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Bilinguismo, creatività e funzioni esecutive: why two languages are better than one

Se il bilinguismo migliora le prestazioni in alcune funzioni cognitive, e se queste funzioni cognitive sono a loro volta legate alla creatività, il bilinguismo potrebbe aumentare la capacità creativa attraverso il miglioramento del funzionamento cognitivo.

 

Introduzione

La creatività è l’atto di tramutare idee originali e fantasiose in realtà. È caratterizzata dalla capacità di percepire il mondo in modi nuovi, di trovare schemi nascosti, di fare collegamenti tra fenomeni apparentemente non collegati e di trovare soluzioni (Sternberg & Lubart, 1995). Alcuni studi hanno suggerito che la creatività può essere influenzata da differenti variabili cognitive, come le funzioni esecutive, l’attenzione selettiva, la velocità di elaborazione, e dal fatto di essere bilingue (Kharkhurin, 2017). Tuttavia, l’influenza del bilinguismo sulla creatività non è ben nota. Secondo la teoria di Cummins (1983) i bilingui devono raggiungere un certo livello di competenza in entrambe le lingue per sviluppare un migliore controllo cognitivo. In linea con ciò, è stato dimostrato che coloro che possiedono una maggiore padronanza di entrambe le lingue tendono a mostrare livelli più alti di creatività rispetto a quelli in cui emerge la prevalenza di una lingua sull’altra (Lee & Kim, 2011). Oltre alla creatività, il bilinguismo influenza anche altre funzioni neurocognitive, tra cui le funzioni esecutive (Bialystok, 2011). Esse consistono nella generazione, nel mantenimento e nella regolazione di strategie volte a raggiungere gli obiettivi di un dato compito (Barkley, 2012). Si ritiene che le funzioni esecutive giochino un ruolo fondamentale nel momento in cui i bilingui devono passare da una lingua all’altra, quindi selezionare la lingua richiesta e inibire la lingua indesiderata.

La letteratura su creatività, bilinguismo e cognizione avanza l’ipotesi che, se il bilinguismo migliora le prestazioni in alcune funzioni cognitive, e se queste funzioni cognitive sono a loro volta legate alla creatività, il bilinguismo dovrebbe aumentare la capacità creativa attraverso il miglioramento del funzionamento cognitivo (Ghonsooly & Showqi, 2012). Nonostante sussistano prove per una migliore performance nella creatività e nelle funzioni esecutive nelle persone bilingui e per la relazione tra creatività e funzioni esecutive (Edl et al., 2014), non è chiaro se le funzioni esecutive agiscono come mediatori nella relazione tra bilinguismo e creatività.

Uno studio su bilinguismo, creatività e funzioni esecutive

Sampedro e Peña (2019) hanno tentato di dipanare la questione analizzando il ruolo di diverse funzioni neurocognitive (funzioni esecutive, attenzione selettiva e velocità di elaborazione) nella relazione tra il livello di bilinguismo e la creatività. In questo studio sono stati coinvolti 224 studenti di Biscay, una provincia del territorio Basco in Spagna. Nel ‘País Vasco’ esistono due lingue ufficiali: spagnolo e basco. Di conseguenza le scuole possono avere classi spagnole, basche, bilingue o trilingue (+inglese).

Per misurare i livelli di creatività dei partecipanti sono state selezionate delle attività dal Torrance Test of Creative Thinking (Torrance, 1966; Jiménez, Artiles, Rodríguez, and García, 2007; Jiménez, Artiles, Rodríguez, & García, 2007), di cui tre principali, che consistevano nella costruzione di un’immagine, nel completamento di immagini parzialmente disegnate e creare un’immagine con delle linee predefinite. La prima attività consisteva nel creare un’immagine utilizzando degli ovali, la seconda nel completare delle figure non definite basandosi su più idee possibili e l’ultima nel creare delle immagini partendo da due linee parallele.

Per valutare la creatività verbale sono state selezionate due attività tratte dal Torrance Test of Creative Thinking (Torrance, 1966): ‘fare domande’ ed ‘utilizzo inappropriato’. Per quanto riguarda il primo compito, ai partecipanti è stato chiesto di scrivere più domande possibili su una bottiglia di plastica, mentre per la seconda attività è stato chiesto ai partecipanti di scrivere un elenco di utilizzi inappropriati di un sacchetto di plastica. Per svolgere le attività sulla creatività, i partecipanti avevano a disposizione 30 minuti.

Le funzioni esecutive sono state valutate utilizzando il Five Point Test (FPT; Regard, Strauss, & Knapp, 1982), che solitamente viene utilizzato per misurare la flessibilità cognitiva.

L’attenzione selettiva è stata valutata grazie al Test d2 (Brickenkamp, 2012), che misura l’attenzione selettiva e la concentrazione. Per valutare la velocità di elaborazione è stato utilizzato il Salthouse Perceptual Comparison Test (Salthouse & Babcock, 1991).

Per quanto riguarda la padronanza linguistica, i partecipanti sono stati divisi in tre gruppi (alta, media e bassa padronanza del bilinguismo), secondo due criteri principali: modello linguistico proposto a scuola ed autovalutazione degli studenti rispetto al proprio livello linguistico, alla frequenza di utilizzo delle varie lingue ed i vari ambiti di utilizzo (lettura, dialoghi, scrittura e comprensione).

La relazione tra livelli di bilinguismo, creatività e funzioni esecutive

I dati emersi rivelano che le funzioni esecutive sono mediate dal livello di bilinguismo e dalla creatività verbale e figurale. Nello specifico, i partecipanti con livelli di bilinguismo alto e basso erano associati a risultati migliori nelle funzioni esecutive e correlavano con punteggi più elevati nel campo della creatività verbale e figurale rispetto a quelli con bilinguismo di livello medio.

Dal campione è emerso che il gruppo con bassa padronanza di bilinguismo ha ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto al gruppo con padronanza media nelle funzioni esecutive. Ciò può essere in parte spiegato attraverso la teoria sopracitata di Cummins (1983), secondo cui non solo bisogna avere una buona conoscenza di entrambe le lingue per beneficiare degli effetti del bilinguismo, ma una competenza insufficiente in una delle due lingue può addirittura comportare un peggior funzionamento cognitivo rispetto alle persone monolingue. Tuttavia, bisogna considerare che altri fattori relativi all’acquisizione del linguaggio potrebbero aver influenzato questi risultati (Daller & Ongun, 2018; Kavé et al., 2008; Luk et al., 2011). Per quanto concerne l’attenzione selettiva, non sono state riscontrate differenze tra i gruppi. Per quanto riguarda la creatività, il gruppo con un alto livello di bilinguismo ha ottenuto punteggi significativamente più alti rispetto a quelli con un livello medio di bilinguismo nella creatività verbale e figurale, e significativamente più alti rispetto al gruppo di basso livello di bilinguismo nella creatività figurale. In conclusione, dallo studio è stato riscontrato che la velocità di elaborazione, l’attenzione selettiva e le funzioni esecutive sono correlate positivamente e significativamente con la creatività.

 

Attacco di paura o attacco di solitudine? Uno studio intorno al disturbo di panico

Abbracciando una prospettiva che stabilisce una stretta connessione tra gli attacchi di panico e la solitudine di essere sovraesposti all’ambiente, molti elementi prendono senso.

 

Inquadramento nosografico del disturbo di panico

Secondo il DSM-5, il disturbo di panico è una situazione clinica complessa caratterizzata da ricorrenti e inaspettati attacchi di panico, conseguenti preoccupazioni per questi attacchi, nonché da una complessa riorganizzazione comportamentale intorno a questo timore.

Un attacco di panico (PA) è definibile come la comparsa di una paura o un disagio intensi che raggiungono il picco in pochi minuti, accompagnata da una forte attivazione autonomica. Diversi i sintomi somatici associati a questo stato, tra cui palpitazioni, sensazione di asfissia o soffocamento, sudorazione improvvisa, tremori e brividi, nausea o dolori addominali, vertigini e instabilità, stordimento o svenimento, e i sintomi psichici, come la depersonalizzazione, per cui ci si sente distaccati da se stessi, e la derealizzazione, per cui si sperimenta un senso di irrealtà, il timore di morire, la paura di perdere il controllo o ‘impazzire’ (Black, D. W. & Grant, J. E., 2014).

Nella popolazione generale, le stime di prevalenza a 12 mesi per gli attacchi di panico negli USA sono del 11,2%, più basse nei paesi europei, tra il 2,7 e il 3,3%. Questi pazienti in genere sperimentano difficoltà lavorative e alti tassi di disoccupazione, cercano cure mediche più frequentemente e vivono più ricoveri (es. Markowitz, Weissman, Ouellette, Lish, & Klerman, 1989).

Gli approcci attuali di solito considerano l’attacco di panico come una risposta di paura esagerata e inappropriata (Clark, 1986; Casey, Oei, & Newcombe, 2004), innescata da un’intensa attivazione dell’amigdala e del relativo circuito neurale della paura (McNally, Otto, Yap, Pollack e Hornig, 1999; Windmann, 1998; Gorman, Kent, Sullivan e Coplan, 2000; LeDoux, 2015; Hamm et al., 2016). Tuttavia, vi sono alcuni elementi che mettono in discussione tale concezione.

Dal punto di vista psicologico, gli attuali interventi psicoterapeutici (soprattutto CBT) volti a ridurre la sensibilità alla paura (e all’ansia), mediante procedure di decondizionamento, la correzione dei pensieri disadattivi e il miglioramento dell’autostima (Barlow, Gorman, Shear, & Woods, 2000; Gallagher et al., 2013; Yang, Kircher e Straube, 2014), risultano essere molto efficaci nell’immediato, senza però garantire buoni risultati a lungo termine, con un’alta probabilità di recidive nei pazienti (Bakker, 2001; Durham et al., 2005; Batelaan et al, 2017; Nardi et al., 2016).

Dal punto di vista farmacologico, è ben noto che gli agenti ansiolitici a base di benzodiazepine, come il Valium, hanno scarso effetto sull’incidenza del panico, mentre gli antidepressivi risultano maggiormente efficaci nel reprimere tali attacchi (Klein e Fink, 1962).

Inoltre, gli attacchi di panico differiscono dalla risposta alla paura di emergenza di Cannon (Cannon, 1920) e dalla Sindrome da allarme generale di Selye (Selye, 1956) in due importanti aspetti psicofisiologici: il panico risulta caratterizzato dalla prevalenza di un’intensa fame d’aria, reazione fisiologica che si verifica raramente nella paura acuta insorta di fronte un pericolo esterno (Klein, 1993; Preter & Klein, 1998), ed è accompagnato dalla mancanza (eventualmente soppressione) dell’attivazione ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che prepara alla risposta lotta-fuga, contrariamente alla paura.

Radici etimologiche

[…] Pan invocando coi gridi, dei pascoli il Dio chiomabella,
l’irsuto, a cui son sacre le cime coperte di neve,
i vertici sublimi dei monti, i sentieri di rocce (Inno Omerico 19 a Pan, Omero)

A livello etimologico, il termine ‘panico’ rimanda alla mitologia greca: il dio Pan, divinità del mondo agreste, figlio di Ermes e della bellissima ninfa Driope, che incuteva timore ai viandanti solitari (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020). Secondo la tradizione greca, la ninfa Driope cercò un luogo appartato e solitario nel cuore della foresta per dare alla luce il figlio ma, alla vista del nascituro con le corna e il piede caprino, inorridì e scappò via, abbandonandolo nella foresta.

Balzò su, fuggi via la nutrice, lasciando il bambino,
ché sbigottí, vedendo l’aspetto spiacente e la barba (Inno Omerico 19 a Pan, Omero)

In questa narrazione mitica è racchiuso il tema centrale del disturbo di panico: l’esperienza di essere precocemente sovraesposti al mondo senza un’adeguata mediazione affettiva – quindi privati del caldo abbraccio materno – senza la presenza di un filtro che renda possibile affrontare il mondo, senza una protezione relazionale.

Ciascun essere alla nascita è un viandante della vita e se non è accompagnato almeno per il primo tratto di cammino si sentirà sempre solo e impotente in un mondo pericoloso. (p.94) (Il racconto della mente. Il mito nella relazione psicoanalitica, Romano R., 2002).

Oltre a stabilire un legame tra il terrore e la solitudine, il racconto mitico ci propone quindi un parallelismo tra il viandante in preda al panico, mentre si aggira per i boschi da solo, e ciascuno di noi.

Il disturbo di panico in una prospettiva fenomenologica-gestaltica

La radice esperienziale del disturbo di panico, in una prospettiva fenomenologica-gestaltica, è la solitudine di scoprirsi esposti, senza protezione e disarmati, a un mondo che lascia sopraffatti, è la solitudine di Pan, un cucciolo rifiutato e abbandonato alla nascita in una foresta sconosciuta.

Il legame che la mitologia stabilisce tra il terrore del panico e la solitudine ha sorprendenti somiglianze con evidenze cliniche ed epidemiologiche.

Per esempio, lo studio clinico con pazienti agorafobici condotto da Klein e Flink (1962) evidenzia che i pazienti affetti da Disturbo di Panico hanno riportato una grave ansia da separazione che spesso ha impedito la frequenza scolastica durante l’infanzia, un risultato replicato da specifici studi longitudinali sugli stessi individui che confermano la relazione tra il disturbo di panico (e l’agorafobia) e il Disturbo d’Ansia da Separazione dell’infanzia (Klein 1993, 1995; Kossowsky et al., 2013). Studi epidemiologici stabiliscono l’esordio del disturbo di panico in un periodo che va dall’adolescenza ai 35 anni (DSM 5), una complessa fase di vita caratterizzata da processi di separazione-individuazione dal proprio nucleo familiare (es. il trasferimento in un’altra città per l’università), dal movimento verso il mondo e verso una crescente autonomia (es. andare a vivere da soli). Inoltre, emerge come l’insorgenza del disturbo di panico nella popolazione adulta sia spesso preceduto da eventi di effettiva separazione coniugale, perdite e lutti, o altri eventi che implicano una separazione emotiva o fisica da una figura significativa (Roy-Byrne, Geraci, & Uhde, 1986; Jacobs et al., 1990; Faravelli & Pallanti, 1989; Kaunonen, Paivi, Paunonen, & Erjanti, 2000; Klein, 1993; Venturello, Barzega, Maina, & Bogetto, 2002; Milrod, Leon e Shear, 2004).

Abbracciando una simile prospettiva, che stabilisce una stretta connessione tra il panico e la solitudine di essere sovraesposti all’ambiente, molti elementi prendono senso.

Il disturbo di panico si accompagna di frequente all’agorafobia (dal greco, agorà: piazza, e fobia: paura) e quindi al concretizzarsi, nel qui ed ora, dell’essere sovraesposti al mondo mentre ci si ritrova soli in mezzo a una piazza, senza sufficiente protezione relazionale. La conseguente necessità di essere accompagnati, a volte così forte da rendere impossibile muoversi da casa autonomamente, costituisce l’espressione del bisogno di una mediazione tra sé e il mondo, tramite la vicinanza fisica e corporea di un altro significativo (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Il disturbo di panico insorge tendenzialmente in un periodo che va dalla preadolescenza fino all’età di giovane adulto, una fase complessa e delicata caratterizzata da un movimento di separazione dal contesto familiare (dall’Oikos, la casa, alla Polis, luogo dei molti, la città) e da un processo di individuazione (Francesetti, 2007; Francesetti et al., 2013).

Il sintomo peculiare della fame d’aria può essere spiegato dalle risposte neurofisiologiche indotte dal sistema cerebrale di Panico/Separazione, caratterizzato da neuroanatomie e percorsi neurochimici distinti dal sistema della paura (Panksepp & Biven, 2012).

Secondo le neuroscienze affettive, infatti, esistono due sistemi di allarme cerebrale separati: il primo è il sistema neurologico della paura attivato da una minaccia esterna, un pericolo nell’ambiente, per cui l’organismo è pronto per fuggire o aggredire (risposta fight or flight), attivato dalla percezione di una minaccia esterna: l’altro, il sistema del Panico, si attiva quando l’individuo viene separato da un fondamentale supporto affettivo-sociale (il caregiver di riferimento), ad esempio quando i cuccioli vengono allontanati dalla madre e si trovano a protestare attivamente, per esempio piangendo nel caso degli esseri umani (separation cry) e/o producendo vocalizzazioni di angoscia (distress vocalization), nel caso di altri mammiferi, al fine di sollecitare il sistema motivazionale di accudimento nell’adulto (Nelson & Panksepp, 1988; Panksepp, 1998). Non a caso, i principali neurotrasmettitori del sistema di Panico – gli oppiodi endogeni, l’ossitocina e la prolattina – sono i neuromodulatori chiave delle interazioni socio-affettive (Panksepp & Biven, 2012; Nelson & Panksepp, 1998).

Dal punto di vista anatomico, il sistema del Panico coinvolge la zona del grigio periacqueduttale (PAG), le regioni del mesencefalo, il talamo dorsomediale, l’area settale ventrale, l’area preottica dorsale e i siti del nucleo del letto della stria terminale: tutte regioni sottocorticali. Esso controlla una serie di risposte neurofisiologiche e neuroendocrine che modificano lo stato interno del corpo, come la respirazione e il battito cardiaco; ciò spiegherebbe come mai gli attacchi di panico sono caratterizzati da sintomi fisici, acuti e inspiegabili, che interrompono la continuità dell’esperienza abituale, tra cui la fame d’aria e il senso di soffocamento (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Spesso i pazienti che soffrono di attacchi di panico non riferiscono sentimenti di solitudine o problematiche affettive e non riconoscono alcuna causa psicologica o significato per i loro attacchi (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Tenendo in considerazione la distinzione tra lo stato emotivo in sé e la sua esperienza cosciente (Adolphs, 2017), possiamo comprendere come a volte sia possibile dissociare stati emotivi, esperienze emotive e concetti emotivi. Nel caso dei pazienti con disturbo di panico, si tratterebbe di una sofferenza non nominabile né riconoscibile consapevolmente, riconducibile ad un profondo vissuto di solitudine. In linea con questa visione, recenti studi sperimentali hanno evidenziato che spesso questi pazienti riferiscono esperienze traumatiche infantili (Zou et al., 2016), che conducono a una forma patologica di dissociazione emotiva in età adulta (Major et al., 2011). Tendono ad essere alessitimici, avendo difficoltà a realizzare, riconoscere, discriminare ed esprimere sentimenti emotivi (Francesetti, 2007; Francesetti et al., 2013), e meno cooperativi e fiduciosi verso le altre persone, con uno stile relazionale altamente autonomo e indipendente (Cox, Swinson, Shulman e Bourdeau, 1995; Iancu, Dannon, Poreh, Lepkifker e Grunhaus. 2001; Marchesi, Fontò, Balista, Cimmino, & Maggini, 2005; Cucchi et al., 2012; Izci et al., 2014; Wachleski et al.,2008).

Evidenze cliniche: le parole dei pazienti

Il momento dell’attacco di panico è vissuto dai pazienti con la sensazione concreta di morire o impazzire, non si tratta semplicemente di un ‘timore’ ma di un’esperienza vera e propria a cui fa seguito la paura che possa ripresentarsi. Si tratta di sensazioni percepite come un disagio corporeo, da cui i pazienti sono terrorizzati e per le quali si recano in pronto soccorso o dal medico di base, al fine di trattare la sintomatologia fisica acuta. In quest’ottica, la morte o la follia rappresentano le due esperienze radicali di separazione dalla comunità (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Nel trattamento di questi pazienti, gradualmente emerge la dimensione emotiva della solitudine, una solitudine negata, indicibile, non formulata e non legittimata nella loro biografia. Un paziente, profondamente toccato da questa scoperta, afferma: ‘il punto non è che ho paura di morire, il punto è che sono così solo che potrei morire, da sempre nella mia vita’ (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Nel corso della terapia spesso emerge con forza un vissuto di profonda tristezza e una rabbia malcelata, come nel racconto di una paziente: ‘Adesso mi ricordo quanto ero brava a scuola… ero solo una bambina, ma non ho mai pianto quando andavamo in gita per qualche giorno. Molti bambini piangevano, ma io no, mai. Per la mia maestra, ero un esempio per tutti. Ora, ricordandolo, mi viene da piangere… è così triste…’ (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

L’emergere della solitudine è un passaggio difficile, che richiede tempo e supporto relazionale: all’inizio della terapia non solo non viene percepita, ma esiste una sorta di distanza o reattività affettiva nei confronti della solitudine, come se fosse un’area dissociata dell’esperienza. Solo gradualmente e attraverso un’attenta esplorazione terapeutica il paziente può sentire, riconoscere, legittimare e infine mentalizzare il suo vissuto di solitudine (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

L’insorgenza del disturbo di panico è solitamente reputata dai pazienti priva di collegamento con gli eventi di vita personale, sconnessa dal quotidiano e indipendente dal proprio vissuto autobiografico; in realtà, attraverso un’esplorazione più attenta, appare strettamente legata a passaggi evolutivi caratterizzati da processi di separazione-individuazione, o dalla perdita di figure significative nel processo di mediazione tra il paziente e il suo ambiente. Riportiamo le parole di un paziente, in merito: ‘Mia nonna è morta un anno prima del primo attacco di panico. Non ci ho fatto caso, abitavo già abbastanza lontano da lei, lei aveva la sua vita e io la mia. Ma ora capisco una cosa diversa: sono cresciuto con lei, da quando i miei genitori hanno divorziato ed erano impegnati con il lavoro. Lei era la mia protezione nella vita. Ora posso sentire tutto il dolore e la tristezza… mi manca tremendamente’ (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020).

Conclusioni

Considerare il panico semplicemente come un attacco di paura non contempla una serie di importanti elementi clinici ed evidenze neuroscientifiche, precedentemente esposti. Al contrario, è possibile ritenere il disturbo di panico una situazione clinica complessa, che emerge da un’esperienza di solitudine dissociata e non mentalizzata, connessa al disagio dovuto a una separazione da contesti socio-culturali di riferimento, una solitudine caratterizzata da una sovraesposizione al mondo senza una sufficiente protezione relazionale che preveda una mediazione affettiva con il mondo (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

Il mancato riconoscimento della cruciale esperienza di solitudine, implicata nel disturbo di panico, potrebbe essere il risultato di una pressione individuale, relativa alla solitudine negata nella propria storia di vita, e di una pressione sociale, ossia la negazione del bisogno di legami relazionali e intimi, all’interno di una società individualista, senza rituali di passaggio, una ‘società liquida’ che porta avanti una svalutazione di fondo sull’importanza dell’altro come luogo di ancoraggio per affrontare il mondo. In questo senso, pur rappresentando un elemento centrale delle società occidentali, la solitudine risulta un elemento dissociato nella nostra cultura e viene considerata l’esperienza di persone che non sono sufficientemente integrate nella società: ‘the losers’, i perdenti (Lasch, 1978; Bauman, 2002; Cacioppo & Patrick, 2008; Rosa, 2010; Bollas, 2018).

Questa ipotesi è compatibile con la ricerca interculturale ed epidemiologica, che ha evidenziato la presenza di differenze rilevanti nei tassi di prevalenza del disturbo di panico in diversi paesi (es. Kessler et al., 2007), trovando un legame positivo abbastanza forte tra valori sociali come l’autonomia affettiva e i tassi e il rischio nel corso della vita di sviluppare il disturbo di panico (Heim, Wegmann e Maercker, 2017).

In conclusione, il mito del Dio Pan, abbandonato alla nascita dalla sua stessa madre, sembra fornire una cornice narrativa a un’esperienza che rimanda sia ad una condizione individuale che ad una situazione sociale: una solitudine dissociata e il bisogno, dissociato, di un legame relazionale. La paura, in questa prospettiva, può essere intesa come l’espressione travolgente di un acuto attacco di solitudine (Francesetti, G., Alcaro, A., & Settanni, M., 2020)

 

Il processo creativo, teorie e tecniche

La creatività è un costrutto affascinante studiato ed approfondito da molti autori attraverso teorie e ricerche. Tuttavia la definizione di questo costrutto non è sicuramente univoca. Diverse sono le interpretazioni che si sono susseguite nel tempo.

 

Infatti, alcuni studiosi hanno interpretato la creatività come un processo, altri l’hanno intesa come un prodotto, altri ancora come un aspetto della personalità. Ad oggi si potrebbe affermare che essa sia un costrutto complesso che nasce dal convergere di diversi fattori. Una delle prospettive più interessanti in questo campo è sicuramente quella che vede la creatività come un processo, ovvero come una successione di fasi consecutive che portano l’individuo alla costruzione di una soluzione creativa ed innovativa.

Le fasi del processo creativo

Wallas (1926), a questo proposito, elabora un modello di processo creativo che sarà poi studiato, ripreso e modificato. Lo studioso, infatti, individua quattro distinte fasi del processo creativo. La prima fase è la fase  della preparazione ed è il periodo di tempo in cui l’individuo esplora, pensa, raccoglie informazioni utili, valuta dati ed elementi in modo libero.

A questa prima fase segue la cosiddetta fase dell’incubazione, cioè quel periodo di tempo di durata indefinita, in cui l’individuo elabora attivamente quanto raccolto nella fase della preparazione. Questa fase, tra il periodo della preparazione e quello dell’illuminazione, si caratterizza per la presenza di flussi di pensiero disordinati ed una scarsa consapevolezza.

Dopo la fase dell’incubazione c’è la fase dell’illuminazione, altrimenti definita fase dello scoppio. Infatti, una volta effettuata una prima elaborazione dei dati, l’individuo trova spontaneamente ordine e chiarezza nelle informazioni, acquisisce una visione chiara ed ogni confusione di idee trova fine. Si genera istantaneamente ed inaspettatamente una soluzione creativa nuova ed unica, che ha la forma di un’intuizione improvvisa.

L’ultima fase, detta fase della verifica, consiste nel periodo di tempo in cui si esamina se la soluzione creativa individuata possa risultare efficace nella sua applicazione e, dunque, superare la critica. È la fase in cui si verifica la sua utilità e si sottopone la soluzione al giudizio dello stesso inventore.

La teoria di Wallas (1926) viene ripresa da Jaoui (1995) il quale, nel definire il processo creativo, aggiunge alle quattro fasi di Wallas una fase iniziale precedentemente non considerata. La prima fase, infatti, consisterebbe nella nascita di un’intenzione. Durante questo primo intervallo di tempo, emergerebbe l’idea di partenza su cui viene applicato un processo di focalizzazione necessario per procedere alla fase della preparazione.

Come si può stimolare la creatività?

Hubert Jaoui, uno tra i maggiori esponenti della creatività applicata al management, ha ideato anche un metodo detto metodo PAPSA che mira ad essere uno strumento creativo applicabile a diversi ambiti. Il metodo, utile per stimolare la creatività, è suddiviso in 5 tappe (da cui le iniziali che formano il nome): Percezione (P), Analisi (A), Produzione (P), Selezione (S) e Applicazione (A). Nella fase della Percezione, il metodo suggerisce di avvicinarsi al problema con ingenuità e percepirlo completamente. La fase dell’Analisi consiste nell’analizzare ed esplorare il problema e la sua struttura e scegliere dei parametri e dei criteri preferenziali. Successivamente, la fase della Produzione consiste nel produrre senza censura una grande quantità di idee e soluzioni anche irrealistiche ed originali. La quarta fase è quella della Selezione in cui si propone di organizzare e gerarchizzare le idee prodotte in base all’obiettivo e ai criteri razionali definiti. L’ultima fase del metodo è la fase dell’Applicazione in cui si applica la soluzione emersa dalle idee selezionate in precedenza, tenendo presente gli strumenti utili per realizzarla.

 

Neurobiologia della lettura: nuove tracce da scoprire pagina dopo pagina

A prescindere dalla trama che incontriamo pagina dopo pagina durante la lettura e dalla velocità con la quale divoriamo un racconto, si attiva a livello cerebrale un’area ben specifica chiamata in inglese Visual Word Form Area (VWFA).

 

A mio padre Giovanni, che mi ha sempre trasmesso l’amore per la lettura, il piacere per la curiosità e l’intraprendenza nell’immergermi in nuove pagine.

 

Leggere evidenzia non solo un insieme affascinante di processi insiti in ciascuno di noi, ma al contempo risulta un’attività pienamente terapeutica, con effetti a dir poco sorprendenti! In grado di coinvolgerci da capo a piedi, ripristinando spesso il nostro livello di stress e rafforzando i nostri assi e circuiti cerebrali.

In ciascuno di noi è presente, a livello della corteccia, una regione specializzata per la lettura, infatti questa abilità sembrerebbe essere il frutto non solo dell’evoluzione, bensì il risultato di complessi meccanismi neurobiologici.

La Word Form Area e il cablaggio neuronale

A prescindere infatti dalla trama che incontriamo pagina dopo pagina, dalla velocità con la quale divoriamo un racconto, si attiva a livello cerebrale un’area ben specifica chiamata in inglese Visual Word Form Area (VWFA). Oggetto di studi e ricerche, quest’ultima infatti la si può indagare chiedendo ad un lettore di visualizzare uno schermo ove scorrono alcune parole, oppure ancora di classificarle in base al loro significato (Saygin, Z, M., 2016). Una semplice richiesta a seguito della quale è possibile rintracciare correlati neuronali in grado di evidenziare sempre più substrati corticali.

Nello specifico, in tutti i lettori, il riconoscimento visivo delle parole attiva sempre una popolazione di neuroni, a prescindere dalla lingua in cui leggono, collocata nel solco occipito-temporale sinistro della corteccia visiva.

Più di uno studio ha infatti dimostrato che la VWFA occupa una posizione altamente riscontrabile da un lettore all’altro: le neuroscienze, qualora adoperassero le coordinate spaziali che definiscono la posizione di tale area nel cervello di un lettore, potrebbero prevedere dove si trova la stessa regione nel cervello di un’altra persona (Hargreaves, I, S., 2012).

Purché sappia leggere o si stia cimentando in questa magnifica scoperta.

Leggere riflette un’abilità tipicamente umana, che richiede il funzionamento di numerose aree del cervello, confermando altresì un salto evolutivo in grado di chiamare in causa il reclutamento di numerosi distretti cerebrali.

Tale concetto lo si può definire come l’insieme dei pattern di attivazione all’interno del cervello in un determinato momento (Siegel, J. D., 2001). Quasi come vi fosse una sincronia connotata dalla collaborazione di più centri nervosi uniti nel fornire una base o meglio ancora un supporto (Hebb, D. O., 1949). Infatti si vengono a evidenziare processi in sinergia tra loro e che risultano assemblati in uno stato di attività temporaneo, che consente di massimizzare la loro efficacia e la loro efficienza (Plaut, D., 2010, Thagard, P., 2002).

Mentre leggiamo, infatti, la concentrazione di ossigeno nel sangue (valevole indicatore dell’attività del cervello) aumenta in un gruppo di regioni dell’emisfero sinistro più che in tutte le atre regioni. L’area che principalmente risulta attiva è proprio la VWFA, in grado di confermare quanto la lettura risulti essere un procedimento complesso, ma in grado di lasciare un’impronta sul proprio corpo, fornendo oltremodo una nuova chiave di lettura!

Il riciclo neuronale e la potatura di nuove parole

Secondo il neurologo Laurent Choen e il neuroscienziato Stanislas Dehaene non è la corteccia umana ad essersi evoluta per leggere, ma i sistemi cerebrali correlati alle attività cognitive. Quest’ultime, infatti, secondo i due studiosi, non solo riflettono un background culturale ed esperienziale insito in ogni lettore, ma al contempo una rappresentazione corticale riproducibile tramite il riciclo neuronale (Deahene, S., 2009).

Nel caso infatti della VWFA riflette a pieno il processo con cui un ambito della conoscenza umana si appropria di una regione o di una struttura preesistente del cervello, rispettando peraltro i confini morfologici e funzionali relativi a quello specifico distretto cerebrale.

Collocata tra il lobo temporale e quello occipitale, la Visual Word Form Area sembra inoltre chiamata in causa per un’altra funzione specifica, necessaria per ogni buon lettore: la visione.

Quando siamo immersi in un racconto infatti i nostri occhi avanzano a piccoli passi, detti saccadi, da un frammento di parola a un altro, nondimeno ogni momento di sosta prende il nome di fissazione. A lavorare di più è l’emisfero cerebrale sinistro (Cachia, A., 2017).

Strutturalmente e funzionalmente il cablaggio neuronale coinvolge l’area di Broca, il lobo frontale medio sinistro, l’area per la forma visiva ed infine il giro angolare sinistro (Redish, J., 2010).

Rispettivamente si assiste al monitoraggio di più funzioni che simultaneamente consentono di comprendere, analizzare, riconoscere ed associare il contenuto di quanto la vista ci pone di fronte, determinando e valorizzando la plasticità cerebrale, tanto fisiologicamente quanto morfologicamente.

I contributi degli studi di RM, sia morfologici che funzionali, hanno infatti consentito di rilevare ed evidenziare le variazioni della plasticità cerebrale a livello di grande scala nei processi di riorganizzazione funzionale. La plasticità neuronale risulta sottesa ad un processo di neurogenesi in rapporto all’ambiente circostante (Cajal, S., 1913) in grado di fornire nuovi spunti sulle trame neurobiologiche correlate alla lettura.

La lettura come strumento terapeutico: farsi leggere pagina dopo pagina

Spesso un libro è in grado di cambiare la vita, di apportare nuovi consigli, ma ancor di più di trovare soluzioni circa problematiche personali verso le quali si pensava non esistessero vie di fuga.

Questo mondo fatto di carta, parole ed emozioni fatte di inchiostro ha il potere di entrare nella testa, nel cuore e nella vita di una persona, rivoluzionandone davvero il pensiero, la vita e il suo stato mentale.

 A sostegno di quanto appena accennato la psicologa canadese Gilda Katz sostiene che leggere rappresenti una forma di terapia vera e propria. Proponendo il termine Biblioterapia definisce questa metodologia uno strumento valido e parecchio impiegato all’estero (Katz, G., 2016). In Canada ad esempio un uso assai discreto è documentato dagli operatori sanitari; l’80% degli psicologi infatti ‘prescrive’ una lettura specifica al proprio paziente. Dalla fine degli anni novanta alcuni ricercatori hanno evidenziato come leggere aiuti a combattere una grande varietà di disturbi!

Tra questi possono essere annoverati l’ansia, l’alcolismo, l’insonnia e l’obesità, le quali nel loro insieme non riflettono un’etichetta, bensì una fase di vita rispetto alla quale poter trovare sollievo in un nuovo mondo fatto di carta e parole.

Tutti i tipi di narrativa possono infatti rappresentare una fonte di benefici, la narrazione può condurre il lettore a prendere coscienza di alcuni suoi problemi; se si pensa per esempio all’ambito della sessualità, la lettura di un romanzo erotico può stimolare non solo il desiderio, ma, cosa ancor più importante, l’immaginazione. Dunque un nuovo modo di percepirsi e percepire quello che viene definito ‘problema’ (Hubin, A., 2011).

A livello cerebrale inoltre la biblioterapia sembra lasciare una vera e propria traccia nel cervello, aumentando e rafforzando alcune connessioni neuronali.

Nel 2013 Gregory Berns dell’università di Atlanta ha dimostrato come la lettura di un romanzo aumenti le suddette connessioni; nello specifico la lettura di testi letterari rinforza da una parte la potenza curativa del linguaggio, dall’altro le sensazioni tattili e le simulazioni motorie interne al nostro stesso cervello (Gregory, B., 2013). Leggendo entriamo dunque nei panni di un personaggio e ne percepiamo le emozioni, il tatto e la motricità, peraltro già incarnate nei nostri modelli di realtà interiori. A livello psicosomatico significa che corpo e mente viaggiano all’unisono, accogliendo nel proprio corpo sensazioni talmente intense da essere accompagnate dall’immaginario. Leggere dunque risveglia in noi precisi ‘marcatori somatici’, i quali, secondo il neurologo Antonio Damasio, riflettono reazioni fisiologiche associate ad eventi realmente vissuti.

Sottolineando come la biblioterapia debba essere accompagnata da un approccio psicologico e/o psicoterapico, essa può promuovere la nascita di un nuovo percorso, entro cui il lettore, incontrando personaggi, debolezze e colpi di scena, rafforza l’unione tra la dimensione emotiva e quella cognitiva, scoprendo così un nuovo modo di stare al mondo (Damasio, A., 2016).

Lasciarsi leggere dal libro: un rischio che apre le porte all’incontro con se stessi

Leggere un libro è più di un semplice coinvolgimento di più parti, rappresenta un vero e proprio incontro. Durante la lettura non ci si limita a farsi assorbire cognitivamente dal contenuto, ma si incontra un qualcosa di sconosciuto dal quale ci si lascia leggere (Recalcati, M., 2018).

È un evento in cui i piani dell’attività e della passività si ribaltano e si confondono: ‘non sono più io che leggo il libro, ma è il libro che mi legge’. Ciò significa che nell’incontro con un libro si incontra sempre una parte di sé stessi, un punto in cui l’enigma più singolare e indecifrabile della propria esistenza viene gradualmente svelato, quasi come la parte più intima dell’individuo emergesse in superficie, pronta ad acquisire un nuovo dono.

Una nuova chiave di lettura.

 

Disturbo dello Spettro Autistico: le difficoltà in un contesto di emergenza come il Covid-19

Per le persone con disturbo dello spettro autistico, l’aver sperimentato un aumento del tempo non strutturato a casa durante la pandemia può aver comportato diverse difficoltà.

 

Nonostante l’effetto della pandemia sulle persone con disabilità non sia ancora stato ben determinato, è plausibile pensare, e la letteratura lo conferma, che le persone con disabilità sono sproporzionalmente colpite dalle situazioni di emergenza (Campbell et al., 2009). Uno studio molto recente di Baweja e colleghi (2022) si è focalizzato sulle difficoltà che gli individui con Disturbo dello Spettro Autistico hanno affrontato, e si trovano tuttora ad affrontare, a causa della pandemia da Covid-19.

A causa delle differenze nella comunicazione, nella socializzazione e nel funzionamento esecutivo inerenti alla diagnosi (APA, 2013), gli individui con disturbo dello spettro autistico possono essere più vulnerabili durante la pandemia. Possono trovarsi in difficoltà anche con alcune componenti fondamentali della resilienza come ad esempio fare delle previsioni future, immaginare gli esiti di una determinata situazione o essere flessibili e adattarsi di fronte ai cambiamenti improvvisi (Wallace et al., 2016).

Se consideriamo in aggiunta anche altri aspetti co-occorrenti come la disabilità intellettuale, i problemi di apprendimento e i problemi medici cronici, il livello di vulnerabilità aumenta notevolmente (Narzisi, 2020).

Con le restrizioni messe in atto, tra cui l’obbligo di restare a casa, l’allontanamento sociale e la chiusura di molte attività/servizi, le persone con disabilità e le loro famiglie si sono ritrovate senza accesso ai servizi e ai supporti necessari, sperimentando così una maggiore vulnerabilità in diversi ambiti, dall’istruzione alle cure (Neece et al., 2020).

Sfide educative e professionali con il disturbo dello spettro autistico

Nell’ambito scolastico, i bambini con disturbo dello spettro autistico, che prima della pandemia potevano fare affidamento su una routine strutturata a scuola (ambiente strutturato, orari, attività prestabilite ecc), si sono ritrovati, assieme alle loro famiglie, a partecipare ad attività online nelle proprie case tramite l’utilizzo di apparecchi elettronici. Inoltre, questa sfida educativa, doveva essere supportata e affiancata dai genitori che, oltre a portare avanti il proprio lavoro dovevano badare agli altri membri della famiglia, occuparsi dei pasti e delle faccende domestiche, aumentando il carico sulle loro spalle.

Per quanto riguarda l’ambito professionale, la letteratura dimostra che gli adulti con diagnosi di spettro dell’autismo sono a maggior rischio di sperimentare un maggiore isolamento sociale (Howlin et al., 2013), una minore partecipazione alla comunità (Tint et al., 2017) e una minore partecipazione alle attività sociali, oltre ad affrontare un tasso più alto di disoccupazione e sottoccupazione rispetto ai loro coetanei neurotipici (Roux et al., 2013). Nell’attività lavorativa, le persone con autismo si affidano al personale di supporto per il trasporto, per la gestione delle attività lavorative e per l’effettivo impegno sociale nella comunità (Lindsay, 2017). Tutte risorse che durante la pandemia, specialmente nella fase iniziale e più acuta, hanno avuto un blocco creando di conseguenza varie difficoltà. Anche le riaperture a seguito della stabilizzazione dei contagi, sebbene possano comportare aspetti positivi, possono aver rappresentato una sfida dato che il ritorno alle attività scolastiche e lavorative può essere una fonte di ansia (Neece et al., 2020).

Per le persone con disturbo dello spettro autistico, l’aver sperimentato un aumento del tempo non strutturato a casa può aver comportato alcune difficoltà dato che, in questo modo, si ritrovano a dover gestire le difficoltà nel funzionamento esecutivo che comprende pianificazione, organizzazione, avvio dei compiti e autocontrollo (Wallace et al., 2016). In aggiunta, con l’eccesso di tempo libero non strutturato e con scarsa variabilità delle attività, può diventare più facile rimanere ‘bloccati’ negli interessi limitati o fissi che caratterizzano la diagnosi dello spettro dell’autismo (Lam et al., 2008)

Servizi di salute mentale per il disturbo dello spettro autistico

L’interruzione dei servizi a causa del turnover e della carenza di personale, delle chiusure obbligatorie e dell’accesso ridotto ai servizi specializzati necessari (Eshraghi et al., 2020), ha comportato delle grosse limitazioni per gli individui con disabilità e in particolare per le persone con autismo. Alcuni servizi ambulatoriali e a domicilio sono stati convertiti in servizi telematici, ma questa trasformazione alla telemedicina può comportare alcuni problemi. Nel caso dell’autismo, un trattamento frequentemente utilizzato è l’Applied Behavior Analysis (ABA) (Roane et al., 2016). Tuttavia, questo tipo di trattamento utilizza materiali condivisi e viene svolto in presenza di entrambe le parti (terapeuta – paziente). Trasformare questo tipo di trattamento in un trattamento telematico può essere impegnativo in quanto l’ABA include l’osservazione del comportamento che è spesso fuori dalla portata di una videocamera e richiede il supporto di un altro membro della famiglia.

La conversione telematica delle visite psichiatriche ambulatoriali, inoltre, non è in grado di monitorare e completare tutti gli esami fisici necessari. Per i bambini che, a causa della diagnosi, vengono trattati con antipsicotici atipici per l’irritabilità dell’umore, può essere un grande problema data la necessità di un monitoraggio periodico (Volkmar et al., 2014).

Anche la diagnosi ha subito dei ritardi a causa dell’interruzione dei servizi, implicando di conseguenza anche un ritardo nell’accesso al trattamento. Tuttavia, questa situazione ha permesso, dato il bisogno immediato, lo sviluppo di metodologie innovative in grado di condurre valutazioni telematiche (ad es., Narzisi, 2020; Wagner et al. 2020).

Conclusioni

In conclusione, la pandemia da Covid-19 ha comportato una serie di effetti negativi sulla nostra società, in particolare per quella parte di popolazione che richiede delle esigenze specifiche, come nel caso della disabilità in generale e delle persone affette da spettro dell’autismo. Per questo motivo, è fondamentale prendere in considerazione le necessità anche di questa parte della popolazione. Dato che le persone con spettro dell’autismo sono particolarmente vulnerabili in questi momenti, la preparazione alle emergenze è importante per garantire che coloro che sono a più alto rischio continuino a poter usufruire dei servizi essenziali mentre affrontiamo potenziali ondate future di questa pandemia o altre emergenze sanitarie. Coinvolgere gli stessi individui con diagnosi di autismo e le loro famiglie nelle discussioni in corso sul miglioramento di queste misure sarà fondamentale per l’innovazione che è estremamente necessaria.

 

La Play Therapy ed i videogiochi

La Play Therapy è una pratica conosciuta ed applicata in Nord America, Corea del Sud, Nord Europa e Giappone.

 

Nel libro di testo Play Therapy: The Art of Relationship, Landreth (2012) definisce la terapia del gioco come: ‘relazione interpersonale dinamica tra un bambino (o una persona di qualsiasi età) e un terapeuta formato che, attraverso materiali di gioco selezionati, facilita lo sviluppo di una relazione sicura affinché il bambino (o una persona di qualsiasi età) possa esprimere pienamente e esplorare il sé (sentimenti, pensieri, esperienze e comportamenti) attraverso il gioco, il mezzo di comunicazione naturale del bambino, per una crescita e uno sviluppo ottimali’. Attraverso il gioco i bambini imparano a interagire con il mondo che li circonda e iniziano a comprendere le relazioni sociali.

I tipi di intervento nella Play Therapy

Nella Play Therapy (Mochi, C. 2019) vi sono diverse modalità d’intervento. Negli interventi di tipo non direttivo, il Play Therapist seleziona con attenzione i giocattoli nella stanza dei giochi per aiutare i bambini ad esprimere una varietà di sentimenti e problemi. Sarà poi il bambino a scegliere quali giocattoli utilizzare ed anche il modo con cui intende giocarvi. Il Play Therapist segue empaticamente l’iniziativa del bambino unendosi a giochi di finzione e immaginazione quando invitato dal bambino e fornisce nei momenti opportuni i limiti per tutelarne l’integrità fisica e favorire l’esercizio e lo sviluppo dell’autocontrollo. Un’altra forma di Play Therapy è quella familiare. In questa tipologia di intervento è l’intera famiglia ad essere coinvolta in giochi e attività ludiche. Una forma particolare di intervento Familiare è la Filial Therapy ove i genitori divengono gli agenti principali nel trattamento dei propri figli. I principi terapeutici della Play Therapy sono assimilabili non soltanto ai classici giochi, ma anche ai videogiochi, ai giochi online e ad alcuni mondi virtuali. Tra questi troviamo:

  • Abreazione: le persone attraverso il gioco o attraverso la realtà virtuale (meglio conosciuta come virtual reality) possono rivivere in maniera graduale determinate esperienze traumatiche esercitando nel contempo un maggior controllo su di esse. Ad oggi, l’efficacia della terapia di esposizione alla realtà virtuale, si è dimostrata utile nel trattamento di diverse fobie specifiche, come nel caso della selacofobia (dal greco Σελαχοειδή: squalo e φοβία: paura). Chi soffre di questa fobia presenta una seria difficoltà nel fare il bagno in mare aperto, a praticare sport acquatici anche in luoghi dove di sicuro non sono presenti squali, a fare un’uscita in barca o a visitare acquari o zoo. Nei casi molto gravi la paura si estende anche per il bagno in piscina o alla sola vista di una foto o di un filmato. Nello studio in questione (Malbos, E., et al. 2021) l’uso della VRET, oltre a comportare una riduzione dei sintomi della paziente colpita da tale fobia, ha dimostrato una vantaggiosità che si è mantenuta nel tempo anche dopo un follow up a distanza di 12 mesi.
  • Catarsi: il rilascio emotivo è quasi universalmente riconosciuto come un elemento essenziale in ogni forma di psicoterapia. Coinvolge quelle forme emozionali in precedenza interrotte.
  • Potere e controllo: nel gioco si può fare accadere quello che si vuole, sentirsi potente e tenere la situazione sotto controllo permettendo di sviluppare un locus of control interno.

La play therapy attraverso i videogiochi

Abreazione, catarsi, potere e controllo sono dinamiche fondamentali che ritroviamo anche nella Videogames Therapy o V.G.T, metodologia riabilitativa ideata dal Dott. Francesco Bocci, Psicologo e Psicoterapeuta Adleriano. Questo ambito di intervento sviluppato dal collega è uno strumento usato che permette di intraprendere un lavoro di contenimento emotivo, clinico e terapeutico, come di tipo supportivo ed espressivo, ricorrendo al videogioco commerciale. Proprio come l’attività di ‘gioco’ consente ai bambini di esprimere inconsciamente aspetti del proprio mondo interno ed esterno, anche i videogiochi garantiscono questo risultato amplificandolo, in quanto, anche se sono un ‘gioco’, in ogni modo, sono accessibili a utenti di età superiore a quella infantile. Inoltre, i videogiochi sono diventati un oggetto sempre più esplicito di comunicazione tra i giovani, le cui immagini sembrano assimilare sempre più elementi tipici del mondo dei videogiochi.

Nel videogioco si attivano molti elementi legati al nostro emisfero sinistro, dove risiede la nostra memoria di lavoro. Essa attivandosi permette al gamer di vivere una sorta di ‘autocontrollo’ di sé che lo porta a sentirsi ‘valido’ e ‘capace’, seppur in un ambiente funzionale come quello del contesto videoludico, e di poter raggiungere un equilibrio tra le ‘sfide’ che il gioco richiede e le proprie competenze e risorse, cognitive ed emotive (soft skills), messe in atto. Si viene così a creare ciò che Mihaly Csikszentmihalyi chiama ‘stato di flow’, una condizione di benessere che ha un potenziale molto forte rispetto al contenimento emotivo. Si riattiva così nel gamer, quel ‘Sè Creativo’ (concetto coniato nel 1912 da Alfred Adler) che permette di riprendere il controllo della propria attenzione nel momento presente, così come dei propri vissuti proiettivi, che si attivano attraverso il gioco in quel determinato momento. Capite bene come in questo tipo di setting le dinamiche inconsce legate a traumi passati o a ricordi specifici di vita, costitutivi dello ‘stile di vita’ del soggetto (altro termine coniato da Alfred Adler ai primi del 1900), possano venire alla luce attraverso il ‘dialogo’ tra gamer e caregiver (terapeuta) durante la sessione di gioco stessa.

Sull’utilità positiva dei videogiochi, il direttore ricerca e sviluppo del settore giochi dell’IFTF, nonché Game Designer (Institute for the Future di Palo Alto in California), James McGonigal ha dimostrato, tramite le sue ricerche, come i videogiochi e possono accrescere il benessere e migliorare le relazioni, influendo in tal modo sui nostri comportamenti e favorendo le capacità di crescita personale (Bocci, F., Sala, C., 2019).

Anche se sono diversi e numerosi i videogames che possiamo far rientrare a pieno titolo nella Play Therapy (Life is Strange, Unravel 2, The Last day of June, Sea of Solitude, ecc…) vale la pena citare quando parliamo di videogames, il caso di Pokémon Go. Nonostante la mancanza di principi come l’abreazione o la catarsi, questo videogioco si è dimostrato efficace in altri modi. Dalla sua uscita nel 2016, ha attratto più di 65 milioni di utenti (Serino, M., Cordrey, K., McLaughlin, L., & Milanaik, R.L., 2016)

La Play Therapy e il particolare caso di Pokémon Go

La popolarità di Pokémon Go può essere compresa nel contesto della teoria degli usi e della gratificazione di Jay Blumler ed Elihu Katz. (Ruggiero, T.E., 2000), che è una delle teorie più citate per comprendere il consumo dei media. Secondo tale teoria, le persone selezionano determinati media per soddisfare bisogni, come bisogni cognitivi, bisogni integrativi sociali, bisogni affettivi, bisogni di riduzione della tensione (diversione o fuga dalla noia) e bisogni integrativi personali (status sociale o credibilità). Più recentemente, questa teoria incentrata sul pubblico è stata applicata sia ai giochi mobili (Rauschnabel, P.A, Rossmann, A., & Dieck, M. C., 2017) che a quelli online (Wu, J., Wang, S., Tsai, S. 2010).

Uno studio recente ha indicato che coloro che avevano un umore negativo prima di giocare a Pokémon Go, si sentivano significativamente meglio dopo il gioco (Alloway T.P., Carpenter, R. 2021). Quindi, se stai cercando un rimedio veloce e salutare, Pokémon Go potrebbe essere un buon inizio, soprattutto ora che tutti possono sperimentare i suoi benefici per il miglioramento dell’umore. Mentre ci sono prove iniziali che suggeriscono che Pokémon Go può ridurre l’umore negativo, i ricercatori dello stesso studio hanno scoperto che giocare a Pokémon Go migliora anche alcuni aspetti della cognizione, in particolare la memoria di lavoro, il sistema cognitivo che detiene temporaneamente le informazioni. Ci sono molti componenti della memoria di lavoro, ma nello studio i ricercatori hanno scoperto che la memoria di lavoro verbale, le informazioni relative a lettere e parole, sono migliorate dopo aver giocato a Pokémon Go. Lo studio non ha mostrato un miglioramento in tutti i componenti della memoria di lavoro, ma ha indicato che la funzione della memoria di lavoro verbale è flessibile e aumentata come risultato del gioco. Quindi, dopo aver giocato per lunghi periodi di tempo, potresti notare un miglioramento nel modo in cui ricordi le informazioni verbali, per non parlare del fatto che potresti anche sentirti più felice di conseguenza. Originariamente era stato ipotizzato che giocare a Pokémon Go potesse portare a una maggiore empatia, derivante da una maggiore interazione sociale e da una connessione più frequente con estranei (Jungselius, B. et al., 2015), tuttavia ciò non è stato evidenziato dal presente studio. Una possibilità per la mancanza di risposte empatiche in questo gioco potrebbe essere dovuta alla natura fantasiosa dei suoi personaggi, lontani dall’aspetto originale in cui i personaggi erano basati su animali (Webster, A. 2016). Il realismo negli ambienti di gioco modera gli effetti che il gioco ha sul giocatore, sia nell’aggressività che nel comportamento prosociale (Krcmar, M., Farrar, K. M., & McGloin, R. 2011). Pertanto, questa mancanza di realismo potrebbe aver contribuito all’incapacità dei giocatori di adottare le prospettive degli altri giocatori o di dimostrare empatia. I risultati dello studio suggeriscono che Pokémon Go non facilita quindi l’empatia ma può migliorare l’umore. Questa scoperta ha importanti implicazioni per gli individui che lottano contro l’ansia e la depressione.

L’utilità di Pokémon Go tuttavia non si ferma qui. Un ulteriore esempio della sua funzionalità, in quanto tecnologia positiva, ci viene fornito dal C.S. Mott Children’s Hospital negli Stati Uniti. In questo ospedale pediatrico del Michigan, Pokémon GO viene utilizzato come strumento terapeutico. Bambini con una vasta gamma di condizioni mediche differenti (malati di cancro, disturbi dello spettro autistico, iperlessia, ecc ..) hanno l’opportunità di usufruire di Pokémon GO, scorrazzando nella struttura alla ricerca dei loro mostriciattoli preferiti. L’utilizzo della stessa, sebbene in condizioni alquanto singolari, è volta a migliorare le condizioni dei bambini: grazie a questo videogioco di tipo free-to-play essi possono muoversi dal proprio letto e socializzare più facilmente. Il movimento, dice un membro del personale, aiuta i bambini dal punto di vista fisico, non lasciando atrofizzare gli arti, mentre il socializzare con gli altri li fa sentire meno soli. (Lazzeri, M. 2017)

Sempre riguardo ai videogiochi, a livello internazionale le aziende che investono nel campo dei videogiochi o nei dispositivi hardware a loro connessi in campo sanitario sono molteplici. Facendo una ricerca su Pubmed Central con una parola chiave come Wii per esempio, si nota subito come la stessa compaia in diversi studi che trattano aspetti come la riabilitazione fisica e cognitivo-comportamentale. Tra i tanti esempi presenti troviamo (Pensieri, C. 2013):

  • EbaViR (Easy Balance Virtual Rehabilitation) – EbaVir (Gil-Gomez, J. A., Lloréns, R., Alcaniz, M., & Colomer, C. 2011) è un sistema basato sulla tecnologia della Wii Balance Board Nintendo. È stato progettato dai terapisti clinici per migliorare, attraverso esercizi motivazionali e adattivi, l’equilibrio in piedi e la postura dei pazienti con ABI (ovvero con lesioni celebrali acquisite). Il sistema EbaVIR non utilizza nessun software commerciale. Gli esercizi sono stati programmati con l’ausilio di un programma per la creazione di applicazioni 2D e 3D ed è stato progettato con l’aiuto di specialisti clinici della riabilitazione dell’equilibrio. Il sistema è stato sviluppato con il fine ultimo di ottenere un sistema valido per il recupero dell’equilibrio dei pazienti. Inoltre esso mirava sia alla realizzazione di un sistema che rafforzasse la motivazione dei pazienti durante il processo riabilitativo sia alla creazione di un sistema che fornisse ai terapisti dei dati oggettivi sull’evoluzione dei pazienti.
  • Wii Sports – Nella popolazione anziana la depressione subsindromica è molto diffusa. Essa è associata a una notevole sofferenza, disabilità funzionale, maggiore utilizzo di costosi servizi sanitari e una maggiore mortalità. In uno studio (Rosenberg D, et al. 2010) dove sono stati campionati 22 individui (di età compresa tra 63 a 94 anni) e 19 di essi hanno completato le 12 settimane di studio con il gioco Wii Sports (contenente cinque giochi: tennis, bowling, baseball, golf e pugilato). I partecipanti hanno giocato alla Wii nella loro struttura residenziale o nel loro centro anziani per 35 minuti in tre sedute settimanali. L’indagine pilota di 12 settimane con questi videogiochi ha suggerito un alto tasso di adesione (84%), con un significativo miglioramento dei sintomi depressivi, del funzionamento cognitivo e senza grandi eventi avversi.

 

Come as you are (2017) di Emily Nagoski – Recensione

Attraverso una narrazione fluida e ironica, il volume Come as you are ci accompagna nella scoperta di come funziona la sessualità femminile.

 

Sentirsi sbagliati. Anzi, in particolare sentirsi sbagliate. Nella mia esperienza di terapeuta sessuale credo sia il tema più ricorrente. Portato soprattutto dalle donne, in varie declinazioni.

Provare troppo poco desiderio, provarne troppo, avere difficoltà a raggiungere l’orgasmo, sentirsi da meno perché non si raggiunge l’orgasmo durante il coito, eccitarsi solo in risposta all’iniziativa sessuale dell’altro, sentirsi a disagio nel proprio corpo: sono solo alcune delle ragioni per cui le donne si sentono sbagliate, diverse, non funzionanti.

Il libro di Emily Nagoski è un libro per tutte loro. Anzi, è un libro per tutte noi.

Frutto del suo lavoro di educatrice sessuale, del suo incontro con le donne, con i loro dubbi e le loro domande, il volume è una raccolta di risposte che intreccia conoscenze scientifiche e storie femminili in modo chiaro ed evocativo.

A partire da solide nozioni scientifiche sull’anatomia e sul funzionamento sessuale, l’autrice prende in esame i più diffusi (e clamorosamente errati) modelli culturali sulla sessualità femminile, considerata da sempre una variante ‘light’ di quella maschile.

Questi modelli culturali hanno influenzato negativamente la vita e la sessualità di molte donne, facendole sentire sbagliate ogni volta che il loro funzionamento si discostava da quello standard maschile.

In opposizione alla comune tendenza a considerare la sessualità come comportamento, Emily Nagoski prende in esame i processi biologici, psicologici e sociali che ne stanno alla base, dimostrando come queste donne non siano uomini che funzionano male o in modo strano: sono donne. Con un normale funzionamento.

Le stesse parti, organizzate in maniera diversa.

Dal punto di vista anatomico, infatti, ogni parte dei genitali maschili ha il suo omologo nei genitali femminili. Nel feto i genitali sono uguali fino alla settima settimana di gestazione, poi si differenziano in maschili e femminili. Le parti omologhe sono parti che si sono sviluppate da tessuti fetali equivalenti: per esempio il clitoride (e non la vagina) dal punto di vista anatomico è omologo del pene, ed è dunque l’organo genitale con più terminazioni nervose e che produce, se stimolato nel modo giusto e nel giusto contesto, sensazioni di piacere più intense.

Se non provocano dolore, tendenzialmente tutti i genitali sono sani e normali, indipendentemente dalle differenze di forma, colore e dimensione.

E lo stesso vale per il loro funzionamento.

Attraverso una narrazione fluida e ironica, l’autrice ci accompagna nella scoperta di come funziona la sessualità femminile e di come dunque ogni donna può muoversi nella direzione di una vita sessuale più appagante e libera da condizionamenti e sofferenze.

Un concetto fondamentale per capire la risposta sessuale è il modello del duplice controllo. Il nostro cervello influenza la risposta sessuale attraverso due meccanismi: un ‘acceleratore’ (il sistema nervoso simpatico) che ci attiva in riposta a stimoli sessualmente rilevanti, e un ‘freno’ (il sistema nervoso parasimpatico) che risponde a potenziali minacce spegnendo l’attivazione. Entrambi sono fortemente condizionati dall’apprendimento, perciò le nostre esperienze, compresa la cultura familiare e sociale in cui siamo immersi, influenza il modo in cui si attivano i nostri freni e il nostro acceleratore. Per quanto ci siano statisticamente delle differenze di genere (gli uomini hanno tendenzialmente un acceleratore più sensibile e le donne freni più sensibili), le differenze all’interno di ciascun gruppo sono maggiori di quelle fra i due gruppi, per cui la sensibilità specifica di acceleratore e freni è diversa da una persona all’altra.

Ogni donna e più in generale ogni individuo ha la sua ‘personalità sessuale’, come la definisce l’autrice, composta da un personale e unico equilibrio tra questi due meccanismi, frutto della sua dotazione genetica e delle sue esperienze (compresa l’influenza culturale).

Tutta la vasta gamma di disturbi del funzionamento sessuale può essere letta come squilibrio (in un senso o nell’altro) tra freni e acceleratore.

Questi due meccanismi interagiscono con gli altri sistemi motivazionali del cervello, soprattutto con la risposta da stress.

Da un punto di vista evolutivo, non avrebbe senso fermarsi ad accoppiarsi nel bel mezzo dell’attacco di un leone. È invece più vantaggioso che, in caso di pericolo, il nostro cervello inibisca ogni sistema motivazionale che non sia utile alla sopravvivenza immediata e rimandi a tempi migliori il soddisfacimento di altri sistemi, compreso quello sessuale.

Ma, a differenza di quello che accade agli altri animali, il cervello umano attribuisce significati che vanno oltre la mera biologia e anche oltre la realtà concreta: cosa succede, dunque, se, in virtù dei condizionamenti culturali o di esperienze avverse, è il sesso a fare la parte del leone?

È il caso, ad esempio, dell’ansia da prestazione: la paura di non funzionare adeguatamente tira il freno, inducendo una risposta di allarme.

Nel caso di esperienze sessuali traumatiche, invece, il cervello impara a considerare gli stimoli sessualmente rilevanti come minacce, attivando il sistema di difesa.

Il modo in cui il nostro cervello percepisce e interpreta una sensazione dipende, dunque, dal contesto, inteso non solo come contesto fisico, ma anche (e forse soprattutto) come contesto emotivo e culturale.

La risposta sessuale femminile, inoltre, è più sensibile di quella maschile al contesto.

Purtroppo, evidenzia l’autrice, la nostra cultura non è per nulla favorevole alla costruzione di una sana e appagante vita sessuale: i messaggi che riceviamo sono contraddittori, distorti e tendono a bollare come sbagliato tutto ciò che non si conforma alla cultura dominante del momento. In questo modo è continuamente alimentato il senso d’inadeguatezza e il sesso è spesso associato a sensazioni di disgusto, anche nei confronti del proprio corpo.

Detto questo, in attesa che una rivoluzione culturale cambi il contesto in cui viviamo, Emily Nagoski invita e accompagna le lettrici (ed eventuali coraggiosi lettori!) a coltivare una vita sessuale più appagante anche all’interno di un mondo sfavorevole.

Prendendo in esame le più diffuse false credenze sulla risposta sessuale e smontandole una a una, servendosi efficacemente di solidi dati scientifici, l’autrice mostra, anche con l’aiuto di pratiche schede di lavoro, come alimentare il desiderio, come far crescere l’eccitazione e lasciarsi andare all’esperienza dell’orgasmo accrescendo il godimento e la soddisfazione rispetto alla propria vita sessuale. A fare da cornice a tutto questo una semplice ma fondamentale considerazione: siamo tutte diverse e siamo tutte normali.

Ciò che maggiormente influenza la sessualità è, infatti, il modo in cui ci sentiamo rispetto ad essa.

Se ci sentiamo sbagliate perché il modo in cui funzioniamo è diverso da ciò che ci è sempre stato proposto come normale o giusto, o da ciò che vediamo negli altri, allora vivremo male ogni aspetto della nostra vita sessuale, attivando i freni e alimentando un circolo vizioso di difficoltà e autoflagellazione.

È questo che Emily Nagoski, con prosa ironica e scorrevole, ma allo stesso tempo con rigore scientifico, cerca di trasmettere nel suo volume: coltivare il non giudizio, la compassione amorevole verso se stesse, accettandoci per quello che siamo, imparare a fidarsi del proprio corpo e dei suoi segnali.

Per riprendere un’efficace metafora dell’autrice, dobbiamo imparare a rinunciare alla mappa, ovvero a quanto la nostra cultura ci ha sempre insegnato sul sesso, e a conoscere e fidarci del territorio, ovvero il nostro corpo, le nostre emozioni e sensazioni.

A volte questo comporta un processo doloroso, una sorta di lutto per ciò che non siamo e avremmo voluto essere, o per ciò che non abbiamo e avremmo voluto avere, ma solo dandoci il permesso di essere quelle che siamo e di sentire quello che sentiamo, possiamo cambiare quei processi che ci bloccano e rilasciare i freni, imparando nel contempo a spingere sul giusto acceleratore e vivere appieno la nostra vita sessuale.

Solo se riusciremo ad accoglierla così com’è, in tutti i suoi aspetti e le sue particolarità, senza giudicarla e senza forzature, anche se non è come avremmo voluto o come ci saremmo aspettate, allora potremo sentirci normali e creare le condizioni affinché la nostra sessualità si esprima al massimo del suo potenziale e diventi davvero appagante.

Per migliorare la propria vita sessuale, dunque, è importante imparare a riconoscere i contesti che aiutano il cervello a percepire il mondo in modo da favorire il rilascio dei freni e la pressione sull’acceleratore.

 

La Terapia dell’Avventura nel Disturbo Borderline di Personalità

Mendo‐Cullell e colleghi nel 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare la risposta alla Terapia dell’Avventura rispetto al trattamento basato sulla terapia cognitivo-comportamentale in pazienti con disturbo borderline di personalità.

 

Cos’è la Terapia dell’Avventura

Per far fronte agli alti tassi di disagio familiare, sociale psicologico o di vera e propria disabilita tra bambini, adolescenti, giovani adulti e anziani, recentemente è stata ideata la Terapia dell’avventura (AT), una terapia decisamente innovativa, nata negli Stati Uniti ma rapidamente diffusa anche in Europa. È una forma di terapia esperienziale che coinvolge vari tipi di attività all’aria aperta e sembra essere particolarmente efficace per elevare il benessere, implementare l’autostima, l’autonomia e le capacità relazionali (Russel et al., 2017). La Terapia dell’Avventura offre strumenti di prevenzione, intervento precoce e trattamento per persone con problemi comportamentali, psicologici e psicosociali: i partecipanti apprendono importanti abilità e lezioni di vita da utilizzare nella loro quotidianità tra cui la cooperazione con gli altri, il lavoro di gruppo e il superamento dei propri limiti e delle proprie paure. Diversi risultati in letteratura hanno valutato l’efficacia della Terapia dell’Avventura su una grande varietà di popolazioni, trovando che la Terapia dell’Avventura porti a molti miglioramenti psicologici, comportamentali, emotivi e interpersonali che vengono mantenuti a lungo termine. I benefici sono stati osservati su giovani a rischio, pazienti con malattie croniche, cancro, disturbi comportamentali, abuso di sostanze, danni cerebrali acquisiti, disturbi d’ansia, difficoltà di comunicazione, bambini con disturbi dello spettro autistico e disturbi psicotici (Bryson et al., 2013; Girard & Dubé, 2017). Quasi tutti i programmi di terapia dell’avventura sono basati sul Outward Bound Process Model (Walsh e Golins, 1976) che è una forma di apprendimento esperienziale e prevede che ciascun partecipante, collocato in un gruppo di pari, esegua alcuni compiti specifici di problem solving progettati in modo tale da portarlo fuori dalla sua zona di comfort e creare uno stato di disagio. Da queste esperienze, risolvendo la situazione, i pazienti sviluppano abilità di adattamento, capiscono le conseguenze delle proprie azioni e sperimentano il controllo (Gass & Russell, 2012).

La Terapia dell’Avventura per il Disturbo Borderline di Personalità

Il disturbo borderline di personalità (DBP) colpisce tra lo 0,7 e il 2,0%  della popolazione ed è caratterizzato da grandi difficoltà di adattamento che condizionano diversi settori della vita di chi ne soffre. I tratti di personalità disfunzionali presenti nei pazienti borderline includono principalmente elevati livelli di instabilità emotiva, instabilità e ipersensibilità nei rapporti interpersonali, difficoltà nel controllo degli impulsi, instabilità nell’immagine di sé, estreme fluttuazioni dell’umore e bassa tolleranza alla frustrazione. Tali tratti disfunzionali causano rigidità comportamentale e grandi problemi nella costruzione di relazioni sane e stabili (APA, 2013). L’applicazione della Terapia dell’Avventura prevede che i pazienti con DBP vengano messi di fronte alle loro difficoltà in modo da far emergere i tratti disfunzionali; tramite il confronto con gli altri sulle difficoltà e la gestione adattiva dei loro comportamenti disfunzionali guidata da terapeuti, i partecipanti potrebbero trarre grandi vantaggi e sviluppare nuove abilità da utilizzare nella vita quotidiana. È molto probabile quindi che la Terapia dell’Avventura possa essere utile anche per questo disturbo. Poiché non esistevano risultati in letteratura che valutassero l’efficacia della Terapia dell’Avventura sul disturbo borderline, Mendo‐Cullell e colleghi nel 2021 hanno condotto uno studio con l’obiettivo di valutare la risposta alla Terapia dell’Avventura rispetto al trattamento basato sulla terapia cognitivo-comportamentale in pazienti con DBP. In particolare gli autori volevano verificare gli effetti a breve termine dell’AT in pazienti con diagnosi di BPD, sia dal punto di vista clinico e psicosociale, sia in termini di salute fisica e qualità della vita.

Uno studio sulla Terapia dell’Avventura applicata al BPD

Sono stati inclusi nello studio 20 pazienti con diagnosi DBP, appartenenti al Programma Specifico di Ospedalizzazione Parziale (PHSP) del Day Hospital Psichiatrico per Adulti di un ospedale, 10 dei quali sono stati inseriti in un gruppo di Terapia dell’Avventura mentre i rimanenti 10 sono stati inseriti in un gruppo di terapia convenzionale cognitivo-comportamentale (treatment as usual-TAU). Ciascuna sessione di Terapia dell’Avventura prevedeva diverse attività fisiche tra cui giochi di problem-solving, slackline, arrampicata e trekking, con l’obiettivo di attivare, attraverso esercizi esperienziali, i pattern disadattativi abituali delle persone borderline in situazioni di alta intensità emotiva. Ogni sessione prevedeva inoltre un’attività fisica che provocava disregolazione emotiva e richiedeva cooperazione con i compagni. Le attività di lavoro permettevano di elaborare le difficoltà nella sfera interpersonale, nella regolazione emotiva e nella tolleranza all’angoscia. Entrambi i gruppi sono stati valutati pre e post trattamento e per ciascun paziente sono stati somministrati i seguenti questionari: Beck Hopelessness Scale (Beck et al., 1974) per valutare le aspettative negative sul futuro; la Rosenberg Self-Esteem Scale (Rosenberg, 2015) per l’autostima; il State-Trait Anxiety Inventory (STAI; Spielberger et al., 1999) per la valutazione dell’ansia; il Plutchik Impulsivity Scale (Plutchik & Van Praag, 1989) per verificare la frequenza dei comportamenti impulsivi. Successivamente ai soggetti è stato somministrato il World Health Organization Disability Assessment Schedule (WHODAS 2.0; WHO, 2015) per le difficoltà funzionali che il paziente ha identificato nei 30 giorni immediatamente precedenti il test e, infine, il World Health Organization Quality of Life, versione abbreviata (WHOQOL-BREF; WHO, 1996) per valutare la qualità della vita.

I risultati mostrano che i parametri studiati hanno subito dei miglioramenti soprattutto dopo la Terapia dell’Avventura. In particolare nel gruppo Terapia dell’Avventura sono state riscontrate in primo luogo abitudini di vita più sane, con un notevole aumento della frequenza dell’esercizio fisico e un miglioramento di alcuni parametri fisici. Inoltre i pazienti che hanno fatto Terapia dell’Avventura mostrano una migliore percezione della qualità della vita e una diminuzione delle difficoltà funzionali e nell’instaurare relazioni sociali. Anche i valori dell’ansia sembrano diminuiti dopo la Terapia dell’Avventura mentre l’autostima, sebbene sia aumentata in entrambi i gruppi, sembra essere migliorata maggiormente nel gruppo TAU. I risultati confermano quindi una possibile applicazione della Terapia dell’Avventura per i pazienti con disturbo borderline in quanto sono state osservate abitudini di vita più sane, una maggiore funzionalità e una più alta qualità della vita. Sarebbero necessarie però ulteriori ricerche in questo campo per confermare i risultati ottenuti e verificarne l’efficacia nel tempo (Mendo‐Cullell et al., 2021).

 

La guerra in Ucraina e l’intervento delle società europee di terapia cognitivo-comportamentale

La guerra scoppiata ormai da alcune settimane in Ucraina ha coinvolto ovviamente anche il mondo psicologico e le diverse società nazionali afferenti all’EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) sono state coinvolte in modi diversi. 

 

L’EABCT stessa ha prodotto un comunicato pubblicato sulla sua pagina web, di forte condanna all’azione militare. Si può leggere sul sito dell’associazione un comunicato che inizia così:

L’Associazione Europea per le Terapie Comportamentali e Cognitive protesta contro la violazione del diritto internazionale prodotta dell’invasione ingiustificata dell’Ucraina, nazione sovrana, da parte delle truppe russe. Come professionisti della salute mentale sappiamo dell’impatto della guerra sulla salute mentale e sul benessere degli individui e della società nel presente e per le generazioni a venire. Tutto ciò dovrebbe essere impedito attraverso la cessazione delle ostilità e dal ripristino della pace”.

Tra le società nazionali, la più coinvolta è ovviamente la società ucraina, Ukrainian Association of Cognitive and Behavioural Therapy (UACBT). La sua presidente, Valentyna Parobii, in fuga dalla nazione, ha diffuso un video il 27 febbraio scorso, su 5 punti chiave a proposito della guerra in Ucraina. Può essere visto qui:

Tra le pagine social dell’UACBT, è ben aggiornata la pagina Facebook, che riporta diverse iniziative, anche online prodotte in questi giorni.

Anche le associazioni nazionali russe fanno parte dell’EABCT. Ve ne sono due e una di queste, l’ACBP (Association for Cognitive and Behavioral Psychotherapy) segnala la contrarietà all’intervento armato attraverso il suo gruppo Facebook in un comunicato del presidente Dmitrii Kovpak. È in lingua russa, ma il traduttore automatico del social network ne permette una comprensione ragionevole.

La European Society for Traumatic Stress Studies (ESTSS) ha fornito raccomandazioni su cosa possono fare i professionisti della salute mentale per in supporto all’Ucraina, che sono reperibili a questo link.

Inoltre la società polacca, molto coinvolta nell’assistenza ai profughi provenienti dall’Ucraina, è particolarmente attiva e sta lavorando in modi diversi l’assistenza a chi fugge dal conflitto: attraverso la traduzione di materiali di supporto psicologico per i profughi e sta raccogliendo disponibilità di terapeuti volontari per l’assistenza i profughi. È possibile aderire compilando questo modulo online.

Magari il nostro contributo non sarà necessario, ma per chi volesse mettersi a disposizione, avendo le competenze necessarie e la conoscenza linguistica, può essere un buon modo per rendersi utili in questi momenti così difficili.

 

Il profilo psicologico di Vladimir Putin 

La brutale invasione dell’Ucraina per mano di Vladimir Putin riporta a galla in noi quelle grandi domande quali, “Perché la guerra?” o, ancora, “Come può un uomo – Putin – compiere azioni così ripugnanti come uccisioni sanguinose ed ingiustificate?”.

 

Introduzione

A queste domande difficilmente riusciremo a trovare una risposta quantomeno soddisfacente, ma la psicoanalisi e la psicologia, articolata nelle sue aree teorico-applicative, hanno provato a dare un proprio personale contributo a questi interrogativi. Alla prima domanda (tra l’altro titolo di un famoso carteggio tra Einstein e Freud) potremmo rispondere riprendendo la famosa concezione psicoanalitica freudiana che postula come nell’animo umano convivano due tipi di pulsioni innate: una di vita – Eros – che orienta gli uomini alla conservazione ed alla riproduzione, ed una di morte – Thanatos – che si manifesta invece in tendenze autodistruttive, di cui la guerra è esempio emblematico.

Alla seconda è possibile cercare di rispondere attingendo alla scienza della personalità, tenendo presente che per capire a fondo il comportamento di una persona – anche se è faticoso – bisogna essere in grado di abbracciare la complessità, comprendendo che un individuo è il frutto di un’interazione tra determinanti genetiche ed ambientali tra cui fattori culturali e sociali (la mentalità di Putin del resto rappresenta il tentativo della Russia, dopo il crollo dell’Urss – 1989 – di resistere all’occidentalizzazione).

Concentrandoci però sull’aspetto personologico di Vladimir Putin, una ricerca del 2018 ha provato a delineare il profilo di personalità del presidente della Federazione Russa: il metodo utilizzato nel seguente lavoro è stato ideato dal ricercatore Aubrey Immelman ed è plasmato sul modello di personalità di Theodore Millon, uno degli artefici del formato multiassiale del DSM, nonché fondatore del Journal of Personality Disorders. Egli definisce la personalità come l’insieme di tratti intrinseci e pervasivi che emergono da una complicata matrice di disposizioni biologiche e di apprendimenti esperienziali che, in definitiva, comprendono il valore distintivo dell’individuo di percepire, sentire, pensare, adattarsi e comportarsi (Millon, 1996, p. 4).

La teoria di Millon e la metanalisi psicodiagnostica

In sintesi, il modello di Millon offre un continuum tra normalità e psicopatologia: i disordini di personalità sono semplicemente delle distorsioni patologiche dei normali prototipi o stili di personalità. Questa mancanza di una linea netta tra normale e patologico ha delle importanti implicazioni nell’assessment di personalità politica sviluppato da Immelman, in quanto migliora la capacità predittiva del metodo anticipando così, con precisione teoretica, le strategie di coping di un leader di fronte alle avversità, nonché il probabile decorso di un crollo catastrofico nel suo funzionamento adattivo (per una review comprensiva di tale modello si rimanda a Immelman, 1993a; 1998).

La procedura di assessment utilizzata – chiamata metanalisi psicodiagnostica – consta di tre parti: una prima fase dove sono stati estratti dall’open-source intelligence dati psicobiografici del presidente Putin rilevanti dal punto di vista psicodiagnostico, una seconda fase di sintesi dei dati raccolti attraverso il Milion Inventory of Diagnostic Criteria (MIDC; Immelman, 2012), strumento di assessment psicologico costituito da 170-item e 12 scale corrispondenti a pattern di personalità che fornisce 34 classificazioni personologiche (20 normali , 14 maladattive) congruenti con l’Asse II del DSM-IV; un’ultima fase inferenziale dove il profilo di personalità prodotto dal MIDC viene quindi valutato seguendo le linee guida interpretative fornite dalla teoria di Millon.

Putin, in primo luogo, è risultato avere dei punteggi decisamente alti (ma adattivi) nelle scale “Dominante/controllante” (una misura di aggressività o ostilità), “Ambizioso/egoista” (una misura di narcisismo), “Coscienzioso/diligente” e, secondariamente, anche nelle scale “Schivo/Riservato” (introverso), “Intrepido/Avventuroso” (assumersi il rischio) e “Diffidenza/Sospettosità” (Fig.1).

 

Vladimir Putin ipotesi sul suo profilo psicologico e personologico Fig 1

Fig.1: Configurazione di personalità di Vladimir Putin

Qual è il profilo di personalità di Putin delineato dalla valutazione?

Sembrerebbe emergere, dunque, una personalità dominante a cui piace esercitare il potere ed intimidire gli altri, evocando obbedienza e rispetto; un carattere competitivo, tenace e non sentimentale. Un leader efficace sebbene, in certe occasioni, possa essere intransigente, testardo, coercitivo.

Personalità ambiziosa, audace, competitiva e sicura di sé. La sua tendenza ad assumere facilmente ruoli di leadership è dovuta al possedimento di forti doti persuasive e al suo saper agire con fermezza e decisione. Si aspetta che gli altri riconoscano le sue qualità speciali, ma tende a mancare di reciprocità e, spesso, agisce soltanto perché pensa di avere il diritto di farlo.

Personalità coscienziosa, può essere descritto come una persona operosa, organizzata, affidabile, prudente e rispettosa delle tradizioni e dell’autorità. È formale ed inflessibile nelle sue relazioni interpersonali.

L’interpretazione del profilo di Putin deve anche tenere conto di altre caratteristiche secondarie: personalità riservata, fredda e distaccata, fatica a sviluppare forti legami con altre persone e raramente esprime agli altri i suoi sentimenti/pensieri. Persona calma e rilassata, metodico nel lavoro, non si fa distrarre facilmente da ciò che accade intorno a lui. Ha una scarsa capacità di riconoscere i bisogni ed i sentimenti altrui, pertanto viene visto come insensibile, poco spontaneo.

Personalità audace e avventurosa, individualista, regolato dal proprio codice interno, agisce nel modo che egli ritiene più opportuno senza preoccuparsi degli effetti delle sue azioni. È disposto ad assumersi le responsabilità delle conseguenze ma, per farlo, può oscurare la verità o violare la legge e le convenzioni sociali stabilite. Mostra un forte bisogno di autonomia ed autodeterminazione e tende ad essere scettico sulle motivazioni addotte dalle altre persone.

Personalità diffidente, ha una forte inclinazione nel voler leggere le persone e le situazioni intorno a lui e si trova totalmente a suo agio con situazioni ambigue, secondi fini e distorsioni della verità.

I punti di forza della sua personalità in politica sono il suo atteggiamento dominante e la sua assertività; mentre i suoi principali difetti sono la sua intransigenza, la mancanza di empatia e di flessibilità cognitiva.

Possiamo concludere che, con la sua particolare configurazione di personalità, Putin possa essere caratterizzato come un esecutore ostile espansionista con un orientamento al ruolo di politica estera che può essere descritto come introversione deliberativa ad alto dominio.

 

Vladimir Putin ipotesi sul suo profilo psicologico e personologico - imm 2

L’inquietudine adolescenziale nell’era Covid-19

Il Covid ha privato gli adolescenti di esperienze fondamentali per la crescita proprio in un momento del ciclo di vita in cui è pressante la spinta verso l’autonomia ed il bisogno di appartenenza, confronto e rispecchiamento con l’Altro.

 

L’adolescenza è una fase del ciclo di vita delicata, complessa ed affascinante che, in quanto tale, merita un’attenzione specifica, si tratta di un’epoca della vita umana caratterizzata da incertezza e instabilità psichica, corporea e relazionale (Lancini M, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, 2020). La pandemia, il lockdown, la didattica a distanza, hanno stravolto la quotidianità di ciascuno creando in molti adolescenti un vero e proprio blocco nel percorso di realizzazione dei compiti evolutivi. Come dichiarato da Claudio Mencacci nel corso di un’intervista rilasciata il 27 gennaio 2022 a Il Sole 24 ore:

Con la pandemia un’allarmante percentuale di giovanissimi sta manifestando i segni di un disagio mentale. I tassi di depressione e ansia che si registrano sono direttamente correlati alle restrizioni: si impennano cioè quando viene impedita la socialità, quando si deve tornare alla didattica a distanza, quando non si possono coltivare le relazioni con i coetanei che in adolescenza sono indispensabili.

Il contesto scolastico in adolescenza

Se pensiamo alla scuola non solo come luogo di trasmissione di informazioni ma come vero e proprio ‘contenitore’ emotivo e sociale, luogo di crescita e di confronto, ponte tra famiglia e società, comprendiamo come i ragazzi siano stati privati per lungo tempo di esperienze fondamentali per la crescita proprio in un momento del ciclo di vita in cui è pressante la spinta verso l’autonomia ed il bisogno di appartenenza, confronto e rispecchiamento con l’Altro; durante la DAD i ragazzi si sono trovati chiusi in casa, confinati nelle loro camere, a tu per tu con le loro paure ed angosce, costretti a relazionarsi col mondo attraverso uno schermo.

Le ricerche condotte nel corso dell’ultimo anno sullo stato di salute mentale di bambini ed adolescenti mettono in mostra uno stato di emergenza sul quale non è possibile pensare di continuare a chiudere gli occhi, si rende necessaria piuttosto una immediata presa di consapevolezza da parte di tutta la società. I ragazzi attraverso i loro comportamenti (pensiamo al notevole aumento dei casi di suicidio, autolesionismo, disturbi alimentari, ansia, depressione) stanno comunicando con forza il loro malessere, il loro smarrimento, la loro solitudine, il senso di impotenza nei confronti di un futuro incerto, vissuto come privo di progettualità e mete da raggiungere. Si tratta di ragazzi che sentono di star male ma che non riescono a dare un nome alle sensazioni che provano, falliscono nel tentativo di comprendere gli intensi vissuti emotivi da cui si sentono sopraffatti, motivo per cui, probabilmente, ad oggi assistiamo ad un notevole aumento dei comportamenti aggressivi: le emozioni non comprese vengono agite, il sintomo segnala il disagio, comunica il dolore e la sofferenza individuale. Spesso il sintomo rappresenta anche una prima forma di cura messa in atto per mitigare un dolore vissuto come insopportabile (Lancini M, L. Cirillo, T. Scodeggio, T. Zanella, 2020). Molti ragazzi manifestano difficoltà che in poco tempo riescono a superare, ma tanti altri stanno mostrando di non avere le risorse interne per riuscire a fronteggiare situazioni di crisi. La pandemia ha indebolito psicologicamente molti adolescenti slatentizzando fragilità mentali che fino ad oggi non si erano mai manifestate o andando ad aggravare problemi preesistenti.

È necessario che questi temi vengano portati sempre più in primo piano e sottoposti all’attenzione di tutti affinché, con urgenza, vengano messi in atto interventi efficaci e concreti che vedano tutte le istituzioni impegnate in una presa in carico globale degli adolescenti, appare chiaro quanto la salute mentale abbia un ruolo prioritario e non più accessorio rispetto alla salute fisica.

 

Mental Health Apps e Digital Therapy

Le Mental Health Apps intervengono con metodologie basate sulla psicoeducazione, la meditazione e l’assesment per migliorare gli stati d’ansia, stress e depressione.

 

La Digital Mental Health

Era il gennaio del 2020 e l’Organizzazione Mondiale della Sanità annunciava l’emergenza sanitaria di interesse internazionale da COVID-19. Oggi, dopo esattamente 2 anni, la pandemia ha ridisegnato completamente le nostre abitudini e tra queste l’uso (e l’abuso) delle nuove tecnologie digitali ci ha portato a ricercare modalità di comunicazione impersonali e ibride per superare l’isolamento sociale e l’emergenza sanitaria. Una necessità che nasce dal nostro bisogno di confronto e di rapporti umani che alimentano gli stili d’interazione, le strutture sociali e le strategie di socialità-adattiva.

Pc e Smartphones sono diventati i nuovi oggetti transizionali (Winnicott, 1951), estensioni della nostra mente. La finestra sul mondo che ci permette di osservare e cercare oltre i limiti della fisicità. Ed è proprio questa nuova predisposizione che rende anche la salute mentale sempre più ‘smartphone’.

Il settore della Digital Mental Health è in forte crescita e ricercatori e professionisti stanno lavorando da quasi dieci anni sui benefici e le criticità di questi nuovi strumenti sanitari. Numerose e ancora inevase sono le domande, i dubbi e le perplessità sulla loro efficacia  e adeguatezza, sul futuro della diagnosi e del sostegno psicologico self-made (Firth et Al, 2017).

Oggi sono due gli ambiti in via di sviluppo: le Mental Health Apps, che sono ‘applicazioni benessere’ self-help per migliorare condizioni di ansia e depressione attraverso tecniche motivazionali e di meditazione del tipo ‘intervention app’ (di supporto o trattamento) o di ‘mood tracking/assessment’ (Wasil et Al, 2019); e la Digital Therapy (DTx), che riguarda strumenti progettati per curare disturbi con interventi farmaco-sostitutivi che richiedono alti standard di sicurezza ed efficacia da rispettare.

La Digital Therapy

Tra queste ultime l’America fa da pioniera con l’approvazione della prima DTx da parte della Food Drug Administration (FDA) già nel 2017, alla quale sono seguite terapie digitali per la diagnosi e il trattamento di ADHD (il video-gioco EndeavoRx ), il deterioramento cognitivo, i disturbi del sonno e da abuso di sostanze. Un mercato che secondo il fondo Rock Health muove 2,4 miliardi di dollari di finanziamenti tra le società di salute comportamentale digitale.

Sempre in America uno studio randomizzato controllato sulla DTx Daylight per la preoccupazione e l’ansia, ha rilevato che il 71% degli utenti ha ottenuto la remissione del disturbo d’ansia generalizzata, rispetto al 33% di quelli in un gruppo di controllo (Carl, JR, et al.,2020).

In Europa invece sono la Gran Bretagna e la Germania a fare da apripista e mentre l’Italia paga un ritardo digitale e l’assenza di normativa in materia, la Germania invece si dimostra la prima ad approvare dispositivi terapeutici digitali per disturbi del sonno e depressione, tra i quali troviamo rispettivamente Somnio e Velibra.

Queste nuove opportunità di intervento sono di base cognitivo-comportamentale e hanno come obiettivo quello di modificare gli schemi di comportamento disfunzionali che non permettono al paziente di applicare strategie quotidiane adeguate ed efficaci, con la possibilità di alleggerire il carico nelle strutture sanitarie e affiancare la figura dello specialista con un approccio integrato di prevenzione, riabilitazione, monitoraggio e valutazione del percorso terapeutico. Di contro, gli alti costi per una realizzazione capillare delle Dtx e la richiesta di prescrizione medica per molte di loro riducono notevolmente le promettenti potenzialità e il numero di professionisti abilitati a farne uso.

Le Mental Health Apps

Anche il settore delle Mental Health Apps si sta affermando tra gli users: una ricerca di Deloitte sulla Digital (Consumer) Evolution, presentata lo scorso 18 gennaio, stima una spesa a livello globale per le Mental Health App (MH-App) che raggiungerà quasi i 500 milioni di dollari per il 2022. Un risultato importante che si aggiunge alle già numerose versioni gratuite di MH-App per il benessere mentale e lo stile di vita interiore. Si tratta di App che intervengono in prevalenza con metodologie basate sulla psicoeducazione, la meditazione e l’assesment per migliorare gli stati d’ansia, stress e depressione (Wasil et Al, 2019). Questi disturbi, in forte crescita soprattutto tra le fasce più giovani (Chen et Al. 2020), sono il risultato di difficoltà relazionali causate dall’isolamento forzato e il distanziamento sociale. Il fenomeno interessa anche le fasce più anziane: uno studio della Warren Alpert Medical School of Brown University, Providence, Rhode Island ha valutato 15 App, economiche e accessibili, di formazione e orientamento per la terza età durante la fase pandemica e i risultati hanno dimostrato una riduzione del senso di solitudine e un miglioramento della salute e dell’indipendenza personale (Banskota et Al. 2020).

Il monitoraggio delle Mental Health Apps e della Digital Therapy

Sono nate anche App che monitorano le Mental Health Apps e le Digital Therapy: Stephen Schueller, PhD e professore associato di scienze psicologiche e informatica presso l’Università della California ha creato un sito per i consumatori, One Mind Psyber Guide, che aiuta a trovare strumenti validi ed efficaci basati sull’esperienza dell’utente, su prove evidenced-based, sicurezza e privacy, fornisce un punteggio di credibilità per le App e un giudizio clinico sul loro sviluppo relativamente a disturbi d’ansia, stress, PTSD e DOC.

Un altro esempio è l’App Evaluation Model di iniziativa dell’American Psychiatric Association, progettata per aiutare consumatori e clinici nella scelta di App appropriate, con una sezione validity-check rivolta agli esperti.

Il tema ha interessato le maggiori riviste scientifiche, da Lancet Digital Health a Nature Digital Medicine, con l’evidenza che nei prossimi anni ci troveremo ad affrontare gli effetti di queste nuove modalità relazionali e di approccio alla cura. Ancora non possiamo dire con certezza se si tratterà di Digital Placebo Effect (Tourus. J. et Al., 2016) o di sistemi di intervento integrati, efficaci e curativi a favore anche delle fasce economicamente più svantaggiate. Certo è che la nuova figura del paziente-consumatore richiederà, oltre all’evidenza scientifica, comportamenti di promozione e tecniche di intervento per un uso responsabile e consapevole a favore del benessere personale e collettivo.

 

Gli antecedenti del suicidio nei giovani

Il suicidio è considerato un grande problema di salute pubblica; è causato da aspetti psicologici, sociali, economici, biologici e culturali (Barrio, 2007).

 

Il suicidio colpisce tutte le fasce d’età e, sebbene nel mondo le statistiche durante l’infanzia siano più basse, recentemente sono aumentate, provocando scalpore per la tragicità dell’evento. Talvolta accade che i bambini non abbiano strategie adattive sufficienti per far fronte ad alcune situazioni stressanti: diversi studi dimostrano infatti che nel periodo di transizione tra la tarda infanzia e l’adolescenza avvengano vari cambiamenti interni ed esterni che hanno un impatto sulla capacità emotiva, fisica e mentale di colui che li vive (Unicef, 1999). Per tale ragione, in tutto il mondo il suicidio è molto comune tra i giovani ed è la terza causa di morte sia per le ragazze che per i ragazzi tra i 15 e i 19 anni (WHO, 2019). Da molti anni, in molti paesi, i tassi di suicidio nei bambini e nei giovani sono in aumento: uno studio epidemiologico condotto in 101 paesi tra il 2000 e il 2009 ha rilevato che il 14,7% dei suicidi si è verificato in bambini tra i 10 e i 14 anni di età (Kõlves & De Leo, 2015); nel  2018 le registrazioni di decessi per suicidio dell’Office for National Statistics (ONS) mostrano un aumento del 22% in un anno del tasso di suicidio nei giovani sotto i 25 anni. Anche in Europa il suicidio sembra essere la seconda causa di morte tra i giovani, dopo gli incidenti stradali. Circa 1.200 ragazzi all’anno, nella fascia di età 10 – 19 anni, si tolgono la vita.

I segnali d’allarme per il suicidio

Oltre ai tassi del suicidio, anche i tassi di autolesionismo sono in aumento, specialmente tra le ragazze e tra coloro che hanno meno di 20 anni. Questo dato è importante in quanto l’autolesionismo costituisce uno dei fattori di rischio per un successivo suicidio. È interessante notare come per le ragazze l’aumento sia iniziato più tardi (2013 rispetto a 2010 per gli uomini) ma sia raddoppiato molto rapidamente (entro il 2018); sembra infatti che tale aumento coincida con l’impatto dei social media e con la crescente domanda di servizi di salute mentale per bambini e adolescenti (Lennon, 2018).

Nonostante i membri della famiglia riferiscano che la morte di un ragazzo spesso avvenga ‘di punto in bianco’ e senza alcun tipo di preavviso, la maggior parte degli studi che si sono occupati di analizzare i suicidi individuali riportano la presenza di alcuni segnali d’allarme tra cui l’autolesionismo, l’espressione di ideazione suicidaria e un recente contatto con i servizi (Björkenstam et al., 2017). Sembrerebbe quindi che coloro che non danno nessuna indicazione di un intento suicidario siano una minoranza. Generalmente diversi fattori interagiscono prima che i pensieri suicidari si trasformino in un comportamento suicidario: spesso esiste un disturbo psichico sottostante e un evento stressante che scatena il comportamento. I problemi più comuni sono la depressione, l’ansia e il disturbo da stress post traumatico; tra gli adolescenti anche il disturbo da uso di alcol o sostanze e uno scarso controllo degli impulsi (Driver, & Thomas, 2018).

Uno studio sugli antecedenti del suicidio

Nel 2020 uno studio di Rodway e colleghi ha tentato di esaminare gli antecedenti del suicidio nei giovani che potrebbero aver contribuito al recente aumento. In particolare i ricercatori volevano riportare i numeri ed esaminare gli antecedenti del suicidio da parte di giovani tra i 10 e i 19 anni; esplorare le differenze di genere in queste caratteristiche e descrivere i contatti con i servizi o le agenzie specializzate. Inoltre gli autori volevano esaminare alcuni particolari sottogruppi tra cui i bambini affidati alle autorità locali, gli LGBT e i giovani che avevano subito un lutto. Per i dati necessari hanno raccolto tutte le indagini degli organismi ufficiali del Regno Unito tra il 1° gennaio 2014 e il 31 dicembre 2016. I rapporti delle inchieste sui giovani morti per suicidio contengono molte informazioni tra cui le testimonianze di famiglie, amici e professionisti, riguardo a episodi stressanti che il giovane stava vivendo prima di suicidarsi. Le informazioni sugli antecedenti sono state estratte da udienze o fascicoli dell’inchiesta del tribunale o rapporti di morte della polizia; revisioni di casi ottenute dalla National Society for the Prevention of Cruelty to Children national case review repository; rapporti della giustizia penale; dati della National Confidential Inquiry into Suicide and Safety in Mental Health (NCISH) e, infine, rapporti di incidenti gravi del Servizio Sanitario Nazionale (NHS). Sono stati quindi inclusi nello studio 595 soggetti su cui era registrato almeno un rapporto e si sono svolte diverse analisi statistiche per esaminare le associazioni tra genere, sottogruppo e altre caratteristiche. I risultati mostrano che tra i quasi 200 suicidi l’anno nel Regno Unito tra il 2014 e il 2016, il 71% erano maschi e l’età più frequente risulta essere l’adolescenza (tra i 17 e i 19 anni). Inoltre sembrerebbe che i principali antecedenti comuni nelle ragazze siano: malattie mentali familiari, violenza domestica, abusi, lutti dei genitori, bullismo, autolesionismo, assistere a violenza domestica, lutti (compreso il suicidio) e possibili pressioni scolastiche. Per i ragazzi i principali antecedenti sono invece l’abuso di droga e i problemi sul posto di lavoro. I metodi più comunemente utilizzati dai giovani per suicidarsi sono risultati l’impiccagione/strangolamento, lesioni multiple (e.g. il salto dall’alto e le morti in ferrovia) e l’auto-avvelenamento. Infine è emerso che molti dei giovani inclusi nello studio appartenevano ai sottogruppi analizzati (LGBT, bambini assistiti e bambini che avevano subito un lutto) e molti antecedenti del suicidio sono risultati più comuni in questi ultimi: l’autolesionismo, l’abuso, il bullismo e l’ideazione suicidaria, per esempio, erano più frequenti nel gruppo LGBT.

Conclusioni

In conclusione esistono diversi antecedenti al suicidio nei giovani che sono importanti per un approccio di prevenzione che include politiche antibullismo nelle scuole e sul posto di lavoro, sostegno per le famiglie in lutto, servizi di salute mentale che offrono accesso urgente, valutazioni psicosociali dopo episodi di autolesionismo. Sarebbero necessarie inoltre particolari attenzioni per alcune minoranze: supporto per l’alloggio e la salute mentale per i bambini assistiti e attività mirate all’inclusione sociale e alla diversità nel gruppo LGBQ. Anche le piattaforme social possono infine avere un ruolo nel fenomeno del suicidio tra i giovani, prevenendolo con la riduzione dell’accessibilità delle informazioni sui metodi di suicidio, ma anche amplificandolo attraverso l’apprendimento sociale, in particolare per i giovani che sono più vulnerabili ad essere influenzati (Rodway et al., 2020).

 

Il concetto di bisogno nella ricerca in psicologia. Prima parte: dalla sete ai bisogni umani fondamentali

Bisogno… un termine problematico, di grande interesse per molte discipline scientifiche, sociali e non sociali.

Ndr – Il presente articolo è il primo di una serie di contributi sull’argomento che verranno pubblicati nelle prossime settimane

 

Il significato della parola ‘bisogno’ nella vita quotidiana

Sentire il bisogno di avere qualcosa, di fare qualcosa, di sentire qualcosa. Soddisfare un proprio bisogno. Sentire il bisogno di dire la propria, di esprimersi. Per le menti più filosofiche: il bisogno di vivere.

Queste e altre espressioni si presentano nel nostro quotidiano continuamente. Tutti diamo per scontato il significato di ‘aver bisogno di’, ma temo pochi siano in grado di definire chiaramente cosa voglia dire per noi un’espressione del genere. Come anche credo sia difficile trovare un significato di essa che valga per tutti.

Per trovare un primo punto di condivisione può aiutarci una fonte autorevole come l’Enciclopedia Treccani (cfr. Treccani Online). Qui il termine ‘bisogno’ denota in generale uno ‘stato o l’espressione della mancanza di qualche cosa’. Ma non può bastarci questa definizione, manca il termine referenziale: che cosa ‘manca’? E poi, non è vero che il significato di questa parola può avere accezioni molto più specifiche e, soprattutto, relative alla particolare angolatura della disciplina che la esamina? Ad esempio, in economia un bisogno è sempre in relazione alla quantità (limitata) dei beni economici in circolazione in grado di soddisfarlo (Palmerio, 2015). In sociologia e antropologia, un bisogno è qualcosa di legato alla particolare istituzione che ne permette o ne agevola il soddisfacimento (Malinowski, 1944). In biologia, la parola possiede un’accezione relativa ai ‘mattoni della vita’: stato di deprivazione di nutrienti, molecole, energia e simili (cfr. Sadava, Hillis, Heller, & Hacker, 2019).

Bisogno‘… un termine problematico, di grande interesse per molte discipline scientifiche, sociali e non sociali. Tutte, indistintamente, in un modo o nell’altro considerano il bisogno come ciò che muove la persona verso il soddisfacimento del bisogno stesso, in virtù di una sua posizione privilegiata nel mondo fenomenico dell’individuo.

Dalla sete ai bisogni umani fondamentali

È una splendida, calda giornata estiva e ho sete: sento il bisogno di bere qualcosa. Circostanza ben nota a chiunque, dove entrano in gioco processi e strutture che fanno di noi ciò che siamo come organismo, individui singoli e partecipanti alla società.

Dal punto di vista biologico, l’organismo, con lo stimolo della sete, segnala la presenza di un’eccessiva concentrazione di sali (sete osmotica) o di un basso volume di liquidi a livello extracellulare (sete ipovolemica). Possiamo anche stringere il campo e scendere fino a considerare le interazioni a livello molecolare (sistema renina-angiotensina), come anche salire ed allargarlo, considerando sistemi (ad esempio il sistema nervoso ed endocrino) organi (ad esempio i reni) e apparati (ad esempio l’apparato urinario e quello digerente), coinvolti nella regolazione omeostatica del bilancio idrico corporeo (Breedlove, Rosenzweig & Watson, 2007).

Dal punto di vista psicologico, la sete può essere considerata come la rappresentazione di uno scopo (bere liquidi), che ci muove (comportamento) verso l’obiettivo di procurarci da bere, considerato in quel momento come prioritario rispetto a molti altri (anche se non tutti, a seconda delle circostanze). La sete ha quindi un ruolo motivazionale: attiva pensieri (voglio bere), comportamenti (cerco da bere), sentimenti consci (urgenza di bere) in linea con la soddisfazione del bisogno (scopo).

A livello di comportamento sociale, infine, tenteremo di procurarci da bere in modi si presume socialmente accettabili: andremo in un bar e chiederemo un bicchier d’acqua, o ne compreremo una bottiglietta; ci accosteremo ad una fontanella; se incapaci di muoverci chiederemo aiuto a qualcuno etc.

Nonostante le conseguenze a livello sociale e individuale, il valore della sete è, prima di tutto, di essere funzionale alla sopravvivenza dell’organismo per mezzo dell’attivazione di altri processi connotati da una certa urgenza, a diversi livelli: se si può sopravvivere anche qualche settimana senza mangiare, non così senza bere. E ciò non vale solo per l’uomo: mantenere il bilancio idrico e di sali è uno scopo rilevante per tutti gli organismi. E l’individuo si attiva appena possibile per rispondere a queste esigenze.

Nell’uomo essa è, quindi, una delle espressioni di una classe più ampia di bisogni miranti all’autoconservazione che, secondo la celeberrima rappresentazione dei bisogni di base dell’uomo secondo Maslow (1943), possono essere compresi sotto l’etichetta di ‘bisogni fisiologici’. Ma l’essere umano non è solo biologia e sopravvivenza, il discorso può essere espanso argomentando a favore dell’esistenza di una struttura di bisogni di base, nella quale (secondo Maslow) il soddisfacimento dei bisogni ai livelli inferiori è il prerequisito per il soddisfacimento di quelli ai livelli superiori (per l’autore, in ordine: bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima di sé, di attualizzazione di sé). La logica di fondo è che la natura umana abbia una sua specificità espressa dai bisogni che tutte le persone presentano, e che essa vada oltre la mera ricerca dell’autoconservazione.

Indipendentemente dalle critiche rivolte a queste idee, la questione dei bisogni fondamentali dell’uomo è stata oggetto di interesse sistematico di molte discipline, tra le quali l’antropologia, la filosofia, l’economia e la psicologia. Ciò permette di riflettere sul fatto che, in ultima istanza, la questione di quali siano i bisogni fondamentali dell’uomo sia anche una questione di cosa lo distingua dalle altre specie animali. Le differenze sono solo di costituzione fisica o anche psicologica? Sono solo quantitative o anche qualitative? Quali sono le cose basilari che gli individui universalmente vogliono? Queste domande coprono forse la totalità dell’esperienza quotidiana dei singoli individui, dei gruppi e della società tutta.

Nel prossimo contributo si porrà l’accento sulla natura dei bisogni, si presenteranno alcune delle diverse teorizzazioni dei bisogni umani fondamentali che la ricerca in psicologia ha cercato di validare nel corso del tempo e si fornirà una chiave concettuale con la quale metterle a confronto.

 

Narcisismo, public self consciousness e metacognitizioni: come appaio, cosa penso – PARTECIPA ALLA RICERCA

Pincus (2009) propone un modello multidimensionale del narcisismo patologico che considera le espressioni ‘overt’ (manifeste) e ‘covert’ (nascoste) di due dimensioni principali del narcisismo patologico: la grandiosità e la vulnerabilità.

 

La consapevolezza di sé è un concetto centrale in numerosi e divergenti approcci allo studio del comportamento e dello stile di vita delle persone. Nella psicoanalisi, ad esempio, l’aumento dell’autoconsapevolezza è considerata sia uno strumento per il trattamento, che un obiettivo di cura. L’esplorazione dell’attenzione rivolta alle diverse componenti del sé permette alle persone di riconoscere i propri pensieri, le proprie fragilità e le motivazioni più profonde, rendendo più consapevoli di ciò che si pensa nel pubblico e nel privato (Fenigstein et al., 1975).

Alcune persone pensano costantemente a come appaiono agli occhi degli altri, scrutinando il proprio comportamento e rimuginando sui propri pensieri, fino a diventare ossessive (Fenigstein et al., 1975).

Altre tendono a distanziarsi così tanto dalla consapevolezza del sé da non comprendere cosa li spinga a comportarsi in un determinato modo o come vengono considerati dagli altri (Fenigstein et al., 1975). La tendenza costante a dirigere l’attenzione verso aspetti di sé intimi o socialmente condivisi viene definita ‘Self Consciousness’ che, a sua volta, viene distinta in ‘Public Self-Consciousness’ e ‘Private Self-Consciousness’ (Fenigstein et al., 1975). Per ‘Public Self-Consciousness’ si intende la tendenza a dirigere l’attenzione sugli aspetti di sé che riguardano l’esposizione pubblica, quindi le impressioni che arrivano agli occhi degli altri (es: focus su come mi comporto, sulle qualità espressive, sui manierismi, sulle mie particolarità), mentre per ‘Private Self-Consciousness’ si fa riferimento alla focalizzazione sugli aspetti ‘privati’ del sé (es. aspirazioni, valori e sentimenti) (Scheier & Carver,1985).

La focalizzazione su di sé si può considerare una caratteristica centrale del Disturbo Narcisistico di Personalità, in quanto la tendenza principale di chi soffre di questo disturbo di personalità è di dirigere il focus attentivo sulle proprie abilità, nonché su come si appare agli occhi degli altri (Castonguay & Oltmanns,2016, p.379). I criteri categoriali legati al Disturbo Narcisistico di Personalità (APA,2013) risultano essere fortemente incentrati sulle caratteristiche grandiose del disturbo, oscurando componenti psicopatologiche rilevanti per il lavoro clinico (Fossati & Borroni, 2018, p.129). I pazienti narcisisti solitamente decidono di intraprendere un percorso di psicoterapia nel momento in cui emergono degli aspetti di vulnerabilità che si celano dietro a sintomi depressivi, ansiosi, idee svalutanti e talvolta all’ideazione suicidaria (Fossati & Borroni, 2018, p.129). A fronte di queste riflessioni, Pincus (2009) propone un modello multidimensionale del narcisismo patologico che considera le espressioni ‘overt’ (manifeste) e ‘covert’ (nascoste) di due dimensioni principali del narcisismo patologico: la grandiosità e la vulnerabilità. La grandiosità si caratterizza per la presenza di credenze al servizio del sé (self serving) e strategie maladattive di affermazione del sé (self-enhancement), mentre la vulnerabilità può essere tradotta in un’esperienza di rabbia, invidia, aggressione ed impulsività collegabile a sentimenti di inaiutabilità (helplessness), bassa autostima, vergogna, ritiro sociale, senso di vuoto e tendenze suicidarie (Fossati & Borroni, 2018, p.130).

Nel progetto di ricerca proposto, nato nel laboratorio Metacognitivo dell’Università Sigmund Freud di Milano, l’obiettivo è di indagare se esiste un’associazione fra Public Self Consciousness (PSC) e vulnerabilità narcisistica e se la tendenza alla Public Self Consciousness è associabile a determinate credenze metacognitive. Ad oggi esiste un solo studio che indaga l’impatto delle metacognizioni sui disturbi di personalità. I pazienti con una diagnosi di disturbo di personalità hanno riportato punteggi significativi rispetto alla presenza di ruminazione e preoccupazione (worry), così come per i livelli di depressione e di ansia (Spada et al., 2021). Metacognizioni e pensiero negativo ripetitivo possono giocare un ruolo significativo nella gravità del disagio legato allo sviluppo ed al decorso dei disturbi di personalità (Spada et al., 2021). Rispetto al Disturbo Narcisistico di Personalità risulta innovativo comprendere il ruolo che le metacognizioni possono avere rispetto alle due dimensioni proposte da Pincus e colleghi (2009), partendo dall’indagare quanto la dimensione di vulnerabilità possa risultare influenzata dalla tendenza alla Public Self Consciousness.

 

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Dialogo sul lavoro e la felicità (2021) di Iacci e Galimberti – Recensione

Umberto Galimberti e Paolo Iacci insieme scrivono il testo Dialogo sul lavoro e la felicità, un dialogo attorno ad alcuni concetti relativi all’attuale contesto produttivo.

 

Nello scenario politico, economico e tecnologico attuale l’uomo perde la posizione centrale, arretra e assume una posizione subalterna, diventa pedina di meccanismi automatici in cui efficienza e produttività emergono come valori della tecnica. L’uomo è diventato il funzionario di apparati tecnici; la tecnica non è più al servizio dell’uomo. Nel grigiore di questo panorama, dove può collocarsi la parte irrazionale dell’uomo? Parte che è formata da dolore, fantasia, sogno, amore, ecc. Dove può così inserirsi la felicità?

Nel libro Dialogo sul lavoro e la felicità viene trattato il concetto della felicità sul posto di lavoro, dell’amore verso il proprio lavoro. Il testo assume la forma di dialogo tra i due autori, i quali presentano le loro risposte a domande sulla realtà lavorativa; rispetto all’amore verso il proprio lavoro Iacci si chiede cosa sia il lavoro, se felicità o maledizione. Risponde sostenendo che è una verità che poche persone arrivano a conoscere e rappresenta per approssimazione la felicità sulla terra.

Galimberti sostiene che il lavoro gli permette di stare nel principio di realtà, costrutto psicologico che consente di distinguere i reali problemi da quelli fittizi.

Inoltre, sostiene che ritornare alle origini del pensiero greco, soprattutto a quelle argomentazioni riconosciute e insegnamenti consolidati, potrebbe essere la via, o una di esse, per coniugare lavoro e felicità.

Ahimè, è difficile farlo! Ma provarci agevola la condizione di non vivere avvolti dall’ansia da prestazione.

Eppure, non solo ansia! Anche i concetti di angoscia e paura vengono collegati al nostro discorso. Il concetto di paura è raccontato prendendo in prestito il coronavirus; essendo un oggetto indeterminato non possiamo parlare di paura, come se fosse un leone che ci insegue, bensì di angoscia. Questo concetto subentra di fronte alla sensazione di impotenza e solitudine davanti a qualcosa di indeterminato.

Così sono l’angoscia per il futuro lavorativo e l’incertezza economica, elementi tipici dei vissuti attuali dei giovani.

Grazie al lavoro degli autori, al di là di questo possiamo indagare cosa potrebbe essere l’infelicità nel lavoro.

Senza aprire un discorso che esula dalla recensione, secondo Galimberti l’attuale società è regolata dalle regole del mercato che si fondano sulla competizione e sulla prestazione. L’obiettivo diventa il profitto e con esse l’impossibilità per i lavoratori di esprimere il proprio sé.

Una ulteriore analisi ci porta a comprendere che la tecnica rappresenta la capacità di raggiungere il massimo degli scopi utilizzando al minimo i mezzi. Si genera di conseguenza la sensazione trasversale di infelicità, di insoddisfazione; essa si può vedere raffigurata sui volti delle persone.

Come uscirne? Per esempio ‘destinare a noi stessi il nostro lavoro e dedicare il nostro tempo alle relazioni affettive e a tutto ciò che ci rende più liberi e umani’.

Così inizia il libro, scritto da Umberto Galimberti, filosofo, accademico e psicanalista e Paolo Iacci, consulente di direzione e docente universitario di Gestione delle risorse umane. Insieme scrivono un testo inserito nel dialogo attorno ad alcuni concetti relativi all’attuale contesto produttivo.

Il loro contributo è stato un tentativo! Nello specifico, investigare il modo in cui la felicità possa diventare parte integrante del lavoro.

Come hanno fatto? Col metodo filosofico. Offrendo ai lettori degli stimoli senza alcuna verità inconfutabile.

Galimberti è un autore noto e padre di molti scritti i cui contenuti rappresentano il suo pensiero e gli anni di studio; manuali per addetti ai lavori, alcuni con linguaggio difficile da comprendere, linguaggio che in questo testo presenta invece una prosa scorrevole e intuitiva. Coinvolti in una atmosfera ricca di spunti originali per nuove riflessioni, si presta ad una lettura estremamente piacevole.

Egli si è sempre dichiarato appartenente alla cultura greca antica, sistema fonte di saggezza. In esso la felicità è parte naturale della vita dell’uomo.

Tra i costrutti delineati dagli autori vi sono l’Età del paradosso e l’Età della tecnica. La prima rappresenta la condizione di antinomia che caratterizza l’odierna situazione delle persone, mentre il secondo concetto abbraccia l’universo dei mezzi tecnologici e la capacità di farli funzionare.

Galimberti espone i temi che lo contraddistinguono; tra essi la grecità, la scuola contemporanea, la tecnica, l’identità costruita, la bellezza e l’educazione e l’anima.

Iacci porta il Mito di Procuste e della Sindrome di Procuste; sindrome che, secondo l’autore, è presente nelle organizzazioni lavorative attuali. Successivamente espone un’interessante e attuale visione operativa; ovvero le modalità in cui le aziende vengono spronate a coltivare la propria anima, la propria identità.

La lettura conduce ad alcuni concetti relativi a teorie del passato, esse ci vengono in aiuto. Nel testo sono così riportati autori ben conosciuti. Tra le teorizzazioni ho trovato interessanti, e riporto come esempio, la distinzione tra tre modi di sviluppare il concetto di etica. Le argomentazioni sono utili ai lettori per riflettere sui fenomeni che hanno trasformato il costrutto della tecnica: da mezzo è diventata fine, mettendo l’uomo nella posizione di essere sempre più estraniato dal prodotto del suo lavoro.

La prima di esse è la morale cristiana.

L’ordine giuridico europeo si basa su questa morale. Essa è la morale dell’intenzione, mentre alla tecnica interessano gli effetti delle azioni dell’uomo: la bomba atomica diversamente dalle motivazioni che hanno spinto gli scienziati a dedicarsi alla ricerca.

Il discorso prosegue con la morale di Kant. In essa l’assunto tratta l’uomo sempre come un fine, mai come un mezzo. È fondata sulla ragione, laica e per tutte le persone. Oggigiorno, nello scenario delle problematiche relative alla salvaguardia dell’ambiente, l’analisi conduce a porsi la domanda se la salute della biosfera risulta essere un fine o piuttosto un mezzo al servizio dell’umanità.

L’etica sviluppata da Max Weber termina il discorso. Secondo tale morale, l’uomo è in prima linea responsabile degli effetti delle proprie azioni, almeno fino a quando gli effetti sono prevedibili. Infatti, spesso la tecnica non sempre produce effetti prevedibili. Per esempio, un ricercatore che studia il genoma si pone come obiettivo la conoscenza sempre più approfondita del funzionamento del DNA. Questo è il suo fine. Ma non sempre si giunge a scoprire qualcosa che possa essere di interesse per l’umanità, come per esempio una nuova cura contro il cancro.

Approfondendo l’analisi, ‘oggi siamo in grado di fare al di là della nostra capacità di prevedere e se la tecnica procede e si sviluppa al di là della nostra capacità di prevedere significa che non la controlliamo. Il problema allora non è più cosa possiamo fare con la tecnica, ma cosa la tecnica può fare di noi‘.

Il lavoro non ha più una funzione di sostentamento economico o di riscatto sociale. Esso sempre meno viene collegato alla felicità, la quale è ‘possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro‘.

Emerge l’idea di inserire nei luoghi di lavoro aspetti di educazione sentimentale, iniziativa che, se prenderà concretezza, potrebbe essere il veicolo che conduce il sistema al di fuori dal paradigma attuale. Esso prevede sia il ‘comando e controllo’ sia l’uso pervasivo della utilità perpetua; elementi entrambi caratterizzati dall’assenza di emozioni dove si delinea un luogo in cui gli operatori sono schiavi di un lavoro senza passioni.

Nel libro non si legge solo la critica all’attuale contesto lavorativo e produttivo, ma anche una speranza. Vi sono spunti per progettare un nuovo futuro. Esso potrebbe partire da ciò che siamo e dalla situazione che stiamo vivendo col fine di realizzare negli anni prossimi una situazione maggiormente desiderabile in termini di gradimento.

 

Il cane come catalizzatore sociale e come cura per la depressione

Dato che la terapia assistita con i cani (DAT) fornisce dei risultati misti in letteratura a proposito di ansia e depressione, Ambrosi e colleghi (2018) hanno cercato di verificare la sua efficacia sugli anziani istituzionalizzati.

 

La terapia assistita con gli animali per la depressione

Thakur e Blazer (2008, come citato da Ambrosi et al., 2018) hanno osservato come la depressione maggiore rappresenti una realtà clinica accompagnata spesso da altri disturbi, come condizioni mediche multiple riguardanti il dolore fisico. Esiste una correlazione positiva tra la terapia assistita con gli animali (AAT) e il benessere fisico di pazienti, in particolare di coloro che soffrono di disturbi cardiovascolari (Cole et al., 2007). La terapia con gli animali, o pet therapy, svolge un ruolo fondamentale nel rafforzare la relazione tra paziente e terapeuta. Kawamura e colleghi (2007) hanno osservato come l’AAT correli positivamente con miglioramenti mentali ed emotivi, in quanto permette un aumento di emozioni positive. Nel 2015, il Ministero della Salute Italiana ha determinato che la terapia assistita con i cani (DAT) è un intervento clinico utile per trattare i disturbi della ‘sfera cognitiva, emotiva, relazionale e neuropsichico-motoria’, attualmente svolta basandosi su un piano di trattamento rigoroso, composto da obiettivi che vengono raggiunti grazie al cane adatto e selezionato rigorosamente per il paziente. Il compito del cane è quello di motivare la persona al raggiungimento dei suoi obiettivi, fungendo così da catalizzatore sociale (Ambrosi et al., 2018).

Mentre Stasi e colleghi (2004) hanno mostrato come i pazienti inclusi in un gruppo di trattamento DAT presentassero una diminuzione dei sintomi depressivi e una variabilità della pressione sanguigna, Phelps e colleghi (2008) non hanno trovato alcuna significatività tra la presenza di cani, riduzione della sintomatologia depressiva o miglioramento dello stato d’animo del paziente.

La terapia assistita con i cani tra gli anziani

Dato che la terapia assistita con i cani (DAT) fornisce dei risultati misti in letteratura a proposito di ansia e depressione, Ambrosi e colleghi (2018) hanno cercato di verificare la sua efficacia sugli anziani istituzionalizzati. Lo studio è stato condotto presso una struttura di assistenza, accreditata dal servizio per gli anziani nel Nord Italia, da marzo a settembre 2017. Il campione è composto da 31 soggetti, tra cui 17 selezionati casualmente e appartenenti al gruppo di trattamento e 14 appartenenti al gruppo di controllo.

I partecipanti hanno un’età compresa tra i 65 e i 90 anni, vivono nell’istituto da almeno due anni, mostrano elevati punteggi (5 o più) nella Geriatric Depression Scale (GDS-15; Sheikh et al., 1986, come citato in Ambrosi et al., 2018) e mostrano interesse nel voler interagire con i cani. Sono state escluse dallo studio le persone allergiche agli animali (Ambrosi et al., 2018). Dal punto di vista psicodiagnostico, sono stati somministrati i seguenti test: la Generalized Anxiety Disorder 7 (GAD-7; Spitzer et al., 2006), la Positive and Negative Affect Schedule (PANAS; Watson et al., 1988) e l’Illness Perception Questionnaire-Revised (IPQ-R; Moss-Morris et al., 2002), utili per valutare i livelli base della depressione, dell’affettività, dell’umore e della percezione della sintomatologia esperita. Il Satisfaction Questionnaire and Numeric Pain Rating Scale (NPRS; Williamson & Hoggart, 2005) è stato utilizzato per valutare i livelli di dolore, mentre la batteria dei test che include IPQ-R (Moss-Morris et al., 2002, come citato in Ambrosi et al., 2018) attualmente include anche delle sottoscale della percezione della malattia lungo il corso del tempo, della coerenza della malattia e delle rappresentazioni emotive (Fortune et al., 2000; Ambrosi et al., 2018).

Mentre alcuni studi mostrano come la percezione della malattia sia correlata al tono dell’umore (Scharloo et al., 2000) e alla conformità al trattamento, altri mostrano come la coerenza della consapevolezza della propria condizione sia inversamente correlata a convinzioni pessimistiche sulla linea temporale e sulle conseguenze della malattia, nonché a rappresentazioni emotive negative (Ambrosi et al., 2018). Dato che il pessimismo spesso interferisce con il trattamento e con gli esiti positivi della terapia, si pensa che la DAT sia una possibile soluzione grazie al rapporto empatico che si crea tra animale e persona. In questo studio, le sessioni di DAT sono state svolte una volta a settimana, per mezz’ora, per 10 settimane: le figure coinvolte sono il paziente del gruppo sperimentale, il cane, l’osservatore (un volontario formato dal servizio civile) e il conduttore; l’osservatore ha il compito di osservare i comportamenti verbali, cioè i vocalizzi e le interazioni verbali che il paziente ha con il cane o con il conduttore, e quelli non verbali, cioè le carezze, i giochi o il dare del cibo all’animale.

La riduzione della depressione con la terapia assistita con i cani

Il tipo di interazione è stata registrata ogni due minuti e, alla fine, è stato calcolato il numero totale delle interazioni durante ciascuna sessione-categoria e sono state divise per i due minuti dell’intervallo temporale (Ambrosi et al., 2018). I risultati ottenuti mostrano come vi sia una diminuzione statisticamente significativa del punteggio della Geriatric Depression Scale, nella PANAS vi è stata una moderata diminuzione, mentre non vi sono differenze nella Generalized Anxiety Disorder 7 e nella NPRS. Il questionario per valutare la percezione della malattia lungo il corso del tempo ha mostrato una dimensione dell’effetto clinicamente rilevante (Ambrosi et al., 2018).

Tali risultati suggeriscono come la terapia assistita con i cani sia utile per ridurre la depressione e i sintomi associati, in quanto la figura del cane ricopre il ruolo di facilitatore nelle interazioni sociali. Nello specifico, vi è stato un aumento di interazioni con il conduttore, insieme ad emozioni positive esperite da parte degli anziani istituzionalizzati. In futuro, ulteriori studi su tale argomento potrebbero suggerire come la DAT sia idonea al mantenimento di un senso continuativo di spazio e tempo, quindi ad una coerenza identitaria che viene preservata nonostante i cambiamenti che si affrontano nella terza età (Ambrosi et al., 2018).

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il sesto episodio è dedicato al Perfezionismo

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la sesta puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite la Dott.ssa Roberta Stoppa. Si parlerà di Perfezionismo, ovvero la rigida ostinazione sul fatto che qualsiasi cosa debba essere impeccabile, perfetta e senza errori o difetti, incluse le prestazioni proprie e altrui. Cosa si nasconde dietro al perfezionismo? Scopritelo nel sesto episodio.

Dove ascoltare il sesto episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il sesto episodio su:

 

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