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La musica in tempo di guerra per tenere viva la speranza

Abbiamo visto una musicista suonare il suo violino in un rifugio sotterraneo, forse un gesto nato per caso, forse la musica era l’unico modo che questa persona conosceva per tentare di tranquillizzare le persone terrorizzate che condividevano con lei quel rifugio.

 

L’abbiamo visto nei giorni più bui della pandemia, i primi mesi in cui il mondo si era fermato e la televisione trasmetteva immagini terribili che abbiamo ancora tutti davanti agli occhi. Il rifugio alla disperazione era diventato la musica. Musica nelle strade, dai balconi, dalle finestre. Persone che ad ore fisse si ritrovavano simbolicamente unite a cantare la speranza.

Ora che il nemico Covid non è ancora sconfitto, un nuovo nemico non meno spaventoso ci minaccia e ci spaventa: la guerra.

E ancora una volta nelle strade si sente suonare.

Musica e trascendenza

Trascendente è ciò che va “al di là”, al di là del mondo in cui viviamo e dell’esperienza che abbiamo sperimentato. Al di fuori della realtà. Un termine che ben si adatta all’arte in generale e quindi anche alla musica, capace di offrire sollievo quando a quello che ci circonda non siamo più capaci di trovare una spiegazione logica.

Nella specifica situazione della guerra, cui stiamo purtroppo assistendo in questi giorni, la musica soddisfa tre esigenze principali:

  • aiuta a superare la paura non facendo sentire soli
  • rafforza il senso di identità, del bene comune e della responsabilità sociale
  • soddisfa il bisogno di misticismo e la ricerca dell’ordine

Ripensando alle immagini che ci sono arrivate negli ultimi giorni dall’Ucraina, cerchiamo di capire da cosa nascono questi bisogni e come nella musica si cerchi una risposta capace di offrire sollievo.

Musica per non sentirsi soli

Sappiamo che l’uomo è per sua natura un animale sociale, interagire con i suoi simili fa parte del suo istinto. Questa necessità si avverte in modo particolare nelle situazioni estreme. Quando siamo immensamente felici sentiamo il bisogno di condividere la nostra gioia con chi ci sta intorno. Lo stesso succede quando siamo tristi, angosciati, impauriti. Abbiamo visto la bambina nella penombra di un rifugio sotterraneo cantare la canzone di un cartone animato, quasi ad invocare un diritto alla serenità che dovrebbe essere garantito, se non a tutti, almeno a chi ha la sua età.

Essere soli di fronte ad un pericolo ne aumenta la portata e accresce il nostro senso di impotenza. La fatica e la sofferenza fanno meno paura e diventano meno gravose se condivise. Creare uno “spirito di gruppo” rappresenta un mezzo assai più conveniente per non soccombere alle avversità e alle minacce, e in questo la musica ha sicuramente svolto da sempre un ruolo fondamentale.

In questi giorni abbiamo visto una musicista suonare il suo violino in un rifugio sotterraneo, un gesto nato per caso, forse l’unico modo che questa persona conosceva per tentare di tranquillizzare le persone terrorizzate che condividevano con lei quel rifugio (riusciamo ad immaginare quello che si può provare in un bunker, mentre la nostra casa e tutto quello che possediamo sono sopra le nostre teste, esposte ai bombardamenti?). I video di quel concerto improvvisato sono passati di mano in mano, di rifugio in rifugio. “Siamo diventati una famiglia”, ha spiegato la violinista quando quelle immagini sono diventate virali e le è stato chiesto il significato di quel gesto. E una famiglia è il nucleo da cui si attinge forza nei momenti più difficili.

Musica e identità

La banda dell’esercito di Kiev suona l’inno nazionale nella piazza della capitale, dove le strade sono diventate trincee. L’inno ha lo stesso compito della bandiera, svolge una funzione simbolica capace di rafforzare valori e senso civile. Nelle sue note e nelle sue parole si trova il senso di condivisione e di appartenenza di un popolo. Noi siamo generalmente abituati ad associare l’inno a situazioni fortunatamente molto meno drammatiche, per lo più ad eventi sportivi, ma il suo significato non cambia di molto. È il simbolo di un orgoglio nazionale, un modo di dare forza e dignità alla propria immagine verso l’esterno, sia esso un rivale, un nemico o un aggressore.

In questi giorni vediamo persone che cantano sulla spiaggia di Odessa mente riempiono sacchi con la sabbia per farne barricate. Per superare la paura e prepararsi alla difesa del bene comune.

La musica ci richiama all’unità

Dà consolazione, conferma il senso di identità, infonde coraggio attraverso la condivisione e la coesione sociale, che diventano la base perché possano nascere azioni collettive finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comune e perché si arrivi a poter pianificare azioni congiunte in vista di un traguardo futuro.

Inoltre la musica, fin dal passato più remoto, ha anche una funzione, se vogliamo meno concreta, ma altrettanto utile: consente all’uomo di staccarsi momentaneamente dalla realtà abbassando il suo livello di guardia, ma lo fa in un modo che è facilmente e velocemente reversibile. Più l’uomo diventa consapevole della sua condizione più cresce in lui anche uno stato d’ansia e uno stato d’ansia che si protrae a lungo diventa difficile da gestire e può inibire le risposte giuste da mettere in atto nel momento in cui si presenta un pericolo reale. Un allontanamento transitorio e reversibile dalla realtà consente di abbassare l’angoscia e lo stato di allarme e questo permette di agevolare una risposta più adeguata di fronte ad un pericolo che dovesse presentarsi all’improvviso.

Musica e misticismo

I brividi che ci sono arrivati del coro dell’Opera di Odessa che si raduna in piazza e intona Va pensiero di Giuseppe Verdi, con quella frase che suona straziante: “Oh mia patria sì bella e perduta!”, introducono un altro concetto.

Oltre al senso della patria c’è la ricerca di una spiegazione che venga dall’alto. Ci si rivolge a Dio, ad un potere superiore che sappia dare un senso al dolore, capace di ispirare una musica che possa infondere forza contro le sofferenze:

o t’ispiri il Signore un concento
che ne infonda al patire virtù!

L’uomo cerca rifugio nella fede perché avverte che da solo non ha il controllo sugli eventi che lo circondano. Perché, da sempre, non ha il controllo sulla vita e sulla morte. Il misticismo è un atteggiamento spirituale che tende a superare la logica dell’esperienza per tendere all’assoluto, ad un potere soprannaturale in grado di riportare l’ordine delle cose. In grado di riportare la serenità dove la logica e l’esperienza hanno fallito.

Carl Gustav Jung, psicanalista ma anche scienziato, ha affermato: “Tutto ciò che ho appreso nella vita, mi ha portato passo dopo passo alla convinzione incrollabile dell’esistenza di Dio. Io credo soltanto in ciò che so per esperienza. Questo esclude la fede. Dunque io non credo all’esistenza di Dio per fede. Io so che Dio esiste”.

Una riflessione

Davanti alle immagini che scorrono sui nostri televisori resta un senso di impotenza misto alla colpa. Colpa per non essere abbastanza forti, coraggiosi o intelligenti da riuscire ad evitare tutto questo. Certo possiamo pensare che non siamo stati noi a volerlo, ma siamo consapevoli che la pace è una conquista che richiede lo sforzo e il contributo di tutti. E una guerra è una sconfitta. Per tutti.

Una sconfitta di cui, forse, sentiamo la necessità di chiedere perdono.

e poi… prendere quel treno
che porta a casa tua
e chiederti perdono
di questa vacca guerra
che non è colpa mia
non è colpa mia…non è colpa mia…. (Nikolajevka, Massimo Priviero).

 

LA VIOLINISTA VERA LYTOVCHENKO SI ESIBISCE IN UN BUNKER DI KHARKIV – Guarda il video:

Il piacere femminile: scoprire, sperimentare e vivere la sessualità (2017) di Ilaria Consolo – Recensione del libro

Il piacere femminile lancia un forte messaggio: per trovare il piacere bisogna fare i conti con la paura dell’amore nell’esporsi all’altro e non c’è vero piacere se non quello che nasce dall’unione tra mente e corpo, un piacere da esperire e condividere tanto con l’altro quanto con se stessa e su se stessa.

 

Un interessante e ricco testo utile tanto agli addetti ai lavori quanto all’ampio pubblico, per la chiarezza nel linguaggio utilizzato nella sua stesura. Un viaggio nella sessualità al femminile alla conquista e riscoperta di libertà che per miti, pregiudizi, stereotipi e tabù, a tutt’oggi sembra non del tutto vissuta e dunque un viaggio alla riscoperta del “piacere al femminile”.

Il piacere è un sentimento o un’esperienza che corrisponde alla percezione di una condizione positiva, fisica, biologica e psicologica – spiega l’autrice richiamando, nella premessa del suo libro, la mitologia greca dove Piacere è figlia di Amore e Psiche.

Il mito narra infatti, di Psiche, comune mortale, che sposa Amore (Cupido), senza sapere chi fosse il marito che le si presenta solo nell’oscurità della notte, ma una sera ne scopre involontariamente il suo volto. A quel punto Cupido scompare e, per ricongiungersi al suo amato, Psiche deve superare diverse prove difficili ed alquanto pericolose, ma questo le permette, non soltanto di riunirsi al suo Amore, ma di conquistare l’immortalità.

Nella premessa, dunque, l’autrice lancia un forte messaggio attraverso il riferimento al mito ossia per trovare il piacere bisogna fare i conti con la paura dell’amore nell’esporsi all’altro e non c’è vero piacere se non quello che nasce dall’unione tra mente e corpo, un piacere da esperire e condividere tanto con l’altro quanto con se stessa e su se stessa.

Il testo affronterà la questione femminile da un punto di vista storico-culturale, la religione, gli stereotipi che a tutt’oggi hanno designato sempre l’uomo come forte, dominante, ambizioso, sessualmente attivo, libero di tradire e più tollerato, e la donna come colpevole, sottomessa, tenuta a dover essere pudica ed oggetto del piacere maschile, oppure emancipata, forte e realizzata “proprio come un uomo”, tra mode e femminismo, la figura delle donne nelle fiabe e la donna che fino ad oggi forse non ha raggiunto appieno la sua identità, unicità e diversità, venendo talvolta mascolinizzata.

Dopo un viaggio nella storia esposto tra il primo e secondo capitolo, dal capitolo terzo viene argomentata la psicobiologia del femminile con attenzione ad esempio alle caratteristiche anatomiche e vita sessuale, per proseguire nei capitoli successivi alla vita sessuale nelle sue fasi.

Verrà approfondito il tema del desiderio, l’immaginario erotico e le fantasie sessuali, l’eccitazione, l’orgasmo, l’autoerotismo, la pornografia e i sextoy, l’omosessualità femminile, la sessualità ed il piacere all’interno di forme di disagio psichico, gravidanza e sessualità nella terza età. Non mancheranno i riferimenti a disturbi e criticità riscontrabili nelle varie fasi della vita sessuale e indicazioni e suggerimenti utili al riguardo.

Tanti dunque gli argomenti trattati all’interno del testo, che, grazie al linguaggio chiaro e scorrevole, rende il libro una piacevole lettura, utile, formativa ed informativa con l’intento a mio avviso di mandare un messaggio forte, un invito volto alla donna a sentirsi e viversi al pari dell’uomo mantenendo però la sua unicità!

Mi piacerebbe concludere con un aforisma di Erich Fromm citato anche nel testo:

Se un individuo è capace di amare
positivamente, ama anche se stesso:
se può amare solo gli altri,
non può amare affatto.

Regolazione emotiva e alleanza terapeutica

Tra le caratteristiche maggiormente considerate quando si parla di alleanza terapeutica ci sono lo stile di attaccamento del terapeuta e la sua regolazione emotiva. Sono entrambi ugualmente implicati?

 

Efficacia della terapia e alleanza terapeutica

Fino agli anni ‘80, la ricerca psicologica si è concentrata principalmente sullo studio dei risultati ottenuti grazie alle terapie: in questo decennio sono state svolte numerose ricerche per indagare i processi terapeutici e gli strumenti utilizzati in vista di un cambiamento utile a migliorare il benessere delle persone che chiedono aiuto (Krause & Altimir, 2016; come citato in Ruiz-Aranda et al., 2021). Dato che il contributo del terapeuta è la chiave per comprendere l’esito di un potenziale percorso psicologico, Gimeno (2021) ha analizzato i fattori che determinano la competenza del terapeuta, identificando l’alleanza di lavoro – definita come la combinazione di accordo sugli obiettivi e come raggiungerli, nonché il legame personale tra paziente e terapeuta (Bordin, 1979; Ruiz-Aranda et al., 2021, p. 2) – come un grande contributo al successo di tutti i modelli teorici (Norcross e Lambert, 2018).

Alleanza terapeutica e stile di attaccamento

Fluckiger e colleghi (2018) hanno svolto una metanalisi indicante come l’alleanza terapeutica spieghi l’8% della varianza negli esiti della psicoterapia. Molte ricerche in letteratura suggeriscono come i terapeuti formino forti alleanze di lavoro con i loro clienti in base allo stile di attaccamento (Sauer et al., 2003; Black et al., 2010; Levy & Johnson, 2019, come citati in Ruiz-Aranda et al., 2021); in tal senso la relazione terapeutica viene vista come una relazione di attaccamento: il terapeuta funge da posto sicuro dove i clienti possono riflettere e rielaborare le esperienze e i ricordi dolorosi (Ruiz-Aranda et al., 2021). Dato che alcune ricerche suggeriscono come lo stile di attaccamento e le capacità di lavoro tra terapeuta e paziente siano correlate (Hamarta et al., 2009), si ipotizza che i terapeuti con un attaccamento sicuro abbiano maggiori probabilità di formare un tipo di alleanza terapeutica positiva (Romano et al., 2008, come citato in Ruiz-Aranda et al., 2021), mentre i terapisti con uno stile insicuro tendano ad avere più difficoltà a gestire l’ansia nelle loro interazioni con gli altri (Ruiz-Aranda et al., 2021). Secondo questa prospettiva, la capacità di accettare e gestire le emozioni aiuta la comunicazione interpersonale e la risoluzione di potenziali conflitti, tutti fattori che contribuiscono allo sviluppo di una solida alleanza terapeutica (Cann et al., 2008).

Alleanza terapeutica e regolazione emotiva

Un’altra caratteristica funzionale per stabilire una buona alleanza da parte del terapeuta è la regolazione emotiva: nello specifico vari studi indicano come una buona osservazione delle proprie competenze e delle proprie abilità in termini di regolazione emotiva sia utile per stabilire un’alleanza positiva (Corbella & Botella, 2003).

Ruiz-Aranda e colleghi (2021) hanno svolto una ricerca per comprendere se la regolazione emotiva moderi una potenziale correlazione tra l’attaccamento del terapeuta e l’alleanza terapeutica. Il campione è composto da 63 psicoterapeuti (6 uomini e 57 donne) dai 27 ai 69 anni, con almeno 5 anni di pratica nei seguenti approcci: cognitivo comportamentale (49.2% del campione totale), umanistici (14.3%), psicodinamici (1.59%), sistemici (11.1%) e altri (23.8%). Sono stati completati dei questionari sociodemografici e tre scale cliniche: l’Attachment Evaluation Questionnaire in Adults (CaMir; Balluerka et al., 2011), la Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS; Gratz & Roemer, 2004; Hervas & Jodar, 2008) e la Spanish Adaptation of the Working Alliance Inventory (Andrade-Gonzales & Fernandez-Liria, 2016).

I dati, in sintesi indicano che nonostante vi sia una correlazione positiva tra la difficoltà della regolazione emotiva e l’alleanza terapeutica, gli stili di attaccamento non influenzerebbero in modo significativo la capacità del terapeuta di stabilire un adeguato legame con il paziente, bensì gli stili di attaccamento dei terapeuti sono interagenti con le loro capacità di regolazione emotiva (Ruiz-Aranda et al., 2021). Tale studio apporta un contributo utile per avere una maggiore comprensione delle caratteristiche che i terapeuti possono implementare per ottimizzare i risultati della terapia (Norcross e Lambert, 2018, Gimeno, 2021, come citati in Ruiz-Aranda et al., 2021).

 

Guerra: come spiegare ai bambini e ai ragazzi le notizie che temiamo non possano comprendere

Spiegare la guerra a bambini e ragazzi non è sempre un compito facile per noi adulti. Eppure quando i bambini fanno domande, significa che hanno bisogno di risposte.

 

Quando i bambini fanno domande, significa che hanno bisogno di risposte. Talvolta, invece, gli adulti, temendo di gestire inadeguatamente la conversazione, o di alimentare la preoccupazione, evitano argomenti delicati importanti. Eppure, l’unico modo per preservare lo sviluppo dei bambini è proprio quello di raccontargli sempre la verità, tenendo conto della fase di sviluppo in cui si trovano.

L’impatto psicosociale del COVID

L’età evolutiva, intesa come infanzia e adolescenza, è il momento più influente per lo sviluppo della mente umana. In questi ultimi anni, però, il benessere psicosociale dei bambini e degli adolescenti risulta essere il più compromesso (Ghosh et al., 2020). La pandemia e la quarantena hanno comportato un distacco improvviso dalla routine e un aumento di sintomi ansiosi, preoccupazioni e malessere mai sperimentati precedentemente. Dalla letteratura scientifica, infatti, emerge che i bambini e gli adolescenti abbiano risentito molto di questa situazione e delle preoccupazioni dei propri genitori. Alcuni bambini mostrano un aumento di irritabilità e difficoltà, soprattutto prima di addormentarsi, che segnalano il bisogno di essere rassicurati. In alcuni casi, inoltre, si osservano comportamenti regressivi, come enuresi, encopresi, richieste di aiuto per fare qualcosa che avevano già imparato a fare da soli. Infine, fra gli effetti psicosociali della pandemia, a breve e a lungo termine, in età evolutiva emergono: sbalzi del tono dell’umore, irritabilità e iperattività, dovute alla chiusura delle attività scolastiche e sportive, disturbi del sonno (difficoltà di addormentamento, risvegli notturni o precoci) e difficoltà di concentrazione (passare da un’attività all’altra o lasciare un’attività incompleta) (Puliatti, 2020).

L’impatto della notizia della guerra in Ucraina

Le informazioni che ci arrivano negli ultimi giorni relative alla guerra in Ucraina, quindi, rischiano di insinuarsi su un benessere psicologico precario, fortemente minato dalla situazione pandemica precedente. L’essere esposti costantemente a notizie, filmati o immagini trasmesse dai vari media, contribuisce a suscitare emozioni quali paura, tristezza, rabbia che i bambini e i ragazzi non sono in grado di gestire da soli. Inoltre, alcune ricerche mostrano che anche la sola esposizione a notizie violente trasmesse dai media possa portarli ad esperire una paura simile a quella che proverebbero se fossero esposti ad un pericolo di vita reale (Buijzen et al., 2007).

In queste condizioni, i bambini potrebbero rivolgere domande sulle tematiche che spesso spaventano gli adulti: la guerra e la morte. Ragion per cui, è bene rispondere alle domande che pongono, in quanto, sono pronti e bisognosi di ascoltare le risposte. Sebbene per l’adulto possa essere più facile evitare l’argomento, questo ignorare potrebbe portare i bambini a fantasticare sulle risposte, immaginandosi degli scenari ancora più catastrofici di quello che in realtà già sono e, nell’immaginare questo, si sentiranno ancora più soli, impauriti e impotenti. Avere una conversazione accogliente, aperta e onesta, invece, li aiuterà a gestire questi vissuti e a comprendere cosa sta accadendo.

Come spiegare la guerra?

Ecco alcuni consigli pratici che i caregiver possono consultare per affrontare con bambini e ragazzi argomenti delicati, come la guerra e non solo:

  • Accogli le domande e le emozioni: accogli le domande che il bambino ti pone, ascolta quello che sa sulla situazione e focalizza l’attenzione sulle emozioni che questa gli suscita. Dove ha preso quelle informazioni? Cosa ha visto e sentito? Come si sente?
  • Valida le emozioni e le preoccupazioni: mostrati attento e comprensivo rispetto alle sue emozioni e alle sue preoccupazioni. Dai valore a quello che ti sta dicendo e non sminuirlo. Ha bisogno di sentirsi confortato per quello che sta provando e non giudicato. Ad esempio, non dire “Non c’è niente da preoccuparsi”, ma piuttosto “Sei spaventato? Hai ragione”
  • Visiona insieme le notizie ed evita la sovraesposizione: potresti scegliere un momento al giorno da dedicare insieme all’informazione, in modo da spiegare quanto emerge e rassicurarlo. Attenzione però a non esporlo ad immagini non adatte alla sua età e a non sovraesporlo continuamente alle cattive notizie, in quanto queste fanno rimanere perennemente attivo il sistema di allerta, alimentando l’ansia. Ad esempio, se desideri che il bambino dorma serenamente, evita notiziari prima che si addormenti.
  • Rassicuralo sul fatto che si sta lavorando per risolvere la situazione: sottolinea che non è un suo compito risolvere questo problema, gli adulti se ne stanno occupando. Non deve sentirsi in colpa di continuare a giocare, vedere gli amici e fare le cose che lo rendono felice, anzi è molto importante che lo faccia.
  • Gestisci le emozioni: cerca in primis di gestire le tue emozioni. Il bambino ti imita e risente del modo in cui reagisci allo stress. È normale che tu ti senta preoccupato, puoi condividerlo, ma attento a non caricarlo troppo delle tue preoccupazioni. Per sentirsi sicuro, ha bisogno di un caregiver che sappia trasmettergli affetto e sicurezza.
  • Adatta la conversazione all’età: è fondamentale selezionare le informazioni e modellare la conversazione in base alla fase di sviluppo in cui il bambino o il ragazzo si trova. Il discorso con un bambino in età prescolare sarà sicuramente molto diverso rispetto a quello con un ragazzo in età adolescenziale. Ad esempio, con un bimbo in età prescolare o della scuola primaria la spiegazione dovrebbe essere semplice e chiara. In questa fascia d’età gli strumenti per rendere la spiegazione più concreta sono quelli del gioco, del disegno e delle storie. Invece, in età preadolescenziale e adolescenziale i ragazzi, avendo molto più facilmente accesso alle informazioni, potrebbero già avere un’opinione in merito. In questo caso, il caregiver potrebbe mostrarsi interessato a cosa il ragazzo pensa, a come si sente e a dove ottiene le informazioni. Vista la fase evolutiva in cui si trova, il ragazzo potrebbe avere opinioni sulla guerra molto diverse dalle tue, cerca di rispettare la sua opinione. Hai un ruolo importante nell’aiutarlo a riflettere criticamente sulle fonti che consulta e sulle informazioni che seleziona (Maslovaric, 2020; Save the Children, 2022).

 

Neurodivergenza: tra autismo, ADHD e genere

Perché è presente una diversa incidenza nella frequenza diagnostica di neurodivergenze come Autismo e ADHD così elevata da poter essere definita come un vero e proprio gender gap?

 

Il concetto di neurodiversità (Den Houting, 2019) si sta diffondendo sempre di più non solo all’interno della letteratura scientifica, ma anche nell’attivismo sociale: con neurodiversità si intende la naturale variazione neurologica del funzionamento cerebrale e identifica due grandi sottotipi di funzionamento. Quello più comunemente diffuso è detto neurotipico, mentre quello più raro viene chiamato neurodivergente: in quest’ultima categoria rientrano, ad esempio, il funzionamento autistico e del disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD).

La diagnosi di autismo e di ADHD

Autismo e ADHD per lungo tempo sono state considerate diagnosi prettamente riguardanti il genere maschile: ad esempio, il rapporto maschi/femmine della diagnosi di disturbo dello spettro autistico (ASD) viene identificata come 4:1, ma da tempo ormai si sta affermando l’ipotesi che questa discrepanza dipenda non tanto da una minore incidenza femminile dell’ASD, ma da un miglior camuffamento e masking del genere femminile (Tubío-Fungueiriño, et al., 2021); così come sembra dimostrare anche la simile incidenza diagnostica dell’ADHD tra soggetti adulti di generi differenti, mentre la diagnosi infantile sembra restare ancorata a questa discrepanza (Nussbaum, 2012).

Perché, quindi, è presente questa diversa incidenza nella frequenza diagnostica di neurodivergenze come Autismo e ADHD, così elevata da poter essere definita come un vero e proprio gender gap?

Una delle ragioni riguarda la manifestazione dei sintomi, che si lega di conseguenza alla seconda: la taratura dei criteri diagnostici eseguita con un campione che sembra non considerare a sufficienza le differenze di genere di queste manifestazioni (Haney, 2016). Le persone socializzate secondo il genere femminile sembrano avere manifestazioni più internalizzate rispetto alla loro controparte maschile tanto per l’ADHD quanto per l’ASD.

Come spiegare il gender gap nell’ADHD e nell’autismo?

Per quanto riguarda l’ADHD, le donne tendono ad avere difficoltà più con i sintomi di disattenzione, rispetto a quelli legati all’iperattività e all’impulsività (Lai, et al., 2022) che, quando presenti, comunque tendono a manifestarsi in modalità meno dirompente (ad esempio con comportamenti iper-verbali piuttosto che fisici). In questo modo le donne tendono a ricevere in media una diagnosi in tempi molto più lunghi rispetto agli uomini: se per questi ultimi tende infatti ad arrivare durante l’infanzia, per le donne è molto più frequente in età adulta, spesso con diagnosi errate precedenti (Nussbaum, 2012).

E una situazione molto simile la ritroviamo anche nel caso della seconda neurodivergenza presa in esame oggi, l’ASD: anche se nel DSM-5 è specificato che gli individui di genere femminile potrebbero mostrare manifestazioni diverse, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà interpersonali e comunicative, resta ancora predominante il divario nella frequenza della diagnosi di autismo. Infatti, soprattutto nel momento in cui non è presente anche una compromissione cognitiva significativa, le persone di genere femminile tendono a mostrare, all’apparenza, una capacità interpersonale e comunicativa che potremmo definire ‘neurotipica’, almeno all’apparenza più superficiale: questo fenomeno trova una spiegazione nella migliore abilità che le donne tendono a dimostrare nel camuffare, attraverso il masking, queste stesse compromissioni (Tubío-Fungueiriño, et al., 2021). Inoltre, anche per quanto riguarda l’ASD, le donne tendono a mostrare meno aggressività e più manifestazioni e co-occorrenze internalizzate come ansia, disturbi dell’umore e disturbi dell’alimentazione (Haney, 2016).

Queste manifestazioni più internalizzate renderebbero dunque più difficile riconoscere e diagnosticare determinate neurodivergenze nella popolazione femminile, soprattutto perché nel corso del tempo si è sviluppato quello che potremmo definire un vero e proprio bias verso quelle che dovrebbero essere le caratteristiche tipiche dell’ASD e dell’ADHD, basate su un campione prevalentemente maschile con manifestazioni che tendono ad essere più esternalizzate (come aggressività e impulsività). Sia i manuali sia gli strumenti diagnostici sono infatti tarati per rilevare questo secondo tipo di manifestazione in modo più accurato e preciso (Haney, 2016).

Conclusioni

Per riuscire a superare il gender gap nei processi di screening e diagnosi delle neurodivergenze diventa dunque fondamentale riuscire a comprendere da un lato i bias contestuali che influenzano il processo diagnostico e dall’altro come e perché si sviluppano diverse manifestazioni tra i generi, quanto influisce la socializzazione nelle strategie di compensazione e di masking, se e quali sono le influenze ormonali che sottendono queste differenze (Tubío-Fungueiriño, et al., 2021), prendendo in considerazione anche la diversa incidenza delle co-occorrenze più comuni, che si identificano in disturbi d’ansia e dell’umore (Lai, et al., 2022).

Il ruolo di un ambiente infantile invalidante nell’insorgenza di disturbi alimentari, insoddisfazione corporea e difficoltà nelle relazioni strette

Sebbene numerosi studi abbiano riscontrato delle associazioni tra ambienti familiari invalidanti, sintomi da disturbi alimentari, insoddisfazione corporea e difficoltà nelle relazioni strette, i processi che legano queste variabili non erano ancora stati approfonditi.

 

Introduzione

L’ambiente familiare durante l’infanzia è un fattore che ci permette di capire le relazioni tra genitori e figli, spesso concettualizzate tramite due costrutti: la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), secondo la quale i bambini per ottenere cura e sicurezza rispondono ai comportamenti del caregiver, e la teoria del legame parentale, che sottolinea l’importanza della qualità del legame tra gli adolescenti e i loro genitori nei primi 16 anni (Parker et al., 1979). Talvolta può accadere che l’ambiente infantile possa essere invalidato da parte dei genitori o da chi se ne prende cura; questo accade sia tramite un’invalidazione delle esperienze personali e di interazione con l’ambiente di ciascun bambino, sia a causa della soppressione dell’espressione delle emozioni, in particolare quelle negative che, se comunicate, vengono non considerate o addirittura punite. In questo modo i bambini, siccome non è permesso loro mostrare emozioni o stati d’animo, imparano ad auto-invalidarli.

Diversi studi hanno trovato delle associazioni tra relazioni familiari invalidanti e la psicopatologia alimentare; inoltre alcuni autori hanno mostrato un’associazione tra l’invalidazione da parte del caregiver e l’insicurezza e l’insoddisfazione della propria immagine corporea (Haslam et al., 2012). A supporto di ciò uno studio ha scoperto che un legame sano tra genitori e figli era associato ad una maggiore soddisfazione dell’immagine corporea (Boutelle et al., 2009). Un ulteriore studio di Cheng & Mallinckrodt (2009) ha notato che i bambini cresciuti in contesti invalidanti necessitavano, rispetto agli altri, di maggiori rassicurazioni e approvazioni esterne per avere una visione positiva dell’immagine corporea. Nello specifico, gli ambienti familiari disfunzionali costituiscono un fattore di rischio per la disregolazione emotiva che a sua volta contribuisce all’insorgenza di comportamenti non adattivi come l’eccessiva attività fisica, le abbuffate o le eccessive restrizioni alimentari (Linehan, 1993).

È stato ampiamente dimostrato, inoltre, che un ambiente infantile invalidante può influenzare anche le relazioni adulte, in particolare la difficoltà a instaurare relazioni strette con amici o partner. Tale difficoltà spesso è presente in maniera marcata anche in coloro che soffrono di disturbi alimentari. In alcuni studi è emerso infatti un attaccamento insicuro nelle relazioni intime adulte in un campione che presentava diversi sintomi da disturbo alimentare (Tasca et al., 2013; Evans &Wertheim, 2005). Può accadere, infatti, che l’insorgenza dei disturbi alimentari avvenga in corrispondenza della fine di una relazione intima, problemi coniugali o divorzi: a volte lo stress coniugale è risultato il principale fattore di peggioramento dei sintomi mentre sentimenti di vicinanza e sintonia erano indice di miglioramento, come emerso in uno studio di Kiriike e colleghi del 1996.

Disturbi alimentari e ambienti infantili invalidanti: lo studio

Sebbene numerosi studi abbiano riscontrato delle associazioni tra ambienti familiari invalidanti, sintomi da disturbo alimentare, insoddisfazione corporea e difficoltà nelle relazioni strette, i processi che legano queste variabili non sono ancora stati approfonditi. Con il fine di comprendere l’associazione tra queste variabili e di identificare le possibili origini precoci dei disturbi e delle abitudini alimentari, Gonçalves e colleghi nel 2020 hanno condotto uno studio utilizzando un campione di studenti universitari.

Gli obiettivi dei ricercatori erano dapprima quello di esaminare se i ragazzi che hanno descritto le loro famiglie come invalidanti presentassero maggiore insoddisfazione dell’immagine corporea, maggiore difficoltà nelle relazioni intime e un’elevata sintomatologia dei disturbi alimentari; successivamente quello di individuare un modello che mettesse in relazione le variabili chiarendone l’associazione, tenendo in considerazione l’effetto dell’indice di massa corporea (BMI) che spesso condiziona soddisfazione corporea e restrizioni alimentari; infine quello di esplorare gli effetti mediatori tra le variabili. 362 studenti universitari di età compresa tra i 17 e i 25 anni sono stati inclusi ed è stato chiesto loro di completare diversi questionari self report. I questionari somministrati erano la Scala degli Ambienti Invalidanti per l’Infanzia (ICES; Haslaam et al., 2008), che valuta comportamenti materni e paterni invalidanti e analizza tre tipologie di ambienti invalidanti e uno validante proposti da Linehan (1993); il Questionario sulla forma del corpo (BSQ; Cooper et al., 1997) che valuta il peso e le preoccupazioni sull’immagine corporea nelle quattro settimane precedenti; il questionario per i Disturbi alimentari (ED-15; Tatham et al., 2015), il quale esamina gli atteggiamenti dell’ultima settimana suddivisi in ‘preoccupazioni alimentari’ e ‘preoccupazioni per il peso e la forma’; infine l’Inventario delle esperienze nelle relazioni strette (ECR; Brennan et al., 1998) che valuta le relazioni strette in termini di evitamento dell’intimità e di ansia di abbandono.

Disturbi alimentari e ambienti familiari invalidanti: i risultati

I risultati mostrano che l’indice di massa corporea, le difficoltà nelle relazioni intime, le esperienze di invalidazione di entrambi i genitori e i sintomi di un disturbo alimentare, sia inerenti al peso sia all’immagine corporea, correlano positivamente. Nello specifico, tutte le variabili prese in considerazione eccetto il BMI differiscono significativamente tra i contesti familiari validanti e quelli invalidanti: le difficoltà nello stabilire relazioni, l’insoddisfazione corporea e i sintomi dei disturbi alimentari hanno livelli più alti nelle famiglie invalidanti. Inoltre gli ambienti invalidanti sono associati ad un’alimentazione disordinata e a una maggiore insoddisfazione corporea; entrambe le relazioni sembrano essere mediate dalla difficoltà nelle relazioni intime e dal BMI. L’insoddisfazione corporea invece media le associazioni tra ambienti invalidanti e sintomi del disturbo alimentare, e tra difficoltà nelle relazioni strette e sintomi di un disturbo alimentare.

I risultati suggeriscono quindi che un’invalidazione nel contesto infantile è spesso associata a successive auto-invalidazioni; queste ultime si manifestano tramite insoddisfazione corporea e comportamenti alimentari disfunzionali. I terapeuti che trattano i disturbi alimentari dovrebbero quindi tenere in considerazione la relazione e la vicinanza tra genitori e figli in quanto un contesto infantile percepito come invalidante può essere associato ad una maggiore sintomatologia. Infine devono essere considerate anche le difficoltà nelle relazioni strette di tali pazienti che spesso contribuiscono all’esordio dei sintomi.

Il concetto di bisogno nella ricerca in psicologia. Terza parte: verso una teoria integrata dei bisogni fondamentali

In questo ultimo contributo si cercherà di fornire un quadro sinottico delle teorie considerate fino adesso e si daranno alcune suggestioni conclusive sulla questione dell’integrazione delle diverse teorie dei bisogni in psicologia.

Ndr – Il presente articolo è il terzo di una serie di tre contributi sull’argomento. Il primo e il secondo contributo sono stati pubblicati nelle scorse settimane

 

Le teorie dei bisogni

In base a quanto detto fino ad ora, le teorie dei bisogni che la ricerca in psicologia ha generato nel corso del tempo possono essere ordinate sulla base del livello di analisi (biologico, individuale, sociale/di gruppo) e della tipologia di struttura (gerarchica, a un bisogno fondamentale, liste di sistemi indipendenti, sistemi di controlli e bilanci), espresse dai bisogni considerati da ciascuna di esse (cfr. Pittman & Zeigler, 2007).

Come lo stimolo della sete, quando urgente, presenta una topografia di effetti sulla persona a livello biologico (a livello extracellulare e sistemico), individuale (percezioni, pensieri, comportamenti) e sociale (interagire con gli altri con l’obiettivo di bere), così una teoria dei bisogni fondamentali veramente comprensiva dovrebbe rispecchiare la possibilità di espandere o restringere il livello di analisi quando necessario.

Ad esempio considerando la Self-determination Theory (Deci & Ryan, 1980), i bisogni di autonomia e competenza si situano probabilmente a un livello individuale di analisi, mentre il bisogno di stare in relazione, chiaramente, su quello sociale. La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), ancora, considera il livello sociale di analisi quando entrano in gioco i sistemi dell’attaccamento e dell’accudimento, per focalizzarsi invece sul livello biologico, in relazione al sistema della paura, o a livello individuale, in relazione al sistema dell’esplorazione. Incasellare i bisogni considerati nelle diverse categorie dei livelli di analisi rende comunque possibile prevedere tutti quei casi nei quali i livelli si sovrappongono come accade, ad esempio, in una situazione nella quale il mio bisogno di autonomia, di esplorazione o di gioco necessitano di essere espressi all’interno di una relazione per me significativa oppure attraverso la soddisfazione del bisogno di appartenenza ad un gruppo sociale, come sa molto bene lo psicologo quando studia i processi di sviluppo dell’identità personale in adolescenza (Kerpelman & Pittman, 2001).

L’integrazione tra le diverse teorie dei bisogni

Considerando poi le sovrapposizioni concettuali ed empiriche tra teorie, si potrebbero superare, con il supporto dei dati, distinzioni concettuali o, ancora, analizzare più a fondo un bisogno assunto da una teoria per mezzo dei bisogni assunti da un’altra, considerabili come costituenti. Un esempio potrebbe essere il bisogno di relazione come espresso dalla teoria dell’autodeterminazione e bisogni considerati dalla teoria delle motivazioni sociali di fondo: in che modo il bisogno di relazione si esprime e trova soddisfazione secondo le diverse modalità dell’appartenenza, comprensione del mondo, fiducia negli altri e controllo dell’ambiente?

Ciò potrebbe tentarsi anche per teorie con strutture di bisogni profondamente diverse. Prendiamo ad esempio la teoria dell’attaccamento (AT; teoria dei sistemi di controllo e struttura ad un bisogno fondamentale) e la teoria cognitivo-esperienziale del Sé (TCES; teoria dei sistemi di elaborazione delle informazioni e struttura a bilanci e controlli):

  • a livello sociale/ di gruppo sociale: entrambi i sistemi cognitivi (esperienziale e analitico; TCES) concorrono all’adattamento elaborando le informazioni in funzione del mantenimento delle relazioni con gli altri, quando questo scopo è saliente per la persona. Allo stesso modo, il sistema di attaccamento (AT) persegue la vicinanza, la protezione e la sicurezza fornite da una figura di riferimento, nel caso le circostanze lo richiedano;
  • a livello individuale: il gioco e l’esplorazione (AT) possono essere un mezzo con il quale l’individuo può promuovere, tramite l’esperienza e la conoscenza che acquista nella loro attuazione, l’accrescimento e il miglioramento del Sé (TCES);
  • a livello biologico: entrambi i sistemi di elaborazione (TCES) presentano come mandato di base l’evitamento del dolore e la ricerca del piacere, noti da tempo come propensioni motivazionali di fondo (cfr. Carver & White, 1994). Gli stessi scopi sono, almeno in parte, l’attivazione del sistema della paura e dell’evitamento del pericolo (AT).

Una tabella vale più di mille parole, e può mostrare in una visione d’insieme un quadro di partenza per integrare le teorie dei bisogni citate finora, assieme ad altre non ancora considerate (cfr. Pittman & Zeigler, 2007): 

Come si può notare a colpo d’occhio, i bisogni postulati dalle diverse teorie possono trovare integrazione ai diversi livelli di analisi considerati: biologico, individuale, sociale.

Alla distinzione tra i livelli di analisi definiti nella tabella potrebbe inoltre applicarsi una distinzione delle diverse teorie sulla base della modalità di innesco dell’urgenza di soddisfacimento dei bisogni da esse considerate, distinzione che Liotti ed Ardovini (2017) utilizzano nella teoria dei sistemi motivazionali interpersonali, distinguendo tra modalità di innesco: ciclica (ad esempio la fame in base all’ora dei pasti); fasica in relazione alle contingenze ambientali (ad esempio la ricerca di sicurezza e protezione in circostanze pericolose); oppure tonica (con livelli crescenti o decrescenti d’intensità, come ad esempio l’esplorazione durante il gioco).

Conclusioni

Quelle qui sopra sono solo suggestioni fornite sulla base della rassegna di Pittman e Zeigler (2007) e di riflessioni personali. Tuttavia le domande sulla natura umana sono domande alle quali bene o male ogni disciplina risponde, a modo suo. E la psicologia al momento, come altre discipline del resto, sembra non possa offrire una risposta definitiva e univoca.

Definire una volta per tutte, in un rimando continuo tra ricerca empirica e speculazione concettuale, il sistema definitivo dei bisogni umani fondamentali, potrebbe avere valore in molti ambiti:

  • Per lo status della psicologia in relazione ad altre scienze, fornendo ad essa una base empirica e concettuale paragonabile a ciò che la biologia, la chimica e la fisica sono per la medicina.
  • Per il clinico, come base sulla quale fondare il trattamento al di là delle specificità di ogni presa in carico terapeutica.
  • Per la gente comune, fornendo un quadro chiaro di obiettivi di fondo rispetto ai quali orientare la propria vita che, se raggiunti, comporterebbero un maggiore benessere soggettivo e un miglior funzionamento psicologico, come dimostrato dalla ricerca che valida empiricamente le teorie considerate.
  • Per chiunque cerchi punti di riferimento in base ai quali perseguire soddisfazione, benessere e crescita personale, giorno dopo giorno.

 

Gioventù smarrita. Restituire il futuro a una generazione incolpevole (2021) di Vincenzo Galasso – Recensione

Il libro Gioventù smarrita sottolinea la sofferenza psicologica dei giovani e come le misure adottate per il contenimento della pandemia abbiano acutizzato diverse loro problematiche.

 

Vincenzo Galasso, autore del saggio Gioventù smarrita edito da Egea-Bocconi e pubblicato ad ottobre 2021, è professore ordinario di economia all’Università Bocconi di Milano ed è inoltre direttore dell’unità di Analysis in Pension Economics del centro Baffi-CAREFIN Research Fellow al Center for Economic Policy Research (CERP) di Londra.

Galasso, partendo dalla sua esperienza personale come padre e come docente universitario, illustra nel suo libro la teoria fallace nata durante la pandemia covid, che un verso tratto dalla canzone Dotti, medici e sapienti di Edoardo Bennato riassume: questo giovane è malato / ha già troppo contagiato / deve essere isolato.

Il punto di vista del narratore è quello di chi si rende conto che, durante il periodo di emergenza sanitaria in Italia, ci si è giustamente preoccupati di salvaguardare la fragilità degli anziani, ma ci si è dimenticati dei giovani. I ragazzi sono stati considerati untori da tenere chiusi ed isolati. Spesso sono stati trattati come incoscienti e nessuno ha riconosciuto il loro senso di responsabilità, il loro dolore ed i loro sacrifici.

La narrazione è molto schietta, sottolinea le sofferenze psicologiche dei giovani e rivela come le misure adottate per contenere i contagi abbiano acutizzato diverse problematiche del mondo giovanile italiano. Già nel 2009 Galasso con la pubblicazione, insieme a Tito Boeri, del saggio Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni aveva messo in risalto come il nostro Paese non sia capace di investire abbastanza sul futuro delle nuove generazioni.

In questo nuovo saggio l’autore descrive tutte le antiche criticità, che sono state evidenziate dallo stato pandemico, che riguardano il sistema scolastico: dalla povertà educativa all’abbandono scolastico. L’introduzione della didattica a distanza non ha aiutato, ha messo in luce mancanze strutturali e di gestione ed ha aumento l’isolamento dei giovani. Galasso rimarca l’acutizzazione delle disuguaglianze ed il peggioramento del precariato giovanile. Molti giovani, con la pandemia, hanno avuto un’ulteriore difficoltà a trovare il primo impiego, altri hanno visto svanire la possibilità di poter continuare a lavorare.

L’Italia si trova oggi nella condizione di dover cambiare il suo modo d’investire, deve riuscire a garantire un futuro alle nuove generazioni.

L’analisi condotta dall’economista Galasso ben si sposa con i dati riportati al XXIII congresso nazionale virtuale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (Sinpf): i casi di depressione tra i giovani sono raddoppiati durante il periodo pandemico. L’epidemia e la sua gestione hanno tolto ai giovani punti di riferimento importanti, i ragazzi sono rimasti bloccati in casa, proprio nel momento della vita in cui ci si dovrebbe muovere per conquistare l’indipendenza.

 

Sintomi post-traumatici da stress nei pazienti in reparti di rianimazione

I pazienti ricoverati in rianimazione in alcuni casi presentano lesioni molto importanti a seguito di traumi o incidenti che hanno compromesso gravemente le loro funzioni vitali. Vivere questa situazione di potenziale minaccia per la vita può essere un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo da stress post-traumatico.

 

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico è incluso nel DSM-5 (APA, 2013) nella categoria dei Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti. Esso prevede l’esposizione da parte del soggetto ad un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale facendo un’esperienza diretta o indiretta dell’evento traumatico oppure venendo a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto ad un membro della famiglia o ad un amico stretto. I sintomi di cui il soggetto soffre possono essere sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico come ricordi, sogni e/o flashback, evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento, marcate alterazioni dell’arousal e della reattività come ad esempio comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (APA, 2013). La genesi di questo disturbo è multifattoriale; bisogna considerare una serie di aspetti pre-traumatici (ad es. storia psichiatrica, abuso infantile riportato e storia psichiatrica familiare), peri-traumatici (ad es. gravità del trauma, impatto personale e vicinanza) e post-traumatici (ad es. mancanza di supporto sociale, menomazioni fisiche o finanziarie permanenti causate dal trauma) che contribuiscono al suo sviluppo e perpetuazione (Brewin et al., 2000)

Tra il 18% e il 25% dei sopravvissuti ad un incidente stradale mostra sintomi di PTSD (Frommberger et al., 1998; Harvey & Bryant, 1998) e, senza trattamento, questi sintomi possono persistere per anni. In alcuni casi, il disturbo può diventare cronico, apportando una cattiva salute fisica, una minore qualità della vita, danni nelle relazioni sociali e disoccupazione (Zatzick et al., 1997; Wild et al., 2016). Nonostante l’incidenza del disturbo sia alta in questi casi, le reazioni psicologiche in seguito a incidenti automobilistici (auto o moto) o lo stress post-traumatico emerso in seguito sono stati poco studiati (Reiner et al., 2021).

Il PTSD in seguito a ricovero in rianimazione

In particolare, un evento che implica il ricovero in rianimazione può essere considerato un evento estremamente stressante: il paziente è esposto a condizioni sconosciute e potenzialmente spaventose. Fino ad ora non era stata condotta alcuna ricerca per determinare se i pazienti sottoposti alla sala di rianimazione sperimentassero potenzialmente alti livelli di stress o sintomi di stress post-traumatico, rappresentando un gruppo a rischio per sviluppare un PTSD come condizione clinica. Per colmare questa lacuna in letteratura, Reiner e colleghi (2021) hanno testato i livelli di angoscia e i sintomi di disturbo da stress post-traumatico sperimentati nei pazienti subito dopo il trattamento in rianimazione, cercando inoltre di identificare i fattori di rischio per tali sintomi nei pazienti entro 10 giorni dal trattamento in sala di rianimazione (Reiner et al., 2021).

I risultati hanno rivelato che un alto tasso di pazienti in rianimazione soffre di grave angoscia e sintomi di disturbo da stress post-traumatico. Entro dieci giorni dal trattamento in rianimazione, il 53,4% dei pazienti partecipanti ha riportato un grave stress psicologico. Come fattori di rischio per lo sviluppo di sintomi di stress post-traumatico sono state individuate l’angoscia e il coinvolgimento in un incidente stradale. È interessante notare che una maggiore gravità delle lesioni non era direttamente collegata a livelli più elevati di sintomi di stress post-traumatico (Reiner et a., 2021). L’evidenza empirica dimostra che le risposte soggettive alle lesioni, per esempio il disagio emotivo o la valutazione negativa dell’evento traumatico, piuttosto che i parametri ‘oggettivi’ come le ferite riportate, rappresentano sostanzialmente la patogenesi del PTSD (Hitchcock et al., 2015; Gabert-Quillen et al., 2011). I risultati ottenuti da questo studio possono essere letti alla luce del modello cognitivo del PTSD (Ehlers & Clark, 2000), che prevede che le le valutazioni negative, in particolare nella fase iniziale dopo l’esposizione al trauma, contribuiscono allo sviluppo del disturbo.

Conclusioni

In conclusione, i risultati dell’indagine sottolineano anche che i pazienti coinvolti in un incidente stradale sarebbero maggiormente sensibili allo sviluppo del PTSD, confermando studi precedenti (Stallard et al., 1998). Secondo lo studio di Reiner e colleghi (2021) oltre al tipo di incidente, anche il tipo di veicolo potrebbe influenzare l’elaborazione psicologica dell’incidente. Sul piano clinico emerge che i pazienti che sono stati ricoverati in reparto di rianimazione devono essere sottoposti ad uno screening per il disagio psicologico, indipendentemente dalla gravità delle lesioni, che dovrebbe essere effettuato dopo il trattamento e quando i pazienti sono fuori da una situazione di pericolo di vita. È stato dimostrato che gli interventi precoci che si rivolgono alla gestione dello stress (ad es. rilassamento della respirazione), all’auto-cura e a possibili commenti negativi sull’incidente e sul trattamento in reparto di rianimazione sono efficaci nella prevenzione a lungo termine della depressione e dei sintomi dello stress post-traumatico (Kearns et al., 2012).

Follia e ragione: la psichiatria e la psicoterapia di fronte alla guerra

Il modello della psicosi ha ora grande successo sui media occidentali, sorprendentemente, è l’interpretazione del conflitto russo-ucraino più popolare.

 

Il compito del medico vaccinatore è piuttosto frustrante: una rapida raccolta anamnestica e poi, con rare eccezioni, l’inevitabile giudizio di idoneità. Per salvarsi dalla noia di questi compiti ripetitivi l’unica risorsa è cercare occasioni di genuino incontro umano, scambiare qualche parola con uno studente di lingue orientali, con una donna che ha vissuto la seconda guerra mondiale, coi tanti stranieri.

Una domenica pomeriggio visito una attempata badante ucraina e le faccio qualche domanda sul suo paese d’origine. Siamo nel 2021 e, per quello che sappiamo dai media di regime, tra Ucraina e Russia c’è ancora una certa tensione. La signora è infastidita dalle mie domande e si allontana mormorando: “È Putin, è tutta colpa sua, è pazzo!”.

È passato quasi un anno da allora. In Ucraina la cronica guerriglia ha lasciato il passo ad un conflitto su larga scala.

Il modello della psicosi ha ora grande successo sui media occidentali. Sorprendentemente, è l’interpretazione del conflitto russo-ucraino più popolare. Commentatori televisivi, sociologi, psicologi, così come il grande pubblico, mostrano scarso interesse per la geopolitica, gli interessi finanziari o i conflitti etnici. Si moltiplicano invece le interviste a psichiatri e psicoanalisti.

Il Corriere della Sera titola ad esempio “Putin paranoico come Stalin?” Su l’Esquire leggiamo invece “Is Putin crazy?”. Poco importa che gli eminenti studiosi intervistati siano piuttosto riluttanti a formulare diagnosi precise. Ad esempio Kenneth Deleva, ufficiale medico psichiatra del Dipartimento di Stato, sconsiglia di “utilizzare etichette e termini psichiatrici” e parla invece di un imprecisato disturbo di personalità. Nemmeno lo psicoanalista italiano Massimo Ammaniti esprime diagnosi precise, ma avvicina la condizione di Putin alla “paranoia di Stalin” e spiega le strategie politico-militari del leader russo con il suo passato di “ragazzo di strada” avvezzo “alle lotte quotidiane per sopravvivere” in una “cultura antisociale e spietata”.

Così, nel XXI secolo, mentre la psichiatria territoriale si dissolve progressivamente e la psicoanalisi è spinta sempre più ai margini del dibattito scientifico e culturale, psichiatri e psicoanalisti sembrano scoprire un nuovo ruolo nella società contemporanea. Gli viene chiesto di riconoscere e mostrare alle masse l’implicita malizia del nemico.

In un precedente contributo su questo webjournal abbiamo commentato l’arruolamento di tanti intellettuali e psicoanalisti italiani e stranieri nella demonizzazione dei renitenti alla vaccinazione anti-COVID. Chi dissente è pazzo, o almeno utilizza difese primitive e psicotiche.

In effetti la psichiatria svolge da secoli un ruolo di controllo sociale. Il precedente più clamoroso ci viene proprio dalla Russia. Lì ai tempi del regime sovietico migliaia di dissidenti venivano rinchiusi per anni nelle strutture psichiatriche. Ma il fenomeno è molto più antico ed è in qualche modo implicito nell’epistemologia sottesa al fare psichiatrico.

Nel positivismo ottocentesco e nel più pragmatico materialismo del dopoguerra, la diagnosi psichiatrica è un dato ontologico. In questa prospettiva, come osserva Engel (1977), la follia è una malattia non diversa dal diabete. In assenza di qualsiasi dato anatomopatologico la nosografia psichiatrica assume così le forme di una mitologia fantastica: un sistema di risposte immaginarie a questi senza possibile formulazione empirica.

Michel Foucault ci ha insegnato negli anni ‘60 che la follia è il prodotto di un giudizio, un giudizio prima di tutto morale. La sragione si definisce in relazione alla ragione. Sragione è tutto quanto appare assurdo nel comportamento dei nostri simili.

Nella dialettica filosofica la ragione possiede lo status di un fatto acquisito, uno stile conoscitivo di evidenza immediata e accessibile a tutti. Per i filosofi la ragione è una località ben nota sulla complessa carta geografica del pensiero umano.

La psicoanalisi conduce l’atteggiamento critico rispetto alla realtà umana un po’ più oltre. È ben consapevole che l’uomo sa dare nobili motivazioni alle scelte più spietatamente egoistiche. Sa mentire agli altri ma soprattutto a se stesso. In questo senso l’implicita fiducia nella ragione di tanta intellighenzia novecentesca non è che un esempio evidente dell’utilizzo del meccanismo di difesa della razionalizzazione.

La ragione è in definitiva un gioco sociale. È la abilità di nascondere il proprio egoismo nelle forme compatibili con l’ideologia che una determinata società supporta ed incoraggia. Come Foucault ci ha insegnato, la follia è dunque la creazione sociale. La psicoanalisi ci permette oggi di essere anche più precisi: la follia è la rappresentazione sociale di una relazione oggettuale.

Molte esperienze interpersonali possono suscitare disagio, rabbia o orrore. Una ragazza che piange e urla tutto il giorno mette certo alla prova la tolleranza di familiari e curanti. L’invadenza di molti pazienti psichiatrici può suscitare talvolta rabbia e disperazione. Il sadismo autoaggressivo del depresso sa produrre un odio particolarmente intenso.

Oggi parliamo tutti di empatia. Ma è chiaro che ogni approccio superficialmente filantropico e volontaristico alla salute mentale è destinato al completo fallimento.

La malattia mentale nasce proprio a livello di questa interfaccia tra il soggetto sofferente e disperato ed il suo interlocutore clinico e sociale. La diagnosi psichiatrica al fondo è un giudizio di valore, è il rifiuto di proseguire oltre qualsiasi sforzo di identificazione.

Su questa base non sarà possibile costruire una pratica psichiatrica autenticamente democratica. Gli utenti dei servizi di salute mentale presentano vari deficit delle funzioni cognitive, affettive, volitive. Nelle psicosi questi deficit sono particolarmente marcati. Ne consegue una disabilità a volte devastante. Ma nessuna disabilità, per quanto grave, può privare un paziente della sua fondamentale qualità umana. Il riconoscimento di questa fondamentale umanità è la condizione perché qualsiasi intervento psichiatrico o psicoterapeutico possa avere possibilità di successo.

Cittadini russi, sanitari no-vax, matti: queste etichette feroci non lasciano alcuno spazio al superamento delle divisioni sociali e sono un gravissimo ostacolo al processo di pace di cui abbiamo oggi un disperato bisogno.

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – L’ottavo episodio è dedicato all’Impulsività

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante l’ottava puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  parleranno di Impulsività, ovvero la tendenza ad agire immediatamente in risposta a stimoli contingenti, su base momentanea, senza un piano. Da dove nasce l’impulsività? Come affrontarla in psicoterapia? Scopritelo nell’ottavo episodio.

Dove ascoltare l’ottavo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta l’ottavo episodio su:

 

Alea iacta est: esperienza traumatica come punto di non ritorno per l’aumento della percezione del rischio, tra guerra e cambiamento climatico

La distanza psicologica è una teoria che si riferisce alla percezione soggettiva della distanza tra sé e qualche fenomeno o evento e si può suddividere in quattro fattori: distanza spaziale, distanza temporale, distanza sociale e distanza ipotetica.

 

Covid, percezione del rischio e distanza psicologica

Negli ultimi due anni, a causa della pandemia, l’equilibrio mentale globale è stato messo a dura prova. Le immagini sulla nuova misteriosa epidemia che stava colpendo duramente Wuhan hanno imperversato per due mesi sulle tv nazionali di tutto il mondo occidentale. A differenza di altre occasioni, nelle quali le minacce lontane sono rimaste tali, l’epidemia di Covid-19 ha repentinamente colpito a macchia d’olio tutto il mondo, divenendo pandemica. Era successo altre volte negli ultimi anni: disastri lontani che abbiamo vissuto con grande terrore, preoccupati che gli effetti a catena da essi generati potessero raggiungerci e colpirci da vicino, ma che poi sono rimasti lontani. Basti pensare all’epidemia di Ebola o alla guerra in Afghanistan. Poi qualche anno fa, per la prima volta dopo molto tempo, una minaccia che vedevamo lontana, proiettata sugli schermi, invece di rimanere tale si è avvicinata velocemente alla nostra realtà, cambiandola drasticamente. Ma cosa cambia a livello di percezione soggettiva tra un evento che sentiamo come lontano ed uno che percepiamo come vicino? Quello che cambia è la percezione del rischio, ovvero quel processo di valutazione soggettiva del livello di rischio di un determinato fenomeno o evento. La funzione di questa valutazione è di orientare il soggetto a mettere in atto comportamenti coerenti col rischio della situazione da affrontare. La percezione del rischio è un processo relativamente automatico e inconsapevole, che si applica a partire dalle attività quotidiane (attraversare una strada) a quelle straordinarie (imbattersi in una lite accesa tra due persone).

In base all’entità del rischio da noi percepito, orientiamo le nostre decisioni ed i nostri comportamenti coerentemente, spesso in maniera automatica. Ad esempio se percepisco l’interazione con una persona come potenziale rischio di contagio di una malattia infettiva, sarò più orientato a evitare quell’interazione per salvaguardare il mio stato di salute. La ricerca ha sottolineato che in molti casi esiste una discrepanza variabile tra la percezione soggettiva del rischio e la valutazione oggettiva (Slovic, 2001). Può capitare pertanto che gli individui tendano a preoccuparsi per eventi in realtà innocui e che diano per sicure situazioni che hanno una probabilità di causare danni più alta. Pertanto ciò che cambia la nostra percezione soggettiva, e quindi le nostre reazioni emotive e comportamentali, non è tanto il pericolo reale in sé, ma l’interpretazione del rischio a livello prettamente soggettivo. Un esempio può essere quando, durante l’ascolto delle notizie iniziali sulla propagazione del virus, ci veniva comunicato che la probabilità che esso si diffondesse nel nostro paese era basso, di conseguenza, generalmente, avevamo una percezione del rischio minore. Quando poi abbiamo appreso che la diffusione stava assumendo la portata di una pandemia potenzialmente rischiosa, la percezione del rischio di gran parte della popolazione si è incrementata ampiamente: il medesimo virus stimolava risposte di paura e ansia più intense (Ornell et al., 2020; Shafran et al., 2021), così come reazioni comportamentali di evitamenti sociali e di aumento della ricerca di rassicurazioni e sistemi di protezione e prevenzione da un eventuale contatto (Cheng et al., 2020) .

Quale elemento è cambiato tanto da generare una percezione del rischio così diversa? La vicinanza psicologica allo stimolo è un fattore fondamentale (Rudiak-Gould, 2013). Quanto più emotivamente vicino abbiamo percepito lo stimolo avversivo (il virus), tanto più la percezione del rischio (e le conseguenti reazioni emotive e comportamentali) si è modificata. In prima battuta, una volta che il primo caso è stato identificato in Italia la vicinanza psicologica è aumentata, e ancor di più quando siamo venuti a sapere che un conoscente lo ha contratto.

La distanza psicologica è una teoria che si riferisce alla percezione soggettiva della distanza tra sé e qualche fenomeno o evento (Trope e Liberman, 2011). La distanza psicologica si può suddividere in quattro fattori: distanza spaziale, distanza temporale, distanza sociale e distanza ipotetica. Per distanza spaziale si intende la lontananza tra il soggetto e il fenomeno in termini fisici, la distanza temporale invece rappresenta la differenza di tempo trascorso tra il soggetto e l’evento, mentre la distanza sociale si riferisce alla discrepanza dell’impatto sociale per il soggetto di un dato fenomeno e infine la distanza ipotetica misura il livello di certezza percepito dal soggetto.

In parole povere, la teoria della distanza psicologica spiega che il soggetto può sentirsi coinvolto in una situazione a livello emotivo (alta vicinanza psicologica), oppure al contrario vedersi lontano da essa e pertanto non coinvolto emotivamente (bassa vicinanza psicologica). La distanza psicologica quindi rappresenta il grado in cui noi percepiamo che una certa situazione “ci riguardi” o “ci coinvolga”. Questo livello di coinvolgimento è modulabile in base a come il soggetto percepisce temporalmente, spazialmente, socialmente e a livello di ipotetico vicino quel dato fenomeno. Ad esempio la guerra in Ucraina per noi occidentali europei rappresenta un evento molto più emotivamente vicino (a livello spaziale, temporale, ipotetico e sociale) rispetto a un’altra guerra attuale o passata nel medio oriente (come in Afghanistan, Siria o Iraq), di conseguenza la nostra reazione emotiva (ad esempio paura e indignazione) e comportamentale (come l’attivismo di protesta da parte della popolazione e le misure reattive europee) è molto più intensa nella prima condizione.

Secondo la teoria del livello costruttivo della distanza psicologica (Trope e Liberman, 2011), la percezione di una maggiore o minore distanza psicologica rispetto a un certo evento si ripercuote anche sul grado di concretezza con cui il soggetto percepisce questo evento. Mentre un evento percepito a una distanza psicologica elevata, apparirà astratto al soggetto, avrà pochi dettagli e scarsi correlati emotivi, al contrario, un avvenimento percepito come psicologicamente vicino, sarà immaginato e vissuto in modo più concreto, arricchito da molti dettagli, ricordi personali ed un’elevata emotività correlata.

Dopo una lunga luna di miele, durante la quale il nostro paese si è tenuto distante da eventi dannosi e terrifici, il COVID-19 non solo ha rotto lo stato di quiete e inconsapevolezza, ma ha modificato profondamente la nostra sensibilità al rischio. Il fatto che una minaccia che veniva percepita come lontana, astratta e improbabile, si sia repentinamente avvicinata a noi ha demolito le nostre idee di immunità occidentale a problemi e catastrofi ben presenti in altri paesi (come una pandemia, una guerra o un cataclisma ambientale).

“Bellum quod res bella non sit”

Il carico emotivo che ci troviamo a sostenere quando ci confrontiamo con questo conflitto è superiore a quello che avremmo dovuto sopportare se non fossimo stati esposti al Covid. Non solo per il fatto che, negli ultimi anni, sentimenti quali ansia, paura, senso di incertezza hanno campeggiato in tutta la penisola rendendoci più consapevoli, vulnerabili e capaci di immedesimarci nelle disgrazie altrui, ma anche perché la nostra percezione del rischio e la nostra vicinanza psicologica ad esso sono aumentate. Abbiamo più paura della guerra in Ucraina perché la sentiamo più vicina a noi, riusciamo a vederla in modo meno astratto e più concreto, crudo e triste. Non solo siamo più consapevoli, ma anche più impauriti. Il fatto che la minaccia rappresentata dal Covid-19, che percepivamo come lontana e astratta, sia diventata in così poco tempo così vicina e reale, ci mette nella posizione di pensare “Se è già successo, perché non dovrebbe risuccedere?”. Se qualche anno fa ci risultava facile e rassicurante pensare che i pericoli lontani rimanessero tali, adesso facciamo più fatica a farlo; resta difficile non pensare, anche solo per pochi istanti, che il conflitto possa degenerare ulteriormente, allargandosi al resto d’Europa o del mondo. Si è portati a pensare che quello che un tempo non ci avrebbe colpito, adesso può farlo, da un giorno all’altro, quasi con un sentimento di catastrofe imminente. Una minore distanza psicologica infatti ci fa percepire quello che sta accadendo con maggiore immedesimazione all’interno degli eventi e non come dei freddi, cinici calcolatori come lo siamo stati per altri eventi localizzati in aree lontane del globo. L’emergere intenso di sentimenti di impotenza, terrore, rassegnazione sono ancora troppo vividi nella nostra mente per permetterci di distaccarsi psicologicamente, quindi fare un passo indietro dagli eventi e sentirci spettatori esterni: tutt’altro, ne siamo attori.

Distanza psicologica e percezione del rischio come strumenti per un cambiamento

Non tutto il male viene per nuocere. Una minore distanza psicologica ci permette di sentire quello che sta accadendo in modo più immersivo e immediato, questa dimensione più interna agli eventi può essere un punto di forza se ne abbiamo consapevolezza. Siamo meno portati a pensare che quello che vediamo in tv sia un mero prodotto di cronaca, destinato a rimanere relegato in quello schermo luminoso. Siamo diventati tutti più consapevoli del fatto che quello che sentiamo come notizia, avviene realmente. Sembra scontato, ma è un concetto chiave, una svolta epocale. Nell’era digitale, in cui l’uomo passa più tempo guardando uno schermo che assaporando l’agrodolce sapore della realtà, si perde la capacità di distinguere in modo chiaro la differenza tra realtà e finzione. Possiamo fare un esempio con il cambiamento climatico e la diversa percezione che di esso hanno giovani ed anziani: da una parte gli anziani che, più abituati da sempre a stare a contatto con la natura hanno una percezione rigogliosa e sana di essa, generata dai ricordi visivi evocati dal lontano passato, che portano impressi nella loro mente. Dall’altra ci sono i giovani che, non abituati al contatto con la natura e maggiormente esposti alle notizie sul cambiamento climatico, tendono a rappresentarla mentalmente come la vedono nelle immagini che le notizie sul cambiamento climatico gli propongono. Dove sta la verità? Come spesso accade, sta nel mezzo: la natura, soprattutto alle nostre latitudini è ancora in parte rigogliosa e bella come un tempo, ma inizia a risentire di quegli effetti dannosi che stanno, in modo sempre più drastico, colpendo i paesi da cui le notizie che i giovani vedono provengono. Tornando al concetto di percezione del rischio e distanza psicologica, è importante che questi costrutti cognitivi siano congrui con quello che sta succedendo e con la reale entità dei vari rischi. Non dobbiamo più vivere nella bolla in cui vivevamo prima, nella quale avevamo la percezione che niente avrebbe potuto minacciare il nostro mondo, ma nemmeno sprofondare in un senso di disperazione, presi dal terrore che tutto ciò che viviamo possa colpire anche noi, all’improvviso. La ridotta distanza psicologica ci deve servire a percepire gli eventi che colpiscono il resto del mondo in modo più vicino e meno astratto e alla luce di questo, comprenderli più profondamente, viverli con maggiore consapevolezza ed empatia. Questo può spingerci ad intraprendere azioni concrete per contrastare gli eventi negativi, aiutare chi ne viene colpito e lavorare per costruire un futuro diverso. Questo vale per le guerre, ma anche per il cambiamento climatico ed i suoi effetti (Innocenti et al., 2021). Gli addetti al settore, gestendo le risposte psicologiche agli eventi, non devono cercare di ridurre la distanza psicologica, bensì stimolare le risposte comportamentali di tipo adattativo che da essa possono essere generate, cercando, di concerto, di fornire gli strumenti adatti a gestirne le conseguenze e controllando che non diventino tali da determinare psicopatologia.

 

La coscienza quale animale? Grillo parlante o armadillo?

In Strappare lungo i bordi, l’Armadillo è la coscienza di Zero Calcare, sembra rappresentare la personificazione dei suoi freni inibitori, pertanto è dotato di istinto di autoconservazione, una buona dose di egoismo ed interviene più per tutelare se stesso ed il protagonista Zero dalle interazioni sociali più impegnative.

 

La coscienza, intesa come nostro senso morale, è stata rappresentata in vari modi nel mondo letterario e cinematografico: celebre il Grillo Parlante di Pinocchio; l’angelo ed il diavolo che rappresentano Super-io e Istinto di Paperino. Recentemente nella serie Netflix Strappare lungo i bordi, il fumettista Zero Calcare propone un armadillo antropomorfo come coscienza.

Nella serie, l’Armadillo, rappresenta una proiezione soggettiva dello stesso Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Introduzione

La coscienza è stata definita come la “consapevolezza di sè, degli altri e dell’ambiente che ci circonda, quindi essere presenti per sé e per gli altri e rispondere agli stimoli” (Cohadon & Salvi, 2003).

La vigilanza, invece, è una funzione del tronco cerebrale e più precisamente della formazione reticolare contenuta nella parte rostrale del segmento pontino, nel segmento mesencefalico e nella parte adiacente del diencefalo. In tal modo è definita la formazione reticolare attivatrice ascendente che manda proiezioni diffuse alla corteccia cerebrale, sia direttamente che tramite il talamo.

La coscienza, come si autodefinisce il grillo parlante, è da intendersi come senso di colpa: “Senso di responsabilità o senso del dovere significa essere consapevole del male compiuto e/o del proprio essere in quanto segnato da questo male. Questo senso di colpa nasce di solito attraverso il “sentirsi” colpevole…provare un sentimento di colpa. Più precisamente si tratta non di un sentimento ma di diversi sentimenti ed emozioni spiacevoli, come, per esempio, inquietudine, angoscia, tristezza, sconforto, dolore. Per questa ragione si suole anche parlare di sensi di colpa” (Jakub Gorczyca, 2011).

Secondo il modello di Freud della psiche, la coscienza è una parte del Super-io. Tuttavia, la psicologia moderna ha identificato limiti a ciò che Freud ha evidenziato come coscienza nel Super-io. Il Super-io consiste nella coscienza morale e nel sé ideale mentre la coscienza consiste in ciò che un individuo identifica come cose moralmente buone e cattive. Quindi, c’è una netta differenza tra coscienza e Super-io (De Robertis D. 2009).

Alcuni studi mostrano come nei processi decisionali sia la corteccia prefrontale anteriore ad attivarsi anche di fronte a soluzioni note: i ricercatori hanno analizzato l’attività neurale di individui che dovevano uscire da un semplice labirinto di cui conoscevano il percorso; nonostante questo, ad ogni bivio vi era l’attivazione della corteccia prefrontale (Boorman, E. E. et. Al. 2009). Quindi, nel nostro cervello esisterebbe davvero una figura che giudica i nostri agiti.

Il successo della serie Strappare Lungo i Bordi

La serie ha avuto un notevole successo: tradotta in varie lingue e trasmessa in oltre 150 paesi, un prodotto tutto italiano che anche all’estero sta destando tantissima curiosità. I numeri dopotutto parlano chiaro: Strappare lungo i bordi è arrivata in due giorni a 4,5 milioni di visualizzazioni.

Una chiave per spiegare il successo di questa serie, soprattutto tra i giovani, è la facilità con cui l’autore riesce a passare dall’individuale al collettivo, all’universale. Ci parla di sé, ma in fondo racconta la storia di tutti noi e riesce a rivolgersi trasversalmente a più generazioni.

La coscienza Armadillo

Nel caso del fumettista Zero Calcare, l’Armadillo viene definito coscienza dall’autore stesso : “in quei giorni la mia coscienza aveva già assunto la forma di un armadillo e me ripeteva tutti i giorni (…)” (Zero, S1:E2 min 3.00).

In realtà questo strano animale interviene spesso nella vita del protagonista, con consigli ed osservazioni che sembrano avere un’etica ben diversa dalla coscienza di Pinocchio.

L’Armadillo sembra rappresentare la personificazione dei freni inibitori del protagonista, pertanto è dotato di istinto di autoconservazione, una buona dose di egoismo ed interviene più per tutelare sè stesso ed il protagonista Zero dalle interazioni sociali più impegnative.

L’Armadillo in fondo è una parte di Zero, dobbiamo capire quale parte sia, in quanto agisce comportandosi da Super-io, da inibizione, da meccanismo di difesa.

In realtà non è semplice ricondurre questo simpatico personaggio ad un’entità della psiche. L’Armadilllo è un personaggio di fantasia che ha il compito primario di mettere in ridicolo il dialogo che Zero ha con sè stesso. Deve essere visto in chiave comica più che psicologica.

È indubbiamente interessante analizzare l’Armadillo perché rappresenta le paure, l’ansia e le aspettative delle giovani generazioni. “Siamo stati tutti Zero e alcuni di noi lo sono ancora, insicuri, paranoici, indecisi, con poca consapevolezza di sé, con bassa autostima, con scarsa attenzione verso le emozioni degli altri, incapace di comprendere i discorsi astratti però impeccabile nell’aiuto pratico” (Pamela Anile State of Mind 2021).

Come già accennato, l’Armadillo, non è una coscienza etica, ma opportunistica, dove l’egoismo non è teso a risolvere esigenze di auto salvaguardia, ma piuttosto alla risoluzione comica dei dilemmi esistenziali di Zero.

Se lo analizziamo in chiave psicologica, l’Armadillo, ricopre molteplici ruoli. È in grado di scoraggiare Zero verso relazioni sentimentali; o meglio è in grado di inserire il dubbio nella mente di Zero circa il fatto che una relazione sentimentale determina la necessità di un impegno e la possibilità di subire un rifiuto.

La strategia elaborata da questa “strana coscienza” è un meccanismo di difesa: l’evitamento. Contemporaneamente rimprovera il protagonista per la timidezza che dimostra tutte le volte che non può evitare di incontrare la persona che mostra interesse per lui: “Bravo. Sei un grande. Sei cintura nera de come se schiva la vita. Quinto dan”.

Demagogo e pronto all’imbroglio, appare l’Armadillo, quando deve dare consigli sull’occupazione di Zero. Quando affronta il tema del lavoro, svela una dose di qualunquismo in cui i giovani in cerca di occupazione possono identificarsi. Le battute che l’Armadillo scambia con Zero hanno il senso di favorire l’identificazione dello spettatore che rivede i suoi insuccessi di carriera lavorativa e la scarsa meritocrazia esistente in Italia di cui è facile e simpatico disquisire.

 

Emoziònati. Libro esperenziale. (2021) di Laura Bongiorno, Geraldine de Leòn, Letizia Ferrante e Giusy Morabito – Recensione

Nato durante la pandemia, il libro Emoziònati è opera di tre psicologhe, psicoterapeute, istruttrici di mindfulness e fondatrici dell’associazione Mindful Sicilia.

 

Si tratta di un testo per l’appunto esperienziale, che ci presenta le emozioni in chiave leggera, al fine di imparare ad accogliere le stesse e a relazionarci a loro in modo sano, senza distinzione tra emozioni giuste e sbagliate, positive e negative, ma come elementi importanti dell’essere umano, con funzioni ben specifiche. Come suggerisce infatti Nicola Petrocchi nella prefazione del testo, il nostro cervello possiamo rappresentarcelo come un’autovettura che non ci siamo scelti, ma, se impariamo il suo funzionamento, possiamo aumentare le possibilità di avere una guida più sicura.

Le autrici ci accompagneranno dunque ad incontrare alcune emozioni che spesso ci fanno da compagne nei nostri vissuti, e dunque ci parleranno della rabbia, della tristezza, dell’invidia, della vergogna e della gioia, tutte accompagnate da spiegazioni dal linguaggio semplice e scorrevole e spunti ed esercizi pratici rivolti al lettore. Ogni capitolo si accompagna a bellissime illustrazioni, disegni e grafiche curati da Geraldine de Leòn, ispirati alla “sicilianità” delle autrici, vediamone alcuni:

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Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 1

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 2

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 3

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 4

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 5

 

I soggetti dei disegni non sono scelti casualmente, ma con affascinanti riferimenti legati all’arte, alla storia e alla cultura delle autrici.

Un libro curato nei dettagli, che coinvolge mente e cuore e tutti e cinque i sensi essendo ispirato alla mindfulness, pratica oramai di comprovata utilità nel contribuire al benessere della persona.

Un testo dunque dagli interessanti, utili e pratici spunti per imparare a vivere la rabbia senza spaccare tutto, piangere senza annegare nella tristezza, imparare ad avere paura, utilizzare l’invidia come risorsa, liberarsi dalla vergogna ed infine concedersi la gioia.

Un testo rivolto all’ampio pubblico che ritengo possa risultare molto accattivante anche per i più giovani lettori ed una valida risorsa per noi addetti ai lavori.

Mi piace concludere con un aforisma presente ad apertura del testo e che volontariamente vorrei usare a chiusura della presente recensione, come forma di saluto al suo autore:

Riconoscere le nostre emozioni senza giudicarle, abbracciandole con consapevolezza, è un atto di ritorno a casa. Thich Nhath Hanh.

 

Il genere e l’orientamento sessuale influenzano le fantasie sessuali?

Le fantasie sessuali sono definite come immagini o scenari mentali che provocano eccitamento sessuale. Queste possono emergere spontaneamente oppure possono essere evocate e manipolate intenzionalmente (Purifoy et al., 1992; Leitenberg & Henning, 1995).

 

Nonostante le fantasie sessuali possano riflettere le esperienze passate e influenzare i comportamenti sessuali futuri (Leitenberg & Henning, 1995), non sempre rispecchiano esperienze che si desidera mettere in atto. Può capitare infatti di fantasticare su alcune situazioni particolari, senza però desiderare che queste avvengano nella vita reale: le fantasie sessuali si configurano così come parte di un mondo fittizio, utilizzate per sfuggire ai vincoli sociali e morali (Ellis & Symons, 1990).

La letteratura dimostra che le fantasie sessuali sono un fattore molto importante per il benessere sessuale generale, apportando vantaggi sia per il singolo che per la coppia. Infatti, la fantasia diadica (tra partner) è associata ad un aumento del desiderio e dei comportamenti che promuovono la relazione (Birnbaum et al., 2019). Le fantasie sessuali rappresentano anche una strategia utile, ad esempio, per far fronte ai cambiamenti nel funzionamento sessuale degli adulti più anziani (Ayalon et al., 2019) e, durante la pandemia da COVID-19, che ha previsto periodi di separazione forzata per le coppie, le fantasie sessuali sono state utili per soddisfare il piacere sessuale durante l’isolamento (Lopes et al., 2020).

Gli uomini, rispetto alle donne, sembrano sperimentare più fantasie (Ellis & Symons, 1990; Wilson & Lang, 1981) e sono più propensi a fantasticare su immagini esplicite, sul fare sesso con più di un partner sessuale, sul partecipare ad un’orgia o sul fare sesso di gruppo (Joyal et al., 2015; Anzani & Prunas, 2020). Le donne, invece, tendono a concentrarsi su contenuti più emotivi e romantici (Carpenter et al., 2008; Yost & Zurbriggen, 2006). Un’altra differenza ampiamente riportata riguarda il ruolo del protagonista: in media, gli uomini tendono a fantasticare di più sull’avere ruoli dominanti e attivi mentre le donne si immaginano più sottomesse e passive in uno scenario in cui giocano il ruolo dell’oggetto del desiderio del loro partner (Wilson & Lang, 1981; Zurbriggen & Yost, 2004), anche se questa differenza non può essere sempre generalizzata.

È anche più probabile che gli uomini fantastichino sul fatto che i loro partner siano estremamente belli e attraenti (Anzani & Prunas, 2020), mentre le donne tendono ad avere più fantasie sessuali in cui rendono il loro corpo attraente per i loro partner sessuali, attraverso l’abbigliamento o i gesti (Bogaert et al., 2015).

Fantasie sessuali e orientamento sessuale

Gli studi che hanno analizzato l’influenza dell’orientamento sessuale sulle fantasie sessuali dimostrano che le fantasie più comunemente riportate dagli uomini omosessuali includono rapporti sessuali forzati con uomini (costringere o essere costretti o entrambi), rapporti sessuali con una donna, rapporti sessuali con uomini sconosciuti e sesso di gruppo (Price et al., 1985). Per quanto riguarda le donne omosessuali, esse dimostrano tassi leggermente più alti di fantasie sessuali trasgressive e più bassi di quelle emotivo-romantiche rispetto alle donne eterosessuali.

Tuttavia, gli studi che riguardano le differenze nel contenuto delle fantasie sessuali in base al genere e all’orientamento sessuale sono pochi e hanno spesso utilizzato campioni ristretti. Per colmare queste lacune, uno studio molto recente di Nese e colleghi (2021) ha voluto esplorare le fantasie sessuali di uomini e donne eterosessuali, omosessuali e bisessuali in un campione di giovani adulti italiani.

La prevalenza delle fantasie tra il campione complessivo e i sottogruppi è riportata nella Figura 1. Le fantasie più comuni riportate sono state Etero (77,59%), OralSex (76,62%), e RomanticSex (75,35%), mentre avere un rapporto con una prostituta (1,48%), e con una persona più anziana (1,61%) erano quelle meno comuni.

Fantasie sessuali influenze dell orientamento sessuale e del genere Fig 1

Fig. 1 Prevalenza delle fantasie sessuali

Le fantasie di dominanza sono state riportate principalmente da uomini eterosessuali mentre le fantasie di sottomissione caratterizzano maggiormente le donne eterosessuali, confermando la letteratura precedente (Leitenberg & Henning, 1995; Zurbriggen & Yost, 2004 ). In generale, gli uomini erano più probabilmente rappresentati da alcune fantasie come, ad esempio, fantasticare più sul fare sesso anale, eiaculare sul corpo e sul viso del partner, strangolare il partner e voyeurismo. Le donne erano più tendenti a fantasticare sul fare sesso e masturbarsi usando sex toys, fare sesso con qualcuno dello stesso sesso, ricevere sesso anale ed essere strangolati dal partner. La distribuzione degli uomini omosessuali e bisessuali ci mostra che i due sottogruppi condividono fantasie molto simili, mentre le donne bisessuali mostrano fantasie simili al gruppo di donne etero e le donne lesbiche condividono somiglianze sia con le donne bisessuali che eterosessuali.

Un risultato interessante è che le donne eterosessuali hanno riportato meno fantasie di qualsiasi altro gruppo, come osservato da studi precedenti (Ellis & Symons, 1990; Wilson & Lang, 1981). Questo risultato potrebbe essere dovuto al fatto che le donne hanno meno fantasie sessuali in generale oppure che il contenuto delle loro fantasie era scarsamente rappresentato dagli item utilizzati nello studio. Inoltre, le donne italiane potrebbero avere un interesse sessuale più ristretto rispetto alle donne di altri paesi (Tripodi et al., 2015).

Tutti i gruppi hanno riportato tassi simili di fantasie con contenuti romantici, in contrasto con studi precedenti che riportavano tassi più alti di contenuti emotivo-romantici tra le donne eterosessuali rispetto agli uomini eterosessuali e alle donne omosessuali (ad es, Bogaert et al., 2015).

Conclusioni

In conclusione, alcuni risultati si sono dimostrati coerenti con gli studi precedenti, mentre altri non lo erano, sottolineando così l’importanza di condurre una ricerca sistematica per cogliere potenziali cambiamenti nel tempo legati a fattori socioculturali. Gli studi futuri dovrebbero concentrarsi anche sulle minoranze sessuali e di genere, poiché possono presentare differenze significative rispetto al resto della popolazione (Antonsen et al., 2020).

Lo studio delle fantasie sessuali è rilevante per molteplici ragioni legate al benessere sessuale. Per esempio, le tecniche basate sulle immagini sono ampiamente utilizzate nella terapia sessuale per migliorare la sessualità e superare le difficoltà e le disfunzioni sessuali. Quindi, il contributo della ricerca psicologica alla conoscenza di questo argomento è fondamentale per promuovere la salute sessuale.

 

Presentazione del libro ‘La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro’ a cura di Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli

È in libreria il volume La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro a cura di Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli.

 

Il libro contiene contributi critici di Wouter Backx, Barbara Barcaccia, Andrea Bassanini, Antonino Carcione, Raymond DiGiuseppe, Maurizio Dodet, Kristene Doyle, Christiane Eichenberg, Benedetto Farina, Guillem Feixas, Arthur Freeman, Francesco Gazzillo, Stefan Hofmann, Steven D. Hollon, Marco Innamorati, Francesco Mancini, Nicola Marsigli, Gabriele Melli, Paolo Migone, Paolo Moderato, Fabio Monticelli, Claudia Perdighe, Eckard Roediger, Saverio Ruberti, Mariano Ruperthuz Honorato, Angelo Maria Saliani, Diego Sarracino, Antonio Scarinci, Antonio Semerari, George Silberschatz, Avigal Snir, Peter Sturmey, Raffaella Visini, Kelly G. Wilson e David A. Winter.

QUI IL LINK: La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale

Il libro è strutturato come un dibattito tra i curatori e i contributori; esso contiene una serie di tesi sul ruolo della formulazione del caso nel processo terapeutico esposte dai curatori; ogni tesi è criticamente commentata in altri capitoli denominati “riflessioni” dai contributori.

L’assunto del libro è che la formulazione del caso sia la mossa iniziale e il principale strumento operativo degli approcci CBT con cui un terapeuta gestisce l’intero processo psicoterapeutico. L’idea è che, nella CBT, la formulazione del caso incorpori sia gli interventi CBT specifici del trattamento che le componenti non specifiche, tra cui la negoziazione dell’alleanza terapeutica e la gestione della relazione terapeutica. Inoltre, questo volume presuppone che, negli approcci CBT, la formulazione del caso sia una procedura incessantemente e apertamente condivisa tra il paziente e il terapeuta dall’inizio alla fine del trattamento.

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La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale Il libro Fig 2

 

I capitoli sviluppano questo programma e sono scritti dai tre curatori Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli e trattano la formulazione del caso sia nell’orientamento terapeutico CBT che non-CBT, mentre le “Riflessioni” sono commenti critici sugli assunti principali del libro forniti da esperti in specifici orientamenti terapeutici. Ad esempio, il capitolo sulla formulazione del caso nella terapia cognitiva standard di Beck è seguito da una riflessione di Arthur Freeman, un clinico e ricercatore nell’area cognitiva standard.

Per dare un’idea del dibattito, riportiamo qui di seguito i titoli di ogni capitolo e di ogni riflessione dei contributori.

Introduzione: La formulazione condivisa del caso come principale processo terapeutico nelle terapie cognitivo-comportamentali (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli).

Capitolo 1: La formulazione del caso nella terapia cognitivo- comportamentale standard (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Il processo di concettualizzazione nella terapia cognitivo- comportamentale (A. Freeman), Formulazione del caso in terapia cognitiva: lo sgabello a tre gambe (S.D. Hollon), L’uso degli scopi nella formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (A.M. Saliani, C. Perdighe, B. Barcaccia e F. Mancini)

Capitolo 2: La formulazione del caso nella tradizione comportamentale: Meyer, Turkat, Lane, Bruch e Sturmey (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Relazione terapeutica, cognizione, metacognizione e vita autogestita: quale relazione con la formulazione del caso? (P. Sturmey)

Capitolo 3: Connessione B-C, negoziazione dell’F e razionale del D: progettare e realizzare una disputa efficace e cooperativa nella REBT (G.M. Ruggiero, D. Sarracino, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: La connessione B-C e la negoziazione dell’F nella REBT (R. DiGiuseppe e K. Doyle); La REBT come base per la formulazione del caso in una procedura continua, implicita e ipotetico-deduttiva di raccolta dati nella collaborazione critica e paritaria con il paziente (W. Backx).

Capitolo 4: La formulazione del caso nelle terapie di processo (G.M. Ruggiero, G. Caselli, A. Bassanini e S. Sassaroli). Riflessioni: La CBT basata sul processo come approccio alla concettualizzazione del caso (A. Snir e S. Hofmann); Formulazione del caso e analisi del comportamento (P. Moderato e K.G. Wilson); Schema Therapy, Contextual Schema Therapy e formulazione del caso (E. Roediger, G. Melli e N. Marsigli).

Capitolo 5: Forza e limiti della formulazione del caso nelle terapie cognitive costruttiviste comportamentali (G.M. Ruggiero, A. Scarinci, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Un pioniere della formulazione costruttivista (D.A. Winter e G. Feixas); TMI: caratteristiche, relazione terapeutica e formulazione del caso (A. Carcione e A. Semerari); Il ruolo del trauma nelle complicazioni psicoterapeutiche e il valore della prospettiva cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti (B. Farina); La formulazione del caso nel modello costruttivista post-razionalista (M. Dodet); La formulazione del caso e la relazione terapeutica dal punto di vista di una teoria evoluzionistica della motivazione (F. Monticelli); Emozione, motivazione, relazione terapeutica e cognizione nel modello di Giovanni Liotti (R. Visini e S. Ruberti)

Capitolo 6: La formulazione del caso come finale di partita, e non come mossa di apertura, nei modelli relazionali e psicodinamici (G.M. Ruggiero, A. Scarinci, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Formulazione del piano vs. formulazione del caso: la prospettiva della Control Mastery Theory (F. Gazzillo e G. Silberschatz); Alcune osservazioni storiche e teoriche sulla valutazione psicodinamica (M. Innamorati e M.Ruperthuz Honorato); La formulazione del caso in psicoanalisi e nelle terapie cognitivo-comportamentali (P. Migone)

Capitolo 7: Lo stato empirico della formulazione del caso: Integrazione e validazione di elementi cognitivi, processuali ed evolutivi della formulazione CBT del caso mediante la procedura LIBET (S. Sassaroli, G. Caselli e G. M. Ruggiero). Riflessioni: Una prospettiva costruttivista sulla procedura LIBET (D.A. Winter)

Capitolo 8: Nuove dimensioni nella pianificazione dei casi: Integrazione di applicazioni elettroniche per la salute mentale (E-mental health) (C. Eichenberg) 287

Postfazione: Il cielo in una stanza: La CBT condivide la formulazione del caso più facilmente (ma non troppo) (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli).

La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale Il libro Fig 1

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale Il libro Fig 3

La cura della depressione secondo Adler

Per Adler, la depressione nasce come forma di compensazione di fronte all’incomunicabilità che sopraggiunge con essa.

 

Gli ingredienti alla base della ricetta per la soluzione della depressione, come sostengono Francesco Parenti e Pier Luigi Pagani (pionieri del pensiero Adleriano in Italia), sono la comunicazione, la possibilità credibile di fare progetti, coltivare l’area del piacere, la mobilità fisica e psichica e la capacità di polemizzare senza odio. Analizziamo questi ingredienti uno per uno; partiamo dalla comunicazione.

Per comunicazione, secondo la lettura che Parenti e Pagani danno del pensiero di Adler, s’intende uno scambio tra persone immune da diffidenza e inibizione autodifensiva, cioè un interloquire che si fonda sulla solidarietà reciproca, su un ampio spazio di libertà e spontaneità d’espressione. Infatti, per Adler, la depressione nasce come forma di compensazione di fronte all’incomunicabilità che sopraggiunge con essa. Esaminando ora il secondo punto, la creatività, Parenti e Pagani sostengono che tutti gli esseri viventi per poter sopravvivere debbano necessariamente protendersi verso scopi che di volta in volta si ricreano per non finire nell’abulica mancanza di desiderio e progettazione, che immobilizzano e paralizzano pensiero e azione del soggetto. La terza “garanzia culturale” contro la depressione è l’area del piacere, ossia la pratica di un erotismo possibilmente associato all’affettività, le gratificazioni intellettuali, artistiche, estetiche, lavorative che vedono la loro origine dall’acquisire ammirazione e apprezzamento, non vissute però in senso egoistico e/o narcisistico bensì condividendole con gli altri. Per quanto concerne la mobilità psico-fisica, si sostiene che la duttilità di azione e di pensiero possano disancorare la persona dal piattume dello stile depressivo. È sconsigliato quindi seguire quelle “regole” dettate dalle società iper-egualitarie che vanno a punire ogni forma di anticonformismo e quelle delle società iper-competitive castiganti le minoranze sconfitte con l’astensionismo obbligato. All’ immobilismo porta anche l’uso eccessivo della tecnologia, per cui, senza voler spingere a una regressione al primitivismo, è consigliato creare uno spazio per le dinamiche emotive del singolo.

L’ultimo fattore di “vaccinazione” antidepressiva può essere costituito dall’abilità del polemizzare senza odio. Siamo difatti immersi in una cultura più propendente verso il punire quando invece sarebbe più efficace esercitare la persuasione, questo perché punendo si vanno a creare due fazioni, ognuna composta da persone che si sentono vittime, posizione che sollecita la depressione. Va ricordato infatti come Adler ritenga la persona depressa un accusatore frustrato. Infine, un antidoto apparentemente banale è quello dell’accettazione di sé proponendosi dunque per l’accettazione altrui; impostare modifiche interiori trasformando l’autocritica in nuova capacità produttiva, in un rinnovamento mutevole dei propri mezzi d’espressione.

Riassumendo, dal punto di vista Adleriano, per sconfiggere la depressione, occorre accettarsi e fare progetti nella sessualità, negli affetti, nel vivere civile, nell’impiego duttile di tutte le proprie doti.

 

I genitori sono tutti uguali.. o forse no. Come gestiscono le stress nello sport?

I genitori hanno un ruolo molto importante nello sviluppo di un atleta, permettendogli di raggiungere il proprio potenziale, fornendo supporto finanziario, organizzativo ed emotivo (Wolfenden & Holt, 2005).

 

Tuttavia, essere un genitore di un giovane atleta può essere impegnativo (Harwood & Knight, 2015) e non tutti i genitori si impegnano in modi appropriati o ottimali (Knight & Holt, 2014). Sfortunatamente, alcuni comportamenti dei genitori (ad. es., pressioni e comportamenti direttivi) sono associati a esiti sfavorevoli per gli atleti, tra cui un aumento dell’ansia precompetitiva e una riduzione del divertimento e della competenza percepita (Amado, Sánchez-Oliva, González-Ponce, Pulido-González e Sánchez-Miguel, 2015; Boiché, Guillet-Descas, Bois, & Sarrazin, 2011; Bois, Lalanne, & Delforge, 2009). È stato suggerito che la dimostrazione di comportamenti genitoriali inappropriati può aumentare se i genitori non sono in grado di far fronte efficacemente ai fattori di stress che incontrano in contesti sportivi d’élite e di gestire le relative minacce (Harwood & Knight, 2009b).

Per valutare la minaccia, un individuo utilizza 2 tipi di valutazione: primaria e secondaria (Lazarus, 1999). Durante la prima valutazione, l’individuo porta alla luce il significato personale di una domanda sulle proprie convinzioni e valori. Ad esempio, un genitore potrebbe valutare il proprio figlio che vive in un centro di formazione da lunedì a venerdì con il timore di non essere in grado di sostenerlo nei momenti di difficoltà. Tuttavia, un altro genitore potrebbe valutare la stessa situazione come un’eccellente opportunità per il proprio figlio di sviluppare indipendenza e autonomia. La valutazione secondaria, invece, è correlata all’esplorazione da parte di un individuo della propria capacità di far fronte ai fattori di stress (Lazarus, 1999). Ad esempio, nel caso precedente, un genitore potrebbe pensare di avere le risorse per far fronte al fatto che il proprio figlio vive lontano dalla famiglia, mentre l’altro no.

I fattori di stress per i genitori degli atleti

I fattori di stress possono essere:

  • competitivi, che comprendono le richieste relative alla partecipazione del proprio figlio alle competizioni, compresa la preparazione della partita, i problemi con gli avversari e le prestazioni e le reazioni del proprio figlio;
  • organizzativi, che sono esigenze associate alla logistica quotidiana, agli investimenti personali e al sistema/organizzazione in cui operano i genitori, compreso l’impatto finanziario dello sport sulla famiglia, il trasporto del bambino all’allenamento e alla competizione e la gestione degli infortuni;
  • di sviluppo, che consistono in richieste associate al futuro sviluppo sportivo, educativo e personale del loro bambino (Burgess et al., 2016; Harwood & Knight, 2009a).

Le strategie di coping dei genitori degli atleti

Contrariamente agli studi sui fattori di stress, pochi si sono concentrati sulle strategie di coping utilizzate dai genitori (Hayward, Knight e Melalieu, 2017). Il coping si realizza attraverso continui sforzi cognitivi e comportamentali per gestire le richieste valutate come minacciose (Nicholls & Polman, 2007). Ad esempio, genitori di ginnasti e nuotatori d’élite hanno riferito di aver utilizzato diverse strategie per far fronte ai fattori di stress che incontravano. Queste strategie di coping sono state suddivise in 4 temi: distacco dallo sport, normalizzazione delle esperienze, volontà di apprendere e gestione delle reazioni emotive. Queste strategie sembrano variare a seconda del fattore di stress (es., tempo richiesto o guardare i propri figli competere), della situazione (es. fattori di stress competitivi incontrati dai genitori prima, durante o dopo le prestazioni dei propri figli) e del periodo temporale (es. competizione o allenamento) (Burgess et al., 2016; Hayward et al., 2017).

Tuttavia, secondo Lienhart e colleghi (2019), esistono differenze interindividuali nelle esperienze di stress e di coping dei genitori che possono derivare da una serie di ragioni, comprese le precedenti esperienze di stress, la risposta del loro bambino o il contagio emotivo (Hayward et al., 2017). Date tali differenze, è chiaro che i genitori dovrebbero essere considerati come individui piuttosto che come gruppi quando vengono sviluppate iniziative, incontri o formazioni con genitori sportivi, cercando di individualizzare l’insegnamento di nuove strategie di coping (Knight, Dorsch, Osai, Haderlie e Sellars, 2016).

 

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