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L’infosfera: come internet ci rende più ignoranti

Internet ci apre a sterminate praterie di informazioni, ma ci mette anche davanti alla nostra limitata capacità computazionale, che ci indurrà ad abbandonare sempre più l’uso del pensiero critico.

 

Una delle cose più dolorose del nostro tempo è che coloro che hanno certezze sono stupidi, mentre quelli con immaginazione e comprensione sono pieni di dubbi e indecisione (Bertrand Russel).

Ogni qualvolta apriamo il computer o il telefonino ci appaiono informazioni o riferimenti riguardanti le nostre recenti ricerche effettuate su internet; che si tratti di ricette gastronomiche, dati economici o di indirizzo sociale o politico, non fa alcuna differenza.

Ci sembra normale, quasi ovvio, e lo riteniamo molto utile perché ci fornisce velocemente indicazioni e riferimenti su quanto consideriamo interessante; inoltre quando constatiamo che altre persone la pensano come noi, hanno i nostri stessi interessi o convinzioni, ne traiamo un piacevole senso di conforto, un solido senso di appartenenza; le nostre idee ci appaiono confermate e sostenute nella loro esattezza dalle ampie condivisioni.

Non ci soffermiamo mai a considerare che tale risultato è falsato dalle modalità utilizzate dai motori di ricerca, che non si limitano a fornire informazioni, ma le vagliano per noi, selezionando quelle che appaiono coerenti con il nostro profilo e definendo un nostro personale universo di immagini e notizie.

Internet e la selezione di informazioni

I sofisticati algoritmi che operano sui motori di ricerca dei social si sostituiscono al funzionamento dell’attenzione selettiva, che naturalmente opera in ogni individuo, creando un meccanismo retroattivo molto pericoloso.

Le persone normalmente sono portate ad operare una selezione sui dati sensoriali provenienti dall’ambiente in modo da dedicare la computazione solo a quelli che sembrano rivestire una certa importanza per il soggetto. Scegliamo cioè, quasi sempre inconsapevolmente, di elaborare solo i dati che riteniamo utili alle nostre necessità. In sintesi le nostre ipotesi, le nostre aspettative su come debba essere la realtà, condizionano la ‘scelta’ delle informazioni che ricercheremo e che assumeremo come valide.

Lasciare quindi che qualcun altro analizzi e scelga per noi le informazioni di cui abbiamo bisogno, selezionando intenzionalmente quelle coerenti con le nostre previsioni, ci porta inevitabilmente ad un restringimento dei nostri interessi che si incanaleranno su argomenti predefiniti, sempre più coerenti ed integrati, che si vedranno così sistematicamente rinforzati evitando l’esperienza formativa del confronto con opinioni ed interessi diversi dai nostri, portandoci ad assumere una visione rigida ed univoca della ‘verità’.

La realtà che costruiamo diventa allora ipersoggettiva, in quanto continuamente rafforzata dalle opinioni di persone che la pensano come noi, dominata dal bias di conferma, la distorsione cognitiva che ci porta inconsciamente a dare più rilevanza alle opinioni che rispecchiano le nostre, risultando nella sua visione complessiva deprivata delle alternative o delle molteplici variabili, consegnandoci una visione del mondo più limitata ed impoverita.

Inoltre a causa dell’effetto del bias dell’ancoraggio, che rende difficilissima la revisione di un giudizio intuitivo, resteremo condizionati dalla valutazione iniziale anche nel caso in cui le informazioni raccolte o disponibili non siano congruenti con le idee di partenza; esse saranno allora scartate oppure interpretate in modo da sostenere o rafforzare i nostri preconcetti, coinvolgendo in questo complesso meccanismo auto confermativo anche la memoria, che tenderà a recuperare in modo selettivo solo i dati e le esperienze fra loro congruenti.

Il risultato finale sarà il sistematico abbandono dello schema ipotetico, con il quale sviluppiamo modelli interpretativi della realtà a favore del modello della certezza, che esclude per definizione l’esistenza di alternative; ritenendo di aver raggiunto la sicura conoscenza di un fatto oggettivo, non avremmo più ragione di dubitarne.

L’orientamento di varie ricerche nell’ambito della psicologia sociale sembra infatti suggerire che la radicalizzazione su alcuni temi centrali nell’opinione pubblica si basi prevalentemente su meccanismi centrati sul riconoscimento identitario piuttosto che sull’analisi e la sistematizzazione coerente delle informazioni disponibili. Assistiamo di fatto all’abbandono dello scetticismo metodologico, cardine del pensiero scientifico, per una deriva ideologica alla cui base il ‘so’ viene sostituito dal ‘voglio’, dove l’esigenza pratica giustifica la sua supposizione non semplicemente come ipotesi lecita ma come postulato che determina inevitabilmente l’esito del giudizio finale.

Questo induce la nefasta tendenza a confondere i fatti con le opinioni, portandoci ad abbandonare la capacità di analisi critica su quanto ci viene proposto e sulle alternative possibili, appellandoci ad un realismo ingenuo che, nel ritenere i nostri sensi in grado di percepire gli oggetti e gli eventi direttamente come sono senza alcun processo interpretativo e valutativo interposto, fornisce una solida base per molti dei nostri bias cognitivi.

I problemi legati ad internet e alla disponibilità di informazioni

Ma allora perché l’accesso a una gran mole di informazioni determinerebbe un problema?

Per comprendere appieno il senso di questa premessa dobbiamo conoscere, almeno genericamente, il funzionamento della nostra mente.

La psicologia sperimentale ha oramai da molto tempo suggerito l’esistenza di due diversi livelli di conoscenza, sviluppatisi gradualmente nel lungo percorso dell’evoluzione umana; il primo livello è quello tacito, formatosi quando l’individuo era sprovvisto della capacità verbale del linguaggio e del pensiero complesso, dotato solo delle prime strutture di consapevolezza si è strutturato per rispondere velocemente ai problemi di adattamento con l’ambiente, utilizzando schemi prevalentemente visivi o iconici, abituandosi a confrontare il flusso dei dati in entrata con i modelli rappresentativi interni basati sulle pregresse esperienze. I suoi processamenti sono condizionati dalle necessità imposte dai suoi limiti iniziali, la scarsa capacità computazionale ha indotto il sistema ad utilizzare delle comparazioni visive, molto più rapide delle successive descrizioni verbali, che hanno anche il vantaggio di poter essere utilizzate con il minimo sforzo psichico, ed in modo automatico, senza dover utilizzare cioè la coscienza, che nella forma attuale ancora non si era sviluppata o era presente in modo embrionale.

Ecco quindi che questa struttura piuttosto rozza si è trovata a ricercare la soluzione di problemi complessi e fondamentali per la sopravvivenza e ha quindi sviluppato una serie di euristiche, regole generali predefinite, veloci ed automatiche, che potessero fornire costantemente degli schemi di adattamento comportamentale; quelli che oggi nel loro significato disfunzionale definiamo bias mentali.

Il secondo livello di conoscenza, quello cosiddetto analitico, rappresenta al contrario il livello più sofisticato dell’evoluzione; esso dispone della coscienza secondaria, quella che ci caratterizza, del pensiero astratto e fondamentalmente del linguaggio.

Ecco quindi che le informazioni che ci giungono dall’ambiente sono processabili in modo diverso mediante il linguaggio che consente l’esecuzione consapevole di ragionamenti sequenziali, finalizzati, permettendoci una enorme complessità computazionale rispetto a quella espressa inizialmente e consentendo un’elaborazione della realtà sganciata dalla sua immediatezza con l’esperienza.

Sebbene i due sistemi operino sostanzialmente in modo differente, mantenendo la loro specificità, essi risultano funzionalmente interconnessi, consentendo in linea generale una integrazione tra i diversi modelli rappresentativi; i processamenti taciti, essendosi formati per primi, costituiscono il livello gerarchicamente superiore di elaborazione delle informazioni, essi rappresentano e definiscono gli elementi prototipici delle strutture cognitive, fornendo con le loro regole la base dell’impianto concettuale che orienta e condiziona il sistema analitico.

Ecco quindi che il cervello analogico continua ad operare, determinando i nostri comportamenti o le nostre decisioni, spesso in modo molto utile ed efficace, utilizzando regole veloci sebbene, proprio per questa caratteristica, grossolane ed imprecise, che richiedono pochissimo dispendio psichico e prevalentemente in modo tacito, senza cioè che essi siano percepiti dalla coscienza.

Avendo assunto il compito di controllare costantemente se le situazioni che viviamo debbano essere considerate positive o pericolose, il suo obiettivo primario è quello di fornirci nel più breve tempo possibile una risposta comportamentale.

Per rendere più efficace il suo operato tende ad evitare ogni sorta di dubbi o di incertezza, che impedirebbero o ritarderebbero l’emissione del comportamento agito: per ognuno di noi nelle situazioni di emergenza è più utile reagire prontamente, senza esitazioni o tentennamenti piuttosto che dedicarci ad una attenta analisi situazionale.

È quindi con questo armamentario piuttosto abborracciato di euristiche automatiche ed imprecise, poco inclini all’uso di procedure analitiche, che siamo chiamati ad affrontare e gestire la smisurata massa di informazioni oggi disponibili, scontrandoci inevitabilmente con l’incapacità di processarle ed integrarle per ricavare una migliore comprensione dei fenomeni valutati.

Dopo millenni di lenta accumulazione infatti, la conoscenza umana è entrata in una epoca di crescita esponenziale e rapidissima.

Oggi viviamo in un mondo dove la maggior parte delle informazioni risale a meno di 15 anni fa. Nell’ambito scientifico le conoscenze tendono a raddoppiare nel giro di soli otto anni, uguale accelerazione ha subito la nostra vita quotidiana, viaggiamo sempre di più, cambiamo casa e città, veniamo a contatto con molte più persone, al supermercato ci troviamo davanti ad un gamma di scelte che erano impensabili pochi anni fa.

I dati sono sconcertanti, nel 2014 l’umanità ha generato ogni due giorni una quantità di dati superiore a quella complessivamente prodotta dal genere umano dalla sua comparsa sulla terra fino al 2003.

Si stima che nel 2011 un americano medio fosse esposto quotidianamente ad una quantità di informazioni cinque volte superiore a quella a cui era esposto nel 1986.

Ogni giorno processiamo 34 gigabyte equivalenti a 100.000 parole, per fare un esempio è come leggere Guerra e pace di Tolstoy in 4 giorni; e tutto ciò a fronte di una capacità della mente cosciente di processare informazioni che è stata stimata dal neuroscienziato Daniel Levitin in circa 120 bit al secondo.

Considerando che quando una persona ci parla abbiamo bisogno di elaborare 60 bit al secondo appare evidente che al massimo siamo in grado di comprendere soltanto due persone che ci parlano contemporaneamente e poi ci troveremmo costretti ad escludere qualunque altra fonte di informazione.

Risulta evidente che la nostra capacità di elaborare l’informazione rischia probabilmente di diventare sempre più insufficiente e inadeguata a gestire il sovraccarico di cambiamenti, scelte, novità della vita moderna. Sempre più spesso ci troveremo nella condizione di non essere in grado di fronteggiare un ambiente così articolato e complesso; quando i dati che il nostro cervello deve processare simultaneamente diventano troppi, l’unico modo per uscirne è quello di prendere delle scorciatoie, specialmente se il nostro cervello tacito è già predisposto a farlo.

Internet e la nostra capacità di elaborare le informazioni

Quindi se da una parte il complesso mondo della rete e dei social ci apre sterminate praterie di informazioni, ci mette anche davanti alla nostra limitata capacità computazionale che ci indurrà ad abbandonare sempre più l’uso del pensiero critico, rinunciando alla possibilità di raggiungere un giudizio attraverso i processi mentali di   discernimento, analisi, valutazione delle fonti e della loro attendibilità, confondendo i nostri interessi e desideri con la realtà oggettivabile.

Non possiamo arrenderci a questa tendenza, la posta in gioco è molto alta e non riguarda soltanto la nostra personale capacità di elaborare le informazioni per costruire un migliore adattamento alla realtà, essa riguarda la società nel suo complesso, determinando gli orientamenti che saranno assunti rispetto a temi di grande rilevanza.

Non stiamo parlando di eventi futuribili, quanto temuto sta già accadendo: nel 2004 alcune ricerche empiriche dell’università di Oslo rilevarono che tra il 1970 e il 1993 l’effetto Flynn era diminuito (lo studio di James Flynn del 1987 ha dimostrato che il quoziente intellettivo nelle nazioni sviluppate era costantemente aumentato nei precedenti 25 anni da una generazione all’altra in modo significativo).

Ma il dato più preoccupante è che a partire dagli anni 2000 è stata registrata una inversione di tendenza chiamata Effetto Flynn capovolto: dal 2004 il rallentamento si è trasformato in una costante diminuzione. Insomma pare che stiamo diventando sempre più stupidi.

Una delle cause accertate dell’abbassamento del QI è l’impoverimento del linguaggio, l’incapacità di elaborare e formulare pensieri complessi, l’aumento dell’analfabetismo funzionale, la degradazione delle facoltà emotive e relazionali.

Sebbene le cause di questo depauperamento non siano ancora tutte individuate, appare evidente la tendenza in atto: oggi ad occuparsi del processo di immagazzinamento, memoria ed elaborazione dei dati è prevalentemente la tecnologia, che sta riducendo l’intelligenza umana a svolgere un ruolo ausiliario sempre più ininfluente.

Ecco cosa scrive il neurobiologo Laurent Alexandre: ‘laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti di informazioni provenienti da fonti diverse. Un’evoluzione che ci rende più che mai dipendenti dalle macchine, assuefatti alla connessione, incapaci di procurarci un’informazione senza l’aiuto di un motore di ricerca, dotati di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili a manipolazioni di ogni sorta’.

L’unico modo per opporci a questa deriva che mette in pericolo i principi stressi della democrazia e della condivisione sociale è quella di ribaltare la tendenza facendo leva sulla nostra parte più funzionale, investendo la maggior parte delle nostre risorse sulla formazione cognitiva delle persone.

Nel 1999 gli esperimenti di Dunning – Kruger sulla distorsione cognitiva, a causa della quale individui poco esperti e competenti tendevano a sopravvalutare le proprie abilità considerandosi a torto esperti in materia, (questo perché se non si hanno un minimo di competenze in un certo ambito non si riesce a fare una stima realistica delle proprie prestazioni e dei propri limiti) hanno avuto come corollario che i risultati potevano cambiare modificando un fattore. Gli studenti più incompetenti si attribuivano una valutazione più veritiera a seguito di una seppur minima introduzione alla materia o alla competenza analizzata, questo restituiva loro la capacità di poter valutare le proprie conoscenze e di sviluppare conseguentemente una valutazione più oggettiva.

Dobbiamo quindi invertire la tendenza scegliendo la complessità e praticandola in tutte le sue forme anche se sembra complicata, soprattutto se è complicata, non dobbiamo accettare di divenire troppo stupidi per vivere liberi.

Parafrasando Christophe Clavè: Non c’è libertà senza il pensiero della libertà e non c’è democrazia senza il pensiero della democrazia.

ll terapeuta sotto pressione (2021) di Christopher J. Muran e Catherine F. Eubanks – Recensione

ll terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica: un lavoro benvenuto che chiarisce una serie di problemi connessi con la realizzazione di quella psicoterapia integrata che molti invocano, aiutando a evitare le secche di un generico, ecumenico e irenico eclettismo che rischia di deteriorare il livello della pratica clinica.

 

Il libro ll terapeuta sotto pressione. Riparare le rotture dell’alleanza terapeutica di Christopher J. Muran e Catherine F. Eubanks pubblicato nel 2021 da Cortina è la traduzione italiana di Therapist performance under pressure. Un lavoro benvenuto che chiarisce una serie di problemi connessi con la realizzazione di quella psicoterapia integrata che molti invocano, aiutando a evitare le secche di un generico, ecumenico e irenico eclettismo che rischia di deteriorare il livello della pratica clinica. Nel Terapeuta sotto Pressione Muran e Eubanks proseguono e allargano il concetto di rottura e riparazione già elaborato precedentemente da Safran e dallo stesso Muran, collegandolo a una serie di dati provenienti dallo studio delle emozioni e della relazione in modelli i più disparati, dalla psicoanalisi al cognitivismo passando attraverso le neuroscienze e senza dimenticare gli orientamenti umanistici.

Si potrebbe temere un eclettismo teorico che abbiamo già visto in molti altri modelli oscillanti tra il funzionalismo metacognitivo e l’interpersonalismo dinamico ma Muran e Eubanks schivano il rischio fornendo procedure di accertamento delle crisi relazionali, le rotture, e tecniche di gestione delle stesse crisi, le riparazioni. Per questa strada accettano la sfida dell’efficacia e soprattutto della maggiore efficacia, non accontentandosi dell’anti-progressivo verdetto del Dodo, verdetto che in alcune sue possibili implicazioni minaccia di ridurre la psicoterapia a una disciplina che non contempla di migliorare nel tempo. Al contrario, Muran e Eubanks esprimono apertamente l’ipotesi, fornendo alcune conferme empiriche che gli esiti psicoterapeutici migliori siano quelli che seguono a episodi di rotture e riparazione, mentre psicoterapie prive di episodi simili avrebbero risultati meno significativi.

Considero questa ipotesi di Muran e Eubanks una svolta importante perché pone fine a molti equivoci, primo tra i quali lo status di quello che può finalmente iniziare a chiamarsi il paradigma relazionale in psicoterapia. Status che finora si era sempre presentato con diplomatica ambiguità, mai chiaramente dichiarandosi come orientamento a sé stante e onestamente in concorrenza con gli altri e quindi intenzionato a dimostrare la propria prevalenza scientifica. Si presentava semmai come una prospettiva integrata più che un orientamento, diffusa come un fattore comune in tutti gli orientamenti, ma mai davvero indipendente, e che combinava fonti cliniche e scientifiche disparate e in quanto tale utilizzabile all’interno degli altri orientamenti come una sorta di ingrediente universale che dava sapore a tutto senza però tentare di estromettere nessuno dalla scena. In tal modo la prospettiva relazionale si presenta non come un modello scientifico da testare ed eventualmente da adottare come quello vero, ma come una buona pratica utilizzabile all’interno degli orientamenti classici per migliorarne l’applicabilità concreta ed eventualmente essere usato in situazioni di emergenza con pazienti particolarmente impegnativi. In un certo senso, una tecnica nel vero senso della parola (malgrado la diffidenza che alcuni appassionati di relazione nutrono verso la tecnica), ovvero una pratica che non implica una teoria da essa distinta.

Muran e Eubanks, invece, fornendo procedure concrete di applicazione del loro approccio relazionale e, inoltre, proponendo esplicitamente (con conferme empiriche, beninteso, sebbene non ancora conclusive) che la loro strada fornisce quell’incremento di efficacia che ormai manca da decenni alla psicoterapia e che questo benedetto incremento passi attraverso lo studio delle crisi relazionali e le loro riparazioni, sembrano assumersi la responsabilità scientifica della loro proposta: un orientamento relazionale specifico di psicoterapia e non una generica prospettiva, un orientamento che non si appoggi solo a variabili di tipo neuro-scientifico come la conoscenza incarnata, ma definisca operativamente e confermi variabili intermedie che diano conto non solo del funzionamento mentale, ma anche della disfunzionalità clinica e del funzionamento della terapia.

Questo doppio merito, concretezza operativa e chiarezza teorica, che evita la confusione tra una prospettiva relazionale onnipresente in tutti gli altri orientamenti e che tende a confondersi con i fattori comuni presenti in tutte le terapie, non implica che il libro di Muran e Eubanks sia utile solo a chi legittimamente creda a questo nuovo orientamento terapeutico e nella sua autonomia e specificità di modello relazionale indipendente. Il libro è utile anche a chi continua a seguire le strade degli altri modelli, quelli cognitivi, psicodinamici e umanistico esperienziali. È utile perché effettivamente il libro propone a tutti noi clinici una serie di procedure e di tecniche che, anche per il terapeuta che non aderisce al paradigma relazionale, possono essere utili per gestire le crisi relazionali in terapia secondo modalità clinicamente convincenti e interessanti.

È vero che, come ammettono gli stessi Muran ed Eubanks, in alcuni orientamenti, come ad esempio quello cognitivo, la crisi relazionale è gestibile applicando interventi di contenimento relazionale di tipo validante e accogliente e al tempo stesso attendista mentre il modello di Muran e Safran richiede esplicitamente che la crisi sia sempre espressa, accertata e trattata apertamente nei suoi termini interpersonali e non solo di eventuale disaccordo sugli obiettivi o sui mezzi terapeutici.

Anche questo passaggio contribuisce a chiarire la posizione di Muran ed Eubanks, rendendola molto più leggibile rispetto a quella delle varie prospettive relazionali che, al contrario, tendono a stirare o comprimere l’intervento relazionale a fisarmonica, rendendolo ora onnicomprensivo e ora estremamente focalizzato. Al contrario Muran ed Eubanks sembrano optare per la focalizzazione operativamente chiara sulla relazione come riflessione congiunta ed esplicita tra terapeuta e paziente, delle dinamiche interpersonali come strada maestra del miglioramento terapeutico. Il che però, vale la pena ripeterlo, non rende questo libro inutilizzabile per chi non ritiene che questa strada maestra passi per un percorso relazionale. Quella strada può essere percorsa in circostanze eccezionali anche da chi preferisce altri sentieri nei casi in cui il paziente o la terapia lo richiedano: è verissimo che possono esserci pazienti con i quali la psicoterapia si arena per motivi squisitamente relazionali tra paziente e terapeuta, per una rottura interpersonale. In questi casi imparare la lezione di Muran ed Eubanks può essere utile per tentare di superare l’intoppo.

 

Non si può ottenere sempre ciò che si vuole: il ruolo degli obiettivi nel cambiamento della personalità

Un recente quadro teorico sul cambiamento intenzionale dei tratti di personalità (Hennecke et al., 2014) suggerisce che le persone possono assegnare diversa importanza (cioè desiderabilità del cambiamento) e fattibilità (cioè aspettativa di successo) ai loro obiettivi di cambiamento. Ma è sempre sufficiente a cambiare veramente?

 

La maggior parte degli adulti desidera migliorare o correggere in una certa misura alcuni aspetti dei propri tratti personologici. Basandosi su idee radicate nella psicologia dello sviluppo, gli psicologi della personalità hanno recentemente iniziato a concentrarsi su obiettivi espliciti e deliberati per modificare i tratti Big Five (apertura, coscienziosità, estroversione, gradevolezza e stabilità emotiva). Sia la psicologia della personalità sia quella dello sviluppo asseriscono che gli obiettivi danno direzione, struttura e significato alla vita delle persone, diventando quindi fattori importanti nel modo in cui ognuno modella attivamente il proprio sviluppo. Di conseguenza, lo sviluppo della personalità nel corso della vita può anche riflettere la ricerca intenzionale di tratti di personalità che a loro volta potrebbero essere funzionali a gestire con successo le transizioni di vita o a soddisfare i ruoli sociali.

Importanza e fattibilità degli obiettivi

Un recente quadro teorico sullo sviluppo volitivo della personalità (Hennecke et al., 2014) suggerisce che le persone possono assegnare diversa importanza (cioè desiderabilità del cambiamento) e fattibilità (cioè aspettativa di successo) ai loro obiettivi di cambiamento. Sia l’importanza che la fattibilità dell’obiettivo dovrebbero influenzare lo sforzo e il raggiungimento dell’obiettivo stesso. In particolare, una maggiore importanza degli obiettivi di cambiamento può essere associata a un maggiore impegno e a maggiori sforzi per implementare i cambiamenti comportamentali. Una maggiore fattibilità può riflettere una maggiore capacità percepita e comportare una maggiore motivazione per l’attuazione efficace dell’obiettivo; quindi, gli obiettivi fattibili dovrebbero essere seguiti da azioni specifiche, legate all’obiettivo, che possono infine condensarsi in effettivi cambiamenti dei tratti di personalità.

È possibile cambiare intenzionalmente i tratti di personalità?

Lo studio di Lücke et al. (2020) ha esaminato le associazioni tra gli obiettivi di cambiamento della personalità e le successive esperienze, nonché i cambiamenti dei tratti in adulti giovani e anziani nel corso di due anni. In linea con il quadro teorico summenzionato (Hennecke et al., 2014), i ricercatori si sono concentrati sul ruolo dell’importanza e della fattibilità degli obiettivi.

In questo studio sono stati coinvolti 382 partecipanti, reclutati tramite volantini, annunci sul giornale, social network e mailing list.

Le misurazioni rispetto alla personalità sono state raccolte in quattro momenti diversi: autunno del 2015 (T1), primavera del 2016 (T2), autunno del 2016 (T3), autunno del 2017 (T4). Nella prima fascia temporale (T1) è stato chiesto ai partecipanti di presentarsi in laboratorio per valutare i propri obiettivi di cambiamento rispetto ai tratti di personalità, dichiarando inoltre quanto li percepissero fattibili. Anche nella seconda fase (T2) i partecipanti sono stati convocati in laboratorio per rispondere ai questionari, mentre per la terza e quarta fase (T3 e T4) i partecipanti erano liberi di rispondere online, in quanto si riteneva avessero avuto modo di familiarizzare con gli strumenti.

Per raccogliere giornalmente i dati, sono stati assegnati ai partecipanti dei diari giornalieri (D). In questo modo è stato possibile valutare lo sviluppo temporale dei tratti di personalità.

Ogni sera (h18) i partecipanti ricevevano una email con link personalizzati per rispondere a delle domande caricate su SoSci Survey. Per raccogliere informazioni sui tratti di personalità è stato utilizzato il Big Five Inventory (BFI; John & Srivastava, 1999; Lang et al., 2001), somministrato all’inizio di ogni slot temporale (T1,T2,T3,T4).

In T1, T2 e T3 sono stati raccolti gli obiettivi di cambiamento dei tratti di personalità di ogni partecipante grazie alla versione breve del Change Goals BFI (C-BFI; Hudson & Roberts, 2014). Un esempio di item di questa scala, prendendo in considerazione l’estroversione, è ‘Vorrei essere aperto, socievole’ (Hudson & Roberts, 2014; Quintus et al., 2017). Gli items sono stati valutati su una scala a 5 punti in cui 1 significava ‘molto meno di quanto lo sia ora’, 3 ‘non vorrei cambiare questo tratto’ e 5 ‘molto più di quanto lo sia ora’. Per ogni obiettivo ai partecipanti era chiesto di dichiarare quanto fosse fattibile e flessibile su una scala da 1 a 5. Per quanto riguarda i diari giornalieri, è stato chiesto ai partecipanti di riportare l’esperienza più significativa della giornata, riportando alcuni esempi. Successivamente i partecipanti hanno valutato la situazione ed il loro comportamento. Per queste valutazioni è stato utilizzato il DIAMONDS S8-I questionnaire (Rauthmann et al., 2014) che indaga le dimensioni di intenzionalità che possono essere: intellettive, legate al dovere, legate alla socialità, alla negatività o all’avversione.

Obiettivi e raggiungimento del cambiamento

Il presente studio può essere considerato come uno dei primi ad esaminare empiricamente quanto sia rilevante saper attribuire il giusto peso ai propri obiettivi e alla fattibilità nello sviluppo volitivo della personalità. Contrariamente alle aspettative e ai quadri teorici di riferimento (Hennecke et al., 2014), i risultati emersi dallo studio mostrano che le persone con obiettivi di cambiamento molto pronunciati non tendono a manifestare cambiamenti rilevanti dei tratti nei due anni successivi. Ciò significa che gli obiettivi di cambiamento maggiormente volitivi non sono necessariamente associati al cambiamento di tratti più pronunciati.

Sono state avanzate diverse ipotesi, tutte ugualmente valide, che possono spiegare il motivo per cui gli obiettivi di cambiamento non si convertono in effettivi cambiamenti di tratti. Innanzitutto, gli obiettivi di cambiamento più sentiti sembrano riferirsi più frequentemente a una manifestazione più contenuta degli attuali tratti personologici (Hudson & Roberts, 2014; Quintus et al., 2017). Quest’ultimi possono rappresentare un ostacolo importante per le persone che vogliono implementare con successo il cambiamento prefissato. Ad esempio, le persone con alti livelli di introversione potrebbero non essere in grado di comportarsi in modo più estroverso perché potrebbero non avere accesso a situazioni rilevanti per il tratto in questione o al repertorio comportamentale per raggiungere con successo i loro obiettivi di cambiamento (Jacques-Hamilton et al., 2019; Robinson et al., 2015).

Inoltre, il principale elemento costitutivo dello sviluppo della personalità sembrerebbe essere legato ai comportamenti selezionati/attuati (Back et al., 2011; Dweck, 2017; Geukes et al., 2017; Hennecke et al., 2014; Roberts, 2017; Roberts & Jackson, 2008 ; Wrzus & Roberts, 2017). Ciò è in linea con i dati emersi secondo cui gli obiettivi di cambiamento non si sono manifestati in cambiamenti dei tratti a lungo termine. Anche se le persone percepissero alcuni obiettivi di cambiamento fattibili, questi potrebbero essere inaspettatamente difficili da incrementare in situazioni o comportamenti quotidiani perché i soggetti potrebbero non sapere quali siano le situazioni effettivamente rilevanti per aumentare uno specifico tratto (Baranski et al., 2017). Pertanto, si potrebbe dedurre che gli obiettivi di cambiamento valutati dal Change Goals BFI (C-BFI) non si traducono in cambiamenti reali, in assenza di piani specifici su come implementare i propri obiettivi.

In conclusione, l’importanza e la fattibilità degli obiettivi di cambiamento potrebbero rappresentare delle pre condizioni necessarie ma non sufficienti per un cambiamento effettivo della personalità.

Arte e Psicologia come espressione dell’anima: da Oskar Kokoschka, Egon Schiele a Messerschmidt

Obiettivo di questo articolo è quello di individuare e rappresentare con un’ottica multidirezionale la molteplicità delle relazioni esistenti tra psiche ed arte.

 

La rappresentazione della psiche nell’arte

Vedremo infatti come l’esperienza creativa faccia parte della normale facoltà di relazionarsi di ciascuno di noi, ma come la comprensione di un’opera d’arte richieda necessariamente una conoscenza delle proprie emozioni, da un lato, e della capacità di contestualizzare la storia dell’artista e del suo tempo, dall’altro.

L’analisi verrà svolta anche attraverso l’approfondimento di alcuni aspetti relativi alle opere di tre autori significativi. I primi due sono Oskar Kokoschka ed Egon Schiele, che portano il loro contributo nell’ambito del periodo della Rivoluzione Viennese, agli inizi del XX secolo. Il terzo artista trattato è Franz Xaver Messerschmidt, scultore tedesco vissuto nella seconda metà del diciottesimo secolo, autore di una serie di busti denominati “teste di carattere” nei quali rappresenta con straordinaria efficacia il proprio disagio psichico.

Vista l’estrema lunghezza dell’articolo stesso, qui presenteremo un breve riassunto. Per approfondire il tutto, si può cliccare su questo link per avere una visione più completa dell’articolo stesso.

Psiche ed arte

Gli studi di Freud, seppur parziali e sempre ricondotti alla conferma delle proprie teorie, furono rivoluzionari e portarono ad un arricchimento reciproco di arte e psicoanalisi. Lo studio della maternità precoce di Leonardo, infatti, diventa precursore dell’esplorazione della relazione preedipica madre-figlio, uno dei temi centrali del dibattito psicoanalitico del tempo.

Anche andando indietro nel tempo è peraltro evidente come i grandi pensatori del passato analizzano in modo distintivo e sottile i componenti delle loro definizioni teoriche di arte, stabilendo relazioni complesse con altre discipline quali la filosofia della mente, l’epistemologia e l’ontologia.

Le teorie generali sulla bellezza e sull’arte esplorate da filosofi e pensatori del passato possono essere sinteticamente raggruppate in tre macrocategorie. La prima include le filosofie che concepiscono l’arte come una forma di conoscenza, sia in termini negativi (Platone), sia in termini positivi (Schopenhauer, Hegel, Croce). La seconda categoria include le filosofie che concepiscono l’arte come una forma di liberazione o di espressione (Kant, Nietzsche, Marcuse). La terza categoria, invece, include le filosofie che rappresentano la bellezza come una via per accedere ad uno strato profondo della realtà.

In ogni caso l’impulso artistico permea tutto il corso della storia, come una risorsa per accedere a maggiori e più complesse conoscenze di se stessi e della realtà. Ciò sin dalla primitiva arte della grotta del Paleolitico, alla introduzione della prospettiva del Rinascimento e fino alla rottura delle regole classiche sovvertite dagli artisti della modernità.

O come creatori o come fruitori, l’arte rimane sempre presente come veicolo per esprimere i nostri pensieri e desideri più intimi e come mezzo attraverso il quale possiamo entrare in relazioni uniche con realtà ed emozioni.

La Secessione Austriaca e le opere di Oskar Kokoschka ed Egon Schiele

Il movimento della Secessione Viennese fu uno dei più prolifici della storia culturale europea. Numerosi artisti viennesi, agli inizi del XX secolo costituirono delle avanguardie che determinarono un radicale cambiamento nello stile e nel modo di concepire l’arte, segnando un solco indelebile col passato.

Questo movimento aspirava alla rinascita delle arti e dei mestieri, per realizzare opere che rispondessero al concetto di opera d’arte totale.

L’imitazione del passato non era più percepita come adeguata in un contesto di svolta, da cui la necessità di trovare uno stile che fosse espressione del proprio tempo e che consentisse di rappresentare l’ansia di modernità. Ciò in contrapposizione al gusto storicista e tradizionalista, al naturalismo borghese ed al perbenismo che facevano parte della cultura del tempo.

I giovani artisti rivoluzionari perseguivano con estrema meticolosità l’obiettivo del coinvolgimento dell’intera società nella fruizione dell’arte, senza più alcuna distinzione tra ricchi e poveri. Dal momento che per i Secessionisti l’arte rappresentava una sorta di religione in grado di rinnovare il mondo, il loro approccio doveva essere totale e questo fu il vero aspetto rivoluzionario ed il nuovo trait d’union tra arte e psiche.

In tale conteso di fermento artistico, psicologico e sociale l’elaborato si sofferma su due artisti dagli aspetti innovativi dirompenti: Oskar Kokoschka ed Egon Schiele.

Kokoschka maturò il proprio linguaggio artistico, come detto, nella Vienna di inizio Novecento, grande punto di incontro di culture in cui l’arte penetrava il quotidiano, facendosi protagonista di una stagione di scandali e rinnovamenti.

L’artista ricevette in tale contesto il soprannome di Grande Selvaggio, per il suo netto allontanamento dal decoro secessionista, sostituito da una carica estetica espressionista e simbolica che lo pone in diretto contatto con le sue più intime pulsioni. Si mostra capace, tra i primi, a tradurre graficamente espressioni emotive crude e dirette, come libido e angoscia. Tutte le massime espressioni di turbamenti interiori in grado di disgregare qualsiasi forma di armonia non per distruggere la realtà psichica, ma per esaltarla nella sua umanità. Deforma e distorce figure, occhi e visi, con lo scopo di rivelare, esasperando, la psiche dei soggetti.

Egon Schiele fu un’altra figura dirompente emersa con la Secessione Viennese. Il suo lavoro spicca per l’intensità, la sessualità grezza e per i numerosi autoritratti, inclusi gli autoritratti nudi. Le forme del corpo contorte e i tratti espressivi misero l’autore in stretto contatto con la forma umana, ma anche con la sessualità. Il collegamento con tratti della psiche si realizza attraverso quelle che si potrebbero chiamare distorsioni figurative che prevedevano allungamenti, figure emaciate e di colore malaticcio, deformi e dalla sessualità esplicita in sostituzione degli ideali convenzionali più asettici di bellezza estetica.

Forte fu per Schiele il collegamento tra emozioni profonde e rappresentazione artistica. Egli usò il corpo umano come mezzo per rappresentare drammaticamente le esperienze interiori. I corpi erano contorti, distorti, resi sgradevoli per rappresentare il disagio del mondo interiore e degli stati d’animo ad esso riferibili. L’artista è spesso solitario protagonista di opere ispirate al sesso. Le pulsioni sessuali, del resto, erano considerate da Freud come quelle che hanno a cuore la sorte dell’organismo per poter trovare uno spazio sicuro e vitale. Le pulsioni dell’Io spingono alla morte, mentre quelle dell’Eros al continuamento della vita. Schiele viene ricordato come colui che, più di chiunque altro, è riuscito a portare questa dualità nell’arte.

Franz Xavier Messerschmidt e le “smorfie demoniache”

I rapporti tra arte e psiche trovano uno dei più eclatanti ed efficaci momenti di realizzazione nelle opere e nella personalità di Franz Xavier Messerscmidt, uno dei più originali scultori della seconda metà del diciottesimo secolo.

L’attenzione suscitata dall’autore probabilmente deriva dall’originalità delle sue opere, dei busti di autoritratto che sintetizzano in modo straordinariamente efficace l’arte del suo tempo e la propria personalità, fatta di psicopatologia e di sofferenza, trasmettendo al fruitore stati d’animo e tormenti dell’anima di immediata comprensione.

Le opere giovanili di Messerschmidt si possono ben collocare nel processo di evoluzione stilistica del momento storico in cui l’artista è vissuto; tuttavia, tale considerazione non è assolutamente valida per le sue creazioni più famose: i busti fisiognomici o teste di carattere.

Tali opere, realizzate al termine della sua carriera e vita, sono busti di autoritratto nei quali l’artista attraverso delle smorfie rappresenta in modo dirimente ed impetuoso la propria condizione psicotica.

Messerschmidt non era per nulla in sintonia col proprio tempo, ma nemmeno avulso da esso. L’opera dell’artista è unica poiché solleva interrogativi insoluti tra opera d’arte e creatore. L’artista, infatti, si libera della presenza del demone che lo affligge grazie alla realizzazione dell’opera attraverso la quale vengono resi tangibili i propri impulsi inconsci. Il busto è una sorta di esorcismo contro il male che affligge lo scultore.

Eppure, viste puramente dal punto di vista dello stile e dell’esecuzione, le famose teste di carattere non mostrano segni di anormalità, realizzate con tecnica sopraffina e con materiali ben levigati. L’artista in questo connubio tra arte e psiche dimostrava di mantenere la propria maestria tecnica e con essa il controllo delle sue risorse coscienti, senza mai cadere nell’incoerenza o nel vuoto: l’arte come cura.

Il tentativo di questo articolo è stato quello di rappresentare l’estrema varietà e complessità delle relazioni tra arte e psiche. L’osservazione più estrema è stata indubbiamente quella delle opere di Franz Xavier Messerschmidt.

Venendo in contatto con tali sculture per la prima volta durante il corso di Psicologia dell’arte, ho immediatamente percepito come si realizzasse in modo straordinariamente efficace il processo di comunicazione tra artista, opera d’arte e autore.

Il coinvolgimento emotivo è stato tale che, oltre a farmi avventurare nella predisposizione di una tesi che ha toccato temi storici ed artistici a me fino ad oggi poco noti, mi ha portato ad acquistare cinque repliche fedeli di teste di carattere di Messerschmidt realizzate da un artigiano tedesco ed ora posizionate nel salotto di casa.

 

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L’umorismo come strumento per combattere l’ansia da Coronavirus

L’evolversi della situazione pandemica ed il continuo emergere di materiale divertente e ironico legato al COVID-19, hanno portato numerosi ricercatori a valutare il ruolo e le funzioni dell’umorismo nell’affrontare questa situazione.

 

Introduzione

Gli ultimi 40 anni hanno visto un notevole aumento dell’interesse scientifico per quanto riguarda il ruolo dell’umorismo nella promozione della salute. Uno degli aspetti maggiormente studiati riguarda la relazione fra umorismo e ansia (Menéndez-Aller et al., 2020): le ricerche finora condotte mostrano che le persone dotate di un maggiore senso dell’umorismo tendono ad avere minori livelli di ansia e stress (Dionigi et al., 2021; Martin & Ford, 2018; Kuiper, 2012). Questo  è vero in una vasta platea di situazioni e, negli ultimi due anni, sono stati diversi gli studi per valutare il ruolo dell’umorismo nel mediare l’ansia e la paura da COVID-19. Inoltre, l’umorismo è spesso ispirato da circostanze tragiche: questo è accaduto anche durante l’epidemia da COVID-19. Ciò è principalmente dovuto al fatto che l’umorismo rappresenta una strategia adattiva di coping individuale e le persone ne fanno riscorso spesso in situazioni in cui, sebbene si attivino per fronteggiare l’evento temuto, non ci riescono. In questi casi l’umorismo funge da regolatore delle emozioni negative e favorisce strategie cognitive quali il reappraisal cognitivo, la distrazione ed il distanziamento (Kuiper et al., 2014).

Nel marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di pandemia da Coronavirus. Una situazione che mai ci saremmo immaginati e che, ancor prima che venissero messi ben a fuoco i rischi collegati, ha visto ben presto comparire sui social media contenuti di stampo umoristico legati al Coronavirus (Vicari & Murru, 2020). La pandemia di COVID-19, comportando minacce per la salute e la vita delle persone poste dalla malattia stessa e dalle sue complicanze, ha portato ad enormi cambiamenti nel funzionamento quotidiano delle persone, molti dei quali possono essere visti come cambiamenti negativi. Questi fattori possono aumentare il disagio psicologico e, di conseguenza, portare allo sviluppo di sintomi da disturbo d’ansia generalizzata.

La ricerca su Covid-19 e umorismo

L’evolversi della situazione pandemica ed il continuo emergere di materiale divertente e ironico legato al COVID-19, hanno portato numerosi ricercatori a valutare il ruolo e le funzioni dell’umorismo nell’affrontare questa situazione senza precedenti. Le ricerche scientifiche variano notevolmente nella loro qualità e rientrano in diverse grandi categorie quali, ad esempio, ricerche volte a valutare quale materiale umoristico viene maggiormente apprezzato e le funzioni svolte dall’umorismo pandemico. L’umorismo, in questo caso, può essere una risorsa preziosa per far fronte alla paura degli effetti imprevedibili del virus SARS-Cov-2 (Torres et al., 2020).

Fin da subito i social media sono diventati importanti strumenti per tenersi in contatto e per divulgare informazioni, ma anche per proporre materiale divertente volto a sdrammatizzare la situazione. Uno dei primi studi in questo ambito è stato condotto da Bischetti e collaboratori (2021): con un sondaggio su larga scala completato durante le prime fasi del lockdown in Italia, i ricercatori hanno studiato l’apprezzamento (divertimento e avversione) di diversi formati di umorismo legato al Covid-19 che venivano condivisi sui social media. I risultati hanno mostrato che l’apprezzamento dell’umorismo legato al coronavirus è legato a fattori demografici e alla distanza emotiva (e fisica) dal rischio percepito. Il rischio percepito di infezione ha amplificato l’avversione all’umorismo Covid-19, mentre la distanza chilometrica dalla zona del primo focolaio di contagio italiano ha favorito il divertimento in termini globali: chi risiedeva più lontano da Bergamo reputava i meme sul COVID-19 come più divertenti. Con l’aumentare dell’età e nelle donne, l’umorismo Covid-19 è stato giudicato più avverso. Gli individui che utilizzano abitualmente l’umorismo come strategia di coping hanno valutato l’umorismo Covid-19 più divertente e meno avverso. Allo stesso modo, Amici (2020), nel suo studio anch’esso condotto durante il lockdown in Italia, conclude che l’umorismo può favorire un senso di affiliazione e appartenenza, attraverso l’induzione di emozioni positive. Inoltre, l’effetto distanziante dell’umorismo aiuta le persone a percepire gli eventi in corso come meno minacciosi. Sempre in occasione della prima ondata, è stata condotta una raccolta intensiva di barzellette, meme, fake news e teorie del complotto (Meder, 2021), mostrando come il contenuto servisse a esprimere frustrazioni, veicolare sentimenti aggressivi in modo umoristico e mitigare paura e sentimenti di sfiducia che stavano crescendo.

Uno studio americano (Olah & Ford, 2021) ha mostrato che lo stress e l’ansia da COVID-19 variano in base all’utilizzo di determinati stili umoristici: chi utilizza un umorismo auto-rinforzativo mostra minore stress e disperazione e mostra di impegnarsi maggiormente in comportamenti protettivi. In secondo luogo, le persone con uno stile di umorismo auto-svalutativo hanno mostrato il pattern contrario: hanno percepito più stress e disperazione a causa del COVID-19 e quindi hanno riferito di aver intrapreso comportamenti meno protettivi.

In un altro studio turco (Kasapoğlu, 2022) è stata studiata la relazione fra spiritualità, autoefficacia, ansia da COVID-19 e disperazione, mostrando come spiritualità, autoefficacia e ansia da COVID-19 hanno effetti diretti sulla disperazione. Inoltre, l’effetto della paura del COVID-19 sulla disperazione era in parte mediato dalla consapevolezza e dall’umorismo. Livelli più elevati di paura del COVID-19 erano associati ad una minore consapevolezza e un minore senso dell’umorismo. Al contrario, una minore consapevolezza e un minore senso dell’umorismo erano associati a livelli più elevati di disperazione.

Uno studio longitudinale (Bitterly & Schweitzer, 2021) condotto in 11 diversi periodi di tempo ha mostrato come lo spingere le persone a generare contenuti umoristici durante la pandemia aiuta a ridurre significativamente l’ansia da Coronavirus. Nel loro studio i ricercatori hanno messo a confronto diverse tipologie di umorismo, umorismo generale e direttamente collegato al Coronavirus, mostrando come entrambi i tipi di umorismo siano efficaci nel diminuire l’ansia da Coronavirus. Uno studio israeliano (Reizer et al., 2022) ha esaminato il contributo dell’ottimismo e degli stili umoristici nel promuovere il benessere soggettivo durante il lockdown del 2020. I ricercatori hanno osservato che l’ottimismo e l’umorismo adattivo hanno aiutato le persone a ridurre la paura del COVID-19 mentre l’utilizzo di umorismo disadattivo ha mostrato correlazioni negative con il benessere percepito. Inoltre, le analisi di mediazione hanno indicato che sia la paura del COVID-19 che l’interdipendenza tra lavoro e famiglia hanno mediato le associazioni dirette tra ottimismo e benessere, nonché le associazioni tra umorismo disadattivo e benessere.

Infine, è interessante notare che molte persone, sia ricercatori che gente comune, si sono domandate se fosse corretto ed etico ridere di questa situazione. Uno degli aspetti più dibattuti in questo ambito, riguardava il fatto se fosse adeguato utilizzare l’umorismo per contrastare l’ansia generata dal coronavirus, anche a fronte delle morti avvenute. Per questo motivo Miczo (2021) ha condotto un’analisi qualitativa del contenuto di 20 testate giornalistiche. La maggior parte delle analisi tematiche ha mostrato che i media hanno concluso che era eticamente appropriato ridere della pandemia. Ciò è principalmente dovuto al fatto che la funzione principale assolta dall’umorismo fosse quella di distrazione e strategia di coping funzionale. In una situazione in cui le persone cercano disperatamente di sconfiggere la pandemia, si sono attivamente aggrappate all’umorismo per far fronte a ciò che non potevano cambiare. Inoltre, va ricordato che l’umorismo legato a eventi tragici, viene prodotto e condiviso rapidamente, contemporaneamente allo sviluppo della situazione e che solitamente si riferisce ai temi più scottanti. In questi casi si parla di ‘ciclo umoristico’ (Attardo, 2001), in quanto le battute, i meme e le vignette sul Covid-19 sono state create in un lasso di tempo circoscritto e avevano un tema di base comune.

Conclusioni

Generalmente, gli studi finora condotti mostrano come l’umorismo sia uno strumento efficace nel ridurre significativamente lo stress e l’ansia associati alla pandemia. Consente alle persone di prendere le distanze in modo sano dalla realtà incerta del mondo colpito dal coronavirus, che è al di fuori del loro controllo. Questi studi forniscono ulteriori prove empiriche che l’umorismo è davvero una risorsa personale che svolge un ruolo importante nel far fronte all’ansia correlata alla pandemia SARS-Cov-2. I risultati sono congruenti con i risultati precedenti che mostrano che l’umorismo positivo è correlato negativamente al disturbo d’ansia generalizzato e alla paura del COVID-19 (Akimbekov & Razzaque, 2021; Cancelas-Ouviña, 2021; Dionigi et al., 2021).

 

Il ruolo degli interventi psicoeducativi nei contesti di salute mentale: l’approccio INTE.G.R.O.

L’approccio di psicoeducazione INTE.G.R.O. prevede una serie di Unità Didattiche finalizzate al miglioramento delle singole competenze della persona.

 

La psicoeducazione nel contesto di cura

Gli interventi di natura psicoeducativa nei disturbi mentali si sono rivelati efficaci inizialmente per la schizofrenia, anche se la diffusione maggiore è stata legata ai pazienti con diagnosi di disturbo bipolare. Numerose sono le evidenze in termini di efficacia nei pazienti con disturbo bipolare. Joas e colleghi hanno evidenziato, in tale gruppo di pazienti, un’efficacia in termini di riduzione delle recidive e della numerosità degli episodi maniacali, ipomaniacali, depressivi e misti (Joas et al., 2020). Una review del 2015 di Bond e colleghi ha rilevato invece l’efficacia degli interventi psicoeducativi nella prevenzione delle fasi maniacali e ipomaniacali, ma non di quelle depressive (Bond et al., 2015). Uno studio randomizzato di Candini e colleghi mette in luce un minor tasso di ospedalizzazione e un minor numero di giorni di ricovero nei pazienti con disturbo bipolare sottoposti ad interventi psicoeducativi rispetto ai controlli (Candini et al., 2012).

Una review del 2011 ha invece preso in esame l’efficacia nei pazienti affetti da disturbo dello spettro della schizofrenia: è emerso che la psicoeducazione ha un’efficacia nel miglioramento del funzionamento globale e sociale. Inoltre, tale intervento aumenta il grado di soddisfazione verso i servizi di salute mentale e la qualità della vita (Xia et al., 2011).

Vi sono alcuni studi che prendono in considerazione l’efficacia degli interventi psicoeducativi nei pazienti con disturbi di personalità: Zanarini e colleghi analizzano un campione di soggetti con disturbo di personalità borderline sottoposti a un programma psicoeducativo online, dimostrando una riduzione degli items inerenti l’impulsività e il funzionamento sociale rispetto ai controlli (Zanarini et al., 2018).

Colom e Vieta identificavano tre livelli di finalità psicoeducativa:

  • il primo, relativo alla coscienza di malattia, volto al miglioramento dell’aderenza farmacologica e alla prevenzione delle ricadute
  • il secondo, legato agli obiettivi parziali desiderabili, riguardo alla gestione dello stress, alla prevenzione dei comportamenti suicidari, ai cambiamenti delle abitudini di vita riguardanti l’uso e l’abuso di sostanze
  • il terzo, relativo all’eccellenza terapeutica, per il miglioramento del funzionamento psico-sociale, del benessere e della qualità di vita

Veltro e colleghi rielaborano tale classificazione delineando quattro livelli di azione:

  • il primo legato al disturbo mentale, all’interno del quale esistono manuali specifici relativi al Disturbo Bipolare (Colom e Vieta, 2006), Schizofrenia (Falloon, 2000), Ansia (Andrews et al., 2004) e per la Depressione (Morosini et al., 2004)
  • il secondo legato alle compromissioni cognitive correlate, all’interno del quale sono molto efficaci le metodologie di problem-solving
  • il terzo dominio è legato al funzionamento sociale, personale e lavorativo. Diversi lavori hanno dimostrato l’efficacia degli interventi psicoeducativi sul funzionamento socio-lavorativo dei pazienti (Pekkala et al., 2002; Pharoah et al., 2010). In questo aspetto, il miglioramento funzionale deve essere considerato essenzialmente secondario al miglioramento clinico. Uno dei più famosi interventi di questo tipo che mantengono come outcome primario il funzionamento della persona è l’approccio VADO (Morosini et al., 2003)
  • il quarto è relativo ai diritti della persona e alla promozione della salute mentale. L’azione psicoeducativa dovrebbe essere quindi centrata anche sul miglioramento della consapevolezza relativa ai propri diritti, tramite il potenziamento della capacità di negoziazione di tali diritti, la promozione della salute mentale e del benessere psichico. In Italia vi sono solamente due manuali legati a questo aspetto: uno sulla promozione della salute mentale nelle scuole superiori (Morosini e Gigantesco, 2005), l’altro elaborato rivedendo tale testo nel contesto delle scuole medie inferiori (Gigantesco e Veltro, 2012).

L’azione degli interventi psicoeducativi dovrebbe pertanto estendersi verso ogni step del processo terapeutico, senza porre al centro il concetto stesso di ‘malattia’. Tale tipo di approccio non deve essere quindi un semplice dare informazioni sul disturbo, sulla sintomatologia e sui farmaci assunti.

Il concetto di base è pertanto l’insegnamento, non inteso in termini strettamente professionali ma basato sulla condivisione e il coinvolgimento attivo, fondato su una relazione dove il conduttore funge da facilitatore nell’apprendimento gruppale.

L’azione psicoeducativa non è mirata a fornire delle risposte in senso terapeutico: il ruolo del conduttore dovrebbe essere quello di alimentare un dialogo socratico, aiutando la persona mediante semplici domande a esprimere con chiarezza i suoi bisogni, cosa intende affermare in quello specifico momento.

L’Approccio INTE.G.R.O.

L’approccio INTE.G.R.O., descritto in maniera approfondita nel manuale L’intervento psicosociale di Gruppo per il raggiungimento di Obiettivi di Veltro e colleghi, si occupa di agire all’interno dei livelli sopra elencati. Esso prevede una serie di Unità Didattiche finalizzate al miglioramento delle singole competenze della persona. La gran parte dei moduli è inerente ad aspetti di natura neurocognitiva, relativi alle funzioni esecutive e alla cognizione sociale. Già nel 2014 Galderisi e colleghi hanno evidenziato una forte correlazione fra neurocognizione e funzionamento sociale, mediante uno studio multicentrico che ha coinvolto 921 pazienti. In tale studio, la neurocognizione, il miglioramento dei sintomi positivi e la disorganizzazione concettuale sono risultati essere correlati all’incremento del funzionamento psico-sociale di pazienti con schizofrenia.

Le parole chiave di tale metodologia sono:

  • Intermodulare: ogni Unità Didattica è formata dalle stesse tipologie di moduli (Definizione degli Obiettivi, Comunicazione Efficace, Percezione Emotiva e Problem-Solving).
  • Molare: termine contrapposto a molecolare, in tali interventi non sono pertanto prese in considerazione solo le componenti tipiche delle abilità, ma anche elementi esperienziali correlati a fatti di vita. La presenza di stati emozionali può fare prendere in considerazione al conduttore la necessità di concentrare il lavoro su tali specifici aspetti.
  • Cross-crossing: termine riferito alla metodologia di apprendimento. INTE.G.R.O. non segue una metodologia lineare, vi sono elementi e conoscenze introdotte e poi non necessariamente riprese nell’incontro successivo, per poi essere richiamate in un secondo momento e integrate con informazioni legate al contesto di vita del soggetto. Le tecniche di problem-solving sono basate sul concetto di flessibilità cognitiva, risultando particolarmente efficaci riguardo all’apprendimento mnemonico e al rinforzo della working memory nei soggetti con psicosi. Una tecnica spesso usata è quella della ripetizione dilazionata (o Spaced Learning), basata sul concetto, dimostrato (Cepeda et al., 2006), dell’effetto della ‘distribuzione temporale’ per cui risulterebbe più utile ed efficace per una memorizzazione a lungo termine una ripetizione di poche volte su tempi lunghi piuttosto che intensamente ma in periodi brevi.
  • Top down: tale approccio si basa sull’insegnamento di abilità complesse (ad es. Problem Solving), costituite da una serie di abilità cognitive elementari (ad es. attenzione, memoria di lavoro, definizione).
  • Indiretto: si agisce indirettamente su una abilità cognitiva semplice, necessaria per abilità più complesse. Inoltre, si agisce su di una abilità utile per il paziente affrontando una tematica per lui importante, come per esempio sostenere ogni paziente nell’impegnarsi a definire e sostenere un Obiettivo Piacevole.
  • Motivazione Intrinseca: si stimolano attività importanti per l’utente stesso, considerate come significative per migliorarsi.

Il ruolo del gruppo e le parole chiave dell’interazione gruppale nell’approccio INTE.G.R.O.

L’approccio gruppale ruota attorno ad alcuni concetti chiave:

  • apprendimento collaborativo: viene spesso utilizzata la metodologia di divisione in gruppi per migliorare reciprocamente l’apprendimento. In questo ambito risulta particolarmente importante il ruolo del moderatore, il cui compito è proprio quello di dare un contenimento ai più loquaci e stimolare il dialogo dei più taciturni
  • apprendimento attivo: si tratta di un concetto ‘learner-centered’, ovvero centrato su colui che deve apprendere. Fondamentale è il sollecitamento dell’impegno fra una sessione e l’altra a perseguire i propri obiettivi piacevoli. Un altro principio molto utile è quello della negoziazione, che subentra nel momento in cui uno dei partecipanti non riesce a perseguire uno degli obiettivi che si era prefissato
  • apprendimento fra pari: in termini psicoeducativi, l’avere un sentimento di comunanza con l’altro o anche immaginare di avere qualcosa da condividere con un’altra persona, le stesse problematiche, obiettivi od esperienze, rendono la persona un interlocutore più credibile
  • modellamento: concetto molto diffuso nei contesti cognitivo-comportamentali, ovvero la facilitazione dell’apprendimento per effetto imitativo, in caso di un successo di uno dei partecipanti, o riparativo, in caso di errori di uno di essi
  • mutualità: si tratta di fattori che possono migliorare l’outcome di un disturbo, spesso in secondo piano rispetto ai sintomi, come la condivisione e la valorizzazione. La condivisione di un’esperienza giova sia a colui che viene aiutato sia a colui che aiuta, rafforzando quel benessere che a sua volta aiuta a migliorare la persona meno abile. Risulta altresì importante il concetto di valorizzazione, che si esplica ad esempio nel dare importanza al senso di speranza di un utente che sta riuscendo nel perseguimento dei propri obiettivi.

Il ruolo dei conduttori nel gruppo

L’intervento necessita di un conduttore coadiuvato da un co-conduttore, potenzialmente interscambiabili se hanno lo stesso livello di formazione. Il conduttore svolge il ruolo di moderatore o facilitatore, incoraggiando, per esempio, a parlare chi tende a non farlo o a limitare i discorsi dei più loquaci, monitorando il clima emotivo durante le sessioni.

Il co-conduttore affianca il conduttore in modo attivo, scrivendo sulla lavagna i passaggi più importanti da evidenziare. Lo stile di conduzione del gruppo dovrebbe sempre tenere presenti alcune regole fondamentali, come il saper parlare in modo semplice e chiaro, saper ascoltare, utilizzare la partecipazione attiva e la comunicazione efficace positiva, cercando di attenersi sempre alla tematica dell’incontro e alla pertinenza degli argomenti trattati.

Definizione degli obiettivi piacevoli

Il conduttore deve tenere presente che un Obiettivo risulta ben definito se risponde ai requisiti dell’acronimo SMART:

  • Stimolante e specifico: l’obiettivo non deve essere troppo semplice da raggiungere
  • Misurabile
  • Autostima: la scelta di un obiettivo, specialmente all’inizio del percorso, costituisce anche un esercizio, di conseguenza si dovrebbero identificare obiettivi piccoli, stimolanti e non troppo difficili da raggiungere
  • Realistico
  • Temporalizzato: l’obiettivo deve avere un inizio e un termine temporale di raggiungimento

Conclusioni

Tale tipo di intervento risulta essere pertanto un percorso psicoeducativo strutturato per sostenere il percorso di recovery delle persone con Disturbo Mentale, che si coniuga in maniera efficace con altri interventi come il Social Skills Training, interventi psicoterapeutici di gruppo come l’IPT o la Cognitve Remediation.

Esso può essere strutturato in un contesto residenziale, ambulatoriale e, con ovvie differenti modalità di esecuzione, in contesto di acuzie psichiatrica (Vendittelli, 2015). Tale approccio risulta essere ormai di comprovata efficacia in tutte le categorie diagnostiche psichiatriche, specialmente in riferimento ai disturbi dell’umore e ai disturbi dello spettro della schizofrenia, in merito ai quali si è concentrata la maggior parte dei lavori presenti in letteratura.

 

Le interazioni online mediatrici della vulnerabilità narcisistica e del phubbing

Grieve e colleghi (2021) hanno svolto un esperimento per comprendere se il phubbing, e quindi una dinamica relazionale virtuale e l’utilizzo di social media, permetta ai narcisisti vulnerabili di massimizzare i loro aspetti positivi, utili a mascherare i dubbi su di sé e la vergogna provata in determinate contingenze.

 

Introduzione

Esistono innumerevoli studi in letteratura sul narcisismo e sulla ‘triade oscura’ dell’approccio categoriale, disturbi di personalità visti come aventi tratti socialmente avversi che esistono sia clinicamente che subclinicamente (Furnham et al., 2013, come citato in  Grieve et al., 2021). Oltre alle credenze sul sentirsi speciale, il narcisismo presenta un pattern percettivo legato al tema della superiorità ed è un disturbo osservabile attraverso due sottocategorie: il narcisista grandioso, pensato come persona che presenta senso di grandiosità e alta stima nei propri confronti, e quello vulnerabile, labile, maggiormente imprevedibile per la necessità di validazioni e approvazione da parte di terzi, nonché ipersensibile e che vive un’elevata affettività negativa (Grieve et al., 2021). Un fenomeno recente, chiamato phubbing (contrazione di ‘phone snuffing’, letteralmente ‘telefono’ e ‘snobbare’), indica la tendenza ad ignorare le situazioni sociali o la persona con cui si sta interloquendo per interagire con il telefono o altri dispositivi elettronici, consultandoli in modo più o meno compulsivo (Al-Saggaf & O’Donnell, 2019).

Uno studio su phubbing e narcisismo vulnerabile

Grieve, Lang e March (2021) hanno osservato come i narcisisti vulnerabili siano maggiormente inclini a prediligere il phubbing rispetto ai dialoghi vis à vis, rinforzati dal bisogno di creare una grande autostima attraverso la sponsorizzazione della loro concezione identitaria sui social network e attraverso interazioni massicce con persone lontane. Nel 2020, Schlosser (come citato in Grieve et al., 2020) ha suggerito come le interazioni online siano maggiormente controllabili e asincrone rispetto all’interazione buona alla prima, dove viene presentato un biglietto da visita di sé immediato e dove non viene curata la propria figura attraverso la messaggistica.

Grieve e colleghi (2021) hanno svolto un esperimento per comprendere se una dinamica relazionale virtuale e l’utilizzo di social media permetta ai narcisisti vulnerabili di massimizzare i loro aspetti positivi, solitamente utili a mascherare i dubbi su di sé e la vergogna provata in determinate contingenze. Le ipotesi formulate mirano a comprendere se esista una correlazione positiva tra il sottotipo vulnerabile e il phubbing e, in caso, se esistano dei meccanismi di azione nella relazione tra questi ultimi attraverso una preferenza per le interazioni online, viste come potenziali mediatrici. Gli autori includono le raccomandazioni inserite nell’articolo di Furnham e colleghi (2013), cioè di considerare gli altri tratti della ‘triade oscura’ (narcisismo grandioso, psicopatia e machiavellismo) e l’ansia sociale (associata al prediligere conversazioni telematiche) come covariate (Grieve et al., 2020). È stato selezionato un campione di 402 soggetti, 300 femmine e 100 maschi circa: la maggior parte del campione possiede un iPhone (65,4%) e non un Android (32,6%), mentre il social predominante è Facebook (91%), a seguire Instagram (73,1%) e infine Snapchat (70,1%). Grieve, Lang e March hanno validato una scala, composta da sette domande, utile a misurare i livelli di phubbing e hanno somministrato 12 domande operazionalizzate del Pathological Narcissism Inventory (Pincus et al., 2009) per valutare la vulnerabilità. L’SD3 è stata utile per raccogliere dati a proposito dei livelli di machiavellismo, narcisismo grandioso e psicopatia, mentre l’ansia sociale è stata misurata con tre domande della Mini-SPIN (Connor et al., 2001).

Correlazione positiva tra phubbing e narcisismo vulnerabile

I risultati confermano le ipotesi formulate, in quanto l’utilizzo dei social media sembra mediare una correlazione positiva tra phubbing e narcisismo vulnerabile. Costruire una relazione interpersonale telematica facilita il controllo dell’auto-presentazione, forse come prodotto di una bassa autoefficacia sociale e di una maggiore ansia sperimentata durante le interazioni faccia a faccia: in molti soggetti tale preferenza può provocare un comportamento di controllo del telefono e di dipendenza inappropriato. È importante sottolineare che anche l’effetto di mediazione dei social media è stato solo parziale; dunque, esiste una relazione diretta e significativa che vede il phubbing come comportamento predittivo del narcisismo vulnerabile (Miller et al., 2011, come citato in Grieve et al., 2021). Questi dati sono utili non solo per comprendere nel dettaglio una sottocategoria di personalità, bensì anche per orientare ricerche future su una maggiore conoscenza dei comportamenti e delle modalità di interazione applicati in rete (Grieve et al., 2021).

 

Prioni e malattie neurodegenerative: una panoramica d’insieme

Con il nome di prioni si indicano proteine infettanti capaci di autoduplicazione, responsabili di gravi malattie.

 

La scoperta dei prioni

I prioni furono studiati a partire dal 1982 da Stanley Prusiner (Università di San Francisco), tantoché al ricercatore è stato assegnato il premio Nobel per la medicina (1997).

In modo particolare, i prioni furono individuati nel 1982 come agenti della scrapie, malattia che colpisce il sistema nervoso delle pecore.

Nel 1987 un’altra patologia con caratteristiche simili (encefalopatia spongiforme o BSE) colpì i bovini in Inghilterra. Il nome della patologia è dovuto a estese bolle nel tessuto cerebrale, che lo rende simile ad una spugna.

Il termine prione è stato definito dallo stesso Prusiner che li identifica come ‘forme varianti patologiche di proteine normali’.

Queste proteine, come tutte le altre, possono assumere conformazioni tridimensionali variabili.

La caratteristica madre dei prioni consiste nel fatto che, in una forma si comportano da proteine normali e in un’altra diventano patogene stimolando una reazione a catena.

Fanno parte delle Encefalopatie spongiformi umane il kuru, il morbo di Creutzfeld-Jakob (CJD) e il morbo di Gerstmann-Straussler.

Tutte queste malattie sono caratterizzate dall’accumulo (anomalo) di una proteina prionica nel sistema nervoso centrale, in assenza di una costante risposta immunologica specifica.

In modo specifico vi è la conversione di glicoproteine normali in particelle proteiche infettanti.

La CJD è stata trasmessa all’uomo dall’ingestione di carne bovina non accuratamente cotta contaminata da prioni. I sintomi sono rappresentati da incapacità di mantenere la posizione eretta, tremori persistenti, movimenti scoordinati, demenza. Il morbo di Creutzfeld-Jakob rappresenta la forma più frequente (circa l’85%) delle malattie da prioni.

Le altre forme derivano da fattori genetici come la CJD ereditaria, l’insonnia letale familiare e la malattia familiare da prioni Alzheimer-simile.

Classificazione delle malattie da prioni

Le malattie da prioni sono classificate in:

  • Sporadiche: quando insorgono spontaneamente, senza una causa specifica
  • Famigliari: quando compaiono all’interno di soggetti della stessa famiglia e sono causate da malattie genetiche
  • Acquisite: quando insorgono in seguito ad infezione con prioni provenienti da altri organismi

Tra le forme rare di malattie da prioni troviamo:

  • Malattia di Creutzfeldt-Jakob sporadica (sCJD)
  • Insonnia fatale sporadica
  • prionopatia variabilmente sensibile alle proteasi

Diagnosi delle malattie da prioni

La diagnosi viene formulata attraverso vari esami come:

  • Elettroencefalogramma, per valutare la presenza di anomalie
  • Risonanza magnetica, per annotare eventuali alterazioni strutturali del cervello
  • Analisi del liquido cefalorachidiano per individuare marcatori molecolari specifici

Recentemente è stato sviluppato l’RT-QuIC (real-time quaking-induced conversion), per identificare piccolissime quantità della proteina prionica tramite l’analisi dei campioni del liquido cerebrospinale o della mucosa olfattiva.

Ad oggi esistono varie associazioni a sostegno dei pazienti affetti da queste patologie, tra cui:

  • Associazione Italiana per Encefalopatie da Prioni-ONLUS (A.I.En.P)
  • Associazione Familiari Insonnia Familiare Fatale (AFIFF)
  • CJD International Support Alliance (CJDISA)

 

Il cuore di un uomo (2022) di Luca Serafini – Recensione

Va dato merito a Luca Serafini per aver portato a conoscenza dei lettori italiani la storia di René Favaloro con il suo libro Il cuore di un uomo.

 

La sua vicenda umana è davvero sensazionale ma sostanzialmente sconosciuta nel nostro paese, nonostante, come avviene spesso per gli argentini, la sua famiglia fosse di origine italiana. I suoi nonni emigrarono alla fine dell’Ottocento dalle isole Eolie e lui venne in Italia, un anno prima della morte, proprio per ritirare la cittadinanza onoraria di Salina. Aveva espresso rammarico per aver ricevuto onorificenze da tutto il mondo, eccetto che dal paese d’origine della sua famiglia. La sua storia merita di essere conosciuta: non si tratta solo di un grande medico, ma di un grande uomo, la cui vita è stata avvincente e il libro la racconta con il fascino e la cifra stilistica di un romanzo.

La vita di Favaloro può essere suddivisa in tre grandi capitoli. Il primo si svolge nel cuore della Pampa, nel piccolo borgo di Jacinto Arauz, dove, avversario del peronismo, è costretto a trasferirsi nel 1950 dopo la laurea su invito di uno zio. Qui muove i primi passi da medico rurale, vi resta 12 anni e si fa conoscere per aver dato vita a una struttura sanitaria di eccellenza, nonostante i pochi mezzi a disposizione. La seconda tappa si svolge negli Stati Uniti, dove si trasferisce per lavorare in strutture all’avanguardia. A Cleveland nel 1967 esegue a 44 anni il primo bypass aorto-coronarico al mondo, seguendo una propria intuizione e rivoluzionando la cardiochirurgia. Ad oggi sono stati eseguiti ben 40 milioni di bypass, divenuto l’intervento più efficace e diffuso per contrastare alcune patologie cardiache. Ma, all’apice del successo, rinuncia a offerte milionarie e decide di tornare in Argentina, in un momento di grave crisi politica ed economica del suo paese, per creare una struttura sanitaria di eccellenza da mettere a disposizione della popolazione meno agiata. Nasce la Fondazione che porta il suo nome, diventata sia una struttura universitaria che un centro clinico.

Il finale è tragico: Favaloro si è suicidato nel 2000. La sua Fondazione, nonostante la gran mole di lavoro, non godeva dell’appoggio governativo (siamo ai tempi della dittatura di Videla), gli venivano negati o ritardati i finanziamenti, aveva debiti e si sentiva isolato, abbandonato da tanti amici. La Fondazione è tuttora attiva, diretta dai nipoti. Solo dopo la sua morte il governo argentino ne riconoscerà la funzione sociale e vi è stato nel suo paese il legittimo riconoscimento del suo impegno civile, oltre che l’apprezzamento per il medico, condiviso in tutto il mondo. Nel febbraio 2020 il governo e la banca centrale propongono di coniare una banconota da 2000 pesos con la sua effige, ma gli eredi negano l’autorizzazione: ‘Avreste dovuto aiutarlo quando era vivo. Non sosterremo questa iniziativa e non parteciperemo alla sua diffusione’.

Serafini, nato a Milano nel 1961, noto al grosso pubblico innanzitutto per la sua attività di giornalista sportivo televisivo (segue da anni una delle due grandi squadre di calcio di Milano, quella per cui non tifo io, per chi mi conosce…) è un intellettuale a tutto tondo. Non è solo competente di calcio e di sport, scrive su diverse testate nazionali e questa non è la sua prima prova di romanziere. Già in passato, con Lady Stalker era andato a scovare, quella volta in Scozia, storie di vita straordinarie e poco note per ricavarne romanzi. Il libro è frutto di anni di ricerche e di un’attenta documentazione. Serafini si è più volte recato in Argentina per conoscere gli eredi di Favaloro e la clinica da lui creata.

Nel presentare il volume, Serafini scrive: ‘trovo aberrante il suicidio, dove paura e coraggio si rafforzano a vicenda, ma trovo ancora più aberrante giudicare la disperazione altrui’.

La sua lettura è consigliata per conoscere la vicenda di un grande medico, uno straordinario innovatore in campo scientifico, ma anche un sognatore e un uomo guidato sempre dalla passione civile, che ha salvato  migliaia di persone, ma morto a causa dell’isolamento sociale subito nel suo paese. Le vicende narrate nel libro sono certamente fuori dal comune, inoltre la scrittura di Serafini ha la capacità di appassionare il lettore, facendo rivivere persone, paesaggi, epoche. A partire dall’infanzia e proseguendo con la vita del medico di campagna, le sue aspirazioni, i sacrifici, le intuizioni cliniche, l’ambientamento all’estero, le soddisfazioni nel salvare vite, i progetti, le vicende private e sentimentali, le delusioni, per giungere alle lettere d’addio, tutto è raccontato con partecipazione e rispetto, oltre che con dovizie di particolari. Particolarmente intensi i dialoghi ricostruiti da Serafini che hanno il potere di unire vita e letteratura.

Il libro è stato insignito del premio Zanibelli-Sanofi 2020 dedicato alla letteratura scientifica.

 

Il disturbo schizo-ossessivo

Il disturbo schizo-ossessivo è caratterizzato da criteri diagnostici che includono una presenza significativa di sintomi ossessivi e sintomi psicotici positivi, negativi e cognitivi.

 

L’1% della popolazione generale è affetta da schizofrenia, mentre il 2-3% presenta un disturbo ossessivo-compulsivo (Scotti-Muzzi & Saide, 2016). Mentre il primo è un disturbo psicotico, nel DSM IV (APA, 1994) il disturbo ossessivo-compulsivo era inserito all’interno della categoria dei disturbi ansiosi.

Scotti-Muzzi e Saide (2016) hanno proposto un articolo di aggiornamento sul disturbo dello spettro schizo-ossessivo, con il fine di indagare una nuova prospettiva sui marcatori endofenotipici, utile a comprendere il substrato dei disturbi menzionati e le sue relazioni.

Che cos’è il disturbo schizo-ossessivo

Per quanto riguarda l’epidemiologia, i ricercatori hanno trovato in letteratura uno studio longitudinale svolto su un campione contenuto in un registro di tre milioni di persone seguite per 17 anni: dei 30.556 pazienti con un disturbo dello spettro schizofrenico, a 700 (2.29%) di essi è stato formulato il DOC come prima diagnosi. Alcuni studi contemporanei (Fenton & McGlashan, 1986, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016) documentano una frequente comorbilità tra sintomi ossessivi e schizofrenia: nello specifico, il 25% delle persone che hanno una diagnosi formulata di disturbo psicotico presentano una comorbilità con i sintomi ossessivi, tali sintomi vengono presentati nel 17% dei casi durante il primo episodio psicotico, mentre il 12% presenta una comorbilità con il DOC vero e proprio (Schirmbeck & Zink, 2013). Nel 1994, lo stesso anno in cui fu pubblicata la quarta edizione del DSM, fu coniato il termine ‘schizo-ossessività’ da Hwang e Opler (1994). Poyurovsky e Koran (2005) hanno esaminato i disturbi dello spettro ossessivo-schizofrenico, includendo il DOC, DOC con scarso insight, DOC in comorbilità con il disturbo schizotipico, DOC e schizofrenia e schizofrenia pura (Scotti-Muzzi & Saide, 2016). La visione di questi due disturbi è stata corroborata nell’ultima edizione del DSM (APA, 2013), dove viene riconosciuta l’esistenza del cosiddetto disturbo dello spettro schizofrenico (Phillips et al., 2010, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016). Poyurovsky e colleghi (2005) hanno proposto così l’esistenza di una nuova e presunta entità clinica, chiamata disturbo schizo-ossessivo, stabilendo un insieme provvisorio di criteri diagnostici che includono una presenza significativa di sintomi ossessivi e sintomi psicotici positivi, negativi e cognitivi (Scotti-Muzzi & Saide, 2016). I criteri diagnostici ipotizzati sono i sintomi del DOC riportati nel criterio A del DSM 5 (APA, 2013), dove il contenuto delle ossessioni e delle compulsioni è correlato a deliri e allucinazioni (ad esempio, lavarsi compulsivamente le mani in risposta ad allucinazioni uditive) e dove i sintomi ossessivi sono presenti per un tempo sostanziale nella fase prodromica, attiva e/o residua della schizofrenia (Poyurovsky et al., 2012). Inoltre, le ossessioni e le compulsioni sono presenti per almeno un’ora al giorno e causano stress e invalidazioni quotidiane alla persona che le sperimenta (Scotti-Muzzi & Saide, 2016).

Dal punto di vista fenomenologico, i deliri e le ossessioni presentano delle caratteristiche distintive, come l’egodistonia e la presenza dell’insight nel DOC, utile a riconoscere le ossessioni e le compulsioni come eccessive in alcuni casi. Nonostante non sia presente il sottogruppo schizo-ossessivo nella nomenclatura esistente, tale sottotipo viene integrato da parte di un grosso gruppo di ricerca (Tumkaya et al., 2009; Catapano et al., 2013, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016) lungo un continuum tra ossessioni e deliri, grazie alla specifica ‘con scarso insight’. A favore di questa ipotesi, nella clinica si osservano pazienti con DOC in comorbidità con il disturbo schizotipico di personalità, persone con un andamento maggiormente deteriorato, con insight scarso e con più sintomi negativi e resistenza al trattamento (Scotti-Muzzi & Saide, 2016).

Le basi neurobiologiche del disturbo schizo-ossessivo

I substrati neurobiologici di questi due disturbi sono relativi al neurosviluppo: in letteratura sono state identificate delle anomalie fronto striatali, nello specifico nel talamo e nell’amigdala (Cummings, 1993). Per l’appunto, le connessioni dissociate nella corteccia prefrontale e orbitofrontale sono state osservate in entrambe le condizioni, dove la serotonina gioca un ruolo centrale. A differenza del DOC, recenti studi fMRI mostrano come vi sia una ridotta connettività funzionale dell’intero cervello guidata da alcune aree prefrontali, come il giro frontale inferiore sinistro (IFG) nei pazienti schizofrenici (Li et al., 2010, come citato in Scotti-Muzzi & Saide, 2016), che porta ad un’organizzazione disturbata delle funzioni cerebrali durante i processi linguistici.

Sono stati svolti degli studi per comprendere se ci fosse un substrato genetico comune tra DOC e schizofrenia: numerosi studi evidenziano come diversi polimorfismi, come il Val66Met associato a sintomi ossessivi nella schizofrenia o polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) coinvolti nella trasmissione glutammatergica implicata nel DOC, possano conferire una suscettibilità ai pazienti schizofrenici durante il trattamento con Clozapina (Hashim et al., 2012; Arnold et al., 2006, come citato in Scotti-Muzzi e Saide, 2016)

Ci sono prove sufficienti che dimostrano la rilevanza clinica di potenziare i disturbi dello spettro schizo-ossessivo. Tuttavia, si sa ancora poco sulla genetica, sugli aspetti neurocognitivi così come sulle strategie di trattamento farmacologico che possono rivelarsi efficaci. Allen e colleghi (2009) hanno trovato in letteratura degli endofenotipi correlati alla schizofrenia, dove i marcatori più forti includevano il volume ventricolare, il volume del piano temporale, il volume del giro temporale superiore, alterazioni di P50, P300 e P400 negli ERP e deviazioni neuromotorie. Per quanto riguarda il DOC, la fMRI e le prestazioni comportamentali suggeriscono marcatori come flessibilità cognitiva, processo decisionale, inibizione motoria, comportamenti ripetitivi, scarsa risoluzione dei conflitti e deficit nella risposta. Per le ricerche future, gli autori ipotizzano come i marcatori endofenotipici siano uno strumento promettente per comprendere meglio il substrato dello spettro schizo-ossessivo, nonché per convalidarne una potenziale esistenza (Scotti-Muzzi & Saide, 2016).

 

Gratitudine e Neuroscienze: come cambia il nostro cervello quando alleniamo la gratitudine

La gratitudine è un’emozione complessa che consiste nella capacità di riconoscere le cose buone nel mondo e nella propria vita, anche al di fuori di sé stessi  (Emmons, R. A., & Mishra, A. 2011). 

 

La gratitudine è una delle ‘emozioni empatiche’ che affondano le loro radici nella capacità di entrare in empatia con gli altri e ha un tema relazionale centrale, che sta nel riconoscimento o l’apprezzamento di un dono altruistico (Lazarus e Lazarus, 1994) che, se praticato con costanza, può rendere la nostra vita più serena nel rapporto individuale e relazionale (Emmons, R. A., & Mccullough, M. E., 2003) e sviluppare benefici emotivi e cognitivi in grado di migliorare l’approccio quotidiano alla vita. È stato dimostrato che la gratitudine può nascere da un gesto di gratificazione o un dono altruistico spontanei e disinteressati e dalla soddisfazione di bisogni fondamentali per chi li riceve (Tesser et al., 1968). È associata a benefici per il benessere soggettivo (Emmons e McCullough, 2003; Froh et al., 2008), all’aumento della resilienza al trauma (Kashdan et al., 2006) e a benefici per le relazioni sociali (Algoe et al., 2008). Inoltre i soggetti che dimostrano maggiore gratitudine sono anche quelli che mostrano un maggiore benessere psicologico (Wood et al., 2008a).

Il legame tra gratitudine e benessere

In uno dei suoi studi più famosi dal titolo Why gratitude enhances well-being: What we know, what we need to know, Emmons individua le possibili relazioni tra benessere e gratitudine:

  • migliora l’adattamento allo stress e la crescita personale: riflettere sulle circostanze della propria vita per chi è grato è un modo più efficace per affrontare eventi di vita stressanti, sia acuti che cronici.
  • Riduce le emozioni tossiche derivanti dal confronto sociale: una persona grata per la sua qualità della vita avrà meno possibilità di incorrere in invidie sociali derivanti dall’osservazione di condizioni sociali più vantaggiose della sua.
  • Riduce le aspirazioni materialistiche: gratitudine e materialismo sono due spinte motivazionali opposte. La gratitudine può aiutare il benessere motivando le persone a soddisfare i bisogni fondamentali di crescita personale, relazioni e comunità. Finalità, queste, incompatibili con fini materiali.
  • La gratitudine migliora l’autostima: è un potente alleato della felicità e ricevere riconoscimenti dalle persone alle quali si mostra gratitudine è un viatico per migliorare l’autostima personale.
  • Favorisce il recupero di ricordi positivi: la gratitudine si prova maggiormente facendo riferimento ad eventi che stimolano emozioni piacevoli.
  • Aumenta le nostre risorse sociali: il nostro pensiero formula intenzioni positive verso l’altro e ci predispone alla relazionalità.
  • Motiva il comportamento morale: favorisce comportamenti prosociali che intensificano la nostra attività positiva nella società. Un buon comportamento verso l’altro si traduce in un buon insegnamento.
  • Favorisce il raggiungimento degli obiettivi: un approccio più positivo alla vita può favorire comportamenti più determinati al raggiungimento dei propri desideri.

Gli effetti della gratitudine a livello cerebrale

Ma questi benefici hanno conseguenze sul nostro cervello? La gratitudine può essere la chiave della felicità? Le neuroscienze hanno approfondito in questi anni di ricerca gli effetti positivi a livello neuronale per chi allena la gratitudine, evidenziando reali cambiamenti sinaptici nel nostro cervello ed i loro correlati neurobiologici. Attraverso l’utilizzo di esami strumentali di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI) i ricercatori Fox, Kaplan e Damasio pubblicarono uno studio nel 2015, con lo scopo di sollecitare l’emozione complessa della gratitudine attraverso le regioni cerebrali coinvolte nella cognizione morale, nel giudizio, nell’emozione positiva e nella Teoria della Mente. Nell’indagine i ricercatori si concentrarono sulla gratitudine che nasce dal ricevere un ‘dono’, che interessa un donatore e chi lo riceve;  Il termine ‘dono’, di tipo altruistico, si riferisce sia ai doni materiali, come cibo o vestiti, sia ai doni immateriali sotto forma di aiuto o supporto psicologico, identificando la gratitudine come un riconoscimento sociale.

Vennero somministrate storie tratte dall’Olocausto, presenti nell’archivio di storia visiva della USC Shoah Foundation. L’archivio è ad oggi composto da oltre 50.000 testimonianze videoregistrate di sopravvissuti tra le quali troviamo racconti di persone salvate o aiutate da altri attraverso cibo, riparo o vestiti. In queste storie, i sopravvissuti spesso riportano forti sentimenti di gratitudine. Infatti ai soggetti veniva chiesto di immedesimarsi nel periodo storico in oggetto e di immaginare di ricevere doni altruistici da estranei che si trovavano con loro in quel particolare momento storico. Per ogni regalo ricevuto dovevano descrivere quanto si sentivano grati.

I partecipanti hanno valutato la loro gratitudine per ogni regalo su una scala da 1 a 4. La media dei voti di gratitudine dei partecipanti era 2,62. I partecipanti a fine esperimento rivelarono che si erano sentiti coinvolti, con un aumento della loro empatia e una maggiore comprensione per i fatti riguardanti l’Olocausto.

Ai fini della ricerca i risultati confermarono le ipotesi iniziali: le aree cerebrali maggiormente coinvolte nell’esperienza della gratitudine risultarono essere la corteccia cingolata anteriore e la corteccia prefrontale mediale.

Gli effetti della gratitudine sulle aree frontali

Ma quali sono gli effetti sulle aree frontali cerebrali? Partendo ormai dall’evidenza della presenza di una relazione tra scambio di doni e gratitudine, uno studio di Balconi del 2019 mirava a indagare se e come lo scambio di doni altruistici potesse influenzare il comportamento, l’attività neurale e l’aumento e il miglioramento delle prestazioni cognitive, attraverso la percezione della cooperazione. L’esperimento consisteva in un’attività di cooperazione tra due soggetti nell’atto di scambiarsi un dono, utilizzando dell’iperscansione basata su EEG, che consente di ottenere una migliore risoluzione temporale e di registrare le interazioni dei due soggetti momento per momento .

I risultati hanno rivelato che lo scambio aveva effetti positivi sulle risposte comportamentali, con il coinvolgimento di una specifica rete neurale che recluta le aree frontali: la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC). Effetti riscontrabili sia per il donatore che per il ricevente. Per l’indagine l’empatia si è rivelata fondamentale per l’interazione sociale e il meccanismo alla base viene spiegato dalla relazione tra i due soggetti nell’attivazione automatica di rappresentazioni condivise, che comporta anche un miglioramento delle capacità cognitive. Tuttavia, si legge nello studio, oltre alle ragioni altruistiche prosociali, potrebbero essere coinvolti meccanismi egoistici, come il desiderio di ricevere attenzione (Batson, 2009). Di conseguenza, quando gli individui eseguono un comportamento prosociale (come offrire un beneficio a qualcuno), quest’ultimo può essere considerato come un mezzo strumentale per ottenere un guadagno personale. Nello specifico, anche in assenza di evidenti ricompense esterne, offrire un beneficio ad un altro individuo comporta una forma di guadagno personale che viene percepita dal benefattore come ricompensa personale e autocompiacimento (Cialdini e Kenrick, 1976; Bandura, 1977).

 

Il cervello plastico – L’ABC della plasticità cerebrale

I meccanismi principali alla base della plasticità cerebrale coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi sia la creazione di nuove sinapsi.

 

Siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo
(Eric Kandel)

Cos’è la plasticità cerebrale

Il concetto di plasticità cerebrale è un concetto decisamente ‘cool’ di questi tempi e infatti riveste un grandissimo interesse, non solo tra i neuroscienziati, ma anche tra i curiosi di scienza. Il termine deriva dal greco plastos che significa plasmato/modellato.

La plasticità neurale si riferisce alla incredibile ed intrinseca capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che funzionale, in funzione dell’esperienza, al fine di apprendere informazioni sull’ambiente oppure, nel caso di danni cerebrali, per ripararli.

Eric Kandel, uno dei padri delle neuroscienze moderne, afferma: siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo. A dire che, se il nostro cervello non disponesse di questa speciale proprietà nel corso dello sviluppo, il nostro comportamento sarebbe rigido e stereotipato, non saremmo in grado di apprendere e diventeremmo esseri senza memoria.

Tale capacità è una componente chiave nei processi di sviluppo cerebrale durante l’età evolutiva, ma entra anche in gioco in risposta a cambiamenti fisiologici come l’invecchiamento oppure nei casi di patologie neurologiche e/o danni cerebrali (per es. demenze, tumori cerebrali e ictus).

I meccanismi principali alla base della plasticità coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi (ovvero i collegamenti tra i neuroni) sia la creazione di nuove sinapsi, attraverso un processo che viene definito plasticità sinaptica. L’esperienza esterna genera un cambiamento dell’attività elettrica (=nervosa) cerebrale che, a sua volta, modifica l’efficacia della trasmissione sinaptica, promuovendone un potenziamento o una riduzione. In quasi ogni struttura cerebrale, una coppia o un gruppo di neuroni possono rafforzare le loro interconnessioni quando sono attivi ripetutamente nello stesso momento, ovvero in maniera sincrona. Questo principio è noto anche come la legge di Hebb (1949), uno psicologo canadese che negli anni Quaranta del secolo scorso formulò il primo modello formale dei meccanismi dell’apprendimento.

In questo modo si determina, in risposta all’esperienza, la modificazione della funzionalità di un circuito neurale. Alcune modifiche sono rapide, transitorie e reversibili (modifiche a breve termine) e servono per ottimizzare le risposte comportamentali. Si pensi a quando è necessario ricordare un’informazione per svolgere un’attività nell’immediato: per esempio ricordare un numero di telefono implica recuperare l’informazione dal magazzino della memoria e ‘trasportarla’ per qualche istante nel magazzino della memoria di lavoro, dal quale sparirà appena non sarà più necessaria.

Se la modificazione dell’efficacia sinaptica risulta duratura nel tempo (modifiche a lungo termine), ne consegue un cambiamento duraturo a livello anatomico e funzionale dei circuiti stessi.

Il primo a parlare di plasticità fu però lo psicologo inglese William James, che, partendo dallo studio del comportamento umano, nella sua opera The Principles of Psychology (1890), descrisse il concetto di plasticità come la base del processo di apprendimento. Uno dei padri delle neuroscienze moderne Ramòn y Cayal (1892), già noto per i suoi contributi scientifici nello studio delle cellule nervose, pose invece l’accento sulla dinamicità dell’architettura corticale.

Negli anni altri importanti fisiologi e neurologi si occuparono di plasticità arricchendone il significato, ma bisogna aspettare fino agli anni ’50-60 del secolo scorso per passare da una fase di teorizzazioni a quella sperimentale vera e propria.

Plasticità cerebrale e influenze ambientali

Un concetto fondamentale connesso alla neuroplasticità, emerso dalle ricerche degli scienziati Hubel e Wiesel, Nobel per la medicina nel 1981, riguarda quello di periodo critico. Si tratta di una finestra temporale precisa, nel periodo di sviluppo del bambino, caratterizzata da alti livelli di plasticità cerebrale grazie alla quale l’esposizione a stimoli specifici e rilevanti per una certa funzione determina la rapida acquisizione e il raffinamento della funzione stessa. In questo periodo di tempo, l’esperienza agisce modificando attivamente la struttura e le funzioni dei circuiti nervosi in modo da renderli capaci di rappresentare il mondo esterno in maniera congrua e di rispondere agli stimoli mediante comportamenti adattivi.

Negli anni ’60 i due scienziati dimostrarono infatti che la privazione della vista durante lo sviluppo postnatale alterava in modo irreversibile la capacità di elaborare le immagini in gatti con un occhio cucito chirurgicamente, e quindi deprivato della vista, per un massimo di 3 mesi dalla nascita (Hubel and Wiesel, 1962). Il fenomeno veniva osservato anche nei bambini cresciuti con disturbi visivi, come ad esempio la cataratta congenita.

Questo dimostra che l’ambiente esterno gioca un ruolo cruciale nell’influenzare la plasticità del cervello in crescita. La neuroplasticità è infatti strettamente connessa ai processi di sviluppo del cervello nei primi anni di vita in quanto entra in gioco nell’elaborazione delle informazioni sensoriali (per es. visive, uditive, motorie) che sono alla base del meccanismo dell’apprendimento. Si pensi ad esempio ai meccanismi di discriminazione fonemica che il cervello di un neonato utilizza per sviluppare il linguaggio. Indipendentemente da dove il neonato nasce egli è in grado, attraverso un’esposizione appropriata per stimolazione e frequenza, di apprendere qualsiasi lingua e, nel caso di esposizione ad un ambiente bilingue, di apprenderne anche una seconda in modo naturale. Questa ‘facilità’ di apprendimento è un’altra dimostrazione dell’esistenza del periodo critico.

Oltre agli studi di Hubel e Wiesel, Mark R. Rosenzweig e i suoi collaboratori (Diamond et al., 1964) indagarono il ruolo dell’ambiente esterno nel modellare l’architettura corticale e nel potenziare la plasticità, introducendo un paradigma denominato ‘arricchimento ambientale’. Nei modelli animali, in particolare nei ratti, l’arricchimento ambientale consiste nell’impiego di una combinazione di stimoli animati, inanimati e sociali. Lo scopo è quello di fornire all’animale un livello maggiore di stimolazione multisensoriale, cognitiva, fisica e di favorire la massima interazione sociale.

Gli effetti benefici sul cervello dei ratti derivanti dall’arricchimento ambientale sono stati descritti a vari livelli. Qui riassumiamo solo i principali: effetti a livello molecolare (stimolazione dei livelli dei fattori neurotrofici che guidano la crescita neurale nella corteccia visiva, effetti significativi sui sistemi dei neurotrasmettitori che sono le sostanze che veicolano le informazioni tra i neuroni), a livello anatomico (aumento dello spessore corticale) e a livello comportamentale (aumento delle prestazioni di apprendimento e memoria). Adattando lo stesso paradigma sperimentale nell’uomo, si è osservato che il massaggio in neonati nati prematuramente accelera lo sviluppo cerebrale. In particolare, questa semplice azione, apparentemente del tutto insignificante, ha prodotto effetti inaspettati e sorprendenti tra cui una diminuzione del cortisolo, che è l’ormone dello stress, un aumento di peso, un aumento di produzione di fattori neurotrofici, una accelerazione dello sviluppo dell’attività elettrica del cervello, ed infine uno sviluppo precoce della visione.

Plasticità neurale in età adulta

Se prima degli anni ’90 si pensava che la riorganizzazione anatomo-funzionale del cervello fosse ristretta ai primi anni di vita, perdendo oltretutto la possibilità di far nascere nuovi neuroni, e si esaurisse definitivamente nell’età adulta, recentemente si è osservato che anche il cervello adulto, in determinate condizioni, ha la possibilità di andare incontro a modifiche molto rilevanti. Le evidenze a favore di questa nuova prospettiva sono molteplici.

In primis, oggi è noto che la rigenerazione neuronale (=neurogenesi) è presente anche nel cervello adulto, sebbene con un ritmo decisamente inferiore rispetto a quello del cervello in crescita. Questo fenomeno è stato riscontrato soprattutto nell’ippocampo, che è una struttura coinvolta nei meccanismi di apprendimento e di memoria. Famoso è l’esperimento che ha indagato la memoria visuo-spaziale nei tassisti londinesi, riscontrando una correlazione positiva tra il volume dell’ippocampo e gli anni di anzianità di servizio: i tassisti più esperti mostravano un volume ippocampale maggiore in quanto avevano memorizzato più informazioni visive e spaziali rispetto ai tassisti meno esperti (Wollett and Maguire, 2011; Confalonieri, 2011).

La seconda evidenza deriva dalla patologia e può essere riassunta in due parole: plasticità adattiva. Infatti, in seguito a lesioni cerebrali dovute ad insulti ischemici o tumori caratterizzati da una lenta crescita, anche un soggetto adulto è in grado di compensare una funzione persa oppure di massimizzare una funzione compromessa dalla malattia. Con l’impiego delle tecniche di neuroimmagine, quali la risonanza magnetica funzionale (fMRI), è stata dimostrata, nei soggetti colpiti da ictus, una riorganizzazione funzionale della corteccia motoria primaria, in cui aree motorie dell’emisfero controlaterale o aree motorie secondarie si attivano in modo da compensare la funzione compromessa (Rehme et al 2011). Tale potenzialità può essere sfruttata al meglio per favorire il recupero in seguito a danni cerebrali ed implementare programmi di riabilitazione personalizzati delle funzioni motorie e/o cognitive.

Il recupero funzionale delle funzioni danneggiate post-malattia è reso possibile da un semplice fatto: noi non smettiamo mai di apprendere. Nonostante la velocità e l’efficienza di apprendimento diminuiscano nell’età adulta e con l’invecchiamento, il nostro comportamento può essere sempre modificato dalle esperienze che viviamo. Questo fenomeno è noto come plasticità comportamentale ed è strettamente connesso all’abilità dell’individuo di essere flessibili ovvero alla capacità cognitiva di modificare strategie attentive, decisionali e comportamentali in un ambiente esterno nuovo o mutevole (Gaetano, 2018).

Plasticità e psicoterapia

Una situazione prototipica in cui entra in gioco la flessibilità cognitiva è quella della psicoterapia dove il terapeuta, con opportune tecniche cognitivo-comportamentali, favorisce nuovi apprendimenti sul piano del pensiero e delle emozioni (es. tramite la ristrutturazione cognitiva), che unitamente concorrono a modificare il comportamento. Pensiamo alla tecnica dell’esposizione graduale allo stimolo fobico per trattare un paziente affetto da fobia specifica. Avvicinarsi progressivamente allo stimolo temuto, unitamente al lavoro di ristrutturazione cognitiva fatto in seduta col terapeuta, permette al soggetto di entrare in contatto poco alla volta con lo stimolo e quindi con le emozioni e i pensieri connessi, ‘sperimentando di fatto una nuova esperienza’. Questa nuova esperienza, sul piano del comportamento, unitamente ai nuovi apprendimenti cognitivo-emotivi, rappresenta la possibilità di cambiamento mentale/psichico o di plasticità psichica, e in ultima analisi di diminuzione della sofferenza del paziente.

Le tecniche di cura come la psicoterapia infatti potenzialmente lavorano su tutti e tre i livelli di neuroplasticità, quella psichica e quella comportamentale, che sottendono la plasticità sinaptica.

In particolare per alcuni disturbi mentali, la psicoterapia può essere integrata con successo massimizzandone la sua efficacia nel lungo termine attraverso l’applicazione di tecniche innovative di neuromodulazione, quali la stimolazione magnetica transcranica (TMS).

Si stanno accumulando evidenze riguardanti sia la fattibilità che l’efficacia di protocolli di trattamento TMS per la depressione farmaco-resistente e per il disturbo d’ansia generalizzata, sebbene per ora gli studi siano ancora eterogenei in termini di parametri di stimolazione impiegati (es. frequenza di stimolazione, numero di sessioni) (Lefaucheur et al 2014, Parikh et al 2021, Fitzgerald et al. 2009).

Sulla base di queste iniziali evidenze si ipotizzava e oggi si comincia a dimostrare che, stimolando opportunamente alcune regioni cerebrali, si può agire sulla plasticità sinaptica ottenendo effetti benefici sul comportamento del soggetto (Ferro et al, 2021; Lamanna, Ferro, 2021).

Studi futuri sono necessari da una parte per dimostrare in modo rigoroso l’efficacia dell’uso combinato della psicoterapia e delle tecniche di neuromodulazione nell’ambito dei principali disturbi mentali ed emotivi e, dall’altra, per fare luce sulle enormi potenzialità di riorganizzazione funzionale del nostro cervello, partendo dai meccanismi molecolari di neuroplasticità fino ad arrivare alla loro connessione con la plasticità psichica.

 

PLASTICITÀ E PSICOTERAPIA – SCOPRI LA TMS:

 

 


Glossario in ordine alfabetico

  • Fattori neurotrofici o Brain derived neurotrophic factor, BDNF: neurotrofina che agisce su determinati neuroni del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico, contribuendo a sostenere la sopravvivenza dei neuroni già esistenti e favorendo la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni e sinapsi.
  • Memoria di lavoro o working memory: è quel particolare tipo di memoria temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni per un tempo limitato, per consentire l’utilizzo dell’informazione stessa nell’immediato.
  • Neurotrasmettitore: sostanze liberate dai neuroni a livello sinaptico che servono a inviare messaggi chimici endogeni tra i neuroni.
  • Neurogenesi: processo di rigenerazione neuronale attraverso cui vengono generati nuovi neuroni da cellule immature. E’ possibile distinguere due tipi di neurogenesi: quella durante lo sviluppo, che dà origine alle cellule nervose e gliali destinate a formare i tessuti del sistema nervoso, quella presente nell’adulto, il cui significato è legato alla plasticità funzionale di determinate aree cerebrali.
  • Risonanza magnetica funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI): tecnica non invasiva di visualizzazione del cervello in vivo in risposta a specifici stimoli (uditivo, visivo, etc) o durante un compito cognitivo (produzione parole, riconoscimento emozioni).
  • Sinapsi: è una struttura altamente specializzata che consente la comunicazione delle cellule del tessuto nervoso tra loro (neuroni) o con altre cellule (cellule muscolari, sensoriali o ghiandole endocrine).
  • Stimolazione magnetica transcranica (Transcranic Magnetic Stimulation, TMS): tecnica non invasiva di neuromodulazione che si fonda sul principio dell’induzione elettromafgnetica. Il tessuto cerebrale viene opportunamente stimolato posizionando dei magneti (bobine) in prossimità della cute.

 

“13 Reasons Why” e autolesionismo tra gli adolescenti

Uno studio molto recente (Sinyor et al., 2021) ha analizzato possibili cambiamenti nella frequenza delle visite nei reparti di emergenza per suicidio o autolesionismo da parte di adolescenti e giovani adulti nei mesi successivi al rilascio della prima stagione della serie tv Tredici.

 

Il 31 Marzo del 2017, su Netflix, è stata mandata in onda la prima stagione della serie tv 13 Reasons Why, in italiano Tredici. La serie, che includeva una lunga rappresentazione del suicidio di un’adolescente, Hannah Baker, è stata già ampiamente criticata per aver violato numerose raccomandazioni per le rappresentazioni responsabili del suicidio (Bridge et al., 2020; Niederkrotenthaler et al., 2019; Rosa et al., 2019 ; Sinyor et al., 2019). In particolare, l’episodio finale che descrive il suicidio del personaggio principale raffigura Hannah in una vasca da bagno mentre si taglia i polsi con una lama di rasoio. Questa scena ha destato una particolare preoccupazione e già diversi studi hanno analizzato la correlazione della serie con il fenomeno del suicidio che sembra aver mostrato un aumento nei giovani di circa il 15% negli Stati Uniti (Niederkrotenthaler et al., 2019) e del 18% in Canada (Sinyor et al., 2019).

Questi risultati hanno rafforzato la letteratura esistente che dimostrava che la serie tv era associata ad un aumento delle ricerche su Google ‘come suicidarsi’ (Ayers et al., 2017), e ad un peggioramento dell’umore in un adolescente su quattro dopo aver visto la serie Tredici (Rosa et al., 2019). L’argomento è stato trattato anche in un articolo precedentemente pubblicato su State of Mind.

Inoltre, un’indagine del 2019 (Hong et al., 2019) aveva addirittura mostrato che, su 87 adolescenti che si sono presentati al pronto soccorso durante una crisi suicida, circa un quarto credeva che lo spettacolo avesse aumentato il rischio di suicidio.

I risultati ottenuti in letteratura che dimostrano i possibili danni provocati sugli adolescenti a seguito della visione della serie tv risultano essere altamente suggestivi.

Oltre al focus sul suicidio, però, anche il tema dell’autolesionismo appare centrale. Un personaggio secondario della serie, Skye, ricorre all’autolesionismo descrivendolo come ‘quello che fai invece di ucciderti’ (Yorkey, 2017; episodio 13), mostrando anche egli dei tagli sul corpo.

Studi in letteratura ci dimostrano che anche le raffigurazioni di autolesionismo possono portare a comportamenti imitatori (Jarvi et al., 2013; Khasawneh et al., 2020). Dato che entrambi i personaggi di Hannah e Skye mostrano comportamenti autolesivisi, ci si potrebbe aspettare, come è accaduto per il suicidio, un’imitazione dei comportamenti autolesivi non fatali nella popolazione. Nonostante ciò, sono presenti pochi dati sulle visite in pronto soccorso per atti autolesivi a seguito del rilascio della serie Tredici.

Uno studio, ad esempio, ha riscontrato un aumento dei ricoveri per tentativi di suicidio/autolesionismo in un ospedale pediatrico negli Stati Uniti (Cooper et al., 2018) e un altro studio preliminare sulle visite nei dipartimenti d’emergenza e accettazione per autolesionismo negli Stati Uniti ha indicato un possibile aumento di tale comportamento dopo l’uscita della serie tv (Feuer & Havens, 2017).

Pochi studi però hanno esaminato l’elemento dell’autolesività rispetto a quelli che hanno analizzato il tasso di tentativi di suicidio portati a termine o meno. La relativa scarsità di studi in quest’area rappresenta un’importante lacuna nella letteratura dato che l’aumento di tali presentazioni, se osservato, rappresenterebbe esiti sanitari negativi altamente rilevanti che rafforzerebbero i precedenti risultati sui decessi per suicidio.

Data la mancanza di dati in questo campo, uno studio molto recente (Sinyor et al., 2021) ha cercato di analizzare possibili cambiamenti per quanto riguarda la frequenza delle visite nei reparti di emergenza da parte di adolescenti e giovani adulti (nello specifico, di età compresa tra 10 e 29 anni) confrontando i dati con un gruppo di adulti di mezza età (età compresa tra 30 e 45 anni) in Ontario, Canada, nei mesi successivi al rilascio della prima stagione della serie tv Tredici. In particolare, lo studio ha cercato di analizzare un possibile aumento di visite al pronto soccorso per autolesionismo, ma anche visite al pronto soccorso relative alla salute mentale e alla dipendenza e visite mediche ambulatoriali.

I risultati di questo studio hanno mostrato un aumento significativo di visite al pronto soccorso sia per autolesionismo sia per problemi di dipendenza nei tre mesi successi al rilascio della serie tv Tredici. L’aumento che si è osservato nelle visite riguarda in particolare la fascia d’età degli adolescenti e il sesso femminile.

Il fatto che gli aumenti siano stati maggiori nella fascia d’età dai 10 ai 19 anni è coerente con ciò che gli autori dello studio si aspettavano dall’effetto dell’imitazione, dato anche che il pubblico a cui era indirizzata la serie e i protagonisti stessi erano proprio gli adolescenti.

Nonostante i risultati dello studio non mostrino nessun nesso di causalità tra i due elementi, essi sono coerenti con l’idea che la serie abbia stimolato comportamenti imitativi in spettatori vulnerabili.

Sebbene quindi l’intento dei creatori della serie Tredici fosse dei migliori, ovvero lo scopo era quello di coinvolgere la popolazione generale sul tema del suicidio e della salute mentale, aiutando di conseguenza chi ne soffre, i risultati in letteratura sembrano indicare il contrario. Se la serie avesse avuto un effetto positivo sulle persone con pensieri suicidi o con malattie mentali in generale, è plausibile pensare che si sarebbe verificato un aumento delle visite ambulatoriali psichiatriche o un aumento nelle cure primarie per le dipendenze. Invece, negli Stati Uniti, per esempio, nel periodo immediatamente successivo al rilascio della prima stagione, è stato registrato un minor numero di chiamate rispetto alla media (Thompson et al., 2019).

Nel loro insieme, questi risultati suggeriscono che la visione della serie tv è associata ad un aumento dei comportamenti autolesionistici con visite al pronto soccorso, piuttosto che facilitare i contatti di cure non acute o di crisi.

In conclusione, questi risultati si aggiungono alle prove considerevoli che suggeriscono che la serie in questione ha causato danni negli adolescenti vulnerabili e sottolinea la necessità di un ulteriore impegno con i creatori e i fornitori di media di intrattenimento per diffondere le migliori pratiche per rappresentazioni sicure del suicidio (Organizzazione mondiale della sanità, 2019).

 

Gli psicologi e la guerra

Se pensiamo che l’ultima volta fu negli anni ‘90, nella ex Jugoslavia (ma in quel preciso momento storico la Russia, appena reduce dal crollo dell’URSS, non era un’antagonista e il conflitto non aveva possibilità di estendersi a potenze atomiche), intere generazioni di colleghi non hanno avuto alcun sentore di cosa fosse una guerra in casa nostra.

 

Chi, come il sottoscritto, è nato negli anni ‘60, della guerra aveva avuto sentore eccome. Genitori sfollati e scampati da piccoli ai bombardamenti della seconda guerra mondiale; nonno giovane ardito nella guerra di trincea della prima guerra mondiale. I racconti atroci di cosa fosse la guerra in casa erano comuni e frequenti. Ma anche delle sue conseguenze in termini di fame, povertà, pericolo costante. E quindi poi, conseguentemente, di disturbi alimentari, traumi inelaborati, angosce pantoclastiche, e così via.

Il disturbo post traumatico per alcune generazioni è stato comune tanto quanto lo spettro narcisistico per noi oggi. Si conviveva con esso come se nulla fosse, ma questa traumaticità è stata motivo di una trasmissione transgenerazionale del lutto e del panico le cui conseguenze, latenti e sotterranee, sono per lo più sconosciute. Non si finisce mai di curare le ferite delle guerre del passato, sembra inverosimile ma in qualche modo ce ne occupiamo ancora oggi. La guerra non produce solo morte e distruzione nel qui ed ora, ma ferite psichiche incommensurabili che si tramandano per molte generazioni.

Molte delle strategie terapeutiche che oggi applichiamo sono nate proprio durante l’ultima guerra mondiale: la comunità terapeutica e la terapia di gruppo nascono contestualmente, se pensiamo ai noti esperimenti sui gruppi svolti nell’ospedale militare di Northfield da parte di Bion e soprattutto di Foulkes (Introduzione alla psicoterapia gruppoanalitica, 1948), proprio durante i massicci bombardamenti nazisti sull’Inghilterra. Il secolo che aveva prodotto il massimo della follia di massa che provava a rispondere a tale follia scoprendo le risorse terapeutiche del piccolo gruppo. Il veleno e il rimedio, entrambi nello stesso luogo: la gruppalità umana.

Ma veniamo all’attualità. Dicevamo degli psicologi attoniti. Dopo diversi giorni dall’inizio del conflitto russo-ukraino, nei gruppi professionali social nulla sembra trapelare, nessuno ne parla, si assiste ad una inquietante negazione di ciò che accade nel mondo come se un fatto del genere non riguardasse noi e il nostro lavoro. Sempre più forte la sensazione che esista un vulnus nelle nostre formazioni privatistiche che sembra proteggerci con un velo denegativo da ciò che accade “fuori”. L’implicito culturale e formativo, sembra essere sempre quello: il nostro compito è occuparci del mondo interno dei nostri clienti-committenti paganti, tutto il resto non ci interessa. Peccato che questa topologia dentro/fuori è un semplice artificio descrittivo che nulla dice della realtà psichica degli esseri umani e che, anzi, finisce per depistare ogni nostro atto professionale in quanto lo consegna ad una scissione irreparabile.

Psicologi in azione positiva (emergenziali) e in azione negativa (custodi del pensiero)

Ma per fortuna questo panorama desolante non corrisponde ai reali interessi e alle reali occupazioni di alcuni colleghi che, per vocazione personale e per applicazione professionale si occupano da sempre di eventi come la guerra. Mi riferisco in particolare a tutti coloro che sono impegnati nel sociale e ancor più nello specifico ai colleghi psicologi dell’emergenza che svolgono servizio nelle innumerevoli frontiere nazionali e internazionali: catastrofi naturali, emergenze politiche e sociali di varia natura, comprese situazioni di guerra.

Se fortunatamente esiste un ampio settore della psicologia sociale che ha sviluppato specifiche competenze e tecniche di intervento integrate con i compiti della protezione civile (la psicologia dell’emergenza, appunto) e che risponde con immediatezza ad una richiesta di azione, occorre immaginare che l’impegno della psicologia professionale non è soltanto di natura prettamente operativa, ma anche, specularmente e altrettanto importante, di “azione negativa”, cioè di recupero del pensiero. Lo psicologo è eminentemente il professionista dell’azione negativa del pensare, colui che sa prendersi il tempo e il modo per farlo.

La guerra non si limita a distruggere vite inermi e innocenti, ma aggredisce e distrugge anche il pensiero di chi sopravvive e di chi prova a farsene una qualche minima ragione. Ecco perché risulta urgente ed emergente il bisogno di creare uno spazio-tempo che permetta alla mente di contestualizzare gli accadimenti, di capirne le cause remote e prossime, di ordinare e governare, quanto possibile, le emozioni negative, di realizzare di continuo problem setting e problem solving sia nell’immediato che nei tempi lunghi.

Pensieri del passato sulla guerra

In passato tutti i grandi autori e padri dei nostri saperi si sono confrontati con questo tema.

Nel noto carteggio Freud-Einstein (Perché la guerra, in S. Freud, Opere, 1932), Freud riteneva piuttosto ineluttabile il destino pulsionale distruttivo e autodistruttivo dell’animo umano (chiamato istinto di morte), che può essere parzialmente mitigato dalla tensione civilizzatrice dell’identificazione con l’altro. Oggi chiameremmo questo concetto in termini di empatia, a cui Freud attribuiva una funzione di civilizzazione. Quanto è centrale questa riflessione per chi abbia voglia di negoziare la pace, soprattutto laddove identificazione-empatia non coincidono affatto con il concetto di simpatia. L’empatia con l’aggressore o il nemico (non la simpatia o la compiacenza) è il primissimo passo per evitare la guerra.

Anche C.G. Jung se ne occupa, (sia in Wotan, 1936, che in Dopo la Catastrofe, 1946, in Opere Comp. Boringhieri, Torino, 1985), rileggendo le colpe del popolo tedesco come forme di regressione spirituale verso culti primitivi. W. Reich parla invece di “peste emozionale” per indicare quel processo di alienazione degli individui e delle masse che, divenuti incapaci di amare autenticamente, diventano oggetti manipolabili al servizio di nazionalismi, autoritarismi e guerre.

Nell’immediato dopoguerra, la scuola filosofica di Francoforte cercò una primissima elaborazione culturale delle derive pantoclastiche del nazifascismo provando a descrivere ed esplorare la cosiddetta “personalità autoritaria” (T. Adorno et al. La personalità autoritaria, 1950), quella tendenza umana a sottomettersi e ad ubbidire all’autoritarismo corredata da specifiche caratteristiche di etnocentrismo (nazionalismo), antisemitismo, conservatorismo, convenzionalismo, disprezzo delle differenze, del confronto democratico, delle espressioni di fragilità e tenerezza, sessismo, misoginia, facilità ad accedere a risoluzioni violente e aggressive, etc.

Con E. Fromm troviamo un tentativo di elaborazione della distruttività umana (Anatomia della distruttività umana, 1973) che prova ad integrare i saperi psicoanalitici, ma epurati della teoria dell’istinto di morte, con quelli della nascente prospettiva etologica di K. Lorenz (istintivismo) e un’esplorazione antropologica delle società con minore o maggiore tensione distruttiva. Solo la specie umana, dice Fromm, aggiunge al naturale processo aggressivo di tipo difensivo e adattativo il bisogno assoluto di controllo e quindi di distruttività.

Ma è con un autore italiano, Franco Fornari (Psicoanalisi della Guerra, 1966), che probabilmente troviamo la teoria più compiuta (e a mio parere, più convincente) sulla guerra. Fornari sostiene l’ipotesi che la guerra sia un’elaborazione paranoicale del lutto e della depressione. L’esperienza del parto e della nascita rappresentano il paradigma della estrema vicinanza delle esperienze di vita e di morte. Nella mente umana si crea fin da qui l’esperienza, definita terrificante, di un nemico interno ineludibile contro cui l’invenzione del nemico esterno da controllare e uccidere diventa automaticamente compensatoria. Nella struttura coinemica della famiglia tale scissione rende possibile l’esportazione del vissuto paranoicale nella figura del padre dispotico e autoritario che si assume come compito la protezione della coppia madre-bambino e la protezione del parto e della nascita.

Qualche pensiero sparso su Putin e le sue fragilità

Dopo aver visto attentamente la lunga intervista del regista americano Oliver Stone (2015) al presidente russo Putin (nella quale sono rintracciabili tutte le attuali conseguenze), e dopo aver sentito, a seguire, le sue recentissime dichiarazioni di guerra all’Ucraina, non ho potuto non pensare a quanto la storia si stesse, tragicamente, ripetendo nello stesso solco e con le stesse conseguenze che il patto di Versailles del 1919 ebbe a carico della Germania sconfitta e a carico della fragile psiche di Adolf Hitler che di quel trattato fece, fino alla fine dei suoi giorni, la sua oscura bandiera rivendicatrice.

Le analogie tra le due vicende, dal punto di vista psicologico, sono a mio parere piuttosto impressionanti.

In entrambi i personaggi ci troviamo di fronte a funzionari militari che all’improvviso, vuoi per una sorta di revanscismo (Hitler), vuoi per un inaspettato vuoto di potere (Putin), si sono ritrovati a rappresentare senza alcuna preparazione politica un’intera nazione in situazione di gravissima crisi economica e politica. Entrambi si sono ritrovati ad essere sia destinatari delegati sia portatori di un sentimento popolare di rivincita a seguito di condizioni di umiliazione e sconfitta. Entrambi avevano una reale umiliazione alle loro spalle: il patto di Versailles (Hitler), l’emarginazione internazionale della Russia dopo il crollo del muro di Berlino e la conseguente assimilazione delle zone d’influenza verso l’Europa e la Nato (Putin).

Proprio come i re taumaturghi e apotropaici del medioevo, un po’ santi, un po’ maghi guaritori, investiti di una identificazione mistica e religiosa con le viscere più ancestrali del loro popolo e con la sua gloriosa storia mitologica vivente, sia Hitler che Putin, hanno vissuto sulla propria carne, con la stessa virulenza paranoicale descritta da Fornari, il dolore inflitto dalla storia ai loro popoli e alla loro supposta potenza e grandezza. Entrambi sono diventati, seguendo la medesima metafora fornariana, padri tirannici e dispotici a difesa del parto mistico, in questo caso una rinascita, della loro stessa patria.

La Deutschland Über Alles (nel culto di Wotan) e la Grande Santa Madre Russia sono le rinascite che i due padri tiranni devono operare.

Due creature destinate a morire già prima di nascere.

La storia si ripete, i destini dei tiranni pure.

Il tiranno paranoico, ormai maschera di se stesso, si sente autorizzato a muovere guerra. Egli lo fa perché si sente assediato ovvero perché si sente autorizzato a capovolgere l’umiliante condizione di soggezione (il “terrificante”) che l’offesa del tradimento o del maltrattamento subito illo tempore ha prodotto.

Anche i nemici interni, di cui il tiranno si sente (ed è realmente) circondato, sono ostacoli che si frappongono tra sé e la missione mistica di restituire l’onore al popolo ferito e alla sua presunta missione nella storia.

La Russia è grande, La Russia è santa e madre, la Russia ha un’anima speciale, la Russia non può essere ridimensionata e neanche vagamente minacciata, tanto meno offesa. Questo il discorso interno grandioso del tiranno. Ed è osservando questo genere di pensieri patriottici e nazionalistici che ringrazio il cielo che qui da noi in Italia sono davvero pochi coloro che si prendono così sul serio riguardo il patriottismo…

Peccato che la Russia è una nazione che, gas a parte, ha un’economia mediocre e non eccelle a livello globale quasi in nulla. Un gigante militare con un’oligarchia economica mafiosa (capitalismo mafioso, inefficiente, destinato a perdere contro le superpotenze cinesi e occidentali), che mantiene un’alleanza con un capo militare che garantisce in cambio una apparente stabilità politica. Ma su tutto il resto, diritti sociali, diritti civili, la Russia è una nazione oggettivamente molto meno che mediocre.

Muovere guerra, nel quadro qui descritto, è un atto di enorme debolezza. Occorre capire quale sia quella specifica di Putin. In tal senso il richiamo freudiano all’identificazione empatica con la condizione pietosa dell’altro ha molto senso.

Tutte informazioni essenziali per chi si ritroverà a negoziare la pace.

Il fenomeno del Cyber sex: validazione e adattamento dell’Internet Sex Screening Test in lingua Italiana – PARTECIPA ALLA RICERCA

Scopo dello studio è quello di consentire la validazione e l’adattamento in italiano dell’Internet Sex Screening Test indicato per lo screening delle attività sessuali online e quindi del cybersex.

 

Il fenomeno del cybersex viene attualmente considerato come un uso eccessivo ed incontrollato di internet allo scopo di ottenere una gratificazione sessuale, attraverso diverse attività come la visione di materiale pornografico, la partecipazione a chat a carattere erotico, l’utilizzo di webcam o attraverso simulatori di attività sessuali in 3D (Cooper et al. 2004; Doring, 2009; Wéry et al, 2014).

Attualmente non esiste alcuna concettualizzazione del disturbo da cybersex addiction che permetta di effettuare una diagnosi clinicamente valida nonostante diversi studi rivelino che tra il 33% e il 75% della popolazione abbia utilizzato internet per scopi sessuali (Shaughnessy et al, 2011; Albright, 2008), che ci sia un aumento del 13% delle ricerche online legate al sesso (Ogas and Gaddam, 2011) e che, solo in In Italia, nel 2018, le parole chiave Xxx sono state le più ricercate (15.100.000), seconde solo ad Amazon (24.000.000) e Libero mail (20.400.000), mentre Pornhub, uno dei maggiori portali a luci rosse mondiali, ha analizzato il traffico generato dai propri server nel 2016 evidenziando che il numero dei video visti è 91.980.225.000 che, diviso gli abitanti attuali del pianeta terra, fanno appunto 12,5 video a persona (Dettore, 2018).

Lo stesso DSM-5 non riconosce la diagnosi di disturbo da dipendenza sessuale, né di dipendenza da sesso online, sebbene la masturbazione compulsiva con videopornografia online e il coinvolgimento in giochi erotici sulla rete siano spesso associati a depressione, ansia e a difficoltà relazionali e nell’intimità (Corley, 2012; Voon et al, 2014), problemi finanziari e discontinuità lavorativa, isolamento sociale (Levin et al, 2012), sentimenti di colpa e vergogna e a comorbilità psichiatriche.

Tuttavia, questa problematica presenta le stesse caratteristiche delle addiction senza sostanza già inserite all’interno del DSM-5, come il disturbo da gioco d’azzardo o disturbo da uso di internet, inseriti nelle condizioni che necessitano di maggiori ricerche, come ad esempio perdita di controllo, che si può manifestare come un desiderio persistente di ripetere il comportamento cybersessuale, oppure come un’incapacità di controllarlo o interromperlo; pensieri intrusivi correlati alle attività online e ossessione o preoccupazione costante ed eccessiva riguardo il perpetuare o l’interrompere il comportamento; eccessivo tempo quotidiano dedicato alla masturbazione o visione di contenuti sessuali online; utilizzo del cybersesso per la regolazione dei propri stati emotivi; astinenza, manifestata attraverso stati negativi quando non vi è disponibilità di mettere in atto i comportamenti; tolleranza, manifestata attraverso la necessità di maggiore tempo prima di raggiungere una gratificazione sessuale con un nuovo contenuto erotico online (Carnes, 2000; Goodman, 2008; Kafka, 2013).

Per quanto riguarda l’Italia, il dato più recente è quello fornito dall’endocrinologo Carlo Foresta (2021); si tratta di un’indagine svolta su 5000 studenti dell’età compresa tra 18 e 21 anni che frequentano l’ultimo anno degli istituti superiori del Veneto e di altre Regioni nell’ambito del progetto DiGitPro. Le nuove abitudini di vita durante il lockdown causato dall’emergenza epidemiologica COVID-19, hanno indotto una nuova abitudine nelle ragazze: più del 30% ha dichiarato di collegarsi abitualmente a siti pornografici, rispetto a solo il 15% del 2018-2019 e un aumento parallelo dell’autoerotismo. Nei ragazzi invece la frequenza di collegamento a siti pornografici era già molto evidente negli anni passati (89%). Indagini precedenti condotte dalla stessa Fondazione Foresta rivelano che su 1914 studenti, i più (il 63%) visitano i siti hot più volte a settimana, mentre l’8% afferma di frequentare siti porno almeno una volta al giorno, restandovi in media tra i 20 e i 30 minuti.

Quando la necessità di visionare materiale porno raggiunge certi livelli, a partire da quelli di chi lo fa più volte a settimana, ci sono ricadute sensibili nella vita reale: il 25,1% dei casi mostra comportamenti sessuali ‘compromessi’ e che si possono considerare vere e proprie disfunzioni (contro il 19% di quelli che ne fanno un consumo più moderato).

Data quindi la rilevanza clinica della problematica descritta, si rende necessaria la validazione di uno strumento che sia in grado di rilevare quando i comportamenti sessuali legati all’uso di internet diventano clinicamente problematici.

L’ISST (Internet Sex Screening Test) è uno dei questionari maggiormente utilizzati nello screening delle attività sessuali online. L’obiettivo del lavoro è fornire un primo contributo per l’adattamento e la validazione di questo strumento in una popolazione italiana adulta per fornire non solo un modello di valutazione, ma permettere anche un’adeguata cornice di cura.

 

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I dati verranno trattati in forma anonima e aggregata.

Il grande impostore (2021) di Susannah Cahalan – Recensione del libro

Il grande impostore è un libro che nasce da una diagnosi sbagliata. Scritto dalla giornalista Susannah Cahalan, l’autrice racconta della sua encefalite autoimmune, scambiata per un disturbo schizoaffettivo. Una diagnosi errata che ha tragicamente fatto prendere alla sua vita una direzione totalmente sbagliata.

 

I disturbi come quello che nel 2009 ha mandato ‘in fiamme’ il mio cervello vengono chiamati ‘the great pretenders’ ovvero ‘i grandi impostori’, perché collegano i mondi della medicina: i loro sintomi ‘imitano’ quelli di malattie psichiatriche quali la schizofrenia o il disturbo bipolare, ma hanno cause fisiche riconosciute, per esempio una reazione autoimmune, un’infezione o qualche altra disfunzione materialmente individuabile. I medici utilizzano termini come organico e somatico per descrivere le patologie come la mia, mentre le malattie psichiatriche sono definite inorganiche, psicologiche o funzionali.

Dalla sua errata diagnosi nasce il libro Il grande impostore, scritto dalla giornalista Susannah Cahalan. La Cahalan, infatti, era affetta da un’encefalite autoimmune che mima disturbi schizoaffettivi.

Una diagnosi errata può tragicamente far prendere alla vita una direzione totalmente sbagliata.

L’intero sistema si basa su questa distinzione, sul far rientrare la malattia in una categoria piuttosto che nell’altra, e determina il modo in cui trattiamo i pazienti che ne sono colpiti. Dunque, che cos’è la malattia mentale?

L’autrice si appassiona tanto al tema che spolvera un vecchio articolo di David Rosenhan, psicologo e docente universitario a Stanford, nonchè il protagonista del nostro libro, ovvero, David Lurie (paziente numero 5213).

Lo psicologo infatti, nel 1973 scrive l’articolo Essere sani in luoghi folli in seguito al suo esperimento.

Rosenhan, infatti, si fa ricoverare in un istituto per verificare se i medici o gli infermieri sarebbero riusciti a smascherare la verità, come lui anche altri otto tra uomini e donne sani di mente. Cosa ne esce fuori? Un articolo epocale.

Avanza l’antipsichiatria, iniziano le revisioni al DSM.

L’autrice, attraverso materiale d’archivio e decine di interviste a persone coinvolte nell’esperimento, scrive di quella missione segreta che ha cambiato la nostra idea della malattia mentale e lo fa coinvolgendoci totalmente. In qualche modo smaschera un lavoro un po’ esasperato, ma che di certo è stato utile ad evidenziare come spesso e ancora oggi alla malattia psichiatrica viene attribuita minore legittimità rispetto alla malattia fisica.

Un libro che pone lo sguardo lucido di una non addetta ai lavori, che riesce in modo obiettivo ed equilibrato a coinvolgere il lettore in una storia da leggere tutta d’un fiato.

 

Le interrelazioni tra attaccamento adulto, risoluzione dei conflitti e qualità relazionale nelle coppie

Esistono due meccanismi che spiegano in che modo lo stile di attaccamento adulto e il funzionamento delle relazioni sono legati tra loro: la selezione del partner e le abilità relazionali.

 

Introduzione

Le relazioni di coppia sono importanti fonti di sostegno emotivo e sociale, crearle e mantenerle è uno dei compiti principali dello sviluppo psicosociale dei giovani, i quali costruiscono una propria identità e migliorano le proprie competenze sociali anche grazie alle relazioni (Booth et al., 2015). Per comprendere il funzionamento delle relazioni spesso si fa riferimento alla teoria dell’attaccamento adulto: accade frequentemente che alcune interazioni conflittuali tra due partner, percepite come minacce di separazione o rifiuto, attivino comportamenti caratteristici del proprio stile di attaccamento. Una persona evitante, per esempio, dopo una situazione di conflitto è probabile che aumenti la distanza dal partner, in quanto percepisce il conflitto come una minaccia alla propria indipendenza e come una possibile forzatura ad impegnarsi in conversazioni intime (Paley et al., 1999).

Stili di attaccamento adulto nella coppia

Nel 1991, Bartholomew e Horowitz, hanno strutturato un modello di attaccamento adulto all’interno del quale sono valutati i modelli interni positivi o negativi di sé stessi e degli altri. Per ogni relazione di attaccamento sono stati presi in considerazione il grado in cui le persone temono di essere rifiutate o abbandonate dal proprio partner (ansia) e il grado in cui ciascuno si sente a proprio agio con l’intimità emotiva e la vicinanza altrui (evitamento). Da queste valutazioni sono emersi diversi stili di attaccamento adulto: gli individui sicuri, i quali hanno una visione positiva sia di sé che degli altri, e conseguenti bassa paura di abbandono e basso evitamento dell’intimità; gli individui preoccupati, che mostrano invece un’elevata ansia a causa della percezione negativa che hanno di sé, ma un basso evitamento in quanto hanno una percezione positiva altrui; le persone paurose-evitanti, che hanno una percezione negativa sia di sé che degli altri con marcati livelli di ansia ed evitamento; infine gli individui respingenti-evitanti, che hanno bassa ansia a causa della percezione positiva di sé e alto evitamento per la negativa percezione degli altri (Griffin & Bartholomew, 1994).

La letteratura mostra che esistono due meccanismi che spiegano in che modo lo stile di attaccamento e il funzionamento delle relazioni sono legati tra loro: la selezione del partner e le abilità relazionali. La prima fa riferimento alla tendenza che ciascuno di noi ha ad associarsi con persone che hanno un determinato stile di attaccamento; la seconda invece riguarda la capacità del partner di risolvere i conflitti e regolare le proprie emozioni. Diversi studi hanno dimostrato infatti che le proporzioni di ansia e di evitamento e gli stili insicuri come preoccupato, respingente o timoroso, sono associati a difficoltà nei conflitti e ostacolano il problem solving: accade spesso che le persone con livelli di evitamento elevati siano più propense a evitare o ritirarsi dai conflitti, mentre gli individui ansiosi tendono ad essere molto coinvolti nelle situazioni conflittuali (Rholes et al., 2014). L’utilizzo di strategie efficaci e costruttive nella risoluzione dei conflitti sembra essere correlato alla soddisfazione relazionale rispetto a coloro che utilizzano il ritiro o l’eccessivo coinvolgimento, alcuni studi però non mostrano risultati significativi che evidenzino un collegamento tra l’utilizzo di strategie costruttive o distruttive nella risoluzione dei conflitti e la qualità relazionale (Bretz, 2009).

Spesso però gli studi presenti in letteratura che esaminano l’influenza dell’attaccamento nella risoluzione dei conflitti e nella soddisfazione relazionale prendono in considerazione solo un membro della coppia; è possibile invece che questi fattori siano influenzati non solo dalle caratteristiche individuali, ma anche da quelle del partner. Per tale ragione ultimamente alcuni ricercatori utilizzano il modello Actor-Partner Interdipendence Model (APIM; Cook & Kenny, 2005), che tiene in considerazione l’interdipendenza delle caratteristiche dei due membri della coppia, ovvero di prevedere gli effetti che un membro può provocare sia nei propri comportamenti sia in quelli del proprio partner.

Attaccamento adulto, risoluzione dei conflitti e qualità della relazione

Una recente ricerca di González-Ortega e colleghi del 2021, si è posta come obiettivo quello di analizzare le interrelazioni tra attaccamento adulto, stile di risoluzione dei conflitti e qualità della relazione in molte coppie eterosessuali di giovani adulti. Nello specifico gli autori desideravano esaminare le correlazioni tra queste tre variabili, sia individualmente sia nella coppia; successivamente verificare se l’attaccamento adulto, lo stile di risoluzione dei conflitti, e la qualità della relazione di uno dei due membri predicessero la qualità della relazione dell’altro. Il campione oggetto di studio contava 405 giovani coppie eterosessuali, le quali hanno completato online la forma breve del questionario Experiences in Close Relationships-Revised (ECR-R; Fraley et al., 2000) per valutare l’ansia e l’attaccamento dell’evitamento; il Conflict Resolution Styles Inventory (Kurdek, 1994), per valutare lo stile di risoluzione dei conflitti e, infine, sono state poste loro quattro domande per indagare la qualità della relazione (Conger et al., 2000). I risultati ottenuti mostrano una correlazione negativa tra attaccamento evitante e qualità della relazione, maggiore rispetto all’ansia; questo accade perché talvolta gli individui evitanti percepiscono meno positivamente gli eventi quotidiani di sostegno nelle loro relazioni mentre le persone ansiose sono più inclini a trarre maggiore soddisfazione dalle relazioni quando si sentono sicure della disponibilità del loro partner (Li & Chan, 2012). Sembrerebbe però che entrambe le dimensioni di attaccamento siano dannose per la soddisfazione relazionale.

Inoltre mettono in luce che gli stili disfunzionali di risoluzione dei conflitti (eccessivo coinvolgimento e ritiro) sono dannosi per la qualità della relazione, mentre una risoluzione efficace dei problemi favorisce la soddisfazione nella coppia. Gli stili di risoluzione dei conflitti sono risultati altamente correlati sia con l’evitamento sia con l’ansia; i risultati indicano però che il coinvolgimento o l’evitamento di un conflitto di uno dei due membri non influenza la qualità della relazione. A livello diadico, la qualità della relazione è stata predetta negativamente dall’attaccamento evitante dell’attore (colui che ha risposto alle domande) e positivamente dalla qualità della relazione del partner. In conclusione è emerso che esistono interrelazioni sia a livello individuale sia diadico tra attaccamento adulto, risoluzione dei conflitti e qualità relazionale: le insicurezze dell’attaccamento fanno emergere l’uso di stili disfunzionali nei conflitti diminuendo la qualità della relazione. I risultati suggeriscono ai terapeuti di prestare attenzione all’attaccamento di entrambi i membri della coppia per valutare in che modo influenza la soddisfazione relazionale e la risoluzione dei conflitti (González-Ortega, 2021).

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il quinto episodio è dedicato alla Sottomissione

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la quinta puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite la Dott.ssa Simona Giuri. Si parlerà di Sottomissione, ovvero l’adattamento del proprio comportamento a interessi e desideri (reali o presunti) di altre persone, anche quando ciò è antitetico ai propri interessi, bisogni o desideri. Da dove nasce la tendenza ad accontentare gli altri a scapito dei nostri bisogni? Scopritelo nel quinto episodio.

Dove ascoltare il quinto episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il quinto episodio su:

 

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