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Tutto è così e sempre tale resterà. La convinzione nel panorama delirante

Secondo Jaspers il delirio lascia intravedere una frantumazione delle forme basilari della propria esperienza, in quanto avviene una trasformazione globale della coscienza di realtà del soggetto stesso.

 

La formazione, l’elaborazione ed il mantenimento dell’idea delirante si correla all’espressione di numerose influenze causali convergenti, ciascuna delle quali esercita un’influenza diversa nell’evoluzione della convinzione (Roberts1992).

Il processo di ragionamento nel trarre delle conclusioni relative ad una situazione esterna e/o ambientale risulta nettamente alterato nel soggetto delirante.

Il rischio dunque è che si venga a delineare quello che più comunemente viene definito “salto alle conclusioni”, un processo che riflette un nesso causale “troppo ovvio in un quadro probabilistico” (Huq 1988).

Quanto si riscontra è una modalità abnorme e distorta nell’elaborare le informazioni con le quali l’individuo entra a contatto, e dalle quali risulta toccato a livello emotivo.

L’anomalia del ragionamento e della percezione si correla inoltre con un ulteriore fattore: ossia l’incapacità di fare uso delle conoscenze acquisite in precedenza, possibilmente riguardanti il mondo, le relazioni e il proprio modo di viverle; con la drammatica conseguenza che le stesse informazioni disponibili possono essere soggette ad una ri-formulazione delirante (Garety 1991).

Una chiave di lettura aggiuntiva circa la natura del delirio deriva dal contributo di Kaney e Bentall (1989, 1992).

Gli autori infatti, tramite la teoria dell’attribuzione sociale, hanno riscontrato come i soggetti deliranti tendano ad estendere in maniera eccessiva il contenuto di un evento negativo, generando in tal modo attribuzioni globali annesse ad attribuzioni stabili e pertanto necessariamente esistenti.

Ma quanto conta il proprio passato e il proprio stile nel guardare e valutare il mondo?

Questi disturbi del pensiero sono legati sia al significato personale sia al confine del sé, infatti nello specifico l’attribuire qualcosa in maniera estesa e globale, spesso sottende l’impiego di prove ovvie connesse ad una lente intrapsichica con la quale l’individuo si è sempre mosso nel mondo.

La formazione delirante infatti si configura spesso come un meccanismo adattivo tramite il quale combattere la mancanza di solitudine, la disperazione, il senso di inferiorità e non ultima la consapevolezza dolorosa della rottura delle relazioni; procurando nondimeno un nuovo senso di identità, dietro il quale tuttavia si cela una rottura psicotica tra il proprio mondo intrapsichico ed interpersonale.

Si innesca così un nuovo modo di guardare il mondo, una nuova lente, che seppur disfunzionale, tuttavia promuove una nuova modalità autoregolatrice.

Il delirio è una convinzione?

Nella letteratura cognitiva e filosofica il concetto di convinzione viene di solito considerato un atteggiamento proposizionale in cui si assume che qualcosa sia vero, ma più nello specifico viene da chiedersi se il delirio rifletta una “falsa convinzione” o al contrario se il delirio possa essere percepito come esempio di convinzione o di asserzione sulla realtà.

Secondo Jaspers infatti il delirio lascia intravedere una frantumazione delle forme basilari della propria esperienza, in quanto avviene una trasformazione globale della coscienza di realtà del soggetto stesso (Jaspers 1963, Schneider, 1950).

Ciò che si modifica non è tanto la propria opinione sulla realtà, quanto la struttura stessa della prospettiva globale sul mondo: la cornice ontologico-esistenziale della persona. Tale cornice pertanto subisce modifiche accompagnate da distorsioni inerenti i parametri spaziali, temporali e identitari.

La propria “evidenza delirante” deriva principalmente da un’esperienza “sentita” che diviene il riferimento di un senso privato, assoluto e insostituibile.

Una certezza che non solo ha radici lontane nel tempo ma che risulta assoluta sin dall’inizio: “il senso di insicurezza dell’umore delirante è di per sé assolutamente sicuro” (Muller Suur 1950) e ciò che è stato, è e sarà per sempre.

Il palcoscenico emotivo e il delirio di infedeltà

I deliri risultano ricchi di sfumature ed infinitamente variabili nel loro contenuto, presentano una plasticità in rapporto alle esperienze di ciascun soggetto. Nondimeno infatti emerge un retroterra emotivo, che a differenza della forma, richiama un background culturale, intimo ed esperienziale del soggetto stesso.

Tra quelli maggiormente disturbanti e che spesso inficiano la vita relazionale dei soggetti, il delirio di infedeltà è quello che più di tutti riflette la presenza di una convinzione di fondo.

Accompagnato pertanto da una gelosia morbosa, questo disturbo del contenuto descritto da Ey (1950) presenta varie sfumature e/o sfaccettature: può dispiegarsi infatti in concomitanza di un’idea dominante, uno stato d’ansia e non ultimo uno stato depressivo.

Il sentimento di gelosia associato alla sensazione che l’oggetto amato “mi appartenga” descrive non solo un forte legame con un’altra persona, ma al contempo un pensiero che, se abnorme, può innescare una morbosità vera e propria.

Ma come si può distinguere una gelosia comprensibile e spesso fisiologica da un’altra chiaramente delirante?

A tal proposito Mullen (1997) ha classificato la gelosia morbosa tra i “disturbi passionali”, in cui prevalgono un senso esasperato di detenere un diritto e la convinzione che altri stiano “ledendo questo stesso diritto”.

Il rischio dunque è quello di costruire la propria identità e il proprio modo di sentire e percepire esclusivamente in funzione di una convinzione predominante; una convinzione che purtroppo innesca il desiderio di riaffermare ed esercitare il proprio controllo sull’altro al fine di punire la sua trasgressione.

In questa specifica sfumatura la convinzione delirante può non essere accompagnata da una rottura psicotica (Todd 1955).

Il profilo psicologico che si delinea risulta quello di una persona che dirige il proprio contenuto delirante nei confronti del partner, rispetto al quale sente un profondo attaccamento e da cui sovente risulta emotivamente dipendente.

Qualora la gelosia comprensibile si trasformi in morbosità emerge la convinzione che vi sia una minaccia al possesso esclusivo.

L’idea prevalente come alternativa al delirio

Un’idea prevalente è un’idea accettabile, comprensibile, perseguita al di là dei limiti della ragione. Di solito è associata con un profilo di personalità ossessivo – compulsiva, in cui il pensiero risulta alterato, ripetitivo e spesso dai connotati ritualistici.

Secondo McKenna (1984) con questo termine ci si riferisce ad una “credenza solitaria e abnorme” che tuttavia non risulta delirante ma è preoccupante per il grado in cui domina la vita di chi ne è affetto.

È prevalente in quanto provoca e determina un modo del tutto disturbato di funzionare o peggio ancora uno stato di sofferenza al soggetto e agli altri.

In concomitanza al delirio, quello che accomuna entrambi i quadri psicopatologici è il proprio background retrostante, un retroterra emotivo rispetto al quale il proprio modo di muoversi nel mondo non permette di accogliere nuove chiavi di lettura, se non appunto quella dominante, la sola ed unica.

Infatti le nuove chiavi di lettura non sono soggette ad una possibile revisione e/o acquisizione, bensì risultano soltanto secondarie a quella principale, a quella prevalente.

Quest’ultima infatti innesca un perno attorno al quale la vita e l’identità dell’individuo prendono vita, plasmando il suo modo di vedere, sentire ed agire nel mondo.

Rispetto a quest’ultimo, viene da chiedersi quale criterio di giudizio prevalga nella persona che lo esprime in riferimento a qualcosa.

Un giudizio è infatti un pensiero che esprime una visione della realtà, nondimeno per coglierne la differenza con l’idea prevalente bisognerebbe metterlo a confronto con il dato obiettivo.

Può quindi un’idea prevalente sfociare in un giudizio erroneo della realtà innescando un disturbo del contenuto del pensiero?

A tal riguardo la valutazione viene fatta non solo in base ad una propria credenza, bensì prendendo in esame la totalità del comportamento del soggetto in questione.

La natura del convincimento può concretizzarsi in una sentenza definitiva? Oppure al contrario essere flessibile e soggetta ad una ragionevole revisione?

La prestazione psichica richiesta per produrre un delirio è piuttosto indipendente dall’intelligenza, infatti il delirio prende vita in uno stato di coscienza lucido e la facoltà di giudizio può essere correlata alla capacità di ragionamento logico intrinseca del soggetto, sempre più propenso a difendere il suo convincimento.

Ma il suo ragionamento è idoneo e applicabile a tutte le sfere inerenti la sua vita?

Spesso infatti il modo in cui il paziente vive conferma la presenza di una distorsione avente radici lontane nel tempo, ossia da premesse correlate ad esperienze pregresse che promuovono idee e convinzioni distorte ed emotivamente disfunzionali.

Sulla base di una premessa distorta si costruisce una logica basata su quest’ultima, ossia una logica erronea e lontana dalla realtà di fatto.

Nondimeno lo stato emotivo sembra influenzare notevolmente il contenuto, di modo che la credenza errata diviene lo sviluppo logico derivante da un’anormalità estrema dell’umore.

Realtà, giudizio e percezione del mondo

Il reale viene solitamente definito come ciò che esiste indipendentemente dai nostri atti coscienti (fantasie o immaginazione) e in chiave fenomenologica la realtà riflette un “mondo vissuto”, un mondo intriso di significato, rilevanza ed obiettività.

Veri e propri ingredienti che nel loro insieme risultano co- costruiti dalla propria inter soggettività, connotata di dimensioni culturali, sociali e simbolico – comunicative (Parnas, Sass, 2008).

Nello specifico infatti la realtà non si affaccia ai nostri occhi quale semplice entità fisica, bensì come uno sfondo rispetto al quale le nostre radici di natura affettiva danno vita ad un orizzonte preriflessivo affettivo esistenziale che fa da cornice ai nostri rapporti quotidiani con gli oggetti, le situazioni e gli Altri (Husserl 1982).

Le emozioni e gli stati d’animo ci mettono in connessione con il mondo in modo “comprensibile” (Heidegger 1996) in quanto emerge un modo di “essere al nel mondo”.

L’affettività infatti comporta un tacito dispiegarsi nel mondo stesso, rispetto al quale il giudizio dispiega una credenza e/o un atteggiamento proposizionale nei confronti di un determinato stato di cose presenti nel mondo, tra cui le proprie esperienze passate in funzione delle quali rischiamo di vivere quelle presenti: dando vita così ad una lente certa e definitiva.

In cui il nostro vissuto sarà l’unico porto da cui far salpare il nostro modo di guardare, percepire e sognare un futuro.

 

“Amor ch’a nullo amato amar perdona”: cosa ci porta a perdonare un tradimento?

I risultati dello studio hanno rivelato che il perdono dell’infedeltà varia a seconda del tipo di comportamento, del genere di chi perdona e dei propri ideali.

 

Le relazioni romantiche sono altamente desiderabili e offrono una varietà di benefici, tra cui un senso di appartenenza e maggiori sentimenti di stabilità e sicurezza. Nonostante ciò, i tassi di infedeltà sono allarmanti, con ricerche che stimano che il 35-60% degli adulti ha messo in atto qualche forma di tradimento (Thompson & O’Sullivan, 2017). Questi dati sono ancora più preoccupanti se si considerano le conseguenze che spesso derivano dall’infedeltà, come il disagio fisico e psicologico e la dissoluzione del rapporto. Tuttavia, non tutte le relazioni finiscono dopo un caso di tradimento: il 25,3% degli adulti sceglie di perdonare il proprio partner e di rimanere nella relazione (Hall & Fincham, 2006). Tale scelta può essere ascrivibile al fatto che perdonare un tradimento non solo può incrementare l’armonia del rapporto, ma può anche portare con sé una serie di benefici fisiologici e psicologici. Heintzelman e colleghi (2014) hanno scoperto che il perdono dopo l’infedeltà predice la crescita personale e la percezione di un cambiamento in positivo.

Le tipologie di infedeltà

Consultando la letteratura, possiamo osservare che l’infedeltà è concettualizzata in quattro diverse categorie: sessuale/esplicita (avere rapporti sessuali, baciare), tecnologica/online (navigare su siti web per single, inviare messaggi sessualmente espliciti), emotiva/affettuosa (accompagnare qualcuno a un evento formale, innamorarsi), e comportamenti solitari (impegnarsi nella masturbazione). Alcuni studi hanno rivelato che i comportamenti sessuali/espliciti vengono giudicati come più indicativi di infedeltà, seguiti da quelli tecnologici/online, emotivi/affettuosi e da quelli solitari che vengono considerati meno infedeli (Thompson & O’Sullivan, 2016). Per quanto riguarda le differenze di genere, gli uomini riferiscono di essere più propensi a perdonare l’infedeltà emotiva mentre le donne riferiscono di essere più propense a perdonare l’infedeltà sessuale. In aggiunta, le partecipanti donne erano più propense a giudicare i comportamenti tecnologici/online, emotivi/affettuosi e solitari come più indicativi di infedeltà rispetto ai partecipanti maschi, ma non i comportamenti sessuali/espliciti. Il grado con cui un comportamento veniva giudicato come infedele era inoltre direttamente proporzionale al perdono e, di conseguenza, i comportamenti considerati come più indicativi di infedeltà erano valutati come più “imperdonabili” (Beltrán-Morillas et al., 2019).

Uno studio sul perdono di un tradimento

Ma quali sono le variabili che entrano in gioco quando si sceglie di perdonare un tradimento? Lo scopriamo nello studio di Thompson e colleghi (2020), che ha coinvolto 288 adulti impegnati in una relazione sentimentale da almeno sei mesi.

Per partecipare i soggetti dovevano accedere su Amazon Mechanical Turk® (MTurk®), compilare un modulo di consenso informato, rispondere ad alcune domande demografiche, completare il Definitions of Infidelity Questionnaire-R (DIQ-R ; Thompson & O’Sullivan, 2016) e l’Implicit Theories of Relationships Scale (ITRS; Knee, 1998).

Per quanto riguarda i dati demografici ai partecipanti sono state richieste informazioni rispetto all’identità sessuale, l’età, l’etnia, l’orientamento sessuale, l’esperienza rispetto all’infedeltà, l’attività sessuale e lo stato della relazione attuale.

Il DIQ-R (Thompson & O’Sullivan, 2016) è stato utilizzato per indagare la propensione al perdono. La scala contiene 32 items suddivisi in 4 sottoscale (sessuale/esplicita, tecnologica/online, emotiva/affettuosa e comportamenti solitari) che fanno riferimento ad una serie di comportamenti che possono essere ritenuti indice di infedeltà. Per quanto riguarda i comportamenti sessualmente espliciti nella scala vengono citati “essere coinvolti in un rapporto anale” o “praticare sesso orale a qualcuno”, mentre nella sottoscala “online” si fa riferimento a comportamenti quali “masturbarsi con qualcuno in webcam” o “crearsi un profilo su un sito di incontri”. Nella selezione di comportamenti “platonicamente infedeli” vengono proposti “flirtare con qualcuno” ed “aiutare qualcuno economicamente”, mentre per i comportamenti “solitari” si potrebbero considerare “guardare video pornografici” o “masturbarsi”. Nello specifico, ai partecipanti è stato chiesto di indicare fino a che punto avrebbero perdonato i loro partner nel momento in cui avessero attuato ciascuno dei comportamenti elencati nella scala, scegliendo un punteggio da 1 (non perdonerei in nessun modo) a 7 (perdonerei). È importante specificare che ai partecipanti non è stata data nessuna definizione precisa di perdono.

Per indagare gli ideali relazionali impliciti dei partecipanti è stata somministrata l’Implicit Theories of Relationships Scale (ITRS; Knee, 1998) che include 8 items suddivisi in due sottoscale: ideali di crescita (es. “la crescita relazionale ideale segue il corso del tempo”) ed ideali legati al destino (es. “la relazione ideale è data perlopiù dall’incontro di un partner compatibile”).

Cosa influenza il perdono di un tradimento?

I risultati dello studio hanno rivelato che il perdono dell’infedeltà varia a seconda del tipo di comportamento, del genere di chi perdona e dei propri ideali. Per quanto riguarda le variazioni del perdono legate al tipo di comportamento, i comportamenti solitari sono stati considerati i più perdonabili, seguiti dai comportamenti emotivi/affettuosi e tecnologici/online. I partecipanti maschi hanno valutato tutti i tipi di ipotetica infedeltà come più perdonabili rispetto alle partecipanti femmine, il che potrebbe essere legato al loro maggiore interesse per un tipo di relazione non monogama. Questo comporta che, sebbene i partecipanti maschi possano aver giudicato i comportamenti sessuali/espliciti come indicativi di infedeltà nella stessa misura delle partecipanti femmine, potrebbero essere più disposti a perdonare questi comportamenti. Nonostante le significative differenze di sesso scoperte nello studio, è importante tenere a mente che queste differenze erano spesso minime.

Per quanto concerne gli ideali, gli individui che credono nel destino tendono a perdonare i comportamenti sessuali/espliciti e tecnologici/online del partner in misura minore. Ciò può essere correlato sia alla loro tendenza a terminare rapidamente le loro relazioni dopo grandi trasgressioni, sia al fatto che, poiché i comportamenti emotivi/affettuosi e solitari sono meno espliciti, è possibile che gli individui non percepiscano questi comportamenti come segnali che la loro relazione non sia “destinata ad essere”. Invece, prendendo in considerazione gli individui con ideali legati alla crescita, essi vedono il conflitto come un’opportunità di apprendimento all’interno di una relazione e possono esplorare le opportunità di perdonare il partner dopo l’infedeltà in misura maggiore. I comportamenti sessuali/espliciti e tecnologici/online violano il presupposto primario della maggior parte delle relazioni romantiche, ovvero l’esclusività sessuale e, di conseguenza, sono stati percepiti dagli individui come troppo gravi e non come opportunità di crescita. D’altra parte, poiché i comportamenti emotivi/affettivi e solitari sono stati ritenuti forme più “leggere” di infedeltà, questi sono stati probabilmente interpretati come opportunità ideali per crescere e rafforzarsi all’interno della relazione, e quindi sono stati visti come più perdonabili.

 

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento (2022) – Recensione

Al giorno d’oggi si sente sempre più parlare di dipendenza affettiva, di questo terribile malessere da cui uscire da soli è difficile, e non ricaderci nuovamente lo è ancora di più.

 

Come è spiegato nel libro Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento, chiaramente ci sono dei motivi che fanno accadere tutto questo, a partire da traumi infantili, che richiedono un’elaborazione per poter disinnescare questi meccanismi che arrecano grande dolore.

Nel testo, l’autrice ha voluto non solo descrivere i soggetti più a rischio di dipendenza affettiva, ma anche chi si trova dall’altra parte: i partner che suscitano in loro maggior interesse. Il libro descrive in primo luogo che cosa è la dipendenza affettiva, mettendo in luce le difficoltà e le limitazioni che crea. Un capitolo particolarmente interessante riguarda il concetto di amore e la capacità di amare: cosa tutt’altro che scontata!

“So amare?” Questa è la domanda che potrebbe porsi il lettore inciampato in una relazione disfunzionale in cui si ritrova a riporre la sua felicità nelle mani di un’altra persona. Si tratta di una domanda a cui può essere molto difficile rispondere poiché implicherebbe il fatto di ammettere una grossa mancanza.

Molte altre sono le domande difficili da affrontare quando si tratta di dipendenza affettiva, come quelle che emergono da questo testo: perché tutta la felicità viene riposta solamente in una determinata persona? Perché si ama chi non sa ricambiare? Perché il partner che è così speciale non è anche realmente vicino? Perché, inoltre, nonostante tutto l’impegno, continua ad essere irraggiungibile? Ecc..

L’autrice ha messo in luce il fatto che ricercare una storia impossibile può anche essere un modo per sfuggire dalle proprie responsabilità; quello che in psicologia si potrebbe definire “evitamento attivo”. Si ha così la certezza di non poter costruire nulla di serio, di stabile, di concreto e di duraturo. Il partner ricercato dal dipendente affettivo, e adulato come se fosse un mito, potrebbe inoltre soddisfare dei bisogni che però non coincidono con le reali necessità, e allo stesso tempo potrebbero cambiare i bisogni stessi portando a una sorta di inseguimento continuo di un partner incapace di soddisfare le richieste.

Il tema trattato in questo libro è una dipendenza vera e propria, che coinvolge le aree cerebrali annesse e che, come ogni dipendenza, richiede sia un certo sforzo, sia le corrette strategie per essere superata. Ma il vero scoglio di una dipendenza è il paradosso tale per cui la soluzione sembra coincidere esattamente con ciò che nuoce.

Una diversa prospettiva sulla pandemia: e se avesse aiutato a far emergere la sofferenza latente?

Creando una situazione unica ed estrema, la pandemia può aver sottratto al sistema familiare quei fragili equilibri che consentivano alla sofferenza di sopravvivere sotterranea e ancora tollerabile. Creando l’opportunità di affrontare le nostre sofferenze, invece di fuggire da esse.

 

È innegabile che la pandemia da Covid sia stata per tutti un evento ad alto impatto. Si stima che la richiesta di aiuto psicologico sia aumentata in questo periodo di circa il 40% .

Uno studio che ha coinvolto 29 ricerche in tutto il mondo dimostra un significativo aumento di sintomi depressivi (dal 12,9% al 25,2%) e sintomi ansiosi (dal 11,6% al 27,1%) nella popolazione under 18. Fra la popolazione adulta si è osservato un sostanziale aumento di disturbi clinicamente maggiori (fonte: Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi CNOP).

In un rapporto pubblicato da UNICEF ad Ottobre 2021, 1 minorenne su 3 vive attualmente una condizione di disagio psicologico, 1 su 5 ha sintomi depressivi e 1 su 7 soffre di una patologia psichica strutturata.

Sembrerebbe quindi sussistere un rapporto fra pandemia e aumento generale del malessere psicologico nella popolazione. Ma come possiamo dare senso e significato a tale dato? La pandemia ha generato malessere psicologico?

E se la pandemia avesse invece accelerato il processo terapeutico?

Gli effetti della pandemia in una lettura sistemica

Nell’approccio sistemico relazionale non si parla di casualità lineare fra gli eventi ma di circolarità: le azioni all’interno di un sistema si influenzano reciprocamente; ogni azione è a sua volta causa ed effetto delle altre.

Vediamo quindi cosa può essere successo con l’arrivo della pandemia. Di fronte ad un evento di tale portata, il sistema familiare è stato costretto a riorganizzarsi. Le strategie individuali, di coppia e familiari, che sinora avevano garantito una omeostasi del sistema, non hanno più potuto funzionare come prima ma sono andate incontro a un diverso assetto.

Gli effetti immediati sul sistema familiare sono stati:

  • la riduzione delle relazioni esterne, in particolar modo la riduzione delle interazioni face-to-face con persone extrafamiliari significative (pari, educatori, colleghi, amici)
  • la riduzione della libertà di movimento
  • l’aumento delle interazioni intrafamiliari

Ognuno di tali elementi rappresenta, soprattutto in contesti di pregressa fragilità, un fattore di protezione dal malessere psicologico.

Creando una situazione unica ed estrema, la pandemia può aver quindi sottratto al sistema familiare quei fragili equilibri che consentivano alla sofferenza di sopravvivere sotterranea e ancora tollerabile.

Non solo. Rappresentando un “un nemico comune esterno”, la pandemia può aver agevolato la richiesta di aiuto, di fatto deresponsabilizzando l’individuo e rendendo il rivolgersi al terapeuta socialmente più accettabile.

Il caso di Diego: quando la pandemia “rompe il vetro” e agevola il cambiamento

Diego ha 16 anni; arriva nello studio a Gennaio 2020, inviato per una fatica scolare. Frequenta il III anno di un istituto tecnico e dall’inizio delle superiori, dopo un inizio brillante, mostra una battuta di arresto con il secondo quadrimestre con un crollo significativo del rendimento, difficoltà nelle interrogazioni, perdita di concentrazione e manifestazioni di ansia. L’inizio della III ha rappresentato un ulteriore aggravarsi delle sue difficoltà: il rendimento è stato da subito fluttuante; Diego, da sempre selettivo nelle amicizie, si è chiuso in casa e ha interrotto le poche frequentazioni precedenti; ha lasciato l’attività fisica. I genitori sono preoccupati si stia strutturando un disturbo ansioso.

La consultazione

Diego fatica a parlare di sé, si mostra sempre sorridente in modo marcato, dissimula le sue emozioni, si mostra reticente. Ha scarse frequentazioni. Ha una sorella minore, immunosoppressa per trapianto, con cui parla poco. I genitori descrivono un ragazzo a cui, da bambino, è stato chiesto di essere bravo e paziente mentre loro erano impegnati con la sorella, il cui stato di salute ha destato preoccupazioni.

La coppia genitoriale è formata da un padre sfuggente, spesso assente per lunghi periodi per lavoro, che dietro ad una parvenza di benessere si descrive come persona tesa e sotto stress. La madre, casalinga da quando è stata diagnosticata la malattia della figlia, si descrive anch’essa come una persona nervosa, impegnata in modo quasi ossessivo in palestra, sua “valvola di sfogo”.

La coppia mostra una parvenza di tranquillità ma emerge una immagine di reciproche solitudini e di forti tensioni: Diego riferisce di frequenti litigi quando i genitori pensano di non essere ascoltati; gli scambi verbali in seduta sono carichi di tensione ma non c’è esplicitazione di un conflitto. Emerge chiara la rappresentazione di una famiglia in cui tutto debba andar bene, in cui non vi sia spazio per esprimere e accogliere malessere, dove la richiesta esplicita è di far segreto delle sofferenze e aderire ad una aspettativa di buon funzionamento. La richiesta esplicita rivolta al terapeuta è che si aiuti Diego a tornare ad essere il “bravo bambino” che è sempre stato.

Diego sente il peso delle menzogne e al tempo stesso teme che il suo malessere possa infrangere il vetro di finto benessere dietro cui la sua famiglia nasconde le proprie difficoltà.

Arriva la pandemia

La famiglia si chiude in casa e taglia ogni rapporto con l’esterno. Lo stato di immunosoppressione della figlia impone restrizioni rigide e riattiva vissuti di preoccupazione elevata.

Diego mostra uno stato depressivo accentuato: dorme poco, ha un’importante riduzione dell’appetito, fatica a concentrarsi, si chiude nella sua camera e interrompe i pochi contatti ancor presenti con l’esterno.

Durante i colloqui Diego si mostra arrabbiato e deciso a smettere di fingere “che vada tutto bene”: i genitori litigano quotidianamente e ora in modo più acceso, data la convivenza forzata; prima della pandemia le liti si concludevano con l’allontanarsi del padre per più giorni e il ragazzo ha l’idea che il padre abbia una relazione extraconiugale. Le discussioni sono continue anche quando le sue idee sono divergenti da quelle dei genitori: aveva velleità umanistiche ma non è stato possibile far altro che seguire la carriera scolastica imposta dal padre; per ogni sua idea o bisogno chiede alla madre, la quale o media la richiesta con il padre, incassando un parere negativo, oppure convince Diego a non chiedere “per non far arrabbiare papà”. Il padre si arrabbia in modo acceso, non è violento, ma non è possibile parlare liberamente. La madre sembra far finta di nulla, si chiude in palestra e non condivide alcuna difficoltà. I figli stanno ognuno per conto proprio, in silenzio.

Il ruolo “terapeutico” della pandemia

La chiusura in casa rompe i fragili equilibri che consentivano alla famiglia di fingere benessere. I genitori interrompono le triangolazioni con l’esterno (la palestra, il lavoro, l’eventuale relazione extraconiugale). Lo stato di malessere del ragazzo diventa visibile e non eludibile, né circoscrivibile al solo ambito tollerabile della scuola. Appare evidente a tutti che il malessere è generalizzato e ha a che fare con le relazioni. E che non sia possibile “occuparsi solo di Diego” e “aggiustarlo”.

La famiglia sperimenta forse per la prima volta la possibilità di rivolgersi all’interno e di affrontare le proprie fragilità. L’obbligo di stare in casa è l’occasione per guardarsi e dirsi. Il sintomo così chiaro e urgente rende impossibile far finta.

L’opportunità offerta dal contesto terapeutico familiare agevola tale processo. Diego può finalmente dire le cose come stanno e fare una prima esperienza di sentirsi ascoltato. Sollevato dall’obbligo di aderire alla “facciata perfetta” proposto dalla famiglia, può dedicarsi alle relazioni e alla costruzione di una idea universitaria divergente dai piani paterni.

I genitori possono esplicitare apertamente il conflitto di coppia ai figli, riconoscendo come sia questo segreto di Pulcinella a generare sofferenza, più che la notizia in sé. Riescono a comprendere la loro esigenza di tenere in piedi una facciata perfetta come strumento per evitare il dolore. Possono fare individualmente ipotesi diverse per il futuro.

Conclusioni

Il caso proposto mette in evidenza il ruolo della pandemia come “acceleratore del processo terapeutico”. L’evoluzione del caso sarebbe stata la stessa senza la chiusura in casa imposta da ragioni di ordine sanitario? Probabilmente no. La prescrizione a tenere segrete le sofferenze familiari e aderire alla costruzione di una immagine esterna di famiglia perfetta avrebbe probabilmente prevalso, portando ad una interruzione del percorso terapeutico.

La pandemia ha allora assunto un ruolo positivo. Ha interrotto i fragili equilibri che continuavano a tenere insieme la coppia e a sorreggere l’immagine illusoria di perfezione. Ha reso evidente a tutti la sofferenza enorme e latente. Ha obbligato tutti a prendersene cura, ricostruendo una possibilità di dialogo e connessione nella famiglia. Ha imposto la necessità di posizioni autentiche e di esplicitazione dei bisogni.

È andata per tutti così? È probabile che ci siano state situazioni in cui le restrizioni abbiano costituito l’unico fattore di rischio esistente. Ma per mia esperienza, e in questo l’ottica sistemica mi dà ragione, la gran parte delle nuove richieste di aiuto psicologico poggiano su situazioni di sofferenza preesistente, che la pandemia ha reso visibili e ineludibili. Rompendo i fragili equilibri che ognuno di noi quotidianamente costruisce per consentirsi di andare avanti, la pandemia ha forse offerto l’opportunità di affrontare le proprie difficoltà invece che di fuggire da esse.

 

Oltre la trappola del panico (2021) di Alma Chiavarini – Recensione

Oltre la trappola del panico è un libro che raggruppa le voci di chi ha combattuto e di chi ancora combatte contro ansia e attacchi di panico, una vera e propria voce collettiva che evidenzia dolore, sofferenza, sensi di colpa, terrore di un disagio non semplice da superare, ma anche la possibilità di farcela.

 

Tutti noi proviamo ansia: si pensi all’attesa prima di un esame, al momento di un colloquio lavorativo, ma anche ad un nuovo incontro. L’ansia implica uno stato di arousal, ossia di attivazione del sistema nervoso simpatico che identifica uno stato di apprensione provato nell’anticipazione di un certo evento. Lo stesso vale per la paura, anche se quest’ultima sottolinea quel dato di immediatezza, in contrasto con l’aspetto di attesa della prima. Pertanto è fondamentale ricordarsi che fa parte della nostra vita quotidiana e aiuta a metterci in guardia da situazioni potenzialmente pericolose, ma ci collega anche all’essenza di ognuno di noi, costantemente in contatto con l’attenzione verso di sé e verso gli altri, proiettato al futuro, incerto, ma necessario per la stessa, medesima esistenza. Non di rado si assiste ad una deformazione dell’ansia abituale ponendo la grave questione della psichiatrizzazione di casi decisamente sotto soglia, mettendo in bilico quel limite tra “normale” e “patologico” che porta alla prescrizione, in maniera assolutamente troppo frequente di farmaci ansiolitici, oltrepassando l’importante ascolto della persona che, spesso, ha solo bisogno di una guida per meglio comprendersi.

Decisamente diversa, invece, è la condizione di tutti coloro, che, a causa di uno stato ansioso persistente, non sono più in grado di gestire la propria vita quotidiana, terrorizzati a tal punto da credere più sicuro il rimanere isolati, nella propria casa, a volte, addirittura rinchiusi nella propria stanza.

I disturbi d’ansia secondo DSM-5 sono molteplici e presentano diverse sfaccettature; proprio per questo è necessario un approccio integrato che possa avere il sostegno di più professionisti, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, che devono valutare con attenzione il livello di gravità, non tanto da manuale, quanto percepito. Ad aggiungersi, però, e la letteratura ne ha davvero molti esempi, un valido sostegno è arrivato dalla formazione di gruppi di mutuo aiuto, spesso associati dal sapere comune all’ambito delle dipendenze, come gli Alcolisti Anonimi, ma che, in realtà, possono sfruttare tutte le proprie potenzialità in diversi ambiti. Un esempio è proprio l’associazione Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, d’Agorafobia e da attacchi di Panico (Lidap) di cui la dottoressa Alma Chiavarini, autrice del libro, è una delle principali sostenitrici. Nel testo vengono riportate delle autentiche testimonianze di persone che, grazie al supporto dei vari professionisti, ma anche grazie a questi gruppi, sono riuscite a trovare il modo di evolvere, di arrivare perfino a dialogare con quel nemico invisibile, prima considerato un mostro esterno imbattibile.

In effetti, se ci appoggiamo alla letteratura, Lewin parla proprio, a proposito del gruppo, come di una potenza trasformatrice che sfrutta l’essere insieme, il senso di appartenenza, la condivisione di tematiche, puntando non tanto sulla similarità, ma sull’interdipendenza tra i membri. Il gruppo funziona proprio come un campo di forze in cui l’azione del singolo influenza tutti gli altri individualmente, ma anche nella totalità, facendo sì che ogni piccolo cambiamento possa generare un moto propulsivo che verte alla trasformazione, come accade in una Galassia, dove stelle, sistemi, gas e polveri si legano e interagiscono uniti da reciproca forza di gravità. Pertanto il gruppo diventa una dimensione di possibilità, dove predominante risulta essere il senso di identità sociale. Anche W. R. Bion studia il funzionamento del gruppo, sottolineando l’esistenza di una mentalità gruppale, ossia di un’esperienza che è prima di tutto sensoriale, emotiva, affettiva e poi cognitiva.

Ed il testo sposa bene questa filosofia, perché raggruppa le voci di chi ha combattuto e di chi ancora combatte contro questi disagi di ansia e di attacchi di panico, una vera e propria voce collettiva che evidenzia dolore, sofferenza, sensi di colpa, terrore di un disagio non semplice da superare, ma anche la possibilità di farcela. Questo non risulta un messaggio retorico, non propina false speranze, perché è proprio raccontato da chi soffre, da chi sta male, da chi è rimasto soffocato per mesi o anni tra le mura domestiche. È, come ben racconta il dott. Paolo Migone, una perlustrazione bottom-up, ossia dal basso verso l’altro: si parte con i piedi per terra, dalla terra nuda e cruda di chi ci è passato e di chi ancora combatte per poi, eventualmente, costruire una teoria. È un messaggio dunque non solo per coloro che pensano di non farcela, ma anche per gli stessi professionisti che, dal paziente, non possono che imparare. E, in effetti, da questi racconti ogni singolo concetto sembra scorrere sulla pelle del lettore, è palpabile, proprio perché espresso nel semplice linguaggio di chi la sofferenza la conosce per bene e, proprio per questo, ha il desiderio di aiutare chi potrebbe portarla dentro di sé come un macigno. Non si illude il lettore di poter avere un lieto fine in breve tempo, c’è un profondo rispetto per ogni singola persona in difficoltà, perché l’illusione non farebbe altro che trascinare ancora più a fondo chi è tanto fragile, in quanto lo porterebbe a sentirsi tradito. Ogni paziente racconta del proprio percorso, fatto spesso di terapia integrata, sottolineando la positività dell’esperienza gruppale e della necessità di cambiare prospettiva. C’è un senso di corresponsabilità tra queste persone, costruita sulla consapevolezza dell’inutilità dello scaricare la colpa su altri e della necessità, di contro, di imparare ad ascoltarsi, ad accettarsi, senza sentire quel senso di colpa che spesso è causa di cronicizzazione. E che cosa imparano ad ascoltare queste vite così diverse, ma allo stesso tempo così similari? Imparano ad ascoltare quella voce, quel sintomo, il panico che è, come dice bene Silvia nel testo, nemico, ma anche amico, in quanto in grado di darle quella scossa necessaria per poterle far riprendere in mano la sua vita.

Ad ogni singolo racconto di testimonianza nel libro segue sempre la parola di un esperto, che, a mio avviso, risulta particolarmente delicata, perché rispettosa di ogni singolo momento vissuto: è la parola del professionista che restituisce ad ognuna di queste persone un messaggio, che racchiude certo conoscenza e tecnica, fondamentali nella richiesta di aiuto, ma anche una profonda umanità e gratitudine per la condivisione di parti così intime di ognuno. Gli esperti sottolineano l’importanza della terapia, ognuno con l’esperienza del proprio orientamento, unita alla forza dei gruppi di mutuo aiuto, ma anche del profondo coraggio di ogni singolo paziente che lotta costantemente con abitudini disfunzionali, con senso di colpa e di vergogna, cercando una via di uscita.

Ma qual è il filo conduttore che lega queste testimonianze così diverse? Che da quel loop soffocante si può uscire, che da quegli anni così bui è possibile riemergere, che da quella paura della paura ci si può liberare, attraverso un percorso di accettazione, di trasformazione degli ostacoli in potenzialità, imparando anche ad amare quel panico, perché per accettare le proprie fragilità ed esprimere le proprie emozioni si deve amare la parte più vera di sé, come scrive Sebastiano nella sua testimonianza.

Questo testo è una vera e propria forma di amore, un amore che si affida al racconto di chi ci è passato, con l’intento di supportare e aiutare chi non sa dove andare, un amore onesto, perché contiene un messaggio reale: disagio e benessere non sono due dimensioni distinte, esse coesistono. Come ben scrive il dott. Migone citando Saffo: «Dove nulla è solo miele o solo assenzio».

 

Il potere dei colori nella scelta di una meta: Instagram e destinazioni

Lo studio di Yu, Xie e Wen (2020) ha analizzato le pratiche e le tecniche applicate su Instagram relative all’utilizzo dei colori nelle fotografie, per scoprire come la cromatura, la leggerezza e la tonalità delle foto influenzino la popolarità dei post in relazione al turismo.

 

Il marketing attraverso Instagram

La psicologia gioca un ruolo chiave, dall’imballaggio del prodotto fino alla sua vendita o alla sua sponsorizzazione tramite il marketing online. Esistono dei veri e propri spazi in rete, organizzati e gestiti dagli utenti, dedicati alla sponsorizzazione o alla promozione delle visualizzazioni di determinati prodotti: i contenuti generati dagli utenti (UGC) solitamente si trovano su piattaforme come Facebook, TripAdvisor e Instagram. Quest’ultima applicazione, con oltre 500 milioni di utenti attivi ogni giorno e con oltre 100 milioni di foto condivise in 24 ore, ha contribuito ai processi decisionali dei consumatori (Varkaris & Neuhofer, 2017) in quanto è uno strumento di marketing molto potente (Virtanen et al., 2017).

La China’s Greater Bay Area (GBA) (Ufficio del turismo del governo di Macao, 2017), evidenzia come Instagram sia in grado di promuovere una posizione o una tappa specifica nel mondo attraverso la visibilità: la popolarità dei post influenza le vendite, la consapevolezza del marchio e la fedeltà dei clienti (Rapp et al., 2013) ed è esaminabile attraverso il numero di “mi piace” dei consumatori e di commenti (Swani et al., 2017).

L’uso dei colori su Instagram

Lo studio di Yu, Xie e Wen (2020) ha analizzato le pratiche e le tecniche applicate su Instagram relative all’utilizzo dei colori nelle fotografie, per scoprire sia quali sono i colori più comuni sul social quando gli utenti pubblicano fotografie legate al turismo e per indagare come la cromatura, la leggerezza e la tonalità influenzino la popolarità dei post in base alle diverse tipologie fotografiche. In primo luogo, Xu e colleghi (2020) hanno svolto una revisione della letteratura, osservando che il concetto di identità è fondamentale in quanto la percezione dell’immagine del marchio da parte dei consumatori permette un riconoscimento identitario (Bernini et al., 2018; Que et al., 2011). Il branding di una destinazione contribuisce al valore percepito di un determinato luogo attraverso la combinazione di immagini con aspetti positivi, che restano radicate nella memoria dei turisti e che si differenziano dalle altre destinazioni proposte dai concorrenti (Cai, 2002; Legendre, Carter & Warnick, 2019; George, 2017).

Con la sua capacità di condivisione di video e foto, Instagram aiuta a generare consapevolezza per le differenti destinazioni (Bozhko, 2019; Yu, Xie & Wen, 2020) e, come suggeriscono alcuni studi, le persone desiderano riscontrare un impatto visivo prima di prenotare una meta specifica (Ryan, 2010). Gli autori hanno osservato come il colore comprenda tre dimensioni: brillantezza, cromatura e leggerezza (LCH; Gorn et al., 1997). La leggerezza si riferisce alla luminosità, permettendo così di discriminare tra un colore chiaro e uno scuro: Valdez e Mehrabian (1994) hanno mostrato come un colore brillante, tendente al biancastro, abbia un effetto maggiormente rilassante. La cromatura fa riferimento alla saturazione del colore, cioè alla presenza di un pigmento interno (Gorn, 1997). Sokolik e colleghi (2014) hanno presentato a dei partecipanti dei colori freddi (blu) e caldi (rosso) con diversi gradi di saturazione e hanno osservato come i colori più saturi sono stati scelti maggiormente grazie al maggior senso di attenzione e attivazione che forniscono.

A livello psicologico, i colori sono attribuiti a diverse associazioni: il nero è spesso associato a semantiche di potere, affidabilità, alta qualità ed è il più condiviso insieme al blu (Amsteus et al., 2015; Mehta & Zhu, 2009). Anche il blu è associato ad affidabilità e alta qualità, nonché altre caratteristiche come felicità e tranquillità (Madden, 2000; Singh, 2006). Bisogna comunque sottolineare che i colori hanno delle valenze individuali e culturali differenti: nei siti web, il rosso è associato alla felicità in Cina e al pericolo negli USA, mentre il giallo è associato a un senso di armonia per i canadesi e non per i giapponesi (Cyr et al., 2010).

I colori su Instagram e la scelta delle destinazioni

Dopo aver revisionato diversi profili Instagram e dopo aver selezionato delle foto relative a differenti destinazioni, i ricercatori hanno sottoposto le foto alla verifica dello spazio colore tramite Image Color Summarized. L’analisi dei dati è stata effettuata tramite LCH, un modello disegnato in base alla percezione umana del colore (Hsieh et al., 2018), che fa riferimento alla leggerezza, alla cromatura (scala da 0 a 100) e alla tonalità (scala da 0 a 360). Dopo aver raccolto i valori medi, le immagini selezionate sono state classificate in base alla loro tipologia (Yu, Xie & Wen, 2020).

I risultati hanno mostrato come gli individui sembrano maggiormente propensi a prediligere mete con fotografie più luminose e saturate. I colori che hanno contribuito in modo significativo alla popolarità dei post di diverse tipologie sono l’arancione, il giallo, il blu e il viola (Yu, Xie & Wen, 2020) Gli autori hanno dimostrato come il colore in generale contribuisca ad arricchire le percezioni dei turisti relative alle potenziali destinazioni. In conclusione, i risultati evidenziano come ci siano delle preziose implicazioni sull’utilizzo di Instagram come piattaforma per scegliere una meta di viaggio Yu, Xie & Wen, 2020).

Leggere per essere. Lettura condivisa e benessere

In questo articolo parleremo della lettura e delle sue varie applicazioni in ambito sociale e medico e di come diventi uno strumento condiviso e promotore di benessere all’interno di un centro diurno romano.

 

Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito […] perché la lettura è un’immortalità all’indietro. (Umberto Eco, 1991)

Introduzione

Se consideriamo la salute come “[…] uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto come assenza di malattia o infermità” (OMS, 1964), dobbiamo necessariamente interrogarci su come questo concetto venga declinato nel variegato e plurisettoriale ambito socio-sanitario della “salute mentale”. Uno di questi settori è la riabilitazione psicosociale, il cui principale obiettivo è quello di garantire che la persona con disagio psichico grave possa utilizzare tutte le abilità fisiche, emotive, sociali ed intellettuali indispensabili per raggiungere il maggior grado di autonomia possibile (Hume & Pullen, 1994; Liberman, 2016). Tra i luoghi dedicati al raggiungimento di questo obiettivo c’è il centro diurno (CD). Questa struttura opera a metà strada tra la dimensione “artificiale” della cura e quella “naturale” della vita quotidiana e, oltre a cura e riabilitazione, produce socialità, sapere e cultura, attività umane che possono essere esercitate in ogni luogo e in ogni momento al di là delle differenze individuali, sociali ed economiche.

In questo articolo parleremo della lettura e delle sue varie applicazioni in ambito sociale e medico e di come diventi uno strumento condiviso e promotore di benessere all’interno di un centro diurno romano.

Come e perché leggiamo

Che la lettura abbia sempre rivestito un’importanza particolare, è dimostrato dalla storia: verso la fine del dodicesimo secolo a.C., gli Assiri avevano collocato migliaia di tavolette d’argilla nel tempio di Assur, creando un archivio statale gestito dai sacerdoti che, col tempo, aggiungevano ad esso altre opere di tipo sacro e letterario. I Greci poi, giunsero ad attribuire una funzione terapeutica alla lettura, considerata psicologicamente e spiritualmente importante al punto che, dinanzi alle porte di accesso alle biblioteche venivano raffigurati dei segni che le indicavano come “luogo di guarigione per l’anima” (psychès iatreion). Questo concetto fu ripreso da Federico il Grande, che nel 1780 fece incidere sul frontone della biblioteca reale di Berlino la scritta Nutrimentum spiritus.

Sin dalla sua nascita, il libro faceva viaggiare idee, opinioni e conoscenza. In un momento successivo, l’uomo ha utilizzato la lettura anche per puro piacere personale, tanto da trasformarla in una necessità obbligatoria alla sopravvivenza, rendendola oggi quasi un vizio, almeno per alcuni, un “⦋…⦌ vizio impunito che ci dà l’illusione di condurci alla virtù” (Vitiello, 2021, p. 7). Leggere ci aiuta ad immedesimarci con qualcun altro, con qualcos’altro e ci fa sperimentare emozioni che non abbiamo ancora vissuto o, ancora meglio, ci aiuta a scavare a fondo in quelle che già conosciamo. Ci stimola, ci porta a crescere, a raggiungere una conoscenza superiore.

La lettura, quindi, stimola il cervello che, a differenza di quello che accade per il linguaggio orale, non sembra possedere una predisposizione biologica ad essa. Infatti, mentre impariamo il linguaggio orale spontaneamente poiché si tratta di una proprietà emergente del sistema biologico umano, per acquisire le capacità di leggere e scrivere abbiamo bisogno di un’istruzione formale ed esplicita. Sembra, infatti, che il sistema di elaborazione del linguaggio scritto si appoggi “⦋…⦌ su strutture cerebrali che sono sorte nel corso dell’evoluzione della specie Homo Sapiens per fare altro” (Crepaldi, 2020, p. 31).

Dal punto di vista filogenetico, la scrittura e la lettura ad essa correlata rappresentano un’invenzione culturale relativamente recente ma di cruciale importanza, se è vero che tramite esse la nostra specie si è liberata dai vincoli della memoria e ha avuto accesso ad un sapere che, non dipendendo più dalla ripetizione orale, può ampliarsi enormemente” (Fioroni, 2013, p. 225). In assenza di specifiche aree cerebrali dedicate alla lettura, è lecito chiedersi come faccia il nostro cervello a decodificare una parola scritta in pochi millisecondi. Dehaene (2009), formulando la teoria “del riciclaggio neurale”, ipotizza che, quando il bambino comincia a leggere, il suo cervello recluti spontaneamente alcuni circuiti che si adattano bene a questo scopo. Si tratta soprattutto di circuiti deputati alla vista, che poco hanno a che vedere con le strutture che processano il linguaggio. Significa, in sostanza, che la capacità di leggere è quasi del tutto indipendente da quella di parlare (Crepaldi, ibidem). Il nostro cervello “⦋…⦌ non è fatto per la lettura, ma in un modo o nell’altro vi si riconverte grazie alla sua innata plasticità. ⦋…⦌ L’attività del leggere sarebbe dunque possibile grazie al riciclaggio di dotazioni preesistenti nel nostro cervello, i cosiddetti neuroni della lettura, situati nella regione occipite-temporale sinistra” (Fioroni, ibidem). Durante la lettura, il cervello non si limita a decodificare segnali, ma riesce a ricordare, associare, progettare strategie e a provare emozioni. Gli studi di neuro-immagine dimostrano che durante la lettura, il cervello mostra una crescente attivazione del sistema limbico, sede della fisiologia delle emozioni, che è strettamente connesso ai processi cognitivi superiori (Berns et al., 2013). I ricercatori dell’Università di Emory hanno riscontrato che i movimenti realizzati dai personaggi dei libri attivano nel cervello dei lettori le stesse aree che si sarebbero attivate se ad agire fossero stati questi ultimi in prima persona. Cinque giorni dopo la lettura del romanzo, i soggetti della ricerca sono stati nuovamente sottoposti a risonanza magnetica: comparando i risultati dei diversi esami, è emerso un aumento della connettività nel ‘solco centrale’ e nella ‘corteccia temporale sinistra’, due aree cerebrali che sono coinvolte nel linguaggio, nella ricettività e nella creazione delle rappresentazioni sensoriali del corpo. L’aumento della connettività si è mantenuto inalterato anche quando i partecipanti allo studio non erano più impegnati nella lettura del romanzo (Berns et al., ibidem). Secondo i ricercatori, i benefici della lettura, che si conservano a lungo termine, deriverebbero dai meccanismi di identificazione da parte dei lettori con i protagonisti della storia; questo meccanismo causa l’attivazione di determinati neuroni associati alle attività che essi compiono, come ad esempio i neuroni specchio (Gallese, 2003, 2007). Non sempre però la lettura è un’esperienza felice: basti pensare ai libri di testo sui quali abbiamo studiato sin dalle scuole elementari. Tuttavia, ciò che può fare la differenza è l’incontro con la narrativa, con le storie che ci riguardano poiché “⦋…⦌ ognuno di noi è una storia e attraverso la narrazione, giorno dopo giorno, ci riconosciamo e costruiamo la nostra identità. Le storie ci permettono di confrontarci con noi stessi e con gli altri, di vivere vite diverse, di costruire pensieri nuovi e magari di mettere un po’ di ordine nelle nostre idee e nel caos dell’esistenza.  ⦋…⦌ Se siamo dentro una storia, possiamo diventare il protagonista o l’amico che gli sta accanto o semplicemente uno spettatore empaticamente partecipe delle sue vicende. Questa partecipazione a sentimenti, paure, desideri, rimpianti, rabbia ci rende meno soli. Chi immagina va oltre il proprio quotidiano, assorbe in sé altri esseri umani ed acquisisce autonomia e spirito critico: chi legge storie, insomma legge il mondo con maggiore profondità. Per questo le teocrazie e i regimi totalitari temono i libri e li bruciano” (Quarzo & Vivarelli, 2016, pp. 10-11). Possiamo affermare che leggere rende liberi, conferisce un potente senso di appartenenza e permette di “⦋…⦌ scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni.” (Fitzgerald, 2020). Leggere ci fa sentire meno soli, in modo particolare quando ci troviamo ad affrontare situazioni complesse o dolorose, perché, immedesimandoci empaticamente con le traversie dei nostri “eroi”, ne attingiamo incoraggiamento e conforto. E, in fondo, non è del tutto da sottovalutare il senso di soddisfazione che si prova nel portare a termine la lettura di un libro, soprattutto se impegnativo: un piccolo ma non trascurabile risultato che migliora la nostra autostima.

Lettura condivisa (LC), benessere e processi gruppali

La lettura a voce alta fa parte del nostro quotidiano più di quanto possiamo immaginare. Chi non ricorda i timori di momenti simili vissuti già alla scuola elementare, per non parlare di quando bisogna leggere una relazione, un progetto o qualsiasi testo ad un uditorio di colleghi, allievi e clienti? Diventa fondamentale superare i timori di leggere a voce alta se vogliamo valorizzarne pienamente i contenuti anche perché leggendo in questo modo, i protagonisti diventano tre: il testo, il lettore e il pubblico.

La lettura ad alta voce condivisa in gruppo, vista la flessibilità dello strumento, può essere utilizzata non solo in contesti educativi, ma anche in quelli sociali e terapeutici. In Gran Bretagna, ad esempio, grazie all’impegno di 25 Trust del Servizio Sanitario Nazionale (NHS), il fenomeno della lettura condivisa ha assunto dimensione nazionale. Inoltre, da alcuni anni l’università di Liverpool indaga i suoi benefici sulla salute ed il benessere, sostenendo che la lettura condivisa “[…] crea uno spazio per esplorare le vite umane, ordinarie e metterle in relazione con le nostre esperienze e quelle degli altri. È uno strumento potente che, secondo le ricerche, può ridurre e prevenire l’isolamento, migliorare il benessere psicologico e costruire resilienza”.

Josie Billington, del Center for Research into Reading, Literature and Society della stessa università, afferma che la lettura condivisa potrebbe incidere positivamente anche “[…] nel portare consapevolezza cosciente in aree di dolore emotivo che, altrimenti, il paziente subirebbe passivamente sotto forma di dolore cronico” (Billington et al., 2017).

L’atto di leggere insieme un testo letterario, non solo sfrutta il potere incisivo della lettura sulle funzioni cognitive (memoria, eloquio, concentrazione e capacità di problem solving), ma svolge anche un effetto coalizzante da un punto di vista sociale, lasciando ai lettori un’esperienza condivisa e soggettiva allo stesso tempo (Hodge et al., 2007) e restituendo loro il senso di avere un posto nel mondo (Billington, 2019). La lettura di per sé non è un’attività passiva, ma un atto partecipativo e creativo che permette al lettore di estendere i propri confini psichici: nel momento in cui si lascia trasportare in una “nuova dimensione”, egli ha la netta sensazione di uscire fuori dalla realtà oggettiva ed entrare in un’altra realtà (Fisch,1980).

Il gruppo di lettura prende corpo in un luogo accogliente, protetto e non giudicante, condiviso dai partecipanti (8-10 persone), compreso il conduttore che coordina e facilita le interazioni tra i vari membri. Il Liverpool Primary Care Trust offre un programma di lettura di gruppo, denominato GIR – Get into reading – (Dowrick et al., 2012), che è stato concepito allo scopo di aumentare i livelli di autostima, il senso di orgoglio e di realizzazione, nonché di incrementare i rapporti sociali, incentivando i pazienti a farne parte. L’attività si articola attraverso la lettura di brani di narrativa e di poesia, che vengono scelti dal gruppo stesso all’interno di una serie di materiali selezionati dal conduttore e che includono brani di vario genere, ma sempre caratterizzati da elevata espressività emotiva. Dowrick et al. (ibid.) ritengono che effettuare una lettura “seria” offra al pensiero e ai sentimenti una forma e un linguaggio tali da riuscire ad alleviare la sofferenza legata ai problemi personali producendo benefici terapeutici. La poesia stimola la concentrazione, mentre la narrativa favorisce la calma e il rilassamento psicofisico, quest’ultimo fortemente legato al metodo narrativo che, muovendosi nel tempo e nello spazio, consente al lettore di ricordare il punto di chiusura della sessione precedente.

La letteratura scientifica riporta l’utilizzo della lettura condivisa sia nel trattamento dei disturbi d’ansia e depressione di lieve e media entità, sia nella psicoeducazione, sia in ambito psichiatrico (Jeffcoat et al., 2012). Va ricordato che, sotto l’aspetto cognitivo, la lettura condivisa tende ad incrementare le abilità come la memoria, l’attenzione, la concentrazione, la riflessione e l’uso di strutture logiche (Moldovan et al., 2012). Tramite la comunicazione, leggere ad alta voce aiuta il paziente a mantenere un adeguato rapporto con la realtà esterna (Fisch, ibidem), oltre a svolgere un compito di autoformazione poiché permette all’individuo di porsi delle domande rispetto al proprio futuro (Dowrick et al., ibidem). Lewis (2009) sostiene che bastino pochi minuti al giorno di lettura di qualsiasi libro per ottenere effetti benefici anche a livello fisico, come il rallentamento del battito cardiaco, la diminuzione della tensione muscolare e la riduzione del livello di stress. Gruppi di lettura condivisa vengono utilizzati anche con persone affette da demenza (Clark et al. 2019): una recente ricerca (Rentera et al., 2019) dimostra che, proprio perché la lettura rafforza il cervello, il rischio di sviluppare decadimento cognitivo cerebrale sia più alto tra le persone che non leggono e che hanno un basso livello di istruzione.

Gli esseri umani fanno parte di complesse organizzazioni interpersonali (gruppo familiare, gruppo sociale di appartenenza, gruppo culturale e professionale) fin dalla nascita e per tutta la vita lavorano e vivono in gruppo, il quale ha lo scopo di trasmettere cultura e modelli relazionali che sono alla base del rapporto tra individui e collettività sociale. Per questo motivo, l’individuo non può essere visto come entità isolata, bensì come “nodo” di una complessa rete di interazioni che coinvolgono tutte le persone con le quali viene a contatto (de Marè,1973). Ai benefici della lettura condivisa si aggiungono fattori terapeutici strettamente legati ai processi che il gruppo mette in atto, considerando che di per sé esso offre supporto e senso di appartenenza e di uguaglianza (Yalom & Molyn, 2009). Le persone che hanno vissuto o vivono esperienze di passività e di esclusione, come spesso accade ai pazienti psichiatrici, hanno l’opportunità di potersi considerare appartenenti ad un gruppo con il quale identificarsi e dal quale ricevere partecipazione emotiva, comprensione e consigli. Inoltre, il gruppo è in grado di facilitare i processi di maturazione sociale e la sua coesione è l’elemento che gli consente la sopravvivenza nelle situazioni di stress di singoli membri o del gruppo in toto (Yalom & Molyn, ibidem).

Come già evidenziato, è importante che lo spazio dedicato alla lettura condivisa sia accogliente, familiare e confidenziale. Un testo interessante può promuovere una discussione su importanti temi di vita, permettere di sviluppare l’auto espressione ed incoraggiare la tolleranza reciproca e il sostegno tra pari. Leggere per gli altri è un antidoto contro la timidezza, contribuisce a rafforzare la personalità ed è un potente stimolante per l’immaginazione. Al di là di ogni considerazione, la lettura ad alta voce coinvolge la persona intera e non solo la parte malata (Fearnley & Farrington, 2019) e risulta essere un’attività flessibile, economica, relativamente facile e alla portata di tutti. Per tutti questi motivi, alcuni mesi fa abbiamo pensato di cominciare a leggere ad alta voce con alcuni dei pazienti di un centro diurno.

Lettura condivisa come gruppo a mediazione terapeutica? La nostra esperienza

Un gruppo a mediazione terapeutica utilizza un oggetto mediatore (giornale, libro, pittura, etc.) per attivare l’espressione di pensieri, affetti e la comunicazione tra i partecipanti. È “⦋…⦌ principalmente rivolto a persone chiuse in rigidità ideative e relazionali dove lo scambio con l’altro è fonte di angoscia e le emozioni hanno perso parola e modulazione. I gruppi a mediazione terapeutica non hanno come scopo l’apprendimento di tecniche o il semplice adattamento alla vita sociale, bensì quello di favorire la mobilizzazione di processi psichici utilizzando assieme produzioni immaginative, motricità e parola” (Petralito, 2018, pag. 154). L’oggetto mediatore serve da interprete, da trasformatore, da trasmettitore, da simbolizzatore tra realtà psichica e realtà esterna (Di Marco 2007).

Quando abbiamo coinvolto nella lettura ad alta voce alcuni degli utenti del nostro centro diurno, sostanzialmente pensavamo di migliorare la loro socializzazione e di intrattenerli. Nel rispetto delle procedure contro il contagio da Covid-19, abbiamo riunito in una stanza ampia ed arieggiata 2 operatori e 3 utenti, ai quali se ne aggiungevano altri 2/3 in videoconferenza. Per non passare il libro da una persona all’altra e per risparmiare carta, abbiamo scannerizzato il testo, lo abbiamo aperto sul nostro PC e proiettato su un grande schermo condiviso con i computer dei pazienti a casa. La scelta del materiale letterario è caduta su racconti brevi e semplici che potessero esaurirsi nel giro di 90/120 minuti e abbiamo lasciato ad ogni partecipante la scelta di leggere oppure no. I lettori si alternavano e, dopo i primi 40 minuti, si effettuava una pausa per poi riprendere per altri 30/40 minuti. Se qualcuno non capiva un passaggio, l’operatore interveniva con un chiarimento, ma in genere il suo è stato un ruolo di promotore, organizzatore e facilitatore. Terminata la lettura, la discussione successiva permetteva di condividere non solo pensieri e commenti sul testo, ma anche ricordi, emozioni e frammenti della propria vita. L’emersione fluida e spontanea degli spaccati di vita degli utenti sembrerebbe legata alla facoltà della narrativa di promuovere esperienze vicarie. Le vicende narrate divengono linguaggio comune, lo spazio neutro condiviso nel quale esprimersi (La Rovere, 2018). La lettura così può costituire il miglior allenamento per configurare e descrivere altri scenari, segnatamente nell’ambito di quella narrazione fondamentale che è la vita del lettore.

Il racconto consente di avvicinare e tollerare emozioni difficili da esprimere in prima persona, proprio perché è più facile riconoscerle in qualcosa che è “altro da sé”. Come ben espresso da una utente, “attraverso le parole di altri riesco a dare voce e senso alla mia sofferenza”.

Gli utenti si sono appassionati molto a questa attività e ad ogni incontro ci stupiscono le loro capacità di entrare in relazione sia con le situazioni narrate dal testo, sia con gli stati d’animo dei personaggi. La lettura di un brano permette di entrare in contatto con il variegato mondo di emozioni che accompagna le vicende dei protagonisti, di indagare il vissuto emotivo e cognitivo dei personaggi, nonché delineare le conseguenze del loro sentire e del loro agire. Ciò consente di abituarsi – attraverso il confronto e l’immedesimazione con essi – ad attribuire significati e a riconoscere le possibilità plurali di interpretazione, promuovendo processi mentali trasformativi per il lettore.

L’atmosfera gruppale è molto tranquilla, c’è sempre curiosità e gioiosità verso quella che sembra essere vissuta ogni volta come una nuova avventura. In genere, i nostri utenti hanno bisogno di essere sollecitati, guidati e mostrano ridotta iniziativa nelle attività riabilitative di gruppo. Nel caso della lettura condivisa, osserviamo invece una maggiore capacità di partecipazione e desiderio di condivisione. Sembra proprio che le storie lette e quelle che si andranno a leggere permettano ai nostri utenti di passare da una posizione di accondiscendente passività ad una forma di partecipazione attiva e di desiderio di condivisione: riferiscono, infatti, che, quando sono nel gruppo di lettura condivisa, il tempo vola, aumenta la curiosità, si sentono più tranquilli e meno tristi e qualcuno ha persino affermato che si sente spinto a leggere da solo.

Con nostra sorpresa, gli utenti non solo si sono appassionati alle storie lette, ma hanno anche apprezzato il confronto e le diverse modalità di lettura, quasi come manifestazioni essenziali dei modi differenti di essere. Un utente dice che “far parte di questo gruppo significa integrarsi, conoscersi e abituarsi a modi differenti di leggere”. Dopo alcuni mesi di esperienza, ci sembra che i membri di questo gruppo siano anche più consapevoli di se stessi e che le loro capacità di ascolto e di concentrazione siano migliorate. A differenza degli altri gruppi di riabilitazione attivi nel nostro centro, la lettura condivisa sembra possedere un’attrattiva particolare e i suoi membri si comportano come se condividessero qualcosa di speciale, tanto da manifestare molto dispiacere se un incontro viene annullato.

Il gruppo è aperto, i confini sono permeabili e il collegamento in videoconferenza non solo ha raggiunto persone isolate in casa, ma è diventato anche un’opzione per chi un giorno non si sente di recarsi fisicamente nei locali del centro diurno. Gli stessi operatori esprimono il proprio piacere, perché partecipare alla lettura condivisa consente di condividere un’esperienza significativa con gli utenti, entrando in relazione con la persona nella sua interezza – non soltanto con la sua “parte malata” – e avvicinando quegli aspetti vitali che non sempre emergono nella pratica clinica.

 

Meditare con la vita. Tutto quello che c’è da sapere sulla mindfulness (2022) di A. Montano e V. Iadeluca – Recensione

Il libro Meditare con la vita vuole essere una porta d’accesso alla mindfulness per i non adepti, oltre che rappresentare un’utile guida per i professionisti della salute.

 

La pratica della mindfulness rappresenta una variante laica della meditazione vipassana, dalla quale trae origine.

Da un punto di vista etimologico mindfulness deriva dalla parola sati dell’antica lingua pali delle scritture buddiste ed è traducibile con attenzione consapevole, consapevolezza.

L’obiettivo della pratica è sviluppare un atteggiamento mentale di pazienza, fiducia, sospensione del giudizio, non cercando risultati, accettando, lasciando andare, utilizzando la mente del principiante: questi sono i sette principi della mindfulness.

Come ogni training è necessario un allenamento costante, al fine di riuscire a vedere la mente come un contenitore di pensieri, in costante e continuo divenire, in noi contenuta, ma con la quale non occorre identificarsi. Il naturale chiacchiericcio della mente può essere paragonato, riprendendo una metafora buddista, ad una scimmia, che salta da un ramo all’altro, e da un albero all’altro della foresta in maniera capricciosa, inquieta e talvolta fuori controllo.

Nella società occidentale abbiamo sviluppato un’attitudine al multitasking, al fine di riuscire a compiere diverse attività contemporaneamente e star dietro ai numerosi ed impellenti impegni della quotidianità. Nel far ciò, in maniera abbastanza naturale, inseriamo una sorta di pilota automatico che ci permette di restare al passo con le svariate incombenze, il tutto ad un livello di consapevolezza sottosoglia, mentre la nostra mente vaga tra passato e futuro, pianificando, organizzando, ripensando ad eventi già accaduti o che ancora devono palesarsi.

In altre parole viviamo sospesi tra ciò che è stato e ciò che sarà, impedendoci di assaporare la bellezza del presente, che, come indica la parola stessa, rappresenta un dono!

Il testo è intriso di numerosi esercizi, finalizzati a prendere confidenza con la pratica mindfulness: il lettore potrà sperimentare, guidato dal testo, le sensazioni corporee esperite durante la respirazione, portando l’attenzione all’aria che entra ed esce dalle narici, al gonfiarsi e allo sgonfiarsi del petto, potendo notare tutti i segnali che il corpo stesso invia, tra cui formicolii, pruriti, tensioni.

L’invito è di osservare tutto ciò che arriva in maniera benevola, curiosa e mai giudicante.

La respirazione rappresenta l’ancora della pratica meditativa, essendo essa sempre presente, momento dopo momento: è il primo grido che emettiamo alla nascita, ci accompagna dalla culla alla tomba, ed è possibile farvi riferimento per connettere corpo e mente, in un tutt’uno che si influenza reciprocamente.

Secondo Jon Kabat-Zinn, padre della pratica meditativa nella sua versione Occidentale, per cogliere la ricchezza del momento presente bisogna riappropriarsi della curiosità ingenua, tipica dei bambini, sospendendo il giudizio, rifuggendo le etichette. Nell’agire tale processo di distanziamento, disidentificazione dalla propria attività mentale, che non equivale alla dissociazione, chi pratica mindfulness riuscirà, sessione dopo sessione, a raggiungere un senso di serenità, equilibrio ed equanimità.

È straordinario quanto risulta liberatorio sentirsi capaci di vedere che i nostri pensieri sono solo pensieri e non sono «noi», né la realtà. […] La semplice azione di riconoscere i nostri pensieri come pensieri e basta può liberarci dalla realtà distorta che essi spesso creano e conferirci una maggiore lucidità e il senso di poter gestire meglio la nostra vita (Kabat-Zinn, 1990).

Kabat-Zinn ha messo a punto uno specifico protocollo nel 1979, il Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), presso la Stress Reduction Clinic del Medical Center, all’interno dell’università del Massachusetts, finalizzato appunto alla riduzione dello stress. Da allora il protocollo è stato utilizzato in un’ampia popolazione clinica, mostrando benefici nel trattamento di disturbi psicosomatici, cancro, Aids, ipertensione, fino ad inglobare l’area del disagio psichiatrico.

In ambito psicoterapeutico hanno visto la luce approcci mindfulness-based, ovvero centrati sulla mindfulness, di stampo cognitivo e psicocorporeo.

Nello specifico, in ambito cognitivo-comportamentale, a partire dall’influenza del behaviorismo e proseguendo con l’integrazione cognitivista, la mindfulness rientra nella cosiddetta “terza onda”.

Secondo Beck (1976), padre fondatore del cognitivismo clinico standard L’uomo possiede la chiave della comprensione e soluzione del suo disturbo psicologico entro il campo della sua conoscenza. […] Evidenziando e correggendo le distorsioni del suo pensiero, l’uomo può costruirsi una vita più soddisfacente.

L’orientamento CBT (Cognitive Behavioral Therapy) colloca le radici della sofferenza umana nelle credenze di base patogene, dalle quali cresce il tronco delle credenze intermedie, che, a propria volta, danno vita alla chioma di foglie dei pensieri automatici: l’immagine dell’albero ben si presta alla comprensione della stratificazione e profondità di quelle che per il soggetto rappresentano verità assolute, apprese nel corso dello sviluppo. Dai pensieri emergono le risposte emotive, colmando in peculiari outcomes comportamentali.

La mindfulness, in tale cornice, entra a far parte della cassetta degli attrezzi del terapeuta cognitivo-comportamentale, accompagnando il paziente nel processo di riconoscimento dei propri processi di pensiero disfunzionali.

La psicoterapia corporea utilizza la mindfulness per accedere alle memorie implicite del paziente, ovvero al magazzino di apprendimenti inconsci, disvelando e portando attenzione a tutto ciò che si fa inconsapevolmente, in maniera automatica.

È possibile allenarsi a prestare attenzione consapevole attraverso la pratica formale, strutturata, che necessita di uno specifico setting, silenzioso e attraverso la pratica informale.

Quest’ultima può avvenire potenzialmente in qualsiasi momento della giornata, attraverso svariate attività, mentre si cucina, facendo una doccia, camminando, mangiando…da qui il titolo Meditare con la vita: l’obiettivo ultimo è far propria la meditazione, includendola nella propria esistenza, al fine di sviluppare un nuovo atteggiamento mentale, attento e consapevole, ma soprattutto scevro da etichette pregiudiziali.

Aprendo gli occhi alla vita, percependola con tutti i sensi di cui siamo dotati riusciremo gradualmente a riconoscere come le sofferenze con cui veniamo in contatto rappresentano, riprendendo una metafora buddista, una prima freccia, della quale non abbiamo controllo, ma impareremo a far cadere a terra la seconda freccia, scagliata generalmente dal lavorio mentale in cui si cade quando si inizia a ruminare e rimuginare, rimanendo invischiati in un circolo vizioso alimentato da domande quali Perché proprio a me? È colpa mia! Perché adesso?

 

Imparare a cucinare può aiutare a perdere peso?

Oltre alle numerose ricerche che hanno evidenziato come cucinare a casa sia associato ad una qualità dell’alimentazione migliore, vi sono altri studi che hanno dimostrato come l’avere buone abilità e conoscenze culinarie sia legato ad abitudini alimentari più sane.

 

Ultimamente, in particolare nell’ultimo ventennio, le abitudini alimentari sono cambiate drasticamente poiché vi è la tendenza sempre crescente di consumare i pasti fuori casa: al ristorante, in rosticceria, nei fast food o nelle mense. Inoltre si è riscontrato un aumento del consumo di snack, fast food, patatine fritte, dolci, torte, bibite, e un ridotto consumo di frutta e verdura (Deliens et al., 2013). Tale modifica nelle abitudini ha avuto delle ripercussioni sulla salute di molte persone, in quanto il cibo che si mangia fuori e i cibi pronti sono spesso significativamente più ricchi di calorie, grassi, sale e zuccheri rispetto ai cibi preparati in casa. Gli americani, per esempio, avendo infinite opzioni disponibili sia per mangiare fuori sia in termini di scelta di cibi pronti, hanno diminuito notevolmente la quantità dei pasti cucinati a casa, sebbene molti di loro affermino di spendere ingenti cifre per acquistare ingredienti per cucinare.

Abitudini alimentari e abilità in cucina

Per queste ragioni molti interventi di salute pubblica hanno tentato di rendere i pasti fuori casa più sani possibili (Todd et al., 2010). Sembra però che tali interventi non siano stati sufficienti e che il declino della cucina casalinga possa essere quindi responsabile di un aumento dell’obesità e di altri fattori di rischio per alcune malattie croniche. Alcuni risultati in letteratura hanno dimostrato infatti che i cambiamenti nel modo di preparare e cucinare i cibi possono influenzare le abilità culinarie degli individui e le conoscenze culinarie sia nel contesto familiare che in quello scolastico. Tali cambiamenti sono legati anche all’integrazione della tecnologia nel preparare il cibo a casa (e.g. il forno a microonde) e di prodotti alimentari pronti per facilitare la preparazione dei pasti (Caraher et al., 1999; Soliah et al., 2012). Queste tendenze influenzano notevolmente il tempo che si trascorre in cucina. Oltre alle numerose ricerche che hanno evidenziato come cucinare a casa sia associato ad una qualità dell’alimentazione migliore, vi sono altri studi che hanno dimostrato come l’avere buone abilità e conoscenze culinarie sia legato all’assunzione di cibo più sano. Inoltre alcuni autori segnalano un’associazione tra la cucina casalinga e un indice di massa corporea (BMI) minore (Kolodinsky & Goldstein, 2011).

Alla luce di ciò, c’è stato un aumento degli studi nella letteratura scientifica sulle abilità culinarie in relazione ad abitudini alimentari più sane (Hartmann & Siegrist, 2013; Raber et al., 2016). Gli studi hanno rafforzato l’importanza di incoraggiare programmi di intervento che mirano a sviluppare le abilità culinarie attraverso cambiamenti nella conoscenza della cucina, nell’atteggiamento e nel comportamento relativi ad abitudini alimentari più sane (Condrasky, 2006). Aggiungere corsi di cucina a un trattamento comportamentale per l’obesità ben collaudato può quindi migliorare la perdita di peso, il mantenimento del peso e la qualità della dieta. Solitamente, infatti, questi interventi vengono combinati con altre componenti tra cui una dieta accordata con un dietologo, l’esercizio fisico o la mindfulness. Inoltre gli interventi di cucina sono variabili sia nella durata, sia nell’impegno pratico dei partecipanti: alcuni apprendono semplicemente osservando, altri invece mettono “le mani in pasta” e apprendono abilità culinarie cucinando. Non esistono però interventi che valutino singolarmente l’efficacia di lezioni culinarie e non è quindi ancora chiaro se la cucina produca degli effetti nel dimagrimento da sola o soltanto combinata con altre componenti. Alpaugh e colleghi nel 2020 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di determinare se l’aggiunta di lezioni di cucina ad un intervento comportamentale per perdere peso avrebbe aumentato la perdita di peso e la qualità della dieta rispetto ad un intervento standard. Inoltre gli autori volevano valutare i cambiamenti nelle abitudini alimentari e la frequenza del cucinare.

Migliorare le abitudini alimentari nell’obesità

Sono stati reclutati 56 partecipanti obesi o sovrappeso con un indice di massa corporea (kg/m2) tra 25 e 50. Tutti i soggetti sono stati sottoposti ad un trattamento comportamentale di perdita di peso della durata di 24 settimane, composto prevalentemente da dieta ed esercizio fisico. Successivamente il campione è stato suddiviso in due gruppi. Una parte di loro ha ricevuto un intervento di cucina attiva basato sul concetto di Food Agency (Trubek et al., 2017) che vede la cucina come un insieme di componenti sensoriali, socioculturali e fisiche; il trattamento prevede tre principali abilità: l’analisi sensoriale nella preparazione dei pasti, l’uso del coltello per trasformare gli ingredienti grezzi in cucinati e infine la funzione della “mise en place”. I restanti soggetti sono stati sottoposti ad un intervento dimostrativo che ha svolto la funzione di controllo: siccome la sola attenzione ha un impatto minimo nei cambiamenti dei comportamenti culinari, la condizione dimostrativa è stata usata per uguagliare il tempo e l’attenzione alla cucina dei partecipanti. Inoltre sono stati rilevati alcuni dati come peso e BMI e sono state somministrate l’Automated Self-Administered 24-h Dietary Assessment Tool (ASA24; Thompson et al., 2015) per misurare l’assunzione di cibo; l’Indice di alimentazione sana (HEI; Guenther et al., 2013) che è una misura della qualità complessiva della dieta; la scala di azione per la cottura e la fornitura di cibo (CAFPAS; Lahne et al., 2018) progettata per misurare la food agency che valuta le pratiche di cucina e preparazione del cibo; infine il Cooking Perceptions, Attitudes, Confidence, and Behaviors Survey progettato per valutare le percezioni, gli atteggiamenti e i comportamenti in cucina (Wolfson et al., 2016).

I risultati mostrano che i partecipanti, dopo il trattamento attivo, hanno perso significativamente più peso dopo sei mesi rispetto a quelli del trattamento dimostrativo (7.3% contro 4.5%). Inoltre entrambi i gruppi sono migliorati significativamente nei punteggi dell’ HEI e della scala per la food agency, sebbene non vi siano differenze significative tra le due condizioni di trattamento. I risultati dello studio suggeriscono che un intervento di cucina attiva unito ad un programma di perdita di peso standard può essere un metodo efficace per aiutare le persone a perdere peso e a dedicare più tempo alla cucina casalinga. Infine anche gli interventi dimostrativi, sebbene non aiutino direttamente a perdere il peso, possono portare a miglioramenti nella food agency e in un’alimentazione più sana ed equilibrata (Alpaugh et al., 2020).

 

Fare psicoterapia oggi: il Corriere della Sera intervista Sandra Sassaroli

Sandra Sassaroli, Fondatrice e Presidente del Gruppo Studi Cognitivi, ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera – La ventisettesima ora. 

 

Nell’intervista, dal titolo “Educazione (psicologica) alla flessibilità. Come affrontare un futuro sempre incerto“, Sandra Sassaroli parla del ruolo della psicoterapia oggi, in un mondo alle prese con una pandemia non ancora conclusasi e con una guerra che avanza. In che modo la psicoterapia può davvero aiutare i pazienti? Supporto e compassione bastano o c’è bisogno di altro per affrontare il mondo e il futuro?

 

Leggi l’intervista: 

Educazione (psicologica) alla flessibilità. Come affrontare un futuro sempre incerto

 

Il sistema sportivo giovanile: i tre sottosistemi integrati

Nel presente articolo, viene approfondito il lavoro di Dorsch e colleghi (2020), i quali hanno cercato di estendere i contributi passati per creare un’integrazione teorica del sistema sportivo giovanile (García Bengoechea, 2002).

 

In particolar modo gli autori hanno sottolineato quanto gli aspetti prossimali (ad es. pressione e supporto dei genitori, modello e differenziazione tra fratelli, confronto e aspettative sociali tra pari, relazioni con l’allenatore e leadership) e distali (come la cultura e gli standard organizzativi, le infrastrutture e l’accesso della comunità, le tradizioni e i valori sociali) possono essere studiati in modo più integrato, individuando tre sottosistemi del sistema sportivo giovanile:

  • la famiglia;
  • la squadra;
  • l’ambiente.

Sistema sportivo giovanile e famiglia

La famiglia è considerata il sottosistema più prossimale, e in molti casi il più saliente, per quanto riguarda i comportamenti, gli atteggiamenti, le esperienze e gli esiti degli atleti, specialmente nei primi anni di partecipazione allo sport (Côté, 1999), e ha dimostrato di avere impatti duraturi nel tempo (Dixon et al., 2008). All’interno della famiglia due sono i membri principali che hanno il potenziale di influenzare ed essere influenzati dagli atleti nello sport giovanile.

Il primo consiste nei genitori, che ricoprono molteplici ruoli e che possono essere influenzati da diversi fattori; i genitori hanno descritto di sentirsi mal equipaggiati per interagire in modo ottimale con i propri figli nello sport giovanile (Harwood e Knight, 2015). Di conseguenza, è stato dimostrato che i genitori: (a) cercano l’aiuto della famiglia allargata, degli amici e dei membri della comunità per soddisfare le esigenze di tempo dello sport giovanile (Burgess et al., 2016), (b) attingono alle conoscenze professionali e interpersonali degli allenatori per iniziare a comprendere le esigenze dei propri figli e gli aspetti tecnici dello sport (Knight e Holt, 2014), e (c) incoraggiano i propri figli a modellare i fratelli e a costruire relazioni con i coetanei per gestire le esigenze fisiche ed emotive dello sport (Knight e Holt, 2014). È importante, quindi, riconoscere che i genitori sono parte integrante del sottosistema familiare e del più ampio sistema sportivo giovanile (Teques et al., 2018).

Tra i membri del sottosistema famiglia ci sono poi i fratelli e le sorelle che, sebbene abbiano attributi in comune con molte relazioni interpersonali, possiedono anche caratteristiche uniche e un’importanza evolutiva (Cicirelli, 1995). Ad esempio, la relazione tra fratelli è spesso caratterizzata da competizione e/o cooperazione, differenziazione, confronto sociale ed esperienze di compassione (Furman & Buhrmester, 1985). La potenziale profondità e le varie esperienze di questa relazione possono essere importanti per i ruoli che i fratelli giocano nel plasmare lo sviluppo sociale, emotivo e cognitivo dell’altro (Yeh & Lempers, 2004). Inoltre, i fratelli possono essere importanti dal punto di vista dello sviluppo in tandem con altri agenti sociali come genitori e coetanei (Fagan & Najman, 2005).

Sistema sportivo giovanile e ruolo della squadra

La seconda componente del sistema sportivo giovanile è la squadra, che è considerata prossimale all’atleta e diventa particolarmente importante durante l’adolescenza, quando si passa a contesti sportivi meno diretti dai genitori (Côté, 1999). All’interno del sottosistema della squadra troviamo due elementi che possono influenzare o essere influenzati dagli atleti.

Il primo è quello dei gruppo di pari, che funge da importante riferimento per il confronto sociale, poiché gli atleti trascorrono lunghi periodi di tempo insieme e la squadra svolge quindi varie funzioni relazionali, con un potere relativamente uguale rispetto a genitori, allenatori e altri adulti (Smith et al., 2019). Infatti lo sport può favorire la coltivazione e l’espressione di amicizie (Weiss & Stuntz, 2004), nonché l’identità (Bruner et al., 2017) e l’accettazione sociale (Weiss & Duncan, 1992). Tuttavia, allo stesso tempo, i contesti sportivi ad alta natura competitiva possono sfidare lo sviluppo di relazioni autentiche (Adams & Carr, 2019) e introdurre conflitti tra pari che devono essere gestiti (Holt et al., 2012);

L’altro elemento è quello degli allenatori, che mostrano un’associazione tra i loro comportamenti efficaci e i risultati degli atleti come divertimento, competenza, perseveranza, lavoro di squadra e iniziativa (Álvarez et al., 2009; Coatsworth & Conroy, 2009; Erickson & Côté, 2016; Pelletier et al., 2001). Côté e Gilbert (2009) hanno proposto una definizione concisa, ma completa, dell’efficacia del coaching, che può essere considerata come l’applicazione coerente della conoscenza professionale, interpersonale e intrapersonale utilizzata dagli allenatori per migliorare la competenza, la fiducia, la connessione e il carattere degli atleti in specifici contesti. È importante sottolineare che il coaching richiede interazioni coerenti con gli altri membri dei diversi sottosistemi della famiglia e della squadra (ad es. genitori, fratelli, coetanei e altri allenatori).

Sistema sportivo giovanile e sottosistema ambientale

La terza componente del sistema sportivo giovanile è il sottosistema ambientale, considerato lontano rispetto all’atleta, ma che riflette la progettazione e l’erogazione dello sport giovanile, nonché le norme associate e i significati attribuiti alla partecipazione sportiva, ed è composto da:

  • le organizzazioni, che sono l’entità (ad es. accademie, club, scuole, enti comunali, imprese a scopo di lucro e non) che progettano e offrono sport ai giovani (Wagstaff, 2017; 2019). Molte organizzazioni cercano di fornire linee guida riguardo ai loro obiettivi, valori e standard culturali per indirizzare gli atleti all’interno del percorso sportivo. Negli ultimi anni vi è stato un focus sui principi dello sport sicuro legati alla prevenzione e all’abuso di sostanze (Johnson et al., 2020; Mountjoy et al., 2020), svolgendo un ruolo fondamentale all’interno di questo sistema complesso;
  • le comunità, che stabiliscono e rafforzano le norme associate alla partecipazione allo sport fornendo supporto a livello di gruppo e promuovendo un senso di appartenenza tra gli individui. In termini di ambiente fisico, le comunità più piccole offrono ai giovani più spazio per l’attività fisica non organizzata e lo sport con i coetanei, nonché un maggiore coinvolgimento da parte di genitori, fratelli, coetanei e allenatori (Balish & Côté, 2014). Mentre, le comunità più grandi spesso forniscono ai giovani maggiore accessibilità, esposizione, tipi di attività e opportunità competitive (Grieve & Sherry, 2012; Surya et al., 2012). Infine, la dimensione di una comunità ha il potenziale per influenzare il valore attribuito alle norme sociali positive (ad esempio, tutoraggio propositivo, comportamento prosociale, educazione dei figli in comune) e i modi in cui genitori, allenatori e organizzazioni progettano e praticano lo sport (Balish & Côté, 2014; Turnnidge et al., 2014);
  • le società, che modellano i significati che gli individui, le persone e i contesti che li circondano danno allo sport giovanile e che integrano quei significati nelle norme per la partecipazione e progettazione sportiva (Bowers & Green, 2013). Ad esempio, nelle società caratterizzate da disuguaglianze socio-economiche, gli sport per i giovani provenienti da famiglie più ricche tendono a concentrarsi sulle competenze e sulle opportunità future (ad es., università e/o partecipazione professionale), mentre i programmi per i giovani provenienti da famiglie a basso reddito tendono a concentrarsi sul controllo e sulla riduzione del deficit personale (Coakley, 2002; Whitley et al., 2019). È importante riconoscere che il significato percepito dello sport giovanile nelle società dipende dalle credenze popolari sulla connessione tra il coinvolgimento sportivo e lo sviluppo psicosociale degli atleti, l’accettazione sociale e il raggiungimento del successo educativo e lavorativo; tuttavia, questi valori e tradizioni possono essere espressi in modi positivi o negativi a seconda della natura inclusiva o esclusiva dello sport nella società in questione.

Conclusione

In conclusione, secondo gli autori (Dorsch et al., 2020), si può sostenere che lo sport giovanile stia diventando frammentato, con poca continuità tra organizzazioni, comunità e società. Inoltre, sembra che quando i mezzi di sussistenza degli adulti che controllano e allenano gli sport giovanili dipendono dalle quote pagate dalle famiglie, i programmi vengano organizzati e commercializzati per soddisfare gli obiettivi dei genitori paganti, piuttosto che i bisogni di sviluppo complessivi dei giovani (Coakley, 2002, 2010; Hyman, 2012).

 

Sintomi della normalità. Mente e mentalità dell’epoca contemporanea (2021) di Fabio Monguzzi – Recensione

Il testo di Monguzzi Sintomi della normalità. Mente e mentalità dell’epoca contemporanea propone un’analisi tra l’attuale normalità e la naturalità. Vivere e morire in modo normale o naturale?

 

Gli individui contemporanei effettuano esperienze in modo profondamente diverso rispetto al passato. Nel momento in cui ci allontaniamo dalla nostra natura ci distacchiamo sempre più da una continuità insopprimibile responsabile del buon funzionamento individuale e sociale. La sedimentazione di schemi instabili – progressivamente depositati sul nostro Io e sul nostro Sé – produce effetti psico-comportamentali nefasti: confusioni, pensieri ibridanti, incapacità della ricerca personale e via dicendo, di cui non si scorge un orizzonte ben definito: il desiderio, così come le decisioni, rispondono sempre al concetto dell’oltre, che intacca non solo i tratti individuali, ma la collettività.

In questo periodo storico abbiamo toccato con mano le conseguenze di un virus che ha infettato il nostro sistema (la sfera umana, politica, economica, etc.) alterando il clima formativo ed esponendoci ad una serie di tormenti e disagi. Tali implicanze analogiche, a titolo esemplificativo, ci fanno comprendere come i “rituali igienici” (igiene mentale, igiene sociale, etc.) rappresentino una categoria contro le diversificate tipologie di contaminazioni umane. Ulteriore analogia è possibile ritrovarla nell’organismo umano: la separazione nei visceri intestinali delle sostanze inutili da una parte e utili dall’altra; nei polmoni, una specie di digestione di grado superiore, è preso unicamente l’ossigeno ed eliminate le sostanze duraci. In tutt’e due i casi, per l’emergere di sintomi evidenti, il rifiuto (“l’innaturale”) non coincide mai con la “normalità”.

Una spiegazione ricca di contenuti, densa di spunti, schietta ma soprattutto accurata e decisa, tenta di far comprendere le dinamiche di un limite estremo: è il libro di Fabio Monguzzi, che definisce questo aspetto la “nuova normalità”, basata sui sintomi emergenti dell’attuale società, che sembrerebbe imporre una grave ipoteca all’educazione “caratterizzata da una diminuita capacità di previsione degli eventi, certezze assai provvisorie e orizzonti temporali molto limitati e facilmente reversibili”. Quello che in modo realistico e fascinoso vuole analizzare l’autore riguarda nello specifico l’essenziale: è un invito alla naturalità. Il testo di Monguzzi sposta la prospettiva mediante un’analisi tra l’attuale normalità e la naturalità. Vivere e morire in modo normale o naturale? La vita e la morte sono connessi al concetto del vissuto: si può essere vivi ma annientati dalla realtà di cui si fa parte e, per questo, morire. Così la morte può rappresentare uno stato subito, non compreso, non vissuto.

A differenza di molti testi che trattano simili tematiche, il libro Sintomi della normalità, evita l’esposizione eccessivamente macchinosa e ingessata (come si può sperimentare in molti testi accademici…). Gli argomenti presentati riguardano tanti aspetti che vengono analizzati con perizia scientifica abbinati a esempi pratici di vita quotidiana: il raggio dell’entusiasmo a comprendere i meccanismi insiti su molti aspetti della nostra esistenza, dell’epoca in cui viviamo.

Scrive, l’autore: “Se in precedenza esisteva una discontinuità tra momenti temporali, un tempo per il lavoro, per la scuola, per il gioco, per i pasti, per incontrare gli amici, ora vi è una maggiore continuità: si prosegue a lavorare a casa, si fanno i compiti mentre si chatta con gli amici e si parla con i genitori, si cucina mentre si ascolta la lezione dei figli, si scrivono sms agli amici e si stende il bucato. Gli impegni dei bambini sono molto serrati, scuola, sport, musica, lingue straniere, la loro agenda è sempre più simile a quella di un CEO di una multinazionale. L’organizzazione sociale è conformata a predisporre queste condizioni, a consentire queste modalità di vita, dilatando le possibilità“.

Le conclusioni sono quasi sempre racchiuse in una parola finale che rileva l’intero senso del discorso, come nel precitato paragrafo dove si mette in rilievo le tante possibilità dell’epoca contemporanea, ma il limite delle nostre capacità di saperle gestire, la poca maturità cerebrale nel coordinare l’intero sistema “complesso” (intrecciato, vasto, articolato) creato da noi stessi. Continua: “Lo sviluppo di una società altamente tecnologizzata e globalizzata, con mutamenti incessanti e rapidissimi, genera realtà in continuo mutamento rendendo vani i tentativi di definirsi, di riconoscere qualsiasi significato, di formarsi rappresentazioni stabili“.

È inevitabile che le tante possibilità (molte di queste non assorbite o amministrate) rimangano sospese come in un eloquio troncato; ne consegue instabilità.

La complessità, spiegata e approfondita nel libro, riguarda il progresso, lo sviluppo, la nostra intera evoluzione o è solo un evento vorticoso sul quale non abbiamo controllo e consapevolezza? Cosa genera? Quale futuro? La complessità è veloce, futuristica, metafisica sennonché “estranea” dato che, come riferisce l’autore: “Siamo costretti ad adottare una prospettiva molto diversa da quella nella quale lo sviluppo del pensiero era il risultato di piccoli mutamenti, riflessioni, verifiche, trasformazioni”. E per questo: “La società nel suo complesso possiede una specifica economia psichica caratterizzata da tensioni, equilibri, criticità e dominanze specifiche…“, come avremo modo di vedere nel corso di questo libro con la comprensione e il superamento degli aspetti più nefasti delle mentalità dominanti.

 

Le variazioni del comportamento dei fumatori durante il Covid-19

Dopo pochi mesi dall’inizio del Covid-19 in molti paesi si è verificato uno scenario in cui alcune persone avevano diminuito il numero di sigarette o in alcuni casi smesso completamente di fumare spinti dalla paura di contrarre il virus; in altri casi è invece aumentato, a causa dell’intolleranza all’incertezza e della solitudine per le continue quarantene.

 

Covid-19 e Coronafobia

Il Coronavirus, o COVID-19 ha acquisito lo stato epidemico a causa della sua rapida progressione a livello mondiale e ha portato con sé numerosi effetti negativi sulla salute fisica e soprattutto psichica. Gli effetti psicologici di tale crisi sanitaria sono peggiorati con il passare del tempo, man mano che aumentavano il numero di morti, la disoccupazione e le misure di quarantena. Nel 2020 Asmundson e Taylor hanno coniato un costrutto che prende il nome di Coronafobia. Questa è definita come uno stato di ansia sviluppatosi a causa dell’aumento dei tassi di morte, della disoccupazione e le ansie economiche, della preoccupazione di ammalarsi, della possibilità di danni subiti dai cari, della solitudine causata dalla quarantena e del distanziamento sociale.

La coronafobia sembra giocare un ruolo importante nel benessere psicologico degli individui.

La ricerca ha rivelato infatti che alcuni individui sperimentano un insieme coerente di sintomi spiacevoli e fisiologici che sono innescati da pensieri relativi all’ansia e alla paura di contrarre la malattia e i suoi effetti (Lee, 2020). Inoltre la coronafobia è associata ad elevati tassi di depressione, ansia generalizzata, sentimenti di disperazione, ideazione suicidaria e in alcuni casi suicidio. Da metà Febbraio a metà Marzo del 2020 la domanda di farmaci ansiolitici per far fronte allo stress causato dalla pandemia è aumentata del 34,1% (Digon, 2020).

Covid-19 e fumo

Il fumo costituisce un fattore di rischio del Covid-19 perché aumenta sia le probabilità di contrarlo, sia le complicazioni nelle persone infette (Eisenberg et al., 2020). È stato dimostrato, infatti, che smettere di fumare per circa un mese possa diminuire il rischio di infettarsi di Coronavirus o le complicanze da esso portate. Dal momento che una delle strategie per far fronte alla malattia è quella di aumentare i comportamenti di prevenzione, smettere di fumare potrebbe essere un metodo efficace per diminuire i rischi associati al Covid-19, insieme ad alcune regole di igiene, il distanziamento sociale e l’uso della mascherina. Sebbene siano state condotte alcune campagne preventive per sensibilizzare i fumatori, gli effetti che il fumare regolarmente può avere sulla contrazione e sulla prognosi della malattia non sono quasi mai riportati sufficientemente tra i contenuti dell’informazione pubblica (Berlin et al., 2020). Un’ulteriore conseguenza della pandemia è stata quella di una drastica riduzione generale dei servizi clinici tra cui quelli che accompagnavano i pazienti con un disturbo da uso di nicotina a smettere di fumare. Coloro i quali avevano intrapreso un trattamento nei centri per la cessazione del fumo durante il periodo di pandemia hanno dovuto interrompere o non hanno potuto iniziare il trattamento. Dopo pochi mesi dall’inizio del Covid-19 in molti paesi si è verificato uno scenario in cui alcune persone avevano diminuito il numero di sigarette o in alcuni casi smesso completamente di fumare spinti dalla paura di contrarre il virus; in altri casi è invece aumentato, a causa dell’intolleranza all’incertezza e della solitudine per le continue quarantene (Jackson et al., 2021).

Le abitudini dei fumatori durante la pandemia

Uno studio del 2020 di Ozcelik & Yilmaz Kara ha indagato i cambiamenti nelle abitudini dei fumatori utilizzando un campione di persone che si erano rivolte a centri per smettere di fumare tra il 1° gennaio e il 30 giugno 2020. I ricercatori hanno condotto delle interviste telefoniche o faccia a faccia all’interno delle quali erano richiesti i dati demografici e diverse domande tra cui alcune che indagavano i cambiamenti inerenti le abitudini di fumare durante la pandemia, altre i sentimenti e i pensieri correlati. Inoltre ai soggetti è stato richiesto se avessero contratto il Covid durante il periodo di raccolta dati. 114 volontari con un’età media di 41,2 anni hanno preso parte allo studio. I risultati mostrano che la percentuale dei partecipanti con coronafobia era del 56,1% (64 persone) e il 37% dei pazienti che si sono rivolti alla clinica per la cessazione del fumo nel periodo della pandemia ha smesso di fumare, ma solo il 2% di loro è riuscito a mantenerlo nel tempo. Per quanto riguarda le domande riguardo agli stati d’animo è emerso che il 56% di loro erano ansiosi a causa della malattia e delle sue conseguenze mentre il 43,9% non sembrava esserlo.

Coronafobia e riduzione del fumo durante la pandemia

Le indagini sulle abitudini dei fumatori mostrano invece che la maggior parte dei soggetti (67,5%) non ha avuto nessun cambiamento durante la pandemia, alcuni hanno diminuito o completamente smesso (15%) mentre altri (17,5%) hanno aumentato il numero di sigarette al giorno. Tra le persone con coronafobia, però, la maggior parte di esse ha smesso di fumare o diminuito in maniera significativamente maggiore rispetto a quanti avevano aumentato o a coloro che non avevano modificato le proprie abitudini. Infine, tra le persone con coronafobia, la diminuzione o cessazione del fumo era significativamente maggiore in coloro che provavano maggiore ansia rispetto agli altri. È opportuno specificare che ai pazienti sono state fatte domande relative all’ansia ma non è stata fatta nessuna valutazione quantitativa, che sarebbe stata utile per approfondire se un aumento dei livelli di ansia corrispondesse ad un aumento nei comportamenti di cessazione del fumo. Approfondire gli effetti dell’ansia causata dalla coronafobia potrebbe aumentare il successo nell’interruzione della dipendenza da fumo. Infine, siccome smettere di fumare diminuisce il rischio di contrarre il Covid-19 e le sue complicazioni, sarebbe opportuno che il Ministero della Salute pubblica facesse delle campagne di prevenzione tramite diversi mezzi tra cui la telemedicina o altri strumenti ai fini di rendere consapevoli le persone dei vantaggi che smettere o diminuire il fumo può apportare.

 

La psicologia alla base dell’adozione di credenze errate

Una recente rassegna su Nature Reviews Psychology (Ecker et al, 2022) ci fornisce una mappa con la quale orientarci tra le componenti cognitive, emotive, sociali e provenienti dall’esterno responsabili nell’assumere per vere informazioni false portandoci a formulare delle credenze errate.

 

In un mondo – fisico e virtuale – nel quale la nostra attenzione è costantemente catturata da notizie di ogni sorta, dal pettegolezzo in ufficio fino alla notizia di seconda mano spacciata per certa, si pone il problema, per chi desidera distinguere il vero dal falso, il verosimile dall’improbabile, di sapere a quali elementi prestare attenzione nel consumare e nel condividere notizie e informazioni attraverso i media e altre fonti.

Questa riflessione è valida soprattutto in tempi come quelli attuali, nei quali la distinzione tra buona e cattiva informazione può significare la differenza tra vaccinarsi e non vaccinarsi, con rischio per la salute – forse la vita – propria e altrui.

Perché cercare informazioni e notizie corrette?

La fruizione critica delle informazioni fornite dalle fonti a cui si ha accesso ha, in ogni caso, il pregio di permettere l’accrescimento della propria conoscenza sulle cose del mondo, garantendoci una maggiore autonomia ed efficacia nei processi decisionali. Ma potrebbero esserci anche altre ragioni. Ad esempio ragioni di ordine morale, come accade nel desiderio di conoscere e dire la verità come qualcosa che ha valore in sé; ragioni di ordine etico, come ad esempio desiderare che l’altro sia informato correttamente da quanto gli diciamo, come anche per agire nei suoi confronti con maggiore cognizione di causa; ragioni, infine, di natura esclusivamente epistemologica ed edonica, ovvero cercare di conoscere le ‘cose come stanno’ anche solo per il piacere di conoscere qualcosa di nuovo e soddisfare la propria curiosità.

Purtroppo il nostro sistema cognitivo non sembra, di norma, prestare attenzione alla possibilità che l’informazione di cui fruiamo sia inesatta, incongruente, o francamente falsa e, a causa di processi cognitivi assolutamente normali, rischiamo di assorbire dall’esterno informazioni e notizie false, presumendone però la veridicità.

Quali sono i fattori psicologici e non psicologici responsabili dell’adozione di credenze errate?

Una recente rassegna su Nature Reviews Psychology (Ecker et al, 2022) ci fornisce una mappa con la quale orientarci tra le componenti cognitive, emotive, sociali e provenienti dall’esterno responsabili nell’assumere per vere, e quindi influenti per i nostri pensieri e comportamenti, informazioni false, siano esse diffuse intenzionalmente (e allora si parla di disinformazione) o meno.

Infatti la condivisione di notizie o informazioni false può non dipendere direttamente dalle intenzioni di chi le diffonde. Da una parte, perché sono proprio gli algoritmi dei social che mettono in risalto quei contenuti che più probabilmente potrebbero essere condivisi dagli utenti e, dall’altra, potremmo avere un genuino desiderio di condividere informazioni in cui crediamo, oppure segnalare la nostra appartenenza a una certa comunità di idee, come anche desiderare di avere un qualche tipo di effetto sull’uditorio, ad esempio fomentando l’odio e il risentimento, o autopromuovendo la nostra immagine ai suoi occhi.

E se avessimo l’intenzione di condividere informazioni false, comunque, il costo di ciò per la nostra reputazione (si pensi soprattutto ai social network) potrebbe distoglierci dal farlo.

Nell’articolo viene mostrato chiaramente come processi e dispositivi mentali responsabili dell’adozione di credenze false -derivate da notizie o informazioni false- siano gli stessi coinvolti nell’adozione di credenze vere.

Innanzitutto il punto di vista cognitivo: le reti mnestiche. La memoria non distingue tra verità e menzogna: le strutture e i meccanismi associativi coinvolti sono le stesse strutture e meccanismi per mezzo dei quali si creano credenze accurate. Le memorie, insomma, sono organizzate in reti interconnesse nelle quali le credenze vere e false coesistono e competono per l’attivazione.

Dal punto di vista sociale e affettivo sono poi coinvolti alcuni meccanismi e principi ben noti dagli studi sulla persuasione, come ad esempio: gli effetti della fiducia o della credibilità dell’autore sulla facilità con cui il fruitore accoglierà come veridica la notizia trasmessa; la tendenza a vedere consenso laddove non è presente; la tendenza a non verificare l’attendibilità delle fonti; dare per scontato il proprio punto di vista o giudicare il messaggio in base a partigianeria politica; o ancora, l’impatto negativo di un messaggio che va contro la propria visione del mondo (più difficilmente accettabile); come infine l’effetto degli stati emotivi sulla disponibilità ad accettarla.

Siamo infatti particolarmente sensibili ai segnali e alle suggestioni di carattere emotivo presenti nei messaggi, come sapevano bene già le scuole retoriche del passato. Lo stato emotivo stimolato dalla notizia e provato in quel momento può fungere da informazione aggiuntiva (affect as information; Schwarz & Clore 1988), che viene elaborata successivamente influenzando di conseguenza i pensieri e i comportamenti. Ad esempio un umore triste favorirebbe una posizione critica nei confronti della notizia, riducendo la possibilità di crederci, mentre invece accadrebbe l’inverso per un tono dell’umore gioioso.

Quali strategie di intervento per correggere le credenze errate?

L’articolo descrive infine nel dettaglio quali possono essere le due principali strategie di intervento per la correzione di credenze inaccurate, distinguendole in: strategie di prevenzione (prebunking), allo scopo di aiutare le persone a riconoscere e a resistere alle informazioni false cui potrebbero essere esposte e basata sul fornire avvertimenti nei confronti dell’informazione inesatta in modo da generare resistenza, una vera e propria ‘inoculazione’; e strategie reattive (debunking), con le quali si risponde in modo specifico all’informazione giudicata falsa, esponendola e dimostrandone la falsità per mezzo dei dati. Altre tecniche accessorie includono la verifica delle fonti o la consultazione di risorse esterne per valutare l’informazione (lettura laterale).

Stare molto tempo al computer o allo smartphone ci espone continuamente a informazioni e notizie che per la maggior parte del tempo non verifichiamo né valutiamo criticamente, perché il tempo a disposizione spesso è poco, magari si legge per svagarsi e il desiderio di passare in leggerezza un quarto d’ora di pausa ci distoglie dalla questione se ciò che leggiamo sia, non diciamo vero, ma almeno verosimile e fondato su dati di fatto.

I social network nel corso del tempo si stanno dimostrando come una potentissima cassa di risonanza per qualsivoglia esternazione, pseudonotizia o affermazione controversa, la mente degli utenti sia in grado di proporre. Senza gli strumenti per navigare in quel vasto oceano di ambiguità – se non falsità- epistemica che sono le informazioni disponibili sul web, ci rende vulnerabili alla malafede altrui e impreparati a muoverci nel mondo con uno sguardo ancorato al reale e con la prospettiva di prendere decisioni giuste. Quando la conoscenza che abbiamo delle cose deriva da informazioni incorrette, come potremmo mai prendere una decisione corretta se non per caso?

La rassegna di Nature, disponibile liberamente qui, ci fornisce gli strumenti necessari per comprendere queste dinamiche e educarci, se non a fare nostre credenze almeno verosimili, a sottoporre al vaglio della critica le informazioni che i media e le reti sociali ci rovesciano addosso.

Con la speranza che le verità pseudoscientifiche e informazioni francamente false siano prima o poi qualcosa di cui ridere, anziché verità da adottare a rischio, a volte, della propria vita, come purtroppo siamo abituati a sentire quotidianamente riguardo alle battaglie contro il vaccino ed altre questioni le cui conseguenze hanno un impatto sociale significativo.

 

Affrontare il cancro. Come gestire le emozioni con la DBT (2022) di E. C. Stuntz e M. M. Linehan

Come possono gli operatori aiutare pazienti e familiari a convivere al meglio possibile, per quelle che sono le loro esigenze, con la malattia? Affrontare il cancro. Come gestire le emozioni con la DBT prova a rispondere a questa e altre domande.

 

Le reazioni individuali alla malattia possono variare molto da persona a persona. Questa è un’affermazione certamente condivisa da ogni operatore sanitario attento. È indubbio che le reazioni più frequenti siano di tristezza, rabbia, depressione, ansia, isolamento. La malattia, soprattutto quando è grave come nel caso delle patologie neoplasiche, rappresenta una iattura, una disgrazia, talvolta una tragedia. Ciò non va mai dimenticato, vanno quindi comprese le reazioni dei pazienti e vanno evitate banalizzazioni poco rispettose. Tuttavia, è altrettanto certo che si può reagire all’esperienza di malattia in modo molto diverso.

È infatti innegabile come per alcuni, certamente una minoranza, ma non tanto rara come si potrebbe pensare, il contatto con la sofferenza, dopo una fase di accettazione, abbia un potere trasformativo. Si riesce a convivere con la malattia senza peggiorare la qualità della vita. In taluni casi le relazioni diventano persino più ricche, profonde e significative. Chi ha descritto in modo magistrale questo processo è Severino Cesari nel libro: Con molta cura, ove racconta il suo vissuto di paziente oncologico.

Ciò che tale dolorosa esperienza consente è, in pratica, una corretta ricollocazione delle priorità esistenziali di ciascuno, mettendo al primo posto ciò che davvero conta: gli affetti. La possibilità di realizzare tale operazione dipende ovviamente in primo luogo dal tipo di risorse personali e familiari presenti.

A me, tuttavia, interessa il ruolo degli operatori sanitari. Come possiamo sviluppare capacità per aiutare i pazienti e i loro familiari a convivere al meglio possibile, per quelle che sono le loro esigenze, con la malattia. Quali competenze devono possedere medici e psicologi per incidere su queste forti disparità esistenziali, senza essere spettatori passivi della resilienza altrui? Come dovrebbero cambiare i modelli formativi universitari? Si può insegnare a convivere con la malattia, trasmettendo agli altri il senso di profondo rispetto e cura per la vita?

Il libro di Stuntz e Linehan, recentemente tradotto da Rizzoli, si propone proprio lo scopo di aiutare i soggetti malati di cancro a convivere al meglio con la propria patologia, utilizzando principi, atteggiamenti e comportamenti utili a ridurre la sofferenza. Il punto di partenza è una premessa ineludibile e condivisa: la sofferenza è inevitabile nella vita di tutti gli esseri umani, rappresenta una componente costitutiva dell’esistenza. L’ulteriore premessa, tuttavia, afferma che ogni persona ha il diritto, intrinsecamente connesso alla propria natura umana, di vivere una vita degna di essere vissuta e che ciò si rivela possibile anche in presenza di situazioni di grande sofferenza fisica e psichica.

In particolare, il volume è scritto integrando conoscenze teoriche specifiche della psicologia con un approccio esistenziale e spirituale di fondo. Non a caso Marsha Linehan è anche una maestra zen e la Stuntz una sua allieva in questo percorso. L’approccio psicologico proposto è sostanzialmente quello della Dialectical Behavior Therapy (DBT), fondata quasi 40 anni fa dalla Linehan, coautrice di questo volume. LA DBT è nata allo scopo di fornire un trattamento psicoterapico specifico per soggetti affetti da disturbo borderline di personalità. In particolare, si è rivelata efficace nelle situazioni più gravi, con presenza di autolesività cronica e grave rischio suicidario. La DBT è un trattamento integrato, che si avvale sia di sedute di psicoterapia individuale sia di gruppo a carattere psico-educazionale. L’idea di fondo è applicare ai pazienti oncologici tale approccio, il cui obiettivo è insegnare l’utilizzo di comportamenti adattivi mediante specifici moduli per l’apprendimento delle abilità (skills training). Le aree principali sono 4, costituiscono gli argomenti dei capitoli, e rappresentano capacità indispensabili per poter valutare realisticamente qualsiasi difficoltà si stia affrontando, in modo da saper decidere cosa fare e cosa non fare. Le abilità includono strategie per gestire le emozioni, comunicare con gli altri, tollerare l’angoscia e vivere in modo significativo.

Ciò che l’uso delle abilità della DBT si propone di raggiungere si radica innanzitutto nell’accettazione profonda della realtà così come è, atteggiamento esistenziale che costituisce il fondamento della mindfulness, intesa come capacità di vivere appieno il presente, imparando a separare l’osservazione della realtà dal giudizio su di essa. Ciò significa saper prestare intenzionalmente attenzione alla realtà nel momento presente senza aggiungere a essa ipotesi o giudizi non suffragati da prove. Ed ecco che la dimensione psico-educazionale si unisce a quella di tipo esistenziale-spirituale.

La D di DBT sta per dialettica, un termine che intende suggerire come due realtà, pur sembrando opposte, possano essere entrambe vere. Secondo questo approccio, la chiave di un coping efficace è l’equilibrio. La dialettica chiarisce che è possibile pensare, sentire o agire in molteplici modi. Si può essere infelici per il fatto di avere il cancro e nel contempo essere felici per alcuni aspetti della propria vita. È possibile essere insieme sia spaventati che fiduciosi; sentirsi deboli eppure agire con forza. Ancora più importante è raggiungere l’equilibrio della “mente saggia” capace di integrare gli aspetti razionali con quelli emotivi. In tal modo si impara a considerare le emozioni non solo come interferenze negative da eliminare, ma bussole che, se ben comprese, possono essere d’aiuto per guidare le azioni in modo costruttivo.

Tornando alla struttura del libro, i primi due capitoli descrivono le modalità per affrontare una diagnosi oncologica. Poi vengono presi in esame alcuni aspetti della vita di chi convive con il cancro, tra cui come affrontare le emozioni e come comunicare con gli altri. I capitoli dal 4 al 6 approfondiscono le emozioni specifiche più frequenti: paura e ansia, dolore e rabbia, mentre in due successivi capitoli sono suggerite strategie per comunicare in modo costruttivo con familiari, amici e medici. Infine, alcune pagine sono dedicate alle fonti di significato e di conforto più profondo, affidando la conclusione del libro ad una riflessione sulla spiritualità. Ciò in quanto, come detto all’inizio, molte persone, quando sentono minacciata la propria sopravvivenza, cercano in modo più intenso la connessione con qualcosa di più grande di loro,

Ogni capitolo è accompagnato da suggerimenti di esercizi pratici, sia mentali che corporei, in modo tale che il lettore, sia esso un paziente, un familiare o un operatore, possa facilmente mettere in atto ciò che gli viene proposto e sperimentarne la validità e l’effettiva efficacia su di sé.

 

Il confronto con gli altri tramite i social network: un rischio per l’autostima

Il 94% degli adolescenti nei paesi sviluppati usa social network come Instagram, Snapchat e Facebook (NORC Center for Public Affairs Research, 2017) che prevedono perlopiù una tipologia di interazione visiva, come ad esempio il postare e commentare foto e video di sé stessi o di altre persone (Nesi et al., 2018).

 

L’utilizzo dei social network

All’interno dei social, l’aspetto fisico assume una certa valenza, dato che gli adolescenti si affidano sempre di più alle fotografie e ai video dei social media come mezzi principali di auto-presentazione (Chua & Chang, 2016; Mascheroni et al., 2015). Non a caso, l’aspetto fisico auto-percepito è la dimensione che contribuisce maggiormente all’autostima globale degli adolescenti – in particolare tra le ragazze (Von Soest et al., 2016; Wichstrom & von Soest, 2016). Considerando però che sui social media la propria immagine è sempre più spesso modificata per renderla più attraente (Yau & Reich, 2019), con il tempo si possono venire a creare delle norme per quanto riguarda l’aspetto fisico che sono difficili da ottenere (Chua & Chang, 2016; McLean et al., 2019) e che spesso non sono raggiungibili dalla maggior parte dei bambini e degli adolescenti. Così, si potrebbe creare un divario tra il sé fisico percepito e ideale che, seguendo la teoria della discrepanza del sé (Higgins, 1987), può provocare emozioni negative (ad esempio, tristezza, delusione) e una minore autostima.

Dato che molti studi non specificano le attività che gli utenti dei social media svolgono su queste piattaforme, in letteratura si trovano risultati discordanti in riferimento all’uso dei social media e l’autostima. Alcuni riportano un’associazione positiva tra l’uso dei social media e l’autostima, alcuni mostrano associazioni negative e altri non trovano alcuna relazione (Krause et al., 2019).

Con l’intento di studiare in maniera più approfondita l’argomento, uno studio di Steinsbekk e colleghi (2020) ha introdotto l’uso passivo e attivo dei social media (Frison & Eggermont, 2017). Nello specifico l’uso passivo è il semplice monitoraggio dei post di altre persone, mentre l’uso attivo è stato suddiviso in due dimensioni specifiche: l’uso auto-orientato e l’uso orientato verso gli altri. L’uso orientato al sé consiste in pubblicazioni di post, aggiornamenti e foto personali, mentre l’uso orientato agli altri comprende semplicemente il gradimento o il commento dei post altrui.

L’influenza dei social network sull’autostima

L’obiettivo di Steinsbekk e colleghi (2020) è di testare longitudinalmente l’influenza dell’uso dei social media sull’autostima, in particolare sulla dimensione dell’aspetto fisico, analizzando l’uso orientato verso se stessi, cioè la pubblicazione di aggiornamenti e foto, rispetto alle attività dei social media orientate verso gli altri, cioè il cliccare su “mi piace” e commentare i post degli altri.

I risultati hanno dimostrato che l’uso dei social network orientato verso gli altri influisce negativamente sull’autostima riguardo all’aspetto fisico. Più specificamente, il coinvolgimento con gli aggiornamenti e le fotografie degli altri sui social media, che spesso ritraggono rappresentazioni di sé ideali (Mascheroni et al., 2015; Yau & Reich, 2019), ha predetto una diminuzione dell’autostima dell’aspetto nella transizione dall’infanzia all’adolescenza (dall’età di 10-12 anni e dall’età di 12-14).

Quanto detto è in linea con uno studio precende che dimostra che quando i social media vengono utilizzati per il confronto (cioè, l’uso orientato agli altri, ad esempio, la navigazione nei profili degli altri) causano un abbassamento di autostima (McLean et al., 2019).

Questi risultati, inoltre, estendono la ricerca precedente suggerendo che questo impatto negativo si verifica longitudinalmente e può influenzare negativamente lo sviluppo dell’autostima dell’aspetto durante una fase di transizione vulnerabile per la formazione dell’identità.

Social network e autostima: differenze di genere

É molto interessante notare che il risultato appena riportato esisteva solo nelle ragazze. Questo potrebbe essere spiegato dal fatto che le ragazze usano i social media più spesso dei ragazzi (Lenhart, 2015), sono più propense a usare i social media per confrontarsi con gli altri (Haferkamp et al., 2012), e inoltre, il confronto sociale sembra avere un effetto negativo maggiore sull’immagine corporea delle donne che degli uomini (Myers & Crowther, 2009).

Le ragazze, rispetto ai ragazzi, sono anche più frequentemente in una posizione di confronto sociale con lo stesso sesso sui social media. Anche se entrambi utilizzano siti di social media basati su immagini (Instagram, Snapchat), la ricerca precedente indica che le femmine sono più propense dei maschi a postare foto di se stesse (Dhir et al., 2016), quindi entrambi i generi saranno più frequentemente esposti alle auto-presentazioni delle ragazze che dei ragazzi.

Dato che in moltissime culture gli uomini selezionano le compagne in base all’attrattiva fisica, non è strano che le donne pongano tutta questa enfasi sull’importanza alla propria attrattiva fisica rispetto agli uomini e sono più propense a promuoverla (Walter et al., 2020).

Disconfermando i risultati di altri studi (ad es, Verduyn et al., 2017), che sottolineavano come l’uso dei social media orientato verso se stessi avrebbe influenzato positivamente l’autostima dell’aspetto, lo studio di Steinsbekk e colleghi (2020) non ha riscontrato questa relazione. L’uso dei social media orientato a se stesso non ha nemmeno tamponato l’impatto negativo dell’uso orientato agli altri. Tuttavia, una recente revisione ha rivelato che, anche se l’uso attivo, che di solito produce un feedback positivo, predice aumenti momentanei dell’autostima, questo effetto positivo si esaurisce abbastanza rapidamente (Krause et al., 2019). Questo potrebbe spiegare perché non sono state trovate associazioni nel periodo di due anni qui esaminato.

Conclusioni

In conclusione, anche alla luce della teoria del confronto sociale (Festinger, 1954) che afferma che gli individui hanno la tendenza a confrontarsi con gli altri per l’autovalutazione (comportamento che ha un picco nell’adolescenza) (Myers & Crowther, 2009), si può affermare che i social media rendono facile per gli adolescenti impegnarsi in paragoni sociali, e il mancato rispetto di importanti standard di aspetto prevede un’autostima compromessa e l’insoddisfazione del corpo (Moretti & Higgins, 1990). Gli studi futuri dovrebbero quindi esaminare il confronto sociale, e le sue conseguenze per l’autovalutazione, come potenziali meccanismi che spiegano la relazione tra l’utilizzo dei social media orientato verso gli altri e l’autostima riguardo l’aspetto fisico.

Le Dipendenze con e senza sostanze – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

The Journal Club: da webserie a podcast

Dato il successo della prima edizione (nata come webserie e successivamente diventata un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di The Journal Club, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue.

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il primo episodio del podcast dedicato alle Dipendenze con e senza sostanze. Ospite dell’incontro: il Dott. Andrea Ferrari.

Dove ascoltare il primo episodio:

 

Sfide e potenzialità delle emoji nella comunicazione sanitaria – Psicologia Digitale

Nella comunicazione digitale in ambito sanitario l’uso di emoji può avvicinare paziente e professionista e portare ad una collaborazione più efficace.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 28) Sfide e potenzialità delle emoji nella comunicazione sanitaria

 

 L’utilizzo di supporti visivi nella pratica medica non è qualcosa di nuovo. Le cosiddette scale visuo-analogiche del dolore o scale analogico visive del dolore (VAS) sono strumenti già comunemente utilizzati per la misurazione soggettiva dell’intensità o della frequenza dei sintomi.

Da anni vengono utilizzati strumenti come la scala di valutazione del dolore Wong-Baker Faces Scale (Wong e Baker, 1988); scale come questa sono molto utili soprattutto in ambito pediatrico con bimbi non ancora alfabetizzati e in generale per facilitare la comunicazione in situazioni di particolare angoscia e paura. Vengono mostrate delle faccine che esprimono gradazioni crescenti di dolore in modo che il paziente possa identificare ed identificarsi facilmente con la faccina-grado di dolore percepito. Le VAS sono ottimi strumenti, ma hanno un costo: sono marchi registrati, vanno acquistate e vengono somministrate da professionisti qualificati. Rappresentano sicuramente un aiuto strutturato e validato, ma non sono funzionali nella comunicazione di routine tra paziente e operatore sanitario. Le emoji potrebbero colmare questo gap: non presentano costi, sono sempre più familiari ai pazienti e sono accessibili a chiunque dato che sono presenti su tutte le piattaforme – mobile, tablet, desktop; Windows, Apple iOS o Android.

La distinzione tra emoticon ed emoji

Le parole ‘emoticon’ ed ‘emoji’ vengono spesso usate come sinonimi ma non lo sono. Le emoticon sono segni di punteggiatura, lettere e numeri usati per creare icone che generalmente mostrano un’emozione o un sentimento, per esempio “:-) “. Gli emoji (dal giapponese e, “immagine”, e moji, “carattere”) sono veri e propri pittogrammi di facce, oggetti e simboli come famiglie, edifici, animali, oggetti ecc. Gli emoji sono molto più recenti delle emoticon e le hanno quasi del tutto sostituite nell’uso comune.

L’approvazione, la creazione e la diffusione degli standard relativi alle emoji è gestita dall’Unicode Consortium: chiunque può proporre nuove emoji che vengono sottoposte ad un processo di revisione da parte del Consorzio prima di essere condivise.

L’Unicode Consortium è un’organizzazione no-profit con sede nella Silicon Valley di cui fanno parte, tra gli altri, Microsoft, Apple, Facebook, Adobe e Google; dal 1991 si occupa di promuovere lo standard Unicode, un sistema di codifica universalmente adottato e riconosciuto, implementato in molte tecnologie come nei sistemi operativi. Tra i compiti del Consorzio c’è appunto quello di selezionare le emoji che utilizziamo tutti i giorni su ogni device.

Le emoji mediche

Attualmente sono circa 30 le emoji mediche riconosciute dall’Unicode Consortium. Escluse quelle riferite a parti del corpo (ad esempio, orecchio, mano, gamba e piede), a partire dal 2015, quando sono state introdotte siringa e pillola, sono state aggiunte emoji che rappresentano stetoscopio, goccia di sangue, operatori sanitari, medicine, strumenti, sedie a rotelle e bastoni – per dare spazio anche alla disabilità. Nel catalogo dell’Unicode Consortium è presente anche il Bastone di Asclepio, l’antico simbolo greco associato alla medicina.

Il potenziale delle emoji mediche non è passato inosservato anche al di fuori del Consorzio: è dello scorso anno la nascita del progetto Health Icons, un set open-source di emoji disponibili a tutti sempre e gratuitamente, utilizzabili per qualsiasi progetto in ambito sanitario: il catalogo comprende più di mille emoji, da quelle dedicate alle tipologie di gruppo sanguigno a quelle che rappresentano le più disparate patologie.

Lo scorso anno sul Journal of the American Medical Association un contributo di Lai e colleghi ha posto nuovamente attenzione su quanto possa essere rilevante avere a disposizione un set il più ampio possibile di emojii: ne hanno proposte altre 15, tra cui intestino, gamba ingessata, stomaco, spina dorsale, fegato, rene, scatola di pillole, stampella, sacca di sangue, sacca per flebo, TAC, ECG e globuli bianchi.

Le potenzialità delle emoji per la salute

L’assistenza sanitaria sta spostando online molte attività, soprattutto nell’area della comunicazione con pazienti tramite Whatsapp, messaggi ed email: avere maggiore spazio di espressione aiuterebbe sicuramente entrambe le parti.

Le emoji possono aiutare a comunicare più efficacemente i sintomi e a rendere più comprensibili le istruzioni dei sanitari, in particolare con pazienti con scarsa alfabetizzazione sanitaria. Facilitare la comprensione è utile anche nei casi in cui per diverse ragioni ci si trova di fronte ad una barriera linguistica: bimbi piccoli con capacità linguistiche ancora in via di sviluppo, persone affette da disabilità o che parlano una lingua diversa.

Un’altra opportunità è il loro uso nelle campagne di comunicazione sanitaria. Dato che quest’ultima si rivolge a più gruppi anche molto eterogenei fra loro per cultura, lingua, abitudini, c’è l’esigenza che sia immediata e facile da comprendere. In questo senso le emoji, essendo un contenuto visuale, risultano molto efficaci; pensiamo ad esempio alle campagne per sensibilizzare le persone a lavarsi le mani correttamente: ogni passaggio è evidenziato da immagini che rendono molto chiaro cosa fare e come farlo.

Ci sono anche però dei vincoli di cui tener conto. Primo fra tutti, l’accesso alle tecnologie: ad oggi esiste ancora il problema del digital divide, con una parte della popolazione che non ha accesso o ha accesso solo parzialmente ad Internet e computer, specialmente i pazienti più anziani.

Se la digitalizzazione sanitaria può suscitare qualche dubbio e nello specifico l’uso di emoji può generare perplessità (come può essere un supporto se si tratta di immagini ed icone e non di un dialogo aperto?), non si può ignorare come la diffusione della telemedicina si sia rafforzata negli ultimi anni e ancora di più a seguito dell’emergenza da Covid-19.

D’altro canto, come si è più volte espresso, la telemedicina non può e non vuole sostituire le interazioni vis-à-vis, ma affiancarsi ad esse; certamente l’uso di emoji nel campo della salute andrebbe solo ad essere un tassello in più nella comunicazione digitale tra paziente e professionista.

 

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