quello che, in pratica, ci comporterà un minor prezzo da pagare. In termini di rischi e di energie.

Anziché strutturare un contesto di lettura complesso e cattedratico, Blumstein si rivolge al lettore esponendo le sue esperienze di ricerca con tono chiaro e diretto, reso comprensibile anche per quei fruitori che non possono vantare una consolidata preparazione in materia.

I dati scientifici non languiscono mai in un tecnicismo lezioso e inaccessibile, proprio perché espressi con uno stile colloquiale che, con la complicità degli aneddoti biografici inseriti, conferisce al testo la piacevole foggia di un romanzo. E forse proprio di questo si tratta; di un racconto di vita scritto per comprendere e decifrare i segreti della vita stessa, in tutte le sue forme, in tutti i suoi  aspetti. Nel tentativo di renderci quanto più possibile capaci di viverla al meglio. Un po’ da aquile, un po’ da marmotte.

Al termine di una lettura oltremodo gradevole la paura apparirà sotto una veste diversa, spesso messa in ombra, o comunque sconosciuta ai più. Magari qualche lettore cesserà di aver “paura” della paura, qualcun altro inizierà a valutarne l’insospettabile valore salvifico, altri apprenderanno a dosarla opportunamente, riducendo gli sprechi; la maggior parte, presumibilmente, si limiterà a beneficiare dei numerosi spunti psicoeducativi offerti dal testo, per renderli, con un po’ di fortuna, preziosi “investimenti esistenziali”.

Da applicare nel presente e nel futuro.

…È consolante sapere che la mia paura deriva da un lungo lignaggio di antenati, umani e non umani. È un tesoro che ho ereditato, una potente alleata. Eppure, è anche una compagna fastidiosa e talvolta insopportabile. È una bussola che, se ben tarata, ci allontana dal pericolo e ci dirige verso l’opportunità. Da certi punti di vista, il nostro rapporto con la paura è un insegnamento che ci deriva dalla vita. Essendo impossibile eliminare del tutto i rischi, paure e ansie ci aiutano a prendere le decisioni giuste. Dato che non possiamo cancellare le nostre paure, dobbiamo accettarle e affrontarle. Come scrisse nel 1997 Mary Schmich, giornalista del Chicago Tribune: “Ogni giorno fa’ una cosa che ti spaventa.” ( Blumstein, p. 251).

 

Perché il bullismo esiste? Figure e tipologie di forme

Un fenomeno diffuso che riguarda molte istituzioni è il bullismo, una condizione dove vengono messe in atto azioni ripetute nel corso del tempo da parte di uno o più compagni che mirano deliberatamente a danneggiare o a prevaricare il soggetto preso di mira (Olweus, 1986; 1991).

 

Le caratteristiche del bullismo e del bullo

Allodola (2020), in un articolo volto a favorire una conoscenza più approfondita di questo fenomeno, ha innanzitutto proposto una distinzione tra conflitto e violenza: il conflitto permette lo sviluppo di una relazione senza accordo tra due parti ma ben gestita, mentre la violenza è “qualsiasi atto che provoca, o che può provocare, danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione e la deprivazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata” (ONU, 1993, artt. 1 e 2; Allodola, 2020).

Le diverse condizioni che permettono il bullismo riguardano la continuità delle aggressioni (in quanto presenti ripetitività e prevaricazione protratte nel tempo), l’asimmetria nella relazione (dove vi è ineguaglianza di forza e potere), l’intenzionalità delle aggressioni (in quanto vengono messi in atto comportamenti discriminatori intenzionali per causare danno e sofferenza nella vittima), infine la natura sociale del fenomeno (la quale implica che gli episodi si verificano in presenza di terze parti, spettatori o complici che sostengono o legittimano le azioni del bullo) (Allodola, 2020). Il bullo “dominante” ad esempio può prendere in giro i compagni, rivolgendosi in particolare agli studenti più insicuri e apparentemente deboli; il bullo “ansioso”, che spesso affianca il bullo dominante, si caratterizza per una personalità insicura e nella maggior parte dei casi per un basso rendimento scolastico; infine il bullo “vittima” è colui che viene a sua volta denigrato dai compagni e che mette comunque in atto uno stile di interazione reattivo (Allodola, 2020).

Nonostante il bullo venga visto come caratterizzato da insicurezza ed una bassa autostima, Olweus (1972) descrive i bulli dominanti, sicuri di sé e come persone che difficilmente mettono in dubbio il loro valore (Allodola, 2020). Esistono invece due tipologie di vittime: quelle “passive” sono le persone attaccate che generalmente presentano una bassa autostima e un pattern di insicurezza, mentre quelle “provocatrici” sembrano manifestare dei comportamenti che infastidiscono i bulli stessi e che elicitano delle reazioni discriminatorie. A differenza del bullo vittima, la vittima provocatrice mostra maggiori livelli di vittimizzazione (Allodola, 2020).

Le forme del bullismo

Il bullismo ha diverse forme, in quanto vengono messi in atto comportamenti fisici, come attaccare la vittima o sottrarle qualcosa in suo possesso, verbali quando sono presenti insulti, minacce e offese, non verbali o visive quando si gesticola in modo minaccioso e osceno, oppure indirette e relazionali quando si formano delle coalizioni o dei gruppi contro una persona, con lo scopo di denigrare o isolare quest’ultimo (Allodola, 2020). Secondo alcuni autori il bullismo riguarda una forma di oppressione e prevaricazione in cui ogni membro ricopre un ruolo specifico (Salmivalli et al., 2010; Karna et al., 2008): le figure sono il bullo, gli aiutanti e sostenitori del bullo, la vittima, i difensori della vittima e la maggioranza silenziosa (Salmivalli, 1999). Quest’ultima appare come molto pericolosa, in quanto mentre il bullo viene rinforzato dal supporto e dall’attenzione che riceve da parte di terzi, questa maggioranza è indifferente alla situazione generale e passa un messaggio silenzioso di mancanza di interesse (Menesini, 2008). Un altro mito da sfatare nella realtà scolastica è la persona bullizzata: tali fenomeni non si verificano soltanto tra compagni, bensì ci sono alunni che aggrediscono i docenti e, al contrario, docenti che bullizzano i loro studenti. Negli ultimi anni sono state proposte diverse ipotesi psicoeducative e protocolli per fronteggiare questa condizione sempre più diffusa, ma perché il bullismo esiste?

Nel 2009, Esposito ha scritto un libro sul tema evidenziando come i fattori familiari, ambientali e culturali influenzano quei comportamenti che spesso definiamo come devianti: le relazioni deteriorate determinano una mancata acquisizione delle norme culturali e la confusione dei ruoli può portare ad un’identità negativa, cioè non stabile e contornata da tratti antisociali (Esposito, 2009). Ricerche utili in futuro potrebbero focalizzarsi principalmente sulle dinamiche familiari vissute e sull’importanza dei rinforzi sociali di cui necessitano quegli individui che hanno bisogno di dominare all’interno di un contesto, con lo scopo di poter applicare in modo maggiormente funzionale gli interventi esistenti per prevenire tali forme di discriminazione.

 

Psicoterapia e nuove tecnologie: l’utilizzo della realtà virtuale – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il quinto episodio del podcast dedicato all’uso della realtà virtuale in psicoterapia. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Greta Riboli.

 

Dove ascoltare il quinto episodio:

 

La gestione del trauma dal punto di vista di un survivor

Ancora soffro dei miei stessi ricordi. Mentre scrivo sono nella prima fase del trattamento del trauma orientato per fasi sostenuto da Judith Herman, ossia in quella in cui cerco e creo sicurezza e stabilità nel presente per superare la disregolazione corporea ed emotiva (Herman, 2005).

 

La mia mente, il mio corpo e il mio cervello stanno tentando ogni strategia possibile pur di sopravvivere alle memorie traumatiche (Van der Kolk, 2015) legate ed attivate da trigger sconvolgenti. L’attività onirica, tra speranza e ricordo, si fa spesso spaventosa. Mi sembra di impazzire ogni volta che nel quotidiano lotto strenuamente per la mia vita.

Alle persone che mi circondano non arriva la decodifica con cui la mente blocca i pensieri patogeni, ma la soluzione più rapida e indolore possibile che in quel momento ho trovato efficace. Scopro che la soluzione però ha un effetto alterato e la risposta è illusoria rispetto a un problema che è invece reale e che così non viene risolto. Nel tentativo di adattarmi al cambiamento che mi ha investito e al quale ho assistito impotente, infatti, il sistema neurobiologico e comportamentale va in sovraccarico. Nell’intuizione della mia sofferenza, il Sè è distrutto da uno scombussolamento inquietante. La consapevolezza non mi rende libera: sono intrappolata in un sequestro interiore dove l’aggressione dei ricordi non è reversibile. Osservando la mia disperazione, attraverso il modello della dissociazione strutturale (van der Hart et al., 2006), vedo il trauma smarrire parti di me nelle galassie psichiche.

Nel provarlo posso sostenere che quando una persona soffre del Disturbo da Stress Post-Traumatico, seppur latente, pur di non sentire il dolore mette in atto tutta una serie di strategie di coping volte a fronteggiarlo e ad alleviarlo, sebbene a breve termine. Ne sono un esempio i comportamenti autolesionistici (come bere alcol) e quelli che non gestiscono gli impulsi (non prendersi cura di sé stessi ma anzi deliberatamente ricorrere ad azioni rischiose) né calmare il corpo (mantenersi quindi ipervigili in attesa di un pericolo, reale o percepito che sia). La soluzione che metto in atto per non sentire il dolore è dunque falsa, basata su una percezione alterata che va ad incentivare la creazione di schemi che sono nati e che si nutrono del trauma stesso e che configurano una proiezione che dal passato riemerge e si fortifica nel presente attraverso flashback, stato di allerta, vulnerabilità emozionale, scarsa capacità di concentrazione, compromissione della lucidità mentale, bassa autostima, uso eccessivo del controllo che sembra proteggere dai carichi di stress ma che con il tempo sfinisce, somatizzazione, sfiducia negli altri, paura dell’abbandono, rabbia, impulsività, pensieri accelerati.

Con la psicoeducazione comprendo che non è tanto importante ricordare e raccontare quanto ho subito, per quanto la terapia dell’esposizione narrativa si riveli spesso d’aiuto (Schauer et al., 2011), ma di impatto è importante che io conosca e riconosca nel dettaglio i miei sintomi e da che cosa vengono attivati per poi espandere la finestra di tolleranza in modo da riuscire, nei piccoli passi che compongono il quotidiano, a perdonare, a trasformare e ad apprezzare il vissuto come parte integrante della mia storia di guarigione.

Ed è tutt’altro che facile, ci sono alti e bassi e voli pindarici: avere a che fare con il dolore, pur con l’aiuto di una psicoterapia mirata e il sostegno della rete sociale di appartenenza, rende il vivere scomodo, soprattutto se a buttar sale sulla ferita sono io stessa. Metaforicamente si potrebbe dire: nessuno mi sta bombardando, sono io a spararmi contro.

Questo perché i meccanismi di difesa che ho nei riguardi di reazioni che avvengono in situazioni di pericolo apparente, come quelle che si agganciano a ricordi intrusivi che fanno rivivere il trauma, sono istintivi e conflittuali a seconda della prospettiva con la quale il cervello si sintonizza.

Aspetti impliciti o non verbali dei ricordi continuano ad attivare quel senso nefasto di immediato pericolo e, per quanto la mia mente vorrebbe mantenersi nel qui e ora, il mio corpo si mobilita per reagire non sapendo che sto ricordando una minaccia che mi ha colpito in passato ma che non sono minacciata in quel momento (Fisher, 2021). Per ironia della sorte, la corteccia prefrontale si disattiva proprio a causa della minaccia percepita, per risparmiare le risorse, ma così facendo non mi permette di razionalizzare quello che sto provando.

Nel tempo che impiego a sentirmi altrove e poi ritornare, sparire, insistere, mi ritrovo di nuovo catapultata in un buco nero che ha forme depressive e non lascia scampo al senso che tutto questo potrebbe avere. Ciò che è veramente insopportabile non è l’oscurità, ma l’assenza e la mancata prossimità che prima era ed ora non è più.

L’affascinante studio della neurobiologia e della plasticità del cervello mi introduce alla conoscenza del sistema nervoso autonomo e dell’ipotalamo, responsabile dell’elaborazione delle emozioni e delle sensazioni di piacere e dolore, e dell’amigdala che dà significato emozionale e sensoriale agli stimoli. Il cervello ne ha capacità, ma i ricordi disfunzionali non lo aiutano a guarire perché lo riportano e lo inchiodano sempre al passato, non agiscono sulla coscienza ma anzi la privano di quel sollievo necessario a ristabilire un equilibrio e un amor proprio. Non posso riprendere in mano la mia vita senza sospendere il giudizio e senza una adeguata ricerca del mio benessere psico-fisico, al di là del baratro nel quale in ogni istante potrei ragionevolmente cadere.

Ho trent’anni e il mio sistema nervoso è traumatizzato ma, per fortuna, non sembra voler tollerare di rimanere sconvolto. Si ostina a tenermi occupata anche quando, nel lento e complesso percorso di elaborazione, mi sento sopraffatta e inibita. Per questo oggi ho voluto scriverne. La consapevolezza non è abbastanza per cambiare le mie abitudini di sopravvivenza, ma posso imparare a identificare le mie emozioni come comunicazioni provenienti da una parte di me che è condizionata a causa di ciò che attiva il ricordo traumatico, stimolando il cervello pensante a interpretare in modo positivo quello che provo, anziché facilitare la ricaduta verso azioni distruttive che alla lunga mi feriscono ulteriormente (Fisher, 2021).

Centrandomi con costanza, ma non senza fatica, talvolta riesco già a proiettarmi nel futuro. Bramo di arrivare incolume all’ultima fase, perché solo nell’accettazione il dolore si trasforma. Solo allora resta l’amore, la convinzione di essere stata vista almeno una volta. Solo allora il trauma, che per me è un lutto grande, diventa una restituzione e non più una perdita. La testimonianza che reca coraggio, la cura che coinvolge la vita.

 

Sentieri di cura (2021) di W. Paganin e S. Signorini – Recensione

Sentieri di cura si articola in tre capitoli, il primo esplora la cura attraverso la storia della medicina, dell’antropologia culturale, sino ad attraversare la sociologia, la psicologia e la psicoterapia, il secondo analizza il gruppo come dispositivo di cura, il terzo entra nel merito dei Gruppi Psicoanalitici Multi Familiari (GPMF).

 

Qual è il significato della cura, della terapia e della psicoterapia individuale e di gruppo? Quali sono i sentieri della cura, i presupposti teorici, gli approcci e le metodologie nella psicoterapia? Qual è il ruolo dei servizi e le proposte terapeutiche offerte? Queste domande sottendono lo sviluppo del libro Sentieri di curache si pone l’obiettivo di analizzare in modo pluri-prospettico i concetti di cura, terapia e psicoterapia attraverso due linee di approfondimento: la prima di natura descrittiva – esplicativa in cui si affronta l’excursus storico, dal concetto di cura a quello di psicoterapia, analizzando le implicazioni storiche, filosofiche e sociali, fino alla nascita e sviluppo delle psicoterapie; la seconda metodologica legata ai risvolti della terapia multifamiliare. Il libro si compone di tre capitoli.

Sentieri di cura: il primo capitolo

Il primo capitolo esplora la cura attraverso la storia della medicina, dell’antropologia culturale, sino ad attraversare la sociologia, la psicologia e la psicoterapia. Una disamina del concetto di cura e delle terapie dalla fine del Settecento ad ora. Il punto di partenza è l’analisi etimologica della cura dai greci, ai romani, alla filosofia di Heidegger. Un’accurata analisi etimologica che approfondisce i significati del verbo servire, prestare servizio o prendersi cura, sino a terapia, che indica il servizio e il terapeuta che è il “servitore di colui che assiste”. I romani utilizzavano i verbi sano o medeor con il significato di sanare e rimediare a fianco del termine medico che era connesso “all’arte del preparare pozioni”. Oltre a questo aspetto era presente anche il concetto di “farsi carico, sollecitudine, premura e interesse per qualcuno”.

Si arriva all’analisi dei termini paziente e cliente nei loro diversi significati culturali e alla dimensione pedagogico – filosofica della cura in una prospettiva che coinvolge la dimensione intenzionale del prendersi cura dell’essere come nelle cure materne e paterne o degli insegnanti. È qui che si arriva alla “primarietà della cura” nella proposta di Heidegger come fondamento ontologico dell’essere umano: “non c’è vita se non c’è cura di sé e degli altri”.

L’analisi storica inizia dalle cure mediche a partire dal 3000 a.C., presenti nel Codice di Hammurabi, con le descrizioni dei concetti di salute, malattia e delle prestazioni professionali della cura. Una medicina religiosa poiché ancorata ad un concetto di malattia come castigo, che richiedeva l’arte della divinazione, dell’osservazione degli astri. Su un modello simile, l’antico Egitto concepiva la medicina in una logica sapienziale, con una delega dei compiti di cura al sacerdote che si appellava alla divinità per risolvere la malattia. L’excursus attraversa l’Antica Grecia analizzando i principali filosofi e il ruolo della tragedia greca nella contrapposizione tra divino e umano e nella tensione tra forze contrastanti come ira, follia e disperazione. Un momento decisivo della riflessione è l’excursus sul dolore e sulle cure da Anassàgora, a Gorgia, Antifonte, Aristotele, Platone, sino a Ippocrate. In questi autori ci sono le radici della psicoterapia “liberando la medicina dal peso della magia e del mito e costituendo una medicina a cui legare i bisogni del paziente di cui prendersi cura” (p. 42). Ippocrate ha descritto i primi sintomi psichici con la prima visione sistemica legata alle influenze ambientali, fisiche e sociali del paziente. La riflessione continua attraverso l’alto e il basso medioevo, attraverso il pensiero della medicina medioevale nello sguardo della Chiesa cattolica, sino a Leonardo da Vinci che, con la sua curiosità per il funzionamento del corpo, è un esempio del metodo osservativo e sperimentale. Successivamente l’avvento dell’illuminismo ha apportato un contributo importante per la psicopatologia con “i preziosi contributi delle classificazioni delle malattie di François Boissier de Sauvages de Lacroix e di William Cullen il quale ha concepito un suo nuovo sistema teorico di classificazione nosologica delle malattie”. La fine del settecento è descritta dagli autori sottolineando il primo trattamento di gruppo dell’età moderna con Mesmer, a cui sono seguiti gli interventi di ipnosi e le teorie di Jean-Martin Charcot sino a Janet con l’uso dell’ipno-suggestione a scopo terapeutico. Parallelamente gli autori seguono l’evoluzione del pensiero sulla cura dell’anima di Bènèdict-Auguste Morel con la teoria della degenerazione mentale con l’identificazione delle cause della sua insorgenza, come l’avvelenamento, l’ambiente sociale, il temperamento patologico, la malattia morale, i danni innati o acquisiti e l’ereditarietà.

L’excursus prosegue con J. É. D. Esquirol che di fatto ha compiuto un passaggio importante di medicalizzazione dei trattamenti nei confronti dei malati mentali e della permanenza negli ospedali specializzati, seguiti da medici.

Gli autori arrivano alla nascita del termine psichiatria introdotto nel 1808 da Psychiatherie dello psichiatra J. C. Reil a cui va il merito di aver scoperto il Locus Ceruleus e l’analisi della corrente romantica della psichiatria  tedesca. È un periodo fertile per la definizione del linguaggio clinico: con Heinroth compaiono i termini psicosomatico nel 1818 e somatopsichico nel 1828, l’Uberuns (coscienza), l’Ego (mente, emozioni e volontà) e Fleish (unità di base, rappresentativa della natura peccaminosa dell’uomo).

Verso la fine dell’Ottocento E. Kraepelin ha promosso la psichiatria a scienza medica attraverso l’esame fenomenologico, descrittivo e prognostico delle malattie psichiatriche. Lo psichiatra ha distinto le psicosi endogene in Dementia Praecox e Psicosi Maniaco-Depressiva come entità cliniche separate. Lo sguardo sul novecento si apre verso la psicoanalisi e la psicoterapia con S. Freud, che ha sperimentato la tecnica dell’ipnosi e delle associazioni libere dei pazienti rappresentando la nascita della psicanalisi. Dagli inizi del novecento il pensiero psicoanalitico ha attivato un grande dibattito e gli autori attraverso il pensiero di A. Adler,  di C. G. Jung, sino a S. Sullivan e J. M. É. Lacan.

A questo punto gli autori proseguono con l’analisi della genesi del termine psicoterapia arrivando alla sua attuale definizione rappresentata dalle definizioni in enciclopedia e dizionari di medicina e di psicoterapia con la descrizione della distinzione operata da R. H. Cawley nel 1987 dei vari livelli di psicoterapia; procedono poi nella descrizione dei gruppi terapeutici con la definizione delle variabili che caratterizzano gli interventi gruppali (obiettivo, metodo di leadership, comunicazione, clima, sviluppo e i fattori terapeutici; I.D. Yalom). Tra questi speranza, universalità, informazione, altruismo, ricapitolazione correttiva del gruppo primario familiare, tecniche di socializzazione, comportamento imitativo, apprendimento interpersonale, coesione di gruppo, catarsi e fattori esistenziali. Sulla base di questi compiono un confronto con le proposte di S. Bloch e E. C. Crouch, di K.R. MacKenzie, M. Di Blasi e G. Lo Verso, per arrivare alla presentazione dell’attaccamento al gruppo attraverso la rivisitazione della teoria sull’attaccamento di J. Bowlby negli interventi terapeutici di gruppo.

Sentieri di cura: il secondo capitolo

Il secondo capitolo entra nel merito del lavoro di cura e analizza il gruppo come dispositivo di cura  proponendo una riorganizzazione teorica in cui il gruppo è una connessione fondante per la salute mentale.  Siamo di fronte ad una diversa concezione relazionale e intersoggettiva della vita psichica che valorizza il gruppo come substrato essenziale della vita e della salute mentale della persona.

Gli Autori entrano nelle origine psicoanalitiche proponendo un excursus storico sul pensiero di Freud e Reich, per arrivare alle relazioni oggettuali di Melanie Klein e Donald Winnicott, alla psicologia umanista di Rogers, e alla teoria dell’attaccamento di Bowlby. L’approccio ai gruppi considera la psicoanalisi dei gruppi di Bion e la gruppoanalisi di S. H. Foulkes sino alla presentazione del pensiero S. A. Mitchell che promuove la svolta relazionale.

L’analisi dei gruppi in psicoterapia inizia ad essere approfondita in funzione del lavoro con gli psicotici nella proposta di P. C. Racamier: il lavoro si articola intorno alla sicurezza nel gruppo, alla cura come co-produzione prolifica e transizionale tra paziente e équipe terapeutica. Il passaggio successivo è la terapia familiare in America attraverso il pensiero di G. Bateson focalizzando l’attenzione sui sistemi complessi e il concetto di doppio legame, sulla famiglia con  M. Bowen e l’ottica triadica come sviluppo della rigidità presente nella diade di S. Minuchin.

A questo punto si procede con la specificazione dei diversi gruppi psico-dinamici sempre utilizzando un approccio di ricostruzione storica del pensiero degli autori con particolare riferimento alla distinzione tra analisi in gruppo, analisi di gruppo, analisi attraverso il gruppo.

Infine vengono analizzati i contributi della scuola francese di D. Anzieu e R. Kaes, per poi passare alla ricerca sui gruppi in Italia con i gruppi interattivi, oggetto delle riflessioni di R. Spaltro, G. Trentini, L. Ancona e P. Gallo. L’approfondimento attraversa anche l’intervento psico-educazionale nei gruppi tematici, le terapie della terza ondata con l’analisi della prospettiva cognitivo-comportamentale con i metodi della ristrutturazione cognitiva, della promozione delle capacità di coping, di problem solving e infine alla terapia metacognitiva, la Schema Therapy, l’EMDR di  Shapiro, la psicoterapia sensomotoria di Pat Ogden e le terapie psicologiche di supporto.

Sentieri di cura: il terzo capitolo

Il terzo capitolo entra nel merito dei Gruppi Psicoanalitici Multi Familiari (GPMF) seguendo il modello di J. G. Badaracco e la loro evoluzione sino alla proposta degli autori di indicazioni e tecniche operative attraverso  la testimonianza del loro utilizzo della Psicoanalisi Multifamiliare nel Centro di Salute Mentale. Anche in questo capitolo l’excursus storico è ricco ed elaborato. Inizia con l’analisi del primo modello di terapia multifamiliare di Peter Laqueur, per poi affrontare in modo preciso e articolato i modelli di Lewis Foster, di Coliseum, di Murray Bowen, di Edward Kaufman, di W.  R. McFarlane e di E. Asen. A questo punto gli autori entrano nel  modello ecologico multifamiliare con l’analisi delle proposte per i pazienti con malattie somatiche croniche di P. Steinglass. Il punto di arrivo sono le psicoterapie dei gruppi di analisi multifamiliare che riprendono il modello proposto da J. G. Badaracco. La prospettiva dello psicanalista argentino promuove l’intervento multifamiliare in una ottica psicoanalitica delimitando ambiti, specificando modalità e descrivendo indicazioni e azioni.

Il libro si chiude con l’esplorazione delle tecnologie mediatiche in relazione all’esperienza della cura durante  pandemia da Covid-19.

Una proposta che attraversa in modo completo la trattazione dei diversi approcci alla cura e alla terapia,  l’analisi delle diverse prospettive e delle tecniche sino alla presentazione della tecnica dei GPMF, che ha il merito di valorizzare l’importanza di riunire in un gruppo circolare pazienti, familiari e operatori come presupposto per un lavoro terapeutico.

È un libro che ha l’obiettivo di presentarsi ad un pubblico ampio in funzione di un linguaggio accessibile, trasversale e libero da potenziali confronti di confine tra approcci epistemologici diversi. Questa scelta permette di avvicinare qualsiasi lettore che intende esplorare i diversi sentieri di cura e la loro evoluzione nelle psicoterapie in ambito sociologico, psicologico e psichiatrico nel mondo occidentale.

 

La vela migliora la qualità della vita dopo un cancro al seno

Alcuni studi in letteratura hanno notato che le persone che sono sopravvissute ad un tumore, in particolare al cancro al seno, possono avere molto giovamento dall’attività sportiva.

 

Effetti del cancro al seno

 Sebbene oggi il tasso di mortalità delle persone con cancro al seno (Breast Cancer; BC) si sia notevolmente ridotto, spesso i trattamenti a cui sono sottoposte le donne hanno delle conseguenze fisiche e un elevato distress psicologico che permangono nel lungo termine (Carreira et al., 2017). Tali conseguenze sono per esempio una riduzione della forza degli arti superiori che talvolta provocano ostruzioni linfatiche; dolore e instabilità nella postura con conseguenti alterazioni dell’immagine corporea che possono causare ansia, depressione, rabbia, disturbi dell’umore e un’alterazione della qualità della vita (QoL) (Mirandola et al., 2014). In aggiunta le persone che sono guarite da un cancro al seno spesso hanno un’elevata paura di averlo nuovamente e sono sottoposte ad esami di follow up che causano loro una forte angoscia.

Gli effetti positivi dell’attività fisica e della barca a vela

Recenti studi hanno dimostrato che l’attività fisica-sportiva è fondamentale per la salute delle persone e aumenta la qualità della vita (QoL). Anche il funzionamento sociale e il benessere emotivo possono migliorare tramite la pratica di attività sportiva, soprattutto lo sport di squadra sembra avere risultati di salute soddisfacenti grazie alla natura sociale della partecipazione (Eime et al., 2013). Alcuni interventi come il Tai Chi, che implicano una forte connessione mente-corpo, sono spesso praticati in gruppo e forniscono numerosi benefici sia fisici che psicologici per i sopravvissuti al cancro (Zeng et al., 2019). Anche la danza di gruppo ha dimostrato di migliorare il benessere psicofisico e la qualità della vita. La letteratura ha recentemente proposto la pratica della vela per migliorare il benessere psicofisico e la qualità della vita nelle persone con disabilità (Marchand et al., 2017); la vela coinvolge infatti l’integrazione di diversi stimoli sia esterocettivi che propriocettivi, essendo praticata in ambienti stimolanti come il mare o il lago. Inoltre è uno sport che coinvolge la praticità ed è sufficientemente sicuro da poter essere praticato da persone disabili.

Alcuni degli effetti positivi riguardano l’autostima e la salute generale: talvolta può essere considerata come una parte integrante della riabilitazione. Le persone con disabilità psicosociali e gravi disturbi mentali che hanno partecipato ad un programma strutturato di vela hanno mostrato miglioramenti significativi in svariati ambiti tra cui la qualità della vita e la sintomatologia clinica. In aggiunta, alcuni studi hanno dimostrato che andare in barca a vela può migliorare la qualità della vita di bambini e adolescenti disabili con problemi neurologici di coordinazione motoria e di equilibrio (Aprile et al., 2016).

Gli effetti della barca a vela in donne sopravvissute al cancro al seno

Dal momento che non sono ancora stati studiati i possibili effetti positivi di questo sport per le donne sopravvissute al cancro, nel 2020 Mirandola e colleghi hanno condotto un’indagine ai fini di valutare se un’esperienza in barca a vela potesse migliorare significativamente la qualità della vita (QoL) e il distress psicologico (PD) nelle donne che hanno avuto un cancro al seno. 19 donne di età compresa tra 43 e 68 anni hanno partecipato ad un programma di vela di una settimana, accompagnate da uno skipper, alcuni insegnanti di vela, due psicologi e da uno specialista dello sport. Tale programma prevedeva alcune lezioni teoriche e una fase pratica in mare aperto seguita da sessioni psicologiche di gruppo nelle quali manifestare le impressioni e i sentimenti sull’esperienza, per migliorare le abilità sociali e comunicative, l’autostima e la fiducia in sé stessi. Le donne hanno completato un questionario strutturato online per valutare la QoL e il distress psicologico sia alla partenza (baseline) che una settimana dopo il ritorno (follow-up). Il questionario includeva una prima parte nella quale venivano richieste alcune caratteristiche sociodemografiche, la pratica di attività fisiche/sportive e la soddisfazione dell’esperienza di navigazione; la seconda parte prevedeva invece la somministrazione dei questionari Short Form-12 (SF-12; Apolone, 2001) per valutare la QoL, State/Trait-Anxiety Inventory form Y (STAI-Y; Spielberger et al.,1971) per valutare l’ansia di stato e il Distress Thermometer (Bellè et al., 2016) per valutare lo stress dei soggetti. I risultati ottenuti mostrano un miglioramento statisticamente significativo nei punteggi del SF-12 e una riduzione nei punteggi di entrambe le componenti dello STAI-Y (stato e tratto) e del termometro del distress, dopo l’esperienza di navigazione.

Un’esperienza di vela strutturata può quindi essere utilizzata come intervento per aumentare il benessere psicologico e migliorare la QoL e altri sintomi psicologici nelle donne che hanno avuto un tumore. È importante che gli psicologi, i professionisti e i medici di riabilitazione oncologica siano consapevoli dell’importanza dell’esercizio fisico per la salute, strutturino interventi efficaci che includano attività di squadra in ambienti stimolanti e ne promuovano la partecipazione (Mirandola, 2020).

 

Stereotipi di genere e cartoni animati

Considerando che la tv è stata vista, da sempre, come uno strumento potente nel plasmare il comportamento dei più piccoli nei confronti dei ruoli di genere nella società, è importante indagare sulla rappresentazione dei personaggi maschili e femminili nei cartoni animati.

 

Gli stereotipi nei cartoni animati

Il termine stereotipo indica un insieme di opinioni o attributi generalizzati, precostituiti che vengono associati e/o applicati a persone o a tutti i membri di un determinato gruppo (Hinton; 2017). Nello specifico, uno stereotipo di genere è “un insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti, l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere”.

Molto spesso, i programmi televisivi trasmettono messaggi che possono consolidare intensamente la discriminazione di genere (Hinton; 2017), specialmente quando presentano uno dei due sessi come dominante: a volte, in TV, i personaggi maschili sono mostrati come più abili, capaci di esprimere idee, furiosi, al contrario di quelli femminili, ritratti come più compassionevoli e/o bisognosi di protezione.

Gli stereotipi di genere possono essere rafforzati anche dai cartoni animati che, se da un lato possono essere validi strumenti di intrattenimento, dall’altro, in maniera sottile, sono in grado di trasmettere ai bambini una serie di messaggi negativi legati al genere dei personaggi.

Certo, l’uso di rappresentazioni stereotipate all’interno dei programmi televisivi è una necessità; agli spettatori devono essere fornite scorciatoie per comprendere i personaggi e i ruoli che interpretano. Tuttavia, immagini standardizzate o generalizzazioni, in particolare quelle basate su idee sbagliate, possono rappresentare un problema soprattutto per i bambini.

Quali stereotipi di genere sono presenti nei cartoni animati?

Considerando che la tv è stata vista, da sempre, come uno strumento potente nel plasmare il comportamento dei più piccoli nei confronti dei ruoli di genere nella società (Ahmed, Wahab; 2014), è importante indagare sulla rappresentazione dei personaggi maschili e femminili nel genere televisivo animato. A tale scopo, è stata condotta una ricerca sui cartoni animati trasmessi da Cartoon Network, un noto canale televisivo per bambini (Ahmed, Wahab; 2014); sono stati selezionati 10 cartoni animati popolari, tra cui Ben 10, Scooby Dooby Doo, Tom e Jerry, Pokémon, Superchicche, Dragon Ball Z, Batman e, nella maggior parte, sono stati individuati tratti comuni nei personaggi maschili e femminili. La ricerca ha dimostrato che, in molti cartoni animati, i personaggi maschili e femminili vengono ritratti in modo parziale e stereotipato: le caratteristiche più frequentemente attribuite ai personaggi maschili sono la forza fisica, il coraggio, l’intelligenza, mentre quelle attribuite ai personaggi femminili sono  debolezza fisica, emotività e premurosità, bellezza fisica, dipendenza dagli altri, passività.

Alla luce di ciò, si potrebbe concludere che la miglior difesa contro i potenziali effetti negativi delle rappresentazioni stereotipate sugli schermi, è cercare di comprendere e analizzare criticamente ciò che viene, dagli stessi, presentato.

 

EMDR e dolore cronico. Quando a parlare è il corpo (2022) – Recensione

Il testo EMDR e dolore cronico intende fornire delle linee guida sull’utilizzo dell’EMDR al trattamento del dolore cronico, in quanto, sebbene ne sia ormai riconosciuta la natura multifattoriale, la psicoterapia non rappresenta ancora la strada maestra per curare tale disturbo.

 

L’EMDR, acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing, è un approccio terapeutico scoperto dalla ricercatrice americana Francine Shapiro nel 1989. Basato sulla desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari, l’EMDR viene impiegato per il trattamento di traumi e stress psicologici di entità severa.

A livello procedurale, al paziente viene chiesto di fornire un quadro descrittivo e quantificativo dei propri disturbi, rievocando il ricordo da cui desiderano ottenere un sollievo, rappresentato dall’immagine peggiore associata all’evento o dalla prima traccia mnestica dello stesso.

Dopo aver identificato l’unità soggettiva di disagio (SUD), lungo una scala da 0 a 10, dove 0 equivale a nessun disturbo e 10 al peggior livello di disturbo esperito, si procede alla fase di desensibilizzazione, richiamando la cognizione negativa e prestando attenzione alla stimolazione bilaterale (movimenti delle dita, tapping o stimolazione uditiva), procedura nota come Dual Attention Stimulus.

Shapiro ha diviso le cognizioni negative in 3 temi: mancanza di sicurezza/vulnerabilità, mancanza di controllo/potere e responsabilità/difettosità. Se il dolore è di origine traumatica, la cognizione negativa è più probabile sia basata su un tema di sicurezza/vulnerabilità, mentre se il dolore è correlato a cause mediche, la cognizione negativa è più probabile che rifletta mancanza di controllo/potere e/o sentimenti di difettosità.

La richiesta fatta al paziente è semplicemente di “notare” e “lasciare che succeda quello che deve succedere”. In seguito a tale processo è interessante notare le affermazioni di stupore sulla riduzione del disagio e dell’angoscia: il problema viene descritto come “più lontano”, “non più così importante”.

Nel momento in cui il disagio raggiunge un SUD di 1 o 0, si installa la cognizione positiva, che viene valutata rispetto alla percezione di veridicità su una scala da 1 a 7.

I cambiamenti affettivi associati all’EMDR hanno permesso di estenderne l’utilizzo al trattamento del dolore cronico, un contesto prioritariamente somatico.

Sono emersi importanti punti di affinità tra dolore cronico e Disturbo da Stress Post Traumatico (PTDS): all’origine di entrambi vi sarebbe un evento causale di natura traumatica, a cui farebbe seguito una risposta fisiologica che, sebbene di natura differente, svolge la medesima funzione, ovvero indurre il soggetto ad evitare situazioni che rievocano l’evento traumatico.

Il testo intende fornire delle linee guida sull’utilizzo dell’EMDR al trattamento del dolore cronico, in quanto, sebbene ne sia ormai riconosciuta la natura multifattoriale, la psicoterapia non rappresenta ancora la strada maestra per curare tale disturbo.

Tradizionalmente il dolore è stato considerato come conseguente ad una lesione fisica e le percezioni dolorose persistenti, in assenza di lacerazioni cutanee o, comunque, continuative oltre il tempo di guarigione, sembravano inspiegabili.

Il dolore si distingue in acuto e cronico: nel primo caso esso consegue ad una lesione quale una frattura o una lacerazione muscolare, da cui originano segnali nervosi, volti a proteggere l’area danneggiata; col tempo la lesione guarisce e il dolore scompare. Il dolore acuto è limitato nel tempo e generalmente gestibile. Al contrario, il dolore cronico, che si sviluppa in seguito ad una malattia o ad una lesione, si rivela prolungato nel tempo e non rispondente ai trattamenti.

Il dolore cronico può presentarsi sotto diverse forme, quali mal di schiena, fibromialgia, sciatalgia, emicrania, disturbo da somatizzazione e chiama maggiormente in causa le aree coinvolte nella memoria e nelle emozioni.

Il moderno approccio al trattamento del dolore cronico vede il suo precursore in Pierre Janet che, alla fine del XIX secolo, ha sottolineato come i sintomi fisici inspiegabili fossero frutto della dissociazione, un modo per riprodurre il trauma o lo stress, quando il sistema nervoso centrale viene sopraffatto, conducendo ad una separazione tra conscio e inconscio:

Le tracce di memoria del trauma permangono come idee fisse inconsce che non possono essere “liquidate” fintanto che non siano state tradotte in una narrazione personale e che invece continuano a intrudere nella forma di percezioni terrificanti, preoccupazioni ossessive ed esperienze somatiche. La capacità di adattamento collassa e il paziente finisce in uno stato di impotenza cronica che si esprime attraverso sintomi sia psicologici sia somatici.

L’approccio Cognitivo Comportamentale (CBT) rappresenta l’orientamento elettivo nel trattare il dolore cronico, riconducendo a pensieri, emozioni e comportamenti negativi il persistere della sintomatologia dolorosa. Il target del trattamento divengono allora le convinzioni del paziente sul proprio dolore, considerati il vero fattore di mantenimento: attraverso il rinforzo positivo il soggetto convalida le proprie teorie ingenue e per mezzo del rinforzo negativo evita le situazioni e circostanze che innescano o esacerbano il dolore stesso.

Ciononostante la CBT riesce ad ottenere un effetto debole, non sollevando dal dolore persistente.

Il trattamento tramite EMDR è in grado di modificare le dimensioni sensoriali ed emotive del PTDS e del dolore, favorendo la diminuzione dell’arousal fisiologico e del disagio emotivo, incrementando il rilassamento e conducendo ad un distanziamento dal problema. Sfruttando la neuroplasticità l’EMDR sembra determinare effetti che si mantengono nel tempo.

Gli esatti meccanismi attraverso cui l’EMDR agisce sul cervello non sono ancora chiari; Bergmann suggerisce che il trattamento del PTDS alteri la forza delle memorie episodiche mediate dall’ippocampo e l’emotività mediata dall’amigdala per mezzo di un circuito di attivazione e disattivazione della risposta di orientamento.

Le testimonianze di coloro che hanno beneficiato dell’EMDR sottolineano la maggiore lucidità mentale, la percezione di maggiore sintonia con sé stessi, nonché la capacità di creare nuove risposte e collegamenti.

Il protocollo EMDR per il trattamento del dolore, così come originariamente sviluppato per il PTDS, è un processo in 8 fasi: Raccolta della storia, Preparazione, Assessment, Desensibilizzazione, Installazione, Scansione Corporea, Chiusura e Rivalutazione. Queste 8 fasi sono progettate per essere di supporto alla procedura di “desensibilizzazione” che è il cuore dell’EMDR.

Considerando l’impatto che il trauma pregresso e gli effetti del dolore hanno sull’identità e sul funzionamento nella vita quotidiana del soggetto, occorre confrontarsi con 7 compiti chiave:

  • domare il dolore;
  • rielaborare i traumi;
  • regolare le emozioni;
  • scoprire il significato del proprio dolore;
  • far fronte agli altri fattori di stress;
  • promuovere la cura di sé;
  • favorire la reintegrazione.

Il testo comprende nella parte finale diverse risorse per il terapeuta e per il paziente da utilizzare durante il trattamento.

 

Come si sente un terapeuta di fronte ad un paziente difficile?

Le emozioni spesso sperimentate dai clinici che hanno a che fare con i pazienti difficili sono senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento, che portano il terapeuta a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale.

 

Chi sono i pazienti difficili?

I pazienti difficili sono figure note tra i contesti clinici e la salute mentale pubblica (Foster, 2013). Nello specifico, i dati epidemiologici di paesi diversi mostrano che la prevalenza dei pazienti percepiti come difficili da parte del personale clinico varia dal 15% al 60% nei contesti sanitari generali (Hahn et al., 1996; Hahn, 2021; Jackson & Kroenke, 1999) e dal 6% al 28% nelle istituzioni psichiatriche (Koekkoek et al., 2011; Modestin, Greub & Brenner, 1986). Tale etichetta di paziente difficile, quando formulata, tende a rimanere incollata al paziente e influenza l’impostazione di un trattamento, in quanto anche i clinici attribuiscono a tale classificazione una persona che crea resistenze e che mina intenzionalmente il trattamento (Ekdawi, 1967). Nonostante l’esistenza riconosciuta di questi casi, non è chiaro che cosa renda difficile un paziente (Colson et al., 1985; Groves, 1978; Koekkoek et al., 2006). La conseguenza è che vengono definiti come pazienti difficili tutte quelle categorie di persone affette da disturbi che resistono in modo maggiore ai trattamenti: si pensi alle tossicodipendenze e ai pazienti psicotici (Sellers et al., 2012), alla depressione che resiste alle terapie farmacologiche (Greden, 2001; McCrone et al., 2018) e ai disturbi di personalità che, nei contesti di salute mentale, rappresentano una popolazione difficile da curare dai terapeuti che varia dal 32% al 46% (Koekkoek et al., 2011).

Secondo gli autori, alcune delle difficoltà riscontrate da parte dei terapeuti sono gli atteggiamenti definiti come aggressivi, esigenti, manipolativi o dipendenti che i pazienti mettono in atto (Beryl & Volm, 2018; Cleary et al., 2002; James & Cowman, 2007). Oltre ai pazienti, numerosi studi sono stati fatti per comprendere il punto di vista e le difficoltà che il clinico riscontra quando è di fronte a questi atteggiamenti, considerando che le percezioni possono esercitare un’enorme influenza su di sé, sul paziente e sul processo terapeutico (Colson et al., 1985). Riprendendo il concetto psicodinamico di controtransfert, cioè le risposte emotive che il paziente evoca nel terapeuta, i clinici riferiscono di sentire spesso degli atteggiamenti di chiusura, esigenti, impulsivi, autodistruttivi, non collaborativi e non aderenti alle raccomandazioni cliniche del trattamento (Bos et al., 2012).

Le emozioni spesso evocate nei terapeuti sono tendenzialmente negative, come senso di colpa, frustrazione, tensione, rabbia, fastidio, ansia ed evitamento (Gallop & Wynn, 1987; Garcia et al., 2016) che portano il terapeuta stesso a manifestare atteggiamenti negativi o a rispondere in modo non consono o professionale (Bachrach et al., 1987; Colli et al., 2014; Colson et al., 1985; Mohr, 1995). Esistono numerosi studi che si concentrano sulla descrizione e sulla categorizzazione di tali pazienti, mentre un numero minore di ricerche si concentra sulla definizione di linee guida utili ad aiutare i terapeuti nel riconoscimento e nella regolazione di tali reazioni emotive (Fischer et al., 2019).

Il vissuto dei terapeuti davanti ai pazienti difficili

Fischer e colleghi (2019) hanno svolto uno studio per comprendere l’esperienza vissuta da parte di dieci terapeuti cileni attraverso delle interviste qualitative semi-strutturate. I terapeuti lavoravano nel servizio sanitario pubblico, avevano avuto esperienze con pazienti difficili e svolgevano una formazione continua sul trattamento dei disturbi di personalità. La trascrizione delle interviste è stata riportata utilizzando i principi generali della Grounded Theory (Strauss & Corbin, 1998) con alcune modifiche (Foster, Hays & Alter, 2013). I risultati dell’analisi sono organizzati in quattro dimensioni: le caratteristiche dei pazienti, gli atteggiamenti dei pazienti nei confronti dei terapisti o dell’equipe, gli effetti dei pazienti sui terapeuti e il contesto di trattamento.

Per quanto riguarda la prima dimensione, i terapeuti riportano disturbi di personalità spesso in comorbilità con disturbi da uso e abuso di sostanze, associati a storie traumatiche, neglect, povertà o mancanza di supporto sociale. Tali esperienze contribuiscono a difficoltà interpersonali mantenute da aggressività e deficit nelle relazioni sociali, difficoltà emotive e comportamenti autolesivi (Fischer et al., 2019). Alcuni terapeuti riportano un basso funzionamento cognitivo in questi pazienti. La sottocategoria degli atteggiamenti include le difficoltà legate ad una percepita mancanza di impegno per gli appuntamenti fissati o l’adesione al trattamento solamente nei momenti di crisi: secondo gli intervistati, questi pazienti si presentano al trattamento con un senso di scoraggiamento e sentendo che non sarà utile (Fischer et al., 2019). Molti pazienti presentano aspettative irrealistiche sul trattamento, facendo pressione o manifestando aggressività con il terapeuta.

L’effetto sul terapeuta da parte di questi pazienti include emozioni negative, come tensione e sentirsi esauriti o, al contrario, sensazione di noia (Fischer et al., 2019). Infine, per quando riguarda il contesto di trattamento, le sottocategorie citate sono il sovraccarico di lavoro, cioè la qualità terapeutica che diminuisce in relazione ad una maggiore quantità di pazienti, le scarse risorse, come la mancanza di personale, o i trattamenti inadeguati causati della bassa frequenza di sessioni e dal tempo insufficiente assegnato ad ogni incontro (Fischer et al., 2019).

 

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