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Strategie d’intervento nel gioco di azzardo patologico (GDA)

Nell’ambito del Gioco d’Azzardo Patologico occorre che il terapeuta ed il giocatore costruiscano una relazione basata su aspetti di compliance al trattamento più che di controllo del sintomo in senso stretto.

 

La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme (D. Winnicott).

Il Gioco d’Azzardo Patologico

Quando si inizia a progettare un intervento terapeutico per un giocatore d’azzardo patologico le variabili da tenere in considerazione sono molteplici. Bisogna valutare a quale tipologia di giocatore il paziente appartiene, in secondo luogo saper scegliere gli strumenti terapeutici efficaci ed efficienti in termini di evidence based health, fare riferimento all’esperienza clinica e, last but not least, valutare l’alleanza terapeutica che si è instaurata con la persona che si ha di fronte. Ogni paziente, pur “facendo parte” di qualche classificazione nosologica, possiede una sua individualità, una storia e un’infinità di mondi interni che lo rendono unico ed irripetibile e che, inevitabilmente, determinano il fatto che ogni trattamento terapeutico non possa essere la replica di nessun altro. Un trattamento efficace per risultare efficiente deve essere ad approccio multifattoriale; cioè che sappia integrare i diversi saperi (la medicina, la psicologia, la pedagogia e le scienze sociali), i diversi approcci teorici (cognitivo-comportamentale, psicoanalitico, sistemico-relazionale o gruppale), i differenti setting di intervento (ambulatoriale, residenziale), inoltre, accanto ai più tradizionali strumenti terapeutici (psicoterapia individuale e famigliare, gruppi terapeutici, gruppi di auto-mutuo aiuto per pazienti e famigliari, presa in carico sociale, accompagnamento educativo) è necessario sviluppare strumenti “innovativi” per rispondere alle specificità cliniche del Gioco d’Azzardo Patologico (DGA). La fase iniziale di presa in carico rappresenta un importante momento di valutazione ed autodiagnosi che il paziente (e la famiglia, laddove questa rappresenti una risorsa utile e coinvolgibile) fa del proprio comportamento disfunzionale. Si tratta ovviamente di strumenti Self Report poiché una delle principali differenze con la clinica dei disturbi da uso di sostanze è che nel caso del Gioco d’Azzardo Patologico non è ovviamente possibile marcare biologicamente il comportamento. Si tratta di strumenti di auto-osservazione che vengono in parte gestiti dal paziente per quanto concerne la rendicontazione del giocato, attraverso la compilazione del diario giornaliero, ed in parte possono invece essere compilati dai familiari, attraverso il controllo scrupoloso del conto corrente e di tutti gli strumenti bancari di gestione del denaro. Tali procedure consentono di fare diagnosi e di mettere in sicurezza il paziente e la sua famiglia, riducendo al minimo il rischio di ulteriori perdite di denaro. Nell’ambito del Gioco d’Azzardo Patologico non è possibile garantire un controllo completo del sintomo, né avere conferme “oggettive” del raggiungimento di una condizione di remissione completa poiché, anche laddove si attivino ulteriori misure di messa in sicurezza dei pazienti (ad esempio all’apertura di un’Amministrazione di Sostegno), ciò non impedisce in alcun modo al giocatore di richiedere ed ottenere prestiti presso Istituti di credito, finanziarie o, ancor più grave, a usurai. Occorre quindi che il terapeuta ed il giocatore costruiscano una relazione basata su aspetti di compliance al trattamento più che di controllo del sintomo in senso stretto; gli strumenti di gestione del denaro vanno orientati anzitutto ad obiettivi di riduzione del danno, in secondo luogo al raggiungimento della remissione (completa o parziale) e, in ultimo, alla prevenzione delle recidive. La definizione degli “ingredienti terapeutici”, della modalità e intensità con cui proporli al paziente, dipende anche dalla “scelta” di un modello di classificazione del giocatore che possa guidare il terapeuta nel delineare protocolli di intervento adatti alle caratteristiche dei diversi soggetti. Si utilizzano di solito o quella di Blaszczynski e Nower (2000) o la suddivisione in action seeking gamblers (giocatori d’azione) ed escape seeking gamblers (giocatori per fuga) di Lesieur (1977). La preferenza degli obiettivi dipende anche dal livello motivazionale del paziente, quest’ultimo valutabile attraverso il modello transteorico degli stadi del cambiamento di Prochaska e Di Clemente (1982):

  • La precontemplazione, il paziente non ha ancora preso in considerazione l’idea di cambiare, non lo vuole o non se ne sente capace.
  • La contemplazione, la persona ammette di essere preoccupata e prende in considerazione la possibilità del cambiamento, vi è ambivalenza ed incertezza.
  • La determinazione, in questa fase la persona sta progettando di mettere in atto un cambiamento nel futuro prossimo, considera che cosa fare in concreto.
  • L’azione, l’utente effettivamente inizia a procedere verso il cambiamento, ancora non si trova in una condizione di stabilità.
  • Il mantenimento, il paziente in questa fase raggiunge l’obiettivo iniziale della remissione e opera per mantenere le acquisizioni raggiunte.

In base alla valutazione motivazionale sarà possibile modulare gli interventi, orientandoli, ad esempio, all’esplorazione delle possibili conseguenze del perpetuare il comportamento di gioco patologico versus l’interromperlo; ad es. utilizzando lo strumento della “bilancia motivazionale”; oppure, qualora il paziente si trovi in una fase di determinazione/azione, ci si potrà focalizzare  sui triggers, o ancora, in fase di mantenimento, l’intervento potrà essere regolato verso la prevenzione della ricaduta.

La MET è una tecnica che viene usata nelle fasi iniziali della terapia cognitivo-comportamentale per affrontare la resistenza e l’ambivalenza e rafforzare la motivazione al cambiamento, concordando con il paziente gli obiettivi da raggiungere. Consta di quattro sessioni pianificate e individualizzate. Le prime due sono basate su quanto emerso in fase di assessment, sui progetti del paziente e sul suo livello di motivazione al cambiamento. Le ultime due sono utilizzate dal terapeuta per rafforzare i progressi e per fornire una prospettiva realistica sul processo di cambiamento. Altra risorsa d’intervento è l’utilizzo del gruppo, esso rappresenta nella tradizione clinica delle dipendenze patologiche, un prezioso strumento terapeutico: favorisce potenti meccanismi trasformativi attraverso la nascita di legami identificativi, lo sviluppo di relazioni transferali fra pari e la creazione di una cultura comune: esso è un’esperienza evolutiva per i suoi membri. Yalom individua nel gruppo alcune caratteristiche: Universalità, Informazioni, Infusione della speranza, Cambiamento del copione familiare, Altruismo, Sviluppo di tecniche di socializzazione, Comportamento imitativo, Apprendimento interpersonale, Coesione del gruppo, Catarsi. Il gruppo diviene anche luogo in cui suggellare l’alleanza terapeutica con il Servizio, con evidenti ricadute positive in termini di efficacia dell’intervento. La terapia cognitivo-comportamentale si basa essenzialmente sull’assunto secondo cui molti disturbi psichici sono dovuti alle particolari e complesse relazioni esistenti tra pensieri, emozioni e comportamenti.

Distorsioni e schemi cognitivi nel Gioco d’Azzardo Patologico (GDA)

Secondo questo modello non è la situazione che fa sentire bene o a disagio un individuo (cioè che provoca una determinata emozione), ma ciò che egli pensa dell’evento stesso (il significato che ha quell’evento per quella persona, come lo interpreta). Il significato attribuito ad un evento e i pensieri legati a questo che spesso sopraggiungono in modo automatico, sono influenzati però da convinzioni più profonde relative al funzionamento del mondo e al rapporto dell’individuo con esso. In altre parole, i pensieri (automatici e irrazionali), relativi ad un evento o ad una situazione, sono influenzati dagli “schemi cognitivi”, stili di pensiero con cui ci si rappresenta la realtà. Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, la caratteristica centrale e ricorrente dei giocatori con Gioco d’Azzardo Patologico è rappresentata dalle distorsioni cognitive riguardanti il gioco d’azzardo, in particolare da un’erronea percezione del concetto di casualità. Si può infatti osservare come nella maggior parte dei giocatori con Gioco d’Azzardo Patologico siano presenti delle convinzioni erronee soprattutto riguardo alle possibilità di vincita o di perdita. Molti giocatori, ad esempio, credono di poter controllare le loro vincite o di poter prevedere gli esiti del gioco. Non è infrequente riscontrare tra di essi idee come quella che perdere molto aumenta le probabilità di vincite future o che vincere molto indica la possibilità di altre vincite future.

Questo insieme di idee erronee rappresenta le più comuni distorsioni cognitive. Tuttavia, è stato sperimentato come il livello di distorsioni cognitive, in buona parte responsabile dell’avvio e del mantenimento del disturbo, possa essere ridotto dal trattamento cognitivo-comportamentale. È stato anche rilevato come la presenza di distorsioni cognitive sia correlata ad un elevato grado di impulsività; questo potrebbe essere uno dei fattori responsabili della persistenza delle distorsioni cognitive in presenza di elementi di realtà più che evidenti, come il continuare a perdere denaro e accumulare problemi, poiché non concederebbe al soggetto il tempo necessario per riflettere o stimare/anticipare le conseguenze delle decisioni. Il fattore impulsività risulta essere correlato ad un pensiero del tipo “tutto o nulla” (distorsione cognitiva) o ad una eccessiva personalizzazione delle esperienze negative, di conseguenza uno stile impulsivo, nella presa di decisioni, può accentuare la tendenza a considerare come adeguate alcune credenze erronee rispetto ad altre più razionali. Quando il giocatore sperimenta l’esperienza della perdita in seguito ad una previsione di vincita, si crea in breve tempo una dissonanza cognitiva, una sostanziale distanza tra ciò che si crede e la realtà dei fatti, che evidenzia come la probabilità di vincere al gioco d’azzardo sia del tutto casuale e quindi indipendente dalle convinzioni del giocatore. È a questo punto che il giocatore inizia a sviluppare varie strategie conseguenti alle sue specifiche distorsioni cognitive ritenendo così di poter aumentare la probabilità di vincita. Queste false credenze, secondo cui egli si sente in grado di controllare eventi che in realtà sono determinati dal caso, sono responsabili in larga misura del mantenimento del Disturbo da Gioco d’Azzardo. Le distorsioni cognitive fanno sì che i giocatori formulino una errata valutazione dei risultati del gioco, la cui conseguenza sarà quella di credere che nel tempo i risultati saranno in qualche modo pareggiati. La terapia CBT si propone dunque come obiettivo primario quello di mettere in discussione queste credenze erronee allo scopo di indurre il giocatore a modificare il comportamento. Ladouceur, Sylvan e Boutin (Ladouceur e coll. 2000) hanno proposto un protocollo che individua un percorso di ristrutturazione cognitiva, costituito da:

  • Acquisizione e comprensione della nozione di “caso” attraverso la psicoeducazione (ogni puntata è indipendente dall’altra, non può esistere alcuna strategia di controllo dei risultati in un gioco d’azzardo, è impossibile controllare il caso); per raggiungere questi obiettivi ci si avvale anche di dimostrazioni pratiche, ad esempio usando i dadi.
  • Identificazione delle credenze erronee: attraverso l’Analisi Funzionale, che consiste nell’applicazione del modello ABC per l’individuazione delle distorsioni cognitive e/o dei pensieri disfunzionali che inducono stati d’animo, il terapeuta lavora per individuare le credenze erronee e correggere l’errore relativo al principio dell’indipendenza degli eventi, evidenziando che l’illusione del controllo è un potente fattore di mantenimento del Disturbo da Gioco d’Azzardo.
  • Addestramento alle verbalizzazioni adeguate dei pensieri irrazionali (esprimere ad alta voce tutti i pensieri che attraversano la mente durante una sequenza di gioco): dopo aver identificato le convinzioni irrazionali e disfunzionali (distorsioni cognitive) il terapeuta descrive e dimostra la differenza tra le verbalizzazioni adeguate e quelle non adeguate
  • Addestramento alla correzione cognitiva delle verbalizzazioni inadeguate e disfunzionali talvolta anche con l’ausilio della registrazione sonora, da far riascoltare al paziente. L’impostazione cognitivo-comportamentale integra le tecniche comportamentali, di sviluppo delle abilità sociali, di produzione di gratificazioni alternative e più funzionali e quelle di coping ed esplora e individua i meccanismi di rinforzo positivo o negativo. Il percorso terapeutico permette di far individuare al giocatore i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a giocare: il paziente tenderà nella maggior parte dei casi, se consapevole dell’esistenza di un vero e proprio disturbo e se motivato a superarlo, ad individuare rapidamente gli svantaggi del continuare a giocare.

Il terapeuta ha il compito di sostenerlo nella individuazione e nella comprensione dei possibili vantaggi, come ad esempio fuggire da una situazione di stress e preoccupazioni e procurarsi quindi uno stato di sollievo (auto-medicazione) o procurarsi un momento di piacevole eccitazione all’idea di risolvere tutti i suoi problemi economici. Il giocare d’azzardo può servire, al pari delle sostanze chimiche, a modificare gli stati emotivi, funge da “stabilizzatore dell’umore”. Si è ipotizzato che alcune persone abbiano una scarsa capacità sia nella identificazione delle emozioni sia nella loro gestione, in particolare con la tendenza a non esprimere lo stato emotivo e una scarsa capacità nella ridefinizione del significato dell’evento attivatore dell’emozione negativa (reappraisal). Per questo tipo di giocatori il comportamento di gioco d’azzardo rappresenta un efficace regolatore delle emozioni, ed è forse anche per tale ragione che esso ben presto diventa la modalità elettiva per la ricerca dell’equilibrio emotivo, fino allo sviluppo della dipendenza. Una caratteristica dei soggetti con Gioco d’Azzardo Patologico è, oltre alle scarse capacità di gestione delle emozioni e alla difficoltà di controllo degli impulsi, quella di non saper affrontare adeguatamente le situazioni avverse in grado di provocare stati d’animo negativi come ansia, tensione emotiva, depressione, noia, frustrazione, ecc. Per tale ragione è importante intervenire, nel corso del trattamento psicoterapico sullo sviluppo delle abilità di coping. L’intervento CBT comprende a tal proposito specifici Training: Problem Solving, per insegnare ai pazienti a fronteggiare i problemi, le avversità, le situazioni difficili sia nel quotidiano che per quanto riguarda i problemi legati al Gioco d’Azzardo; Decision Making e Social Skills Training, per lo sviluppo delle abilità sociali, sia per prendere delle decisioni più funzionali ed adeguate alla realtà, sia per sostenere il paziente nell’uscita dallo stato di isolamento, instauratosi a causa della pervasività del gioco d’azzardo, e ristabilire o creare relazioni adeguate con gli altri; Prevenzione delle Ricadute, per addestrare il paziente ad affrontare in modo adeguato, attraverso le tecniche acquisite durante il percorso di psicoterapia, eventuali situazioni rischiose e conseguenti ricadute nel comportamento di gioco d’azzardo. Ciò può avvenire con relativa facilità perché in quel momento, confrontandosi con il terapeuta e lontano dai triggers, egli è lucido e del tutto ragionevole. Prendere coscienza di cosa comporta la rinuncia al gioco d’azzardo, al di là delle buone e ragionevoli intenzioni, è molto importante e utile perché può potenzialmente indurre nel paziente una attivazione verso alcuni cambiamenti del proprio modo di vivere, fino a quel momento condizionato dalla assoluta centralità del gioco d’azzardo. Togliendo o riducendo il gioco d’azzardo, il paziente può riscoprire piaceri dimenticati, interessi mai avuti, e soprattutto può sperimentare benessere e sollievo senza ricorrere necessariamente al gioco. Il terapeuta aiuta il paziente a fare una lista delle situazioni a rischio, momenti in grado di stimolare nel paziente il desiderio di giocare, come: luoghi, persone, pubblicità o particolari stati d’animo e attraverso la tecnica dell’Analisi Funzionale si individuano quei pensieri irrazionali che, innescati dalle situazioni a rischio, costituiranno delle “autorizzazioni” al comportamento di gioco, ossia la scelta di giocare. Il riconoscimento e la consapevolezza di questi pensieri come attivatori della scelta di giocare possono consentire al paziente una decisione più consapevole e meno automatica, il che si può tradurre operativamente in una minore probabilità di comportamento di gioco d’azzardo. L’esplorazione sia delle modalità di gioco, comprese tutte le azioni che il paziente fa per riuscire a giocare, sia degli errori di pensiero, facendo descrivere nei dettagli una intera sessione di gioco, sarà importante, perché darà spiegazioni e informazioni riguardanti i meccanismi cognitivi delle credenze irrazionali e il loro effetto sul comportamento di gioco, delle idee erronee presenti nel paziente, e della loro funzione di rinforzo sul gioco d’azzardo. Nella Prevenzione delle Ricadute il paziente si sperimenta nella condotta d’astinenza avendo acquisito le capacità di riconoscere e modificare i pensieri erronei e di identificare le situazioni a rischio, oltre agli stati emotivi potenzialmente in grado di innescare il craving. Il poter fronteggiare il craving, e sperimentare la propria autoefficacia e il conseguente rafforzamento dell’autostima e della self efficacy possono rendere meno probabile il ritorno al gioco d’azzardo.

Trattare il Gioco d’Azzardo Patologico con l’EMDR

L’Eye movement desensitization/reprocessing (EMDR) si è rivelata una tecnica utile nella prevenzione delle ricadute soprattutto nelle persone in cui si ipotizza l’esistenza di una significativa correlazione tra il disturbo da dipendenza e i vissuti traumatici di vario genere sperimentati durante l’infanzia. Si ipotizza che probabilmente in questi soggetti si sia sviluppata la dipendenza come una strategia difensiva e di fuga dallo stress prodotto dal trauma. L’EMDR permette l’individuazione di ricordi o di immagini legati all’avvio del disturbo, scopo della tecnica è quello di riprocessarli, attraverso il meccanismo della desensibilizzazione sistematica. Il riprocessamento prevede la “stimolazione bilaterale”; Shapiro ha evidenziato come i movimenti oculari possano attenuare la carica emotiva disfunzionale dei ricordi disturbanti collegati al trauma aiutando i soggetti con Gioco d’Azzardo Patologico a mantenere nella memoria le loro esperienze traumatiche riprocessandole in una maniera meno disturbante, così da attenuare il craving e rendere meno necessario il ricorso al Gioco d’Azzardo.

Trattare il Gioco d’Azzardo Patologico con la Mindfulness

Altra strategia d’intervento che si è dimostrata efficace è la Mindfulness. Essa viene pensata come un’abilità di coping affettivo poiché aiuta i pazienti a mantenere la distanza dalle loro cognizioni ed emozioni, tramite due processi chiamati decentramento (Hofmann, 2012) e distanziamento (Hayes 2012). I pazienti imparano a vivere nel qui ed ora e che le loro cognizioni ed emozioni sono solo eventi mentali, piuttosto che fatti. I pazienti apprendono anche che ciascun momento è unico e che l’angoscia emotiva provata in un dato momento non implica necessariamente angoscia emotiva in momenti successivi. Le persone vengono incoraggiate ad affrontare i propri pensieri; Jon Kabat-Zinn (Jon Kabat-Zinn)1990 definisce questo come “porre attenzione in un modo particolare” a sé stessi: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante. Nel 1979 il dr. J. Kabat- Zinn ideò e strutturò la Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) per poter somministrare una terapia ai malati cronici; questa tecnica risulta d’aiuto ai pazienti affetti da dolore cronico, nello specifico nel ridurre i pensieri e i comportamenti di rimuginazione e di distrazione. Obiettivo della terapia è quello di defondersi dai propri pensieri dolorosi ampliando e sviluppando il Sé Osservante per porsi in una posizione di differente prospettiva, iniziando un percorso verso l’accettazione del dolore, passo importante per poter vivere una vita che si incammina verso i propri valori: come un impegno quotidiano. Bowen (Bowen e coll. 2012) ha introdotto la Mindfulness nel trattamento delle dipendenze, realizzando un programma di prevenzione della ricaduta denominato MBRP – Mindfulness Based Relapse Prevention. Condivide come obiettivo di modificare il rapporto che l’individuo ha con sé stesso, osservandosi senza giudicarsi, riconoscendo i propri processi cognitivi- affettivi che lo inducono a comportarsi in maniera disfunzionale; alimentando a sviluppare la capacità di mentalizzare i propri stati affettivi, senza regolarli attraverso la ricerca del gioco. L’atteggiamento non giudicante facilita anche la riduzione dei sentimenti di colpa e di fallimento durante il periodo della ricaduta. La pratica della mindfulness facilita la diminuzione della “ruminazione mentale” e incrementa la capacità di accettazione, favorisce l’interruzione dei triggers che contribuiscono alla messa in atto del comportamento disfunzionale. Bowen e alt. (Bowen, Chawla e Marlatt 2010) hanno notato che, adoperando la mindfulness con i pazienti che usano il gioco come modulatore delle emozioni e come strategia disfunzionale di adattamento alla realtà, essi potevano approdare ad una esperienza consapevole delle proprie emozioni, di non attribuire un significato di verità ai pensieri, di affrontare la realtà senza aspettative, accettando quando succedeva senza giudicarsi. Inoltre, studi evidence -based hanno dimostrato come la mindfulness abbia influenza sui processi neuronali legati all’esperienza di craving e sui processi neuroadattativi associati all’addiction: i processi automatici bottom-up  di risposta allo stress e alla reattività emozionale, la spinta alla ricerca dello stimolo vengono ad essere ridotti; di contro si incrementerebbero i processi top-down quali quelli della regolazione attentiva e delle emozioni, il controllo cognitivo, la motivazione e il decision making (Witkiewitz, Bowen, Douglas et alt.2003). MBRP è un protocollo Mindfulness specifico per la prevenzione delle ricadute delle dipendenze da sostanze e comportamentali (Witkiewitz et al. 2005). Agisce su: Stress, Emozioni negative, Comportamento patologico di ricerca di piacere derivante dall’utilizzo di Internet. Il protocollo MBRP serve per far comprendere al soggetto gli schemi che lo legano alla dipendenza, offre così la possibilità di uscire da questi e allontanarsi dai comportamenti patologici, inoltre risulta utile per prevenire le ricadute; poiché la ricaduta, di solito viene vissuta come una sconfitta e un fallimento. La persona apprenderà attraverso gli incontri di mindfulness che fallire significa “ho fallito”, ma “posso farcela”.  Il protocollo Mindfulness Based Relapse Prevention si divide in otto incontri a cadenza settimanale, ognuno con una durata di due ore circa. Gli argomenti degli incontri saranno:

  • Pilota automatico e ricaduta. L’obiettivo sarà quello di far comprendere alla persona che agisce il comportamento disfunzionale senza consapevolezza. L’automatismo porta a compiere una serie di azioni senza il giocatore se ne renda conto. Questo è uno dei primi meccanismi responsabili che lo portano alla ricerca di gratificazione attraverso un comportamento disfunzionale come l’utilizzo incontrollato e patologico del gioco.
  • Consapevolezza degli eventi che innescano la dipendenza da gioco d’azzardo. L’obiettivo sarà quello di aumentare la consapevolezza degli eventi scatenanti (triggers) la dipendenza. Comprendere quali esperienze di vita innescano pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali.
  • La Mindfulness nella vita quotidiana; la Mindfulness può aiutare a disinnescare il pilota automatico, scopo sarà quello di portare la consapevolezza nella vita di tutti i giorni.
  • La Mindfulness nei comportamenti ad alto rischio È un passaggio fondamentale del programma MBRP. L’obiettivo sarà quello di insegnare al soggetto come utilizzare la Mindfulness nelle azioni potenzialmente rischiose, quelle che solitamente attivano il processo di addiction.
  • Accettazione e comportamento efficace: il mantra sarà: “Presta attenzione al presente”. La persona apprenderà che non si possono, a volte, controllare alcune emozioni quali ansia, rabbia e tristezza. Apprenderà quindi che bisogna accettare questi momenti, adottando così un’azione più efficace.
  • Vedere i pensieri come pensieri. L’obiettivo sarà quello di comprendere che i pensieri non sono realtà assolute, essi non sono fatti bensì sono solo delle supposizioni, degli schemi mentali, si è liberi di credere oppure no ad essi. Assieme al paziente si analizzano quali pensieri si attivano nel momento in cui si utilizza il gioco in modo incontrollato.
  • Cura di sé stessi e stile di vita equilibrato. In questa sessione, si esaminerà lo stile di vita attuale del soggetto, per comprendere cosa può essere dannoso e ad alto rischio. L’obiettivo sarà quello di costruire un piano d’azione mirato alla cura del proprio corpo e della propria mente.
  • Supporto sociale e pratica continua. In questo incontro verranno discusse nuovamente le pratiche precedenti, per comprendere, una volta terminato il programma MBRP, che sarà fondamentale attuare una pratica continua di mindfulness. Si discuterà con il paziente dell’importanza della rete di supporto sociale.

Pornografia: i ruoli, le norme di genere e la prevalenza della violenza delle relazioni

L’industria della pornografia è cresciuta a dismisura negli ultimi vent’anni. Grazie anche ad internet e alla crescente normalizzazione all’interno della nostra società, gli utenti possono accedere ad una serie infinita di contenuti sessualmente espliciti in qualsiasi momento e ovunque vogliano (Price et al., 2016).

 

Inoltre, il numero di utenti raggiunti cresce di anno in anno; il sito pornhub.com ha dichiarato che “nel 2019 ci sono state oltre 42 miliardi di visite su Pornhub, il che implica una media di 115 milioni di visite al giorno” (Pornhub.com, 2019).

Nonostante la crescita e la normalizzazione dell’industria pornografica sottintenda aspetti positivi per la nostra società, essa comporta anche conseguenze negative per quanto riguarda i ruoli, le norme di genere e la prevalenza della violenza delle relazioni.

La violenza nella pornografia

Lo studio di Stepanko (2022) ha esaminato la letteratura disponibile sugli effetti che la pornografia ha sulle norme di genere e sulla prevalenza della violenza nelle relazioni intime, supportando l’idea che la pornografia, insieme ad altri fattori, abbia la capacità di influenzare negativamente i ruoli e le norme di genere e di condonare la violenza contro le donne, normalizzandola per molti dei suoi spettatori.

Ciò non stupisce dato che la pornografia attuale raffigura molte sfaccettature della mascolinità tossica e della violenza, dove le donne sono costantemente oggettivizzate sessualmente e sono più che spesso vittime di aggressioni verbali e fisiche (Mikorski & Szymanski, 2017). Un’analisi di Brem e colleghi (2018) ha dimostrato che nei video pornografici mainstream, l’88% delle scene ritraeva violenza fisica e il 48% ritraeva aggressioni verbali. Questa violenza e aggressione era diretta per il 94% delle volte verso le donne (Brem et. al.,2018).

Se consideriamo, inoltre, che gli utenti dei siti pornografici tendono ad essere sempre più giovani (Stepanko, 2022), le statistiche precedenti risultano particolarmente preoccupanti dato che l’esposizione a questi comportamenti e ideologie può avere un impatto sulle opinioni, le credenze e la comprensione dei ruoli di genere da parte degli spettatori.

Per spiegare questi comportamenti di violenza viene spesso utilizzata la teoria del copione, che suggerisce che più un individuo è esposto ad un particolare stile di vita, comportamento o ideologia, più è probabile che l’individuo li normalizzi e li eserciti nella propria vita. Pertanto, nel contesto della pornografia, se un individuo visualizza costantemente media pornografici violenti o aggressivi, è più probabile che agisca in base a questi copioni nelle proprie relazioni di coppia e sessuali (Rostad et. al.,2019).

A conferma della teoria del copione, molti studi hanno riscontrato correlazioni positive tra l’esposizione alla pornografia violenta e una maggiore tendenza alla violenza sulle donne, oltre a detenere credenze a favore della violenza contro le donne (Mikorski & Szymanski, 2017). In particolare, in riferimento alla teoria del copione, è stata confermata anche la relazione tra visione di pornografia violenta e aggressioni/violenza negli appuntamenti romantici tra adolescenti (CIT).

Effetti della pornografia violenta sugli adolescenti

Sebbene la mascolinità egemonica sia riscontrabile in vari aspetti della nostra società e sia costantemente rafforzata attraverso film, programmi televisivi, musica, pubblicità e riviste, i ruoli di genere visualizzati all’interno di una grande quantità di video e immagini pornografiche aggiungono un altro livello, più profondo, di mascolinità tossica attraverso l’aggressione sessuale e la subordinazione delle donne. Questo risulta essere un problema per tutta la popolazione, ma per gli adolescenti è un problema maggiormente significativo data l’impressionabilità e la mancanza di conoscenza che hanno sul comportamento sessuale appropriato e sui ruoli di genere.

Oltre all’uso della violenza, la pornografia crea un’idea irrealistica delle relazioni sessuali e degli standard corporei. I risultati ci mostrano, ad esempio, che coloro che hanno sviluppato un consumo malsano di pornografia spesso hanno difficoltà ad eccitarsi con rapporti sessuali genuini (Medical News Today, 2021). Inoltre, le donne che guardano la pornografia sessualmente oggettivante possono paragonare il loro aspetto fisico e le loro capacità sessuali alle protagoniste dei video o delle immagini, nonostante mostrino standard irrealistici di bellezza e fantasie sessuali (Wright et. al., 2016). Vengono a mancare inoltre esempi positivi sulle relazioni consensuali e di piacere realistiche tra le parti: “… la pornografia mainstream presenta tipicamente le donne come oggetti di scena per il piacere sessuale maschile: ricevendo sesso vaginale e anale, fornendo sesso orale agli uomini, e come partecipanti a (o vittime di) “doppia penetrazione” e stupri di gruppo” (Mikorski & Szymanski, 2017; p.259 Jensen, 2007).

Per cui, gli adolescenti, che si affidano alla pornografia come modello per l’educazione ai ruoli e ai comportamenti sessuali (Rostad et al., 2019), vedendo questi video violenti potrebbero iniziare a concepire le donne come oggetti sessuali e tentare di ricreare il contenuto del video con i propri partner, giungendo così alla violenza nella relazione (Mikorski & Szymanski, 2016, p.259).

Collettivamente, i dati mostrano che l’esposizione alla pornografia violenta porta i consumatori a interiorizzare ideologie maschili più tossiche, che in alcune circostanze possono portare alla violenza. Anche se c’è bisogno di ulteriori ricerche per meglio comprendere gli effetti che la pornografia ha sui ruoli di genere nella società e per accertare la relazione tra pornografia violenta e violenza nelle relazioni intime, alcuni autori sostengono l’esistenza di prove sufficienti per considerare questa questione come problematica e bisognosa di risoluzione.

Con l’escalation dei tassi di consumo di pornografia nella nostra società e gli utenti che diventano sempre più giovani, non è realistico aspettarsi che gli adolescenti non esplorino la pornografia, specialmente con la facile accessibilità; fornire un’educazione sulla navigazione della pornografia attraverso una lente critica potrebbe potenzialmente portare a ridurre la violenza negli appuntamenti degli adolescenti, le aspettative irrealistiche e una problematica ideologia dei ruoli di genere.

 

L’ipotesi del cervello matematico. Non soltanto lettori, ma anche matematici per natura

Esiste davvero una zona del cervello deputata, in maniera specifica, al riconoscimento delle quantità analogiche? Esiste davvero una capacità semantica innata, atta a distinguere quantità numeriche differenti, pur non avendo alcuna familiarità con la conoscenza numerica? Esiste davvero un “cervello matematico”?

 

In ambito neuropsicologico si è di spesso fatto riferimento alla capacità innata – tipica del genere umano- di apprendere la lingua parlata, intesa come la capacità di interpretare elementi di un codice linguistico da utilizzare nel contesto sociale. La teoria innatista del linguaggio (Chomsky, 1969) costituisce la testimonianza più consolidata di questa ipotesi. Al contempo si è costruita l’ipotesi circa l’esistenza di un instinct reading, una capacità non appresa grazie alla quale i soggetti sarebbero in grado di decodificare un contenuto linguistico in maniera quasi istintiva, senza necessità di apprendimento approfondito. Tutto ciò ha lasciato ipotizzare che esistano delle zone cerebrali direttamente coinvolte nell’espressione linguistica innata e nella sua trasmissione genetica. Recenti studi neuropsicologici hanno cercato di estendere questa capacità anche in ambito matematico, sostenendo come, analogamente a quanto avviene per la lettura e la lingua parlata, anche le strategie di calcolo possano costituire una competenza non appresa, ed occupare zone cerebrali funzionalmente destinate al loro utilizzo e al loro sviluppo. In poche parole si è ipotizzata la presenza di un “cervello matematico” innato.

La teoria piagetiana e i nuovi studi sulla competenza matematica dei bambini

Piaget (1964) afferma che la conoscenza dei numeri viene acquisita intorno ai 6/7 anni, nel periodo c.d. preoperatorio, e che in precedenza non sia possibile riscontrare alcuna competenza di memorizzazione, comprensione e riproduzione numerica.

Studi più recenti hanno ravvisato la possibile erroneità di tale assunto, rilevando che la presenza della consapevolezza numerica, e dunque dell’intelligenza matematica, sia in realtà molto antecedente alla soglia evolutiva sostenuta da Piaget.

Wynn (1992) ha dimostrato come già nei bambini di pochi mesi sia presente una sorta di istinto matematico che si esplicita con attenzione selettiva e sostenuta verso insiemi numerici più o meno numerosi. Un istinto innato, e dunque non appreso, che testimonia come la presenza di un cervello matematico in grado di far percepire le differenze quantitative potrebbe addirittura precedere l’acquisizione formale di competenze numeriche.

Gli esperimenti svolti con il metodo dell’abituazione e della preferenza sono fondati sul presupposto che i bambini osservino più a lungo stimoli nuovi, e che questo tempo di fissazione sia destinato a comprimersi man mano che lo stimolo perde il proprio connotato di novità, divenendo familiare.

Per consolidare l’ipotesi dell’esistenza di una conoscenza matematica non appresa, e quindi di una sorta di istinto numerico innato, si è ricorsi all’utilizzo dei due metodi indicati, applicandoli in esperimenti di osservazione strutturata.

In particolare alcuni bambini di 6 mesi sono stati posti di fronte ad un cartoncino- che vedevano per la prima volta- sul quale apparivano disegnati due pallini, l’uno accanto all’altro. I piccoli hanno osservato il cartoncino per un certo lasso di tempo, distogliendo lo sguardo solo quando è stato loro presentato un ulteriore cartoncino sul quale erano stati raffigurati tre pallini. Dunque un numero superiore rispetto al precedente.

Il tempo di fissazione maggiore che i bambini hanno dedicato al cartoncino contenente tre pallini dimostra un’avvenuta differenziazione tra grandezze, per quanto rudimentale e limitata ad un livello meramente percettivo, non cognitivo né semantico.

Tale competenza istintiva del riconoscimento numerico, con ulteriori esperimenti, è stata confermata in neonati da 1 a 12 giorni di vita (Antell e Keating, 1983).

Gli esperimenti sulla percezione della numerosità

Sembra di poter connotare di una matrice innata anche il concetto di percezione della numerosità.

Nel 1992 Wynn ha sottoposto un gruppo di bambini di 5 mesi ad un esperimento condotto col metodo di violazione dell’aspettativa, che presuppone un maggior tempo di osservazione dello stimolo presentato nel caso in cui quest’ultimo assuma una conformazione diversa rispetto a quella normalmente attesa.

Nello specifico, per la durata di alcuni minuti, ai bambini è stato mostrato un pupazzo che è poi stato collocato al di là di un pannello, in modo da non essere più visibile. Subito dopo ai bambini è stato mostrato un nuovo pupazzo, per lo stesso lasso di tempo, al termine del quale anch’esso è stato nascosto al di là del pannello. A questo punto gli sperimentatori hanno cominciato ad estrarre i pupazzi dal pannello, presentandone alternativamente due o uno soltanto. Nei casi di aspettativa numerica non violata i pupazzi presentati erano due, mentre nel caso di violazione dell’aspettativa veniva presentato un pupazzo soltanto. Sorprendentemente è risultata quest’ultima la condizione in cui i bambini hanno mostrato un tempo di fissazione maggiore. Evidentemente essi si aspettavano di veder uscire dal pannello tutti e due pupazzi che vi erano stati nascosti, e quando ciò non avveniva il loro livello attentivo risultava maggiore, così come i tempo di fissazione dello stimolo.

È dunque fondato ritenere che i bambini avessero maturato un’aspettativa numerica additiva o sottrattiva, mantenendo al contempo una rappresentazione dettagliata degli oggetti dietro il pannello anche quando questi scomparivano. Ma si tratta di bambini di 5 mesi, e questo contraddice clamorosamente quanto ipotizzato da Piaget.

L’ipotesi del cervello matematico

Dunque esiste davvero una zona del cervello deputata, in maniera specifica, al riconoscimento delle quantità analogiche? Esiste davvero una capacità semantica innata, atta a distinguere quantità numeriche differenti, pur non avendo alcuna familiarità con la conoscenza numerica? Sembra di poter rispondere affermativamente: studi di neuorimaging l’hanno identificata con il solco intraparietale, mentre il giro angolare sinistro è deputato alle competenze lessicali, di transcodifica verbale e di denominazione dei numeri, la parte posteriore del lobulo parietale superiore si occupa della matematica interna ai numeri, ovvero degli aspetti sintattici, di scrittura e di incolonnamento degli stessi, mentre la corteccia frontale consente le operazioni di conteggio mentale e scritto (Amalric, Denghien, Dehaene, 2018). Ogni dominio, ben distinto e strutturato, ha una competenze specifica che, integrandosi funzionalmente con quelle degli altri, favorisce il completarsi del processo di apprendimento aritmetico.

Non è tutto. Sembra che si possa assumere l’esistenza di una linea immaginaria dei numeri, una sorta di immagine visuospaziale che consente la rappresentazione di una disposizione numerica lineare, in senso crescente, orientata da sinistra a destra (Dehane, 1993).

Si può dunque ipotizzare l’esistenza di un cervello matematico innato, dato anche come gli studi scientifici depongono per l’esistenza di aree cerebrali deputate alla competenza del numero diverse da quelle interessate all’area lessicale. Questo significa che, esattamente come esiste un instinct reading, identificato nella capacità innata di utilizzare visivamente e fonologicamente i dati utili al processo di lettura, esiste anche una competenza matematica innata, grazie alla quale siamo naturalmente predisposti all’utilizzo e all’apprendimento dell’aritmetica.

D’altro canto non risulta così difficile credere che un istinto di riconoscimento per i numeri e le quantità semantiche  – il c.d. “subitizing”- (Kaufman, 1949) abbia potuto rivestire, nel corso della storia evolutiva della specie, una fattore protettivo indispensabile per la sopravvivenza, in quanto permetteva di discriminare la quantità di cibi da accaparrarsi, dei predatori da cui difendersi e simili.

Tali competenze numeriche innate, definite come fattori di selezione della specie, si ritroverebbero anche in alcune specie animali, a testimonianza di come una elementare e rudimentale competenza numerica sia frutto di una dote istintuale non suscettibile di apprendimento, ma naturalmente inserita nel patrimonio filogenetico dell’essere vivente.

La teoria piagetiana potrebbe dunque dover cedere terreno all’ipotesi del mathematical brain (Butterworth, 1999), che attribuisce all’essere umano doti matematiche innate, perché collegate a zone cerebrali specificamente deputate alla funzionalità aritmetica.

 

Psicologia dell’Emergenza: dai disastri naturali al Covid-19

Cosa succede nel momento in cui, su scala globale, l’evento emergenziale riguarda tutta la popolazione, inclusi coloro che si occupano degli interventi di Psicologia dell’Emergenza?

 

Cos’è la Psicologia dell’Emergenza?

La Psicologia dell’Emergenza è un particolare ambito della disciplina psicologica che opera attraverso azioni sul campo e attività di ricerca, nel campo dell’emergenza/urgenza che si sviluppa a seguito di eventi traumatici, disastri, calamità naturali e, più in generale, eventi critici ed improvvisi, che interessano non solo il singolo individuo, ma anche la più ampia collettività e comunità (Sbattella, 2009).

Questi eventi critici improvvisi, che possiamo riconoscere in alcuni esempi come terremoti, incidenti stradali, rapine sul posto di lavoro, hanno un impatto sul benessere psicologico e fisico degli individui coinvolti, rendendo dunque necessario un intervento di sostegno psicologico al fine di prevenire ricadute più gravi delle immediate reazioni di shock, stress, paura e la cronicizzazione del trauma che potrebbe evolvere in un vero e proprio disturbo da stress post traumatico (Sbattella e Tettamanzi, 2012).

La Psicologia dell’Emergenza si occupa dunque di quegli eventi che si pongono al di fuori dell’ordinario e dei processi psichici che ne conseguono (Sbattella, 2009), considerando in una visione complessa non solo il singolo individuo, ma anche la più ampia collettività comunitaria che partecipa e vive l’evento percepito come minaccioso, pericoloso, improvviso e imprevedibile. E questo avviene attraverso tre distinti momenti: il prima, attraverso la prevenzione; il durante, attraverso i processi di primo soccorso psicologico, mentalizzazione, empowerment; il dopo, con la riparazione, la risignificazione degli eventi e la loro rielaborazione storica e narrativa (Sbattella, 2009).

In particolare sono due gli interventi più rilevanti all’interno del primo soccorso psicologico che permettono al cittadino, vittima dell’evento traumatico, di elaborare e mentalizzare l’esperienza vissuta in forma narrativa e storiografica: il defusing e il debriefing.

Il defusing è un intervento di breve durata, massimo quaranta minuti, che si svolge in piccoli gruppi. È una tecnica definita “a caldo” poiché viene utilizzata subito dopo l’evento, permettendo una prima elaborazione narrativa comune di pensieri e di emozioni, in quanto tiene conto delle diverse prospettive dei partecipanti (Trabucco e Buonocore, 2007).

Il debriefing invece è un intervento più strutturato, “a freddo”, che viene effettuato dalle 24 alle 76 ore dopo l’evento traumatico e ogni incontro dura circa tre ore, per un totale di circa dodici settimane. Anche il debriefing si svolge in piccoli gruppi e permette ai partecipanti di comprendere e normalizzare il proprio vissuto e la propria esperienza, riducendone l’impatto emotivo e permettendo di identificare i soggetti a rischio di ricadute più gravi (Trabucco e Buonocore, 2007).

Dai disastri naturali al Covid-19: l’intervento in emergenza/urgenza

Nell’immaginario collettivo dunque lo Psicologo dell’Emergenza è lo psicologo soccorritore umanitario che, nel momento in cui avviene un disastro collettivo, più tipicamente di origine naturale, come inondazioni o terremoti, interviene per offrire il primo soccorso psicologico alle vittime e alle loro famiglie, accompagnandole nel processo di ricostruzione personale e collettivo delle proprie vite e della comunità più ampia. Un soccorritore esterno, che non ha vissuto direttamente l’evento, ma che facilita quei processi di risignificazione narrativa attraverso le tecniche di defusing e debriefing che possono prevenire il cronicizzarsi dei vissuti traumatici. Cosa succede quindi nel momento in cui, su scala globale, l’evento emergenziale riguarda tutta la popolazione, psicologi compresi?

Durante la pandemia di Covid-19 gli psicologi dell’emergenza hanno ricoperto infatti un duplice ruolo, che forse mai prima d’ora era stato ricoperto con questa estensione: quello di soccorritore, ma anche quello di vittima, acquisendo una dimensione del tutto nuova (Dalvit, et al., 2020). Si sono resi infatti necessari prima di tutto interventi di confronto e sostegno per gli operatori della salute mentale in emergenza (Dalvit, et al., 2020; Conte, et al., 2020) per poi rivoluzionare le classiche modalità di intervento che hanno caratterizzato da sempre l’intervento psicologico in emergenza/urgenza: l’impossibilità di svolgere servizi di primo soccorso psicologico in presenza ha quindi traslato gli interventi andando a costituire da un lato il videodebriefing e dall’altro la creazione di attività basate sulla tecnologia, come ad esempio il telefono, che potessero sostenere la popolazione durante il periodo della quarantena, fornendo servizi di ascolto per i cittadini (Dalvit, et al., 2020).

Partendo dunque da interventi tra e per gli operatori dell’emergenza, che permettessero una narrazione personale e professionale degli eventi della pandemia e creassero una rete di confronto e supporto per gli psicologi coinvolti negli interventi rivolti ai cittadini, si è poi arrivati alla costruzione di un piano di azione che permettesse alla popolazione di accedere a servizi di supporto utilizzando nuovi mezzi di comunicazione. In particolare, i servizi di ascolto psicologico telefonico sono stati bene accolti dagli utenti (Dalvit, et al., 2020).

L’intervento della Psicologia dell’Emergenza è quindi cambiato drasticamente rispetto alle modalità fino ad ora utilizzate, ampliando quelle che possiamo ora riconoscere come nuove prospettive di sostegno psicologico in urgenza/emergenza che tengono conto sia della salute dell’operatore sia del benessere del cittadino.

 

Le famiglie omogenitoriali. Teoria, clinica e ricerca (2021) di Nicola Carone – Recensione

Edito da Raffaello Cortina Editore nella Collana di Psicologia clinica e Psicoterapia diretta da Franco del Corno, il libro Le famiglie omogenitoriali di Nicola Carone – psicologo, psicoterapeuta e docente all’Università di Pavia – rappresenta una review importante della ricerca scientifica nazionale e internazionale ad oggi presente in tema di omogenitorialità.

 

Quando parliamo di famiglia in quale modo la immaginiamo composta? Da quanti genitori e di che genere? Esiste una sola tipologia di famiglia? E cosa fa di una persona un genitore?

Le famiglie omogenitoriali è un volume che racchiude in sé una duplice natura: da un lato la scientificità del testo permette la lettura ad un pubblico focalizzato all’argomento e competente che possa coglierne l’importanza teorica e i risvolti nella pratica della ricerca, dall’altra il volume volge lo sguardo all’aspetto clinico, perciò maggiormente applicativo, delle tematiche, offrendo una chiave di lettura al fine di agire con queste tipologie di famiglie. Il tutto è impreziosito dal taglio empatico che offrono le trascrizioni delle testimonianze di diverse persone intervistate dall’autore stesso durante le sue diverse ricerche.

Suddiviso in quattro capitoli, il volume affronta la questione della (omo)genitorialità intesa in senso ampio sia per le molte aree di indagine che intersecano l’argomento sia perché con il termine non si intenda una solo tipologia di famiglie. Nota di stile per la parentesi sulla parola ‘omogenitoriale’ – che verrà ripresa più avanti all’interno del testo nel sottocapitolo La (ir)rilevanza del legame biologico – che trasmette tutto il significato di quanto il prefisso omo sia apparentemente necessario, ma fondamentalmente accessorio se compreso bene il significato dell’argomento.

Dopo l’egregia prefazione di Roberto Baiocco, che anticipa al lettore la portanza del volume e offre un valore aggiunto, l’introduzione scritta dall’autore offre una panoramica anche a livello numerico della diffusione e della diversità presente quando si parla di famiglie omogenitoriali.

I capitoli totali del libro creano due grandi aree tematiche. La prima è rappresentata dai capitoli 1 e 2 che indagano, offrendo una prospettiva scientifica e minuziosa, cosa significhi il concetto di omogenitorialità e quali caratteristiche e funzioni questo sistema complesso abbia nelle diverse espressioni e contesti. Il secondo capitolo, dedicato maggiormente alla prospettiva psicologica di come il ruolo genitoriale si sviluppi all’interno dell’individuo, nella sua parte finale presenta una digressione sulla comunità LGBTQ+, in particolare l’universo gay e lesbo; il che porta alla seconda aree tematica, la quale indica le implicazioni psicologiche e non del concepimento attraverso la donazione di seme e la surrogazione di maternità (GPA).

Il libro è sicuramente un elemento importante per approcciarsi e iniziare a conoscere l’ampio mondo delle diverse condizioni di omogenitorialità, ma rappresenta anche un occasione per comprende come i legami familiari si creino e si costruiscano non solo tra i membri, in un aspetto interpersonale, ma e soprattutto ad un livello intrapersonale profondo. Il lettore è portato anche a comprendere come la questione familiare non sia solo condizione intima e soggettiva o dualista di coppia, ma presenti inevitabilmente anche un aspetto di dichiarazioni informali e formali e di comunità, che molto spesso la ostacola a causa di discriminazione nei vari contesti, pregiudizi e minacce.

In conclusione, il linguaggio e la modalità di scrittura con cui sono espressi i contenuti lo avvicinano quasi ad un volume accademico; le conoscenze pregresse richieste al lettore sono quelle proprie dell’approccio di ricerca scientifico. La letteratura presente annovera ricerche nazionali e internazionali, il che rende il testo completo e ben strutturato. Il linguaggio tecnico offre la possibilità di usufruire delle informazioni contenute in ambito clinico e di ricerca. Un testo destinato a diventare un riferimento importante per i professionisti che si occupano di genitorialità legata al concetto di orientamento sessuale nelle sue diverse forme.

“Ma tu hai copiato?”: disonestà accademica, personalità e desiderio di realizzarsi

I metodi di prevenzione alla disonestà accademica convenzionali raramente affrontano le differenze nella personalità e nelle motivazioni accademiche degli studenti, che possono essere correlate alla tendenza a imbrogliare.

 

Gli studenti copiano durante gli esami?

‘Mi passi il compito?’, ‘Ma tu hai copiato?’ sono domande che probabilmente scatenano il disagio di molti. Questa è una reazione normale, considerando che la maggior parte delle persone non ama l’idea che qualcuno imbrogli, plagi, menta o sia ingannevole. La frequenza della disonestà accademica riportata nella ricerca fa emergere la natura globale di questo fenomeno. Per esempio, il 57,3% degli studenti universitari in Canada ha permesso a un altro studente di copiare il proprio lavoro (Ternes et al., 2019). Allo stesso modo, il 61% degli studenti in Svezia ha copiato materiale per il lavoro del corso da un libro o altra pubblicazione senza riconoscere la fonte (Trost, 2009). Lavorare insieme su un compito quando dovrebbe essere completato individualmente è stato riferito dal 53% degli studenti di quattro diverse università australiane (Brimble, Stevenson-Clarke, 2005), e copiare dal foglio di qualcuno negli esami almeno una volta è stato fatto dal 36% degli studenti di quattro università tedesche (Patrzek et al., 2014). I sistemi di prevenzione della disonestà accademica esistenti includono l’uso di punizioni e supervisione, informare gli studenti sulle differenze tra azioni accademiche oneste e disoneste, l’adozione di codici d’onore universitari e l’insegnamento su come scrivere documenti e condurre ricerche correttamente (Owens, White, 2013). Anche se questi metodi portano ad una riduzione della disonestà accademica, ottengono solo un impatto limitato sugli atteggiamenti verso l’imbroglio (Roig, Marks, 2006). Le possibili ragioni di queste difficoltà includono il fatto che i metodi di prevenzione convenzionali raramente affrontano le differenze nella personalità e nelle motivazioni accademiche degli studenti, che possono essere correlate alla tendenza a imbrogliare.

Quali tratti di personalità sono legati alla disonestà accademica?

Indagare le relazioni tra personalità, motivazione, autoefficacia e disonestà accademica è stato lo scopo dello studio di Baran e Jonason (2020). Gli autori hanno scelto di focalizzarsi sulla psicopatia, in quanto include la tendenza a essere impulsivi, a impegnarsi nella ricerca di sensazioni e la resistenza allo stress, tutte caratteristiche associate alla disonestà accademica (Ternes et al, 2019).

Nel suddetto studio sono stati coinvolti 390 studenti e residenti polacchi, mediamente ventitreenni.

Gli studenti che hanno compilato i questionari online, provenivano dalle facoltà di scienze sociali, umanistiche, scientifiche e tecnologiche, di legge ed amministrazione e di medicina.

Per valutare la psicopatia è stato utilizzato il TriPM-41(Pilch et al.,2015), ovvero la versione polacca del Triarchic Psychopathy Measure (Patrick et al., 2009). Gli items sono stati sommati per creare tre sottoscale: disinibizione (es. item ‘Mi cimento nelle cose senza pensare’) meschinità (es. item ‘Non provo troppa simpatia per le persone’) ed audacia (es item. ‘Sono nato/a leader’).

Il raggiungimento degli obiettivi è stato valutato con la versione polacca del Achievement Goals Questionnaire-Revised (Elliot & Murayama, 2008), un questionario composto da items simili a ‘Il mio obiettivo è essere più performante rispetto agli altri studenti’. Gli items di questa scala sono stati sommati per calcolare gli indici di padronanza e di performance legati al raggiungimento degli obiettivi. Per misurare i livelli di autorealizzazione è stata utilizzata la traduzione polacca della New General Self-Efficacy Scale (Chen et al.,2001) (es. item ‘Anche quando ciò che devo fare risulta difficile, riesco ad essere performante’), mentre per misurare i livelli di disonestà accademica è stata utilizzata la Academic Dishonesty Scale (Sanecka & Baran, 2015), un questionario composto da 16 esempi di comportamenti accademicamente scorretti (es. ‘Usare i bigliettini’, ‘Falsificare la bibliografia’). Per quanto riguarda l’ultima scala citata, i partecipanti dovevano assegnare un punteggio da 0 (mai) a 4 (sempre) per indicare la frequenza con cui avessero messo in atto determinati comportamenti durante il loro percorso scolastico.

Disonestà accademica, meschinità e disinibizione

Dai risultati del presente studio è emerso che gli studenti con livelli più alti di disonestà accademica avevano anche livelli elevati di meschinità e disinibizione, ma non di audacia.

Per quanto concerne la meschinità, questa relazione potrebbe indicare una propensione alla disonestà derivante da una mancanza di paura che porta ad un minore impatto del rischio percepito di essere scoperti a barare. In altre parole, questa forma di sensazionalismo comporta l’adozione di comportamenti distruttivi indipendentemente dalle possibili conseguenze negative di tali azioni, ed una propensione a sfruttare il lavoro di altri studenti per superare gli esami.

Nello specifico l’associazione tra disinibizione e disonestà accademica potrebbe derivare da problemi di autocontrollo e dall’incapacità di prevedere le possibili conseguenze negative dell’imbroglio. Al contrario, la mancata correlazione tra audacia e disonestà accademica potrebbe indicare che, anche se gli studenti audaci possono affrontare con successo situazioni stressanti e hanno alti livelli di ricerca delle sensazioni, queste caratteristiche non sono in relazione con la tendenza a barare nel contesto accademico. A tal proposito, è bene sottolineare che lo ‘psicopatico di successo’ può essere caratterizzato da audacia ma non da comportamenti antisociali e, tra le diverse sfumature della psicopatia, la disinibizione si afferma come il predittore più forte di disonestà accademica.

I dati sull’orientamento agli obiettivi di padronanza hanno evidenziato che, senza una buona motivazione ad acquisire conoscenze, gli studenti possono imbrogliare per raggiungere obiettivi accademici indipendentemente dall’equità o dalle conseguenze delle loro azioni.

Infine, è emerso che l’autoefficacia può fungere da moderatore sulla disonestà accademica, ciò significa che gli studenti disinibiti che hanno un alto senso di autoefficacia percepita in merito alla capacità di controllare le proprie possibilità di successo o fallimento, potrebbero essere in grado di superare la tendenza ad imbrogliare risultante dalla loro personalità caratterizzata da alta impulsività e bassa motivazione.

Studi futuri potrebbero adottare un approccio longitudinale per cogliere dal primo anno di studi fino alla conclusione del percorso accademico in modo più solido l’influenza della personalità, degli obiettivi di conseguimento e dell’autoefficacia sulla disonestà accademica degli studenti.

 

La nascita della terapia metacognitiva – Parte II

La Terapia Metacognitiva si basa su un modello di elaborazione delle informazioni che delinea l’interazione tra valutazione cognitiva, processi cognitivi (cioè memoria, attenzione) e metacognizione.

 

Nella prima parte di questo approfondimento, abbiamo analizzato nel dettaglio quelle che furono le basi teoriche che portarono, alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ‘90, alla nascita del modello metacognitivo. Abbiamo inoltre illustrato i principali strumenti di valutazione delle metacognizioni e della sindrome cognitivo-attentiva (CAS).

In questa seconda parte approfondiremo ulteriormente il modello teorico, con un particolare focus sul metodo sperimentale utilizzato dagli autori durante l’ideazione del modello e sulle applicazioni pratiche della terapia metacognitiva in ambito clinico.

Verranno poi esposti i limiti e i futuri sviluppi del modello.

L’approccio metacognitivo e lo sviluppo

A differenza di molte terapie psicologiche che si servono di tecniche appartenenti ad altri approcci, le tecniche utilizzate dalla Terapia Metacognitiva (MCT), seguendo il modello S-REF, sono state sviluppate sulla base della teoria dei processi e molte sono state valutate individualmente con il metodo sperimentale prima di essere integrate nel pacchetto degli interventi MCT.

Per esempio, la tecnica della rifocalizzazione situazionale dell’attenzione (situational attentional refocusing, SAR), sviluppata per contrastare il monitoraggio della minaccia e introdurre piani alternativi per l’elaborazione, è stata testata nell’ansia sociale (Wells & Papageorgiou, 1998), mentre l’esposizione metacognitiva è stata testata in laboratorio in soggetti con disturbo ossessivo-compulsivo (Fisher & Wells, 2005), così come la detached mindfullness (es., Gkika & Wells, 2015). Verosimilmente, l’approccio adottato ha portato a una connessione completa e coerente tra la teoria dei processi metacognitivi alla base dei disturbi psicologici e le tecniche di cambiamento psicoterapeutico utilizzate nel trattamento.

Il modello sostiene che il controllo dell’attenzione nel disturbo psicologico possa diventare inflessibile e causare elaborazioni negative focalizzate sul sé (cioè, la CAS). Pertanto, le tecniche di trattamento focalizzate sull’attenzione possono fornire un mezzo per interrompere la CAS e aumentare la flessibilità del controllo metacognitivo. Wells (1990) sviluppò la prima tecnica della Terapia Metacognitiva, ovvero l’Attention Training Tecnique (ATT), proprio con questo scopo. L’ATT fu concepita per avere un impatto su diversi aspetti dell’attenzione: in primo luogo sull’acquisizione di maggior consapevolezza del controllo che operiamo sulla nostra attenzione, in secondo luogo sulla riduzione dei processi attentivi rivolti alla propria cognizione.

Wells e Matthews (1994) hanno ipotizzato che una riduzione della CAS, insieme con modificazioni delle credenze metacognitive, potrebbe essere facilitata da tecniche che inducono stati definiti detached mindfullness (DM). La DM è uno stato che mira a diminuire l’attivazione della CAS e che ha il potenziale di modificare i processi metacognitivi e le conoscenze che lo guidano. Le tecniche di DM che modificano la conoscenza metacognitiva e rafforzano il controllo esecutivo dell’elaborazione potrebbero agire sulla connettività dei sottosistemi cognitivi e metacognitivi (Wells, 2019). La tecnica viene utilizzata per migliorare la consapevolezza del controllo, per aumentare la conoscenza metacognitiva e per modificare i modelli disadattivi del funzionamento mentale.

Nella Terapia Metacognitiva queste tecniche sono incorporate in un dialogo metacognitivo che differisce dal classico dialogo della CBT. Dal momento che lo scopo della Terapia Metacognitiva è modificare la cognizione di livello superiore e la regolazione cognitiva, il terapeuta non si concentra sul contenuto dei pensieri e degli schemi. Piuttosto, il terapeuta MCT incentra la discussione sulle credenze riguardanti il pensiero e la possibilità di scegliere come relazionarsi con essi piuttosto che rimanere nel contenuto dei pensieri e metterne in dubbio la veridicità.

La valutazione dell’efficacia della MCT

L’approccio utilizzato nella valutazione dell’efficacia della MCT mostra una progressione graduale: la maggior parte delle psicoterapie si basa sull’osservazione clinica piuttosto che su tecniche scientificamente testate o su teorie strutturate a priori, mentre la Terapia Metacognitiva è stata sviluppata in maniera più sistematica: questa teoria è stata in seguito accompagnata da una serie di studi pilota, trial non controllati e valutazioni controllate randomizzate.

Per esempio, la valutazione della Terapia Metacognitiva per il disturbo d’ansia generalizzato (GAD) ha avuto inizio con un case-study (Wells, 1995) seguito da uno studio non controllato (Wells & King, 2006); in seguito, sono stati condotti trial clinici randomizzati che mettevano a confronto la Terapia Metacognitiva con trattamenti evidence-based come la terapia cognitivo comportamentale per l’intolleranza all’incertezza (van der Heiden et al., 2012). Da allora, sono emersi studi di analisi della fattibilità della Terapia Metacognitiva per il disturbo d’ansia generalizzata in bambini e adolescenti (Esbjørn et al., 2015) e nell’ambito della terapia di gruppo (Haseth et al., 2019).

Negli ultimi 25 anni, la Terapia Metacognitiva è stata testata su diversi disturbi psicologici, come il disturbo depressivo maggiore, nel cui trattamento ha ottenuto significativi successi (Papageorgiou & Wells, 2000), il disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo da stress post-traumatico, seguendo la medesima rigorosità metodologica e dimostrandosi una valida alternativa alle terapie d’elezione. In alcuni casi, si è addirittura dimostrata più efficace (es., Normann & Morina, 2018).

A livello dei processi, le evidenze in letteratura indicano che la Terapia Metacognitiva riduce efficacemente la CAS e crea un cambiamento metacognitivo (Normann & Morina, 2018).

La terapia metacognitiva rientra nelle terapie di “terza ondata”?

Fino a oggi, lo sviluppo delle terapie psicologiche è stato inquadrato all’interno di tre ondate (Hayes, 2004): la prima ondata era rappresentata dal comportamentismo (condizionamento classico, condizionamento operante); la seconda ondata era caratterizzata dagli interventi incentrati sull’uso della cognizione e dell’elaborazione delle informazioni, con l’intervento dominante della terapia cognitiva.

Sebbene oggetto di diverse critiche, Hayes (2004) ha notato l’emergere di una terza ondata di terapie psicologiche incentrate su accettazione, consapevolezza, valori e relazioni (es. mindfulness); ha inoltre ipotizzato che queste terapie, derivanti da approcci filosofici, fossero meno incentrate sui contenuti e mirassero maggiormente a modificare la funzione degli eventi psicologici vissuti piuttosto che gli eventi stessi.

Le terapie di terza ondata includevano la Psicoterapia Analitico-Funzionale (FAP), la Terapia di Coppia Comportamentale Integrativa (IBCT), l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), e la Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness (MBCT).

Sebbene la Terapia Metacognitiva sia stata descritta da alcuni (ad es. Hayes, 2004) come una terapia di terza ondata, Capobianco e Nordahl (2021) mettono in dubbio questo suggerimento evidenziando come la MCT differisca da quelle elencate poc’anzi. A differenza della Terapia Metacognitiva, le terapie di terza ondata non hanno basi che affondano nella teoria psicologica o nei modelli di elaborazione cognitiva, sono piuttosto radicate in teorie che esulano dal campo della psicologia clinica, ovvero, quelle filosofiche.

Per esempio, gli interventi basati sulla mindfulness derivano dalle pratiche buddiste, non vi è una struttura per concettualizzare come tali interventi si traducano in un miglioramento clinico, modificando meccanismi psicologici preesistenti. È solo più di recente che i ricercatori hanno cercato di applicare la teoria psicologica al fine di concettualizzare gli effetti che ha la mindfulness sulla patologia (es. Brown et al., 2007).

Questo metodo contrasta profondamente con la terapia metacognitiva, che si basa su un modello di elaborazione delle informazioni che delinea l’interazione tra valutazione cognitiva, processi cognitivi (cioè memoria, attenzione) e metacognizione: le basi teoriche della MCT e quelle delle terapie di terza ondata differiscono in modo significativo (Capobianco & Nordahl, 2021).

Gli approcci di terza ondata si sono allontanati da una dettagliata formulazione a priori delle metodologie teoriche, approccio opposto rispetto a quello adottato nello sviluppo della MCT. Ciò potrebbe, in futuro, comportare sfide significative per le terapie di terza ondata nel comprendere e testare come e perché queste tecniche funzionano e potrebbe rallentare lo sviluppo di nuovi metodi di trattamento theory-driven (Capobianco & Nordahl, 2021).

La terapia metacognitiva come cambiamento di paradigma

La Terapia Metacognitiva può definirsi come un esempio di “good practice” nello sviluppo di una psicoterapia, ragione principale per la quale l’approccio ha riscosso così tanto successo terapeutico. Questo metodo ha permesso di costruire la teoria partendo dall’analisi dei processi psicologici e psicopatologici, per passare poi ai test empirici e allo sviluppo e valutazione di nuove tecniche di trattamento che partissero dalla neonata teoria (Capobianco & Nordahl, 2021).

Si può dire che lo studio alla base della Terapia Metacognitiva rappresenti un cambiamento di paradigma in psicoterapia, dal momento che dapprima si è sviluppata una solida teoria psicologica dei processi, in seguito è avvenuta la sperimentazione dei modelli e infine si sono concretizzati i risultati in specifiche tecniche mirate.

Inoltre, la Terapia Metacognitiva è stata determinante nel favorire il passaggio ai metodi transdiagnostici nella psicopatologia, un allontanamento dal contenuto della cognizione a favore delle analisi dei processi della mente, una rivalutazione delle teorie basate sull’automaticità dei processi cognitivi e il riconoscimento della cognizione di livello superiore (metacognizione) nel contesto della comprensione dei bias nella regolazione mentale.

Limiti, ostacoli e direzioni future

I progressi compiuti dal modello metacognitivo sono stati considerevoli in diversi ambiti della psicologia clinica; tuttavia, vi sono dei limiti. Mentre Normann e Morina (2018) hanno osservato gli effetti maggiori che aveva la Terapia Metacognitiva rispetto ai gruppi di controllo in lista d’attesa e ai gruppi CBT, hanno anche sottolineato il fatto che alcuni degli studi avevano campioni di piccole dimensioni e che erano prevalentemente condotti su pazienti con disturbo d’ansia generalizzato o disturbo depressivo maggiore: permane la necessità di un maggior numero di valutazioni sull’efficacia della Terapia Metacognitiva nella routine clinica e nei pazienti con problemi di salute mentale gravi e complessi.

Tuttavia, la ricerca sulla Terapia Metacognitiva continua a prendere piede e sono emersi studi su larga scala in pazienti con disturbo depressivo maggiore (Callesen et al., 2020) trattati nella pratica clinica, in pazienti con problematiche di natura fisica (Wells et al., 2021) e in pazienti con traumi precoci con disturbo borderline di personalità (Nordahl & Wells, 2019). Questi progressi recenti indicano che l’efficacia degli studi precedenti può essere generalizzata ad altri gruppi e tipologie di pazienti.

Come per tutte le teorie, vi è un margine di sviluppo e, ove necessario, uno spazio per la revisione della teoria sulla base dei nuovi dati acquisiti. Le asserzioni centrali del modello S-REF sono rimaste coerenti e più dati hanno supportato i processi proposti negli ultimi 30 anni. In un recente ampliamento della teoria, Wells (2019) ha elaborato la struttura e la funzione della metacognizione nell’autoregolazione e ha descritto in maniera più dettagliata un distinto Sistema di Controllo Metacognitivo (Metacognitive Control System-MCS; Wells, 2019). Wells ha delineato le differenze tra il sistema cognitivo e il sistema metacognitivo in psicopatologia e riabilitazione; questo ha richiesto una riflessione su come i sistemi memorizzano, trasmettono e utilizzano le informazioni sullo stato dell’elaborazione.

Secondo l’autore, l’MCS crea e trasmette informazioni come un codice cibernetico, che viene utilizzato per istruire altri sistemi di autoregolamentazione neurale verso il raggiungimento degli obiettivi per l’elaborazione. Il modello MCS presenta nuove ipotesi per l’autoregolazione, lo sviluppo di metodi di trattamento e la comprensione dei processi di guarigione.

Dopo 36 anni di teoria e ricerca, la Terapia Metacognitiva è ancora nelle sue fasi di sviluppo e molto resta da esplorare, come le applicazioni in contesti occupazionali, l’efficacia con pazienti affetti da problematiche fisiche, nelle gravi malattie mentali e nelle dipendenze; con bambini e adolescenti l’obiettivo per il futuro è di sviluppare studi su vasta scala, che rispecchino quelli condotti sulla salute mentale degli adulti (es., Caselli et al., 2018).

Fondamentale è garantire un utilizzo appropriato della Terapia Metacognitiva e delle tecniche associate come l’ATT: i terapeuti prima di utilizzare le metodologie appartenenti alla Terapia Metacognitiva devono avere una buona preparazione che possa garantire standard minimi di formazione e competenza per i trattamenti che comportino il confronto di diverse tecniche metacognitive.

Il modo in cui le terapie sono classificate è rilevante e combinare i trattamenti sotto definizioni come CBT o “terza ondata” rischia di oscurare importanti differenze tra gli approcci. Questo può avere lo sfortunato effetto collaterale di trovare metanalisi che combinino interventi con obiettivi diversi per il cambiamento e che adottino diverse metodologie.

Nel caso della Terapia Metacognitiva ciò potrebbe annullare i risultati del meticoloso lavoro sistematico che ha portato allo sviluppo di questo approccio terapeutico: un tale approccio non si adatta allo sviluppo guidato dalla teoria che è alla base della MCT. L’eclettismo in psicoterapia (cioè la combinazione di tecniche di trattamento senza giustificazione teorica o processuale) deve ancora produrre un trattamento più efficace della CBT, ma sembra che nello sviluppo della Terapia Metacognitiva questo possa essere un obiettivo raggiungibile.

In arrivo il Masterclass Internazionale di Terapia Metacognitiva

L’innovazione che la Terapia Metacognitiva ha introdotto nella concettualizzazione e nel trattamento dei disturbi psicologici (non solo limitata ai disturbi d’ansia, ma anche a quelli ossessivi, depressivi, post-traumatici, ecc), ha creato nei professionisti una sempre maggiore curiosità e una crescente domanda verso percorsi formativi che consentano di conoscere gli aspetti teorici ma soprattutto di padroneggiare gli aspetti pratici di questo nuovo approccio.

Per tale motivo, l’MCT-Institute, in collaborazione con MCT-Italia, organizzerà un Masterclass per colleghi psicoterapeuti e specializzandi di lingua italiana.

Il Masterclass rappresenta il primo livello di competenza nella Terapia Metacognitiva e certifica l’iscrizione nell’elenco internazionale degli psicoterapeuti metacognitivi.

Sarà un corso dalla durata di due anni (dal 2022 al 2024), organizzato prevalentemente online tramite piattaforma ZOOM con traduzione in italiano. Il corso sarà composto da 8 incontri di due giorni, dedicati all’applicazione pratica della Terapia Metacognitiva e alla supervisione di casi clinici.

Il Masterclass sarà condotto interamente dai fondatori dell’ MCT-Institute e della terapia metacognitiva: Prof. Adrian Wells e Prof. Hans Nordahl.

 

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Covid-19 ed effetti sulla psiche: il ruolo di senso di colpa e vergogna

Ricorrenti e intrusivi pensieri relativi alla possibilità, reale o presunta, di essere portatore, o peggio “untore”, di COVID-19 potrebbero far emergere  sentimenti esagerati di responsabilità verso la vita altrui, con conseguente sviluppo di senso di colpa.

 

Implicazioni psicologiche nei soggetti affetti da COVID-19

La pandemia di COVID-19 ha avuto e continua a esercitare un impatto dirompente sulla nostra società. È stato ormai dimostrato da numerosi studi recentemente condotti quanto l’esperienza del contagio da COVID-19 rappresenti per numerosi soggetti che la subiscono un evento profondamente destabilizzante, molto spesso traumatico e non sempre facile da elaborare. Si tratta di una condizione che sembrerebbe, infatti, essere capace di mettere a dura prova e compromettere il benessere psicofisico degli individui che ne vengono colpiti. Molte ricerche hanno posto in evidenza il fatto che contrarre il SARS-CoV-2 produca delle conseguenze non soltanto sul piano fisico, bensì anche su quello psicologico: l’attuale letteratura suggerisce che una discreta percentuale di pazienti affetti da COVID-19 può presentare diversi disturbi della sfera psicologica, quali stress, depressione, ansia, disturbo da stress post-traumatico e disturbi psicosomatici (Hossain et al., 2020; Vindegaard et al., 2020). Ma c’è un altro aspetto, ancora poco approfondito ma importante, che merita di essere esaminato: il ruolo del senso di colpa e della vergogna provati dai soggetti che contraggono il SARS-CoV-2. Si tratta di emozioni che in molti casi possono manifestarsi determinando gravi conseguenze sul benessere psicofisico.

Il ruolo del senso di colpa e della vergogna nei casi di COVID-19

Il senso di colpa è un’emozione complessa che si esprime attraverso l’autocritica per una specifica azione, compiuta o mancata, che possa causare danni agli altri (Tangney & Dearing, 2002). Il senso di colpa ha il ruolo di inibire condotte considerate immorali e di promuovere, invece, comportamenti etici. In alcune circostanze risulta costruttivo, in quanto può incoraggiare azioni proattive, tra le quali, ad esempio, lo scusarsi. Tuttavia, può essere anche disadattivo qualora gli individui sviluppino uno smisurato senso di responsabilità per eventi che sfuggono al loro controllo o su cui non possono intervenire (Cavalera, 2020). È importante sottolineare che un senso di colpa non trattato può condurre a sintomi psicologici in grado di rappresentare una seria minaccia per il benessere psichico di una persona: disturbo da stress post-traumatico, depressione, ideazione suicidaria e uso di sostanze (Browne et al., 2015).

Il senso di colpa può essere facilmente elicitato da esperienze relative alla trasmissione di SARS-CoV-2: ciò avviene a causa della paura di contagiare gli altri, la quale è in grado di produrre un senso di colpa disattivo capace di determinare gravi conseguenze per la salute mentale. Ricorrenti e intrusivi pensieri relativi alla possibilità, reale o presunta, di essere portatore, o peggio “untore”, di COVID-19 potrebbero, infatti, far emergere nel soggetto sentimenti esagerati di responsabilità verso la vita altrui, con conseguente sviluppo di senso di colpa disfunzionale correlato al timore di aver rovinato la vita di qualcuno con cui si è entrati in contatto (Brooks et al., 2020).

La vergogna è un’emozione complessa che insorge a fronte della valutazione negativa (reale o immaginaria) degli altri in seguito alla violazione (reale o presunta) da parte di un individuo di valori socialmente condivisi (Tangney et al., 1996). La vergogna può indurre nel soggetto esperienze di inferiorità, inutilità e incompetenza, fino a sintomi psicopatologici come disturbi alimentari, ansia e depressione (Cavalera, 2020).

Esperienze personali legate al contagio da COVID-19 sono in grado di produrre sensazioni di stigma e vergogna che possono essere pericolose (Logie and Turan, 2020). Infatti, i pazienti o anche coloro che non siano più postivi al SARS-CoV-2 spesso risultano colti da intense emozioni e pensieri intrusivi di vergogna indotti dalla paura di essere stigmatizzati, rifiutati o isolati dai membri della famiglia, dagli amici, dai colleghi o dai vicini (Brooks et al., 2020).

Interventi psicologici possibili

Dal momento che sentimenti e pensieri disfunzionali di senso di colpa e vergogna possono indurre gravi complicazioni sulla salute mentale, è importante adottare specifici approcci terapeutici che aiutino le persone a sviluppare percezioni positive di se stesse o ad attuare comportamenti riparativi.

Tra le possibili opzioni vi sono la Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari (EMDR), utile per favorire l’elaborazione di eventi traumatici e di esperienze emotivamente stressanti, la Compassion Focused Therapy (CFT), riconducibile alle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, che, mediante la promozione verso di sé di atteggiamenti di gentilezza, accettazione e riduzione dell’autocritica, mira a ridurre i sintomi psicopatologici (Cavaleri, 2020). Da segnalare anche la Trauma Informed Guilt Reduction Therapy (TrIGR), una tecnica cognitivo-comportamentale, che induce il soggetto ad analizzare azioni, sentimenti e pensieri insorti durante l’evento stressante. Tale analisi aiuta a individuare eventuali bias cognitivi posti alla base della sovrastima della propria responsabilità in un particolare evento.

Risulta evidente come tutte le tecniche presentate siano incentrate sul concetto del perdono: perdonarsi per andare avanti.

Viste le conseguenze sul piano psicologico generate dalla pandemia di COVID-19, lo sviluppo di specifici programmi di trattamento deve essere una priorità, anche alla luce di quanto dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui le problematiche psicologiche devono essere prese in considerazione durante la pandemia (World Health Organization, 2020). Gli psicologi e gli psicoterapeuti del nostro tempo sono, pertanto, chiamati a rispondere alle sfide generate dalla pandemia di COVID-19 in termini di aggravamento dei disturbi psicologici preesistenti e di insorgenza di nuovi disagi e malesseri psicologici conseguenti alla “psico-emergenza” che stiamo vivendo. Ciò ricorda quanto sia importante investire nei professionisti della salute mentale.

 

Angoscia e ansia in Freud e Lacan

Lo stato d’ansia è paradossalmente il modo in cui l’Io rimane legato all’Es; l’Io sta all’Es come l’ansia sta all’angoscia.

 

Introduzione

In questo articolo verrà proposta una distinzione tra ansia e angoscia nella lettura psicoanalitica di Freud e Lacan. La bussola con la quale orienterò questo discorso sarà il modo con il quale i due clinici hanno intrecciato la loro pratica con l’elaborazione dell’oggetto.

Gli elementi che prenderò in esame saranno: angoscia reale-angoscia nevrotica, angoscia segnale dell’Io e angoscia pulsionale, oggetto į’(a) e oggetto (a); l’oggetto dell’ansia è l’oggetto percettivo mentre l’oggetto dell’angoscia è l’oggetto piccolo (a)

  • Metapsicologia
  • Il Perturbante
  • Inibizione, sintomo e angoscia
  • Seminario X

Fenomenologia della parola

Il termine ansia trova il suo corrispondente etimologico nel latino anxia, il quale a sua volta deriva dal verbo latino ango che significa stringere, soffocare o in altri termini angosciare. Ansia e angoscia quindi sembrerebbero etimologicamente articolarsi su uno stesso significato, il significato stringere. Ma cosa stringe? “Mi si stringe il petto”, “mi si stringe il cuore”, “mi si stringe la gola”; ciò che stringe è una parte anatomica del corpo, una parte (r)eale. Il DSM, nella sua ultima edizione, propone una sezione specifica per la valutazione, e relativa diagnosi, dei disturbi d’ansia. La sezione dei disturbi d’ansia comprende caratteristiche di eccessiva paura, sintomatologia di natura fisiologica con relativi comportamenti evitanti dallo stimolo ansiogeno valutato come pericoloso. Lo stato di paura è una risposta emotiva a un pericolo esterno percepito dall’individuo, mentre l’ansia è una risposta anticipatoria della minaccia futura; questi due stati qui sono da considerare e valutare come sovrapposti.

  • Disturbo d’ansia di separazione
  • Mutismo selettivo
  • Agorafobia
  • Fobia specifica
  • Fobia sociale
  • Disturbo di panico
  • Disturbo ansia generalizzato

Il disturbo principale è quello ansioso, mentre le specifiche categorie sono il modo in qui questo disturbo può manifestarsi e fenomenologicamente differenziarsi; le caratteristiche fenomenologiche rilevanti per l’attribuire uno o più fenomeni sono:

  • La temporalità
  • Pervasività
  • L’allontanamento da un oggetto
  • L’avvicinamento ad un oggetto
  • La vista
  • La Paura
  • Il Corpo

TEMPORALITÀ/PERVASIVITÀ: Per la diagnosi il DSM-5 propone una continuità sintomatica non inferiore ai 6 mesi ed una pervasività che causa disagio “significativo” intaccando diversi ambiti sociali dell’individuo (lavoro, scuola, relazioni, ecc)

ALLONTANAMENTO DA UN OGGETTO: Per la diagnosi di Ansia da Separazione il DSM-5 propone “Paura o ansia eccessiva e inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo che riguarda la separazione da coloro a cui l’individuo è attaccato”. Sembrerebbe esserci una manifestazione sintomatica nel momento in cui l’individuo, adulto o bambino, si allontana, o viene allontanato, da una specifica persona, ambiente, situazione (oggetto) determinando un impedimento “da qualcosa”.

AVVICINAMENTO AD UN OGGETTO: Per la diagnosi di Fobia specifica e Fobia sociale il DSM-5 propone: “Paura e ansia sociale verso un oggetto o una situazione specifici” e “Paura o ansia marcate relative a una o più situazioni sociali nelle quali l’individuo è esposto al possibile esame degli altri”. Sembrerebbe esserci una manifestazione sintomatica nel momento in cui l’individuo si avvicina o viene avvicinato ad una specifica persona, ambiente, situazione (oggetto) determinando un impedimento “verso qualcosa”

LA VISTA: Per le diagnosi trattate sopra, il DSM-5 sembrerebbe proporre una correlazione tra l’allontanamento e l’avvicinamento di un oggetto, oggetto che diventa sintomatico, che causerebbe il disturbo. Il non vedere più qualcuno o qualcosa (persone, luoghi e situazioni) come avviene nell’ansia di separazione. Il vedere qualcuno o qualcosa come avviene nelle fobie specifiche. L’essere visto da un altro come avviene nella fobia sociale.

LA PAURA: Per le diagnosi dei Disturbi Ansia il DSM-5 propone una sintomatologia in cui la paura è l’emozione centrale e dirompente del disturbo.

IL CORPO: Se la paura è l’emozione centrale della patologia, l’attivazione del sistema parasimpatico parrebbe essere il luogo del sintomo, attraverso il corpo paura e ansia si manifestano. L’attacco di panico è esemplare in questo.

Ciò che emerge dal modo in cui vengono valutati e diagnosticati tali disturbi sono le componenti emozionali, comportamentali, fisiologiche ed il rapporto con un “oggetto” percepito come minaccioso o pericoloso. Queste tre componenti ed il rapporto con l’oggetto esterno come vanno letti? Qual è la loro interdipendenza?  Se si leggesse ciò in termini cognitivi si potrebbe affermare come vi sia un’irrazionalità del pensiero nel sovrastimare l’oggetto, la situazione o l’evento esterno, e che modificando questo pensiero si modifica la percezione, modificando la percezione si modifica il comportamento, modificando il comportamento si disattiva la paura e così via. Se la si leggesse in termini comportamentali il processo sarebbe lo stesso ma il procedimento inverso, dal corpo alla percezione. Se la si leggesse in termini psicoanalitici sia il processo che il procedimento sarebbero diversi, in primis perché fa il suo ingresso una nuovo elemento che scompagina le carte in tavola, l’inconscio; e poi, proprio perché vi è questa nuova dimensione della psiche, l’oggetto ed il rapporto con l’oggetto cambia.

Oggetto pulsionale

Oggètto s. m. [dal lat. mediev. obiectum, neutro sostantivato di obiectus, part. pass. di obicĕre «porre innanzi»; propr. «ciò che è posto innanzi (al pensiero o alla vista)»]. Ogni data cosa, persona, situazione, fenomeno che un soggetto percepisce e avverte come diverso da sé, in quanto esso è distinguibile, riconoscibile e nominabile. Questa declinazione del concetto di oggetto è simile a quella elencata nel DSM-5 nel descrivere i disturbi d’ansia; vi è un Qui e un Lì, dove la causa della sofferenza è legata all’oggetto. “È l’allontanamento da casa che mi fa stare male”, “È il vedere il cane che mi mette paura”. “È lo stare in mezzo alla folla che mi dà agitazione” ecc; la causa della sofferenza è esterna. Questo l’oggetto nella sua declinazione comune, ma una declinazione differente la si ha se si considera l’oggetto nell’ottica psicoanalitica.

Con il termine ‘Oggetto’ in psicoanalisi si indica una persona o una cosa che ha la funzione di soddisfare un impulso, un desiderio. Un impulso, un desiderio pulsionale. Cos’è una pulsione (Trieb)? La trieb, ci dice Freud nel saggio Metapsicologia, è l’interconnessione tra uno stimolo interno e il rappresentante psichico, affettivo e ideativo, di quel dato stimolo, positivo o negativo che sia. Lo stimolo interno è un’attivazione fisiologica, la quale genera una pressione dall’interno (Drang) e una carica energetica interna che Freud definisce come fonte; Quelle. Questa fonte è poi scaricata, mediante un oggetto, per trovare un soddisfacimento, una meta (Ziel).

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 1

Ma come si articolano tra loro questi termini e in che modo? Prendiamo l’esempio della fame. Un infante ha una sensazione di disagio, qualcosa all’interno del suo corpo non è più in omeostasi, arriva la madre che poggia il seno o il biberon all’infante, l’infante a quel punto inizia la suzione e compie un lavoro, una pressione muscolare; una Drang. Attraverso questo lavoro si viene a inscrivere una fonte, Quelle. Se in un primo momento il corpo era in balia di una sensazione generale di mancata omeostasi adesso inscrive quel disagio all’oralità e alla sensazione di sazietà, ossia seziona la parte della bocca come fonte del disagio e del piacere. Il seno o il biberon sono quegli elementi esterni (oggetto) che portano al soddisfacimento, al benessere, alla meta; Ziel. Così dicendo parrebbe che una volta avuto il soddisfacimento, ad esempio della fame per mezzo del latte, l’infante soddisfatto dovrebbe autonomamente staccare le labbra dal seno o dal biberon, e invece non sempre lo fa, rimane attaccato al seno materno o al biberon nell’atto della suzione. Perché lo fa? Perché la pulsione non è similare al bisogno, c’è uno scarto. Se nel bisogno lo scopo, la meta, principale è il soddisfacimento dello stesso, ad esempio il bisogno di mangiare viene soddisfatto dal cibo, nella pulsione non è così. Nella pulsione c’è un piacere che va al di là del soddisfacimento, che va al di là dell’oggetto e che va al di là del rapporto tra soggetto e oggetto in quanto tale.

  • Al di là del soddisfacimento: In psicoanalisi non c’è una corrispondenza diretta tra il raggiungimento di una meta e il suo soddisfacimento, tra i due c’è una mancanza, una dimensione di piacere e benessere ma non di completezza. “Quello che faccio non è mai abbastanza…” “Ciò che ho raggiunto è bello sì, ma non mi soddisfa appieno…”; vi è un non essere mai soddisfatti.
  • Al di là dell’oggetto: In psicoanalisi l’oggetto non è fisso e dato come un elemento immutabile, ma esso è dinamico e non esclusivamente può riferirsi ad oggetti inanimati ed estrinsechi all’individuo ma anche a persone e parti anatomiche intrinseche del soggetto. La persona intesa come “oggetto” d’amore, la zona erogena pulsionale orale, anale, fallica ecc.
  • Al di là del rapporto tra soggetto e oggetto: In psicoanalisi non vige solo il principio di realtà, la pulsione dell’Io, ma anche il principio di piacere legato alla libido, così ché un oggetto non è unicamente percepito, ma anche investito libidicamente.

L’oggetto della pulsione si differenzia dall’oggetto fenomenologico poiché il primo, rispetto al secondo, è inconscio, e questo secondo si manifesta come rappresentante ideativo del primo. In tutta la sua opera Freud declina l’affermazione di come tutto ciò che è psichico sia anche conscio, poiché il conscio è una parte dello psichico e nello specifico questa parte si chiama Io. Pulsione dell’Io o, come verrà denominato in un secondo momento, principio di realtà, e pulsione sessuale o, come verrà nominato in un secondo momento, principio di piacere, sono le forze psichiche che Freud analizza dinamicamente, topograficamente ed economicamente.

In un primo tempo del suo lavoro Freud organizza la struttura psichica in Inconscio-Preconscio-Conscio, in cui le cariche pulsionali (desideri) del sistema Inc. arrivano “trasformate” nel sistema C. solo dopo essere passate per il Prec. Meccanismo imprescindibile di questa organizzazione è la rimozione (verdrangung), per cui ciò che è pulsionalmente piacevole per il sistema Inc. ma spiacevole per il C. non arriva direttamente al sistema C. ma vi arriva solo in forma trasformata. Si può parlare della verdrangung attraverso tre tempi onticamente differenti ma articolati tra essi:

  • In un primo tempo c’è una rimozione primaria dove un rappresentante psichico, non riuscendo ad entrare nel sistema C., rimane all’interno del sistema Inc. fissato alla pulsione che lo ha generato.
  • In un secondo tempo c’è una rimozione secondaria che colpisce tutti quei derivati agganciatosi per associazione al rappresentante della rimozione primaria.
  • In un terzo tempo si ha un ritorno del rimosso, in cui la censura viene meno e questo ritorno si manifesta sottoforma di sintomi, lapsus, sogni ecc.

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 2

La rimozione non va considerata come qualcosa che avviene una volta sola, ma essa è un moto perpetuo in cui il rimosso esercita una continua pressione verso il conscio, il quale è sempre controbilanciato dagli elementi esterni alla vita psichica e dove il preconscio ne è il motore.

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 3

  • RAPPRESENTANTI IDEATIVI: Da una parte gli elementi ideativi non entrano all’interno del conscio se non attraverso delle formazioni sostitutive e dall’altra nuovi elementi ideativi esterni, che per associazione si collegano agli elementi ideativi già esistenti, vengono rimossi nell’inconscio.
  • RAPPRESENTANTI AFFETTIVI: Il dispiacere (rappresentante affettivo) può sparire o essere trasformato in un altro affetto (dispiacere/piacere, odio/amore ecc.)

In questi casi la rimozione ha avuto successo, ciò che era ideativamente ed affettivamente inappropriato per il conscio è stato allontanato. L’Io ha attuato una fuga dall’interno. Ma vi è una situazione in cui la rimozione non sembra aver avuto pieno successo, in cui, pur essendoci stata una rimozione primaria e una rimozione secondaria ideativa, il rappresentante affettivo si trasforma in angoscia. La fobia è un esempio di questo fallimento. Nel L’uomo dei lupi il nucleo pulsionale rimosso è un affetto di piacere nei suoi confronti associato ad una paura di lui, dopo la rimozione (rimozione secondaria) il padre non è più l’oggetto del piacere libidico ma è un animale; un lupo. C’è stata una sostituzione del rappresentante ideativo pulsionale, mentre il rappresentante affettivo non è stato rimosso, ma è diventato angoscia. Il risultato è la paura di un lupo invece di una richiesta d’amore rivolta al padre.

Una rimozione come quella che si verifica nella fobia animale va considerata fallita. Non ha fatto altro che rimuovere e sostituire l’idea, ma ha fallito completamente nell’eliminazione del dispiacere. Ed è anche per questa ragione che l’opera della nevrosi non cessa, ma procede verso una seconda fase, per raggiungere il suo scopo immediato e più importante. Si avrà allora un tentativo di fuga, ossia la formazione della fobia vera e propria, avente lo scopo di impedire la liberazione dell’angoscia.

L’oggetto psicoanalitico non si lega ad una percezione esterna, quanto piuttosto ad un rappresentante pulsionale. Non più dall’esterno verso l’interno ma dall’interno verso l’esterno come “mezzo” per raggiungere una meta di soddisfacimento. Nella teoria freudiana l’oggetto è assente e l’angoscia viene chiamata  Unheimlich. Unheimlich è il contrario di heimlich, heim, significa casa. Unheimlich è dunque quando in un oggetto o in una situazione si vengono a verificare assieme caratteristiche di familiarità ed estraneità, ed è ciò che si trova al culmine dell’Heim per essere Unheim. Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Freud nel suo testo sul Unheimlich utilizza il racconto del mago Sabbiolino per spiegare come la paura di subire un danno agli occhi (Heim) sia anche la paura dell’angoscia di evirazione (Unheim). Il protagonista del racconto ha paura di un’immagine, il mago Sabbiolino, da questa rappresentazione ideativa scaturisce una forte angoscia per tutto il racconto per due motivi:

  • Il mago Sabbiolino può causare la cecità del protagonista nel momento in cui entrambi entrassero tra di loro in contatto
  • Il mago Sabbiolino per tutto il racconto ha una funzione di taglio tra il protagonista ed il congiungimento con un suo desiderio: è lui che divide l’infelice studente dalla fidanzata e dall’amico più caro, il fratello di lei, è lui che annienta il secondo oggetto del suo amore, la bella bambola di nome Olimpia, e, proprio quando il giovane sta per riunirsi felicemente con la sua Clara, che ha riconquistato, è lui che lo costringe al suicidio.

Per Freud il mago Sabbiolino altri non sarebbe che il padre, e la funzione di dividere il protagonista dal suo oggetto di amore sarebbe l’evirazione paterna. Come visto in Metapsicologia, Freud pone l’angoscia come una rimozione fallita, poiché in essa l’affetto non è stato nè allontanato dalla coscienza nè convertito in un altro affetto, mentre il rappresentante ideativo ha trovato un suo sostituto; similarmente, nel racconto del mago Sabbiolino, la rimozione ha fallito poiché l’affetto angoscioso permane in tutta la vicenda del protagonista. ma ciò che causa la paura non è il padre ma il mago Sabbiolino, il sostituto paterno. Il soggetto vive un affetto, ha una carica pulsionale inconscia (eccitazione-amore) che, non riuscendo ad arrivare al preconscio e al meccanismo di rimozione, viene direttamente scaricata in angoscia, ma questa carica può avere una controcarica sostitutiva (paura) e agganciarsi ideativamente nella fobia conscia; così che il soggetto può inibire lo stato di angoscia “rimuovendo” il percetto. L’inibizione difronte ad un percetto ha la stessa funzione della rimozione, allontanare “il pericolo”; ma questa è la manifestazione del sintomo ansioso in quanto cosciente. Cosciente perché l’ansia si lega ad un oggetto da cui volontariamente può allontanarsi, così come fa inconsciamente la rimozione quando non fallisce nel suo operato.. E’ di particolare interesse per noi aver stabilito il fatto che la rimozione riesca ad inibire la trasformazione di un impulso pulsionale in una manifestazione di affetto (pag102-103) essa consiste in un’angoscia che appare senza che il soggetto sappia di cosa abbia paura (pag 106).

Il rapporto tra angoscia e non-oggetto è il nucleo del saggio Inibizione, Sintomo e Angoscia.

Inibizione, Sintomo e Angoscia

Nel saggio Freud amplia il suo pensiero rispetto a quanto fatto in Metapsicologia definendo l’Io come la sede rappresentativa dell’angoscia, e non più, come nell’idea iniziale, l’angoscia come la risultante di una rimozione fallita. Rispetto al periodo in cui Freud pubblicò Metapsicologia ci troviamo di fronte ad una seconda concezione della strutturazione psichica, se in precedenza egli aveva postulato la dimensione della psiche secondo una formulazione dinamica di inconscio-preconscio-conscio, adesso ci si trova dinanzi ad una altra postulazione, una postulazione strutturale Es, Io, Super-Io. La dimensione Inc. del primo postulato è adesso articolata all’interno dell’Es e del Super-Io, mentre il sistema conscio e il sistema preconscio sono adesso inseriti all’interno dell’Io.

Abbiamo descritto la dipendenza dell’Io dall’Es non meno che dal Super-io, la sua impotenza e la sua disposizione all’angoscia nei riguardi di entrambi, la fatica che fa a mantenere la propria superiorità. Questo giudizio ha trovato dipoi una forte eco nella letteratura psicoanalitica. Moltissime voci insistono sulla debolezza dell’Io rispetto all’Es, e di ciò che è razionale rispetto a ciò che in noi è demoniaco, e sono pronte a far di questo enunciato un pilastro di una “concezione del mondo” psicoanalitica. Uno sguardo al modo d’agire della rimozione non dovrebbe di per sé trattenere l’analista dal prendere posizioni così estreme?

L’apparente contraddizione deriva dal fatto che noi prendiamo le astrazioni con troppa rigidità, estraendo isolatamente ora un aspetto ora l’altro di una realtà molto complessa. La separazione dell’Io dall’Es sembra giustificata da circostanze di fatto ben precise. D’altra parte, però, l’Io è identico all’Es, è solo una parte singolarmente differenziata dell’Es. Se noi pensiamo a questa parte contrapponendola al tutto, o se effettivamente è avvenuta una scissione tra le due parti, la debolezza di questo Io diventa evidente. L’Io mostra invece la sua forza se rimane legato all’Es, e non distinguibile da esso. Analogo è il rapporto dell’Io con il Super-io; in molte situazioni i due ci appaiono convergere, e perlopiù possiamo distinguerli soltanto quando si è determinata tra loro una tensione, un conflitto.

Dall’affermazione di Freud in questo breve passaggio è possibile rintracciare ed estrarre la struttura dell’otto interno e del nastro di Moebius che molti anni più tardi Lacan metterà al centro della sua concezione topologica dell’inconscio.

Tornando all’analisi di ciò che differenzia e lega l’ansia e l’angoscia è possibile fare una distinzione tra l’angoscia reale e l’angoscia nevrotica, definendole come ansia e angoscia; dove, attenendosi al testo di Freud, la prima è un segnale di allarme, se non anche di difesa, dell’Io e la seconda è l’angoscia di evirazione data dalla Trieb di piacere dell’Es di desiderare l’oggetto amato e dalla legge sociale del Super-Io data dal NO dell’Altro. Se per Freud l’Io è una porzione organizzativa dell’Es ma, come citato in precedenza, esso mostra la sua forza una volta che rimane legato all’Es, dove questo legame non è in toto poiché vige il meccanismo della rimozione e siccome, come detto, l’angoscia è una rimozione fallacea, allora lo stato d’ansia diviene paradossalmente il modo in cui l’Io rimane legato all’Es. L’Io sta all’Es come l’ansia sta all’angoscia. Ma come si mostra fenomenicamente ciò? Nelle fobie, in particolar modo in quella del piccolo Hans.

Chi è Hans? Hans è un bambino che si rifiuta di andare in giro per la città. Perché si rifiuta? Perché ha paura. Paura di cosa? Dei cavalli, in particolare del fatto che un cavallo possa morderlo. Ci si trova di fronte ad una fobia, paura nei confronti e verso qualcosa. Quando ne ha paura? Dopo, all’inizio il piccolo Hans non sa cosa accade, egli prova un’angoscia diffusa e dopo qualche tempo situa l’angoscia nella paura del cavallo. Cosa fa Hans per combattere questa paura? La evita, ne controlla lo spazio. Ma quale spazio controlla, quello unicamente reale del vis a vis col l’animale o quello rappresentativo dell’immagine? Ambedue. Se evita il cavallo reale, l’animale che si manifesta davanti ai suoi occhi, è perché prima ancora di esso egli ha paura ed evita la sua rappresentazione, la possibilità (temporale) che possa incontrarlo. Come la evita? Con l’ansia, ansia di incontrarlo, ansia di ritrovarcisi dinanzi, ansia della paura stessa. Ecco che allora l’ansia è un segnale di pericolo attivato nell’Io, non pericolo dell’oggetto, ma pericolo della paura. L’ansia non è situata in un rapporto, qualunque esso sia, tra Hans e il cavallo, ma tra Hans e la paura. Paura di cosa, dunque, del cavallo, del morso del cavallo? No. Paura di ciò che il cavallo rappresenta attraverso il processo della sostituzione “La sostituzione del padre mediante il cavallo”, l’angoscia di castrazione. Qui sì che si può utilizzare a buon diritto il termine angoscia. L’ansia è un segnale di allarme nell’Io nei confronti della paura, la quale paura (di e verso l’oggetto) non solo è prodotta dall’angoscia ma produce angoscia. E’ qui che Freud, senza esserne cosciente, ripropone il nastro di Moebius. Ma forse il paragone tra la difesa e la fuga si scontra comunque con il fatto che l’Io e la pulsione nell’Es appartengono invero alla stessa organizzazione, cosicché ogni e qualsiasi atteggiamento dell’Io non può non incidere sul processo pulsionale e non modificarlo. Dunque, prendendo il caso specifico della fobia, l’angoscia (castrazione) produce paura, la paura si lega ad un oggetto rappresentativo dell’Io (cavallo), che attiva un segnale d’allarme (ansia) nei confronti della paura stessa, e non nei confronti dell’oggetto (cavallo), il quale incide après-coup sull’angoscia.

Dato che l’eccitamento sessuale è l’espressione di moti pulsionali libidici, non sembrava arrischiato supporre che la libido si trasformasse in angoscia a causa di tali disturbi. Ebbene, questa considerazione è valida anche oggi; d’altra parte però non si può contestare che la libido dei processi dell’Es subisca un disturbo istigato dalla rimozione; può dunque ancor sempre esser vero che nella rimozione si forma angoscia dall’investimento libidico dei moti pulsionali. Ma come si può mettere d’accordo questo risultato con l’altro, secondo cui l’angoscia delle fobie è un’angoscia dell’Io, che sorge nell’Io, che non proviene dalla rimozione, ma anzi la provoca?

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 4

Bisogna riprendere le parole di Freud su come si è soggetti a prendere le astrazioni con troppa rigidità, di come l’Io sia legato all’Es e mostri la sua forza rimanendo indistinguibile da esso; ragion per cui, propongo l’idea che gli elementi fin qui analizzati possano essere visti attraverso una sincronia dinamica in cui gli uni influenzano gli altri e sono da questi influenzati. Se per Freud l’angoscia è uno stato affettivo, la quale, essendo data dalla paura dell’evirazione, è priva di un oggetto, spetta all’Io il compito di darne uno. Come? Attraverso una formazione sostitutiva poiché l’Es, non essendo un organizzatore psichico, non può giudicare, definire e percepire situazioni di pericolo, la situazione di pericolo sorge soltanto quando il suo oggetto diventa percepibile attraverso l’Io. Ma si è visto come la percezione dell’oggetto ritenuto pericoloso non sia la fine del processo di angoscia, in quanto una volta percepito pone in aprè cup una controcarica nei confronti della vera minaccia…l’evirazione.

Abbiamo detto che l’Io, appena conosciuto il pericolo di evirazione, dà il segnale di angoscia e inibisce, mediante l’istanza del piacere-dispiacere il minaccioso processo d’investimento nell’Es. La paura di evirazione mantiene un oggetto diverso e un’espressione deformata: essere morsicato dal cavallo anziché essere evirato dal padre. La formazione sostitutiva ha due evidenti vantaggi: anzitutto quello di sottrarsi a un conflitto d’ambivalenza, dato che il padre è al tempo stesso un oggetto amato; e, in secondo luogo, quello di permettere all’Io di sospendere lo sviluppo d’angoscia. L’angoscia della fobia è infatti un’angoscia facoltativa: essa sorge soltanto quando il suo oggetto diventa percepibile. Ciò è perfettamente corretto, poiché solo allora la situazione di pericolo è effettivamente presente. Se il padre non è presente, non c’è da temere l’evirazione. Ebbene, il padre non può essere eliminato, egli si mostra sempre, purché lo voglia. Se invece viene sostituito dall’animale, allora basta solo evitare la vista, ossia la presenza, dell’animale, per esser liberi dal pericolo e da angoscia.

Questo nella fobia ma non nel trauma, poiché in quest’ultimo vi è un’impotenza. Nella fobia ci si trova di fronte ad una situazione di pericolo, qualcosa che al livello dell’Io sappiamo di conoscere e inibiamo, ad esempio, attraverso l’evitamento. Nel trauma ci si trova di fronte ad una situazione di impotenza, un qualcosa a cui l’Io è assoggettato, qualcosa che al livello dell’Io sappiamo di non conoscere e che non possiamo inibire. La situazione di pericolo è la situazione riconosciuta, ricordata, attesa. L’angoscia è la reazione originaria all’impotenza vissuta nel trauma, reazione la quale, in seguito, è riprodotta nella situazione di pericolo come segnale d’allarme. L’Io, che ha vissuto passivamente il trauma, ripete ora attivamente una riproduzione attenuata dello stesso, nella speranza di poterne orientare autonomamente lo sviluppo. Noi sappiamo che il bambino si comporta in questo stesso modo verso tutte le impressioni che gli risultano penose, riproducendole nel gioco; attraverso questo modo di passare dalla passività all’attività egli cerca di padroneggiare psichicamente le impressioni della sua. Se questo dev’essere il senso di una “abreazione” del trauma, non c’è più nulla da obiettare in merito. Il fattore decisivo rimane comunque il primo spostamento della reazione d’angoscia dalla sua origine nella situazione d’impotenza all’aspettazione di essa, la situazione di pericolo. Pericolo e impotenza si interfacciano allo stesso modo in cui si interfacciano l’Io e l’Es.

Nel discorso fin qui elaborato manca ancora un elemento, l’oggetto a cui ansia, paura e angoscia si rivolgono. L’ansia si rivolge verso la paura, la paura si rivolge verso l’angoscia, l’angoscia si rivolge verso l’evirazione e l’evirazione…? In questo saggio Freud esplicita il fatto di come l’angoscia reale abbia un oggetto a cui si rivolge, mentre l’angoscia nevrotica no, essa è priva di oggetto. Sarà Lacan che, a partire dal seminario X, proporrà una torsione di questa formulazione dichiarando che l’angoscia ha un oggetto, l’oggetto piccolo (a)

Seminario X

Lacan inizia il suo seminario sull’angoscia riprendendo il trittico freudiano inibizione, sintomo e angoscia all’interno di una matrice, mettendo sull’asse delle ascisse la nozione di difficoltà e sull’asse delle coordinate la nozione di movimento. Però, è anche vero che per Lacan il trittico inibizione, sintomo angoscia non è allineato, non va letto sullo stesso piano, ma su un piano posto diagonalmente.

Inibizione impedimento imbarazzo

emozione       Sintomo    messa in atto

turbamento   acting-aut  Angoscia

Cosa ci dice Lacan in merito a questi termini?

  • Inibizione: ha a che fare con la locomozione, ma vi è quantunque un movimento anche quando non vi è una locomozione
  • Impedimento: il soggetto preso in trappola
  • Imbarazzo: il soggetto S rivestito dalla barra S, quando non sapete più che fare di voi stessi cercate qualcosa dietro cui ripararvi. Il massimo della difficoltà raggiunta.
  • Emozione: è il movimento che si disgrega, la reazione che si chiama catastrofica
  • Turbamento: turba, caduta di potenza. Il turbarsi più profondo nella dimensione del movimento.

Dalla matrice di Lacan è possibile ricavare l’elemento sintomatico della fobia, ovvero l’ansia. Dove la fobia altro non sarebbe che il mascheramento rappresentativo dell’angoscia e la sua sintomatologia è lo stato d’ansia legato ad un’emozione che turba.

Inibizione impedimento imbarazzo

emozione       Sintomo   messa in atto

turbamento   acting-aut Angoscia

In Hans l’inibizione ha una sua difficoltà nell’impedimento (non può andare per strada…) ed un movimento verso l’emozione e il turbamento (….per paura).

Ciò che salta all’occhio è come, pur avendo a che fare con l’angoscia, sull’asse del turbamento, essa non viene toccata fintanto che rimaniamo sulla dimensione sintomatica (ansia). Perché, pur avendo a che fare con l’angoscia, essa non viene toccata? Poiché l’oggetto a cui si riferiscono ed il limite entro il quale essi agiscono non sono gli stessi.

Qual è questo limite?

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 5

Il limite è che non tutto l’investimento libidico può passare attraverso l’immagine speculare, c’è un resto, una mancanza.

S: Soggetto

A: Altro

I: immagine speculare

i(a): Immagine reale

į’(a): Immagine virtuale

– φ: fallo

a: X

Nello schema ottico proposta da Lacan a pagina 44 del Seminario X troviamo a sinistra il soggetto dell’immagine reale, immagine del corpo che funziona, nel materiale del soggetto, come propriamente immaginaria, cioè libidinizzata. Questa immagine “reale” del corpo è sempre l’(a)ltro che gliela rimanda, è attraverso il rapporto interpersonale con l’altro che il soggetto (je) ricava il soggetto forma (moi) . Questa interazione ha un limite, in quanto non tutto l’investimento libidico passa nel rapporto i(a)-į’(a), c’è uno scarto. Una mancanza. (– φ). Strutturalmente – φ non entra nella dialettica immaginaria.

Se tra S ed I tutto fosse speculare, se alla libido fosse possibile scaricarsi in toto e fare propria l’immagine speculare che l’(a)ltro gli rimanda, l’individuo coglierebbe nel collo dell’immagine speculare originaria i(a), il suo desiderio (a), ma questo non è possibile perché nella parte destra, la parte della I, la (a) non viene riflessa; l’(a), come immagine del desiderio, oggetto da ghermire, non è visibile, manca. φ (phi) sta per fallo, ma fallo indicato attraverso il meno (-) come sottrazione libidica. Cosa dovrebbe apparire in questo – φ? L’Unheimlichkeit. L’Unheimlichkeit è ciò che appare nel posto in cui dovrebbe stare -phi.

Possiamo situare l’Heim dell’Unheimlichkeit, la casa, dalla parte sinistra del disegno, mentre Unheim apparirà fuori. Ciò che appariva dalla parte della casa appare adesso anche fuori, e questo è angosciante, ma il fuori (Unheim) e la casa (Heim) devono essere distinti, deve esserci una “cornice”, una staccionata, un limite che indichi il dentro ed il fuori. Questo meccanismo è l’assenza della mancanza nella dialettica della D (domanda) con l’Altro, l’esperienza più angosciante per il bambino, afferma Lacan, si ha quando al posto di – φ c’è qualcosa, qualsiasi cosa. Quando al posto dell’assenza della madre c’è la madre, quando l’Altro è sempre presente, poiché è solo attraverso l’assenza che si può instaurare la dialettica del desiderio; è la possibilità dell’assenza a dare la sicurezza della presenza. C’è nell’Altro un plus di presenza e di risposta, un’assenza della mancanza, che turba. questo Unheimlichkeit non inganna, si manifesta nel Reale del corpo emotivo che agisce.

Cos’è che inganna? La traccia. Che cos’è una traccia? Nella dimensione biologica dell’animale la traccia è un segno, il cane che urina nella aiuola di un parco, su una ruota o nel giardino di un altro lascia un segno e cancella la traccia che un altro animale ha lasciato in precedenza; esso afferma: “Qui ci sono stato io, non più tu. Questo spazio è mio, non più tuo. Adesso è il mio territorio, non più tuo.” Nell’essere umano la funzione della traccia è differente, in quanto l’essere umano è un essere di linguaggio, e come essere di linguaggio la sua traccia è un significante.

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 6

In questo schema della traccia cancellata, tra l’intervallo di a e A appare S come nascita del significante, un S non saputo. Questo S è il Soggetto dell’inconscio. Ogni individuazione successiva del soggetto verte a riconquistare S attraverso un significante che faccia Uno. Ma il significante è significante in quanto rappresentante ad un altro significante in quanto quel significante rappresenta qualcosa per un altro significante. La paura del piccolo Hans non è paura del cavallo ma è paura di qualcos’altro, questa paura di qualcos’altro è strutturalmente impossibilitata a raggiungere un oggetto, è impossibilitata a riconquistare l’origine. (S ◊ a). La Losanna è ciò che impedisce che soggetto e oggetto facciano uno.

Perché l’ansia come sintomo e non la fobia? Perché l’ansia sa, sa che la fobia, come significante, è una traccia che maschera la traccia. Il cavallo maschera l’evirazione. L’angoscia come taglio sa di questo, l’ansia, stando sul “chi va là” di questo taglio, allerta, segnala. L’ansia segnala che la fobia del cavallo è una falsa traccia, l’Io allora si difende da questo smascheramento evitando il percetto, in questo modo il soggetto permette al suo fantasma di continuare a esistere e funzionare, se venisse meno questa esistenza, se il piccolo Hans vivesse il cavallo come falsa traccia, se venisse meno il mantenimento del fantasma (S ◊ a) è l’angoscia. Dunque, il cavallo, così come qualunque oggetto fobico e ansiogeno, non è l’oggetto dell’angoscia, l’oggetto dell’angoscia è l’oggetto (a). Cos’è questo oggetto e dove vederlo, collocarlo? Questo oggetto è un non-oggetto, non si vede ma c’è, ed è collocato prima del Soggetto nel suo rapporto con l’Altro attraverso tre punti:

  • L’oggetto del desiderio non è davanti ma dietro, dietro il desiderio.
  • Riconoscersi come oggetto del proprio desiderio è masochistico.
  • L’oggetto (a) è presente nella sua mancanza.

In metapsicologia Freud afferma come oggetto pulsionale e meta della pulsione (Ziel) non siano la stessa cosa. L’oggetto è il mezzo, lo strumento, (capezzolo, seno, biberon, ciuccio, dito, birra ecc.) che la pulsione designa per arrivare alla meta, la meta è il soddisfacimento della pulsione (l’oralità negli esempi sopra citati). L’oggetto si trova all’esterno e la meta all’interno, all’interno del corpo. Però questa meta non può essere raggiunta senza che prima ci sia un oggetto, una volta che arriva l’oggetto arriva la meta, ma, come visto, attraverso lo schema dello specchio, una parte di questo oggetto e della sua carica pulsionale si perde, interiorizzato e perso dall’individuo. Questa interiorizzazione è perdita, è riconducibile alla rimozione primaria in cui un elemento pulsionale che ha perduto la sua integrità attira a sé, attraverso il meccanismo dello spostamento, dei derivanti psichici; la funzione dell’oggetto piccolo a, e del perché esso si situa in un al di qua del desiderio è riconducibile a questa rimozione primaria e alla sua attrattività. Come nella calamita in cui i due poli, positivo e negativo, vengono spezzati, così che uno dei due è costantemente alla ricerca dell’altro, nella pulsione un pezzetto staccato nell’oggetto attira a sé tutti i derivati per raggiungere la meta del soddisfacimento; questi derivanti però non rincorporeranno mai l’oggetto nella sua integrità.

Al soggetto del desiderio resta impossibile, in quanto (a), cogliere qualcosa di sé come Sé intero, come Uno; allora, egli altro non può fare che identificarsi come oggetto dell’altro, oggetto tra altri oggetti del mondo. Questo identificarsi, e dunque, riconoscersi come oggetto del mondo, è sempre masochistico.

Se l’oggetto (a) non sta davanti al desiderio ma dietro, se esso è ciò che genera il desiderio, in che modo esso può essere riconosciuto? Riconoscersi come oggetti del proprio desiderio è sempre masochistico, ma il masochista lo fa sempre su una scena. Come avviene per Benjamin Malaussène, il quale si definisce fin da subito come “Il capro espiatorio” e vive tutta la sua vita da tale, oggetto del proprio desiderio e oggetto del desiderio sadico dell’Altro. Ma quando questa scena scompare o viene a mancare? Quando l’identificarsi con l’oggetto del desiderio viene meno? Quando viene il dubbio che non siamo “Il capro espiatorio”. È lì che si manifesta la presenza dell’oggetto (a) in quanto mancanza attraverso l’Altro.

Articolando lo schema completo di Inibizione Sintomo e Angoscia Lacan riprende il caso esposto da Freud di una giovane omosessuale, in cui una giovane ragazza di diciotto anni si invaghisce di una donna di dodici anni più grande di lei. La giovane manifesta esplicitamente il suo desiderio per la donna, al punto tale che tutta la città, genitori inclusi, sanno, sanno che ella desidera questa donna; ella è sotto lo sguardo di tutti, sotto lo sguardo dell’Altro. Quest’amore così apertamente manifestato, insieme ai ruoli che tutti i protagonisti ricoprono, è la scena in cui la giovane si muove abitualmente nel mondo. Questa scena in cui il soggetto si mostra attraverso i suoi atteggiamenti e comportamenti abituali è l’acting out. I rapporti tra le due continuano normalmente all’interno di questa scena fino a quando la giovane ragazza, a passeggio con l’amata, incontra il padre che le lancia uno sguardo di disapprovazione; l’amata, a disagio per quanto è successo, comunica alla ragazza che vuole chiudere la relazione. A quel punto la ragazza corre via e tenta il suicidio gettandosi da un ponte dal quale passa abitualmente la linea ferroviaria del tram. Il fuggire e il gettarsi giù dal ponte della ragazza è lo strappo di quella scena abituale che rappresenta la continuità del mondo della giovane, l’andare fuori, questo atto è il passaggio all’atto.

Ecco cosa segnala il segnale d’ansia dell’Io. Segnala, attraverso l’inibizione, l’impedimento, il turbamento e l’emozione che sta per apparire sulla scena (acting out), l’oggetto (a), l’angoscia. Riprendendo l’Unheimlichkeit freudiano è possibile porre l’Heim nel lato dell’acting out, nel lato i(a) dello specchio, nel lato di ciò che è familiare, mentre l’Unheim nel lato del passaggio all’atto, nel lato di ciò che non è familiare, nel lato į’(a) del collo del vaso (– φ). Così come accade alla giovane omosessuale, così accade nella storia del mago Sabbiolino, in cui il protagonista vive il suo acting out (la sua scena) nella rottura di ogni sua relazione, sentimentale o amicale che sia, sotto lo sguardo continuo e persecutorio dell’Altro paterno ed evirante. Fino a quando qualcosa non succede, succede che il protagonista in cima ad una torre vede il mago ed il suo sguardo guardarlo, allo stesso modo in cui la giovane omosessuale vede il padre ed il suo sguardo guardarla; egli si getta dalla torre sotto lo sguardo di tutti, mago/padre compresi, come la giovane si getta dal ponte sotto lo sguardo di padre e amante. Sotto lo sguardo dell’Altro.

Un objekt per essere desiderato deve essere proibito, poiché è solo attraverso la sua proibizione, la sua inafferrabilità, che possiamo desiderarlo, in modo contrario ogni oggetto sempre presente, sempre disponibile, non è desiderato ma goduto; l’angoscia nel suo resto (a) si situa proprio tra il godimento ed il desiderio. Per poter allora entrare nella dialettica del desiderio è fondamentale la presenza della mancanza, – φ. Da questo – φ scaturisce come resto l’oggetto piccolo (a), il quale, quanto si palesa, lo fa attraverso il manifestarsi Reale dell’angoscia.

Angoscia e ansia nella psicoanalisi il pensiero di Freud e Lacan Fig 7

L’angoscia si manifesta nel reale poiché essa è impossibilitata ad entrare nella dialettica della significazione significante del grande Altro. La funzione dell’angoscia è mediana rispetto al godimento e al desiderio. Godimento e desiderio in rapporto all’Altro, e nello specifico alla Domanda rivolta all’Altro: “Cosa sono io per te?”. Nel godimento questo oggetto (a) dove ricercarlo e collocarlo allora? E’ stato detto che non fa parte della significazione significante ma che è reale, il reale del corpo. E’ stato detto che non è davanti, ma dietro al desiderio, dietro l’oggetto inteso come objekt che serve al raggiungimento della meta del desiderio pulsionale. Non è stato detto che l’oggetto (a) non è unico ma multiplo, oggetti a. Questi oggetti a sono gli oggetti parziali del corpo pulsionale freudiano, orale, anale, fallico e, ne aggiunge altri due Lacan, scopico e sonoro. L’oggetto (a) scopico è stato la traccia di questo articolo, partendo dal DSM-5, per poi passare alla fobia del piccolo Hans, al perturbante della storia del mago Sabbiolino e allo schema dello specchio curvo tra i (a) e į’(a), la presenza/assenza e strutturazione dell’oggetto e della nostra identità.

Conclusione

Ciò che Freud in Inibizione Sintomo e Angoscia definisce come angoscia reale è qui definita come ansia. Si definisce ansia in quanto segnale dell’Io, ed essendo nell’Io si manifesta attraverso quel rapporto Immaginario del Soggetto nella cattura dello specchio mediante l’Altro, S A  I, dove in S abbiamo i (a) e in I abbiamo į’(a ). Il rapporto i(a)- į’(a ) però non è fusionale, in į’(a ) l’oggetto piccolo (a) non viene preso, c’è uno scarto libidico, una x riconosciuto da Lacan come – φ. Nell’ansia l’oggetto di riferimento è l’oggetto percetto, l’oggetto immaginario nella sua presenza o assenza, questo oggetto immaginario entra nel simbolico in quanto cancellazione di una traccia. L’angoscia, differentemente dall’ansia, ha il suo oggetto non in un al di fuori del soggetto, in un esterno, ma in un interno pulsionale. Lacan articola l’oggetto piccolo (a), attraverso le sue diverse zone pulsionali, come fautore del desiderio. Secondo Lacan è a causa di questa strutturazione che si instaura il desiderio, desiderio che non va articolandosi esclusivamente nella sua dimensione Simbolica ma ha effetto nel Reale. L’angoscia entra nella scena quanto alla Domanda “Cosa sono io per te?”, qual è la mia identità in te, c’è in A una x. La sua entrata in scena scuota il corpo (R)eale.

Anosognosia e metacognizione: l’adozione di un nuovo punto di vista sulla malattia di Alzheimer

L’anosognosia può essere vista come un deficit della conoscenza metacognitiva e dei processi di monitoraggio riguardo alla consapevolezza della propria condizione, con una carenza di riconoscimento a proposito della severità della propria sintomatologia.

 

Nel 2015, l’Alzheimer Disease International evidenziò come 4.8 milioni di persone soffrono di demenza e come tale numero sarà raddoppiato entro il 2030 (Wimo et al., 2006, come citato in Bertrand et al., 2016). Il DSM 5 (APA, 2013, pp. 709-710) riporta il disturbo neurocognitivo maggiore dovuto a malattia di Alzheimer se è presente un’evidenza di una mutazione genetica causativa di tale malattia, dove vi è un chiaro declino della memoria, dell’apprendimento e almeno di un altro dominio cognitivo, costantemente progressivo e graduale nella cognizione, senza plateau estesi, e senza la presenza di altre malattie neurodegenerative e cerebrovascolari che contribuiscono a tale declino. Si parla di un disturbo neurocognitivo lieve invece quando una probabile malattia di Alzheimer viene diagnosticata se vi è o meno una mutazione genetica causativa di tale malattia, e sono richiesti i criteri sopra elencati. La nomenclatura esistente riporta come la durata media di sopravvivenza post diagnosi è di circa 10 anni, mentre le persone che convivono con tale disturbo per 20 anni si ritrovano costrette a letto nella maggior parte dei casi (APA, 2013).

Che cos’è l’anosognosia

L’anosognosia, letteralmente ‘mancanza di conoscenza sulla malattia’, è una caratteristica comune della demenza (Morris & Hannesdottir, 2004, come citati in Bertrand et al., 2016; Mograbi et al., 2012). Un aspetto importante è che l’anosognosia e la metacognizione, riferita al monitoraggio e alla regolazione dei processi cognitivi, sono dei concetti correlati: basandosi sulle teorie metacognitive, l’anosognosia può essere vista come un deficit della conoscenza metacognitiva e dei processi di monitoraggio riguardo alla consapevolezza della propria condizione, con una carenza di riconoscimento a proposito della severità della propria sintomatologia (Babinski, 1914).

Bertrand e colleghi (2016) hanno condotto una revisione della letteratura e hanno visto come diversi studi esplorassero la relazione tra l’inconsapevolezza della malattia e la capacità di pensare al proprio pensiero, osservando l’impatto dell’auto-osservazione e del miglioramento della propria consapevolezza adottando un punto di vista in terza persona: il Cognitive Awareness Model (CAM; Agnew & Morris, 1998, Morris & Hannesdottir, 2004, 2007; Morris & Mograbi, 2013, come citati in Bertrand et al., 2016) permette alla persona di vedersi con un video, suggerendo così l’esistenza di sistemi di memoria distinti per le informazioni su di sé e sugli altri (Bertrand et al., 2016). Besharati e colleghi (2015) hanno suggerito come l’auto-osservazione attraverso una prospettiva in terza persona influenzi positivamente le abilità metacognitive. Gli esperimenti svolti su pazienti affetti da Alzheimer hanno suggerito come i pazienti sono generalmente accurati nel predire le prestazioni dei loro caregiver quando fanno affidamento su una conoscenza obsoleta delle capacità cognitive dei loro parenti, mentre riscontrano difficoltà a predire le loro.

La spiegazione teorica di Morris e Mograbi (2013) ipotizza come i comportamenti manifestati, o evidenti, riflettano l’esistenza di diverse reti incluse nella valutazione di sé o degli altri. Nello specifico i due autori hanno proposto un modello di immagazzinamento mnestico composto da una banca dati personale, contenente rappresentazioni semantiche su di sé, e un sistema di memoria concettuale autobiografico, che contiene informazioni e conoscenze di esperienze di vita e auto-valutazioni sviluppate nel corso dell’apprendimento. Tale sistema mnestico è scisso dal sistema mnestico generico, contenente altri elementi che permettono una valutazione degli altri basandosi su una conoscenza semantica generale.

Correlati neurali dell’anosognosia

A livello neuroscientifico, Ruby e Decety (2001, 2003, 2004) hanno esplorato i correlati neuroanatomici dell’assunzione di prospettiva sui domini motori, emotivi e concettuali. La distinzione tra sé e gli altri è evidente, per tutti e tre i domini, nella corteccia somatosensoriale e parietale inferiore. A favore di tali evidenze, alcune di queste aree cerebrali, come la corteccia orbitofrontale e la giunzione temporoparietale, sono correlate positivamente all’anosognosia nella malattia di Alzheimer (Bertrand et al., 2016). La Default Mode Network (DMN), rete che si attiva quando i soggetti non sono impegnati in un compito specifico, sembra inoltre essere influenzata dal processo neurodegenerativo dell’Alzheimer: Bond e colleghi (2016) hanno osservato come la compromissione della DMN possa spiegare le differenze nelle capacità metacognitive in base alla prospettiva di come le informazioni vengono presentate ad un soggetto.

Implicazioni dell’anosognosia

Le implicazioni a livello clinico potrebbero includere l’adozione di una terapia basata su un punto di vista in terza persona, integrazione utile per malattie neurodegenerative e psicotiche che implicano spesso istituzionalizzazioni precoci e difficoltà nell’aderenza al trattamento (Starkstein et al., 2007, Arlt et al., 2008, Bertrand et al., 2013, Horning et al., 2014, come citati in Bertrand et al., 2016).

Future ricerche potrebbero confermare l’ipotesi secondo cui un miglioramento nella consapevolezza del paziente, attraverso l’utilizzo di un punto di vista in terza persona, può ridurre l’impatto negativo dell’anosognosia (Bertrand et al., 2016).

 

La nascita della terapia metacognitiva – Parte I

Negli ultimi anni, la terapia metacognitiva (MCT) non solo si è dimostrata un trattamento efficace per la cura della sintomatologia ansiosa e depressiva, ma ha anche dato prova di essere un’ottima alternativa a terapie ben consolidate ed evidence-based come la terapia cognitivo-comportamentale (es. Normann & Morina, 2018).

 

La MCT, nel panorama attuale, ha cominciato a riscuotere l’interesse di molti ricercatori e clinici che si occupano di salute mentale. Ma come nasce questa terapia? Quali sono le basi teoriche che hanno portato gli studiosi a creare un paradigma tanto innovativo? E quali le evidenze scientifiche che la rendono così rilevante?

Il presente articolo si soffermerà proprio su questi punti, delineando la storia della terapia metacognitiva dagli albori fino a oggi.

Le informazioni contenute nell’articolo derivano dalla lettura e dalla traduzione di A Brief History of Metacognitive Therapy: From Cognitive Science to Clinical Practice (Capobianco & Nordahl, 2021).

Processi di automonitoraggio ed elaborazione delle informazioni

Adrian Wells, padre della terapia metacognitiva, iniziò a testare metodi e concetti alla base di ciò che sarebbe poi divenuto il modello metacognitivo a metà degli anni ’80, durante i suoi studi di Dottorato. Wells era interessato alla teoria dell’elaborazione delle informazioni e al ruolo che i processi di automonitoraggio avevano nella sintomatologia ansiosa (es., Wells, 1985). Questo interesse nacque in seguito allo studio che l’autore fece del lavoro di Duval e Wicklund (1972), Carver e Scheier (1988) e Fenigstein e colleghi (1984); le ricerche in questione dimostravano quanto fossero rilevanti gli effetti negativi che un elevato automonitoraggio può comportare nei vari disturbi psicologici.

Secondo Wells (1978), erano di fondamentale importanza i processi attentivi e gli stili di pensiero come il rimuginio, e avrebbero dovuto riscuotere maggior interesse negli sviluppi delle teorie psicologiche; tuttavia, i modelli più innovativi presenti in quel periodo, la Terapia Cognitivo-Comportamentale e la Terapia Razionale Emotiva Comportamentale, consideravano come core dei disturbi il contenuto del pensiero e gli schemi mentali.

Secondo Wells era invece l’attenzione l’elemento cardine che poteva fornire una base scientifica per svelare i processi, sia oggettivi che soggettivi, dei disturbi psicologici e i metodi da utilizzare nel trattamento. Fino ad allora invece, i bias attentivi erano considerati principalmente come processi riflessivi bottom-up, risultato di emozioni, tratti di personalità o fattori ambientali (es., Mathews & MacLeod, 1985).

Un lavoro che ebbe grande influenza sulle prime idee di Wells (Duval & Wicklund, 1972) concepì una teoria dell’autoconsapevolezza che considerava l’attenzione come un processo dicotomico: essa poteva essere diretta all’interno di sé oppure all’esterno, verso l’ambiente. Duval e Wickund ipotizzarono che gli stimoli ambientali come la presenza di uno specchio o di un pubblico facessero rivolgere l’attenzione verso sé stessi, mentre le distrazioni esterne e il focalizzarsi su un compito facessero dirigere l’attenzione al di fuori di sé.

Fenigstein e colleghi (1975) definirono la tendenza di una persona a dirigere l’attenzione verso di sé “autocoscienza” e operarono una distinzione tra autocoscienza privata e pubblica, che risultarono entrambe correlare positivamente con l’ansia sociale. Le differenze individuali in questi domini furono considerate come tratti di personalità; l’attenzione auto-diretta di stato risultava secondo gli autori da variabili situazionali transitorie, da tratti di personalità o da entrambe. Emerse che l’autocoscienza di stato e di tratto erano variabili attendibili e correlavano positivamente con la sintomatologia presente in alcuni disturbi psicologici; tuttavia, mancava una teoria standardizzata che collegasse i bias attentivi sulla pericolosità, il self-focus, i limiti delle risorse attentive e i disturbi psicologici. Wells riconobbe i benefici e le implicazioni pratiche nello sviluppo di questa teoria.

In un altro lavoro di grande importanza, Mathews e MacLeod (1985) dimostrarono che i pazienti con ansia avevano la propensione a focalizzare l’attenzione sugli stimoli riguardanti una minaccia; essi attribuivano questo bias all’attivazione di schemi sottostanti e a interpretazioni negative dell’esperienza, coerenti con la teoria degli schemi (Beck et al., 1979). Analizzando questa tendenza con il test di Stroop in pazienti con disturbo d’ansia generalizzata, scoprirono che questi sperimentavano un aumento della latenza di denominazione dei colori nelle parole correlate alla minaccia.

In seguito, MacLeod e colleghi (1986) utilizzarono il paradigma del dot probe task e scoprirono che i pazienti ansiosi, ma non quelli depressi, spostavano l’attenzione verso le parole correlate alla minaccia ma erano più lenti a prestare attenzione alle parole neutre. Questo suggerì che vi era un bias di elaborazione che poteva contribuire al mantenimento dell’ansia. Ricerche successive hanno suggerito la presenza di un bias per gli stimoli disforici nella depressione (es., Armstrong & Olatunji, 2012).

Alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90, Wells insieme con Gerald Matthews (1988) proseguì negli studi sull’attenzione, sulla cognizione, sullo stress e sulle stategie di coping. Gli autori sostenevano che la conoscenza di una persona – le credenze su di sé – non fosse semplicemente un file di dati interni contenente informazioni disconnesse che può essere analizzato dal terapeuta: il disturbo psicologico può essere influenzato non solo da processi automatici, ma anche da processi coscienti più strategici che regolano attenzione e cognizione. Si prefissero quindi l’obiettivo di identificare questi possibili processi e di condurre un’ampia revisione critica della letteratura esistente sull’attenzione e sulle emozioni in psicopatologia. Al centro di questo lavoro c’era un esame delle teorie e delle evidenze sui contributi del controllo bottom-up rispetto al controllo dell’elaborazione top-down.

Wells e Matthews (1994) notarono che l’uso dei principi delle scienze cognitive in letteratura era limitato e che le influenze top-down sui bias e sulla negatività osservati nei disturbi psicologici non erano spiegate dalle teorie esistenti. Si posero quindi l’obiettivo di rimediare a questa lacuna e, dopo un’analisi critica, svilupparono il loro modello della funzione autoregolatoria (Self-Regulatory Function Model; S-REF), la base teorica successivamente sviluppata da Wells e utilizzata come base per la Terapia Metacognitiva.

Il Modello della Funzione Esecutiva Autoregolatoria

Il modello della funzione autoregolatoria è stato anche definito da alcuni autori “il modello metacognitivo dei disturbi psicologici”. Secondo Wells e Matthews (1994) un modello teorico avrebbe dovuto discriminare tra i vari livelli di controllo dell’attenzione ed essere in grado di mappare gli effetti dell’elaborazione delle informazioni nei disturbi psicologici. Wells e Matthews (1994) sostenevano che le teorie psicologiche esistenti non fossero in grado di specificare i diversi aspetti della architettura cognitiva che contribuivano allo sviluppo e al mantenimento delle problematiche emotive. Un’analisi di questo tipo fu centrale nello sviluppo del modello S-REF.

Il punto di partenza nella loro revisione della letteratura è stato l’identificazione e la definizione della sindrome cognitivo-attentiva (cognitive attentional syndrome; CAS), un insieme di processi attivati sotto stress o minaccia che poteva portare allo sviluppo di disturbi psicologici. La CAS consiste in un pensiero ripetitivo negativo, che si manifesta sotto forma di ruminazione, rimuginio e monitoraggio della minaccia e che alimenta l’utilizzo di strategie di coping disfunzionali, come la soppressione del pensiero; questo tipo di pensiero riduce la capacità degli individui di compiere un’efficace autoregolazione.

Un’elevata attenzione rivolta ai propri pensieri (es. autocoscienza privata) era considerata da Wells e Matthews uno dei principali fattori di rischio nello sviluppo di questa sindrome. Nel modello S-REF, la CAS è generata dall’interazione tra un’elaborazione cosciente di livello superiore e un’elaborazione automatica di livello inferiore, in particolare quella che coinvolge i processi di attenzione selettiva e di riduzione della sofferenza emotiva tramite autoregolazione. Nel valutare gli effetti della cognizione di livello superiore, il modello ha distinto tra credenze dichiarative (“io non valgo”) e credenze procedurali, ovvero le pianificazioni o i comandi che guidano l’elaborazione e che hanno quindi una funzione metacognitiva.

Wells e Matthews ritenevano che le credenze negative (“la gente pensa che io sia un fallito”) fossero il risultato dell’elaborazione metacognitiva e che il persistere di tali credenze, le credenze metacognitive o metacredenze, potesse essere spiegato dalla CAS. Wells (es., 1994) ha inoltre ipotizzato l’esistenza e teorizzato il ruolo delle credenze metacognitive negative (“ho paura di perdere il controllo delle mie preoccupazioni”) e di quelle positive (“se mi preoccupo sono pronto ad affrontare qualsiasi cosa”); Wells ipotizzò che influenzassero la risposta della CAS (per esempio, la focalizzazione sulla minaccia).

Il modello S-REF differisce dagli altri modelli cognitivi poiché enfatizza l’importanza dell’architettura cognitiva, distinguendo l’influenza di un’elaborazione riflessiva di livello inferiore dalle strategie motivate di livello superiore. Questa distinzione è importante nell’ambito delle psicoterapie, poiché il livello al quale operano i bias determina a sua volta il tipo di trattamento psicologico che verrà utilizzato (es., esposizione ripetuta per i processi di livello inferiore o strategie di modifica e revisione della conoscenza metacognitiva per i processi di livello superiore (Capobianco & Nordahl, 2021).

Secondo gli autori, era la perseverazione in risposta a pensieri negativi, ovvero la sindrome cognitivo-attentiva, a causare i disturbi psicologici, non il contenuto della cognizione enfatizzato da altre teorie (Beck et al., 1979). Trassero quindi la conclusione che sarebbe stato vantaggioso sviluppare delle tecniche che potessero consentire all’individuo di regolare efficacemente la risposta a pensieri negativi, riducendo gli elementi della CAS.

Nel modello S-REF, la CAS è il risultato della conoscenza metacognitiva, delle credenze sull’utilità del rimuginio e il monitoraggio della minaccia, e delle metacognizioni procedurali di ordine superiore che agiscono come programmi modificabili per l’elaborazione (Capobianco & Nordahl, 2021).

Dal momento che il disturbo psicologico per gli autori era correlato alle credenze metacognitive e all’uso eccessivo di strategie di coping disadattive, lo scopo era quello di sviluppare un trattamento focalizzato a flessibilizzare il controllo mentale, piuttosto che finalizzato alla messa in discussione del contenuto degli schemi o all’insegnamento di skills mancanti.

Wells (2009, 2019) ha continuato ad estendere il modello S-REF integrandolo con dati sperimentali emergenti e ha aggiornato le sue competenze cliniche applicando questi principi ai suoi pazienti. Nello specifico, ha descritto nel dettaglio la struttura interna delle funzioni cognitive di ordine superiore e la relazione tra le componenti metacognitive del modello e la regolazione della CAS.

Gli strumenti per valutare le metacognizioni

Per valutare empiricamente i processi metacognitivi del disturbo enfatizzati nel modello S-REF, era necessario sviluppare nuovi strumenti di misura. I primi furono il Thought Control Questionnaire (TCQ), che valutava le differenze individuali nella tendenza a utilizzare particolari strategie per affrontare i pensieri negativi (es., preoccupazione, punizione, rivalutazione), e l’Anxious Thought Inventory (AnTI), che valutava diversi tipi di preoccupazione inclusa la meta-preoccupazione (cioè la preoccupazione per la preoccupazione; Capobianco & Nordahl, 2021).

Il Metacognitions Questionnaire-65 (MCQ-65) è stato il primo strumento di misurazione per le credenze metacognitive corrispondente al modello S-REF e valutava cinque sottotipi di credenze metacognitive, ovvero: (1) meta-credenze positive riguardo al rimuginio; (2) meta-credenze negative riguardo all’incontrollabilità e al pericolo delle preoccupazioni; (3) fiducia nelle proprie capacità cognitive; (4) bisogno di controllo dei pensieri; e (5) autoconsapevolezza cognitiva. L’MCQ è stato successivamente abbreviato nel Metacognitions Questionnaire-30, strumento di misura determinante nello stabilire il ruolo delle credenze metacognitive in una serie di disturbi, sintomi e gruppi di età (Capobianco & Nordahl, 2021).

Sono stati sviluppati questionari specifici per i disturbi (ad es. GADS-R, PTSD-S, OCD-S) e questionari più generici riguardanti la CAS (ad es. CAS-1, CAS-1r) da utilizzare di sessione in sessione come mezzo per monitorare e valutare le strategie metacognitive e le credenze metacognitive durante la terapia (Wells, 2009).

Esistono anche strumenti per la misurazione delle meta-credenze rilevanti per la depressione, per esempio il Negative Beliefs about Rumination Scale (NBRS) e il Positive Beliefs about Rumination Scale (PBRS) che sono stati determinanti nel testare il ruolo della CAS e delle meta-credenze (es. Cano-Lo ́pez et al., 2021) in questo disturbo.

In arrivo il Masterclass Internazionale di Terapia Metacognitiva

L’innovazione che la Terapia Metacognitiva ha introdotto nella concettualizzazione e nel trattamento dei disturbi psicologici (non solo limitata ai disturbi d’ansia, ma anche a quelli ossessivi, depressivi, post-traumatici, ecc), ha creato nei professionisti una sempre maggiore curiosità e una crescente domanda verso percorsi formativi che consentano di conoscere gli aspetti teorici ma soprattutto di padroneggiare gli aspetti pratici di questo nuovo approccio.

Per tale motivo, l’MCT-Institute, in collaborazione con MCT-Italia, organizzerà un Masterclass per colleghi psicoterapeuti e specializzandi di lingua italiana.

Il Masterclass rappresenta il primo livello di competenza nella Terapia Metacognitiva e certifica l’iscrizione nell’elenco internazionale degli psicoterapeuti metacognitivi.

Sarà un corso dalla durata di due anni (dal 2022 al 2024), organizzato prevalentemente online tramite piattaforma ZOOM con traduzione in italiano. Il corso sarà composto da 8 incontri di due giorni, dedicati all’applicazione pratica della Terapia Metacognitiva e alla supervisione di casi clinici.

Il Masterclass sarà condotto interamente dai fondatori dell’ MCT-Institute e della terapia metacognitiva: Prof. Adrian Wells e Prof. Hans Nordahl.

 

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Il concetto di bisogno nella ricerca in psicologia. Seconda parte: teorie rappresentative a confronto

Dal punto di vista della sopravvivenza alcuni bisogni sono necessari per l’organismo in quanto senza di essi cesserebbe la vita; altri, di matrice psicologica, hanno invece un impatto misurabile in base ad altri parametri.

Ndr – Il presente articolo è il secondo di una serie di tre contributi sull’argomento. Il primo contributo è stato pubblicato la settimana scorsa su State of Mind, il terzo verrà pubblicato la prossima settimana.

 

Quando un bisogno è fondamentale dal punto di vista psicologico ?

La questione dei bisogni fondamentali è in ultima istanza anche una questione di cosa distingua l’uomo dalle altre specie animali. Le differenze sono solo di costituzione fisica o anche psicologica? Sono solo quantitative o anche qualitative? C’è qualcosa che tutti gli individui, indipendentemente dalle loro caratteristiche soggettive, universalmente considerano desiderabile?

Per la psicologia rispondere a queste domande vorrebbe dire poter descrivere con precisione il comportamento umano, spiegarlo, influenzarlo, prevederlo fin dalle sue espressioni più superficiali, riconnettendo tutto al funzionamento psicologico generale. Purtroppo non sembriamo avere ancora una teoria unificata dei bisogni fondamentali in grado di svolgere il ruolo, per la psicologia, che svolgono ad esempio la fisica, la chimica e la biologia per la medicina: un ruolo fondativo e un prerequisito a partire dal quale comprendere tutto il resto.

Le teorie dei bisogni in questo senso sono tentativi parziali che hanno portato, per mezzo di lavoro speculativo sottoposto a test d’ipotesi e supportato da successiva validazione empirica, a identificare degli insiemi di bisogni umani, giudicati di volta in volta come particolarmente rappresentativi.

Ma come identificare un bisogno? Una serie di criteri utili a questo scopo ci sono forniti da Baumeister e Leary (1995) nelle loro considerazioni a favore della tesi che il bisogno di appartenenza sia un bisogno fondamentale. In questo senso:

  • la sua soddisfazione produce effetti immediati in tutte le condizioni favorevoli;
  • possiede una componente affettiva;
  • dirige l’elaborazione cognitiva;
  • se ostacolato conduce a conseguenze negative per il benessere;
  • stimola condotte orientate all’obiettivo allo scopo di essere soddisfatto, e può subire variazioni a livello motivazionale (ad esempio per saziazione e sostituzione d’oggetto);
  • è universale e si applica a ogni individuo;
  • non deriva da altre motivazioni e non ve ne derivano altre;
  • influenza un’ampia varietà di comportamenti.

È fuori di dubbio che dal punto di vista della sopravvivenza alcuni bisogni, soprattutto se di matrice biologica, siano necessari per l’organismo in quanto senza di essi cesserebbe la vita e quindi, per definizione, la loro mancata/avvenuta soddisfazione ha un impatto sulla salute in tempi brevi (non si sopravvive neppure una settimana senza bere). Altri bisogni, di matrice psicologica, hanno invece un impatto misurabile in base ad altri parametri (ad esempio livelli di stress, qualità della vita, percezione di benessere etc.) e su distanze temporali più lunghe.

In questo senso possiamo pensare ai classici bisogni di controllo (Rotter, 1966), di mantenere l’autostima (Sedikides, 1993), di avere relazioni significative (Bowlby, 1969) e molti altri, e di come la difficoltà nel loro soddisfacimento, come noto, impatti sulla salute individuale (ad es. Marmot, 2003). In aggiunta a ciò, riferendoci ai criteri visti sopra, il soddisfacimento del bisogno psicologico dovrebbe promuovere il funzionamento ottimale della persona ed essere fonte di flourishing: una vita più ricca, produttiva, coinvolta in relazioni significative, autentica, nella quale sia possibile sviluppare il proprio potenziale psicologico e una progettualità di vita autentica (Deci & Ryan, 2000). In questo senso il loro soddisfacimento resta comunque fondamentale per chiunque.

Le diverse tassonomie si sono rivelate, da questo punto di vista, estremamente feconde. Ma il prezzo della proliferazione di teorie è la confusione e la dispersione, sembra quindi utile pensare a delle modalità con le quali comporre un quadro di riferimento coerente ed unitario delle teorie sui bisogni maggiormente validate e di successo, per trovare sintesi e integrazione.

Confrontare le diverse teorie sulla base delle relazioni tra bisogni

A questo proposito Pittman e Zeigler (2007) propongono un confronto basato sulla distinzione dei livelli di analisi delle diverse teorie, allo scopo di identificare aree di sovrapposizione concettuale e possibilmente empirica, come anche la tipologia strutturale che lega i bisogni da esse considerati. Dal punto di vista strutturale, gli autori propongono quattro possibilità:

  • Struttura gerarchica;
  • Struttura a un bisogno fondamentale dal quale dipendono gli altri e al quale gli altri sono direttamente riferiti;
  • Struttura a sistema di controlli e bilanci tra elementi e processi consapevoli e inconsapevoli (o consci e inconsci, se la teoria possiede una matrice psicodinamica);
  • Struttura a sistemi indipendenti.

Struttura gerarchica

Un esempio è la teoria dei bisogni di Maslow (1943). I bisogni fondamentali si situano su un gerarchia che culmina nel bisogno di attualizzare il sé, ovvero il portare a realizzazione le proprie aspettative e possibilità: bisogni fisiologici (sopravvivenza e necessità biologica), di sicurezza (padronanza e difesa in relazione agli eventi della vita), di appartenenza (far parte di un gruppo, di una comunità, cooperare), di stima (riconoscimento di stima e apprezzamento da parte degli altri), di attualizzazione di sé.

Un altro esempio è la teoria dell’autoaffermazione di sé (Steele, 1988). Quando il senso del sé è minacciato dalla percezione di incoerenza o dal timore di un fallimento, l’individuo reagisce allo scopo di ritrovare una percezione coerente di sé, cui sono subordinati tutti gli altri bisogni (di adattamento, di riduzione della dissonanza cognitiva, di percepirsi competenti etc.).

Struttura a un bisogno fondamentale

Un esempio di questa struttura è fornita dalla teoria dei motivi sociali di fondo (Core Social Motive Theory; Stevens & Fiske, 1995). Cinque bisogni sono considerati fondamentali perché emersi nel corso dell’evoluzione dell’uomo e funzionali per la sopravvivenza sociale: bisogno di appartenere a un gruppo, di comprendere il mondo fisico e sociale, di sentirsi efficaci ed in grado di esercitare influenza e controllo sull’ambiente, di mantenere l’autostima, di percepire il mondo come benevolo e non minaccioso. Essi si attiverebbero alla presenza di altri reale, immaginata o anche solo implicita (ad esempio quando si è ripresi da una videocamera). Il bisogno di appartenenza è considerato il bisogno fondamentale e dal quale tutti gli altri dipendono.

Un altro esempio è la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), che descrive il funzionamento di sistemi autoregolatori (sistema della paura, dell’esplorazione/del gioco, dell’attaccamento/accudimento/affiliazione) corretti all’obiettivo da raggiungere. Il sistema di attaccamento (ricerca di vicinanza, conforto e protezione in situazioni di malessere, dolore, pericolo) avrebbe la priorità poiché dal punto di vista individuale (ontogenetico) si presenta per primo, ‘dalla culla alla tomba’ (Bowlby, 1982), guidando i comportamenti del neonato con l’obiettivo principale di garantirgli la sopravvivenza e, successivamente, nel corso della vita, influenzando in maniera significativa il funzionamento degli altri sistemi (cfr. Mikulincer & Shaver, 2007).

Un ultimo esempio, infine, è fornito dalla Terror Managment Theory (Pyszczynski, Greenberg & Solomon, 1997), che espande le conseguenze dei mandati evoluzionistici dell’autopreservazione e della sopravvivenza ai meccanismi di gestione dell’ansia. La problematizzazione della mortalità per gli autori è una questione tipicamente umana derivante da abilità cognitive come l’autoconsapevolezza e il pensiero astratto, e porterebbe l’individuo ad una frattura esistenziale generatrice di ansia. Di conseguenza la persona tenterebbe, inconsapevolmente, di fronteggiare l’ansia per mezzo della ricerca dell’immortalità ‘reale’, sotto forma di credenze in una vita nell’aldilà, o simbolica, espandendo il Sé tramite la propria discendenza biologica, le opere o i riconoscimenti terreni. Per questi scopi entrano in gioco due ordini di credenze: la credenza nella validità della visione del mondo, degli standard e dei valori della cultura cui si fa riferimento, e la credenza di stare vivendo all’altezza di tali standard e valori, equiparata all’autostima (Rosenblatt, Greenberg, Solomon, Pyszczynski, & Lyon, 1989).

Quando invece la morte venisse consapevolmente contemplata, entrerebbero in gioco reazioni diverse e miranti al soddisfacimento di ‘motivi diretti’, come i motivi fisiologici (il bisogno di acqua, di cibo etc.) e i pensieri consapevoli riguardanti la longevità propria o della propria stirpe (Pyszczynski, Greenberg, & Solomon, 1999).

Struttura a sistema di controlli e bilanci

La teoria cognitivo-esperienziale del sé rientra tra le cosiddette ‘teorie del doppio processo’ (per una rassegna, si veda Stanovich & West, 2000), ed è una teoria della personalità influenzata dal pensiero psicodinamico (Epstein, 1992). Essa assume che l’individuo elabori le informazioni provenienti dall’ambiente interno ed esterno tramite due diversi sistemi – il sistema razionale ed il sistema esperienziale – operanti in accordo a regole diverse. Il primo opera a livello consapevole, lento e sequenziale, guidato dal pensiero analitico e dalla conoscenza mediata socialmente; il secondo opera in assenza di deliberazione consapevole, sotto l’influenza delle emozioni, e utilizzando scorciatoie cognitive quali euristiche e intuizione.

Quattro bisogni fondamentali fungono da scopi primari per entrambi i sistemi: massimizzare il piacere e minimizzare il dolore, mantenere un sistema di concetti stabile e coerente per organizzare l’esperienza, mantenere le relazioni con gli altri, mantenere un’autostima positiva. In questo modo il soddisfacimento di essi fungerebbe da meccanismo di controlli e bilanci permettendo al comportamento di rimanere entro limiti adattivi.

Liste di sistemi indipendenti

La teoria dell’autodeterminazione (Deci & Ryan, 1980) assume l’esistenza di tre bisogni di base: bisogno di autonomia (capacità di autoregolazione); bisogno di competenza (efficacia nell’interazione con l’ambiente); bisogno di essere in relazione con altri in modo autentico e significativo. Il soddisfacimento dei bisogni di autonomia e competenza è necessario affinché la persona riesca a motivarsi da sé, indipendentemente dai risultati che l’ambiente gli paventa (motivazione intrinseca). Il soddisfacimento del bisogno di relazione ha un ruolo nel processo di internalizzazione di leggi, regole, prescrizioni culturali, nell’adozione di abiti di pensiero e nell’impegno in azioni collaborative.

Il grado maggiore di vitalità, flessibilità psicologica e di un senso profondo di benessere, si presentano per l’individuo quando tutti e tre i bisogni sono soddisfatti.

Considerare le diverse teorie dei bisogni in base ai livelli di analisi e alla struttura che mette in relazione i bisogni considerati può rivelarsi un’euristica efficace per identificare in base a quali relazioni concettuali cercare risultati di ricerca empirica a sostegno della produzione di un quadro integrativo. Questo è ciò che si cercherà brevemente di mostrare nel prossimo contributo, ispirato, come i precedenti, dalle analisi di Pittman e Zeigler (2007).

 

L’età tradita (2021) di Matteo Lancini – Recensione del libro

Che senso ha il dolore? Per quale motivo non si riesce a trasformarlo in parole? Che cosa rende impossibile un’espressione diversa, meno drammatica della sofferenza sperimentata dal giovane paziente? Queste alcune tematiche affrontate nel volume L’età tradita.

 

Dalla privilegiata prospettiva di psicologo e psicoterapeuta dell’adolescenza, Matteo Lancini delinea un ritratto realistico ed aggiornato di giovani e giovanissimi, smontando uno per uno gli stereotipi che circondano la loro figura, con il fine ultimo di indicare agli adulti la strada da percorrere per svolgere al meglio il proprio ruolo e ‘vedere’ finalmente gli adolescenti per ciò che sono.

Sin dalle prime righe, è possibile riconoscere un puntuale esempio del pensiero stereotipato adulto nei confronti dei giovani, che risale agli albori della pandemia, in quel Marzo 2020 durante il quale Lancini pubblicò una lettera rivolta agli adolescenti che invitava gli adulti a riflettere sulle contraddizioni educative degli ultimi decenni e assumersi le proprie responsabilità.

Nella lettera – con cui l’autore ha deciso di aprire il saggio L’età tradita – si ricorda che, nel weekend a cavallo tra il 7 e l’8 Marzo 2020, un grande parco milanese era stracolmo di persone di ogni età, che volevano godersi un anticipo di primavera, anche genitori e nonni. Tuttavia, nei giorni immediatamente successivi, fu avviata ‘una dissennata campagna di sensibilizzazione nei riguardi della giovane popolazione italiana’: gli adolescenti, accusati di aver trascorso quel weekend a divertirsi, incuranti del virus, furono descritti come giovani ‘onnipotenti, trasgressivi, individualisti, nichilisti, privi di qualsiasi valore’. Si concentrano così una serie di confortevoli luoghi comuni, sedimentati nella visione adulta da anni.

Eppure, la pandemia potrebbe rappresentare l’occasione migliore per accrescere il nostro grado di consapevolezza, osservare le evidenti contraddizioni presenti nei modelli educativi e formativi, e abbandonare la visione stereotipata della fascia giovanile. Un’occasione unica per ascoltare davvero l’appello dei ragazzi che riempiono le neuropsichiatrie di tutta Italia, che vivono un’ansia senza precedenti, che meditano di togliersi la vita, che si servono del proprio corpo come megafono per un dolore muto che non trova parole.

Secondo Lancini, risulta necessario abbattere alcuni clichés che riguardano gli adolescenti, visioni stereotipate del mondo psichico e affettivo dei giovani, costruite in base al senso comune, fondate su una concezione anacronistica degli adolescenti.

Partendo dal ribadire la necessaria distinzione tra infanzia e adolescenza, Lancini evidenzia come, al cambiamento della visione dei bambini, sin da subito sostenuti nella loro intenzionalità, espressività, creatività e socializzazione, non è corrisposto un cambiamento nel modo di guardare gli adolescenti, sottoposti a rigide regole, divieti e paletti. In altre parole, è in corso un processo di adultizzazione del bambino, a cui fa seguito un’infantilizzazione dell’adolescente. È la più importante emergenza educativa e formativa italiana (Lancini, 2021).

Da questo punto di vista, viene rimarcata l’importanza di responsabilizzare i ragazzi, più che accusarli di essere diventati irresponsabili: occorre puntare su modelli formativi cooptativi piuttosto che passivizzanti, fondati sul senso della responsabilità più che sul controllo e la sottomissione ad una supposta autorità adulta.

È chiaro a pochi che il funzionamento affettivo, psichico e relazionale degli adolescenti del nuovo millennio è molto diverso dal passato: non si tratta più di giovani oppositivi e trasgressivi in nome della realizzazione delle proprie esigenze e dei propri impulsi sessuali, scoraggiati durante l’infanzia, ma di giovani soggetti precocizzati, con elevate capacità relazionali, narcisisticamente fragili in quanto alla costante ricerca di successo, popolarità e bellezza (Lancini, 2021).

Sono noti a molti i significativi cambiamenti fisici, cognitivi e comportamentali, che caratterizzano l’epoca dell’adolescenza, comunemente attribuiti all’incremento ormonale che promuove lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari; il fervente sviluppo cerebrale, inoltre, innesca e sostiene la spinta all’autonomia e alla sperimentazione di sé, la creatività e la ricerca identitaria, tipici di questa fase (Lancini, 2021).

Tuttavia, spesso le fondamentali scoperte delle neuroscienze – per esempio, l’iperattivazione del sistema limbico e la mancanza di controllo emotivo da parte della corteccia prefrontale – vengono interpretate e adottate per sostenere una visione culturale stereotipata dell’adolescente, come soggetto immaturo e strutturalmente disinibito, impulsivo e incapace di porre freno alle proprie azioni, governato da un’insaziabile fame di dopamina che lo spinge a divorare qualsiasi sostanza, alcolica o psicotropa.

Pur riconoscendo l’innegabile importanza delle recenti scoperte neuroscientifiche sulle trasformazioni cerebrali in fase adolescenziale, Lancini mette in guardia dal rischio di utilizzare questi studi come modello interpretativo univoco e totalitario a spiegazione del comportamento individuale.

Infatti, ciascun essere umano è caratterizzato da un funzionamento affettivo e psichico unico, che dipende da una molteplicità di variabili, come la biografia presente e passata del soggetto. Con una perifrasi calzante relativa alla sua pratica clinica come psicoterapeuta, Lancini afferma che sia necessario ‘raggiungere l’adolescente là dove è’ (Lancini, 2021).

In altri termini, è essenziale considerare la sintomatologia adolescenziale, che si traduce spesso in una manifestazione agita, come l’espressione del dolore evolutivo dell’adolescente, una sofferenza a cui cercare di donare un senso, un significato, a partire da ciò che il ragazzo ha vissuto nella sua storia passata, ma soprattutto da ciò che sente stia accadendo in questo momento, mentre sta fronteggiando i difficili compiti evolutivi di questa complessa fase di svincolo.

A questo proposito, Lancini (2021) evidenzia il duplice valore del sintomo adolescenziale: da una parte, è funzionale alla comunicazione del proprio profondo disagio agli altri; dall’altra, è una personale forma di cura, rudimentale e disfunzionale, ma utile a lenire il dolore e la sofferenza sperimentati.

La crisi evolutiva vissuta, inesprimibile a parole, si traduce quindi in un’azione, in un comportamento drammatico, esasperato, a tratti insensato, spesso pericoloso.

Ecco alcuni degli interrogativi, clinicamente significativi, da porsi: che senso ha il dolore? Per quale motivo non si riesce a trasformarlo in parole? Che cosa rende impossibile un’espressione diversa, meno drammatica della sofferenza sperimentata dal giovane paziente? (Lancini, 2021).

Innumerevoli i luoghi comuni che circondano la figura dell’adolescente, i più ricorrenti riguardano il senso di onnipotenza e immortalità e la spinta trasgressiva.

È diffusa nell’immaginario collettivo la figura degli adolescenti come giovani impavidi di fronte alla morte, immersi in situazioni pericolose, con la credenza illusoria di essere immortali. In realtà, l’adolescenza è l’età che segna la fine dell’onnipotenza infantile, perché si è costretti a fare i conti con un dato di realtà, la morte e i propri limiti; per questo, l’adolescente ricercherebbe attivamente situazioni in cui sperimentare paura (film horror, lanci nel vuoto, giostre al lunapark), perché la paura fa parte della crescita (Lancini, 2021).

Ancora più radicato lo stereotipo del giovane ribelle, che rimanda alle contestazioni giovanili del ’68 con le quali si tentava di abbattere i dettami sociali e le rigide regole provenienti da una cultura patriarcale, sessuofobica e normativa.

Tuttavia, la ribellione, per come era concepita anni fa, è scomparsa dagli orizzonti di crescita per lasciare spazio alla delusione individuale dell’adolescente.

In passato, ci si opponeva all’adulto, accusato di aver limitato e mortificato le proprie intenzionalità e manifestazioni di sé sin dalla tenera età, e si combatteva per i propri ideali e valori, per una sessualità e un desiderio liberi, al fine di esprimere finalmente se stessi.

Adesso, gli adolescenti sperimentano profondi sentimenti di vergogna e senso d’inadeguatezza per ciò che sono diventati, rispetto agli ideali di bellezza, successo e popolarità coltivati durante l’infanzia, un senso di delusione per le aspettative disattese, proprie, genitoriali e di una società individualista, sempre più performante e competitiva (Lancini, 2021).

A questo proposito, Lancini esamina l’assunzione frequente di sostanze alcoliche e stupefacenti tra i giovani, rintracciandone una valenza diversa dal passato: non più un gesto oppositivo e trasgressivo, ma un consumo dalla funzione lenitiva e anestetica, a volte antidolorifica, che risponde a un disagio profondo dell’adolescente. Lo sballo, ricercato mediante l’uso costante di sostanze, quali l’alcool e la cannabis, costituirebbe una forma di automedicazione a cui ricorrere nel momento in cui la noia è così soverchiante da far male, l’incertezza e la sensazione di fallimento paralizzano e annientano qualsiasi possibilità di prospettiva futura.

‘È tutta colpa di Internet’ è la dichiarazione che esprime lo stereotipo difensivo per antonomasia degli adulti, un diffusissimo luogo comune che attribuisce all’uso smodato di Internet una serie di problematiche e fenomeni giovanili, come il mancato riposo a causa dell’uso notturno dello smartphone e addirittura l’aumento dei comportamenti suicidari.

Ciò testimonia la fragilità adulta, piena di contraddizioni, che tende a ignorare di essere stata lei stessa promotrice di una rivoluzione digitale e di aver imposto ai giovani di nascere e crescere online, in una società perennemente connessa. Non a caso, Lancini (2021) ricorda che ‘il consumo tecnologico nasce in famiglia e la prima spacciatrice di smartphone in Italia è la mamma’.

A questo proposito, risulta molto interessante l’analisi del fenomeno del ritiro scolastico e sociale degli hikikomori, adolescenti prevalentemente maschi, che attuano un’autoreclusione volontaria in casa, agendo una sorta di suicidio sociale proprio nel mondo in cui dovrebbero accrescere la propria rete di socialità. È insensato ricondurre la complessa dinamica alla base di questo fenomeno, nato inizialmente in Giappone ma ormai diffuso in moltissime nazioni, ad una diagnosi di dipendenza da Internet o da videogiochi. In realtà, il ritiro nasce dal tentativo di lenire un dolore insopportabile, legato a vissuti di vergogna e inadeguatezza sperimentati nel corso delle trasformazioni adolescenziali (Lancini, 2021). Ci si sente non abbastanza belli e/o all’altezza degli standard sociali, per cui ci si rifugia nell’ambiente virtuale, per mantenere un contatto con quanto accade nel mondo e usufruire di occasioni di socializzazione con i coetanei, mediante, per esempio, videogiochi online.

Internet è la difesa dei ritirati, media il dolore che sperimentano, non è la causa dell’abbandono
scolastico e del suicidio sociale scrive Lancini (2021).

Durante tutto lo scorrere del testo, Lancini propone una disamina chiara dell’attuale società massmediatica – “la società del narcisismo, dell’individualismo, della competizione, del successo a tutti i costi, dell’iperidealità, della rimozione della solitudine e del dolore” – pienamente responsabile dello sviluppo di giovani e giovanissimi, a partire dai modelli di identificazione proposti quotidianamente, dalla povertà educativa e dall’arretratezza delle offerte formative (Lancini, 2021).

Emerge con forza la necessità di una rivoluzione affettiva e relazionale da parte degli adulti, come motore profondo di un cambiamento educativo e formativo.

Il saggio si conclude con la narrazione di vari casi clinici in cui le storie dei vari Arianna, Fabrizio, Pierfrancesco, Giovanna e Telemaco si alternano, dando prova di profonde capacità riflessive, maturate nel corso della pandemia, e smontando così, per l’ultima volta, i clichés adulti.

All’interno di questo saggio, Lancini risponde in modo chiaro a quell’esigenza adulta, così diffusa in un’epoca complessa, caotica e incerta come la nostra, di un manuale d’istruzioni, rimarcando l’impossibilità e insensatezza di fornire delle direttive precise o proporre formulari specifici, senza tralasciare i profondi risvolti di ogni storia individuale e familiare, senza tradire l’unicità e specificità delle difficoltà, fatiche e sofferenze di adolescenti, giovani adulti e genitori.

 

Come violenza sul posto di lavoro, stress occupazionale e prestazioni sostenibili si influenzano vicendevolmente

Nel 2020, Rasool, Wang e colleghi hanno condotto uno studio  per analizzare le relazioni tra la violenza sul lavoro, lo stress occupazionale e la performance lavorativa sostenibile.

 

La violenza sul posto di lavoro

La violenza sul posto di lavoro (Workplace Violence – WV) solitamente si manifesta come un abuso fisico o una minaccia che influenza e mette a rischio la sicurezza e la salute di un dipendente (Rasool et al., 2020). Le relazioni tra colleghi non sempre sono positive e contribuiscono a creare un ambiente di lavoro produttivo, a volte si creano delle interazioni negative che portano tossicità tra i professionisti. Una delle maggiori cause di tali interazioni negative è infatti la violenza sul lavoro che spesso deteriora le prestazioni lavorative, alimenta i problemi tra i dipendenti provocando stress tra i lavoratori e angoscia nei manager (Rasool et al., 2019). Inoltre, spesso accade che eventi stressanti in vari ambiti della vita familiare o in un contesto amicale creino un elevato carico psicologico che influenza le prestazioni lavorative; le persone che sperimentano tale stress, definito anche stress occupazionale (OS), molte volte sono rassegnate a sopportare la violenza sul posto di lavoro senza rivelare le loro problematiche per paura di essere discriminate. Ciò riduce la motivazione dei lavoratori e di conseguenza la loro efficienza (Evans-Lacko & Knapp, 2018).

Nel 2015, Ferris e Lian hanno individuato quattro dimensioni della violenza sul posto di lavoro: la molestia, che è definita come l’umiliazione di una persona da parte di un’altra sul posto di lavoro (Burges et al., 2018); il mobbing che invece è una forma di bullismo nei confronti di un individuo da parte di un gruppo in qualunque contesto (non soltanto lavorativo) (Leymann, 1990); l’ostracismo, che prevede l’isolamento percepito da un dipendente in un ambiente lavorativo causato da colleghi o datori di lavoro che provoca mancanza di coinvolgimento e insoddisfazione lavorativa; infine lo stalking, che con il tempo può sfociare in violenza (Mullen et al., 2002).

Il legame tra violenza sul posto di lavoro e la performance

Frequentemente accade che questi fattori, identificati con il termine di Workplace Violence, influenzino le performance lavorative sostenibili (SWP), che sono definite come il coordinamento di obiettivi finanziari, ambientali e sociali nella realizzazione delle attività lavorative fondamentali con il fine di massimizzarne il valore (de Jonge & Peeters, 2019). La workplace violence diminuisce quindi l’impegno lavorativo creando insoddisfazione e danneggiando la produttività: distruggendo il benessere psicologico e i comportamenti delle persone sul posto di lavoro riduce infatti non solo le risorse psicologiche di ciascun lavoratore, ma soprattutto i legami tra colleghi. Inoltre provoca elevati livelli di ansia, depressione e turnover dei dipendenti (Anjum & Ming, 2018). Numerosi studi in passato hanno infatti dimostrato che la workplace violence ha un impatto negativo sulle prestazioni sostenibili (de Jonge & Peeters, 2019; Rasool & Koser 2016); nessuno di questi, però, ha mai analizzato il ruolo dello stress occupazionale e come quest’ultimo si relazioni con la violenza sul posto di lavoro e le performance lavorative sostenibili. Lo stress occupazionale solitamente è percepito dagli individui quando sono valutati sulla base di richieste troppo elevate da soddisfare, di conseguenza il successo viene visto come qualcosa di irraggiungibile e lo stress aumenta. Alcuni studi hanno però dimostrato che la violenza lavorativa aumenta lo stress occupazionale che influenza la performance organizzativa sostenibile. Inoltre lo stress occupazionale influenza la capacità decisionale dei dipendenti, aumenta i tassi di turnover e l’assenteismo e, nei casi più estremi, può portare a tentativi di suicidio (Evans-Lacko & Knapp, 2018): i lavoratori che sperimentano un’elevata pressione lavorativa spesso soffrono di malattie mentali e manifestano sintomi come ansia, aggressività e isolamento (Laguna et al., 2017).

Uno studio su violenza sul posto di lavoro, stress e performance

Nel 2020, Rasool, Wang e colleghi hanno condotto uno studio per analizzare le relazioni tra la violenza sul posto di lavoro, lo stress occupazionale e la performance lavorativa sostenibile. In particolare gli autori hanno tentato di approfondire in che modo la violenza sul posto di lavoro (molestie, mobbing, ostracismo e stalking) influenzi la performance lavorativa sostenibile e come lo stress occupazionale intervenga tra queste due variabili. Hanno preso parte alla ricerca 345 medici, infermieri e personale sanitario appartenenti a 15 ospedali in Pakistan, completando un questionario composto da 48 item, creato appositamente per verificare le variabili d’interesse. Tale questionario includeva dunque 10 item che indagavano gli elementi di molestia (Rasool et al., 2019); 8 item per analizzare il mobbing estrapolati da un test di Vveinhardt e Streimikiene (2015); 10 item sviluppati da Rasool e colleghi (2019) per misurare l’ostracismo e, infine, 9 item per misurare lo stalking (Acquadro Maran e Varetto, 2018).

I risultati mostrano che ciascuna dimensione della Working Violence individuata da Ferris e Lian influenza negativamente la performance lavorativa sostenibile. In particolare il mobbing riduce la produttività aumentando i livelli di irritabilità, stress, ansia, depressione e assenze lavorative. Le molestie sembrano invece ridurre il morale dei dipendenti con una conseguente diminuzione delle loro prestazioni lavorative. L’ostracismo provoca una riduzione della motivazione che riduce l’efficienza lavorativa, e lo stalking genera interazioni negative tra colleghi che creano tossicità e minano il rendimento lavorativo. Infine, come ipotizzato, lo stress occupazionale media tra molestie, mobbing, ostracismo, stalking e performance lavorative sostenibili. La maggior parte dei lavoratori che sperimentano elevato stress professionale, però, non lo esprime poiché non ne ha consapevolezza. I risultati ottenuti forniscono alcune indicazioni pratiche per ridurre la violenza lavorativa, diminuire lo stress e aumentare le prestazioni sostenibili: in primo luogo le aziende dovrebbero focalizzarsi sull’organizzazione di alcuni aventi salutari per i propri dipendenti (e.g. eventi sportivi o familiari); secondariamente i manager, una volta identificati i dipendenti che maggiormente causano la workplace violence, dovrebbero offrire loro una formazione che gli fornisca alcune competenze tra cui la gestione del tempo e dello stress e abilità relazionali per rapportarsi in un modo più efficace con i colleghi. Infine ciascuna organizzazione dovrebbe promuovere un ambiente di lavoro positivo che favorisca la cooperazione interpersonale tra i dipendenti (Rasool et al., 2020).

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il settimo episodio è dedicato all’irresponsabilità

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la settima puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite la Dott.ssa Antonella Gemelli. Si parlerà di Irresponsabilità, ovvero l’inadempienza nel rispettare e nel portare a termine accordi e promesse. Quali sono le caratteristiche di una persona irresponsabile? Scopritelo nel settimo episodio.

Dove ascoltare il settimo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il settimo episodio su:

 

La Mindfulness per il trattamento di PTSD e Trauma

Le terapie basate sulla Mindfulness si rivelano utili nel trattamento del PTSD proprio perché si focalizzano sul momento presente e in modo non giudicante.

 

La Mindfulness, riprendendo la definizione di John Kabat-Zinn, coincide con un atteggiamento di consapevolezza e di accettazione verso l’esperienza vissuta nel momento presente, a cui si assiste in modo non giudicante. Da tempo ormai viene utilizzata per il trattamento della riduzione dell’ansia, dei sintomi della depressione e per le conseguenze psicologiche del dolore cronico, soprattutto grazie al Protocollo MBSR: Mindful-based Stress Reduction (Goldsmith, et al., 2014).

Negli ultimi anni si è sviluppato sempre di più l’utilizzo delle terapie Mindful-based anche per il trauma. Si stima che circa il 65-70% della popolazione Americana viva nel corso della vita almeno un evento potenzialmente traumatico (Boyd, et al., 2018): tra quelli più diffusi ritroviamo la violenza sessuale, il maltrattamento infantile, gli incidenti stradali. Il PTSD è una patologia che può svilupparsi in seguito all’esperienza diretta o indiretta di un evento traumatico, generalmente legato alla morte o alla minaccia di morte, e si presenta con sintomatologia di risperimentazione, come ad esempio i flashback, di evitamento e di iperattivazione, come irritabilità, isolamento, disturbi del sonno.

Quali possono essere i risvolti dell’utilizzo della Mindfulness per il trattamento del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD)?

Le terapie basate sulla Mindfulness si rivelano utili proprio perché si focalizzano sul momento presente e in modo non giudicante: rimanere ancorati al qui ed ora permette infatti di non reagire in modo automatico nel momento in cui compaiono memorie e pensieri intrusivi, flashback e strategie di coping basate sull’evitamento (Boyd, et al., 2018). La pratica strutturata della Mindfulness permette di agire sul sistema nervoso, riducendo l’iper-attivazione della risposta parasimpatica determinata dal PTSD e aiutando la stimolazione della corteccia prefrontale, dedicata ai processi di decisione consapevole.

La Mindfulness può inoltre aumentare l’accettazione dell’esperienza traumatica, che viene rivissuta non in una forma più tradizionalmente narrativa, ma attraverso l’osservazione non giudicante della memoria traumatica e dei suoi connotati emotivi. L’attenzione sul presente permetterebbe quindi di agire su alcuni dei nuclei centrali del PTSD, come l’evitamento, l’iperarousal, le emozioni tipiche della patologia, come il senso di colpa e la vergogna, ma anche sulla dissociazione.

Da un lato l’attenzione consapevole sul qui ed ora riduce la ruminazione, e di conseguenza i livelli di ansia; dall’altro l’atteggiamento non giudicante permette di coltivare la volontà di affrontare stimoli potenzialmente triggeranti, riducendo l’evitamento e sviluppando anche l’accettazione di emozioni dai connotati negativi, come vergogna e senso di colpa. In particolare, l’approccio della Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), che sintetizza i principi della terapia cognitivo comportamentale con quelli della Mindfulness, si focalizza sull’alterazione della cognizione e dell’umore: attraverso l’accettazione non giudicante di quelli che sono i pensieri legati all’esperienza traumatica permette di aumentare la compassione verso se stessi (Folette, et al., 2015), riducendo senso di colpa, rabbia e vergogna (Goldsmith, et al., 2014), emozioni che tendono a manifestarsi in modo molto forte e invalidante nel PTSD.

Un confronto tra Mindfulness e altri approcci di trattamento al PTSD

Dunque, la Mindfulness facilita la consapevolezza somatosensoriale ed emotiva (Boyd, et al., 2018), risultando di conseguenza efficace anche per contrastare i sintomi più tipicamente dissociativi connessi al vissuto traumatico, che generalmente sono più difficili da trattare in terapia. Confrontando infatti terapie incentrate sul momento presente come i protocolli MBSR con terapie ‘più tradizionali’ per il PTSD come la Cognitive Processing Therapy (CPT) e la Prolonged Exposure (PE), è stato possibile osservare da un lato un’efficacia comparabile tra i vari approcci e dall’altro invece livelli di drop-out significativamente più bassi nei trattamenti del trauma basati sulla Mindfulness (Frost, et al., 2014). Se, infatti, i livelli di drop-out per i trattamenti basati sulla Mindfulness si aggirano intorno al 10-22% (Cole, et al., 2015), in media i livelli dei trattamenti con PE e CPT si aggirano intorno al 35-40% (Schottenbauer, et al., 2008), andando ad evidenziare l’elevata tolleranza dei pazienti a questa tipologia di intervento.

 

Il transfert di Goliarda: “Il filo di mezzogiorno” di Goliarda Sapienza – Recensione

Mario Martone, con l’adattamento di Ippolita di Majo, porta alle scene Il filo di mezzogiorno, tratto dall’opera omonima autobiografica di Goliarda Sapienza, dedicato al complesso rapporto clinico con colui che la curò per anni dopo un ricovero in struttura psichiatrica a causa di un tentativo di suicidio.

 

Goliarda Sapienza (1924-1996) è un’importante scrittrice del novecento, divenuta nota solo dopo la sua morte, scoperta innanzitutto in Francia e grazie alla perseveranza e all’affetto del marito, l’attore Angelo Pellegrino. È stata anche attrice e docente di recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. I suoi genitori furono entrambi figure importanti dell’antifascismo. Il padre, socialista libertario, fu eletto nel 1947 all’Assemblea Costituente della Repubblica. La madre, di origine lombarda, giornalista e tra le prime donne sindacaliste italiane, fu mandata dal Partito Socialista nel 1920 a svolgere attività politica in Sicilia, ove si conobbero. Entrambi vedovi, con numerosa prole, fecero crescere la figlia in Sicilia in un ambiente libero, assolutamente dissonante con l’epoca. Goliarda, dopo aver vissuto molti anni a Roma, è morta a Gaeta, dove ha trascorso gli ultimi anni insieme al marito. Il suo romanzo più importante, in cui la protagonista Modesta è in larga parte una proiezione ideale e letteraria dell’autrice, è L’arte della gioia. Scritto tra il 1967 e il 1976, fu pubblicato postumo da Stampa Alternativa e solo successivamente, dopo il clamoroso successo all’estero, da Einaudi.

Mario Martone, con l’adattamento di Ippolita di Majo, porta alle scene Il filo di mezzogiorno, tratto dall’opera omonima autobiografica di Goliarda Sapienza, dedicato al complesso rapporto clinico con colui che la curò per anni dopo un ricovero in struttura psichiatrica a causa di un tentativo di suicidio. La rappresentazione descrive sia il mondo esterno, ovvero cosa avviene nel setting terapeutico, sia il mondo interno, dando voce ai pensieri, ai sogni e alle regressioni della paziente. Lo spettacolo teatrale, al di là del suo valore intrinseco, è quindi di grande interesse per gli psicoterapeuti e, più in generale, per tutti coloro che desiderano conoscere cosa avviene nelle stanze degli analisti. Commento le vicende raccontate, così come sono presentate nei dialoghi teatrali, senza entrare nel merito della valutazione artistica, di cui non sono competente.

Il medico in questione è Ignazio Majore, anch’egli di origine siciliana (Majore iniziò la sua analisi didattica nel 1952, fu nominato analista didattico della SPI nel 1960, ed è stato il più giovane analista didatta italiano. Nel 1965 si dimise dalla SPI per divergenze teoriche e di prassi, dando vita ad un proprio modello definito ‘Analisi Mentale’). A lui si rivolse il regista Citto Maselli, allora compagno di Goliarda, con la richiesta di una presa in carico analitica, preoccupato degli esiti delle cure mediche tradizionali. Majore accetta e si reca a casa della paziente per 5 volte alla settimana, proprio alle ore 12. Da qui il titolo del libro, ed il filo da riannodare è quello che deve riportare la paziente a ricordare la propria identità, dimenticata a causa dei numerosi elettroshock a cui è stata sottoposta. Il trattamento dura un lungo periodo e si può dire che abbia successo, nel senso che Goliarda lentamente si riappropria della propria memoria e della propria storia, riconoscendo anche la propria vocazione di scrittrice. All’inizio lei è molto confusa, smarrita, poco autonoma, preda dei suoi incubi. Lui invece procede sicuro, certo dell’efficacia del suo metodo. Tuttavia, il prezzo del trattamento è alto, così come l’impegno richiesto sia al terapeuta che alla paziente. La relazione terapeutica diventa sempre più intensa e il dottore talvolta non sa rispondere alle domande della paziente. In una scena, ella nota la scomparsa della fede nuziale dalla mano dell’uomo, che si giustifica dicendo di averla persa, con una probabile menzogna. Il confronto con la personalità affascinante e l’intelligenza profonda di Goliarda ha così conseguenze importanti nella vita dell’analista, che è messa in discussione dall’intensità di questo rapporto. Alla fine, è lui ad essere confuso e messo in contatto con le proprie fragilità che non riesce a padroneggiare. Prevale la libertà di giudizio, l’acume e la lucidità della paziente, mentre l’analista rimane imbrigliato nelle sue gabbie interpretative. Prigioniero del terribile meccanismo relazionale a cui lui stesso aveva dato vita.

Certamente, il paternalismo del medico e alcune sue battute appaiono storicamente superate e l’intelligenza della paziente appare sicuramente più contemporanea (ovviamente, si deve tener conto che l’opera è scritta a partire dai ricordi della paziente e non è nota l’opinione in merito del terapeuta). In ogni caso, fu lei a decidere di interrompere definitivamente il trattamento, con un telegramma che non concedeva replica, non reggendo più il peso di un innamoramento rifiutato dal suo analista, mentre lui si era sempre rifiutato di inviarla ad un collega.

Non credo che si debba legare questo esito solo ad errori dello psicoanalista, attribuibili al fatto che in quegli anni la psicoanalisi era ancora quasi agli albori in Italia, o alle anomalie del setting (la terapia avviene a domicilio e su richiesta del marito della paziente che, successivamente, diventerà lui stesso per un periodo analizzato da Majore). Mi sembra, piuttosto, che il testo e la sua messa in scena teatrale colgano l’essenza del problema: il fascino e il limite della psicoanalisi. Questa, per la durata e l’intensità del rapporto, richiede necessariamente un forte coinvolgimento emotivo ed affettivo. Cosa avviene se si incontrano da soli, un uomo e una donna, per un’ora al giorno, per anni, senza toccarsi ma liberamente, uno parla e l’altro ascolta? Quando questo sentimento si esprime, diviene poi riduttivo attribuirlo soltanto ad ‘un trasferimento’? È questa la questione di fondo, ineludibile, e, pare che, alla fine, la paziente fosse più consapevole del suo analista, nel consigliargli per il futuro di procedere, camminando ‘muru muru’.

A lui va certamente riconosciuto il merito di un impegno profondo nel dedicarsi ad una ‘mission impossible’ e anche una coerenza al proprio metodo di lettura del mondo, che sfiora la cocciutaggine.

Infine, alcune curiosità biografiche. Nelle note, Martone ‘confessa’ il suo affetto per il proprio psicoanalista: il compianto Andreas Giannakoulas, scomparso lo scorso anno, alla cui memoria dedica lo spettacolo. Altre piccole curiosità legate al cinema: Ignazio Majore compare con un’intervista nel film-documentario E il Casanova di Fellini? (1975), mentre suo figlio Stefano, nel film Roma di Fellini impersona il regista da bambino, in una scena ambientata a Rimini in cui osserva passare un treno diretto alla capitale.

Dopo la tappa di Napoli, l’allestimento teatrale, che ha debuttato lo scorso anno, sarà, nel primo semestre del 2022, a Modena, Torino, Catania, Macerata, Milano e Roma.

 

Bilinguismo, creatività e funzioni esecutive: why two languages are better than one

Se il bilinguismo migliora le prestazioni in alcune funzioni cognitive, e se queste funzioni cognitive sono a loro volta legate alla creatività, il bilinguismo potrebbe aumentare la capacità creativa attraverso il miglioramento del funzionamento cognitivo.

 

Introduzione

La creatività è l’atto di tramutare idee originali e fantasiose in realtà. È caratterizzata dalla capacità di percepire il mondo in modi nuovi, di trovare schemi nascosti, di fare collegamenti tra fenomeni apparentemente non collegati e di trovare soluzioni (Sternberg & Lubart, 1995). Alcuni studi hanno suggerito che la creatività può essere influenzata da differenti variabili cognitive, come le funzioni esecutive, l’attenzione selettiva, la velocità di elaborazione, e dal fatto di essere bilingue (Kharkhurin, 2017). Tuttavia, l’influenza del bilinguismo sulla creatività non è ben nota. Secondo la teoria di Cummins (1983) i bilingui devono raggiungere un certo livello di competenza in entrambe le lingue per sviluppare un migliore controllo cognitivo. In linea con ciò, è stato dimostrato che coloro che possiedono una maggiore padronanza di entrambe le lingue tendono a mostrare livelli più alti di creatività rispetto a quelli in cui emerge la prevalenza di una lingua sull’altra (Lee & Kim, 2011). Oltre alla creatività, il bilinguismo influenza anche altre funzioni neurocognitive, tra cui le funzioni esecutive (Bialystok, 2011). Esse consistono nella generazione, nel mantenimento e nella regolazione di strategie volte a raggiungere gli obiettivi di un dato compito (Barkley, 2012). Si ritiene che le funzioni esecutive giochino un ruolo fondamentale nel momento in cui i bilingui devono passare da una lingua all’altra, quindi selezionare la lingua richiesta e inibire la lingua indesiderata.

La letteratura su creatività, bilinguismo e cognizione avanza l’ipotesi che, se il bilinguismo migliora le prestazioni in alcune funzioni cognitive, e se queste funzioni cognitive sono a loro volta legate alla creatività, il bilinguismo dovrebbe aumentare la capacità creativa attraverso il miglioramento del funzionamento cognitivo (Ghonsooly & Showqi, 2012). Nonostante sussistano prove per una migliore performance nella creatività e nelle funzioni esecutive nelle persone bilingui e per la relazione tra creatività e funzioni esecutive (Edl et al., 2014), non è chiaro se le funzioni esecutive agiscono come mediatori nella relazione tra bilinguismo e creatività.

Uno studio su bilinguismo, creatività e funzioni esecutive

Sampedro e Peña (2019) hanno tentato di dipanare la questione analizzando il ruolo di diverse funzioni neurocognitive (funzioni esecutive, attenzione selettiva e velocità di elaborazione) nella relazione tra il livello di bilinguismo e la creatività. In questo studio sono stati coinvolti 224 studenti di Biscay, una provincia del territorio Basco in Spagna. Nel ‘País Vasco’ esistono due lingue ufficiali: spagnolo e basco. Di conseguenza le scuole possono avere classi spagnole, basche, bilingue o trilingue (+inglese).

Per misurare i livelli di creatività dei partecipanti sono state selezionate delle attività dal Torrance Test of Creative Thinking (Torrance, 1966; Jiménez, Artiles, Rodríguez, and García, 2007; Jiménez, Artiles, Rodríguez, & García, 2007), di cui tre principali, che consistevano nella costruzione di un’immagine, nel completamento di immagini parzialmente disegnate e creare un’immagine con delle linee predefinite. La prima attività consisteva nel creare un’immagine utilizzando degli ovali, la seconda nel completare delle figure non definite basandosi su più idee possibili e l’ultima nel creare delle immagini partendo da due linee parallele.

Per valutare la creatività verbale sono state selezionate due attività tratte dal Torrance Test of Creative Thinking (Torrance, 1966): ‘fare domande’ ed ‘utilizzo inappropriato’. Per quanto riguarda il primo compito, ai partecipanti è stato chiesto di scrivere più domande possibili su una bottiglia di plastica, mentre per la seconda attività è stato chiesto ai partecipanti di scrivere un elenco di utilizzi inappropriati di un sacchetto di plastica. Per svolgere le attività sulla creatività, i partecipanti avevano a disposizione 30 minuti.

Le funzioni esecutive sono state valutate utilizzando il Five Point Test (FPT; Regard, Strauss, & Knapp, 1982), che solitamente viene utilizzato per misurare la flessibilità cognitiva.

L’attenzione selettiva è stata valutata grazie al Test d2 (Brickenkamp, 2012), che misura l’attenzione selettiva e la concentrazione. Per valutare la velocità di elaborazione è stato utilizzato il Salthouse Perceptual Comparison Test (Salthouse & Babcock, 1991).

Per quanto riguarda la padronanza linguistica, i partecipanti sono stati divisi in tre gruppi (alta, media e bassa padronanza del bilinguismo), secondo due criteri principali: modello linguistico proposto a scuola ed autovalutazione degli studenti rispetto al proprio livello linguistico, alla frequenza di utilizzo delle varie lingue ed i vari ambiti di utilizzo (lettura, dialoghi, scrittura e comprensione).

La relazione tra livelli di bilinguismo, creatività e funzioni esecutive

I dati emersi rivelano che le funzioni esecutive sono mediate dal livello di bilinguismo e dalla creatività verbale e figurale. Nello specifico, i partecipanti con livelli di bilinguismo alto e basso erano associati a risultati migliori nelle funzioni esecutive e correlavano con punteggi più elevati nel campo della creatività verbale e figurale rispetto a quelli con bilinguismo di livello medio.

Dal campione è emerso che il gruppo con bassa padronanza di bilinguismo ha ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto al gruppo con padronanza media nelle funzioni esecutive. Ciò può essere in parte spiegato attraverso la teoria sopracitata di Cummins (1983), secondo cui non solo bisogna avere una buona conoscenza di entrambe le lingue per beneficiare degli effetti del bilinguismo, ma una competenza insufficiente in una delle due lingue può addirittura comportare un peggior funzionamento cognitivo rispetto alle persone monolingue. Tuttavia, bisogna considerare che altri fattori relativi all’acquisizione del linguaggio potrebbero aver influenzato questi risultati (Daller & Ongun, 2018; Kavé et al., 2008; Luk et al., 2011). Per quanto concerne l’attenzione selettiva, non sono state riscontrate differenze tra i gruppi. Per quanto riguarda la creatività, il gruppo con un alto livello di bilinguismo ha ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto a quelli con un livello medio di bilinguismo nella creatività verbale e figurale, e significativamente più alti rispetto al gruppo di basso livello di bilinguismo nella creatività figurale. In conclusione, dallo studio è stato riscontrato che la velocità di elaborazione, l’attenzione selettiva e le funzioni esecutive sono correlate positivamente e significativamente con la creatività.

 

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