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Il confronto con gli altri tramite i social network: un rischio per l’autostima

Il 94% degli adolescenti nei paesi sviluppati usa social network come Instagram, Snapchat e Facebook (NORC Center for Public Affairs Research, 2017) che prevedono perlopiù una tipologia di interazione visiva, come ad esempio il postare e commentare foto e video di sé stessi o di altre persone (Nesi et al., 2018).

 

L’utilizzo dei social network

All’interno dei social, l’aspetto fisico assume una certa valenza, dato che gli adolescenti si affidano sempre di più alle fotografie e ai video dei social media come mezzi principali di auto-presentazione (Chua & Chang, 2016; Mascheroni et al., 2015). Non a caso, l’aspetto fisico auto-percepito è la dimensione che contribuisce maggiormente all’autostima globale degli adolescenti – in particolare tra le ragazze (Von Soest et al., 2016; Wichstrom & von Soest, 2016). Considerando però che sui social media la propria immagine è sempre più spesso modificata per renderla più attraente (Yau & Reich, 2019), con il tempo si possono venire a creare delle norme per quanto riguarda l’aspetto fisico che sono difficili da ottenere (Chua & Chang, 2016; McLean et al., 2019) e che spesso non sono raggiungibili dalla maggior parte dei bambini e degli adolescenti. Così, si potrebbe creare un divario tra il sé fisico percepito e ideale che, seguendo la teoria della discrepanza del sé (Higgins, 1987), può provocare emozioni negative (ad esempio, tristezza, delusione) e una minore autostima.

Dato che molti studi non specificano le attività che gli utenti dei social media svolgono su queste piattaforme, in letteratura si trovano risultati discordanti in riferimento all’uso dei social media e l’autostima. Alcuni riportano un’associazione positiva tra l’uso dei social media e l’autostima, alcuni mostrano associazioni negative e altri non trovano alcuna relazione (Krause et al., 2019).

Con l’intento di studiare in maniera più approfondita l’argomento, uno studio di Steinsbekk e colleghi (2020) ha introdotto l’uso passivo e attivo dei social media (Frison & Eggermont, 2017). Nello specifico l’uso passivo è il semplice monitoraggio dei post di altre persone, mentre l’uso attivo è stato suddiviso in due dimensioni specifiche: l’uso auto-orientato e l’uso orientato verso gli altri. L’uso orientato al sé consiste in pubblicazioni di post, aggiornamenti e foto personali, mentre l’uso orientato agli altri comprende semplicemente il gradimento o il commento dei post altrui.

L’influenza dei social network sull’autostima

L’obiettivo di Steinsbekk e colleghi (2020) è di testare longitudinalmente l’influenza dell’uso dei social media sull’autostima, in particolare sulla dimensione dell’aspetto fisico, analizzando l’uso orientato verso se stessi, cioè la pubblicazione di aggiornamenti e foto, rispetto alle attività dei social media orientate verso gli altri, cioè il cliccare su “mi piace” e commentare i post degli altri.

I risultati hanno dimostrato che l’uso dei social network orientato verso gli altri influisce negativamente sull’autostima riguardo all’aspetto fisico. Più specificamente, il coinvolgimento con gli aggiornamenti e le fotografie degli altri sui social media, che spesso ritraggono rappresentazioni di sé ideali (Mascheroni et al., 2015; Yau & Reich, 2019), ha predetto una diminuzione dell’autostima dell’aspetto nella transizione dall’infanzia all’adolescenza (dall’età di 10-12 anni e dall’età di 12-14).

Quanto detto è in linea con uno studio precende che dimostra che quando i social media vengono utilizzati per il confronto (cioè, l’uso orientato agli altri, ad esempio, la navigazione nei profili degli altri) causano un abbassamento di autostima (McLean et al., 2019).

Questi risultati, inoltre, estendono la ricerca precedente suggerendo che questo impatto negativo si verifica longitudinalmente e può influenzare negativamente lo sviluppo dell’autostima dell’aspetto durante una fase di transizione vulnerabile per la formazione dell’identità.

Social network e autostima: differenze di genere

É molto interessante notare che il risultato appena riportato esisteva solo nelle ragazze. Questo potrebbe essere spiegato dal fatto che le ragazze usano i social media più spesso dei ragazzi (Lenhart, 2015), sono più propense a usare i social media per confrontarsi con gli altri (Haferkamp et al., 2012), e inoltre, il confronto sociale sembra avere un effetto negativo maggiore sull’immagine corporea delle donne che degli uomini (Myers & Crowther, 2009).

Le ragazze, rispetto ai ragazzi, sono anche più frequentemente in una posizione di confronto sociale con lo stesso sesso sui social media. Anche se entrambi utilizzano siti di social media basati su immagini (Instagram, Snapchat), la ricerca precedente indica che le femmine sono più propense dei maschi a postare foto di se stesse (Dhir et al., 2016), quindi entrambi i generi saranno più frequentemente esposti alle auto-presentazioni delle ragazze che dei ragazzi.

Dato che in moltissime culture gli uomini selezionano le compagne in base all’attrattiva fisica, non è strano che le donne pongano tutta questa enfasi sull’importanza alla propria attrattiva fisica rispetto agli uomini e sono più propense a promuoverla (Walter et al., 2020).

Disconfermando i risultati di altri studi (ad es, Verduyn et al., 2017), che sottolineavano come l’uso dei social media orientato verso se stessi avrebbe influenzato positivamente l’autostima dell’aspetto, lo studio di Steinsbekk e colleghi (2020) non ha riscontrato questa relazione. L’uso dei social media orientato a se stesso non ha nemmeno tamponato l’impatto negativo dell’uso orientato agli altri. Tuttavia, una recente revisione ha rivelato che, anche se l’uso attivo, che di solito produce un feedback positivo, predice aumenti momentanei dell’autostima, questo effetto positivo si esaurisce abbastanza rapidamente (Krause et al., 2019). Questo potrebbe spiegare perché non sono state trovate associazioni nel periodo di due anni qui esaminato.

Conclusioni

In conclusione, anche alla luce della teoria del confronto sociale (Festinger, 1954) che afferma che gli individui hanno la tendenza a confrontarsi con gli altri per l’autovalutazione (comportamento che ha un picco nell’adolescenza) (Myers & Crowther, 2009), si può affermare che i social media rendono facile per gli adolescenti impegnarsi in paragoni sociali, e il mancato rispetto di importanti standard di aspetto prevede un’autostima compromessa e l’insoddisfazione del corpo (Moretti & Higgins, 1990). Gli studi futuri dovrebbero quindi esaminare il confronto sociale, e le sue conseguenze per l’autovalutazione, come potenziali meccanismi che spiegano la relazione tra l’utilizzo dei social media orientato verso gli altri e l’autostima riguardo l’aspetto fisico.

Le Dipendenze con e senza sostanze – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

The Journal Club: da webserie a podcast

Dato il successo della prima edizione (nata come webserie e successivamente diventata un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di The Journal Club, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue.

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il primo episodio del podcast dedicato alle Dipendenze con e senza sostanze. Ospite dell’incontro: il Dott. Andrea Ferrari.

Dove ascoltare il primo episodio:

 

Sfide e potenzialità delle emoji nella comunicazione sanitaria – Psicologia Digitale

Nella comunicazione digitale in ambito sanitario l’uso di emoji può avvicinare paziente e professionista e portare ad una collaborazione più efficace.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 28) Sfide e potenzialità delle emoji nella comunicazione sanitaria

 

 L’utilizzo di supporti visivi nella pratica medica non è qualcosa di nuovo. Le cosiddette scale visuo-analogiche del dolore o scale analogico visive del dolore (VAS) sono strumenti già comunemente utilizzati per la misurazione soggettiva dell’intensità o della frequenza dei sintomi.

Da anni vengono utilizzati strumenti come la scala di valutazione del dolore Wong-Baker Faces Scale (Wong e Baker, 1988); scale come questa sono molto utili soprattutto in ambito pediatrico con bimbi non ancora alfabetizzati e in generale per facilitare la comunicazione in situazioni di particolare angoscia e paura. Vengono mostrate delle faccine che esprimono gradazioni crescenti di dolore in modo che il paziente possa identificare ed identificarsi facilmente con la faccina-grado di dolore percepito. Le VAS sono ottimi strumenti, ma hanno un costo: sono marchi registrati, vanno acquistate e vengono somministrate da professionisti qualificati. Rappresentano sicuramente un aiuto strutturato e validato, ma non sono funzionali nella comunicazione di routine tra paziente e operatore sanitario. Le emoji potrebbero colmare questo gap: non presentano costi, sono sempre più familiari ai pazienti e sono accessibili a chiunque dato che sono presenti su tutte le piattaforme – mobile, tablet, desktop; Windows, Apple iOS o Android.

La distinzione tra emoticon ed emoji

Le parole ‘emoticon’ ed ‘emoji’ vengono spesso usate come sinonimi ma non lo sono. Le emoticon sono segni di punteggiatura, lettere e numeri usati per creare icone che generalmente mostrano un’emozione o un sentimento, per esempio “:-) “. Gli emoji (dal giapponese e, “immagine”, e moji, “carattere”) sono veri e propri pittogrammi di facce, oggetti e simboli come famiglie, edifici, animali, oggetti ecc. Gli emoji sono molto più recenti delle emoticon e le hanno quasi del tutto sostituite nell’uso comune.

L’approvazione, la creazione e la diffusione degli standard relativi alle emoji è gestita dall’Unicode Consortium: chiunque può proporre nuove emoji che vengono sottoposte ad un processo di revisione da parte del Consorzio prima di essere condivise.

L’Unicode Consortium è un’organizzazione no-profit con sede nella Silicon Valley di cui fanno parte, tra gli altri, Microsoft, Apple, Facebook, Adobe e Google; dal 1991 si occupa di promuovere lo standard Unicode, un sistema di codifica universalmente adottato e riconosciuto, implementato in molte tecnologie come nei sistemi operativi. Tra i compiti del Consorzio c’è appunto quello di selezionare le emoji che utilizziamo tutti i giorni su ogni device.

Le emoji mediche

Attualmente sono circa 30 le emoji mediche riconosciute dall’Unicode Consortium. Escluse quelle riferite a parti del corpo (ad esempio, orecchio, mano, gamba e piede), a partire dal 2015, quando sono state introdotte siringa e pillola, sono state aggiunte emoji che rappresentano stetoscopio, goccia di sangue, operatori sanitari, medicine, strumenti, sedie a rotelle e bastoni – per dare spazio anche alla disabilità. Nel catalogo dell’Unicode Consortium è presente anche il Bastone di Asclepio, l’antico simbolo greco associato alla medicina.

Il potenziale delle emoji mediche non è passato inosservato anche al di fuori del Consorzio: è dello scorso anno la nascita del progetto Health Icons, un set open-source di emoji disponibili a tutti sempre e gratuitamente, utilizzabili per qualsiasi progetto in ambito sanitario: il catalogo comprende più di mille emoji, da quelle dedicate alle tipologie di gruppo sanguigno a quelle che rappresentano le più disparate patologie.

Lo scorso anno sul Journal of the American Medical Association un contributo di Lai e colleghi ha posto nuovamente attenzione su quanto possa essere rilevante avere a disposizione un set il più ampio possibile di emojii: ne hanno proposte altre 15, tra cui intestino, gamba ingessata, stomaco, spina dorsale, fegato, rene, scatola di pillole, stampella, sacca di sangue, sacca per flebo, TAC, ECG e globuli bianchi.

Le potenzialità delle emoji per la salute

L’assistenza sanitaria sta spostando online molte attività, soprattutto nell’area della comunicazione con pazienti tramite Whatsapp, messaggi ed email: avere maggiore spazio di espressione aiuterebbe sicuramente entrambe le parti.

Le emoji possono aiutare a comunicare più efficacemente i sintomi e a rendere più comprensibili le istruzioni dei sanitari, in particolare con pazienti con scarsa alfabetizzazione sanitaria. Facilitare la comprensione è utile anche nei casi in cui per diverse ragioni ci si trova di fronte ad una barriera linguistica: bimbi piccoli con capacità linguistiche ancora in via di sviluppo, persone affette da disabilità o che parlano una lingua diversa.

Un’altra opportunità è il loro uso nelle campagne di comunicazione sanitaria. Dato che quest’ultima si rivolge a più gruppi anche molto eterogenei fra loro per cultura, lingua, abitudini, c’è l’esigenza che sia immediata e facile da comprendere. In questo senso le emoji, essendo un contenuto visuale, risultano molto efficaci; pensiamo ad esempio alle campagne per sensibilizzare le persone a lavarsi le mani correttamente: ogni passaggio è evidenziato da immagini che rendono molto chiaro cosa fare e come farlo.

Ci sono anche però dei vincoli di cui tener conto. Primo fra tutti, l’accesso alle tecnologie: ad oggi esiste ancora il problema del digital divide, con una parte della popolazione che non ha accesso o ha accesso solo parzialmente ad Internet e computer, specialmente i pazienti più anziani.

Se la digitalizzazione sanitaria può suscitare qualche dubbio e nello specifico l’uso di emoji può generare perplessità (come può essere un supporto se si tratta di immagini ed icone e non di un dialogo aperto?), non si può ignorare come la diffusione della telemedicina si sia rafforzata negli ultimi anni e ancora di più a seguito dell’emergenza da Covid-19.

D’altro canto, come si è più volte espresso, la telemedicina non può e non vuole sostituire le interazioni vis-à-vis, ma affiancarsi ad esse; certamente l’uso di emoji nel campo della salute andrebbe solo ad essere un tassello in più nella comunicazione digitale tra paziente e professionista.

 

Il pensiero creativo e le sue applicazioni

La creatività è un costrutto complesso la cui definizione non è semplice. La parola stessa deriva dal latino ed indica “creare, generare, produrre”.

 

Vygotskij, nel suo libro Immaginazione e creatività nell’età infantile, infatti, scrive “per attività creativa intendiamo qualunque attività umana che produca qualcosa di nuovo”. Morin (2000), invece, offre un’altra prospettiva sulla creatività definendola come “una competenza e capacità necessaria ad affrontare le incertezze”. Sicuramente questa ha un valore adattivo, in quanto rappresenta una possibile modalità di affrontare la realtà. Una volta riconosciuta l’importanza e il valore di questo costrutto, si è lavorato per sviluppare tecniche per lo sviluppo della creatività in diversi ambiti applicativi.

Quali sono le tecniche per stimolare la creatività?

Tecniche per stimolare la creatività

Il brainstorming

Il brainstorming è una delle più conosciute tecniche creative. Ideata da Alex Osborn, un pubblicitario, si diffuse a partire dal 1953. Il termine significa letteralmente “tempesta di cervelli” e consiste in una discussione di gruppo guidata da un esperto con l’obiettivo comune di generare idee nuove e molteplici e possibili soluzioni. Il brainstorming, nella sua realizzazione, è diviso in diversi momenti: presentazione del problema, produzione di idee e selezione delle idee prodotte. La seconda fase è quella in cui i partecipanti propongono liberamente soluzioni senza alcuna censura lasciando prevalere il pensiero creativo. L’interazione tra i partecipanti ha un ruolo fondamentale in quanto stimola la moltiplicazione delle idee e arricchisce i contenuti. Questo metodo ha numerose applicazioni pratiche e risulta efficace in diversi contesti, alcuni di questi sono: l’ideazione di nuovi prodotti, la pubblicità e la creazione artistica.

Il concassage

Il concassage è un’altra una tecnica per lo sviluppo della creatività, ideata da Michel Fustier. “Il termine concassage è traducibile con scuotimento, infatti il problema viene analizzato scuotendolo con una lista di domande sui vari elementi che lo compongono in modo da analizzarlo sotto prospettive divergenti e insolite” (Gianandrea, 2009). Dunque, il problema viene studiato attraverso una lista di domande sui vari aspetti che lo definiscono in modo da far emergere nuove e differenti chiavi di lettura. L’uso del pensiero laterale e dell’immaginazione orienta verso l’individuazione di una soluzione. Tale strumento offre numerose possibilità applicative.

La sinettica

La sinettica, dal greco “unione di elementi diversi” è una tecnica ideata nel 1961 dallo psicologo Williams J.J. Gordon. Essa nasce con l’intento di favorire lo sviluppo del pensiero sinettico per la ricerca di soluzioni. Tale strumento si basa su due principi ispiratori: “rendere familiare ciò che è estraneo” e “rendere estraneo ciò che è familiare”. Secondo l’autore, in questo modo è possibile comprendere a fondo il problema ed analizzarlo da un altro punto di vista. Il metodo prevede nove fasi consequenziali in cui il gruppo è guidato da un esperto. La sinettica mette al centro del processo creativo di gruppo metafore ed analogie quali strumenti che permettono l’emergere di collegamenti ed associazioni tra elementi apparentemente non collegati tra loro. Le analogie possono assumere diverse forme: analogie dirette (in cui il problema viene messo in relazione con mondi estranei come quello animale, vegetale, meccanico, ecc.), analogie simboliche (in cui si crea una connessione tra il problema ed altri simboli e immagini), analogie fantastiche (in cui il problema viene messo in discussione chiedendo ai partecipanti di fantasticare e di viaggiare con la mente riportando ciò che sentono), analogie personali (in cui i membri sono invitati ad identificarsi personalmente con il problema). Secondo Gordon, dunque, con le nuove associazioni possono emergere riflessioni ed idee oltre che nuovi prodotti. Inoltre, affinché il processo di scoperta riesca, la componente emotiva e quella irrazionale devono intrecciarsi.

I 6 cappelli per pensare

I “6 cappelli per pensare” è una tecnica metacognitiva sviluppata da De Bono. Essa implica l’attivazione di diversi modi di pensare e, dunque, anche l’autovalutazione dei propri processi di pensiero. La tecnica consiste nell’indossare metaforicamente un cappello e in base a questo cambiare il proprio atteggiamento di pensiero. Indossare metaforicamente un cappello nero vuol dire cogliere e prestare attenzione agli aspetti negativi e ai possibili ostacoli o fallimenti. Il cappello bianco è espressione del ragionamento analitico e della raccolta oggettiva dei dati. Pensare con il cappello bianco vuol dire essere neutrali, riportare i fatti e ritrovare analogie. Il cappello rosso rappresenta l’emotività e la libera manifestazione dei sentimenti negativi o positivi che siano. Il cappello blu, invece, è utile a stabilire priorità e metodi. Questo organizza, pianifica, e definisce le regole mantenendo così il controllo generale e l’ordine. Il cappello verde è il cappello della creatività. Con questo è possibile esplorare nuove idee e possibilità, proporre grandi cambiamenti e sbocchi creativi ed offrire soluzioni originali allenando il pensiero laterale. Nella sua struttura teorica, De Bono studia il pensiero laterale definendolo come un pensiero generativo, esplorativo e creativo, per questo opposto al pensiero verticale (logico selettivo e sequenziale). Il pensiero laterale è considerato alla base della creatività. L’applicazione dei “6 cappelli per pensare” può essere di tipo individuale e  di gruppo.

 

Psicoterapia come esperienza umana (2022) di Marco Nicastro – Recensione del libro 

Il libro Psicoterapia come esperienza umana è suddiviso in tre sezioni fondamentali: la prima è dedicata ai colloqui conoscitivi; la seconda, alle fasi centrali della terapia e la terza, infine, alla fase conclusiva del rapporto clinico.

 

Il libro Psicoterapia come esperienza umana (Nicastro, 2022), come anticipato dallo stesso autore, è un “anti-manuale”, avente lo scopo non di illustrare una specifica metodologia o teoria rigida sulla quale basarsi per la conduzione della propria esperienza clinica, ma piuttosto di offrire uno spunto di riflessione sull’importanza delle caratteristiche personali, “umane”, del terapeuta, e sul valore che esse rivestono nello svolgimento di un lavoro in cui, indubbiamente, l’aspetto relazionale assume un ruolo centrale. Il volume è suddiviso in tre sezioni fondamentali: la prima è dedicata ai colloqui conoscitivi; la seconda, alle fasi centrali della terapia e la terza, infine, alla fase conclusiva del rapporto clinico.

La prima parte è incentrata sull’instaurazione e lo sviluppo della relazione terapeutica e sugli effetti esercitati, su essa, dalle pratiche attuate dal professionista, con particolare riguardo alla decisione di compiere o meno un’indagine diagnostica mediante l’utilizzo di test e strumenti valutativi, e all’eventuale scelta di coinvolgere altre persone (siano esse familiari del paziente o professionisti) nella relazione terapeutica. Nell’affrontare tali tematiche, Nicastro si sofferma non solo sull’analisi delle dinamiche del paziente, ma anche sull’indagine dei processi interni al clinico, fondamentali da riconoscere e gestire al fine di evitare che le sue scelte riguardo alle modalità d’azione possano essere guidate più dalle proprie credenze, emozioni e fattori interni che dalla ricerca del benessere del paziente.

La seconda parte, relativa al “cuore” del percorso trattamentale, inizia con una serie di interessanti riflessioni sul progetto terapeutico e sui processi di mantenimento e consolidamento dell’alleanza tra clinico e paziente, che si presuppone essersi creata nel corso della prima fase. In questo senso, una particolare importanza viene rivestita dalla costruzione -più o meno tacita- di accordi relativi al mantenimento e all’evoluzione degli obiettivi clinici, che possono ampliarsi e modificarsi nel tempo, sulla base delle necessità e dei progressi del paziente. Particolarmente interessanti, in questa sezione del volume, sono le riflessioni sui fattori che influenzano la possibilità di predire la durata della terapia, sull’importanza dell’empatia del terapeuta e sul valore dei contenuti irrazionali emersi all’interno dello spazio del colloquio. Dalla trattazione, emerge una visione della terapia intesa come percorso, intrapreso non solo dall’utente, ma anche dal clinico, che deve apprendere a rendere flessibili gli strumenti a propria disposizione al fine di adattarli, di volta in volta, alla complessità di ognuno degli individui con i quali condividerà lo spazio del setting.

L’ultima parte del libro, relativa alla conclusione della terapia, è incentrata sui cambiamenti insorti nel paziente lungo il percorso e sul modo per valutarne i progressi. Specialmente in questa fase, secondo l’autore, è necessario che il professionista prenda le distanze dalla tentazione di affidarsi, nell’elaborazione delle considerazioni personali, sugli obiettivi raggiunti al momento della conclusione della terapia, a schemi troppo rigidi con i quali rischierebbe di non tener conto delle caratteristiche uniche del paziente. Il capitolo offre, inoltre, numerosi spunti di riflessione sulla necessaria continuità tra le caratteristiche del terapeuta all’interno ed all’esterno del setting clinico.

In definitiva, l’immagine del terapeuta e, in generale, del percorso di psicoterapia presentata dal volume di Marco Nicastro, è estremamente interessante e richiede al professionista una notevole capacità di adattamento, oltre alla caratteristica di non sentirsi mai “arrivato”, ma di mantenere un elevato livello di apertura e flessibilità, requisito necessario per conservare nel tempo la capacità di approcciarsi ad ogni percorso di terapia come ad un nuovo viaggio, stimolante ed arricchente. Il volume offre al lettore numerosi spunti di riflessione, sulla professione e su se stesso, costituendo così una lettura interessante anche per clinici con un orientamento teorico diverso da quello dell’autore.

 

“Sogno o son desto?”: un’indagine sulla relazione fra sogni e confine con la realtà

Nell’ambito della personalità, un individuo che ha confini molto spessi tra fantasia e realtà possiede una buona concentrazione, mantiene i pensieri e i sentimenti completamente separati ed è assolutamente chiaro su quando è sveglio, dorme o sogna, non sperimentando nessuno stato intermedio. Le persone con confini sottili di personalità, invece, sembrano essere più propense a fare sogni dal contenuto bizzarro.

 

Non importa il modo in cui pensiamo al contenuto della nostra mente – se pensiamo in termini quotidiani di pensieri, sentimenti, ricordi; sia se ne parliamo in termini di psicologia cognitiva riferendoci a processi percettivi, semantici e di memoria; sia se parliamo in termini psicoanalitici di Es, Io, Super-Io ecc – stiamo parlando di parti, regioni o processi, che in un certo senso vengono considerati separati l’uno dall’altro e che, tuttavia, sono ovviamente collegati. I confini tra loro non sono separazioni assolute, giacché possono essere relativamente spessi o impermeabili da un lato, e relativamente sottili o permeabili dall’altro. Gli psicologi hanno esplorato molti aspetti diversi dei confini, inclusi quelli relativi a pensieri e sentimenti, a stati di consapevolezza o coscienza, al ritmo sonno-sogno-veglia, all’identità sessuale e così via.

Personalità e confini

Nell’ambito della personalità, un individuo che ha confini molto spessi tra fantasia e realtà possiede una buona concentrazione, mantiene i pensieri e i sentimenti completamente separati ed è assolutamente chiaro su quando è sveglio, dorme o sogna, non sperimentando nessuno stato intermedio. Ha inoltre un delineato senso di identità sessuale, un’identità di gruppo definita e tenderà a vedere il mondo in termini di bianco e nero, noi contro di loro, bene contro male. All’altro estremo, una persona con confini sottili può avere difficoltà a concentrarsi, sarà profondamente immersa nel sogno ad occhi aperti o nella fantasticheria, così che a volte il confine tra vita reale e fantasia, sonno e veglia può essere poco chiaro. Allo stesso modo, accetterà mescolanze nell’identità sessuale e talvolta immaginerà di appartenere al sesso opposto. Non si sentirà solidamente membro di un gruppo, ma potrà definirsi un “cittadino del mondo” e sarà incline a pensare in termini di sfumature di grigio, piuttosto che in bianco e nero. Questi esempi si trovano alle due estremità del continuum che va da confini molto spessi a quelli molto sottili. La maggior parte di noi si trova da qualche parte nel mezzo, possedendo un misto di tali confini (Hartmann & Kunzendorf, 2006).

I sogni differiscono in base ai confini di personalità?

Tornando alle persone con confini sottili, recentemente è stato trovato che esse sono propense a fare sogni dal contenuto bizzarro. Ciò è in linea con l’ipotesi di continuità del sogno (Schredl, 2003), una teoria secondo cui i sogni sono il proseguimento e il riflesso della vita di veglia. Di conseguenza, se prendiamo in considerazione gli aspetti che riguardano l’assottigliamento dei confini, in particolare quelli relativi alla facilità di immaginarsi del sesso opposto, o addirittura come un animale o un oggetto, si potrebbe ipotizzare che le persone con confini sottili possano sognare più spesso di essere qualcuno o qualcos’altro.

Questa plausibile relazione è stata indagata da Schredl (2019) in una ricerca che ha coinvolto 444 partecipanti, principalmente studenti 23enni, delle università di Heidelberg, Mannheim e Landau. Ai partecipanti è stato proposto di partecipare ad uno studio intitolato “Sonno, sogni e personalità”, compilando una batteria di questionari contenente la Dream Frequency Recall Scale (Schredl, Berres, Klingauf, Schellhaas, & Göritz, 2014), il TDQ (Dumel, Nielsen, & Carr, 2012; Nielsen et al., 2003) ed il Boundary Questionnaire (Hartmann, 1991).

Per indagare la frequenza con cui vengono ricordati i sogni è stato chiesto ai partecipanti di valutarsi su una scala da 0 a 6 (Schredl, Berres, Klingauf, Schellhaas, & Göritz, 2014). La frase utilizzata era “Quante volte ti sei ricordato dei tuoi sogni negli ultimi due mesi?” ed i punteggi andavano da 0=mai a 6=quasi ogni mattina. Successivamente ai partecipanti è stato chiesto di compilare il TDQ (Dumel, Nielsen, & Carr, 2012; Nielsen et al., 2003). I ricercatori si sono focalizzati principalmente su 4 items della scala: “hai mai sognato di: appartenere al genere opposto; essere un oggetto (es. sasso o albero); essere un animale; tornare bambino?” a cui i partecipanti potevano rispondere “sì” o “no”.

Per valutare l’interazione fra realtà e fantasia dei partecipanti è stata utilizzata la versione tedesca del Boundary Questionnaire (Hartmann, 1991). Questo questionario valuta dodici aree fra cui la qualità del sonno, la natura dei sogni, le esperienze, i pensieri e le sensazioni inusuali e le relazioni interpersonali. Gli items presi maggiormente in considerazione nelle analisi erano “Ho ricordi di quando avevo meno di tre anni”, “Riesco facilmente ad immaginarmi come animale”, “A volte mi sembra che il mio corpo cambi dimensione o forma”, “Riesco ad immaginare facilmente come sarei se appartenessi al genere opposto” (Hartmann, 1991).

Confini di personalità e sogni: i risultati dello studio

I risultati dello studio indicano che vi è una relazione tra l’avere confini sottili e l’essere qualcosa, qualcun altro o l’essere più giovane nel sogno. Gli aspetti della vita durante la veglia in merito al concetto di personalità costituita da immaginazione, pensieri e fantasie si riflettono nei sogni e ciò conferma l’ipotesi di continuità del sogno (Schredl, 2003).

Nello specifico, più del 99% dei sogni non includeva la rappresentazione dell’io onirico sotto forma di qualcuno o qualcos’altro (vedi Mathes & Schredl, 2014; Mathes et al., 2014), mentre molto più frequente è stato riscontrato il desiderio di essere più giovani che può essere attribuito a episodi di memoria autobiografica manifestata nei sogni (Malinowski & Horton, 2014). In altre parole, il pensiero fantasioso delle persone con confini sottili nella vita reale si riflette nei loro sogni. Per quanto concerne la differenza di genere, è emerso che gli uomini sognano più spesso di essere un animale mentre le donne hanno riferito di aver sognato più spesso di appartenere al sesso opposto.

In sintesi, a livello concettuale lo studio del contenuto del sogno può aiutare ad approfondire la comprensione del costrutto di confine, in particolare il mondo interiore delle persone che presentano tali confini, la loro immaginazione e le fantasie diurne (Harrison & Singer, 2013–2014). La ricerca futura potrebbe approfondire la relazione che intercorre tra gli argomenti onirici e la teoria della mente, ovvero se le persone che hanno spiccate capacità di assumere la prospettiva di un’altra persona sognano più spesso di essere qualcun altro.

 

Che adulto diventa il bambino con ADHD?

L’ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da due cluster fondamentali di sintomi: l’inattenzione e l’iperattività-impulsività.

 

Normalmente quando si sente parlare di ADHD tale patologia viene associata immediatamente ad un soggetto in età evolutiva. È vero che tanti dei bambini che presentano ADHD ottengono buone risposte al trattamento entro la prima età adulta, ma alcuni di loro continuano a lamentare sintomi in età adulta anche molto diversi da quelli presenti nel bambino. Non ci capiterà di vedere un uomo adulto con ADHD correre per la stanza o comportarsi in maniera oppositiva con altri adulti. Infatti l’ADHD è una patologia che tende a manifestarsi con modalità differenti nelle diverse fasi della vita, quindi bambini e adulti con la medesima psicopatologia potrebbero essere caratterizzati da fenotipi molto diversi, al punto che alcuni autori si sono chiesti se sia necessario definire l’Adult-ADHD come un disturbo differente. Per quanto riguarda l’infanzia, tendenzialmente qualsiasi bambino in età prescolare presenta una scarsa concentrazione unita ad alti livelli di attività e impulsività, nonostante ciò i bambini con diagnosi di ADHD spiccano. Questi bambini mostrano una forte irrequietezza motoria, molto spesso non finalizzata, ed una povera intensità di gioco. Spesso a tali sintomi possono accompagnarsi un ritardo dello sviluppo, comportamento di tipo oppositivo e abilità sociali al di sotto della media.

Queste caratteristiche si ripercuotono in molti casi sullo stile parentale a causa dell’alto livello di stress dovuto alla frustrazione di un bambino che non risponde ai comandi: in molti casi quindi il genitore esacerba il comportamento del bambino utilizzando uno stile parentale maggiormente autoritario. Infatti un outcome frequente è l’emergere di conflitti genitori-figli caratterizzati da una diminuzione dell’efficacia genitoriale e da un aumento dello stress.

L’ADHD in età scolare

Per quanto riguarda l’età scolare, sembra che questi bambini siano a maggior rischio di esperire un fallimento accademico, così come un rifiuto da parte dei pari e un basso livello di autostima. In questa fase della vita inizia a risultare evidente come gli altri membri della famiglia si rifiutino di prendersi cura del bambino o anche come quest’ultimo non venga invitato a giocare da altri bambini.

In adolescenza l’iperattività tende a diminuire, ma persistono sintomi quali l’inattenzione, l’impulsività e l’irrequietezza. Questi possono ripercuotersi sullo sviluppo di un coeso senso di sé, inoltre è possibile che ragazzi con ADHD sviluppino comportamenti aggressivi e antisociali.

Gli adolescenti con ADHD riportano di avere maggiori conflitti con genitori e pari e sono maggiormente a rischio di abbandono scolastico, gravidanze precoci e comportamenti criminali.

L’ADHD in età adulta

I pazienti con ADHD in età adulta hanno manifestazioni diverse di inattenzione, impulsività e iperattività. Quest’ultima potrebbe manifestarsi come irrequietezza, prolissità o eccessiva agitazione anche in situazioni in cui è richiesto di stare fermi, per esempio nel corso di un meeting o durante le lezioni universitarie. L’impulsività potrebbe esprimersi come impazienza, tendenza ad agire senza pensare e incapacità di tenersi un lavoro o di portare avanti relazioni personali. Infine, l’inattenzione potrebbe esplicitarsi con il sentirsi spesso annoiati, incapaci di prendere decisioni, ma anche con la tendenza a procrastinare gli impegni o con l’essere disorganizzati e distratti.

Comunque in età adulta il tipo prevalentemente inattentivo di ADHD sembra essere quello con più alta prevalenza: infatti la domanda esterna in termini di attenzione cresce con l’età e ciò rende l’impairment più evidente. Questi sintomi, in primo luogo l’inattenzione, l’irrequietezza e l’eccessivo mind wandering, sarebbero la spiegazione per cui questi pazienti risultano essere meno propensi a iscriversi all’università. I pazienti riportano che il mind wandering che esperiscono sia caratterizzato da pensieri distraenti non focalizzati e di breve durata, che non presentano un pattern ripetitivo o anormalità nel contenuto.

Le principali difficoltà degli adulti con ADHD

In età adulta questi pazienti tendono ad avere in generale più problemi relativi al mondo del lavoro a partire dalla ricerca dei primi impieghi fino alla performance lavorativa in sé. Questi soggetti sono a maggior rischio di licenziamento rispetto alla popolazione normale, infatti spesso si trovano a cambiare più volte tipologia di lavoro prima di trovarne uno in cui abbiano successo. Tendono inoltre ad avere problemi interpersonali e difficoltà con superiori e colleghi, spesso causati da assenteismo, eccessivi errori e ritardi.

I pazienti spesso lamentano un umore fluttuante, incapacità di tollerare la frustrazione e lo stress, irritabilità: tali problematiche sono spesso la causa di difficoltà relazionali con parenti, partners e amici. I problemi interpersonali sono quelli che maggiormente spingono i pazienti a ricercare aiuto. Le relazioni dei pazienti con ADHD sono spesso poco durature e turbolente ed i divorzi sono molto più frequenti.

Gli adulti ADHD tendono a presentare caratteristiche che in certi casi sono utili a supportare la diagnosi. I disturbi del sonno sono presenti nel 70% dei soggetti: molti riferiscono di essere troppo mentalmente e fisicamente inquieti per addormentarsi.

La disregolazione emotiva viene indicata anche nel DSM-5 come criterio supportivo alla diagnosi: questa è caratterizzata da labilità emotiva, scarsa tolleranza alla frustrazione ed irritabilità.

Da un punto di vista neuropsicologico questi pazienti hanno spesso difficoltà nelle funzioni esecutive, in particolare nell’inibizione e nella working memory.

Anche i comportamenti a rischio sono parte del compromesso funzionamento psicosociale di questi individui. L’uso e l’abuso di droghe è significativamente maggiore nei soggetti con ADHD che non hanno ricevuto un adeguato trattamento così come la guida pericolosa e di conseguenza gli incidenti stradali. È stato stimato che circa un quarto dei soggetti che soffrono di disturbo da abuso di sostanze hanno in comorbidità l’ADHD ed hanno una prognosi peggiore rispetto ai soggetti senza ADHD. Già da bambini, questi pazienti sono associati ad un più alto livello di sensation seeking, un tratto di personalità definito dalla ricerca di esperienze e/o sensazioni e da una maggiore facilità di assumersi rischi per raggiungere tali stati.

Risulta quindi evidente come il disturbo si manifesti in maniera significativamente differente in età adulta. Molto spesso questi pazienti sono misdiagnosticati e quindi non trattati in maniera adeguata, vengono infatti inquadrati o all’interno di disturbi affettivi di Asse I come la Depressione Maggiore o il Disturbo Bipolare o all’interno dei disturbi di Asse II, specialmente il Disturbo Borderline di Personalità (BPD). Ciò avviene anche a causa dell’inadeguatezza dei criteri diagnostici di cui disponiamo attualmente, che sono modellati per una diagnosi in età evolutiva. Comunque, nonostante questi siano rimasti invariati anche nell’ultima versione del DSM, sono stati aggiunti diversi esempi per aiutare il clinico ad applicare correttamente i criteri ad un soggetto adulto. Rimane di fondamentale importanza sviluppare strumenti per identificare l’Adult-ADHD in modo tale da poter fornire trattamenti adeguati ai soggetti che ne soffrono.

 

Le rappresentazioni della guerra tra clinica e social

Una caratteristica di questa guerra, che la rende unica rispetto a tutte quelle che la hanno preceduta, è che molti di noi la stanno vivendo anche nella sua proiezione sui social.

 

Quando mi è stato chiesto di mettere per iscritto alcune considerazioni sugli aspetti psicologici (e psicopatologici) della guerra in Ucraina, ho avuto reazioni contrastanti. Da un lato, infatti, mi è parsa una buona idea mettere a fuoco in una modalità discorsiva fluida e non eccessivamente sintetica i diversi aspetti e le diverse riflessioni che questa situazione mi ha sollecitato, e dall’altro mi sono chiesto quanto la mia posizione di persona coinvolta nelle reazioni che vado a descrivere mi avrebbe permesso di mantenere una distanza sufficiente dal fenomeno per poterlo raccontare.

La guerra collocata nel contesto attuale

Il primo problema che ho riscontrato, infatti, nei discorsi che sto leggendo sulla guerra, nei tentativi di analisi, nel modo in cui viene raccontata dai media, è che è impossibile contemporaneamente vivere un evento e raccontarlo. Nel caso dei servizi giornalistici, c’è un tempo tra le riprese e la diffusione, fatto di vari passaggi che da profano conosco solo sommariamente, che permettono questa presa di distanza e conseguentemente l’accomodazione dei fatti prima di renderli fruibili a tutti. Nel caso delle reazioni emotive alla guerra, invece, questo è più difficile, in quanto prendere un temporaneo commiato dal proprio sentire è un’operazione che necessita di una massiccia dose di astrazione, è un cedimento grossolano alla dimensione del “come se”, ossia una finzione (per citare Vaihinger, 1967). Ciò detto, nella “Filosofia del come se” Vaihinger ci insegna che anche le finzioni possono avere una certa utilità nel comprendere il reale, e quindi provo a dire quali sono le questioni principali che vedo in campo.

Parto dalla clinica: viviamo un tempo che ci ha visti già impegnati, negli scorsi anni, ad affrontare una severa pandemia che ha portato la morte nelle vite nostre e dei nostri prossimi, ha limitato le nostre relazioni, frustrato gli affetti, coartato la nostra voglia di socialità, ci ha inserito in un sistema costrittivo, per quanto necessario, di limiti e divieti e, ora che eravamo quasi pronti a lasciarci tutto questo alle spalle, almeno nelle accezioni più gravi, arriva una guerra violenta e inaspettata, alle porte dell’Europa, dai contorni incerti e dagli esiti imprevedibili, e ci troviamo nuovamente esposti alla percezione di pericolo delle nostre vite, con un’angoscia che assume delle tinte marcatamente melanconiche (per dirla con Binswanger, 2001), essendo un’angoscia che origina dalla messa in discussione del nostro continuare a vivere, minacciati da un conflitto nucleare che aleggia tra i discorsi dei potenti di turno.

A questa angoscia, ognuno reagisce come può: tra i pazienti, c’è chi mi racconta che, proprio adesso che aveva ricominciato ad uscire, sono ricomparse paure e pensieri ipocondriaci che spingono a rintanarsi in casa rimandando la primavera a periodi più tranquilli, oppure chi ha fatto scorte di farine e cibo in scatola “perché non si sa mai”, chi progetta di cercare un bunker per sapere dove andare in caso ci fosse bisogno, chi vagheggia di partire per andare lontano (un lontano assai ipotetico, vista la dimensione del conflitto in potenza).

Accanto alla sofferenza nelle sue varie manifestazioni, nel discorso sulla guerra torna prepotentemente un altro topos tipico di quando ci troviamo di fronte a comportamenti abnormi e apparentemente incomprensibili, ossia la supposta “follia” del potente di turno. Non avendo ovviamente alcun elemento per potermi esprimere sulla salute mentale di Putin, e ritenendo tra l’altro che la diagnosi sia sempre un fatto clinico e che perda del tutto di utilità al di fuori di questo contesto, rilevo che la scorciatoia dell’incomprensibilità, nel significato che a questo termine dà Jaspers, sia inutile quando non dannosa, avendo principalmente sempre lo scopo di allontanare da noi, dalle nostre vite, la anche minima vicinanza con l’essere umano Putin, il relegarlo ad un altro universo simbolico.

La rappresentazione della guerra sui social network

Una caratteristica di questa guerra, che la rende unica rispetto a tutte quelle che la hanno preceduta, è che molti di noi la stanno vivendo anche nella sua proiezione sui social. Questo fatto rende ancora più evidenti i limiti e le potenzialità di queste piattaforme di comunicazione: la tendenza alla contrapposizione, la logica binaria del bianco o nero, che si traduce al “sei con me o contro di me”, l’estrema semplificazione, rendono i social non uno strumento privilegiato per fare da contenimento emotivo della situazione, ma piuttosto un amplificatore del conflitto.

Per comprendere questo fenomeno, faccio riferimento al modello dell’Emotion Focused Therapy di Greenberg e Piavio (2000). Secondo questo modello, dobbiamo distinguere diversi tipi di emozioni: le emozioni primarie, che sono in genere adattive e la cui espressione va accompagnata essendo di per sé parte del processo terapeutico di crescita, e le emozioni secondarie, che invece hanno la funzione di bloccare il contatto e l’espressione di emozioni più disturbanti e la cui semplice espressione non porta a nessuna forma di riorganizzazione creativa.

Se prendiamo in considerazione la rabbia, essa è un’emozione primaria che nasce quando siamo di fronte ad una situazione di pericolo o di messa in discussione della nostra integrità (non solo fisica, ma anche psichica e sociale)  e ci permette di mettere in atto dei comportamenti aggressivi che ci permettano di aumentare le nostre possibilità di sopravvivenza o affermazione. Quando invece la rabbia ha la funzione di bloccare l’accesso ad emozioni più disturbanti, come dolore o paura intensi, allora è un’emozione secondaria.

Credo che, nella rappresentazione della guerra sui social, i fiumi di rabbia che scorrono (nelle varie declinazioni: dalle accuse di filo – putinismo a quelle di essere guerrafondai, la marcata assenza di empatia nei confronti delle vittime ucraine, la totale identificazione con le stesse, fino alle varianti apparentemente più leggere di sarcasmo) siano proprio di natura secondaria: non ci aiutano ad affrontare il presente, ma piuttosto ci incistano in una incomunicabilità che aumenta il nostro senso di solitudine e precarietà.

Un altro meccanismo di contenimento e gestione dell’angoscia, di segno opposto rispetto al precedente, è l’anestesia emotiva, con un uso massiccio di razionalizzazione, nel tentativo di mettere distanza tra sé stessi e una realtà spaventevole.

Questa condizione diffusa mi interroga, come clinico e come frequentatore dei social, e mi piacerebbe proporre una moratoria di quest’uso della rabbia e dell’eccesso di razionalizzazione, al limite accogliendo la paura e provando a condividerla, per ritrovare dei germogli di comunità da nutrire e socializzare, ma questo esula certamente dalle finalità di questo articolo.

Equilibrio tra vita professionale e vita privata durante il lockdown: una questione di genere

Il concetto di Work Life Balance, il cosiddetto “equilibrio lavoro-famiglia” (Greenhaus e colleghi, 2003), già difficile al giorno d’oggi per la crescente richiesta di lavoro flessibile, ha raggiunto livelli allarmanti durante il periodo del lockdown.

 

Abstract

Il divario di genere sembra essere dilagato nell’ultimo periodo a causa della pandemia e a seguito della richiesta ai lavoratori di svolgere le proprie mansioni da remoto, con la conseguente difficoltà che ne deriva per le donne di equilibrare gli impegni del lavoro domestico, professionale, mentale ed emozionale.

Work Life Balance nel periodo Covid

La pandemia data dal COVID-19 non ha causato danni solo a livello sanitario ed economico, ma ha provocato anche dei burrascosi cambiamenti nella vita personale e sociale delle persone.

Nell’arco di questi due anni molti paesi hanno adottato misure drastiche per cercare di limitare la diffusione del virus, come le misure di isolamento e il distanziamento sociale.

Le restrizioni hanno comportato sia la richiesta alle aziende di istituire delle politiche di lavoro da casa per i propri dipendenti, sia la chiusura delle scuole con l’istituzione della didattica a distanza per gli studenti.

Il cambiamento della quotidianità è stato inevitabile. La casa è diventata una scuola, un luogo di lavoro, un centro ricreativo, e così via. L’impatto di questa situazione ha comportato una grande sfida per le famiglie di tutto il mondo, a seguito delle maggiori responsabilità assistenziali per i genitori che hanno dovuto prendersi cura della casa e dei propri figli anche durante l’orario lavorativo.

Questo tipo di situazione fa riferimento al concetto di Work Life Balance, il cosiddetto “equilibrio lavoro-famiglia” (Greenhaus e colleghi, 2003): già difficile al giorno d’oggi per la crescente richiesta di lavoro flessibile, ha raggiunto livelli allarmanti durante il periodo del lockdown.

Gli studi sull’argomento dimostrano che, però, vi è un equilibrio e una divisione delle responsabilità familiari sbilanciati (Poggesi e colleghi, 2017).

La spiegazione psicosociale alla base riguarda l’innesco implicito di bias e la formazione degli stereotipi di genere che esaltano le differenze tra gli uomini e le donne, vedendo i primi maggiormente dediti alla carriera e le seconde più legate alla famiglia, plasmando quelle aspettative su come debbano comportarsi nella società (Ellemers, 2018). Il mancato raggiungimento di un “equilibrio” tra questi due ambiti può produrre un conflitto con effetti negativi sulla salute mentale e fisica dell’individuo coinvolto.

Work Life Balance e differenze di genere

Le ricerche svolte durante la pandemia confermano che le donne hanno retto maggiormente il colpo delle restrizioni rispetto ai loro partner. Lo studio etnografico di Manzo e Minello (2020) mostra che, durante il lockdown, le madri hanno ridotto il proprio orario di lavoro svolgendolo principalmente quando i figli dormivano e quelle che hanno smesso di lavorare hanno svolto il doppio del lavoro domestico e di assistenza all’infanzia, con un aumento dello stress, della stanchezza, della frustrazione e della rabbia annessi. Al contrario, nelle famiglie in cui è il partner maschio ad aver smesso di lavorare, i genitori condividevano equamente i compiti familiari, anche se la madre lavorava (Andrew e colleghi, 2020). Inoltre, quando le restrizioni a causa del COVID-19 sono state ridotte, molte madri hanno affermato di essersi rese conto di quanto fosse stato vincolante l’aver dovuto cancellare i confini che separavano l’ambito professionale da quello privato e familiare.

Dunque, questa situazione senza precedenti che ha messo in ginocchio tutti, sembra aver esacerbato il gender gap e indica che i tempi di crisi possono rivelare le norme e le strutture profondamente radicate sui ruoli di genere.

Concludendo, anche se vi è un aumento della partecipazione femminile nelle Organizzazioni e delle normative sulle pari opportunità nel mondo del lavoro contemporaneo, ci sono ancora pochi segni di rivoluzione concreta perché, affinché il cambiamento avvenga a livello sociale, è importante che le credenze sui ruoli di genere mutino anche nelle sfere più personali e intime di tutte le persone.

 

L’ombra dell’oggetto tra lutto e depressione

In molti casi il vissuto doloroso del lutto può essere sovrapposto a quello della depressione: in ambedue gli aspetti troviamo la perdita di un oggetto amato, il dolore conseguente a tale perdita e l’impossibilità di rassegnarsi alla stessa, con un conseguente attaccamento all’oggetto che viene rimpianto, evocato, considerato ancora in vita. 

Aspetti emotivi a confronto

Secondo il modello freudiano, l’eziopatogenesi della depressione prevede la compresenza imprescindibile di tre elementi: aggressività verso l’oggetto perduto, regressione ad uno stato narcisistico, percezione simbiotica e indifferenziata tra il Sé e l’oggetto. Tutto questo rende il melanconico incapace di disinvestire, e dunque di differenziarsi, dall’oggetto perduto. Da qui il vissuto di dolore insanabile e senza oggetto, tipico della depressione e del lutto patologico.

Tra lutto e depressione: connotati patologici

Il lutto sottende una dimensione di perdita, di privazione, di scomparsa definitiva di un oggetto affettivamente rilevante, da cui si origina un vissuto di dolore intenso e pervasivo. Una morte, una separazione, un distacco improvviso, ma anche la fine di un rapporto affettivo, di una situazione lavorativa stabile, il termine di un’unione matrimoniale, possono proiettare in una dimensione di sofferenza tale da modificare il rapporto col Sé individuale e relazionale.

In molti casi il vissuto doloroso del lutto può essere sovrapposto a quello della depressione: in ambedue gli aspetti troviamo infatti la perdita di un oggetto amato, il dolore conseguente a tale perdita e l’impossibilità di rassegnarsi alla stessa, con un conseguente attaccamento all’oggetto che viene rimpianto, evocato, considerato ancora in vita.

Sarebbe tuttavia erroneo ipotizzare una parificazione tra depressione e lutto ipso dicto. Sebbene le conseguenze psicologiche dei due eventi possano mostrarsi per molti aspetti analoghe, la psicologia clinica si è premurata in più di un’occasione di stabilire le differenze tra queste due condizioni, delle quali l’una si fa portatrice di una componente patologica e non transitoria assente nell’altra.

Anche la psicodinamica si è orientata in tal senso, cercando di distinguere gli eventi psichici della depressione e del lutto a partire da un fondamentale elemento discriminante, identificabile nella presenza di un vissuto autosvalutante e autopunitivo (Freud, 1917). Il senso di odio e di misconoscimento della propria natura, fino al desiderio di negazione e distruzione della stessa, non compare infatti nella dimensione di lutto, in cui a predominare sono il dolore, la nostalgia e il rimpianto specificamente scaturiti dalla perdita dell’oggetto.

In particolare, il vissuto di autocolpevolezza presente nella depressione trova origine nell’identificazione che il melanconico effettua tra il Sé  e l’oggetto perduto, al fine specifico di mantenere con lo stesso un legame affettivo. Inoltre, se nel lutto il percetto emotivo dominante consiste in un dolore nostalgico e in una contrizione per la perdita, nella melanconia l’oggetto perduto diviene meta di una pulsione aggressiva derivata dal dolore per l’abbandono subito.

Al contrario di quanto avviene nel lutto, l’oggetto perduto viene odiato, più che rimpianto.

Ma la necessità di mantenere inalterato il legame affettivo è così fondamentale per il melanconico, da spingerlo ad introdurre l’oggetto abbandonico nella propria dimensione egoica, in una sorta di meccanismo introiettivo-identificativo che testimonia altresì la presenza di bisogni orali inappagati.

Lo stesso Abraham (1916) osserva come nell’inconscio del depresso vi sia una tendenza a divorare avidamente l’oggetto, proprio a causa di una correlazione tra oralità e vissuto depressivo.

L’oggetto abbandonato viene introiettato in una pulsione identificativa che risulta talmente forte da annullare ogni possibilità di distanza, di differenziazione, di separatezza: l’oggetto è me, ed io sono l’oggetto. In conseguenza di ciò, è verso il Sé che il depresso dirige i vissuti di risentimento e odio punitivo prima destinati all’oggetto. L’odio rivolto verso l’oggetto abbandonico, diviene così odio verso il Sé (Freud, 1917).

Il melanconico si sente privato della propria dimensione esistenziale, spogliato di pulsioni e sentimenti, senza tuttavia conoscerne il reale motivo. Al contrario, nel lutto la ragione della sofferenza è ben nota, essendo relativa alla perdita definitiva dell’oggetto.

Anche i riferimenti spazio-temporali si mostrano differenti: il soggetto che soffre a causa di un lutto sa esattamente quando e perché il suo dolore è cominciato, mentre il depresso si muove in una dimensione di sofferenza vaga e inconsapevole, per quanto assoluta. E questa impossibilità di dare un nome e una causa al proprio dolore, contribuisce a renderlo ancora più penoso e incomprensibile.

Infine, mentre la pena del depresso appare infinita e dilagante, quella del lutto non preclude la possibilità di un termine.

Obiettivo del lavoro del lutto, secondo Lagache (1938) è proprio quello di “uccidere la morte”, spezzando il legame con l’oggetto perduto e consentendo una nuova fase esistenziale per colui che è rimasto in vita: questo potrà essere possibile solo se, con l’elaborazione della perdita, si opera l’uccisione della morte intesa come fine della pulsione di vita e identificazione con l’oggetto.

Il nucleo dell’elaborazione del dolore sta proprio in questo aspetto. Di fronte alla perdita dell’oggetto, tanto nel lutto che nella depressione, l’Io si trova combattuto in un intenso dilemma esistenziale: se lasciarsi convincere dalle gratificazioni egoiche che lo spingono a restare in vita, e quindi a disinvestire e a deidealizzare l’oggetto, o se al contrario scegliere di mantenere con esso il legame simbiotico, condividendone in toto il destino, compreso quello di morte. Il lavoro del lutto è dunque un “lavoro di liberazione: esso termina allorché non v’è più alcuna confusione tra il morto e il sopravvissuto” (Lagache, 1956, p. 74).

Nella depressione, al contrario, il dolore per la perdita dell’oggetto sfugge ad ogni collocazione specificante, ad ogni possibilità di confinamento o attenuazione. Così come ne è sconosciuto l’inizio, è impossibile vederne la fine. Ed è lo stesso malinconico a difendersi dalla possibilità di intraprendere una dimensione vitale senza la presenza dell’oggetto perduto. Il dolore è definitivo, senza uscita e del tutto egosintonico. Il depresso non accetterebbe di vivere in nessun altro modo.

I tratti narcisisitici della depressione: l’illusione simbiotica e il mancato disinvestimento pulsionale

Per impedire al lutto di degenerare in una condizione depressiva patologica risulta fondamentale disinvestire la pulsione affettiva verso l’oggetto perduto e dirigerla verso legami oggettuali differenti. Tale capacità di de-investimento e re-investimento nella depressione appare deficitaria: l’IO del melanconico non riesce a modificare la meta della propria pulsione, che rimane fissa all’oggetto perduto pur dopo la scomparsa della stesso.

Questa ostinazione di relazione preclude la possibilità di un investimento alternativo: incapace di creare nuovi legami affettivi, la dimensione egoica del depresso preferisce introiettare l’oggetto perduto e identificarsi con esso, in una sorta di identificazione introiettiva (Freud, 1914). Viene dunque replicato il narcisismo primario tipico dell’infanzia, in cui tutta l’energia emotiva è identificabile nella libido egoica e l’unico investimento emotivo possibile è quello rivolto al Sè (Freud, 1914).

Il narcisista rifugge i legami oggettuali, evita qualsiasi tipo di relazione e di dipendenza affettiva. Esattamente come il bambino nelle prime fasi di vita, egli non riesce a compiere un passo verso il mondo esterno, ad uscire da un egocentrismo indifferenziante e a trattare l’oggetto come altro da Sé. Il suo mondo psichico è tutto costruito sulla base di un autoriferimento che, se da una parte lo persuade di una condizione di onnipotenza, dall’altro lo rende inconsciamente fragile e vulnerabile, perché incapace di differenziarsi dall’oggetto cui si sente simbioticamente legato (Ogden, 2007).

Si veda come la componente narcisistico-simbiotica svolge un ruolo importante nella patogenesi della depressione. È anzi possibile affermare che, in assenza di un narcisismo primario, la depressione non potrebbe avere luogo, in quanto è proprio l’incapacità di svincolarsi dal legame simbiotico con l’oggetto perduto a comportare il ritiro pulsionale tipico del lutto complicato e della melanconia (Freud, 1914; 1917).

Un ulteriore tratto condiviso dal narcisista e dal depresso è il profondo vissuto di rabbia sperimentato verso l’oggetto abbandonico, da cui entrambi si sentono profondamente traditi. Lo stesso Freud si sofferma sull’ambivalenza della melanconia, espressa con un vissuto affettivo che vede la compresenza tra forti elementi autosvalutanti e un dolore narcisistico legato alla sofferenza del Sé: “essi si comportano come se fossero stati offesi e come se fosse stata loro arrecata una grave ingiustizia” (Freud, 1915, p. 108). Quindi, per quanto il depresso disprezzi se stesso, la sua rabbia è in realtà rivolta verso un oggetto affettivo che, abbandonandolo, lo ha ferito irrimediabilmente.

L’odio verso l’oggetto abbandonico è figlio di una dimensione egoica fragile e non coesa, che non è capace di tollerare la separazione, esattamente come accade nel narcisismo primario (Ogden, 2007). E tuttavia ecco l’elemento discriminante: l’abbandono che nel narcisista viene negato dà un senso di onnipotenza distruttiva, nel depresso si tramuta in una realtà inaccettabile.

Il ruolo del legame simbiotico nell’identificazione con l’oggetto perduto

La rabbia verso l’oggetto perduto risveglia nel depresso angosce pregenitali dovute ad un mancato completamento del processo di differenziazione – collocabile nella fase preedipica- e alla regressione verso una fase orale in cui il bisogno introiettivo si mostra vitale (Abraham, 1924).

Il depresso sa di non poter sopravvivere senza l’oggetto primario che percepisce come una parte indistinta di Sé, e nel momento in cui se ne sente privato, l’angoscia per l’abbandono subito si tramuta in un terrore di morte, un’angoscia psicotica simile a quella sperimentata dai bambini nelle prime fasi della vita (Mahler, 1968). Amputato letteralmente di una parte di se stesso, e in preda ad uno stato di vulnerabilità insanabile, il depresso non può che tramutare in rabbia il dolore per l’abbandono subito, e dunque odiare prima l’oggetto abbandonico, e poi il Sé che con esso si identifica.

Dire che nella depressione manca un processo di differenziazione primaria significa affermare che il melanconico non rimpiange l’oggetto perduto, ma il Sé senza l’oggetto nel quale aveva narcisisticamente investito. L’altro, dunque, non è che un oggetto- Sé. Un riflesso egocentrico privo di una propria soggettività.

Riconoscere l’alterità dell’oggetto rappresenta anche la capacità di dar vita ad un amore oggettuale più maturo, che ha superato la fase orale ed è capace di condotte accuditive e premurose verso l’altro, del quale riconosce la diversità. Questa maturità affettiva, assente nel depresso come nel narcisista, in entrambi viene sostituita da una condizione patologica di non accettazione dell’alterità, unita ad una non tolleranza dell’abbandono, visto come un attentato alla sopravvivenza del Sé.

Il dolore del depresso come oggetto non trasformativo

Nella dimensione della melanconia si riscontra un vuoto emotivo, una ferita narcisistica inguaribile, laddove nel lutto il dolore è contingente alla perdita e dunque gradualmente risolvibile. A determinare questa differente direzione psicologica è la capacità del soggetto di mostrarsi tollerante e rielaborativo verso una perdita affettiva, grazie a strumenti difensivi più evoluti, ad una dimensione egoica maggiormente coesa e ad una relazionalità affettiva più stabile e differenziata.

Il soggetto che ha superato funzionalmente la fase preedipica, ha costruito la certezza di un oggetto affettivo stabile perché definitivamente introiettato. Al contempo ha consolidato la capacità di tollerare la separazione e il dolore per la perdita, tramutando lo stato luttuoso in una dimensione non distruttiva, ma generativa di una nuova matrice relazionale. La base per nuovi investimenti affettivi.

Questa capacità trasformativa, intesa come possibilità di modificare in senso evolutivo una situazione di perdita, nella depressione si trasforma in un elemento persecutorio incistante e autodistruttivo (Bollas, 1987) ove l’omeostasi non si mostra foriera di stabilità equilibrante, ma di stasi distruttiva.

In questa dimensione di non evoluzione e non progresso, il rapporto simbiotico con l’oggetto affettivo si è chiaramente perpetrato, dando vita ad un terrore di separazione in cui la perdita è intollerabile perché definitiva e distruttiva del Sè.

Non c’è possibilità né volontà di mutamento, nella sofferenza del depresso: soltanto un’impietosa fissità, un abbraccio mortifero che non ambisce alla salvezza, ma che al contrario la rifugge pervicacemente. L’imperativo egoico è volto ad impedire qualsiasi forma di vita in assenza dell’oggetto perduto.

Dunque il discrimen tra lutto e depressione risiede tutto in questo dilemma decisionale: se seguire Eros verso la costruzione di un nuovo vissuto vitale su cui investire la pulsione affettiva, o se al contrario assecondare il vulnus pietrificante ispirato da Tanatos, accettando l’asservimento ad un dolore carceriere che impedisce l’evoluzione, il mutamento adattivo, il replicarsi generativo di nuovi investimenti pulsionali, fino ad comportare, talvolta, la distruzione totale.

 

La teoria dello stress delle minoranze e omofobia interiorizzata

Le persone LGBT sono a maggior rischio di problemi psicologici, discriminazioni verbali, fisiche e molestie, nonché soggette ad un’ampia distinzione sociale presente in alcuni Stati sottoforma di legge che accresce il pregiudizio presente all’interno della comunità stessa. Pepping e colleghi (2018) hanno svolto una ricerca per indagare l’associazione tra minority stress, omofobia interiorizzata e soddisfazione di coppia.

 

Introduzione

La teoria dello stress delle minoranze o minority stress (Brooks, 1981; Meyer, 2008; Meyer, Schwartz & Frost, 2008) si riferisce alla tensione che viene vissuta dai gruppi minoritari stigmatizzati. Le persone LGBT sono a maggior rischio di problemi psicologici, discriminazioni verbali, fisiche e molestie, nonché soggette ad un’ampia distinzione sociale presente in alcuni stati sottoforma di legge che accresce il pregiudizio presente all’interno della comunità stessa (Meyer., 2003; Katz-Wise & Hyde, 2012). I ricercatori sopracitati hanno svolto delle metanalisi per osservare come vi siano delle molestie verbali segnalate tra il 55% e l’80% dei casi, mentre nel 28% dei casi vengono attuati dei veri e propri attacchi fisici. Tutto questo comporta un aumento dello stress per le persone della comunità LGBT che si riversa anche sulle loro relazioni di coppia. Sebbene infatti molte persone LGBT desiderino una relazione interpersonale stabile e molti dei predittori e dei risultati di tali coppie siano simili alle relazioni eterosessuali, tutt’oggi le persone dello stesso genere devono affrontare pregiudizi e stress aggiuntivi, tra cui omofobia interiorizzata e difficoltà nell’accettazione identitaria (Pepping et al., 2018).

Cos’è l’omofobia interiorizzata?

L’omofobia interiorizzata include tutti quegli atteggiamenti negativi sperimentati nei confronti del proprio orientamento sessuale, nonché la difficoltà a parlare delle relazioni avute con persone dello stesso sesso a causa della vergogna provata (Meyer & Dean, 1998; Newcomb & Mustanski, 2010, come citati in Pepping et al., 2018). Il proprio orientamento sessuale può essere particolarmente saliente all’interno di una relazione romantica, ed è probabile che pregiudichi la qualità della relazione stessa (Frost & Meyer, 2009). Coerentemente con tale ipotesi, esistono numerosi studi che evidenziano come l’omofobia interiorizzata sia associata ad una bassa qualità della relazione affettiva in alcune coppie omosessuali (Doyle & Molix, 2015; Frost & Meyer, 2009; Ross & Rosser, 1996). La difficoltà dell’accettazione identitaria viene contrastata dall’affermazione dell’identità LGBT, sostenitrice della percezione del proprio orientamento sessuale come un aspetto positivo e come motivo di orgoglio (Mohr & Kendra, 2011).

Uno studio su omofobia interiorizzata e soddisfazione della coppia

Un maggior senso di appartenenza e una maggiore affermazione della propria identità permettono alle persone omosessuali di avere un benessere maggiore rispetto a quelle con scarsa affermazione di identità (Pepping et al., 2018). Pepping e colleghi (2018) hanno svolto una ricerca per indagare l’associazione tra minority stress e soddisfazione di coppia. In particolare, gli autori hanno ipotizzato che gli individui con un livello di omofobia interiorizzata maggiore possono avere più difficoltà ad accettare la propria sessualità, riportando così una minore soddisfazione all’interno della relazione affettiva.

Il campione è composto da 363 partecipanti con una relazione affettiva: 320 soggetti hanno dichiarato di essere gay e lesbiche, 38 si sono dichiarati bisessuali e 5 non si sono identificati in questi orientamenti. Molti partecipanti, nello specifico 251, convivono (Pepping et al., 2018). Le scale somministrate sono la LGB Identity Scale (LGBIS; Mohr & Kendra, 2011) – misura multidimensionale utile a valutare le esperienze sessuali minoritarie attraverso cinque sottoscale che valutano i livelli di omofobia interiorizzata, la difficoltà ad accettare la propria sessualità, l’affermazione identitaria, l’accettazione delle preoccupazioni e la motivazione alla dissimulazione – e la Couple Satisfaction Index-4 (CSI-4; Funk & Rogge, 2007), utile a misurare la soddisfazione di coppia attraverso quattro domande.

La relazione tra omofobia interiorizzata e soddisfazione nella relazione

I risultati hanno suggerito come il campione analizzato era tendenzialmente soddisfatto della propria relazione: l’omofobia interiorizzata e le difficoltà di accettazione della propria identità erano associate negativamente con la soddisfazione della relazione e con una maggiore motivazione alla dissimulazione. Sembra esistere una correlazione positiva tra la qualità della relazione e il ruolo protettivo della propria affermazione identitaria. Dai dati emerge che l’affermazione identitaria diretta predice un incremento della soddisfazione della coppia ed evidenzia così il ruolo fondamentale dei fattori protettivi nelle relazioni omosessuali (Pepping et al., 2018). In sintesi, i risultati suggeriscono come sia i fattori di rischio che quelli protettivi siano associati alla soddisfazione nelle coppie omosessuali: l’omofobia interiorizzata e le difficoltà ad accettare il proprio orientamento sono quindi indirettamente associate all’insoddisfazione della relazione attraverso la motivazione alla dissimulazione.

Indagare gli aspetti relazionali può apportare dei contributi nelle terapie di coppia, in quanto valutare i fattori di stress può essere importante per fronteggiare un possibile disagio dovuto allo stigma culturale d’appartenenza (Pepping & Halford, 2014).

World Bipolar Day 2022 – Il 30 Marzo ricorre la giornata dedicata al Disturbo Bipolare

Il 30 Marzo 2022, come ogni anno, ricorre il World Bipolar Day, la giornata mondiale del Disturbo Bipolare, ovvero una giornata per sensibilizzare la popolazione al disturbo bipolare, un disturbo caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, date dall’alternarsi di Episodi Maniacali/Ipomaniacali ed Episodi Depressivi.

 

Che cos’è il Disturbo Bipolare? Quasi nove persone su dieci non hanno mai sentito parlare di questo grave disturbo psichiatrico, considerato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la sesta causa di disagio sociale nel mondo. Non a caso, dall’indagine GfK Eurislko emerge che il 46% dei pazienti si sentono poco accettati dalle persone che li circondano (amici, conoscenti, colleghi e datore di lavoro) e il 60% ammettono di avere difficoltà nelle relazioni sociali. Ecco l’importanza di celebrare il World Bipolar Day.

Gli ultimi dati raccolti in Italia (risalenti ormai a più di dieci anni fa) ci dicono che più dell’85% dei cittadini non conosce il Bipolarismo. I connazionali più “informati” sul disturbo sembrano essere le donne e i più giovani. Tuttavia anche i più “informati” tendono a mostrare una grande confusione sull’argomento: il 26% lo considera erroneamente una forma di depressione, mentre il 16% lo confonde con un disturbo della personalità e il 13% ritiene che si tratti di uno “sdoppiamento”, più simile a un disturbo dissociativo (Quotidiano Sanità, 2010)

World Bipolar Day: che cos’è il disturbo bipolare?

Scopo del World Bipolar Day è sensibilizzare la popolazione al Disturbo Bipolare, anche definito anche Bipolarismo, Depressione Bipolare o Sindrome Maniaco-Depressiva. Il disturbo bipolare rappresenta una patologia molto seria che se non trattata tempestivamente ed in maniera adeguata, può causare gravi sofferenze e risultare decisamente invalidante.

La persona bipolare manifesta gravi alterazioni dell’umore, delle emozioni e dei comportamenti, il tutto con una durata piuttosto variabile. Questi sbalzi d’umore sono caratterizzati dall’alternarsi di Episodi Maniacali/Ipomaniacali ed Episodi Depressivi, motivo per cui questa patologia è definita Bipolare.

In genere le fasi depressive del disturbo bipolare tendono ad avere una durata maggiore (qualche settimana o mesi) rispetto alle fasi maniacali o ipomaniacali (una/due settimane)

Sia la Mania che la Depressione influiscono notevolmente sulla vita dell’individuo con bipolarismo, e sono fortemente debilitanti sia sul piano lavorativo, che sociale, che affettivo e familiare.

Episodi e sintomi del Disturbo Bipolare

In occasione della giornata mondiale del Disturbo Bipolare, è bene ricordare in che modi il bipolarismo può manifestarsi. Il bipolarismo è caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, dati dall’alternarsi di Episodi Maniacali/Ipomaniacali ed Episodi Depressivi. Ogni tipologia di episodio è contraddistinta da un quadro sintomatologico utile da conoscere ai fini della diagnosi.

Episodio maniacale

L’Episodio Maniacale è caratterizzato da un umore persistentemente elevato, decisamente superiore al normale. Vi è un forte senso di grandiosità nel soggetto, oltre a eccessiva loquacità, agitazione psicomotoria e comportamenti iperattivi, impulsivi e spesso pericolosi. In questa fase il paziente bipolare è sommerso da pensieri molto rapidi, che sembrano rincorrersi uno dopo l’altro nella mente, e tende a dormire e mangiare poco. L’ episodio maniacale del disturbo bipolare deve durare almeno una settimana.

Episodio ipomaniacale

L’episodio ipomanicale è caratterizzato da umore espanso o irritabile per almeno 4 giorni. L’ ipomania è dunque un episodio che dura per pochi giorni. Le persone si sentono molto bene, hanno in generale un buon funzionamento, anche se possono manifestare irritabilità. Sono spesso i famigliari o gli amici a notare dei cambiamenti d’umore o di attività, mentre la persona con ipomania potrebbe non accorgersene.

Episodio depressivo

Tendenzialmente le fasi depressive del bipolarismo non si differenziano molto dagli episodi depressivi della depressione maggiore unipolare. L’Episodio Depressivo nel Disturbo Bipolare è caratterizzato da umore depresso e/o perdita di interesse verso attività fino ad allora piacevoli, con uno stato emotivo prolungato di sconforto, sensazione di vuoto, pessimismo, scoraggiamento, disperazione, autosvalutazione e senso di colpa. La persona è soggetta a mancanza di energia e faticabilità, visibile anche attraverso il rallentamento psicomotorio.

La diagnosi di disturbo bipolare

Parlare di diagnosi è un altro punto fondamentale del World Bipolar Day. Il disturbo bipolare è infatti molto spesso sottovalutato e mal diagnosticato: due pazienti su tre non sono sottoposti a una terapia adeguata e possono trascorrere fino a dieci anni prima di una diagnosi corretta (Quotidiano Sanità, 2010). La diagnosi di bipolarismo si distingue in: diagnosi di Disturbo Bipolare di I tipoDisturbo Bipolare di II tipoDisturbo Ciclotimico e Disturbo Bipolare Non Altrimenti Specificato (in cui rientrano i soggetti con sintomi insufficienti per porre la diagnosi di uno dei disturbi sopra citati)

Disturbo bipolare di Tipo I

La caratteristica principale è la presenza di almeno un episodio di Mania o Misto e di un episodio Depressivo. La durata dei singoli episodi si mantiene costante mentre diminuisce quella tra uno e l’altro nel tempo. Tra le caratteristiche associate troviamo la non percezione di essere malati e la resistenza al trattamento, la modifica del proprio aspetto personale per essere più provocanti, la messa in atto di comportamenti impulsivi e antisociali. Alcuni soggetti possono diventare ostili e pericolosi, con conseguenze catastrofiche che spesso derivano da scarsa capacità di giudizio.

Disturbo Bipolare di Tipo II

È caratterizzato da uno o più Episodi Depressivi Maggiori con la durata di almeno due settimane, e almeno uno Ipomanicale con la durata di almeno 4 giorni. Vi è una mancata interferenza con la vita quotidiana a livello di funzionamento sociale o lavorativo. Sono assenti l’ospedalizzazione e i sintomi psicotici.

Disturbo Ciclotimico

Per porre diagnosi di Disturbo Ciclotimico vi deve essere la presenza per almeno 2 anni (1 nei bambini e negli adolescenti) di numerosi periodi con sintomi ipomaniacali che non soddisfano i criteri per un episodio ipomaniacale e numerosi periodi con sintomi depressivi che non soddisfano i criteri per un episodio depressivo maggiore. Durante tale periodo, gli episodi ipomaniacale e depressivo sono stati presenti per almeno la metà del tempo e l’individuo non è stato senza sintomi per più di 2 mesi alla volta.

World Bipolar Day: incidenza del disturbo bipolare ed esordio della malattia

La giornata mondiale del Disturbo Bipolare ci ricorda dunque come sia importante puntare l’attenzione su un disturbo ad oggi diffuso, ma di cui non si parla abbastanza. Come stimato dal National Institute of Mental Health circa il 2,6 % della popolazione americana al di sopra dei 18 anni soffre di disturbo bipolare. Mentre in Italia, si stima che un milione di persone ne soffra (Quotidiano Sanità, 2010). I primi sintomi si manifestano generalmente nell’adolescenza per poi acutizzarsi in età adulta.

L’esordio può avere inizio con un grave episodio maniacale che può comportare il ricovero oppure essere più lieve e alternare fasi di sintomi ipomaniacali a lievi sintomi depressivi. Il Disturbo Bipolare ha un decorso cronico. In tutti i casi può comportare gravi danni, poiché chi ne soffre con il suo comportamento spesso va a compromettere la propria vita familiare e sociale.

Cura del Disturbo Bipolare

Il World Bipolar Day ricorda anche alla popolazione come chi soffre di bipolarismo può iniziare a stare meglio, attraverso un percorso farmacologico e psicoterapico. Nonostante il Disturbo Bipolare sia fra le malattie psichiatriche con una base organica ben identificata, e quindi trattabile farmacologicamente, è importante ricordare che un percorso di cura non sostituisce l’altro. È stato infatti riscontrato come, specie nella fase acuta della malattia, sia importante associare ad una cura farmocologica strettamente controllata anche un percorso psicoterapico.

Una terapia valida ed efficace del Disturbo Bipolare si deve fondare sulla conoscenza competente della malattia, intesa come la comprensione della fenomenologia, della storia naturale, ovvero la natura ricorrente, il peggioramento e l’andamento stagionale, la conoscenza degli aspetti biologici, compresa la reazione ai farmaci nelle diverse fasi di mania e depressione, le teorie biologiche riguardanti l’eziologia e i meccanismi di azione dei farmaci utilizzati.

Terapia cognitivo comportamentale per il disturbo bipolare

Numerosi studi hanno dimostrato, negli ultimi anni, l’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale combinata con la farmacoterapia nella cura del bipolarismo (Beck e Newman 2005). La Terapia Cognitivo Comportamentale è molto efficace nell’incrementare la compliance. In particolare il lavoro sulla compliance si basa su tre interventi cardine:

  • Sviluppare e rafforzare costantemente l’alleanza terapeutica durante tutto il processo psicoterapeutico.
  • Sviluppare strategie di problem-solving che aiutino il paziente a risolvere problemi di natura pratica legati all’utilizzo dei farmaci.
  • Sviluppare strategie che aiutino il paziente a fronteggiare le convinzioni disfunzionali sottostanti allo stress emotivo e ai comportamenti disfunzionali.

 

La musica in tempo di guerra per tenere viva la speranza

Abbiamo visto una musicista suonare il suo violino in un rifugio sotterraneo, forse un gesto nato per caso, forse la musica era l’unico modo che questa persona conosceva per tentare di tranquillizzare le persone terrorizzate che condividevano con lei quel rifugio.

 

L’abbiamo visto nei giorni più bui della pandemia, i primi mesi in cui il mondo si era fermato e la televisione trasmetteva immagini terribili che abbiamo ancora tutti davanti agli occhi. Il rifugio alla disperazione era diventato la musica. Musica nelle strade, dai balconi, dalle finestre. Persone che ad ore fisse si ritrovavano simbolicamente unite a cantare la speranza.

Ora che il nemico Covid non è ancora sconfitto, un nuovo nemico non meno spaventoso ci minaccia e ci spaventa: la guerra.

E ancora una volta nelle strade si sente suonare.

Musica e trascendenza

Trascendente è ciò che va “al di là”, al di là del mondo in cui viviamo e dell’esperienza che abbiamo sperimentato. Al di fuori della realtà. Un termine che ben si adatta all’arte in generale e quindi anche alla musica, capace di offrire sollievo quando a quello che ci circonda non siamo più capaci di trovare una spiegazione logica.

Nella specifica situazione della guerra, cui stiamo purtroppo assistendo in questi giorni, la musica soddisfa tre esigenze principali:

  • aiuta a superare la paura non facendo sentire soli
  • rafforza il senso di identità, del bene comune e della responsabilità sociale
  • soddisfa il bisogno di misticismo e la ricerca dell’ordine

Ripensando alle immagini che ci sono arrivate negli ultimi giorni dall’Ucraina, cerchiamo di capire da cosa nascono questi bisogni e come nella musica si cerchi una risposta capace di offrire sollievo.

Musica per non sentirsi soli

Sappiamo che l’uomo è per sua natura un animale sociale, interagire con i suoi simili fa parte del suo istinto. Questa necessità si avverte in modo particolare nelle situazioni estreme. Quando siamo immensamente felici sentiamo il bisogno di condividere la nostra gioia con chi ci sta intorno. Lo stesso succede quando siamo tristi, angosciati, impauriti. Abbiamo visto la bambina nella penombra di un rifugio sotterraneo cantare la canzone di un cartone animato, quasi ad invocare un diritto alla serenità che dovrebbe essere garantito, se non a tutti, almeno a chi ha la sua età.

Essere soli di fronte ad un pericolo ne aumenta la portata e accresce il nostro senso di impotenza. La fatica e la sofferenza fanno meno paura e diventano meno gravose se condivise. Creare uno “spirito di gruppo” rappresenta un mezzo assai più conveniente per non soccombere alle avversità e alle minacce, e in questo la musica ha sicuramente svolto da sempre un ruolo fondamentale.

In questi giorni abbiamo visto una musicista suonare il suo violino in un rifugio sotterraneo, un gesto nato per caso, forse l’unico modo che questa persona conosceva per tentare di tranquillizzare le persone terrorizzate che condividevano con lei quel rifugio (riusciamo ad immaginare quello che si può provare in un bunker, mentre la nostra casa e tutto quello che possediamo sono sopra le nostre teste, esposte ai bombardamenti?). I video di quel concerto improvvisato sono passati di mano in mano, di rifugio in rifugio. “Siamo diventati una famiglia”, ha spiegato la violinista quando quelle immagini sono diventate virali e le è stato chiesto il significato di quel gesto. E una famiglia è il nucleo da cui si attinge forza nei momenti più difficili.

Musica e identità

La banda dell’esercito di Kiev suona l’inno nazionale nella piazza della capitale, dove le strade sono diventate trincee. L’inno ha lo stesso compito della bandiera, svolge una funzione simbolica capace di rafforzare valori e senso civile. Nelle sue note e nelle sue parole si trova il senso di condivisione e di appartenenza di un popolo. Noi siamo generalmente abituati ad associare l’inno a situazioni fortunatamente molto meno drammatiche, per lo più ad eventi sportivi, ma il suo significato non cambia di molto. È il simbolo di un orgoglio nazionale, un modo di dare forza e dignità alla propria immagine verso l’esterno, sia esso un rivale, un nemico o un aggressore.

In questi giorni vediamo persone che cantano sulla spiaggia di Odessa mente riempiono sacchi con la sabbia per farne barricate. Per superare la paura e prepararsi alla difesa del bene comune.

La musica ci richiama all’unità

Dà consolazione, conferma il senso di identità, infonde coraggio attraverso la condivisione e la coesione sociale, che diventano la base perché possano nascere azioni collettive finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comune e perché si arrivi a poter pianificare azioni congiunte in vista di un traguardo futuro.

Inoltre la musica, fin dal passato più remoto, ha anche una funzione, se vogliamo meno concreta, ma altrettanto utile: consente all’uomo di staccarsi momentaneamente dalla realtà abbassando il suo livello di guardia, ma lo fa in un modo che è facilmente e velocemente reversibile. Più l’uomo diventa consapevole della sua condizione più cresce in lui anche uno stato d’ansia e uno stato d’ansia che si protrae a lungo diventa difficile da gestire e può inibire le risposte giuste da mettere in atto nel momento in cui si presenta un pericolo reale. Un allontanamento transitorio e reversibile dalla realtà consente di abbassare l’angoscia e lo stato di allarme e questo permette di agevolare una risposta più adeguata di fronte ad un pericolo che dovesse presentarsi all’improvviso.

Musica e misticismo

I brividi che ci sono arrivati del coro dell’Opera di Odessa che si raduna in piazza e intona Va pensiero di Giuseppe Verdi, con quella frase che suona straziante: “Oh mia patria sì bella e perduta!”, introducono un altro concetto.

Oltre al senso della patria c’è la ricerca di una spiegazione che venga dall’alto. Ci si rivolge a Dio, ad un potere superiore che sappia dare un senso al dolore, capace di ispirare una musica che possa infondere forza contro le sofferenze:

o t’ispiri il Signore un concento
che ne infonda al patire virtù!

L’uomo cerca rifugio nella fede perché avverte che da solo non ha il controllo sugli eventi che lo circondano. Perché, da sempre, non ha il controllo sulla vita e sulla morte. Il misticismo è un atteggiamento spirituale che tende a superare la logica dell’esperienza per tendere all’assoluto, ad un potere soprannaturale in grado di riportare l’ordine delle cose. In grado di riportare la serenità dove la logica e l’esperienza hanno fallito.

Carl Gustav Jung, psicanalista ma anche scienziato, ha affermato: “Tutto ciò che ho appreso nella vita, mi ha portato passo dopo passo alla convinzione incrollabile dell’esistenza di Dio. Io credo soltanto in ciò che so per esperienza. Questo esclude la fede. Dunque io non credo all’esistenza di Dio per fede. Io so che Dio esiste”.

Una riflessione

Davanti alle immagini che scorrono sui nostri televisori resta un senso di impotenza misto alla colpa. Colpa per non essere abbastanza forti, coraggiosi o intelligenti da riuscire ad evitare tutto questo. Certo possiamo pensare che non siamo stati noi a volerlo, ma siamo consapevoli che la pace è una conquista che richiede lo sforzo e il contributo di tutti. E una guerra è una sconfitta. Per tutti.

Una sconfitta di cui, forse, sentiamo la necessità di chiedere perdono.

e poi… prendere quel treno
che porta a casa tua
e chiederti perdono
di questa vacca guerra
che non è colpa mia
non è colpa mia…non è colpa mia…. (Nikolajevka, Massimo Priviero).

 

LA VIOLINISTA VERA LYTOVCHENKO SI ESIBISCE IN UN BUNKER DI KHARKIV – Guarda il video:

Il piacere femminile: scoprire, sperimentare e vivere la sessualità (2017) di Ilaria Consolo – Recensione del libro

Il piacere femminile lancia un forte messaggio: per trovare il piacere bisogna fare i conti con la paura dell’amore nell’esporsi all’altro e non c’è vero piacere se non quello che nasce dall’unione tra mente e corpo, un piacere da esperire e condividere tanto con l’altro quanto con se stessa e su se stessa.

 

Un interessante e ricco testo utile tanto agli addetti ai lavori quanto all’ampio pubblico, per la chiarezza nel linguaggio utilizzato nella sua stesura. Un viaggio nella sessualità al femminile alla conquista e riscoperta di libertà che per miti, pregiudizi, stereotipi e tabù, a tutt’oggi sembra non del tutto vissuta e dunque un viaggio alla riscoperta del “piacere al femminile”.

Il piacere è un sentimento o un’esperienza che corrisponde alla percezione di una condizione positiva, fisica, biologica e psicologica – spiega l’autrice richiamando, nella premessa del suo libro, la mitologia greca dove Piacere è figlia di Amore e Psiche.

Il mito narra infatti, di Psiche, comune mortale, che sposa Amore (Cupido), senza sapere chi fosse il marito che le si presenta solo nell’oscurità della notte, ma una sera ne scopre involontariamente il suo volto. A quel punto Cupido scompare e, per ricongiungersi al suo amato, Psiche deve superare diverse prove difficili ed alquanto pericolose, ma questo le permette, non soltanto di riunirsi al suo Amore, ma di conquistare l’immortalità.

Nella premessa, dunque, l’autrice lancia un forte messaggio attraverso il riferimento al mito ossia per trovare il piacere bisogna fare i conti con la paura dell’amore nell’esporsi all’altro e non c’è vero piacere se non quello che nasce dall’unione tra mente e corpo, un piacere da esperire e condividere tanto con l’altro quanto con se stessa e su se stessa.

Il testo affronterà la questione femminile da un punto di vista storico-culturale, la religione, gli stereotipi che a tutt’oggi hanno designato sempre l’uomo come forte, dominante, ambizioso, sessualmente attivo, libero di tradire e più tollerato, e la donna come colpevole, sottomessa, tenuta a dover essere pudica ed oggetto del piacere maschile, oppure emancipata, forte e realizzata “proprio come un uomo”, tra mode e femminismo, la figura delle donne nelle fiabe e la donna che fino ad oggi forse non ha raggiunto appieno la sua identità, unicità e diversità, venendo talvolta mascolinizzata.

Dopo un viaggio nella storia esposto tra il primo e secondo capitolo, dal capitolo terzo viene argomentata la psicobiologia del femminile con attenzione ad esempio alle caratteristiche anatomiche e vita sessuale, per proseguire nei capitoli successivi alla vita sessuale nelle sue fasi.

Verrà approfondito il tema del desiderio, l’immaginario erotico e le fantasie sessuali, l’eccitazione, l’orgasmo, l’autoerotismo, la pornografia e i sextoy, l’omosessualità femminile, la sessualità ed il piacere all’interno di forme di disagio psichico, gravidanza e sessualità nella terza età. Non mancheranno i riferimenti a disturbi e criticità riscontrabili nelle varie fasi della vita sessuale e indicazioni e suggerimenti utili al riguardo.

Tanti dunque gli argomenti trattati all’interno del testo, che, grazie al linguaggio chiaro e scorrevole, rende il libro una piacevole lettura, utile, formativa ed informativa con l’intento a mio avviso di mandare un messaggio forte, un invito volto alla donna a sentirsi e viversi al pari dell’uomo mantenendo però la sua unicità!

Mi piacerebbe concludere con un aforisma di Erich Fromm citato anche nel testo:

Se un individuo è capace di amare
positivamente, ama anche se stesso:
se può amare solo gli altri,
non può amare affatto.

Regolazione emotiva e alleanza terapeutica

Tra le caratteristiche maggiormente considerate quando si parla di alleanza terapeutica ci sono lo stile di attaccamento del terapeuta e la sua regolazione emotiva. Sono entrambi ugualmente implicati?

 

Efficacia della terapia e alleanza terapeutica

Fino agli anni ‘80, la ricerca psicologica si è concentrata principalmente sullo studio dei risultati ottenuti grazie alle terapie: in questo decennio sono state svolte numerose ricerche per indagare i processi terapeutici e gli strumenti utilizzati in vista di un cambiamento utile a migliorare il benessere delle persone che chiedono aiuto (Krause & Altimir, 2016; come citato in Ruiz-Aranda et al., 2021). Dato che il contributo del terapeuta è la chiave per comprendere l’esito di un potenziale percorso psicologico, Gimeno (2021) ha analizzato i fattori che determinano la competenza del terapeuta, identificando l’alleanza di lavoro – definita come la combinazione di accordo sugli obiettivi e come raggiungerli, nonché il legame personale tra paziente e terapeuta (Bordin, 1979; Ruiz-Aranda et al., 2021, p. 2) – come un grande contributo al successo di tutti i modelli teorici (Norcross e Lambert, 2018).

Alleanza terapeutica e stile di attaccamento

Fluckiger e colleghi (2018) hanno svolto una metanalisi indicante come l’alleanza terapeutica spieghi l’8% della varianza negli esiti della psicoterapia. Molte ricerche in letteratura suggeriscono come i terapeuti formino forti alleanze di lavoro con i loro clienti in base allo stile di attaccamento (Sauer et al., 2003; Black et al., 2010; Levy & Johnson, 2019, come citati in Ruiz-Aranda et al., 2021); in tal senso la relazione terapeutica viene vista come una relazione di attaccamento: il terapeuta funge da posto sicuro dove i clienti possono riflettere e rielaborare le esperienze e i ricordi dolorosi (Ruiz-Aranda et al., 2021). Dato che alcune ricerche suggeriscono come lo stile di attaccamento e le capacità di lavoro tra terapeuta e paziente siano correlate (Hamarta et al., 2009), si ipotizza che i terapeuti con un attaccamento sicuro abbiano maggiori probabilità di formare un tipo di alleanza terapeutica positiva (Romano et al., 2008, come citato in Ruiz-Aranda et al., 2021), mentre i terapisti con uno stile insicuro tendano ad avere più difficoltà a gestire l’ansia nelle loro interazioni con gli altri (Ruiz-Aranda et al., 2021). Secondo questa prospettiva, la capacità di accettare e gestire le emozioni aiuta la comunicazione interpersonale e la risoluzione di potenziali conflitti, tutti fattori che contribuiscono allo sviluppo di una solida alleanza terapeutica (Cann et al., 2008).

Alleanza terapeutica e regolazione emotiva

Un’altra caratteristica funzionale per stabilire una buona alleanza da parte del terapeuta è la regolazione emotiva: nello specifico vari studi indicano come una buona osservazione delle proprie competenze e delle proprie abilità in termini di regolazione emotiva sia utile per stabilire un’alleanza positiva (Corbella & Botella, 2003).

Ruiz-Aranda e colleghi (2021) hanno svolto una ricerca per comprendere se la regolazione emotiva moderi una potenziale correlazione tra l’attaccamento del terapeuta e l’alleanza terapeutica. Il campione è composto da 63 psicoterapeuti (6 uomini e 57 donne) dai 27 ai 69 anni, con almeno 5 anni di pratica nei seguenti approcci: cognitivo comportamentale (49.2% del campione totale), umanistici (14.3%), psicodinamici (1.59%), sistemici (11.1%) e altri (23.8%). Sono stati completati dei questionari sociodemografici e tre scale cliniche: l’Attachment Evaluation Questionnaire in Adults (CaMir; Balluerka et al., 2011), la Difficulties in Emotion Regulation Scale (DERS; Gratz & Roemer, 2004; Hervas & Jodar, 2008) e la Spanish Adaptation of the Working Alliance Inventory (Andrade-Gonzales & Fernandez-Liria, 2016).

I dati, in sintesi indicano che nonostante vi sia una correlazione positiva tra la difficoltà della regolazione emotiva e l’alleanza terapeutica, gli stili di attaccamento non influenzerebbero in modo significativo la capacità del terapeuta di stabilire un adeguato legame con il paziente, bensì gli stili di attaccamento dei terapeuti sono interagenti con le loro capacità di regolazione emotiva (Ruiz-Aranda et al., 2021). Tale studio apporta un contributo utile per avere una maggiore comprensione delle caratteristiche che i terapeuti possono implementare per ottimizzare i risultati della terapia (Norcross e Lambert, 2018, Gimeno, 2021, come citati in Ruiz-Aranda et al., 2021).

 

Guerra: come spiegare ai bambini e ai ragazzi le notizie che temiamo non possano comprendere

Spiegare la guerra a bambini e ragazzi non è sempre un compito facile per noi adulti. Eppure quando i bambini fanno domande, significa che hanno bisogno di risposte.

 

Quando i bambini fanno domande, significa che hanno bisogno di risposte. Talvolta, invece, gli adulti, temendo di gestire inadeguatamente la conversazione, o di alimentare la preoccupazione, evitano argomenti delicati importanti. Eppure, l’unico modo per preservare lo sviluppo dei bambini è proprio quello di raccontargli sempre la verità, tenendo conto della fase di sviluppo in cui si trovano.

L’impatto psicosociale del COVID

L’età evolutiva, intesa come infanzia e adolescenza, è il momento più influente per lo sviluppo della mente umana. In questi ultimi anni, però, il benessere psicosociale dei bambini e degli adolescenti risulta essere il più compromesso (Ghosh et al., 2020). La pandemia e la quarantena hanno comportato un distacco improvviso dalla routine e un aumento di sintomi ansiosi, preoccupazioni e malessere mai sperimentati precedentemente. Dalla letteratura scientifica, infatti, emerge che i bambini e gli adolescenti abbiano risentito molto di questa situazione e delle preoccupazioni dei propri genitori. Alcuni bambini mostrano un aumento di irritabilità e difficoltà, soprattutto prima di addormentarsi, che segnalano il bisogno di essere rassicurati. In alcuni casi, inoltre, si osservano comportamenti regressivi, come enuresi, encopresi, richieste di aiuto per fare qualcosa che avevano già imparato a fare da soli. Infine, fra gli effetti psicosociali della pandemia, a breve e a lungo termine, in età evolutiva emergono: sbalzi del tono dell’umore, irritabilità e iperattività, dovute alla chiusura delle attività scolastiche e sportive, disturbi del sonno (difficoltà di addormentamento, risvegli notturni o precoci) e difficoltà di concentrazione (passare da un’attività all’altra o lasciare un’attività incompleta) (Puliatti, 2020).

L’impatto della notizia della guerra in Ucraina

Le informazioni che ci arrivano negli ultimi giorni relative alla guerra in Ucraina, quindi, rischiano di insinuarsi su un benessere psicologico precario, fortemente minato dalla situazione pandemica precedente. L’essere esposti costantemente a notizie, filmati o immagini trasmesse dai vari media, contribuisce a suscitare emozioni quali paura, tristezza, rabbia che i bambini e i ragazzi non sono in grado di gestire da soli. Inoltre, alcune ricerche mostrano che anche la sola esposizione a notizie violente trasmesse dai media possa portarli ad esperire una paura simile a quella che proverebbero se fossero esposti ad un pericolo di vita reale (Buijzen et al., 2007).

In queste condizioni, i bambini potrebbero rivolgere domande sulle tematiche che spesso spaventano gli adulti: la guerra e la morte. Ragion per cui, è bene rispondere alle domande che pongono, in quanto, sono pronti e bisognosi di ascoltare le risposte. Sebbene per l’adulto possa essere più facile evitare l’argomento, questo ignorare potrebbe portare i bambini a fantasticare sulle risposte, immaginandosi degli scenari ancora più catastrofici di quello che in realtà già sono e, nell’immaginare questo, si sentiranno ancora più soli, impauriti e impotenti. Avere una conversazione accogliente, aperta e onesta, invece, li aiuterà a gestire questi vissuti e a comprendere cosa sta accadendo.

Come spiegare la guerra?

Ecco alcuni consigli pratici che i caregiver possono consultare per affrontare con bambini e ragazzi argomenti delicati, come la guerra e non solo:

  • Accogli le domande e le emozioni: accogli le domande che il bambino ti pone, ascolta quello che sa sulla situazione e focalizza l’attenzione sulle emozioni che questa gli suscita. Dove ha preso quelle informazioni? Cosa ha visto e sentito? Come si sente?
  • Valida le emozioni e le preoccupazioni: mostrati attento e comprensivo rispetto alle sue emozioni e alle sue preoccupazioni. Dai valore a quello che ti sta dicendo e non sminuirlo. Ha bisogno di sentirsi confortato per quello che sta provando e non giudicato. Ad esempio, non dire “Non c’è niente da preoccuparsi”, ma piuttosto “Sei spaventato? Hai ragione”
  • Visiona insieme le notizie ed evita la sovraesposizione: potresti scegliere un momento al giorno da dedicare insieme all’informazione, in modo da spiegare quanto emerge e rassicurarlo. Attenzione però a non esporlo ad immagini non adatte alla sua età e a non sovraesporlo continuamente alle cattive notizie, in quanto queste fanno rimanere perennemente attivo il sistema di allerta, alimentando l’ansia. Ad esempio, se desideri che il bambino dorma serenamente, evita notiziari prima che si addormenti.
  • Rassicuralo sul fatto che si sta lavorando per risolvere la situazione: sottolinea che non è un suo compito risolvere questo problema, gli adulti se ne stanno occupando. Non deve sentirsi in colpa di continuare a giocare, vedere gli amici e fare le cose che lo rendono felice, anzi è molto importante che lo faccia.
  • Gestisci le emozioni: cerca in primis di gestire le tue emozioni. Il bambino ti imita e risente del modo in cui reagisci allo stress. È normale che tu ti senta preoccupato, puoi condividerlo, ma attento a non caricarlo troppo delle tue preoccupazioni. Per sentirsi sicuro, ha bisogno di un caregiver che sappia trasmettergli affetto e sicurezza.
  • Adatta la conversazione all’età: è fondamentale selezionare le informazioni e modellare la conversazione in base alla fase di sviluppo in cui il bambino o il ragazzo si trova. Il discorso con un bambino in età prescolare sarà sicuramente molto diverso rispetto a quello con un ragazzo in età adolescenziale. Ad esempio, con un bimbo in età prescolare o della scuola primaria la spiegazione dovrebbe essere semplice e chiara. In questa fascia d’età gli strumenti per rendere la spiegazione più concreta sono quelli del gioco, del disegno e delle storie. Invece, in età preadolescenziale e adolescenziale i ragazzi, avendo molto più facilmente accesso alle informazioni, potrebbero già avere un’opinione in merito. In questo caso, il caregiver potrebbe mostrarsi interessato a cosa il ragazzo pensa, a come si sente e a dove ottiene le informazioni. Vista la fase evolutiva in cui si trova, il ragazzo potrebbe avere opinioni sulla guerra molto diverse dalle tue, cerca di rispettare la sua opinione. Hai un ruolo importante nell’aiutarlo a riflettere criticamente sulle fonti che consulta e sulle informazioni che seleziona (Maslovaric, 2020; Save the Children, 2022).

 

Neurodivergenza: tra autismo, ADHD e genere

Perché è presente una diversa incidenza nella frequenza diagnostica di neurodivergenze come Autismo e ADHD così elevata da poter essere definita come un vero e proprio gender gap?

 

Il concetto di neurodiversità (Den Houting, 2019) si sta diffondendo sempre di più non solo all’interno della letteratura scientifica, ma anche nell’attivismo sociale: con neurodiversità si intende la naturale variazione neurologica del funzionamento cerebrale e identifica due grandi sottotipi di funzionamento. Quello più comunemente diffuso è detto neurotipico, mentre quello più raro viene chiamato neurodivergente: in quest’ultima categoria rientrano, ad esempio, il funzionamento autistico e del disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD).

La diagnosi di autismo e di ADHD

Autismo e ADHD per lungo tempo sono state considerate diagnosi prettamente riguardanti il genere maschile: ad esempio, il rapporto maschi/femmine della diagnosi di disturbo dello spettro autistico (ASD) viene identificata come 4:1, ma da tempo ormai si sta affermando l’ipotesi che questa discrepanza dipenda non tanto da una minore incidenza femminile dell’ASD, ma da un miglior camuffamento e masking del genere femminile (Tubío-Fungueiriño, et al., 2021); così come sembra dimostrare anche la simile incidenza diagnostica dell’ADHD tra soggetti adulti di generi differenti, mentre la diagnosi infantile sembra restare ancorata a questa discrepanza (Nussbaum, 2012).

Perché, quindi, è presente questa diversa incidenza nella frequenza diagnostica di neurodivergenze come Autismo e ADHD, così elevata da poter essere definita come un vero e proprio gender gap?

Una delle ragioni riguarda la manifestazione dei sintomi, che si lega di conseguenza alla seconda: la taratura dei criteri diagnostici eseguita con un campione che sembra non considerare a sufficienza le differenze di genere di queste manifestazioni (Haney, 2016). Le persone socializzate secondo il genere femminile sembrano avere manifestazioni più internalizzate rispetto alla loro controparte maschile tanto per l’ADHD quanto per l’ASD.

Come spiegare il gender gap nell’ADHD e nell’autismo?

Per quanto riguarda l’ADHD, le donne tendono ad avere difficoltà più con i sintomi di disattenzione, rispetto a quelli legati all’iperattività e all’impulsività (Lai, et al., 2022) che, quando presenti, comunque tendono a manifestarsi in modalità meno dirompente (ad esempio con comportamenti iper-verbali piuttosto che fisici). In questo modo le donne tendono a ricevere in media una diagnosi in tempi molto più lunghi rispetto agli uomini: se per questi ultimi tende infatti ad arrivare durante l’infanzia, per le donne è molto più frequente in età adulta, spesso con diagnosi errate precedenti (Nussbaum, 2012).

E una situazione molto simile la ritroviamo anche nel caso della seconda neurodivergenza presa in esame oggi, l’ASD: anche se nel DSM-5 è specificato che gli individui di genere femminile potrebbero mostrare manifestazioni diverse, soprattutto per quanto riguarda le difficoltà interpersonali e comunicative, resta ancora predominante il divario nella frequenza della diagnosi di autismo. Infatti, soprattutto nel momento in cui non è presente anche una compromissione cognitiva significativa, le persone di genere femminile tendono a mostrare, all’apparenza, una capacità interpersonale e comunicativa che potremmo definire ‘neurotipica’, almeno all’apparenza più superficiale: questo fenomeno trova una spiegazione nella migliore abilità che le donne tendono a dimostrare nel camuffare, attraverso il masking, queste stesse compromissioni (Tubío-Fungueiriño, et al., 2021). Inoltre, anche per quanto riguarda l’ASD, le donne tendono a mostrare meno aggressività e più manifestazioni e co-occorrenze internalizzate come ansia, disturbi dell’umore e disturbi dell’alimentazione (Haney, 2016).

Queste manifestazioni più internalizzate renderebbero dunque più difficile riconoscere e diagnosticare determinate neurodivergenze nella popolazione femminile, soprattutto perché nel corso del tempo si è sviluppato quello che potremmo definire un vero e proprio bias verso quelle che dovrebbero essere le caratteristiche tipiche dell’ASD e dell’ADHD, basate su un campione prevalentemente maschile con manifestazioni che tendono ad essere più esternalizzate (come aggressività e impulsività). Sia i manuali sia gli strumenti diagnostici sono infatti tarati per rilevare questo secondo tipo di manifestazione in modo più accurato e preciso (Haney, 2016).

Conclusioni

Per riuscire a superare il gender gap nei processi di screening e diagnosi delle neurodivergenze diventa dunque fondamentale riuscire a comprendere da un lato i bias contestuali che influenzano il processo diagnostico e dall’altro come e perché si sviluppano diverse manifestazioni tra i generi, quanto influisce la socializzazione nelle strategie di compensazione e di masking, se e quali sono le influenze ormonali che sottendono queste differenze (Tubío-Fungueiriño, et al., 2021), prendendo in considerazione anche la diversa incidenza delle co-occorrenze più comuni, che si identificano in disturbi d’ansia e dell’umore (Lai, et al., 2022).

Il ruolo di un ambiente infantile invalidante nell’insorgenza di disturbi alimentari, insoddisfazione corporea e difficoltà nelle relazioni strette

Sebbene numerosi studi abbiano riscontrato delle associazioni tra ambienti familiari invalidanti, sintomi da disturbi alimentari, insoddisfazione corporea e difficoltà nelle relazioni strette, i processi che legano queste variabili non erano ancora stati approfonditi.

 

Introduzione

L’ambiente familiare durante l’infanzia è un fattore che ci permette di capire le relazioni tra genitori e figli, spesso concettualizzate tramite due costrutti: la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), secondo la quale i bambini per ottenere cura e sicurezza rispondono ai comportamenti del caregiver, e la teoria del legame parentale, che sottolinea l’importanza della qualità del legame tra gli adolescenti e i loro genitori nei primi 16 anni (Parker et al., 1979). Talvolta può accadere che l’ambiente infantile possa essere invalidato da parte dei genitori o da chi se ne prende cura; questo accade sia tramite un’invalidazione delle esperienze personali e di interazione con l’ambiente di ciascun bambino, sia a causa della soppressione dell’espressione delle emozioni, in particolare quelle negative che, se comunicate, vengono non considerate o addirittura punite. In questo modo i bambini, siccome non è permesso loro mostrare emozioni o stati d’animo, imparano ad auto-invalidarli.

Diversi studi hanno trovato delle associazioni tra relazioni familiari invalidanti e la psicopatologia alimentare; inoltre alcuni autori hanno mostrato un’associazione tra l’invalidazione da parte del caregiver e l’insicurezza e l’insoddisfazione della propria immagine corporea (Haslam et al., 2012). A supporto di ciò uno studio ha scoperto che un legame sano tra genitori e figli era associato ad una maggiore soddisfazione dell’immagine corporea (Boutelle et al., 2009). Un ulteriore studio di Cheng & Mallinckrodt (2009) ha notato che i bambini cresciuti in contesti invalidanti necessitavano, rispetto agli altri, di maggiori rassicurazioni e approvazioni esterne per avere una visione positiva dell’immagine corporea. Nello specifico, gli ambienti familiari disfunzionali costituiscono un fattore di rischio per la disregolazione emotiva che a sua volta contribuisce all’insorgenza di comportamenti non adattivi come l’eccessiva attività fisica, le abbuffate o le eccessive restrizioni alimentari (Linehan, 1993).

È stato ampiamente dimostrato, inoltre, che un ambiente infantile invalidante può influenzare anche le relazioni adulte, in particolare la difficoltà a instaurare relazioni strette con amici o partner. Tale difficoltà spesso è presente in maniera marcata anche in coloro che soffrono di disturbi alimentari. In alcuni studi è emerso infatti un attaccamento insicuro nelle relazioni intime adulte in un campione che presentava diversi sintomi da disturbo alimentare (Tasca et al., 2013; Evans &Wertheim, 2005). Può accadere, infatti, che l’insorgenza dei disturbi alimentari avvenga in corrispondenza della fine di una relazione intima, problemi coniugali o divorzi: a volte lo stress coniugale è risultato il principale fattore di peggioramento dei sintomi mentre sentimenti di vicinanza e sintonia erano indice di miglioramento, come emerso in uno studio di Kiriike e colleghi del 1996.

Disturbi alimentari e ambienti infantili invalidanti: lo studio

Sebbene numerosi studi abbiano riscontrato delle associazioni tra ambienti familiari invalidanti, sintomi da disturbo alimentare, insoddisfazione corporea e difficoltà nelle relazioni strette, i processi che legano queste variabili non sono ancora stati approfonditi. Con il fine di comprendere l’associazione tra queste variabili e di identificare le possibili origini precoci dei disturbi e delle abitudini alimentari, Gonçalves e colleghi nel 2020 hanno condotto uno studio utilizzando un campione di studenti universitari.

Gli obiettivi dei ricercatori erano dapprima quello di esaminare se i ragazzi che hanno descritto le loro famiglie come invalidanti presentassero maggiore insoddisfazione dell’immagine corporea, maggiore difficoltà nelle relazioni intime e un’elevata sintomatologia dei disturbi alimentari; successivamente quello di individuare un modello che mettesse in relazione le variabili chiarendone l’associazione, tenendo in considerazione l’effetto dell’indice di massa corporea (BMI) che spesso condiziona soddisfazione corporea e restrizioni alimentari; infine quello di esplorare gli effetti mediatori tra le variabili. 362 studenti universitari di età compresa tra i 17 e i 25 anni sono stati inclusi ed è stato chiesto loro di completare diversi questionari self report. I questionari somministrati erano la Scala degli Ambienti Invalidanti per l’Infanzia (ICES; Haslaam et al., 2008), che valuta comportamenti materni e paterni invalidanti e analizza tre tipologie di ambienti invalidanti e uno validante proposti da Linehan (1993); il Questionario sulla forma del corpo (BSQ; Cooper et al., 1997) che valuta il peso e le preoccupazioni sull’immagine corporea nelle quattro settimane precedenti; il questionario per i Disturbi alimentari (ED-15; Tatham et al., 2015), il quale esamina gli atteggiamenti dell’ultima settimana suddivisi in ‘preoccupazioni alimentari’ e ‘preoccupazioni per il peso e la forma’; infine l’Inventario delle esperienze nelle relazioni strette (ECR; Brennan et al., 1998) che valuta le relazioni strette in termini di evitamento dell’intimità e di ansia di abbandono.

Disturbi alimentari e ambienti familiari invalidanti: i risultati

I risultati mostrano che l’indice di massa corporea, le difficoltà nelle relazioni intime, le esperienze di invalidazione di entrambi i genitori e i sintomi di un disturbo alimentare, sia inerenti al peso sia all’immagine corporea, correlano positivamente. Nello specifico, tutte le variabili prese in considerazione eccetto il BMI differiscono significativamente tra i contesti familiari validanti e quelli invalidanti: le difficoltà nello stabilire relazioni, l’insoddisfazione corporea e i sintomi dei disturbi alimentari hanno livelli più alti nelle famiglie invalidanti. Inoltre gli ambienti invalidanti sono associati ad un’alimentazione disordinata e a una maggiore insoddisfazione corporea; entrambe le relazioni sembrano essere mediate dalla difficoltà nelle relazioni intime e dal BMI. L’insoddisfazione corporea invece media le associazioni tra ambienti invalidanti e sintomi del disturbo alimentare, e tra difficoltà nelle relazioni strette e sintomi di un disturbo alimentare.

I risultati suggeriscono quindi che un’invalidazione nel contesto infantile è spesso associata a successive auto-invalidazioni; queste ultime si manifestano tramite insoddisfazione corporea e comportamenti alimentari disfunzionali. I terapeuti che trattano i disturbi alimentari dovrebbero quindi tenere in considerazione la relazione e la vicinanza tra genitori e figli in quanto un contesto infantile percepito come invalidante può essere associato ad una maggiore sintomatologia. Infine devono essere considerate anche le difficoltà nelle relazioni strette di tali pazienti che spesso contribuiscono all’esordio dei sintomi.

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