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L’ansia in età evolutiva – Podcast Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘L’ansia in età evolutiva: come riconoscerla e trattarla’.

 

 I disturbi d’ansia sono i disturbi psichiatrici più diffusi al mondo. In più della metà dei casi esordiscono in età evolutiva, talora determinando una significativa compromissione del funzionamento del bambino nei principali contesti di vita. Bambini e adolescenti possono sviluppare vari tipi di disturbi d’ansia, che si presentano spesso associati tra loro o in associazione a disturbi dell’umore. Le manifestazioni cliniche dei disturbi d’ansia in età evolutiva hanno alcune caratteristiche peculiari rispetto all’età adulta e talora si associano ad altri sintomi che possono confondere nel processo di inquadramento diagnostico. I test psicodiagnostici ed i questionari somministrati ai genitori ed agli insegnanti rappresentano pertanto importanti strumenti a supporto del clinico.

In alcuni casi, l’esordio di un disturbo d’ansia in età evolutiva rappresenta un fattore predisponente per altri disturbi nelle successive fasi dello sviluppo: appare evidente, quindi, la necessità di strategie preventive nelle forme sottosoglia e di un trattamento tempestivo nei casi sintomatici. I genitori hanno un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella cura di tali disturbi: se da un lato è fondamentale che siano informati rispetto ai primi segnali di disagio che possono cogliere nei propri figli, dall’altro è molto importante che essi siano parte attiva del percorso di trattamento.

Questo incontro si prefigge l’obiettivo di condividere gli elementi necessari al fine di poter porre una diagnosi differenziale all’interno dei disturbi d’ansia in età evolutiva, nonché di illustrare gli aspetti epidemiologici degli stessi. Al termine del corso il partecipante avrà avuto l’opportunità di conoscere la modalità di assessment, nonché i principali strumenti di valutazione per poi poter procedere al trattamento. Verranno inoltre illustrati alcuni possibili interventi finalizzati alla cooperazione famiglia e scuola finalizzati in particolare alla compliance al trattamento ed alla prevenzione delle ricadute.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Silvia Chiaro, Medico specialista in Neuropsichiatria Infantile, abilitata all’esercizio della Psicoterapia.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Il disagio giovanile contemporaneo: NEET e Hikikomori

La gioventù contemporanea si trova ad affrontare pressioni sociali ed economiche estranee alle generazioni precedenti: Hikikomori e NEET sono l’esempio di come l’oppressione sociale e le difficoltà occupazionali possano condurre i giovani a vivere condizioni di disagio.

 

 Sempre più spesso non ci si rende conto di come la gioventù contemporanea sia costretta ad affrontare una serie di pressioni sociali ed economiche estranee alle generazioni precedenti. La percezione di dover essere quanto più produttivi ed efficienti possibili per entrare nel mondo del lavoro, può aumentare una sensazione di ansietà tale da condurre ad un immobilismo sociale. Hikikomori e NEET sono l’esempio di come l’oppressione sociale e le difficoltà occupazionali possano condurre i giovani a vivere condizioni di disagio.

Introduzione

La cultura occidentale ha sempre sperato in una storia dell’umanità che andasse inevitabilmente progredendo: la tecnologia e le scienze continuano inesorabilmente a migliorarsi e ad accrescere il bagaglio di conoscenze attraverso nuove scoperte. Nonostante ciò, però, queste conoscenze sono incapaci di sopprimere la sofferenza umana, alimentando la tristezza e il pessimismo. Viviamo in un eterno paradosso: mentre le tecnoscienze progrediscono nella conoscenza del reale, continuiamo a essere incapaci di superare le nostre incapacità e i problemi che ci minacciano, a causa di un progresso che non è completamente in grado di darci felicità. Il sentimento di incertezza che caratterizza la società contemporanea, vessata da tensioni geopolitiche o crisi economiche, non ha fatto quindi altro che rendere il futuro imprevedibile e noi persone succubi di un’impotenza assoluta (Benasayag & Schmit, 2003).

Il fenomeno NEET

Il mondo del lavoro attuale è sempre più competitivo e richiede sempre più certificazioni e competenze. Coloro che non hanno questi attributi di “capitale umano”, ritenuto importante dai datori di lavoro, affrontano difficoltà non solo per trovare lavoro, ma nel sostenere qualsiasi tipo di carriera soddisfacente. Tale polarizzazione tra “chi ha” e “chi non ha” in termini di capitale umano, aumenta l’esclusione sociale di una sempre più sostanziale minoranza di persone.

In questa situazione già di per sé difficile, in cui è richiesta anche una sempre maggiore esperienza sul campo prima dell’assunzione, vivere una condizione di NEET (“Not in Employment, Education or Training” cioè giovani che non sono impegnati in attività lavorative, educative o formative) non fa che aggravare una storia di fallimento educativo, riducendo ulteriormente le prospettive di occupazione o di acquisizione di capitale umano attraverso l’istruzione o la formazione. In questo senso l’esperienza NEET può diventare una situazione stazionaria cronica che può aumentare gradualmente la difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro o la possibilità di esclusione sociale (Bynner & Parson, 2002).

I percorsi di carriera sono più individualizzati e meno prevedibili e potenzialmente mettono più responsabilità sui giovani per trovare la propria strada. Tre fattori contemporanei hanno intensificato le preoccupazioni perenni sui giovani NEET: la crisi del 2008 e il successivo aumento di disoccupazione giovanile; la precarizzazione del lavoro; lo svantaggio economico-lavorativo più duraturo con un conseguente impatto dannoso sulla salute mentale (Robertson, 2018).

Sono infatti presenti condizioni in cui giovani NEET si ritrovano ad affrontare una serie di stati psicologici negativi, incluse l’insoddisfazione per la vita e una perdita del senso di controllo su questa, con implicazioni anche sul piano identitario: tali difficoltà psicologiche, che spaziano da una mancanza di benessere psicologico a una sensazione di ansietà e malessere, raramente vengono riconosciute, con una conseguente negazione della loro esistenza (Bynner & Parson, 2002).

Nel 2020 in Italia abbiamo assistito ad un aumento della percentuale di NEET, raggiungendo il 23,3% (+1,1% rispetto al 2019). Il trend risulta essere accentuato al Sud, con una media di NEET del 32,6% nella fascia 15-29 anni, e colpisce maggiormente le donne a livello nazionale con una media che aumenta all’aumentare dell’età, arrivando a superare il 60% nella fascia 30-34 anni (IlSole24Ore, 2022).

Questo a testimonianza di come i giovani NEET rimangano una preoccupazione per i governi e l’obiettivo per gli interventi di politica attiva del mercato del lavoro. In Italia, per esempio, è stato a tal proposito introdotto il “Piano Neet 2022” (Dipartimento per le politiche giovanili, 2022) anche se la mancanza di chiarezza sulla loro natura può ostacolare l’efficace targeting delle politiche pubbliche (Robertson, 2018).

Fattori psico-sociali e individuali negli Hikikomori

La frequente situazione di incertezza che caratterizza la società contemporanea, è constatabile anche dall’analisi del fenomeno degli Hikikomori. Esploso negli anni ’80 in Giappone, nonostante un iniziale tentativo di ignorare la questione, il governo si sentì costretto ad avviare uno studio che potesse riconoscerli ufficialmente.

Una prima definizione di Hikikomori venne offerta nel 2003 quando il Ministero della Salute giapponese pubblicò lo studio, indicando i criteri secondo i quali questi soggetti erano in casa da almeno 6 mesi, non avevano relazioni intime se non con i familiari e il ritiro sociale doveva essere da qualsiasi attività sociale e non associato a disturbi psicotici (Saito, 2007).

Studi successivi hanno evidenziato come la sfiducia nelle persone o l’incapacità di fidarsi siano un tratto caratteristico di questi soggetti. Senza fiducia, i pazienti tendono a sentirsi insicuri o non protetti e sopprimono sentimenti o pensieri autentici nelle relazioni interpersonali per paura del rifiuto o di ricevere critiche. Hattori (2008) collegò tutto ciò alla possibilità che queste persone potessero aver subito un trauma emotivo per l’inibizione di un Sé autentico finalizzato ad assumere un ruolo adattivo in famiglie disfunzionali: ciò significherebbe aver ignorato i propri autentici sentimenti e pensieri in cambio delle cure genitoriali, ricoprendo un ruolo accondiscendente con genitori violenti o di caregiver di genitori bisognosi. La loro incapacità di fidarsi o di sentirsi al sicuro potrebbe essere quindi legata al senso di sfiducia verso i genitori, che ha creato una condizione di abbandono emotivo; questo renderebbe a sua volta difficile un intervento terapeutico gruppale, in quanto la soppressione emotiva che i soggetti effettuerebbero non farebbe che alimentare un’identità di pura facciata.

Quando questi giovani non vengono considerati malati, sono etichettati come giovani viziati che hanno abbandonato lo spirito di gruppo e il senso del dovere. Gli Hikikomori sono differenti da altre realtà adolescenziali come i NEET o i Freeter – coloro che rifiutano un posto fisso, preferendo lavori parti-time o freelance. Negli Hikikomori il rifiuto diventa totale, come totale è il ritiro che praticano o la forma di disagio e ribellione che stanno provando e, sebbene NEET e Freeter siano realtà accettate poiché in un certo qual modo si mantiene una qualche forma di interazione o partecipazione, l’Hikikomori è visto con una disapprovazione sociale per il suo voler evitare il gruppo (Ricci, 2008).

Spesso infatti l’Hikikomori è associato a patologie con le quali non ha nulla a che fare, generando grande confusione. Questa realtà è associata a una dipendenza da internet, ma va considerato che il fenomeno esplose quando internet non era ancora parte della vita quotidiana delle persone. In questo caso non è il computer o il videogioco a impattare negativamente sulla vita del soggetto o a creare una mancanza di interesse: la perdita di senso o significato è a monte e internet va solo a colmare un vuoto. Tolto quello, il vuoto rimane. Altra informazione fuorviante è che la condizione di Hikikomori sia associabile alla depressione: sebbene ci siano sintomi depressivi, queste persone si isolano per fuggire dalla sofferenza che provano nella società. Preferiscono una condizione di isolamento alla vita sociale. Non sono nemmeno dei fobici o degli schizofrenici: stiamo parlando infatti di soggetti con una visione molto critica e negativa della società (arrivando al punto da scegliere di non farne parte) che risultano capaci di operare ragionamenti approfonditi e complessi su di sé e gli altri (Crepaldi, 2019).

 Osservando la questione da un’ottica psicosociale, il comportamento di questi giovani può essere interpretato come un modo per evitare le pressioni della società, della scuola e dei genitori o la difficoltà di accesso al mercato del lavoro causata dai cambiamenti economici che penalizzano le giovani generazioni. Il comportamento degli Hikikomori sarebbe quindi un atto di ritiro dai vincoli di tempo e spazio socialmente condivisi tali da raggiungere una forma di protesta silenziosa contro la società, che li porterebbe a rinunciare al proprio status sociale (Ranieri, 2018).

Nel contesto giapponese, si è notato come famiglie troppo protettive siano diventate disfunzionali nel preparare i propri figli ad affrontare i moderni contesti sociali ed economici. In un contesto nel quale si richiede una maggiore resilienza individuale da parte dei giovani, le famiglie offrono un sempre maggiore sostentamento socio-economico ai figli a causa di una mancanza di sostegno statale per i giovani, che costringe loro a dipendere da altri fino a tarda età.

I periodi di transizione e di crescita già di per sé comportano un dover ritrovare un senso di orientamento: nel contesto di incertezza contemporaneo in cui i percorsi di vita non sono sempre così chiari, i giovani possono perdersi nel cercare di ristabilire un senso di orientamento, rischiando di ristagnare nella loro età e andare alla deriva senza superare un vero e proprio processo di crescita personale. I cambiamenti del mondo del lavoro ai quali abbiamo assistito possono essere una componente del fenomeno-hikikomori che, per assenza delle tradizionali opportunità che creano insicurezze, si ritirano dalla vita sociale ed economica per evitare l’ansia che ciò comporterebbe (Furlong, 2008).

Da un punto di vista individuale, gli Hikikomori sembrano aver vissuto periodi di mancata integrazione nel gruppo dei pari, con altrettanti episodi di bullismo che condurrebbero i soggetti a ritirarsi volontariamente per evitare l’accentuazione del senso di angoscia e irritazione. Proprio per la difficoltà ad entrare in contatto con gli altri, a causa del fallimento di reali rapporti personali, coinvolgere in una relazione terapeutica il giovane può rappresentare una vera e propria sfida. Il ritiro è dunque vissuto come un meccanismo di difesa che consente di creare uno spazio mentale (e fisico) dove poter rimanere calmi, dove l’assenza di rapporti con altri evita situazioni di allerta e dove la possibilità di creare un ambiente sul quale avere un controllo onnipotente può ridurre la frustrazione e i rischi di frammentazione dell’Io e di ansie depressive (Ranieri, 2018).

Una modalità di attaccamento genitoriale di tipo ambivalente può inoltre condurre il soggetto a difficoltà ad affrontare nuove sfide o situazioni sociali, anche a causa della loro paura di fallimento e rifiuto. Il loro essere concentrati eccessivamente sul mantenimento della vicinanza dei caregivers non li rende pronti a relazioni che vanno al di là della relazione genitore-figlio, con minori comportamenti esplorativi ed adattivi in situazioni con i pari. Questa incapacità ad entrare in contatto con i pari può essere vissuta come traumatica, specialmente se immersi in un contesto culturale collettivista (come le società orientali), per la maggiore importanza che viene assegnata all’appartenenza al gruppo (Krieg & Dickie, 2011).

L’inadempienza dei genitori all’educazione emotiva dei figli non ha fatto altro che aumentare i problemi emotivi di questa generazione. Per questo i giovani d’oggi si sentono più soli, più depressi, più rabbiosi, più impulsivi e quindi più impreparati alla vita, perché privi di quegli strumenti emotivi indispensabili per avviare comportamenti di autoconsapevolezza, autocontrollo, empatia, senza i quali non sapranno mai risolvere i conflitti (Galimberti, 2007).

La perdita dell’attaccamento sicuro si è vista anche collegata ad un’inibizione del Sé con i genitori: descrivendo la propria infanzia come oppressa, i partecipanti ad uno studio hanno dichiarato che non erano in grado di mostrare la loro vera identità ai loro genitori per paura del rifiuto. Questo comportava una mancanza di supporto o di richiesta di aiuto in momenti in cui si affrontavano angosce, traumi scolastici o altri tipi di preoccupazioni. A causa di ciò, il rapporto con i caregivers era caratterizzato da sentimenti di rabbia che, particolarmente in adolescenza, veniva sfogata con veri e propri attacchi fisici. Questi agiti, per quanto violenti, potevano però rappresentare una modalità di comunicare ai genitori un malessere che altrimenti non avrebbero colto, poiché il rapporto familiare era incentrato maggiormente sull’ossessione del tornare il prima possibile a scuola o a lavoro e non era finalizzato a comprendere la difficoltà in un modo che fosse più emotivamente disponibile (Hattori, 2008).

In base a quanto detto, l’Hikikomori sembra essere al centro di un circolo vizioso che coinvolge non solo lui in quanto membro di una famiglia, ma anche il suo rapporto con la società. Approcciarsi ad essi in un modo meno coercitivo, evitando di accusare il giovane di inoperatività, potrebbe quindi rappresentare un primo tentativo di ristabilire una comunicazione significativa affinchè possa espandere i suoi contatti prima con la famiglia e poi con la società, attraverso un graduale superamento delle difficoltà (Saito, 2014).

In Italia

Nel 2017 nasce l’associazione Hikikomori Italia: dopo una stima di circa 100.000 giovani italiani in auto-reclusione, l’associazione si è posta l’obiettivo di far aumentare la presa di coscienza del fenomeno alla popolazione nazionale, superando l’idea che questa fosse una condizione vissuta esclusivamente da giapponesi. L’associazione guarda al giovane Hikikomori non come un singolo che vive una difficoltà individuale, quanto un problema che coinvolge anche il nucleo familiare e la società alla quale appartiene. Intervenire sul singolo, quindi, non può che rivelarsi uno sforzo inconcludente in quanto si andrebbe ad agire solo su una variabile del problema (Crepaldi, 2019).

L’etichetta Hikikomori

Diversi autori considerano la condizione di Hikikomori come una sindrome psicopatologica: alcuni psichiatri attribuiscono il ritiro a categorie diagnostiche preesistenti; per altri la condizione di Hikikomori è una forma di depressione dei giorni nostri; per altri ancora, poiché non è possibile classificarla come un disturbo psichiatrico già incluso nel DSM-5 o nell’ICD-10, sarebbe necessario valutare se sia opportuno inserire questa condizione in una sindrome legata alla cultura o definirla come una nuova forma di disturbo psichiatrico (Ranieri, 2018).

Circa la necessità di etichettare qualsiasi tipo di condizione che “devii la norma”, Cipriano (2016) parla di come questa esigenza venga dal contagio del fascino nosografico, che fa correre il rischio di costruire l’identità altrui attraverso le etichette che vengono poste alle persone, senza comprendere in che modo queste vivano nel mondo. Si va così perdendo una figura medica di riferimento che non sia attenta tanto al caso che la persona porta con sé, quanto alla relazione io-tu con l’altro.

Per dirla con le parole usate da Basaglia nell’intervista di Sergio Zavoli, si deve essere interessati più al malato che alla malattia (Zavoli, 1968).

Come una bussola senza il suo Nord (2021) di V. Satti – Recensione

Come una bussola senza il suo Nord. Altrove, oltre i tagli nella mia pelle è la storia di una ragazza che soffre di una delle tante “malattie invisibili” che fanno paura perché non si conoscono.

Recensione a cura dei professionisti del CIP Disturbi di Personalità di Modena

 

 Veronica, tramite un racconto in parte autobiografico, delinea uno spaccato crudo, sincero e realistico della profondità del dolore emotivo e del peso insostenibile del vivere quotidiano di chi soffre di queste infide malattie silenziose.

“Sono frenetica, euforica, mi guardo il braccio e mi infliggo questa profonda punizione con più forza, non sento male ma solo il dolore che se ne va…” Scarlet così perde i sensi e mette a rischio la sua vita – di nuovo – e viene ricoverata in una clinica psichiatrica privata. Quest’ultima volta incontra 4 compagne di percorso che tra sbalzi emotivi, pensieri che schiacciano come massi e insicurezze creano il gruppo delle Disorders Girl, ragazze che lottano contro disturbi di personalità, autolesionismo, anoressia, tossicodipendenza, depressione, disturbo ossessivo compulsivo e cleptomania. Scarlet, McKenna, Cara, Winnie e Zelda si aiuteranno a vicenda nella speranza di sconfiggere quei mali che stanno distruggendo le loro vite e il loro futuro, attraversando momenti di sconforto e ricordi dolorosi che riaffiorano. Ciascuna di loro affronta una faticosa lotta contro il proprio disturbo, ma restano unite nel supporto reciproco, imparando a fidarsi l’una delle altre, camminando verso la consapevolezza di loro stesse e ritrovando la voglia di guarire e di riprendere in mano la propria vita.

 La semplicità con cui è scritto questo racconto permette al lettore, con altrettanta semplicità, di immedesimarsi in queste ragazze così sensibili e al contempo così disregolate che sognano solo di eliminare il loro dolore. La sofferenza soggettiva delle protagoniste che traspare tra le righe del libro è palpabile e tagliente e lo sono, allo stesso modo, anche la forza ed il coraggio dell’autrice di raccontare la sua esperienza e combattere contro lo stigma e il pregiudizio. Veronica sottolinea che queste malattie devono essere conosciute e curate e che coinvolgono non solo chi ne soffre ma anche il suo ambiente relazionale. Leggere il racconto di chi ha vissuto queste sofferenze è uno strumento per sentirsi meno soli, perché tutti noi abbiamo bisogno di essere ascoltati, compresi, accettati e amati per quello che siamo. Poche pagine per aiutare anche altre persone a riconoscere quanto si può essere forti e quanto la vita può valere – in fin dei conti chiunque ha “Una vita degna di essere vissuta” (Linehan, 1993).

 

Sintomi depressivi nelle detenute in gravidanza

Uno studio di Shlafer e colleghi del 2021 ha approfondito la prevalenza dei sintomi depressivi tra le donne detenute in gravidanza e nel periodo post-partum.

 

Carcere e gravidanza

Il numero delle donne detenute è aumentato esponenzialmente in molti Paesi dagli anni ’80 a oggi. Negli Stati Uniti, ad esempio, è aumentato del 600% e più di 200.000 donne sono detenute (Glaze e Kaeble, 2014); tre quarti di queste sono in età fertile e la maggior parte sono madri di figli minori. Dal momento che tale popolazione è aumentata molto rapidamente, le carceri e i penitenziari hanno dovuto attrezzarsi per soddisfare le esigenze sanitarie delle donne in gravidanza. A livello nazionale non si hanno molti dati sulla numerosità delle detenute incinte, in quanto le strutture carcerarie non tengono sistematicamente traccia dei tassi di gravidanza; tuttavia, le stime indicano che circa il 3%-4% delle donne è incinta quando entra in carcere (Sufrin et al., 2019). I pochi studi che hanno esaminato gli esiti delle nascite tra le detenute hanno dato risultati contrastanti. Alcuni hanno trovato che il carcere può fornire una certa “protezione” in termini di alloggio, cure mediche e pasti regolari a donne altrimenti emarginate (Martin et al., 1997). Altri ricercatori hanno affermato invece che rispetto alle donne incinte della popolazione generale, le donne in carcere avevano maggiori pfattori di rischio associati a esiti perinatali sfavorevoli, tra cui neonati pretermine e piccoli per l’età gestazionale (Bell et al., 2004). Sufrin e colleghi (2019) hanno osservato che, in media, il 6% delle nascite di donne detenute aveva un parto pretermine e il 32% di tipo cesareo, ma i tassi variavano sostanzialmente da uno Stato all’altro.

A differenza degli uomini, i periodi precedenti alla carcerazione delle donne spesso sono caratterizzati in modo sproporzionato da uso di sostanze, malattie croniche, traumi e disturbi della salute mentale. Infatti, il 66% delle donne detenute ha una precedente diagnosi di disturbi psichiatrici, tra cui i disturbi depressivi che superano di gran lunga quelli degli uomini e quelli delle donne in comunità. In aggiunta, sembra che le donne incinte in carcere abbiano tassi più elevati di esposizione alla violenza, maggiore difficoltà ad accedere a servizi perinatali e sostegno sociale scarso (Knight e Plugge, 2005). In letteratura sono disponibili pochi dati relativamente a sintomi depressivi e salute mentale delle carcerate incinte. Solitamente, durante la gravidanza e il periodo post-partum i sintomi depressivi clinicamente significativi sono relativamente comuni nella popolazione generale; i tassi di prevalenza sono stimati tra il 12% e il 20% (Woody et al., 2017). Uno studio ha riscontrato che l’80% delle carcerate durante gli ultimi tre mesi di gravidanza ha riportato sintomi compatibili a quelli della depressione clinica (Fogel, 1995). Un ulteriore studio in un carcere statale californiano ha dimostrato che il 40% delle donne che avevano appena partorito aveva sintomi depressivi tra moderati e gravi (Williams e Schulte-Day, 2006).

Alcuni dei fattori di rischio accertati per i sintomi depressivi durante la gravidanza comprendono i traumi, la povertà, il basso supporto sociale e le difficoltà di salute mentale; tali fattori sono i medesimi che solitamente mettono le donne a rischio di coinvolgimento nel sistema giudiziario penale. Altri fattori che contribuiscono all’esordio di una depressione sono un’inadeguata assistenza sanitaria fisica e mentale, l’isolamento e lo stress del carcere. Inoltre, molte donne che entrano in carcere incinte partoriscono durante la detenzione poiché la durata delle pene è elevata; la procedura prevede che coloro che partoriscono sotto custodia cautelare vengano separate dal neonato entro 48-72 ore dal parto, separazione vissuta in maniera molto angosciante dalle donne.

Sintomi depressivi tra le detenute dopo il parto

Dal momento che nessuno studio quantitativo ha considerato se gli aspetti della separazione madre-neonato, inclusa la quantità di tempo che le donne devono scontare dopo il parto, fossero associati a sintomi depressivi, uno studio di Shlafer e colleghi del 2021 ha approfondito la prevalenza dei sintomi depressivi tra le donne in gravidanza e nel periodo post-partum in carcere, e i fattori del contesto carcerario correlati ai sintomi depressivi. Gli autori hanno quindi analizzato i sintomi depressivi in modo longitudinale, dalla gravidanza al periodo post-partum in un campione di 58 donne che hanno partorito in carcere e sono state separate dai loro neonati poco dopo la nascita, valutando se i fattori legati alla detenzione (durata della detenzione durante la gravidanza, durata residua della pena da scontare dopo il parto) fossero associati ai sintomi depressivi. I ricercatori hanno raccolto i dati nel corso di un programma di sostegno alla gravidanza in un carcere statale femminile negli Stati Uniti. Il programma consisteva in un gruppo di sostegno alla gravidanza e alla genitorialità della durata di 12 settimane e in un sostegno individuale da parte di una doula durante la gravidanza, il travaglio, il parto e il post-partum. Durante le visite prenatali e post-partum, le partecipanti hanno completato il Patient Health Questionnaire-9 (PHQ-9; Sidebottom et al., 2012), per valutare la gravità dei sintomi depressivi. I risultati mostrano che più di un terzo del campione che ha partorito in custodia cautelare ha soddisfatto i criteri per una depressione da moderata a grave sul PHQ-9 durante la gravidanza o il periodo post-partum. Le donne che hanno affrontato periodi di carcerazione più lunghi dopo il parto e la separazione dai loro neonati hanno riportato livelli più elevati di sintomi depressivi post-partum.

Le carceri dovrebbero, quindi, adottare politiche e pratiche che sostengano la salute mentale delle donne e promuovano cambiamenti che evitino la separazione madre e figlio subito dopo il parto. Sarebbe opportuno, inoltre, coinvolgere delle figure come psicologi e ostetriche che possano monitorare la salute mentale delle donne prima e dopo la gravidanza, in particolare durante la separazione dai neonati, accompagnarle e supportarle per ridurre la sintomatologia depressiva.

 

La psicologia, oltre il panorama medico: un’analogia biologica

Le dimensioni rappresentate da fisica, biologia e psicologia sono, da una parte incommensurabili perché di ordini di grandezza non paragonabili, dall’altra in qualche modo in continuità; questo è il paradosso da accettare ed euristicamente sviluppare.

 

 Spesso si contesta ai filosofi della scienza di occuparsi di questioni teoriche apparentemente lontane dalle esigenze pratiche di chi opera nel campo della ricerca scientifica o del trattamento e cura del corpo o della mente. In particolare tra gli psicoterapeuti è abbastanza comune constatare una certa indifferenza, o anche solamente la considerazione dei presupposti teorici ed epistemologici della pratica analitica e della psicoterapia come un luogo non pensato ed estraneo al lavoro concreto con i pazienti.

Tuttavia, per dirla con Quine, “facts and observation are theory laden”, che sta a significare che inevitabilmente il fondamento teorico di riferimento informa sempre la cornice entro la quale si muove il professionista o lo scienziato, che quel sapere e quella conoscenza deve erogare nel predisporre il servizio di cura e di aiuto a cui è chiamato a rispondere.

In questo senso, solo per fare un esempio, il recente lavoro di Foschi e Innamorati sulla storia della psicoterapia rappresenta un approccio in controtendenza rispetto ad una certa pigrizia intellettuale degli addetti ai lavori, così presi ed impegnati nelle esigenze quotidiane e pratiche che l’attività comporta, apparentemente lontane dalle questioni teoriche.

La suggestione qui proposta è analogica e va recepita, per dir così, mutatis mutandis; si tratta di una metafora colta da un regno differente dalla psicologia, un regno preesistente e di un ordine di grandezza diverso e più grande rispetto alla dimensione psichica: ζωη Zoé più ancora che Bios. La vita organica, nella sua essenza, al di là della vita individuale. Le dimensioni rappresentate da fisica, biologia e psicologia sono, quindi, da una parte incommensurabili perché di ordini di grandezza non paragonabili, dall’altra in qualche modo in continuità; questo è il paradosso da accettare ed euristicamente sviluppare.

È come se, pur non essendo la prova dimostrata di una qualche legge incontrovertibile, la dimensione biologica avesse lasciato una traccia, una matrice così profonda da irradiarsi anche dove forse non penseremmo mai di trovarne dirette e significative conseguenze.

L’analogia tra psicologia e biologia

Allora vediamola questa analogia; siamo nel campo degli studi di biologia evoluzionistica, segnatamente nelle ricerche sperimentali sull’origine della vita. In biologia sappiamo bene come il concetto di cooperazione sia davvero molto rilevante ed assuma diverse forme in moltissime specie, dagli uccelli ai mammiferi, più o meno simili a noi; si va dalla cooperazione mutualistica delle leonesse nella caccia, al warning call degli scimpanzé diversificato per ogni tipo di pericolo, fino al più generale concetto di eusocialità nelle più disparate specie viventi, dagli insetti fino ai Sapiens. Ricordiamo Edward Wilson, andatosene proprio questo Natale, e la sua pionieristica ricerca sulla selezione naturale di gruppo, interessantissima ed illuminante nella comprensione della paradossalità dei meccanismi evolutivi e selettivi individuali e di gruppo, egoistici o altruistici, competitivi piuttosto che collaborativi. In pratica il vantaggio evolutivo, selezionato dall’ambiente, può essere, appunto, competitivo o di simbiosi, parassitario o cooperativo, può privilegiare i free riders, battitori liberi egoisti, o i comportamenti altruistici a favore del proprio gruppo: la sociobiologia è proprio la scienza che studia l’evoluzione di questi sistemi istintuali e sociali nello stesso tempo, sistemi che naturalmente riguardano anche noi umani, perlomeno fino a quando lo sviluppo culturale ci porterà verso un ampliamento di quel “Noi”,  gruppo umano, un noi che non lascerà fuori proprio nessuno; solo allora l’istinto tribale, così precisamente neurobiologicamente connotato nel nostro cervello dall’evoluzione sarà qualcosa di superato.

Dalle vicende dell’ultimo mese manca ancora tanto. Un esempio clamoroso del confronto tra il proprio e l’Altro in una comunità di primati, a noi così vicini, è stata pubblicata recentemente; si tratta di uno studio ecologico, in condizioni naturali quindi, condotto in Uganda in una comunità di scimpanzé nella quale era nato un esemplare albino, evento estremamente raro. In poche settimane il piccolo era stato progressivamente attaccato da tutti i membri del gruppo, fino alla sua uccisione cruenta. L’Altro, il non-io, il nemico, il pericolo, rappresentano uno schema psichico potentissimo, neurobiologicamente determinato dall’evoluzione, che ancora brucia sotto la cenere dalla nostra sofisticata razionalità.

Voglio, però, andare alla radice ultima e fondante della vita biologica per riprendere la suggestione analogica da cui siamo partiti, una metafora rilevante sia dal punto di vista dell’episteme delle due scienze, bio e psico, sia dal punto di vista della correlazione tra i due ambiti: il passaggio dalla chimica alla vita organica.

Sappiamo ormai da qualche decennio come la vita biologica sia nata in qualche modo da qualche molecola inorganica, chimica. L’ipotesi più plausibile e prevalente in questo senso è quella di un cosiddetto mondo a RNA quale base di partenza per l’instaurarsi delle prime molecole biologiche viventi e autoreplicanti.

Il problema di questa interpretazione teorica è sempre stato quello di capire, un mistero fino ad oggi, come sia stato possibile che singoli filamenti di RNA in grado di fare copie di sé stessi, fossero poi in grado di consolidare i meccanismi di autoreplicazione fino a produrre, nelle successive generazioni, un aumento di complessità delle proprie strutture.

Le origini della complessità umana

Da pochi giorni è stato pubblicato su Nature il lavoro degli scienziati giapponesi dell’Università di Tokyo, Mizuuchi e Furubayashi, che sono partiti proprio da questo nodo problematico, cioè l’impossibilità per singoli filamenti di RNA, a causa della loro estrema semplicità strutturale e della loro instabilità, di ricoprire il ruolo del perfetto candidato responsabile della complessificazione delle strutture autoreplicanti. Questo è stato il punto di partenza. L’esperimento degli scienziati giapponesi ha quindi cercato di dimostrare come fosse possibile osservare una evoluzione a lungo termine di un replicatore di RNA che, tuttavia, lavorasse in una rete, cooperando o parassitando; in pratica in una coltura in presenza di diversi tipi differenti di RNA, dopo diversi passaggi, il filamento RNA ospite, contaminato dagli altri tipi, si riproduceva conservando l’informazione dei filamenti parassiti; nasceva così un RNA cooperativo. Il concetto alla base della teoria e del relativo esperimento era, perciò, che la scintilla indispensabile all’avvio della complessità biologica, fosse di natura relazionale e collaborativa.

Vediamo come:

Psicologia e biologia un analogia tra le due discipline Imm 1

(Figura da Nature Communicartions).

  • a) Il sistema di replicazione dell’RNA. L’RNA ospite originale si replica attraverso la traduzione della replica autocodificata, mediante la quale potrebbero essere generati RNA ospiti mutanti e RNA parassiti.
  • b) Rappresentazione schematica di esperimenti di replicazione a lungo termine in goccioline acqua-in-olio. (1) La replicazione dell’RNA è stata eseguita a 37 °C per 5 ore. (2) Le goccioline sono state diluite 5 volte con nuove goccioline contenenti il sistema di traslazione. (3) Le goccioline sono state vigorosamente mescolate per indurre la loro fusione e divisione casuale.
  • c) Variazioni di concentrazione degli RNA dell’ospite e parassiti di diversa lunghezza. Le concentrazioni di RNA ospite sono state misurate mediante RT-qPCR e le concentrazioni di RNA parassita sono state misurate dalle corrispondenti intensità di banda dopo elettroforesi su gel. Le concentrazioni di RNA parassitario non sono state tracciate in cicli in cui non erano rilevabili.

 La figura mostra come dopo 240 cicli (1200 ore) la replicazione dei filamenti singoli, ospite e parassita, ha prodotto un aumento di complessità non presente, né prevista all’inizio della serie. Proprio quello che mancava nella spiegazione dell’origine della vita, per la quale la sola capacità di un filamento di RNA di produrre una copia di sé stesso non era sufficiente ad innescare un meccanismo stabile e potente, suscettibile di selezione da parte dell’ambiente. Tanto era difficile rintracciare qualche candidato plausibile per una spiegazione teorica convincente, che si sono susseguite nel tempo ipotesi teoriche suggestive ed originali tra i biologi evoluzionisti; ricordiamo, tra le altre, la teoria delle argille di Cairns-Smith, particolarmente interessante perché spiegava la replicazione stabile delle prime molecole biologiche attraverso il millenario sfaldamento dei cristalli di argilla nelle acque di fiumi e stagni, cristalli contaminati da molecole organiche posatesi sulle superfici. La teoria era seducente anche perché dava conto della particolare caratteristica di zuccheri e aminoacidi di essere enantiomeri, cioè molecole chirali destrorse le prime, mancine le seconde; avrebbero potuto svilupparsi in natura benissimo le molecole speculari corrispondenti, perfettamente identiche ma non sovrapponibili, come una mano allo specchio, ma di fatto non è successo, è andata così.

Tutto questo per dire come, per gli scienziati, il nodo da sciogliere risiedesse proprio nel rintracciare il meccanismo replicativo stabile e produttore di complessità strutturale crescente.

Riassumendo

Per tornare alla nostra analogia iniziale, cioè il nesso metaforico tra le origini assolute del biologico con la psicologia moderna e la sua pratica, ecco il punto: il nesso nel campo della psicoterapia risiederebbe proprio nella possibilità che emerga nella relazione analitica qualcosa di nuovo, di diverso, di più complesso del semplice contatto e interazione di più elementi individuali: il terzo intersoggettivo analitico alimentato dalla reverie.

Questo concetto teorico si riferisce al lavoro di Thomas Ogden che ne ha delineato i contorni, definendolo come qualcosa di molto più profondo di una semplice esperienza condivisa all’interno del setting e della relazione psicoterapeutica. Già Marcuse negli anni 60 individuava il pensiero dialettico come indissolubile totalità emergente dalla relazione soggetto-oggetto, totalità non riducibile alla somma delle due parti, così Ogden, successivamente, definiva il soggetto dell’esperienza analitica, l’analista come il paziente, come soggetti che si formano nello spazio intersoggettivo della loro relazione, pur nell’ineliminabile asimmetria delle parti. Sono proprio i soggetti, decentrati rispetto alla loro individualità, conscia ed inconscia, ad essere creati dallo spazio relazionale che entrambi condividono, una soggettività quindi non riconducibile a nessuna della due parti in causa. Il terzo nell’uno, dunque, come perfettamente enucleato nel lavoro sulla differenziazione di Jessica Benjamin.

Si avverte naturalmente, all’origine di questa impostazione teorica, l’influenza delle relazioni oggettuali declinate nel senso winnicottiano, proprio per la rilevanza degli aspetti primari transizionali nell’esperienza diadica madre- bambino. Tuttavia, Ogden aggiunge qualcosa in più; la relazione sì, ma come nascita e creazione di un elemento nuovo, unico, un elemento emergente, imprevedibile e di natura teleologica più che causale; una finalità naturalmente mai precostituita e prevedibile, insatura e, per definizione, mai saturabile. Un po’ come il simbolo junghiano, mai segno interpretabile, ma operatore psichico di trasformazione.

Se, allora, tutta la clinica e la psicoterapia appartengono all’insieme che contiene tutti i significati emergenti e meta individuali capaci di produrre e creare configurazioni psichiche, cognitive, emotive, oniriche, nuove ed imprevedibili, potenzialmente portatrici di cura o salvezza come si preferisce, allora, appunto, si ripete in qualche modo la traccia archetipica lasciata dai filamenti di RNA di diverso lignaggio, che, solo cooperando ed intrecciandosi per sempre, hanno creato la vita.

 

Eco ansia (2022) di Matteo Innocenti – Recensione del libro

Il 22 Aprile, in occasione della giornata internazionale della Terra, è stato pubblicato il libro Eco ansia, i cambiamenti climatici tra attivismo e paura di Matteo Innocenti.

 

 Il libro, di circa 150 pagine, è edito da Erickson ed è scritto in modo semplice e divulgativo. L’obiettivo dell’autore è stato quello di creare una prima opera che servisse ad incrementare la conoscenza e la coscienza del grande pubblico verso temi che ormai permeano la nostra quotidianità. I protagonisti sono il cambiamento climatico e l’ansia o meglio Eco Ansia, ovvero quello stato di disagio e impotenza, simile alla paura, che si può presentare quando si pensa all’incombente e inevitabile minaccia catastrofica delle conseguenze del cambiamento climatico (Clayton, 2020; Innocenti, 2021). Il filosofo ambientale Glenn Albrecht l’ha definita “la sensazione generalizzata che le basi ecologiche dell’esistenza siano in procinto di crollare” (Albrecht, 2019). Oltre all’eco ansia si espongono numerosi altri stati emotivi legati al cambiamento climatico, i cosiddetti “stati psicoterratici” o emozioni ambientali (Albrecht, 2011). Tra questi, annoveriamo emozioni negative come la solastalgia (Albrecht, 2011): una tristezza frammista a nostalgia per un territorio a cui si sentiamo di appartenere ma che ormai sentiamo irrimediabilmente degradato e non più nostro. Vengono esposte anche emozioni come la terrafurie (Albrecht, 2011), descritta come una rabbia innescata dall’intolleranza nei confronti di scelte politiche mondiali, che spesso si esprime con l’attivismo green. Ulteriore scopo dell’autore è quello di offrire agli addetti ai lavori del settore psicologico un punto di riferimento attraverso cui rendere operativa la promozione della salute fisica e mentale del singolo e della comunità inscindibilmente legati tra loro e al sistema mondo. Il libro ha anche un valore costruttivo che aspira a comunicare con le figure di riferimento che costellano il percorso di sviluppo di bambini e ragazzi quali maestri, professori ed educatori che sempre di più si troveranno ad assistere giovani preoccupati per il pianeta e le sue sorti, ma senza strumenti emotivi e comportamentali per affrontare tale realtà. Di conseguenza, riprende centralità il valore delle già citate emozioni ambientali. Di fatto, per far fronte a ciò la proposta dell’autore è quella di utilizzare la conoscenza e la comunicazione interpersonale e mediatica in maniera consapevole e “pro-ambientale” (Markle, 2013) allo scopo di “riciclare” stati psicoterratici negativi come Eco ansia (Clayton, 2020), Eco paralisi, Terrafurie (Albrecht, 2011) e dolore ecologico (Comtesse et al., 2021) in emozioni positive come l’Eutierra, che rappresenta il vissuto di unione e legame con l’ambiente e la Sumbiofilia, fonti di motivazione, dunque spinta all’azione e al cambiamento di un nuovo equilibrio tra umanità-ambiente.

 Il libro si apre con una panoramica sul fenomeno del cambiamento climatico: cos’è e quali sono gli effetti dai danni idrogeologici, socio-economici e socioculturali ai danni sulla salute generale, mentale e comunitaria. Nel secondo capitolo vengono spiegati con più precisione gli effetti del global warming sulla salute mentale, divisi in diretti e indiretti, acuti e cronici. Nel successivo capitolo l’autore si concentra sul concetto chiave di distanza psicologica dal cambiamento climatico e sulla necessità di ridurla al fine di stimolare, soprattutto nei giovani, l’assunzione di condotte pro-ambientali. All’interno dello stesso capitolo viene articolata una riflessione sulle modalità massmediatiche disfunzionali e vengono parallelamente proposti sistemi comunicativi adeguati. A tal proposito l’autore suggerisce un decalogo di atteggiamenti comunicativi che i media dovrebbero adottare per diminuire la distanza psicologica e incentivare la motivazione al cambiamento senza che per raggiungere tale scopo si faccia appello alla paura o si generino emozioni negative.

Nel quarto capitolo Matteo Innocenti descrive la gamma delle emozioni ambientali negative e positive e si concentra sulla loro genesi: il rapporto che ognuno di noi ha con la natura dà vita a delle emozioni che inevitabilmente influenzano il nostro agire quotidiano. L’autore, riprendendo teorie postulate dal filosofo ambientale Albrecht, sostiene che sia fondamentale invitare le persone a riappropriarsi della propria identità naturale attraverso il rapporto con la natura stessa e suggerisce come questo processo sia fondamentale per chi sperimenta eco ansia affinché venga tamponata e trasformata da sentimento negativo e paralizzante a sentimento positivo e motivante. L’autore spinge il lettore verso la natura e lo invita ad un ritorno ad essa con la speranza di ristabilire quel legame sinciziale che l’uomo aveva migliaia di anni fa e che ha scordato lentamente fino alla dissoluzione con l’inizio dell’epoca antropocentrica. L’autore ritiene indispensabile il passaggio da un’epoca antropocentrica, nella quale l’uomo prevale su animali e natura, ad un’era sumbiocentrica nella quale l’uomo convive in maniera paritetica e simbiotica con la natura ed i suoi frutti. Per concludere vengono proposte delle strategie di coping utili a fronteggiare l’eco ansia. Questa ultima parte del libro ha per l’autore un duplice obiettivo: fungere da ispirazione e punto di riferimento per chiunque cerchi, soprattutto nella semplicità della propria quotidianità di far fronte al dilagare di stati emotivi negativi, primo fra tutti l’eco ansia e, un secondo obiettivo, non meno importante, è quello di offrire delle risorse agli addetti ai lavori, passando in rassegna le strategie evidence based presenti al momento (Hansen, Jones, & Tocchini, 2017). Il libro tratta un tema attuale, ma antico allo stesso tempo, il rapporto tra uomo e natura e le reciproche influenze. Il cambiamento climatico e la conseguente risposta psicologica sono argomenti che necessitano attenzione e l’autore ha deciso di affrontarli con un linguaggio comprensibile, inclusivo e alla portata di un pubblico variegato, analizzando i fenomeni da un punto di vista non solo scientifico, psico-sociale, filosofico e ambientale, ma prima di tutto umano.

 

Una panoramica sull’utilizzo di steroidi nel mondo del culturismo

Sentendosi incapaci di raggiungere il fisico ideale, alcuni bodybuilder possono implementare nella loro dieta gli steroidi, con risultati inizialmente positivi, ma che poi si rivelano essere estremamente dannosi per l’organismo.

 

Bodybuilding e vigoressia

 Al giorno d’oggi, la società sembra essere molto concentrata sull’apparenza e sul concetto di bellezza e di corpo perfetto; comportamento rinforzato soprattutto dai social media, che spingono gli individui a seguire dei modelli di riferimento che vengono visti come la forma fisica ideale (Soler et al., 2013). Tuttavia, questi canoni di bellezza hanno favorito la comparsa di numerosi disagi associati al proprio corpo, come la vigoressia e la dipendenza da esercizio fisico. Nello specifico, la vigoressia è una tipologia di dismorfia corporea, che si manifesta con la continua ricerca di difetti in termini estetici e di tono muscolare, accompagnati da un’ossessione per l’allenamento e le diete. Ad esempio, un bodybuilder potrebbe guardarsi allo specchio e sentirsi insoddisfatto riguardo alle dimensioni della sua massa muscolare, anche se in realtà è molto più voluminosa degli individui che non praticano l’attività di bodybuilding. Questo può incrementare le sensazioni di debolezza e piccolezza prevalentemente negli uomini, popolazione che risulta essere maggiormente focalizzata sull’ipertrofia muscolare e su bassi livelli di massa grassa. Dunque, l’analisi delle forme del proprio corpo risulta distorta e l’individuo si ritrova in un circolo di continua insoddisfazione verso sé stesso e i propri sforzi.

Con l’aumentare della popolarità del bodybuilding, inteso come pratica volta a raggiungere un fisico ideale attraverso il sollevamento dei pesi unito a un regime alimentare speciale, sono aumentati anche gli individui che riportano insoddisfazione verso il proprio corpo (Mosley, 2009). La sensazione di inadeguatezza nei confronti del proprio corpo rappresenta la componente ossessiva della vigoressia, mentre la componente compulsiva riguarda il passare molto tempo in palestra, spendendo grandi quantità di denaro per integratori che risultano spesso essere inutili o addirittura pericolosi per la salute, con il rischio di sviluppare una dipendenza da alcune sostanze anabolizzanti, come gli steroidi. Sentendosi incapaci di raggiungere il fisico ideale, alcuni bodybuilder possono implementare nella loro dieta questi steroidi, con risultati inizialmente positivi, ma che poi si rivelano essere estremamente dannosi per l’organismo.

Bodybuilding e steroidi

 Gli Steroidi Anabolizzanti Androgeni (Anabolic Androgenic Steroids; AAS) sono infatti i più utilizzati dai bodybuilders, ma sono anche tra i più pericolosi (Jones et al., 2018). Essi sono dei derivati del testosterone sintetico e hanno una funzione principalmente terapeutica. Infatti, vengono usati per trattare disturbi ormonali come l’ipogonadismo e l’ipercortisolismo. Nell’ambiente del bodybuilding, gli steroidi vengono usati per la loro capacità di ridurre estremamente la fatica muscolare che segue l’allenamento. Sono utilizzati sia dagli individui che partecipano a competizioni di culturismo, sia dagli individui che praticano bodybuilding a livello amatoriale, con lo scopo di incrementare la forza e la massa muscolare, per tentare di raggiungere il proprio ideale di bellezza. Gli steroidi presentano una lunga serie di effetti collaterali a breve e lungo termine. Tuttavia, mentre gli effetti dopo un breve periodo di utilizzo sono spesso moderati e reversibili, gli effetti dopo l’uso per un periodo di tempo prolungato risultano essere frequentemente irreversibili e molto dannosi. Tra gli effetti dopo l’utilizzo per un breve periodo si possono riscontrare: aumento di peso, nausea, sbalzi di umore, acne e difficoltà nel mantenere un sonno continuo. Tra gli effetti di un utilizzo prolungato e/o di dosaggio intenso si possono riscontrare: acne diffuso, disfunzioni erettili, disturbi cardiovascolari, disfunzioni epatiche, aumento esponenziale del colesterolo, danni al fegato e problematiche ai tendini. Questi sono solo alcuni dei numerosi effetti negativi che tali sostanze hanno sull’individuo. Inoltre, è possibile che l’individuo sviluppi una dipendenza da queste sostanze e, nel momento in cui si interrompesse l’assunzione di steroidi, potrebbero presentarsi una serie di problematiche psicologiche, quali depressione o aggressività.

In conclusione, gli steroidi anabolizzanti sono uno strumento ampiamente diffuso nell’ambiente del culturismo; questo utilizzo frequente e incontrollato potrebbe essere correlato al fatto che anche molti influencer del culturismo ne fanno uso dichiaratamente mostrando solamente i lati positivi (come l’aumento della massa muscolare in breve tempo) mentre i lati negativi rimangono ignoti a molti utenti (Hilkens et al., 2021).

 

Verso l’immortalità digitale: il caso dei griefbot – Psicologia Digitale

I griefbots simulano una conversazione con una persona defunta utilizzando le tracce digitali lasciate intenzionalmente (su social media, e-mail, chat, ecc) o non intenzionalmente (come ricerche su siti web, registri di telefonate).

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 30) Verso l’immortalità digitale: il caso dei griefbot 

 

 Grazie alla raccolta delle tracce digitali è possibile far rivivere chi è venuto a mancare attraverso chatbot.

L’elaborazione del lutto è da sempre legata a luoghi, riti e azioni culturali condivise; pratiche come quella dell’“impersonatore” (in cui qualcuno si finge il defunto per farlo “parlare di nuovo”), delle sedute spiritiche, o ancora del “telefono del vento” (un monumento simile a una cabina telefonica in cui simbolicamente conversare con chi non c’è più), sono tutti esempi di risposte al bisogno di elaborare la perdita. Non poteva mancare la versione digitale di modi per comunicare e gestire il lutto. La thanatechnology (Sofka, 1997) è proprio l’insieme delle tecnologie che riguardano il lutto e la gestione della perdita. Accanto a forme di memoria digitali passive, come lapidi interattive (Bassett, 2015) o piattaforme che custodiscono messaggi rivolti ai posteri (Dilmaç, 2018), abbiamo forme di personificazione come avatar digitali e griefbot.

Il lutto online

Il digitale non fa niente di nuovo: elaborazione del lutto e connessione coi defunti sono un’esigenza espressa in tutte le epoche e culture. Quello che cambia sostanzialmente è il modo in cui questo viene fatto e come viene gestito.

L’espressione del lutto online diventa qualcosa di condiviso, di collettivo, non più relegato solo alla sfera privata (Wagoner e Brescó, 2021). Il nostro lutto diventa visibile, ma rimane visibile e presente anche il defunto: sulle pagine commemorative di Facebook è possibile vedere il profilo, leggere i post precedenti e inviare messaggi (Moyer e Enck, 2020). C’è chi sostiene che la cancellazione del profilo è un po’ come perdere di nuovo la persona amata (Kasket, 2012).

Questa presenza online di chi non c’è più crea e legittima nuove forme di elaborazione del lutto in cui il defunto è ancora presente (anche a chi non lo conosce, ma è pur sempre un profilo) e con cui si può in qualche modo ancora dialogare.

Cosa sono i griefbot

Una chatbot è un’applicazione basata su AI (intelligenza artificiale) che è in grado di intrattenere una conversazione con un essere umano. Tipicamente, i chatbot vengono usati per rispondere a richieste di informazioni generiche su siti che offrono servizi o e-commerce, ma ci sono anche versioni più evolute capaci di simulare una conversazione su specifiche tematiche, come i chatbot che simulano un dialogo con uno psicoterapeuta.

I griefbots fanno proprio questo: sono in grado di simulare una conversazione con una persona. Che siano tracce digitali lasciate intenzionalmente (su social media, e-mail, chat, ecc) o non intenzionalmente (come ricerche su siti web, registri di telefonate), i griefbot sono programmati per apprendere da tutte le impronte digitali lasciate da un defunto (Savin-Baden e Burden, 2019).

Queste piccole briciole digitali sono come “narbs”, cioè “narrative bits”, bit narrativi, piccoli frammenti di una narrazione che, una volta messi insieme, ricostruiscono l’identità digitale di una persona (Mitra, 2010; Paul-Choudhury, 2011).

Rispetto ad altre forme di commemorazione online differiscono per due aspetti: la comunicazione è bidirezionale (il griefbot non solo risponde ma può avviare una conversazione autonomamente) e lo spazio di interazione è privato poiché si tratta di una chat 1to1, uno a uno.

Il processo di lutto nella digital afterlife

I griefbot simulano una conversazione privata. Sono quindi un’imitazione di come parlerebbe una persona sulla base di tutti i dati raccolti su quest’ultima. Essendo una simulazione basata su una grande mole di dati, la replica è abbastanza raffinata. Quanto nel corso dell’interazione ci illudiamo, in tutto o in parte, di avere proprio a che fare con quella persona reale?

Secondo Brinkmann (2018) è sufficiente il fatto di sapere che si tratta di una copia a non farci cadere nella trappola dell’illusione di realtà e a generare un distacco. Saperlo o meno invece, secondo Elder (2020), non muta il fatto che la risposta emotiva è profonda e significativa e i messaggi del griefbot potrebbero essere interpretati inconsciamente come qualcosa di “vero”, dato che sono, dopo tutto, basati sull’impronta digitale del defunto.

Questa permanenza in una sorta di limbo tra distacco e presenza della persona cara è di aiuto o, peggio, ostacolo nell’elaborazione del lutto? Se l’utilizzo di griefbot porta benefici dipende comunque da più fattori: come e quanto viene utilizzato, il tipo di legame con il defunto, l’età in cui avviene il lutto, se si è nelle fasi iniziali del processo.

Va infine ricordato che stiamo parlando di tecnologie sviluppate da aziende private. In quanto tali, la gestione della digital afterlife si fonda sulla possibilità di riuscire a monetizzarla. La necessità di ottenere un ritorno economico spinge a incoraggiare le interazioni (con notifiche push, per esempio) e questo può avere un impatto nell’evolversi del processo di lutto. Prodotti come Eterni.me, creato nel 2014, in cui si può creare il proprio avatar da lasciare ai posteri, non sono prodotti che nascono con un intento terapeutico (Öhman e Floridi, 2018).

La questione etica: i nostri resti digitali

Che si tratti di griefbot o di testamenti digitali (vere e proprie istruzioni su cosa fare della nostra eredità digitale), le nostre tracce, i nostri resti digitali sono parte della nostra identità (Öhman e Floridi, 2018). Ma a proposito di identità, un nostro surrogato digitale creato sulla base del nostro comportamento online ci rispecchierebbe davvero? Essendo basati appunto solo su dati online, viene tagliata fuori una fetta fondamentale della nostra vita: come siamo offline.

Soprattutto, lo vorremmo davvero? Vorremmo davvero che ogni nostra briciola, ogni nostra piccola traccia – ogni narb – che abbiamo disseminato online venisse riutilizzato dopo la nostra morte? Potrebbero essere resi noti aspetti di noi e della nostra vita che avremmo voluto lasciare privati.

Queste sono domande cruciali da porsi considerando che le nostre tracce digitali diventano sempre più numerose e dettagliate e dobbiamo essere sempre più consapevoli dell’impatto che possono avere anche dopo la nostra morte.

 

Ansia per la matematica

Nonostante i vari risultati affermino che l’ansia per la matematica diminuisca significativamente le prestazioni matematiche, è importante chiarire la natura di questa relazione e identificare le abilità matematiche specifiche più fortemente colpite dall’ansia matematica

 

L’ansia per la matematica

 La matematica, rispetto ad altre materie accademiche, può suscitare forti reazioni emotive e varie difficoltà (Dowker et al., 2016). Molti studenti riportano poco interesse per questa materia, non sono consapevoli delle loro abilità matematiche e vivono la matematica come complessa e impegnativa. Ciò genera negli studenti ansia e frustrazione (Justicia-Galiano et al., 2017).

L’ansia per la matematica è un costrutto multidimensionale (Lukowski et al., 2019), definito come uno stato di agitazione causato dall’esecuzione di compiti matematici, caratterizzato da sentimenti di apprensione, preoccupazione, avversione e frustrazione. Esso rappresenta un problema diffuso in tutto il mondo per tutti i gruppi di età; circa il 93% degli adulti negli Stati Uniti riferisce di aver sperimentato l’ansia per la matematica (Blazer, 2011).

I risultati presenti in letteratura dimostrano che l’ansia per la matematica può svilupparsi sin dalla prima elementare (Sorvo et al., 2017), rendendo così più difficile l’acquisizione delle competenze matematiche nel tempo (Szczygiel, 2020). Inoltre, l’ansia per la matematica mostra correlazioni con performance matematiche più scarse (Paechter et al., 2017). Questo potrebbe essere dovuto al fatto che, sebbene livelli moderati di ansia possono motivare uno studente a comprendere meglio i concetti, l’avere una bassa percezione delle proprie abilità può portare all’evitamento e a nutrire maggiori credenze negative sulle proprie competenze (Ashcraft, 2016). Inoltre, la letteratura sull’argomento ha identificato due dimensioni correlate dell’ansia per la matematica: l’ansia legata all’apprendimento della matematica e quella legata ai test (Hopko et al., 2016; Lukowski et al., 2019). L’ansia da apprendimento della matematica riguarda nello specifico lo svolgimento di operazioni matematiche, la manipolazione di numeri o l’acquisizione di concetti matematici in classe; mentre l’ansia da test di matematica è specificamente legata allo svolgimento di verifiche in classe (Hopko et al. 2016).

Nonostante i vari risultati affermino che l’ansia per la matematica diminuisca significativamente le prestazioni matematiche (ad es, Zhang et al., 2019), è importante chiarire la natura di questa relazione e identificare, in particolare, le abilità matematiche specifiche più fortemente colpite dall’ansia matematica.

Le componenti dell’ansia per la matematica

Uno studio di Commodari e La Rosa (2021) ha valutato come l’ansia per l’apprendimento della matematica, l’ansia per le verifiche di matematica e l’ansia accademica generale fossero correlate con le prestazioni in matematica in un campione di studenti della scuola primaria in Italia. I risultati hanno mostrato che l’ansia per la matematica era un predittore significativo di tutti gli aspetti delle abilità di calcolo (cioè, la conoscenza numerica, la precisione di calcolo, la velocità di calcolo e il calcolo scritto). Al contrario, l’ansia accademica generale non ha dimostrato di essere un valido predittore della performance aritmetica, confermando che l’ansia matematica è un costrutto specifico diverso dall’ansia accademica (Ashcraft, 2016). In particolare, l’ansia da apprendimento della matematica era significativamente associata al calcolo scritto, mentre l’ansia da test di matematica era significativamente associata agli altri aspetti della capacità di calcolo, cioè la conoscenza numerica, la precisione di calcolo e la velocità di calcolo.

 Questi risultati sono degni di attenzione e mostrano che la paura degli esami di matematica ha contribuito a determinare la qualità delle prestazioni di calcolo, influenzando la correttezza dei calcoli, la velocità di esecuzione e anche le abilità implicate nella comprensione. Ciò suggerisce che l’ansia da test di matematica intacca principalmente la capacità di elaborare correttamente e automaticamente le informazioni durante un calcolo, che è centrale per il successo in situazioni di verifiche di matematica. D’altra parte, l’ansia da apprendimento della matematica influisce soprattutto sulla capacità di calcolo scritto, che richiede il possesso di procedure che vengono acquisite nel processo di apprendimento in classe. Tuttavia, sono necessari ulteriori studi per chiarire meglio la relazione tra le dimensioni dell’ansia matematica e le diverse abilità matematiche.

Ciò è in linea con quanto la letteratura riporta in merito all’ansia, la quale produce preoccupazione e compromette le prestazioni relative a compiti con elevate richieste attenzionali o di memoria di lavoro (Shi e Liu, 2016), tipologia di memoria che gioca un ruolo importante nello svolgimento delle operazioni aritmetiche e di altri compiti matematici (Commodari e Di Blasi, 2014).

In aggiunta, in linea con altri studi che hanno mostrato differenze di genere nelle abilità matematiche (Szczygiel, 2020), i risultati dello studio di Commodari e La Rosa (2021) hanno dimostrato che i maschi hanno prestazioni di calcolo migliori rispetto alle femmine. Inoltre, sono state riscontrate differenze di genere anche per l’ansia sperimentata: le femmine hanno riportato un livello più alto di ansia per la matematica, sia per quanto riguarda l’ansia per l’apprendimento che l’ansia per i test, rispetto ai maschi.

Considerazioni conclusive

In conclusione, lo studio ha confermato la relazione significativa tra ansia per la matematica e prestazioni matematiche, in particolare in compiti che richiedono un impegno maggiore delle risorse attenzionali e della memoria di lavoro, come la precisione e la velocità di calcolo.

Tuttavia, studi futuri dovranno indagare ulteriormente la relazione tra ansia matematica, memoria di lavoro e prestazioni matematiche e chiarire quali processi sono coinvolti in questa relazione.

I risultati dello studio presentato sottolineano l’importanza di pianificare interventi educativi adeguati per controllare l’ansia per la matematica e migliorare l’apprendimento della matematica fin dai primi anni di scuola. Infatti, l’evidenza dell’impatto dell’ansia per la matematica sul rendimento scolastico dovrebbe favorire lo sviluppo della metodologia di insegnamento di questa materia. I momenti di valutazione, come le verifiche in classe, dovrebbero essere strutturate in modo tale da creare ambienti più flessibili così da non portare gli studenti a sentirsi eccessivamente sotto pressione, soprattutto durante i primi anni di acquisizione delle abilità di calcolo. La riduzione dello stress psicologico e della tensione legati al raggiungimento della matematica potrebbe produrre effetti positivi sulla precisione, la velocità di calcolo e aumentare il funzionamento del sistema numerico.

Gli eventi di vita alterano la flessibilità dei tratti di personalità?

Le ricerche sul cambiamento dei tratti di personalità e sugli eventi di vita correlati hanno prodotto dei risultati che evidenziano come alcune circostanze di vita possano portare a delle modificazioni personologiche.

 

I tratti di personalità

 È difficile quantificare la mole di ricerche esistenti sui tratti della personalità. Molti studi si focalizzano sui disturbi di personalità, sulla comorbilità esistente e sulle possibili conseguenze, mettendo a confronto soggetti che hanno seguito un percorso di terapia e persone che non hanno trattato tali problematiche nell’arco della vita.

Nonostante la loro natura relativamente stabile, i tratti cambiano se osservati su intervalli moderatamente lunghi (Lucas e Donnellan, 2011; Wortman et al., 2012; Roberts e DelVecchio, 2000; Ferguson, 2010) e la loro modificazione decresce all’aumentare dell’età (Bleidorn et al., 2016). I cambiamenti osservati hanno portato a molte speculazioni in merito ai processi alla base della modificabilità dei tratti. Tutte le principali teorie sullo sviluppo della personalità enfatizzano il ruolo dei geni e dei processi di maturazione intrinseca nella stabilità e nel cambiamento (McCrae e Costa, 2008; Roberts e Wood, 2006). L’enfasi viene posta sugli eventi di vita che hanno un impatto importante per ogni singolo individuo, come disoccupazione, matrimonio, genitorialità (Bleidorn, 2015; Hutteman et al., 2014; Kandler et al., 2012; Orth e Robins, 2014; Wood  e Smith, 2005; Scollom e Diener, 2006), oppure tutte quelle transizioni che portano a effetti irreversibili e duraturi, in quanto capaci di interrompere, reindirizzare o modificare le traiettorie di vita alterando i pensieri, le emozioni e i comportamenti (Orth e Robins, 2014; Pickles e Rutter, 1991).

Il cambiamento dei tratti individuati dal Big Five

Tuttavia, le ricerche sul cambiamento dei tratti e sugli eventi di vita correlati hanno prodotto dei risultati contrastanti. Specht e colleghi (2011) hanno esaminato gli effetti di 12 importanti eventi sui tratti del Big Five utilizzando i dati del German SocioEconomic Panel (SOEP; Wagner et al., 2007). I risultati di questo studio hanno mostrato che gli eventi di vita possono portare a dei cambiamenti nei tratti, anche se gli effetti possono variare considerevolmente in base alla dimensione analizzata. Ad esempio, mentre la coscienziosità è una dimensione sensibile a eventi di vita, quali la nascita del primo figlio, il divorzio o il pensionamento, al contrario il nevroticismo non è influenzato dagli eventi di questo tipo, ma sembra dipendere dall’impatto di eventi come la prima relazione romantica (Neyer e Lehnart, 2007) o il diploma scolastico (Bleidorn, 2012).

Sono state poste differenti domande per osservare più nel dettaglio come gli effetti degli eventi di vita differiscano tra loro sul cambiamento dei tratti o come i diversi tratti differiscano nella loro suscettibilità agli eventi stessi (Bleidorn et al., 2016). Per trovare una risposta, Bleidorn e colleghi (2016) hanno analizzato degli studi longitudinali svolti per comprendere come i tratti del Big Five cambiano in risposta a esperienze legate a eventi relazionali e lavorativi. Nello specifico, gli autori hanno adottato una definizione operativa specifica di eventi di vita, cioè “transizioni tempo-discrete che designano l’inizio o la fine di uno stato specifico” (Luhmann et al., 2012, p. 594) dove lo stato (ad esempio, “divorziato” per quanto riguarda lo stato relazionale) è inteso come un ruolo, una posizione, un certo grado o una condizione (Bleidorn et al., 2016). Gli eventi minori (come le difficoltà quotidiane), le esperienze che non comportano un cambiamento di stato (come essere vittima di un crimine), le transazioni non discrete nel tempo (come menopausa o psicoterapia) e i non-eventi (non trovare un compagno, non avere figli) non sono inclusi nella definizione di eventi in questo lavoro (Bleidorn et al., 2016).

 Gli autori ipotizzano una correlazione significativa tra gli eventi di vita legati all’ambito relazionale (ad esempio matrimonio o genitorialità) e i tratti che enfatizzano l’affettività, nonché tra gli eventi di vita lavorativi e tra i tratti correlati a comportamenti o contenuti cognitivi. La letteratura revisionata dagli autori (2016) appare limitata e confusa su matrimonio e genitorialità, in quanto più studi evidenziano come vi sia una flessibilità della dimensione del nevroticismo e un aumento dell’estroversione quando si indagano le prime relazioni affettive. Nonostante ciò, le dimensioni dell’effetto dei test utilizzati e i gruppi di controllo abbinati suggeriscono che tali risultati sono generalizzabili solo a determinati gruppi di età (Bleidorn et al., 2016). Altri studi riportano delle piccole variazioni sulle dimensioni della coscienziosità, del nevroticismo e dell’estroversione in relazione alla genitorialità, mentre uno dei test più recenti e rigorosi degli effetti della genitorialità nel Big Five non riporta differenze significative tra i genitori e un gruppo abbinato di persone senza figli (Bleidorn et al., 2016).

Per quanto riguarda la relazione tra tratti e lavoro, una solida scoperta mostra che il passaggio dalla scuola all’università è associato a un rapido aumento di apertura mentale, gradevolezza e coscienziosità, nonché a una diminuzione di nevroticismo nei giovani adulti (Bleidorn et al., 2016).

Prospettive future

Esistono pochi studi prospettici orientati a comprendere come variazioni affettive (il matrimonio, il divorzio o la fine di una relazione) e autorealizzative (come la disoccupazione, le promozioni e il pensionamento) nel corso del tempo possano modificare i tratti. Tale mancanza di letteratura suggerisce lo sviluppo di un progetto esteso che tenga conto della necessità di raccogliere almeno più di tre misurazioni longitudinali su ogni dimensione e su determinati eventi, requisito mancante nelle ricerche precedenti e utile ai ricercatori per verificare se l’impatto delle esperienze successive risulterà più forte, più debole o simile all’impatto del primo evento misurato (Luhmann e Eid, 2009; van Scheppinger et al., 2016).

Insoddisfazione per il proprio corpo: quanto influiscono l’autostima e i social?

L’ autostima positiva diminuisce la suscettibilità delle adolescenti all’insoddisfazione corporea, che, a sua volta, riduce la probabilità di innescare comportamenti a rischio per i disturbi alimentari.

 

Autostima e insoddisfazione corporea

Battistelli definisce l’autostima come “l’insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di sé stesso”. Secondo tale definizione, dunque, l’autostima è la concezione che la persona ha di sé, del suo valore e delle proprie capacità. Si tratta di un costrutto in continua evoluzione, comincia a strutturarsi nei primi anni di vita, a partire dalle prime relazioni che l’individuo instaura con le figure di riferimento e va poi evolvendosi nel tempo. Diverse ricerche hanno inoltre dimostrato che l’uso dei social media da parte degli adolescenti predice una maggiore insoddisfazione corporea, ma questa relazione è più debole tra gli adolescenti che hanno riferito una relazione positiva con i propri genitori.

L’adolescenza è un periodo compreso tra i 10 e i 19 anni (OMS, 2007), durante il quale si verificano diversi cambiamenti psicologici, sociali e morfologici (Miranda et al., 2011). Si tratta di una fase caratterizzata da maggiori responsabilità, richieste e cambiamenti nelle amicizie, indagini scientifiche indicano inoltre un aumento della percentuale di grasso corporeo durante l’adolescenza (Fortes et al., 2012). Questi e altri mutamenti possono influenzare l’immagine corporea.

L’immagine corporea si riferisce a un costrutto sfaccettato, che comprende percezioni, emozioni, sentimenti e pensieri diretti al proprio corpo (Slade, 1994). L’insoddisfazione corporea, classificata come una componente dell’immagine corporea, riguarda l’insoddisfazione per il proprio peso, l’aspetto e la forma fisica (Garner et al., 1981). Gli studi hanno mostrato una prevalenza di insoddisfazione corporea che varia dal 10% al 40% tra gli adolescenti (Flament et al., 2012). Nello specifico, sembra che tale prevalenza possa essere ancora più elevata tra le adolescenti di sesso femminile (De Castro et al., 2010).

L’autostima può essere definita come la misura in cui una persona si accetta e si piace (in un momento specifico o nel complesso) secondo standard definiti socialmente e personalmente, nonché crede di essere competente in specifici settori della vita che sono rilevanti per la sua identità personale e sociale (De Dominicis et al., 2022).

Flament e collaboratori (2012), indicano che la caratteristica principale dell’autostima è l’aspetto valutativo, che influenza il modo in cui l’individuo si pone i propri obiettivi, si accetta, valorizza gli altri e proietta le proprie aspettative per il futuro. Una buona autostima è considerata uno dei principali predittori di esiti favorevoli nell’adolescenza, con implicazioni in aree quali le relazioni interpersonali e il rendimento scolastico.  Al contrario, bassi livelli di autostima sembrano correlare con aggressività, comportamenti antisociali, delinquenza in gioventù e cambiamenti negativi nell’immagine corporea (Mirza et al., 2005).

Lo studio trasversale, condotto da De Sousa Fortes e collaboratori (2014) in Brasile, con adolescenti di genere femminile di età compresa tra i 12 e i 17 anni, ha messo in luce che il 30,6% delle adolescenti ha mostrato insoddisfazione corporea, così suddivisa: il 16,1% ha presentato un’insoddisfazione corporea lieve, l’8,9% un’insoddisfazione corporea moderata e il restante 5,6% ha manifestato un’insoddisfazione corporea grave. Per quanto riguarda l’autostima, i risultati hanno mostrato che il 56% delle adolescenti aveva una bassa autostima (Rosenberg Self Esteem Scale < 26). Anche altri studi hanno confermato questi risultati (De Castro et al., 2010; Miranda et al., 2011; Slade, 1994). Dunque, l’insoddisfazione corporea colpisce circa un terzo della popolazione di adolescenti brasiliane (Forte set al., 2013). Tuttavia, questa prevalenza è aumentata negli ultimi anni (Martins et al., 2010), rendendola un problema di salute pubblica. Secondo Flament e collaboratori (2012), i media sono i principali responsabili di questo fenomeno, poiché trasmettono immagini di corpi magri associati al successo, che tende a tenere gli adolescenti lontani dalla realtà e genera sentimenti di insoddisfazione per il peso, l’aspetto fisico e la forma corporea.

Secondo Caqueo-Urizar e colleghi (2011), le ragazze con un’alta autostima di solito non interiorizzano l’ideale socioculturale della magrezza e ciò comporta una riduzione dell’insoddisfazione corporea. Ad esempio, Flament e collaboratori (2012) hanno dimostrato che l’autostima positiva diminuisce la suscettibilità delle adolescenti all’insoddisfazione corporea, che, a sua volta, riduce la probabilità di innescare comportamenti a rischio per i disturbi alimentari. Allo stesso modo, Johnson e colleghi (2004) hanno osservato che l’autostima positiva spiega livelli più bassi di insoddisfazione per il peso e l’aspetto fisico tra le studentesse universitarie americane. Pertanto, le ragazze che apprezzano le loro qualità personali e si sentono in grado di svolgere compiti sembrano essere meno vulnerabili all’insoddisfazione corporea.

Per quanto riguarda l’autostima negativa, questa era anche associata all’insoddisfazione del proprio corpo. Altre prove scientifiche supportano questi risultati: lo studio di Flament e collaboratori (2012) ha suggerito che l’autostima negativa è un importante fattore predittivo di insoddisfazione corporea, secondo solo all’interiorizzazione dell’ideale della magrezza.

Considerando la letteratura scientifica e i risultati di questa ricerca, si può presumere che i sentimenti di inutilità e fallimento possano rendere gli adolescenti più suscettibili all’insoddisfazione per il loro peso, l’aspetto fisico e la forma corporea. A conferma di questi risultati, il gruppo di ricerca di Johnson (2004) e quello di Pisitsungkagarn (2013) hanno riscontrato una maggiore insoddisfazione corporea nelle studentesse universitarie e nelle adolescenti con bassa autostima rispetto a quelle con alta autostima.

Social media e insoddisfazione corporea

Un’attività che ha dimostrato di contribuire all’insoddisfazione corporea è l’uso dei social media (Holland e Tiggemann, 2016). Tuttavia, non tutti gli adolescenti sono suscettibili agli effetti dei social media sull’insoddisfazione corporea nella stessa misura.

La ricerca ha dimostrato che fattori individuali, come la tendenza a confrontarsi con gli altri (Kleemans et al., 2018) e il livello di alfabetizzazione mediatica (McLean et al., 2016), moderano gli effetti dei social media sull’insoddisfazione corporea.

Un quadro utile per studiare le influenze sull’insoddisfazione corporea è il modello socioculturale (Thompson et al., 1999). Secondo questo modello, gli adolescenti ricevono messaggi su come dovrebbe essere il loro corpo da diverse fonti, come genitori, coetanei e media. Questi messaggi possono, ad esempio, includere che è importante essere magri o muscolosi. Se gli adolescenti interiorizzano questi ideali di apparenza come standard per il proprio corpo, confronteranno il proprio corpo con questi. Qualora il loro aspetto non corrisponda agli ideali interiorizzati, ciò si tradurrà in insoddisfazione corporea.

Sebbene il modello socioculturale originariamente si concentrasse sulla comunicazione faccia a faccia e sui media tradizionali (ad esempio riviste e TV; Thompson et al., 1999), i messaggi sugli ideali di apparenza vengono ora comunicati anche attraverso i social media. Sui social media, gli adolescenti postano fotografie di se stessi e visualizzano foto di altri (Espinoza e Juvonen, 2011) e l’aspetto fisico gioca un ruolo importante in queste attività (Siibak, 2009). Gli adolescenti riferiscono di subire pressioni per “sembrare perfetti” sui social media e per questo motivo selezionano e modificano con cura i loro post (Chua e Chang, 2016). Inoltre, i ragazzi e le ragazze adolescenti che trascorrono più tempo sui social media ricevono più feedback sul loro aspetto (De Vries et al., 2016). Oltre a ricevere messaggi sul proprio corpo sui social media, gli adolescenti vedono immagini accuratamente modificate e i commenti che ricevono. Anche lo studio di Rousseau (2017) ha rilevato che la visualizzazione dei post degli altri sui social media, era indirettamente correlata all’aumento dell’insoddisfazione corporea attraverso il confronto sociale contemporaneamente tra le ragazze adolescenti e contemporaneamente e longitudinalmente tra i ragazzi adolescenti.

L’insoddisfazione per il proprio corpo è soggetta anche alle influenze dei genitori (Bearman et al., 2006). I genitori non solo trasmettono ai figli messaggi sugli ideali di apparenza, ma anche la stessa relazione genitore-adolescente gioca un ruolo nello sviluppo dell’insoddisfazione per il corpo degli adolescenti (Bearman et al., 2006). I ricercatori sostengono che quando gli individui si sentono sicuri nelle loro relazioni è meno probabile che pensino di doversi conformare agli ideali di apparenza per ottenere l’accettazione degli altri (Holsen et al., 2012).

Alta autostima o narcisismo?

Se da un lato i due costrutti si sovrappongono perché entrambi implicano autovalutazioni positive, dall’altro ci sono importanti differenze concettuali tra autostima e narcisismo: per esempio, un’elevata autostima non è caratterizzata da grandiosità, egocentrismo e arroganza (Hyatt et al., 2018); un’elevata autostima ha un effetto prospettico positivo sulle relazioni sociali, mentre il narcisismo ha un effetto negativo (Leckelt et al., 2015). Per il comportamento antisociale, sono disponibili studi non longitudinali che hanno esaminato contemporaneamente l’autostima e il narcisismo. Tuttavia, i dati mostrano chiaramente che un’elevata autostima è correlata a un comportamento meno antisociale, mentre il narcisismo è correlato a un comportamento più antisociale (Paulhus et al., 2004).

Pertanto è importante non confondere il narcisismo con un’elevata autostima perché i due costrutti sono concettualmente distinti e spesso hanno effetti molto divergenti (e talvolta opposti) sulle relazioni sociali, sulla salute mentale e sul comportamento antisociale (Back e Morf, 2018).

 

Pro-ana (2020) di Elisa Bisagni e Michele Facci – Recensione del libro

Il libro Pro-Ana propone una visione d’insieme sul tema: accanto alle insidie del mondo del web e dei social media, vengono descritte le potenzialità insite nell’utilizzo di blog, piattaforme social e siti online, capaci di arricchire la comunicazione con chi soffre di disturbi dell’alimentazione.

 

Il testo scritto da Elisa Bisagni e Michele Facci, psicologi specializzati nella cura dei disturbi dell’alimentazione (DA) e in generale nel supporto all’adolescente e al suo ambiente familiare, rappresenta uno strumento prezioso nella scoperta di un mondo affascinante quanto complesso.

I disturbi dell’alimentazione, infatti, non solo raffigurano un ambito nel quale formazione e consapevolezza degli operatori raramente sono diffuse in modo adeguato e omogeneo, ma anche quadri cangianti in grado di trasformarsi al mutare del mondo esterno e della società.

Come ben ci spiegano i due autori nel Capitolo I, i disturbi alimentari costituiscono disturbi multifattoriali caratterizzati da molteplici componenti personali, familiari e socio-culturali che interagiscono e fungono da fattori predisponenti, precipitanti e di mantenimento.

Per fare un esempio, l’immagine corporea, ovvero il modo di percepire le proprie forme, riveste un ruolo principe nella genesi e nella definizione del disturbo alimentare, tanto che una sua alterazione è annoverata come elemento utile alla diagnosi nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (American Psychiatric Association). Ora, le aspettative sulla forma fisica, così come il concetto stesso di corpo femminile e maschile sono mutati nel corso del tempo e questo cambiamento, esacerbato dal bombardamento verificatosi attraverso i media, ha determinato profonde conseguenze su come la popolazione mondiale, e in particolare le giovani donne, percepiscono il proprio corpo. Nel corso degli ultimi 15 anni, l’imponente sviluppo dei social media ha influenzato in maniera esponenziale i vissuti di soddisfazione – insoddisfazione corporea.

Il libro è utile e fruibile sia da esperti nel settore quanto da utenti, familiari e amici desiderosi di fare qualche passo verso la comprensione dell’universo di chi soffre di disturbi alimentari e apprendere strategie utili alla prevenzione.

Giungendo al cuore del volume, Elisa Bisagni e Michele Facci ci descrivono le comunità Pro-Ana, inneggianti alla magrezza, delineandone caratteristiche, storia e rischi connessi, senza tralasciare un breve cenno anche ai meno noti siti Pro-Mia, dove Mia rappresenta uno stile alimentare di tipo bulimico.

La novità del libro Pro-Ana consistono nella visione d’insieme sul tema. Accanto alle insidie del mondo del web e dei social media, vengono descritte le potenzialità insite nell’utilizzo di blog, piattaforme social e siti online, capaci di arricchire la comunicazione con chi soffre di disturbi dell’alimentazione e in generale con adolescenti e giovani adulti. In un quadro diffuso di difficoltà comunicative, tutti questi strumenti vengono proposti come un’alternativa possibile alla solitudine e alla difficoltà di dar senso al mondo.

Tra le pagine, molti sono gli spunti di natura scientifica e i richiami a dati ricavabili dalla letteratura nazionale e internazionale, nonché ai risultati preliminari di uno studio condotto in prima persona dagli autori all’interno di alcune strutture residenziali per il trattamento dei disturbi alimentari.

Il libro, “vibrante e appassionato” come lo definisce la presidentessa del Coordinamento DCA, è anche pragmatico e concreto. Permette di far luce sul D.D.L 189/2019 relativo, tra le altre cose, alla gestione dei siti Pro-Ana e Pro-Mia. Non demonizza l’utilizzo dei social e del mondo del web, ma suggerisce nuove sfide. Sempre incoraggiando una collaborazione multidisciplinare nella gestione dei disturbi alimentari, propone la creazione, ad opera di esperti, di piattaforme accattivanti che rispondano ad alcuni bisogni fondamentali soddisfatti talvolta nei siti Pro-Ana, come l’ascolto e il supporto. È infatti inutile, se non dannoso, demolire questi spazi online senza fornire un’alternativa sana e positiva.

Gli autori, riportando esempi concreti di interventi di promozione del benessere psicologico e prevenzione dei disturbi dell’alimentazione, auspicano un consensus a livello nazionale e la creazione di linee guida sul tema Pro-Ana.

 

La voce come “faccia uditiva”: riconoscimento emotivo e dell’identità

Una recente metanalisi evidenzia come la voce possa essere considerata una “faccia uditiva”, in quanto viso e voce sono utili per il riconoscimento di persone familiari, delle emozioni e della percezione del parlato.

 

La funzione comunicativa della voce

 La comunicazione umana coinvolge complessi modelli di segnali osservati nel viso, nel corpo e nella voce (Schweinberg e Burton, 2011). Mentre la comunicazione verbale spesso assume la forma di discorsi proposizionali, volti e voci comunicano facendo inferire determinate caratteristiche dell’interlocutore al ricevente come genere, età, stato emotivo, impressioni legate al livello di competenza e altri tratti (Bruce e Young, 2012; Schweinberg et al., 2014). Quando sediamo di fronte a un uomo robusto si può immaginare una voce bassa, con delle caratteristiche differenti da quelle che può avere la voce di un’adolescente esile; eppure, può capitare di interloquire con uomini dalla voce altisonante o con donne dalla voce molto profonda.

Mentre le regioni sensibili al volto sono aree cerebrali localizzate nel sistema visivo corticale (Kanwisher, 2017), le regioni cerebrali sensibili alla voce mostrano un’estensione nella corteccia uditiva (Pernet et al., 2015; Frühholz e Belin, 2019). Dopo una prima elaborazione sensoriale nella corteccia uditiva (PAC) e nella corteccia visiva primaria (PVC), a livello neurale si vede una regione estesa della corteccia temporale mediosuperiore che modula delle risposte unimodali selettive per la voce (Pernet et al., 2015; Frühholz & Belin, 2019), mentre la face fusiform area (situata nella corteccia occipitale laterale; Kanwisher, 2017) mostra risposte unimodali selettive per i volti. Nel complesso, possiamo stupirci quando parliamo con un uomo con una voce sottile o con una ragazza con la voce profonda perché nei circuiti neurali si osserva come le zone coinvolte nella percezione della voce abbiano un grado di specificità inferiore rispetto alle zone addette alla percezione dei volti (Young et al., 2020).

La voce come faccia uditiva

Young, Frühholz e Schweinberger (2020) hanno ripreso la letteratura riguardo a ciò che può essere comunicato da voci e volti per strutturare un modello che considera le contingenze quotidiane come determinanti un sistema di comunicazione bilanciato tra mittente e destinatario. Una recente metanalisi (Schirmer, 2018) evidenzia come la voce possa essere considerata una “faccia uditiva”, in quanto viso e voce sono utili per il riconoscimento di persone familiari (attraverso l’unità di riconoscimento vocale e facciale), delle emozioni (tramite l’analisi dell’affetto vocale o facciale) e della percezione del parlato (attraverso l’analisi del discorso vocale e del non verbale espresso dalla mimica): il riconoscimento percettivo di un’identità familiare converge su rappresentazioni episodiche multimodali e informazioni semantiche specifiche dell’identità. In particolare, durante un incontro sociale, il riconoscimento dell’identità ha richieste temporali relativamente basse, in quanto l’identità di una persona viene percepita come maggiormente stabile (Haxby et al., 2000) rispetto alle emozioni che, al contrario, possono cambiare da un momento all’altro (Young, 2018).

 La voce viene così definita una “faccia uditiva”, in quanto questi cambiamenti hanno importanti implicazioni sociali, il che significa che gli aspetti vocali e facciali devono essere costantemente monitorati e hanno richieste temporali elevate (Young, 2018). Studi neuroscientifici suggeriscono come il riconoscimento emotivo avvenga grazie alla corteccia temporale posteriore superiore (pSTC; Young, 2018; Calder e Young, 2005; Gao et al., 2019): la magnetoencefalografia evidenzia risposte interattive a volti e voci in quest’area entro i primi 200 ms dall’inizio dello stimolo emotigeno presentato (Hagan et al., 2009; 2013). Il riconoscimento identitario avviene grazie ai lobi temporali anteriori che, se danneggiati, manifestano dei deficit neuropsicologici che portano il soggetto al mancato riconoscimento identitario di un viso familiare (prosopagnosia) o di una voce (fonagnosia; Gainotti, 2014; Cosseddu et al., 2018; Young et al., 2020). Il riconoscimento emotivo ha una complessità moderata (esistono un numero limitato di emozioni basiche, alcune espresse anche se utili a nasconderne altre; Du et al., 2014) e la cui corretta interpretazione dipende dal contesto (Russell e Fehr, 1987; Barrett et al., 2019); mentre il riconoscimento dell’identità ha una complessità più elevata, in quanto si possono riconoscere centinaia di individui familiari dalle loro facce (Jenkins et al., 2019) e si può discriminare un sostanziale numero di voci (Maguiness et al., 2018).

Dato che esiste una sovrapposizione tra la struttura delle emozioni riconosciute dai volti e dal tono della voce, un meccanismo multimodale per integrare i segnali vocali (considerando i vincoli contestuali; Sander et al., 2018) e la mimica facciale rappresenta una soluzione funzionale alle richieste comportamentali (Young et al., 2020). Le differenze, l’impatto che hanno volti e voci nella quotidianità sociale e la loro unione permettono una ricca comprensione delle proprietà alla base dell’organizzazione della comunicazione verbale e non verbale.

 

Sparatorie di massa e comportamenti umani

L’ultima sparatoria americana di massa, oltre a darci angoscia e tristezza, ci conferma come certi problemi dipendono da caratteristiche ambientali non particolarmente complesse e sulle quali non è più utile ragionare alla ricerca di chissà quale profonda verità ma occorrerebbe solo agire. 

 

L’accesso all’acquisto di armi negli Stati Uniti d’America ha questa caratteristica: in quel paese, per tanti altri versi ammirevole, la possibilità di acquistare armi con la stessa facilità di qualunque altro bene, è alla base delle ricorrenti stragi. Riflettere per l’ennesima volta sulla società americana, sul significato culturale del possesso delle armi come segno di libertà individuale, eredità della ribellione all’antico regime al tempo della rivoluzione americana contro la corona britannica e così via, è oramai inutile. Quel che sappiamo è che in moltissimi stati degli USA possiamo comprare un fucile con la stessa facilità di una pizza e che questa possibilità trasforma le sparatorie di massa in un comportamento malato ma facilmente attuabile. Gli Stati Uniti hanno il più alto possesso di armi pro capite al mondo con 120,5 armi da fuoco ogni 100 persone. Tutti gli altri fattori comunemente discussi sono presenti anche in altri paesi (Healy, 2015; Christensen, 2017): che gli autori delle stragi abbiano spesso problemi psicologici, un passato di bullismo subito o esercitato in persone con fragilità psicologica, che siano i perdenti di una società particolarmente individualista e competitiva o ancora la presenza di fattori imitativi o infine il fallimento dei controlli della fedina penale da parte delle istituzioni governative e/o carenza di personale. Tutti questi fattori spiegano il disagio ma non la preferenza dei sofferenti per questi comportamenti disturbati; essi sono piuttosto meglio spiegati dalla possibilità che hanno queste persone sofferenti di andarsi a comprare al volo un fucile in un’armeria.

A sua volta la capacità della lobby americana delle armi di non far passare nessuna limitazione o quasi a questa diffusione delle armi non dipende solo da profonde ragioni culturali o sociali che pure esistono, ma anche e soprattutto da oggettivi rapporti di forza politici ed economici che permettono a queste organizzazioni di fermare le azioni legislative e governative che hanno tentato di regolare la vendita di armi.

Tutte queste considerazioni sembrerebbero suggerire che la psicologia ha poco da aggiungere e da aiutare per una situazione del genere. Non è del tutto vero. Esistono varie declinazioni della psicologia e della psicoterapia. Non vi sono solo le psicologie del profondo o i modelli integrativi sociali. L’esistenza di un elemento (dis)funzionale semplice esterno e ambientale, l’accesso all’acquisto di armi, è compatibile con uno strumento tanto semplice quanto efficace: l’analisi funzionale del comportamento.

Andare in un negozio e comprare un fucile con la stessa immediatezza di uno street food non spiega il disagio emotivo, sociale e mentale di queste persone ma spiega facilmente perché il disagio di costoro sfoci in uccisioni di massa. Questo semplice fattore ambientale e comportamentale non è più esplicativo delle varie analisi sociali e psicologiche dei profili degli autori dei massacri ma offre un mezzo di intervento molto più efficace. Invocare un cambiamento sociale o culturale da sinistra o maggiori cure e prevenzione da destra (che curiosamente questa volta non si schiera per soluzioni drastiche) rischia di essere poco efficace per eventi così imprevedibili e puntiformi. I profili dei massacratori mostrano spesso disagi emotivi e psicologici come il narcisismo e l’ideazione paranoide ed è chiaro che persone con problemi di tipo paranoideo o delirante non siano sempre diagnosticate (Grinberg, 2016; Campbel,, 2015). La cura di queste persone è doverosa ma dobbiamo essere consapevoli che non è questa la soluzione dei massacri di massa. L’imprevedibilità e la violenza del singolo episodio non consentono di fare alcuna prevenzione sulla base dei profili psicologici. Perfino nel caso in cui ci sia una diagnosi che ci dice che una persona sta ruminando aggressivamente sugli stranieri o contro il governo, non è possibile prevedere se e quando questi andrà a uccidere altre persone in una chiesa o in un ufficio.

Di conseguenza la soluzione è banale ma anche chiara: agire politicamente, affinché questa facilità finisca. Non sarà facile e non solo per una serie di complesse ragioni ancora una volta storiche, culturali, sociali e psicologiche ma anche per un semplice fatto: la capacità politica della lobby delle armi di condizionare il Congresso Americano. Possiamo solo sperare che questo scandalo delle stragi di massa negli Stati Uniti possa finalmente incrinare le coscienze e determinare un indebolimento politico di queste organizzazioni.

 

Autismo e Analisi Applicata del Comportamento (ABA) – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Autismo e Analisi Applicata del Comportamento (ABA)

 

 Che cos’è l’Applied Behaviour Analysis (ABA)? Nel 1987 Cooper, Heron e Heward la definiscono come “la scienza in cui procedure derivate dai principi del comportamento sono applicate sistematicamente per migliorare i comportamenti socialmente importanti ad un livello significativo e dimostrare sperimentalmente che le procedure utilizzate sono state responsabili del miglioramento del comportamento”.

Nel corso dell’episodio viene presentata l’Applied Behaviour Analysis (ABA), un metodo comportamentale utilizzato oggi soprattutto su soggetti con diagnosi dello spettro autistico.  Questa, come riportato dagli autori sopra citati, si basa sulla possibilità di insegnare le diverse abilità necessarie per una vita soddisfacente e quanto più possibile funzionale nelle sfide quotidiane. Si tratta di un insegnamento intensivo promosso sia in ambiente naturale che attraverso sessioni a tavolino, con precise tecniche di insegnamento. L’intervento è individualizzato per ciascun bambino ed i progressi sono continuamente monitorati. Il metodo ABA richiede la costante partecipazione attiva da parte di terapisti, educatori, e genitori adeguatamente istruiti e soprattutto di supervisori qualificati che creino programmi specifici per ciascun bambino.

L’episodio del podcast è condotto dalla Dott.ssa Daniela Chieppa, Psicologa, Psicoterapeuta.

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Stile alimentare in infanzia: prevenire i disturbi alimentari

Vediamo di seguito quale contributo ha lo stile alimentare appreso durante l’infanzia e come possa diventare un fattore protettivo allo sviluppo di un disturbo alimentare.

 

 In medicina, per “prevenzione” si intende l’insieme di attività, interventi e azioni volti a ridurre la mortalità, la morbilità o gli effetti legati a determinati fattori di rischio o patologie. Dunque, lo scopo è quello di promuovere la salute sia del singolo individuo, sia della collettività. Per far sì che questo accada, vengono coinvolte molteplici figure professionali: non solo medici ma anche altri professionisti in ambito sanitario (es. fisioterapisti, dietisti, psicoterapeuti) e insegnanti, educatori o allenatori.

I livelli di prevenzione

La prevenzione, secondo il suo sistema di classificazione originario, ideato nel 1957 dalla Commission on Chronic Illness, veniva suddivisa in tre differenti livelli in base all’obiettivo da raggiungere:

  • Primario: si prefigge di ridurre l’incidenza, ovvero il numero di nuovi casi di un disturbo o di una malattia;
  • Secondario: si prefigge di ridurre la prevalenza, ovvero il tasso di casi stabiliti di un disturbo o di una malattia;
  • Terziario: si prefigge di ridurre la disabilità di un disturbo o di una malattia già presenti.

Tale divisione ha però, nel corso della storia, determinato molti pareri discordanti. Pertanto, sono stati proposti nuovi sistemi classificativi. Primo tra tutti quello di Gordon nel 1983, la cui prospettiva si basava sul “rischio-beneficio” e sul presupposto che il rischio individuale di ammalarsi debba essere messo a confronto con il costo, il rischio e il disagio dell’intervento stesso.

Tale sistema è stato successivamente rivisto dall’Institute of Medicine ed è tuttora adottato dalla maggior parte di coloro che si occupano di prevenzione. Oggi, dunque, la prevenzione si divide in:

  • Prevenzione universale: rivolta all’intero gruppo di una determinata popolazione, senza che quest’ultima sia stata identificata in base al rischio individuale (es. tutti gli studenti di una classe);
  • Prevenzione selettiva: rivolta a individui o a un sottogruppo di una determinata popolazione il cui rischio di sviluppare una malattia o un disturbo è significativamente al di sopra della media a causa di alcuni fattori di rischio, psicologici o sociali (es. individui con parenti di primo grado affetti da un disturbo dell’alimentazione);
  • Prevenzione indicata: rivolta a individui ad alto rischio, identificati in quanto presentano sintomi, segni o marcatori biologici minimi (prodromi) ma attribuibili a una malattia o disturbo, pur non soddisfacendo i criteri diagnostici (es. individui che seguono una dieta per controllare il peso e modificare la forma del corpo).

La prevenzione dei disturbi alimentari

Per quanto concerne la prevenzione dei disturbi dell’alimentazione, tale classificazione è piuttosto complicata da mantenere; specialmente perché alcuni comportamenti non salutari di controllo del peso possono essere sia fattori di rischio sia prodromi. In ogni caso, negli ultimi anni e in numerosi paesi europei (e non), molto impegno è stato profuso per creare programmi di prevenzione dedicati a queste problematiche. Le campagne sono rivolte principalmente alla scuola, il luogo ideale per raggiungere il maggior numero di adolescenti che sono coloro che, come dimostrato dagli studi, si trovano nella fascia di età maggiormente a rischio. Lo scopo degli interventi, di cui si sta testando l’efficacia, è quello di ridurre i fattori di rischio, i sintomi dei disturbi alimentari e prevenire l’aumento di peso.

Oltre a ciò, per ridurre l’impatto che tali problematiche hanno al giorno d’oggi, si può provare a “giocare di anticipo” e lavorare fin dall’infanzia attraverso l’implementazione di un corretto e protettivo stile alimentare in modo da ridurre i cosiddetti fattori di rischio potenziali; fattori di rischio che, se presenti, aumentano il rischio di sviluppare un disturbo.

Vediamo di seguito quale contributo ha lo stile alimentare appreso durante l’infanzia e come possa diventare un fattore protettivo allo sviluppo di un disturbo alimentare.

Lo stile alimentare in infanzia come fattore protettivo per i disturbi alimentari

1. Promuovere un corretto stile alimentare. Nel biennio 2017-2018 è stato effettuato l’ultimo monitoraggio Istat, pubblicato poi nell’anno successivo dall’Istituto Nazionale di Statistica. Ciò che è stato evidenziato è che solo il 12% dei bambini e degli adolescenti in Italia consumi ogni giorno le porzioni di frutta e verdura raccomandate dalle Linee Guida. Inoltre, elevato e non trascurabile è il consumo di bevande gasate e zuccherate, merendine e snack salati. Ciò va in netto contrasto con la ricerca, che invece ha più volte dimostrato come la promozione di un corretto e flessibile stile alimentare, fin dall’infanzia, sia un fattore protettivo allo sviluppo di un eventuale  disturbo alimentare.

2. Mantenere un peso e un appetito salutari durante l’infanzia e prevenire il sovrappeso. I dati della ricerca dimostrano come un peso adeguato durante l’infanzia correli con una minore incidenza di anoressia nervosa. Allo stesso modo, sia il basso peso sia la sovralimentazione, e di conseguenza l’eccesso ponderale durante l’infanzia, aumentano la probabilità di sviluppare un disturbo dell’alimentazione. Infatti, diversi studi hanno dimostrato che sovrappeso e obesità sono fattori prognostici predittivi per abbuffate e Binge Eating, insoddisfazione corporea e conseguimento di diete, anche drastiche, per controllare il proprio peso. Per ottenere un buon controllo del peso può essere utile l’implementazione dell’alimentazione regolare, ovvero la ripartizione dell’intake alimentare in cinque pasti giornalieri: colazione e due pasti principali (pranzo-cena) intervallati da due piccole merende. Per attuare ciò, può essere inoltre molto importante farsi aiutare da un professionista specializzato in alimentazione infantile e sensibile alla problematica alimentare. Le diete, infatti, aumentano di ben otto volte il rischio di sviluppare un disturbo alimentare.

3. Essere un buon esempio. Secondo la teoria dell’apprendimento vicario o sociale, ideata da Albert Bandura, i bambini imparano imitando il comportamento degli altri. Ciò accade anche in ambito alimentare, in cui l’educazione a un corretto stile alimentare e di vita può avvenire anche (e soprattutto) per trasmissione indiretta: attraverso l’esempio l’appunto. In tal modo, il momento del pasto e la scelta alimentare non si caricano di giudizio ma acquistano naturalezza e libertà. Dunque, attraverso la condivisione e la convivialità si possono promuovere corrette abitudini alimentari quali, ad esempio, la giusta composizione dei pasti o la frequenza di consumo dei vari alimenti. Per far questo è bene che tutte le figure di riferimento collaborino tra loro trasmettendo le medesime Linee Guida. È però importante che il buon esempio non venga dato unicamente dai genitori, ma anche dai nonni, dalle tate e dall’ambiente scolastico e sportivo; ovvero da tutte le figure significative che ruotano attorno ai bambini.

4. Favorire un clima sereno a tavola. Le discussioni durante il momento del pasto e il mangiare con un’atmosfera poco piacevole possono essere dei predittori per lo sviluppo di disturbi alimentari in età adulta, specialmente di anoressia nervosa. Pertanto, è bene evitare qualsiasi forma di conflitto ed è fondamentale creare un clima sereno e disteso. Inoltre, è importante evitare di discutere di argomenti che possono evocare gli ambiti della dieta e del corpo.

5. Consumare il maggior numero dei pasti in famiglia. La ricerca ha dimostrato una correlazione positiva tra consumo di pasti in famiglia e miglior benessere psicologico, e dunque un ridotto rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Pertanto, è bene promuovere la convivialità e la socialità dei pasti. Inoltre, il pasto e la sua fase di preparazione possono diventare importanti momenti di educazione alimentare. Per questo motivo è fondamentale coinvolgere i propri figli sia nella scelta e l’acquisto delle materie prime sia nella loro trasformazione.

6. Non utilizzare il cibo come punizione, premio o ricompensa. Sia la demonizzazione di alcuni alimenti additati come dannosi sia l’uso di cibi a mo’ di premio sono due comportamenti, tra di loro opposti, che andrebbero evitati. Tali atteggiamenti possono infatti condurre a un’alimentazione selettiva o all’impiego del cibo per gestire stati emotivi. Definire un alimento “cattivo” e “nocivo” porta infatti alla sua stigmatizzazione e all’erronea credenza che gli alimenti si suddividono in buoni (da consumare) e cattivi (da evitare), interiorizzando in questo modo regole dietetiche rigide.

7. Riconoscere e trattare l’alimentazione schizzinosa e i problemi digestivi. Attraverso studi retrospettivi su persone affette da anoressia nervosa (AN), è emerso che le problematiche digestive in infanzia sono due volte maggiori tra soggetti con AN rispetto al gruppo di controllo. Dall’altra parte, la selettività alimentare può generare stress e nervosismo all’interno della famiglia che a volte si traduce in una maggior pressione a mangiare. Tale comportamento, secondo la ricerca, può però sfociare in una maggiore pressione al controllo del peso e delle forme corporee e al digiuno: considerati campanelli d’allarme della presenza di un disturbo alimentare. Pertanto, anche in questo caso, può essere utile ed essenziale rivolgersi a un professionista che tratti la selettività coinvolgendo le figure significative e donando loro strategie funzionali di gestione.

8. Evitare le diete drastiche. Frequentemente le diete sono fattori di rischio e/o fattori scatenanti l’esordio di un disturbo alimentare e spesso sono intraprese in infanzia e in giovane età a seguito dei cambiamenti fisici che, biologicamente, avvengono con la pubertà. Ad oggi, la ricerca ha dimostrato che tali regimi dietetici possono portare a un recupero ulteriore di peso (con conseguente insoddisfazione corporea), all’aumento degli episodi di perdita di controllo, ad alterazioni metaboliche e a restrizione cognitiva. Pertanto, è sempre bene scoraggiare l’inizio di diete drastiche volte alla perdita del peso, specie se il soggetto è normopeso e se attuate senza il supporto di uno specialista attento alla problematica alimentare.

9. Non stigmatizzare l’obesità. Nella società attuale, lo stigma nei confronti delle persone in sovrappeso o in stato di obesità è purtroppo ancora molto forte. Non di rado capita che i soggetti in eccesso ponderale vengano derisi; questo si verifica in qualsiasi ambiente, dalla scuola al lavoro e persino nelle strutture sanitarie. Tale stigma ha purtroppo effetti negativi sulla persona che lo subisce. Esperienze stigmatizzanti danneggiano il benessere psicologico delle persone che lo subiscono aumentando il rischio, per esempio, di depressione e ansia. Inoltre, chi interiorizza lo stigma nei confronti del peso e dell’obesità, tende a peggiorare la propria condizione di salute generale adottando comportamenti non salutari e consolidando le problematiche alimentari. Per questo motivo, sarebbe opportuno evitare qualsiasi commento su peso e obesità, anche se riferito in buona fede.

Considerazioni conclusive

Come riportato in precedenza e come dimostrato dalla ricerca, le cause dei disturbi alimentari non sono ancora note e i fattori di rischio individuati sono unicamente di tipo potenziale. Non esistono infatti fattori di rischio causali, la cui assenza sarebbe in grado di diminuire il rischio di sviluppo della problematica. Dunque, ciò che è possibile fare, in attesa di avere altri dati, è lavorare sulla prevenzione e sulla creazione di un ambiente il più possibile protettivo.

 

ADHD in età adulta e il gioco d’azzardo

L’ADHD è un disturbo che può proseguire o essere diagnosticato in età adulta ed è importante tenere presente che il quadro sintomatologico è ben diverso da quello che si osserva nell’età infantile.

 

Cos’è l’ADHD o disturbo da deficit di attenzione e iperattività

 L’ADHD si colloca all’interno del DSM-5 nella categoria dei disturbi del neurosviluppo, ossia quei disturbi che descrivono una serie di condizioni che hanno esordio e manifestazione nelle fasi dello sviluppo. L’ADHD è caratterizzata da livelli invalidanti di disattenzione, disorganizzazione e/o iperattività-impulsività. In particolare, la disattenzione provoca una significativa difficoltà nello svolgimento dei compiti, mancanza di perseveranza e disorganizzazione: non è causata da un atteggiamento di sfida o dalla mancanza di comprensione. L’iperattività comporta un livello di attività motoria e di agitazione eccessivo, che si traduce nell’incapacità di rimanere seduti, nel rispettare i turni all’interno di una conversazione e nell’intromissione nelle attività altrui. Infine, l’impulsività descrive azioni affrettate, che avvengono in modo immediato, senza alcuna premeditazione e che hanno insito un potenziale dannoso per l’individuo stesso. L’impulsività si traduce chiaramente in un’incapacità di ritardare la gratificazione e di conseguenza nel desiderio di una ricompensa immediata (DSM 5).

L’ADHD in età adulta

Erroneamente si è pensato per anni che l’ADHD fosse esclusivamente un disturbo dell’età infantile/adolescenziale, che necessitava di un trattamento temporaneo, per poi risolversi con l’età adulta. La realtà è ben diversa: circa il 60% delle persone a cui è stato diagnosticato questo disturbo in età infantile, continua a presentare la sintomatologia anche in età adulta, ovviamente con manifestazioni e conseguenze diverse (Auriemma, F., 2016).

L’ADHD è un disturbo che può proseguire o essere diagnosticato in età adulta ed è importante tenere presente che il quadro sintomatologico è ben diverso da quello che si osserva nell’età infantile:

  • Disattenzione: fa riferimento a un’importante difficoltà nel mantenere l’attenzione, difficoltà che si traduce come distraibilità, ipersensibilità agli stimoli esterni e un deficit attentivo (ossia mantenere l’attenzione su compiti lunghi e potenzialmente non interessanti per il soggetto). Negli adulti è un sintomo che si manifesta in particolare modo nella mancata attenzione ai dettagli e nelle funzioni esecutive, tra cui le abilità decisionali e la memoria di lavoro. Quest’ultima ha delle ripercussioni importanti nello svolgimento delle attività quotidiane nella vita di una persona adulta (Mencacci & Migliarese, 2021).
  • Iperattività: questo è un sintomo che si modifica estremamente nelle diverse fasi della vita. In età adulta non si fa tanto riferimento all’iperattività comportamentale, come si nota in un bambino con ADHD che non riesce a controllarsi da un punto di vista motorio, quanto invece a una “tensione ed agitazione interna, irrequietezza, e incapacità di rilassarsi” (Ibid.) Possiamo quindi dire che l’iperattività nell’adulto diventa evidente laddove c’è una verbalizzazione accelerata, un’incapacità a rispettare i turni di parola e una forte disorganizzazione (Ibid.)
  • Impulsività: fa riferimento alla tendenza comportamentale che porta il soggetto adulto, con un disturbo da deficit di attenzione e iperattività, a cercare la ricompensa immediata e ad essere incapace nell’inibire comportamenti inadeguati o indesiderati (Ibid.). È interessante evidenziare che i comportamenti dettati dalla impulsività sono quelli che portano a una difficile distinzione tra ADHD e disturbo bipolare o altri disturbi perché si traducono, ad esempio, in relazioni sentimentali che si interrompono e si sostituiscono velocemente, in licenziamenti ingiustificati e in condotte rischiose (sensation seeking) e irresponsabili (es. spendere eccessivamente).

ADHD e comorbidità con il gioco d’azzardo

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività viene considerato come un prototipo di disturbo dell’impulsività, sintomo centrale della sintomatologia; pazienti in questa condizione spesso mostrano altre forme di impulsività legate ad altri disturbi (Davtian et al., 2012).

 In questo articolo ci si soffermerà sul legame tra l’ADHD e il gioco d’azzardo, prendendo in considerazione due peculiarità del disturbo da deficit di attenzione e iperattività: l’impulsività e la disregolazione emotiva. Liu e colleghi (2013) hanno trovato che i soggetti impulsivi hanno più probabilità di impegnarsi in attività rischiose, mossi dal desiderio di alleviare uno stato psicologico di under-arousal, o sotto-eccitazione, tipico dell’ADHD. Il Gambling o Gioco d’azzardo costituisce un’attività rischiosa proprio perché, citando il DSM, “comporta nel rischiare qualcosa di valore nella speranza di ottenere qualcosa di maggiore” (DSM-5); è stato concettualizzato in termini di impulsività, termine che generalmente fa riferimento a comportamenti e processi cognitivi inappropriati, prematuri, scarsamente ponderati e che si traducono a lungo andare in risultati indesiderati (Chamberlain et al., 2015). La comorbidità tra gambling disorder (GD) e ADHD può sembrare paradossale perché gli individui con ADHD mostrano difficoltà a mantenere l’attenzione, mentre un iper-coinvolgimento di quest’ultima è richiesto negli ambienti di gioco (Mestre-Bach et al., 2019). Tuttavia, è stato sottolineato precedentemente che i deficit di attenzione nell’ADHD possono cessare quando il compito è altamente gratificante e interessante per il soggetto

Secondo uno studio, i pazienti che presentano sintomi di ADHD riportano un’età inferiore di esordio del gambling, dato significativo in quanto l’età d’esordio è associata alla gravità sia del comportamento di gioco, sia delle conseguenze: più è precoce l’esordio, maggiore sarà la gravità (Aymamí et al., 2015).

A causa delle difficoltà nella regolazione emotiva, gli individui con gambling disorder o ADHD tendono ad utilizzare strategie disadattive, come sopprimere le emozioni, l’evitamento, rimuginare e catastrofizzare, quando si trovano a fronteggiare emozioni negative (Mestre-Bach et al., 2019). Davtian et al. (2012) ha confrontato due gruppi di individui con disturbo di gambling, con e senza ADHD in comorbidità, trovando che coloro che erano affetti da ADHD erano più inclini a presentare ansia, preoccupazione, depressione, isolamento sociale e bassa autostima. Questo ritrovamento ha portato gli autori a considerare il gioco d’azzardo come un possibile meccanismo adattivo finalizzato a regolare gli stati emotivi negativi e lo stress in coloro che presentano il disturbo da gioco d’azzardo e ADHD.

Un altro parallelismo significativo è quello riportato da Theule et al. (2016): gli individui affetti da gioco d’azzardo patologico presentano deficit nelle funzioni esecutive, elemento che tipicamente si nota negli individui con ADHD; inoltre, sembra che i modelli di comportamento seguiti dai giocatori ricordino quelli dell’ADHD, tra cui la tendenza a preferire la gratificazione immediata rispetto a quella ritardata (Ibid.).

Questi dati sono rilevanti per le scelte terapeutiche; si deduce che la terapia per l’ADHD possa essere utile anche per i soggetti con problemi di gioco, in quanto interventi centrati sulla gestione dell’impulsività. Conoscere la co-occorrenza di queste due condizioni offre utili informazioni in termini di pianificazione del trattamento per individui con problemi di gioco. (Theule et al., 2016)

In conclusione, L’APA (2013) sostiene che la disattenzione e l’iperattività clinicamente significative possono fungere da fattori di rischio per la progressione del disturbo da gioco.

 

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