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Il concetto di bisogno nella ricerca in psicologia. Terza parte: verso una teoria integrata dei bisogni fondamentali

In questo ultimo contributo si cercherà di fornire un quadro sinottico delle teorie considerate fino adesso e si daranno alcune suggestioni conclusive sulla questione dell’integrazione delle diverse teorie dei bisogni in psicologia.

Ndr – Il presente articolo è il terzo di una serie di tre contributi sull’argomento. Il primo e il secondo contributo sono stati pubblicati nelle scorse settimane

 

Le teorie dei bisogni

In base a quanto detto fino ad ora, le teorie dei bisogni che la ricerca in psicologia ha generato nel corso del tempo possono essere ordinate sulla base del livello di analisi (biologico, individuale, sociale/di gruppo) e della tipologia di struttura (gerarchica, a un bisogno fondamentale, liste di sistemi indipendenti, sistemi di controlli e bilanci), espresse dai bisogni considerati da ciascuna di esse (cfr. Pittman & Zeigler, 2007).

Come lo stimolo della sete, quando urgente, presenta una topografia di effetti sulla persona a livello biologico (a livello extracellulare e sistemico), individuale (percezioni, pensieri, comportamenti) e sociale (interagire con gli altri con l’obiettivo di bere), così una teoria dei bisogni fondamentali veramente comprensiva dovrebbe rispecchiare la possibilità di espandere o restringere il livello di analisi quando necessario.

Ad esempio considerando la Self-determination Theory (Deci & Ryan, 1980), i bisogni di autonomia e competenza si situano probabilmente a un livello individuale di analisi, mentre il bisogno di stare in relazione, chiaramente, su quello sociale. La teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969), ancora, considera il livello sociale di analisi quando entrano in gioco i sistemi dell’attaccamento e dell’accudimento, per focalizzarsi invece sul livello biologico, in relazione al sistema della paura, o a livello individuale, in relazione al sistema dell’esplorazione. Incasellare i bisogni considerati nelle diverse categorie dei livelli di analisi rende comunque possibile prevedere tutti quei casi nei quali i livelli si sovrappongono come accade, ad esempio, in una situazione nella quale il mio bisogno di autonomia, di esplorazione o di gioco necessitano di essere espressi all’interno di una relazione per me significativa oppure attraverso la soddisfazione del bisogno di appartenenza ad un gruppo sociale, come sa molto bene lo psicologo quando studia i processi di sviluppo dell’identità personale in adolescenza (Kerpelman & Pittman, 2001).

L’integrazione tra le diverse teorie dei bisogni

Considerando poi le sovrapposizioni concettuali ed empiriche tra teorie, si potrebbero superare, con il supporto dei dati, distinzioni concettuali o, ancora, analizzare più a fondo un bisogno assunto da una teoria per mezzo dei bisogni assunti da un’altra, considerabili come costituenti. Un esempio potrebbe essere il bisogno di relazione come espresso dalla teoria dell’autodeterminazione e bisogni considerati dalla teoria delle motivazioni sociali di fondo: in che modo il bisogno di relazione si esprime e trova soddisfazione secondo le diverse modalità dell’appartenenza, comprensione del mondo, fiducia negli altri e controllo dell’ambiente?

Ciò potrebbe tentarsi anche per teorie con strutture di bisogni profondamente diverse. Prendiamo ad esempio la teoria dell’attaccamento (AT; teoria dei sistemi di controllo e struttura ad un bisogno fondamentale) e la teoria cognitivo-esperienziale del Sé (TCES; teoria dei sistemi di elaborazione delle informazioni e struttura a bilanci e controlli):

  • a livello sociale/ di gruppo sociale: entrambi i sistemi cognitivi (esperienziale e analitico; TCES) concorrono all’adattamento elaborando le informazioni in funzione del mantenimento delle relazioni con gli altri, quando questo scopo è saliente per la persona. Allo stesso modo, il sistema di attaccamento (AT) persegue la vicinanza, la protezione e la sicurezza fornite da una figura di riferimento, nel caso le circostanze lo richiedano;
  • a livello individuale: il gioco e l’esplorazione (AT) possono essere un mezzo con il quale l’individuo può promuovere, tramite l’esperienza e la conoscenza che acquista nella loro attuazione, l’accrescimento e il miglioramento del Sé (TCES);
  • a livello biologico: entrambi i sistemi di elaborazione (TCES) presentano come mandato di base l’evitamento del dolore e la ricerca del piacere, noti da tempo come propensioni motivazionali di fondo (cfr. Carver & White, 1994). Gli stessi scopi sono, almeno in parte, l’attivazione del sistema della paura e dell’evitamento del pericolo (AT).

Una tabella vale più di mille parole, e può mostrare in una visione d’insieme un quadro di partenza per integrare le teorie dei bisogni citate finora, assieme ad altre non ancora considerate (cfr. Pittman & Zeigler, 2007): 

Come si può notare a colpo d’occhio, i bisogni postulati dalle diverse teorie possono trovare integrazione ai diversi livelli di analisi considerati: biologico, individuale, sociale.

Alla distinzione tra i livelli di analisi definiti nella tabella potrebbe inoltre applicarsi una distinzione delle diverse teorie sulla base della modalità di innesco dell’urgenza di soddisfacimento dei bisogni da esse considerate, distinzione che Liotti ed Ardovini (2017) utilizzano nella teoria dei sistemi motivazionali interpersonali, distinguendo tra modalità di innesco: ciclica (ad esempio la fame in base all’ora dei pasti); fasica in relazione alle contingenze ambientali (ad esempio la ricerca di sicurezza e protezione in circostanze pericolose); oppure tonica (con livelli crescenti o decrescenti d’intensità, come ad esempio l’esplorazione durante il gioco).

Conclusioni

Quelle qui sopra sono solo suggestioni fornite sulla base della rassegna di Pittman e Zeigler (2007) e di riflessioni personali. Tuttavia le domande sulla natura umana sono domande alle quali bene o male ogni disciplina risponde, a modo suo. E la psicologia al momento, come altre discipline del resto, sembra non possa offrire una risposta definitiva e univoca.

Definire una volta per tutte, in un rimando continuo tra ricerca empirica e speculazione concettuale, il sistema definitivo dei bisogni umani fondamentali, potrebbe avere valore in molti ambiti:

  • Per lo status della psicologia in relazione ad altre scienze, fornendo ad essa una base empirica e concettuale paragonabile a ciò che la biologia, la chimica e la fisica sono per la medicina.
  • Per il clinico, come base sulla quale fondare il trattamento al di là delle specificità di ogni presa in carico terapeutica.
  • Per la gente comune, fornendo un quadro chiaro di obiettivi di fondo rispetto ai quali orientare la propria vita che, se raggiunti, comporterebbero un maggiore benessere soggettivo e un miglior funzionamento psicologico, come dimostrato dalla ricerca che valida empiricamente le teorie considerate.
  • Per chiunque cerchi punti di riferimento in base ai quali perseguire soddisfazione, benessere e crescita personale, giorno dopo giorno.

 

Gioventù smarrita. Restituire il futuro a una generazione incolpevole (2021) di Vincenzo Galasso – Recensione

Il libro Gioventù smarrita sottolinea la sofferenza psicologica dei giovani e come le misure adottate per il contenimento della pandemia abbiano acutizzato diverse loro problematiche.

 

Vincenzo Galasso, autore del saggio Gioventù smarrita edito da Egea-Bocconi e pubblicato ad ottobre 2021, è professore ordinario di economia all’Università Bocconi di Milano ed è inoltre direttore dell’unità di Analysis in Pension Economics del centro Baffi-CAREFIN Research Fellow al Center for Economic Policy Research (CERP) di Londra.

Galasso, partendo dalla sua esperienza personale come padre e come docente universitario, illustra nel suo libro la teoria fallace nata durante la pandemia covid, che un verso tratto dalla canzone Dotti, medici e sapienti di Edoardo Bennato riassume: questo giovane è malato / ha già troppo contagiato / deve essere isolato.

Il punto di vista del narratore è quello di chi si rende conto che, durante il periodo di emergenza sanitaria in Italia, ci si è giustamente preoccupati di salvaguardare la fragilità degli anziani, ma ci si è dimenticati dei giovani. I ragazzi sono stati considerati untori da tenere chiusi ed isolati. Spesso sono stati trattati come incoscienti e nessuno ha riconosciuto il loro senso di responsabilità, il loro dolore ed i loro sacrifici.

La narrazione è molto schietta, sottolinea le sofferenze psicologiche dei giovani e rivela come le misure adottate per contenere i contagi abbiano acutizzato diverse problematiche del mondo giovanile italiano. Già nel 2009 Galasso con la pubblicazione, insieme a Tito Boeri, del saggio Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni aveva messo in risalto come il nostro Paese non sia capace di investire abbastanza sul futuro delle nuove generazioni.

In questo nuovo saggio l’autore descrive tutte le antiche criticità, che sono state evidenziate dallo stato pandemico, che riguardano il sistema scolastico: dalla povertà educativa all’abbandono scolastico. L’introduzione della didattica a distanza non ha aiutato, ha messo in luce mancanze strutturali e di gestione ed ha aumento l’isolamento dei giovani. Galasso rimarca l’acutizzazione delle disuguaglianze ed il peggioramento del precariato giovanile. Molti giovani, con la pandemia, hanno avuto un’ulteriore difficoltà a trovare il primo impiego, altri hanno visto svanire la possibilità di poter continuare a lavorare.

L’Italia si trova oggi nella condizione di dover cambiare il suo modo d’investire, deve riuscire a garantire un futuro alle nuove generazioni.

L’analisi condotta dall’economista Galasso ben si sposa con i dati riportati al XXIII congresso nazionale virtuale della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (Sinpf): i casi di depressione tra i giovani sono raddoppiati durante il periodo pandemico. L’epidemia e la sua gestione hanno tolto ai giovani punti di riferimento importanti, i ragazzi sono rimasti bloccati in casa, proprio nel momento della vita in cui ci si dovrebbe muovere per conquistare l’indipendenza.

 

Sintomi post-traumatici da stress nei pazienti in reparti di rianimazione

I pazienti ricoverati in rianimazione in alcuni casi presentano lesioni molto importanti a seguito di traumi o incidenti che hanno compromesso gravemente le loro funzioni vitali. Vivere questa situazione di potenziale minaccia per la vita può essere un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo da stress post-traumatico.

 

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico

Il Disturbo da Stress Post-Traumatico è incluso nel DSM-5 (APA, 2013) nella categoria dei Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti. Esso prevede l’esposizione da parte del soggetto ad un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale facendo un’esperienza diretta o indiretta dell’evento traumatico oppure venendo a conoscenza di un evento traumatico violento o accidentale accaduto ad un membro della famiglia o ad un amico stretto. I sintomi di cui il soggetto soffre possono essere sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico come ricordi, sogni e/o flashback, evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico, alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento, marcate alterazioni dell’arousal e della reattività come ad esempio comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (APA, 2013). La genesi di questo disturbo è multifattoriale; bisogna considerare una serie di aspetti pre-traumatici (ad es. storia psichiatrica, abuso infantile riportato e storia psichiatrica familiare), peri-traumatici (ad es. gravità del trauma, impatto personale e vicinanza) e post-traumatici (ad es. mancanza di supporto sociale, menomazioni fisiche o finanziarie permanenti causate dal trauma) che contribuiscono al suo sviluppo e perpetuazione (Brewin et al., 2000)

Tra il 18% e il 25% dei sopravvissuti ad un incidente stradale mostra sintomi di PTSD (Frommberger et al., 1998; Harvey & Bryant, 1998) e, senza trattamento, questi sintomi possono persistere per anni. In alcuni casi, il disturbo può diventare cronico, apportando una cattiva salute fisica, una minore qualità della vita, danni nelle relazioni sociali e disoccupazione (Zatzick et al., 1997; Wild et al., 2016). Nonostante l’incidenza del disturbo sia alta in questi casi, le reazioni psicologiche in seguito a incidenti automobilistici (auto o moto) o lo stress post-traumatico emerso in seguito sono stati poco studiati (Reiner et al., 2021).

Il PTSD in seguito a ricovero in rianimazione

In particolare, un evento che implica il ricovero in rianimazione può essere considerato un evento estremamente stressante: il paziente è esposto a condizioni sconosciute e potenzialmente spaventose. Fino ad ora non era stata condotta alcuna ricerca per determinare se i pazienti sottoposti alla sala di rianimazione sperimentassero potenzialmente alti livelli di stress o sintomi di stress post-traumatico, rappresentando un gruppo a rischio per sviluppare un PTSD come condizione clinica. Per colmare questa lacuna in letteratura, Reiner e colleghi (2021) hanno testato i livelli di angoscia e i sintomi di disturbo da stress post-traumatico sperimentati nei pazienti subito dopo il trattamento in rianimazione, cercando inoltre di identificare i fattori di rischio per tali sintomi nei pazienti entro 10 giorni dal trattamento in sala di rianimazione (Reiner et al., 2021).

I risultati hanno rivelato che un alto tasso di pazienti in rianimazione soffre di grave angoscia e sintomi di disturbo da stress post-traumatico. Entro dieci giorni dal trattamento in rianimazione, il 53,4% dei pazienti partecipanti ha riportato un grave stress psicologico. Come fattori di rischio per lo sviluppo di sintomi di stress post-traumatico sono state individuate l’angoscia e il coinvolgimento in un incidente stradale. È interessante notare che una maggiore gravità delle lesioni non era direttamente collegata a livelli più elevati di sintomi di stress post-traumatico (Reiner et a., 2021). L’evidenza empirica dimostra che le risposte soggettive alle lesioni, per esempio il disagio emotivo o la valutazione negativa dell’evento traumatico, piuttosto che i parametri ‘oggettivi’ come le ferite riportate, rappresentano sostanzialmente la patogenesi del PTSD (Hitchcock et al., 2015; Gabert-Quillen et al., 2011). I risultati ottenuti da questo studio possono essere letti alla luce del modello cognitivo del PTSD (Ehlers & Clark, 2000), che prevede che le le valutazioni negative, in particolare nella fase iniziale dopo l’esposizione al trauma, contribuiscono allo sviluppo del disturbo.

Conclusioni

In conclusione, i risultati dell’indagine sottolineano anche che i pazienti coinvolti in un incidente stradale sarebbero maggiormente sensibili allo sviluppo del PTSD, confermando studi precedenti (Stallard et al., 1998). Secondo lo studio di Reiner e colleghi (2021) oltre al tipo di incidente, anche il tipo di veicolo potrebbe influenzare l’elaborazione psicologica dell’incidente. Sul piano clinico emerge che i pazienti che sono stati ricoverati in reparto di rianimazione devono essere sottoposti ad uno screening per il disagio psicologico, indipendentemente dalla gravità delle lesioni, che dovrebbe essere effettuato dopo il trattamento e quando i pazienti sono fuori da una situazione di pericolo di vita. È stato dimostrato che gli interventi precoci che si rivolgono alla gestione dello stress (ad es. rilassamento della respirazione), all’auto-cura e a possibili commenti negativi sull’incidente e sul trattamento in reparto di rianimazione sono efficaci nella prevenzione a lungo termine della depressione e dei sintomi dello stress post-traumatico (Kearns et al., 2012).

Follia e ragione: la psichiatria e la psicoterapia di fronte alla guerra

Il modello della psicosi ha ora grande successo sui media occidentali, sorprendentemente, è l’interpretazione del conflitto russo-ucraino più popolare.

 

Il compito del medico vaccinatore è piuttosto frustrante: una rapida raccolta anamnestica e poi, con rare eccezioni, l’inevitabile giudizio di idoneità. Per salvarsi dalla noia di questi compiti ripetitivi l’unica risorsa è cercare occasioni di genuino incontro umano, scambiare qualche parola con uno studente di lingue orientali, con una donna che ha vissuto la seconda guerra mondiale, coi tanti stranieri.

Una domenica pomeriggio visito una attempata badante ucraina e le faccio qualche domanda sul suo paese d’origine. Siamo nel 2021 e, per quello che sappiamo dai media di regime, tra Ucraina e Russia c’è ancora una certa tensione. La signora è infastidita dalle mie domande e si allontana mormorando: “È Putin, è tutta colpa sua, è pazzo!”.

È passato quasi un anno da allora. In Ucraina la cronica guerriglia ha lasciato il passo ad un conflitto su larga scala.

Il modello della psicosi ha ora grande successo sui media occidentali. Sorprendentemente, è l’interpretazione del conflitto russo-ucraino più popolare. Commentatori televisivi, sociologi, psicologi, così come il grande pubblico, mostrano scarso interesse per la geopolitica, gli interessi finanziari o i conflitti etnici. Si moltiplicano invece le interviste a psichiatri e psicoanalisti.

Il Corriere della Sera titola ad esempio “Putin paranoico come Stalin?” Su l’Esquire leggiamo invece “Is Putin crazy?”. Poco importa che gli eminenti studiosi intervistati siano piuttosto riluttanti a formulare diagnosi precise. Ad esempio Kenneth Deleva, ufficiale medico psichiatra del Dipartimento di Stato, sconsiglia di “utilizzare etichette e termini psichiatrici” e parla invece di un imprecisato disturbo di personalità. Nemmeno lo psicoanalista italiano Massimo Ammaniti esprime diagnosi precise, ma avvicina la condizione di Putin alla “paranoia di Stalin” e spiega le strategie politico-militari del leader russo con il suo passato di “ragazzo di strada” avvezzo “alle lotte quotidiane per sopravvivere” in una “cultura antisociale e spietata”.

Così, nel XXI secolo, mentre la psichiatria territoriale si dissolve progressivamente e la psicoanalisi è spinta sempre più ai margini del dibattito scientifico e culturale, psichiatri e psicoanalisti sembrano scoprire un nuovo ruolo nella società contemporanea. Gli viene chiesto di riconoscere e mostrare alle masse l’implicita malizia del nemico.

In un precedente contributo su questo webjournal abbiamo commentato l’arruolamento di tanti intellettuali e psicoanalisti italiani e stranieri nella demonizzazione dei renitenti alla vaccinazione anti-COVID. Chi dissente è pazzo, o almeno utilizza difese primitive e psicotiche.

In effetti la psichiatria svolge da secoli un ruolo di controllo sociale. Il precedente più clamoroso ci viene proprio dalla Russia. Lì ai tempi del regime sovietico migliaia di dissidenti venivano rinchiusi per anni nelle strutture psichiatriche. Ma il fenomeno è molto più antico ed è in qualche modo implicito nell’epistemologia sottesa al fare psichiatrico.

Nel positivismo ottocentesco e nel più pragmatico materialismo del dopoguerra, la diagnosi psichiatrica è un dato ontologico. In questa prospettiva, come osserva Engel (1977), la follia è una malattia non diversa dal diabete. In assenza di qualsiasi dato anatomopatologico la nosografia psichiatrica assume così le forme di una mitologia fantastica: un sistema di risposte immaginarie a questi senza possibile formulazione empirica.

Michel Foucault ci ha insegnato negli anni ‘60 che la follia è il prodotto di un giudizio, un giudizio prima di tutto morale. La sragione si definisce in relazione alla ragione. Sragione è tutto quanto appare assurdo nel comportamento dei nostri simili.

Nella dialettica filosofica la ragione possiede lo status di un fatto acquisito, uno stile conoscitivo di evidenza immediata e accessibile a tutti. Per i filosofi la ragione è una località ben nota sulla complessa carta geografica del pensiero umano.

La psicoanalisi conduce l’atteggiamento critico rispetto alla realtà umana un po’ più oltre. È ben consapevole che l’uomo sa dare nobili motivazioni alle scelte più spietatamente egoistiche. Sa mentire agli altri ma soprattutto a se stesso. In questo senso l’implicita fiducia nella ragione di tanta intellighenzia novecentesca non è che un esempio evidente dell’utilizzo del meccanismo di difesa della razionalizzazione.

La ragione è in definitiva un gioco sociale. È la abilità di nascondere il proprio egoismo nelle forme compatibili con l’ideologia che una determinata società supporta ed incoraggia. Come Foucault ci ha insegnato, la follia è dunque la creazione sociale. La psicoanalisi ci permette oggi di essere anche più precisi: la follia è la rappresentazione sociale di una relazione oggettuale.

Molte esperienze interpersonali possono suscitare disagio, rabbia o orrore. Una ragazza che piange e urla tutto il giorno mette certo alla prova la tolleranza di familiari e curanti. L’invadenza di molti pazienti psichiatrici può suscitare talvolta rabbia e disperazione. Il sadismo autoaggressivo del depresso sa produrre un odio particolarmente intenso.

Oggi parliamo tutti di empatia. Ma è chiaro che ogni approccio superficialmente filantropico e volontaristico alla salute mentale è destinato al completo fallimento.

La malattia mentale nasce proprio a livello di questa interfaccia tra il soggetto sofferente e disperato ed il suo interlocutore clinico e sociale. La diagnosi psichiatrica al fondo è un giudizio di valore, è il rifiuto di proseguire oltre qualsiasi sforzo di identificazione.

Su questa base non sarà possibile costruire una pratica psichiatrica autenticamente democratica. Gli utenti dei servizi di salute mentale presentano vari deficit delle funzioni cognitive, affettive, volitive. Nelle psicosi questi deficit sono particolarmente marcati. Ne consegue una disabilità a volte devastante. Ma nessuna disabilità, per quanto grave, può privare un paziente della sua fondamentale qualità umana. Il riconoscimento di questa fondamentale umanità è la condizione perché qualsiasi intervento psichiatrico o psicoterapeutico possa avere possibilità di successo.

Cittadini russi, sanitari no-vax, matti: queste etichette feroci non lasciano alcuno spazio al superamento delle divisioni sociali e sono un gravissimo ostacolo al processo di pace di cui abbiamo oggi un disperato bisogno.

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – L’ottavo episodio è dedicato all’Impulsività

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante l’ottava puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  parleranno di Impulsività, ovvero la tendenza ad agire immediatamente in risposta a stimoli contingenti, su base momentanea, senza un piano. Da dove nasce l’impulsività? Come affrontarla in psicoterapia? Scopritelo nell’ottavo episodio.

Dove ascoltare l’ottavo episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta l’ottavo episodio su:

 

Alea iacta est: esperienza traumatica come punto di non ritorno per l’aumento della percezione del rischio, tra guerra e cambiamento climatico

La distanza psicologica è una teoria che si riferisce alla percezione soggettiva della distanza tra sé e qualche fenomeno o evento e si può suddividere in quattro fattori: distanza spaziale, distanza temporale, distanza sociale e distanza ipotetica.

 

Covid, percezione del rischio e distanza psicologica

Negli ultimi due anni, a causa della pandemia, l’equilibrio mentale globale è stato messo a dura prova. Le immagini sulla nuova misteriosa epidemia che stava colpendo duramente Wuhan hanno imperversato per due mesi sulle tv nazionali di tutto il mondo occidentale. A differenza di altre occasioni, nelle quali le minacce lontane sono rimaste tali, l’epidemia di Covid-19 ha repentinamente colpito a macchia d’olio tutto il mondo, divenendo pandemica. Era successo altre volte negli ultimi anni: disastri lontani che abbiamo vissuto con grande terrore, preoccupati che gli effetti a catena da essi generati potessero raggiungerci e colpirci da vicino, ma che poi sono rimasti lontani. Basti pensare all’epidemia di Ebola o alla guerra in Afghanistan. Poi qualche anno fa, per la prima volta dopo molto tempo, una minaccia che vedevamo lontana, proiettata sugli schermi, invece di rimanere tale si è avvicinata velocemente alla nostra realtà, cambiandola drasticamente. Ma cosa cambia a livello di percezione soggettiva tra un evento che sentiamo come lontano ed uno che percepiamo come vicino? Quello che cambia è la percezione del rischio, ovvero quel processo di valutazione soggettiva del livello di rischio di un determinato fenomeno o evento. La funzione di questa valutazione è di orientare il soggetto a mettere in atto comportamenti coerenti col rischio della situazione da affrontare. La percezione del rischio è un processo relativamente automatico e inconsapevole, che si applica a partire dalle attività quotidiane (attraversare una strada) a quelle straordinarie (imbattersi in una lite accesa tra due persone).

In base all’entità del rischio da noi percepito, orientiamo le nostre decisioni ed i nostri comportamenti coerentemente, spesso in maniera automatica. Ad esempio se percepisco l’interazione con una persona come potenziale rischio di contagio di una malattia infettiva, sarò più orientato a evitare quell’interazione per salvaguardare il mio stato di salute. La ricerca ha sottolineato che in molti casi esiste una discrepanza variabile tra la percezione soggettiva del rischio e la valutazione oggettiva (Slovic, 2001). Può capitare pertanto che gli individui tendano a preoccuparsi per eventi in realtà innocui e che diano per sicure situazioni che hanno una probabilità di causare danni più alta. Pertanto ciò che cambia la nostra percezione soggettiva, e quindi le nostre reazioni emotive e comportamentali, non è tanto il pericolo reale in sé, ma l’interpretazione del rischio a livello prettamente soggettivo. Un esempio può essere quando, durante l’ascolto delle notizie iniziali sulla propagazione del virus, ci veniva comunicato che la probabilità che esso si diffondesse nel nostro paese era basso, di conseguenza, generalmente, avevamo una percezione del rischio minore. Quando poi abbiamo appreso che la diffusione stava assumendo la portata di una pandemia potenzialmente rischiosa, la percezione del rischio di gran parte della popolazione si è incrementata ampiamente: il medesimo virus stimolava risposte di paura e ansia più intense (Ornell et al., 2020; Shafran et al., 2021), così come reazioni comportamentali di evitamenti sociali e di aumento della ricerca di rassicurazioni e sistemi di protezione e prevenzione da un eventuale contatto (Cheng et al., 2020) .

Quale elemento è cambiato tanto da generare una percezione del rischio così diversa? La vicinanza psicologica allo stimolo è un fattore fondamentale (Rudiak-Gould, 2013). Quanto più emotivamente vicino abbiamo percepito lo stimolo avversivo (il virus), tanto più la percezione del rischio (e le conseguenti reazioni emotive e comportamentali) si è modificata. In prima battuta, una volta che il primo caso è stato identificato in Italia la vicinanza psicologica è aumentata, e ancor di più quando siamo venuti a sapere che un conoscente lo ha contratto.

La distanza psicologica è una teoria che si riferisce alla percezione soggettiva della distanza tra sé e qualche fenomeno o evento (Trope e Liberman, 2011). La distanza psicologica si può suddividere in quattro fattori: distanza spaziale, distanza temporale, distanza sociale e distanza ipotetica. Per distanza spaziale si intende la lontananza tra il soggetto e il fenomeno in termini fisici, la distanza temporale invece rappresenta la differenza di tempo trascorso tra il soggetto e l’evento, mentre la distanza sociale si riferisce alla discrepanza dell’impatto sociale per il soggetto di un dato fenomeno e infine la distanza ipotetica misura il livello di certezza percepito dal soggetto.

In parole povere, la teoria della distanza psicologica spiega che il soggetto può sentirsi coinvolto in una situazione a livello emotivo (alta vicinanza psicologica), oppure al contrario vedersi lontano da essa e pertanto non coinvolto emotivamente (bassa vicinanza psicologica). La distanza psicologica quindi rappresenta il grado in cui noi percepiamo che una certa situazione “ci riguardi” o “ci coinvolga”. Questo livello di coinvolgimento è modulabile in base a come il soggetto percepisce temporalmente, spazialmente, socialmente e a livello di ipotetico vicino quel dato fenomeno. Ad esempio la guerra in Ucraina per noi occidentali europei rappresenta un evento molto più emotivamente vicino (a livello spaziale, temporale, ipotetico e sociale) rispetto a un’altra guerra attuale o passata nel medio oriente (come in Afghanistan, Siria o Iraq), di conseguenza la nostra reazione emotiva (ad esempio paura e indignazione) e comportamentale (come l’attivismo di protesta da parte della popolazione e le misure reattive europee) è molto più intensa nella prima condizione.

Secondo la teoria del livello costruttivo della distanza psicologica (Trope e Liberman, 2011), la percezione di una maggiore o minore distanza psicologica rispetto a un certo evento si ripercuote anche sul grado di concretezza con cui il soggetto percepisce questo evento. Mentre un evento percepito a una distanza psicologica elevata, apparirà astratto al soggetto, avrà pochi dettagli e scarsi correlati emotivi, al contrario, un avvenimento percepito come psicologicamente vicino, sarà immaginato e vissuto in modo più concreto, arricchito da molti dettagli, ricordi personali ed un’elevata emotività correlata.

Dopo una lunga luna di miele, durante la quale il nostro paese si è tenuto distante da eventi dannosi e terrifici, il COVID-19 non solo ha rotto lo stato di quiete e inconsapevolezza, ma ha modificato profondamente la nostra sensibilità al rischio. Il fatto che una minaccia che veniva percepita come lontana, astratta e improbabile, si sia repentinamente avvicinata a noi ha demolito le nostre idee di immunità occidentale a problemi e catastrofi ben presenti in altri paesi (come una pandemia, una guerra o un cataclisma ambientale).

“Bellum quod res bella non sit”

Il carico emotivo che ci troviamo a sostenere quando ci confrontiamo con questo conflitto è superiore a quello che avremmo dovuto sopportare se non fossimo stati esposti al Covid. Non solo per il fatto che, negli ultimi anni, sentimenti quali ansia, paura, senso di incertezza hanno campeggiato in tutta la penisola rendendoci più consapevoli, vulnerabili e capaci di immedesimarci nelle disgrazie altrui, ma anche perché la nostra percezione del rischio e la nostra vicinanza psicologica ad esso sono aumentate. Abbiamo più paura della guerra in Ucraina perché la sentiamo più vicina a noi, riusciamo a vederla in modo meno astratto e più concreto, crudo e triste. Non solo siamo più consapevoli, ma anche più impauriti. Il fatto che la minaccia rappresentata dal Covid-19, che percepivamo come lontana e astratta, sia diventata in così poco tempo così vicina e reale, ci mette nella posizione di pensare “Se è già successo, perché non dovrebbe risuccedere?”. Se qualche anno fa ci risultava facile e rassicurante pensare che i pericoli lontani rimanessero tali, adesso facciamo più fatica a farlo; resta difficile non pensare, anche solo per pochi istanti, che il conflitto possa degenerare ulteriormente, allargandosi al resto d’Europa o del mondo. Si è portati a pensare che quello che un tempo non ci avrebbe colpito, adesso può farlo, da un giorno all’altro, quasi con un sentimento di catastrofe imminente. Una minore distanza psicologica infatti ci fa percepire quello che sta accadendo con maggiore immedesimazione all’interno degli eventi e non come dei freddi, cinici calcolatori come lo siamo stati per altri eventi localizzati in aree lontane del globo. L’emergere intenso di sentimenti di impotenza, terrore, rassegnazione sono ancora troppo vividi nella nostra mente per permetterci di distaccarsi psicologicamente, quindi fare un passo indietro dagli eventi e sentirci spettatori esterni: tutt’altro, ne siamo attori.

Distanza psicologica e percezione del rischio come strumenti per un cambiamento

Non tutto il male viene per nuocere. Una minore distanza psicologica ci permette di sentire quello che sta accadendo in modo più immersivo e immediato, questa dimensione più interna agli eventi può essere un punto di forza se ne abbiamo consapevolezza. Siamo meno portati a pensare che quello che vediamo in tv sia un mero prodotto di cronaca, destinato a rimanere relegato in quello schermo luminoso. Siamo diventati tutti più consapevoli del fatto che quello che sentiamo come notizia, avviene realmente. Sembra scontato, ma è un concetto chiave, una svolta epocale. Nell’era digitale, in cui l’uomo passa più tempo guardando uno schermo che assaporando l’agrodolce sapore della realtà, si perde la capacità di distinguere in modo chiaro la differenza tra realtà e finzione. Possiamo fare un esempio con il cambiamento climatico e la diversa percezione che di esso hanno giovani ed anziani: da una parte gli anziani che, più abituati da sempre a stare a contatto con la natura hanno una percezione rigogliosa e sana di essa, generata dai ricordi visivi evocati dal lontano passato, che portano impressi nella loro mente. Dall’altra ci sono i giovani che, non abituati al contatto con la natura e maggiormente esposti alle notizie sul cambiamento climatico, tendono a rappresentarla mentalmente come la vedono nelle immagini che le notizie sul cambiamento climatico gli propongono. Dove sta la verità? Come spesso accade, sta nel mezzo: la natura, soprattutto alle nostre latitudini è ancora in parte rigogliosa e bella come un tempo, ma inizia a risentire di quegli effetti dannosi che stanno, in modo sempre più drastico, colpendo i paesi da cui le notizie che i giovani vedono provengono. Tornando al concetto di percezione del rischio e distanza psicologica, è importante che questi costrutti cognitivi siano congrui con quello che sta succedendo e con la reale entità dei vari rischi. Non dobbiamo più vivere nella bolla in cui vivevamo prima, nella quale avevamo la percezione che niente avrebbe potuto minacciare il nostro mondo, ma nemmeno sprofondare in un senso di disperazione, presi dal terrore che tutto ciò che viviamo possa colpire anche noi, all’improvviso. La ridotta distanza psicologica ci deve servire a percepire gli eventi che colpiscono il resto del mondo in modo più vicino e meno astratto e alla luce di questo, comprenderli più profondamente, viverli con maggiore consapevolezza ed empatia. Questo può spingerci ad intraprendere azioni concrete per contrastare gli eventi negativi, aiutare chi ne viene colpito e lavorare per costruire un futuro diverso. Questo vale per le guerre, ma anche per il cambiamento climatico ed i suoi effetti (Innocenti et al., 2021). Gli addetti al settore, gestendo le risposte psicologiche agli eventi, non devono cercare di ridurre la distanza psicologica, bensì stimolare le risposte comportamentali di tipo adattativo che da essa possono essere generate, cercando, di concerto, di fornire gli strumenti adatti a gestirne le conseguenze e controllando che non diventino tali da determinare psicopatologia.

 

La coscienza quale animale? Grillo parlante o armadillo?

In Strappare lungo i bordi, l’Armadillo è la coscienza di Zero Calcare, sembra rappresentare la personificazione dei suoi freni inibitori, pertanto è dotato di istinto di autoconservazione, una buona dose di egoismo ed interviene più per tutelare se stesso ed il protagonista Zero dalle interazioni sociali più impegnative.

 

La coscienza, intesa come nostro senso morale, è stata rappresentata in vari modi nel mondo letterario e cinematografico: celebre il Grillo Parlante di Pinocchio; l’angelo ed il diavolo che rappresentano Super-io e Istinto di Paperino. Recentemente nella serie Netflix Strappare lungo i bordi, il fumettista Zero Calcare propone un armadillo antropomorfo come coscienza.

Nella serie, l’Armadillo, rappresenta una proiezione soggettiva dello stesso Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Introduzione

La coscienza è stata definita come la “consapevolezza di sè, degli altri e dell’ambiente che ci circonda, quindi essere presenti per sé e per gli altri e rispondere agli stimoli” (Cohadon & Salvi, 2003).

La vigilanza, invece, è una funzione del tronco cerebrale e più precisamente della formazione reticolare contenuta nella parte rostrale del segmento pontino, nel segmento mesencefalico e nella parte adiacente del diencefalo. In tal modo è definita la formazione reticolare attivatrice ascendente che manda proiezioni diffuse alla corteccia cerebrale, sia direttamente che tramite il talamo.

La coscienza, come si autodefinisce il grillo parlante, è da intendersi come senso di colpa: “Senso di responsabilità o senso del dovere significa essere consapevole del male compiuto e/o del proprio essere in quanto segnato da questo male. Questo senso di colpa nasce di solito attraverso il “sentirsi” colpevole…provare un sentimento di colpa. Più precisamente si tratta non di un sentimento ma di diversi sentimenti ed emozioni spiacevoli, come, per esempio, inquietudine, angoscia, tristezza, sconforto, dolore. Per questa ragione si suole anche parlare di sensi di colpa” (Jakub Gorczyca, 2011).

Secondo il modello di Freud della psiche, la coscienza è una parte del Super-io. Tuttavia, la psicologia moderna ha identificato limiti a ciò che Freud ha evidenziato come coscienza nel Super-io. Il Super-io consiste nella coscienza morale e nel sé ideale mentre la coscienza consiste in ciò che un individuo identifica come cose moralmente buone e cattive. Quindi, c’è una netta differenza tra coscienza e Super-io (De Robertis D. 2009).

Alcuni studi mostrano come nei processi decisionali sia la corteccia prefrontale anteriore ad attivarsi anche di fronte a soluzioni note: i ricercatori hanno analizzato l’attività neurale di individui che dovevano uscire da un semplice labirinto di cui conoscevano il percorso; nonostante questo, ad ogni bivio vi era l’attivazione della corteccia prefrontale (Boorman, E. E. et. Al. 2009). Quindi, nel nostro cervello esisterebbe davvero una figura che giudica i nostri agiti.

Il successo della serie Strappare Lungo i Bordi

La serie ha avuto un notevole successo: tradotta in varie lingue e trasmessa in oltre 150 paesi, un prodotto tutto italiano che anche all’estero sta destando tantissima curiosità. I numeri dopotutto parlano chiaro: Strappare lungo i bordi è arrivata in due giorni a 4,5 milioni di visualizzazioni.

Una chiave per spiegare il successo di questa serie, soprattutto tra i giovani, è la facilità con cui l’autore riesce a passare dall’individuale al collettivo, all’universale. Ci parla di sé, ma in fondo racconta la storia di tutti noi e riesce a rivolgersi trasversalmente a più generazioni.

La coscienza Armadillo

Nel caso del fumettista Zero Calcare, l’Armadillo viene definito coscienza dall’autore stesso : “in quei giorni la mia coscienza aveva già assunto la forma di un armadillo e me ripeteva tutti i giorni (…)” (Zero, S1:E2 min 3.00).

In realtà questo strano animale interviene spesso nella vita del protagonista, con consigli ed osservazioni che sembrano avere un’etica ben diversa dalla coscienza di Pinocchio.

L’Armadillo sembra rappresentare la personificazione dei freni inibitori del protagonista, pertanto è dotato di istinto di autoconservazione, una buona dose di egoismo ed interviene più per tutelare sè stesso ed il protagonista Zero dalle interazioni sociali più impegnative.

L’Armadillo in fondo è una parte di Zero, dobbiamo capire quale parte sia, in quanto agisce comportandosi da Super-io, da inibizione, da meccanismo di difesa.

In realtà non è semplice ricondurre questo simpatico personaggio ad un’entità della psiche. L’Armadilllo è un personaggio di fantasia che ha il compito primario di mettere in ridicolo il dialogo che Zero ha con sè stesso. Deve essere visto in chiave comica più che psicologica.

È indubbiamente interessante analizzare l’Armadillo perché rappresenta le paure, l’ansia e le aspettative delle giovani generazioni. “Siamo stati tutti Zero e alcuni di noi lo sono ancora, insicuri, paranoici, indecisi, con poca consapevolezza di sé, con bassa autostima, con scarsa attenzione verso le emozioni degli altri, incapace di comprendere i discorsi astratti però impeccabile nell’aiuto pratico” (Pamela Anile State of Mind 2021).

Come già accennato, l’Armadillo, non è una coscienza etica, ma opportunistica, dove l’egoismo non è teso a risolvere esigenze di auto salvaguardia, ma piuttosto alla risoluzione comica dei dilemmi esistenziali di Zero.

Se lo analizziamo in chiave psicologica, l’Armadillo, ricopre molteplici ruoli. È in grado di scoraggiare Zero verso relazioni sentimentali; o meglio è in grado di inserire il dubbio nella mente di Zero circa il fatto che una relazione sentimentale determina la necessità di un impegno e la possibilità di subire un rifiuto.

La strategia elaborata da questa “strana coscienza” è un meccanismo di difesa: l’evitamento. Contemporaneamente rimprovera il protagonista per la timidezza che dimostra tutte le volte che non può evitare di incontrare la persona che mostra interesse per lui: “Bravo. Sei un grande. Sei cintura nera de come se schiva la vita. Quinto dan”.

Demagogo e pronto all’imbroglio, appare l’Armadillo, quando deve dare consigli sull’occupazione di Zero. Quando affronta il tema del lavoro, svela una dose di qualunquismo in cui i giovani in cerca di occupazione possono identificarsi. Le battute che l’Armadillo scambia con Zero hanno il senso di favorire l’identificazione dello spettatore che rivede i suoi insuccessi di carriera lavorativa e la scarsa meritocrazia esistente in Italia di cui è facile e simpatico disquisire.

 

Emoziònati. Libro esperenziale. (2021) di Laura Bongiorno, Geraldine de Leòn, Letizia Ferrante e Giusy Morabito – Recensione

Nato durante la pandemia, il libro Emoziònati è opera di tre psicologhe, psicoterapeute, istruttrici di mindfulness e fondatrici dell’associazione Mindful Sicilia.

 

Si tratta di un testo per l’appunto esperienziale, che ci presenta le emozioni in chiave leggera, al fine di imparare ad accogliere le stesse e a relazionarci a loro in modo sano, senza distinzione tra emozioni giuste e sbagliate, positive e negative, ma come elementi importanti dell’essere umano, con funzioni ben specifiche. Come suggerisce infatti Nicola Petrocchi nella prefazione del testo, il nostro cervello possiamo rappresentarcelo come un’autovettura che non ci siamo scelti, ma, se impariamo il suo funzionamento, possiamo aumentare le possibilità di avere una guida più sicura.

Le autrici ci accompagneranno dunque ad incontrare alcune emozioni che spesso ci fanno da compagne nei nostri vissuti, e dunque ci parleranno della rabbia, della tristezza, dell’invidia, della vergogna e della gioia, tutte accompagnate da spiegazioni dal linguaggio semplice e scorrevole e spunti ed esercizi pratici rivolti al lettore. Ogni capitolo si accompagna a bellissime illustrazioni, disegni e grafiche curati da Geraldine de Leòn, ispirati alla “sicilianità” delle autrici, vediamone alcuni:

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Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 1

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 2

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 3

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 4

 

Emozionati 2021 di Bongiorno de Leon Ferrante Morabito Recensione Fig 5

 

I soggetti dei disegni non sono scelti casualmente, ma con affascinanti riferimenti legati all’arte, alla storia e alla cultura delle autrici.

Un libro curato nei dettagli, che coinvolge mente e cuore e tutti e cinque i sensi essendo ispirato alla mindfulness, pratica oramai di comprovata utilità nel contribuire al benessere della persona.

Un testo dunque dagli interessanti, utili e pratici spunti per imparare a vivere la rabbia senza spaccare tutto, piangere senza annegare nella tristezza, imparare ad avere paura, utilizzare l’invidia come risorsa, liberarsi dalla vergogna ed infine concedersi la gioia.

Un testo rivolto all’ampio pubblico che ritengo possa risultare molto accattivante anche per i più giovani lettori ed una valida risorsa per noi addetti ai lavori.

Mi piace concludere con un aforisma presente ad apertura del testo e che volontariamente vorrei usare a chiusura della presente recensione, come forma di saluto al suo autore:

Riconoscere le nostre emozioni senza giudicarle, abbracciandole con consapevolezza, è un atto di ritorno a casa. Thich Nhath Hanh.

 

Il genere e l’orientamento sessuale influenzano le fantasie sessuali?

Le fantasie sessuali sono definite come immagini o scenari mentali che provocano eccitamento sessuale. Queste possono emergere spontaneamente oppure possono essere evocate e manipolate intenzionalmente (Purifoy et al., 1992; Leitenberg & Henning, 1995).

 

Nonostante le fantasie sessuali possano riflettere le esperienze passate e influenzare i comportamenti sessuali futuri (Leitenberg & Henning, 1995), non sempre rispecchiano esperienze che si desidera mettere in atto. Può capitare infatti di fantasticare su alcune situazioni particolari, senza però desiderare che queste avvengano nella vita reale: le fantasie sessuali si configurano così come parte di un mondo fittizio, utilizzate per sfuggire ai vincoli sociali e morali (Ellis & Symons, 1990).

La letteratura dimostra che le fantasie sessuali sono un fattore molto importante per il benessere sessuale generale, apportando vantaggi sia per il singolo che per la coppia. Infatti, la fantasia diadica (tra partner) è associata ad un aumento del desiderio e dei comportamenti che promuovono la relazione (Birnbaum et al., 2019). Le fantasie sessuali rappresentano anche una strategia utile, ad esempio, per far fronte ai cambiamenti nel funzionamento sessuale degli adulti più anziani (Ayalon et al., 2019) e, durante la pandemia da COVID-19, che ha previsto periodi di separazione forzata per le coppie, le fantasie sessuali sono state utili per soddisfare il piacere sessuale durante l’isolamento (Lopes et al., 2020).

Gli uomini, rispetto alle donne, sembrano sperimentare più fantasie (Ellis & Symons, 1990; Wilson & Lang, 1981) e sono più propensi a fantasticare su immagini esplicite, sul fare sesso con più di un partner sessuale, sul partecipare ad un’orgia o sul fare sesso di gruppo (Joyal et al., 2015; Anzani & Prunas, 2020). Le donne, invece, tendono a concentrarsi su contenuti più emotivi e romantici (Carpenter et al., 2008; Yost & Zurbriggen, 2006). Un’altra differenza ampiamente riportata riguarda il ruolo del protagonista: in media, gli uomini tendono a fantasticare di più sull’avere ruoli dominanti e attivi mentre le donne si immaginano più sottomesse e passive in uno scenario in cui giocano il ruolo dell’oggetto del desiderio del loro partner (Wilson & Lang, 1981; Zurbriggen & Yost, 2004), anche se questa differenza non può essere sempre generalizzata.

È anche più probabile che gli uomini fantastichino sul fatto che i loro partner siano estremamente belli e attraenti (Anzani & Prunas, 2020), mentre le donne tendono ad avere più fantasie sessuali in cui rendono il loro corpo attraente per i loro partner sessuali, attraverso l’abbigliamento o i gesti (Bogaert et al., 2015).

Fantasie sessuali e orientamento sessuale

Gli studi che hanno analizzato l’influenza dell’orientamento sessuale sulle fantasie sessuali dimostrano che le fantasie più comunemente riportate dagli uomini omosessuali includono rapporti sessuali forzati con uomini (costringere o essere costretti o entrambi), rapporti sessuali con una donna, rapporti sessuali con uomini sconosciuti e sesso di gruppo (Price et al., 1985). Per quanto riguarda le donne omosessuali, esse dimostrano tassi leggermente più alti di fantasie sessuali trasgressive e più bassi di quelle emotivo-romantiche rispetto alle donne eterosessuali.

Tuttavia, gli studi che riguardano le differenze nel contenuto delle fantasie sessuali in base al genere e all’orientamento sessuale sono pochi e hanno spesso utilizzato campioni ristretti. Per colmare queste lacune, uno studio molto recente di Nese e colleghi (2021) ha voluto esplorare le fantasie sessuali di uomini e donne eterosessuali, omosessuali e bisessuali in un campione di giovani adulti italiani.

La prevalenza delle fantasie tra il campione complessivo e i sottogruppi è riportata nella Figura 1. Le fantasie più comuni riportate sono state Etero (77,59%), OralSex (76,62%), e RomanticSex (75,35%), mentre avere un rapporto con una prostituta (1,48%), e con una persona più anziana (1,61%) erano quelle meno comuni.

Fantasie sessuali influenze dell orientamento sessuale e del genere Fig 1

Fig. 1 Prevalenza delle fantasie sessuali

Le fantasie di dominanza sono state riportate principalmente da uomini eterosessuali mentre le fantasie di sottomissione caratterizzano maggiormente le donne eterosessuali, confermando la letteratura precedente (Leitenberg & Henning, 1995; Zurbriggen & Yost, 2004 ). In generale, gli uomini erano più probabilmente rappresentati da alcune fantasie come, ad esempio, fantasticare più sul fare sesso anale, eiaculare sul corpo e sul viso del partner, strangolare il partner e voyeurismo. Le donne erano più tendenti a fantasticare sul fare sesso e masturbarsi usando sex toys, fare sesso con qualcuno dello stesso sesso, ricevere sesso anale ed essere strangolati dal partner. La distribuzione degli uomini omosessuali e bisessuali ci mostra che i due sottogruppi condividono fantasie molto simili, mentre le donne bisessuali mostrano fantasie simili al gruppo di donne etero e le donne lesbiche condividono somiglianze sia con le donne bisessuali che eterosessuali.

Un risultato interessante è che le donne eterosessuali hanno riportato meno fantasie di qualsiasi altro gruppo, come osservato da studi precedenti (Ellis & Symons, 1990; Wilson & Lang, 1981). Questo risultato potrebbe essere dovuto al fatto che le donne hanno meno fantasie sessuali in generale oppure che il contenuto delle loro fantasie era scarsamente rappresentato dagli item utilizzati nello studio. Inoltre, le donne italiane potrebbero avere un interesse sessuale più ristretto rispetto alle donne di altri paesi (Tripodi et al., 2015).

Tutti i gruppi hanno riportato tassi simili di fantasie con contenuti romantici, in contrasto con studi precedenti che riportavano tassi più alti di contenuti emotivo-romantici tra le donne eterosessuali rispetto agli uomini eterosessuali e alle donne omosessuali (ad es, Bogaert et al., 2015).

Conclusioni

In conclusione, alcuni risultati si sono dimostrati coerenti con gli studi precedenti, mentre altri non lo erano, sottolineando così l’importanza di condurre una ricerca sistematica per cogliere potenziali cambiamenti nel tempo legati a fattori socioculturali. Gli studi futuri dovrebbero concentrarsi anche sulle minoranze sessuali e di genere, poiché possono presentare differenze significative rispetto al resto della popolazione (Antonsen et al., 2020).

Lo studio delle fantasie sessuali è rilevante per molteplici ragioni legate al benessere sessuale. Per esempio, le tecniche basate sulle immagini sono ampiamente utilizzate nella terapia sessuale per migliorare la sessualità e superare le difficoltà e le disfunzioni sessuali. Quindi, il contributo della ricerca psicologica alla conoscenza di questo argomento è fondamentale per promuovere la salute sessuale.

 

Presentazione del libro ‘La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro’ a cura di Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli

È in libreria il volume La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale. Gestire il processo terapeutico e l’alleanza di lavoro a cura di Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli.

 

Il libro contiene contributi critici di Wouter Backx, Barbara Barcaccia, Andrea Bassanini, Antonino Carcione, Raymond DiGiuseppe, Maurizio Dodet, Kristene Doyle, Christiane Eichenberg, Benedetto Farina, Guillem Feixas, Arthur Freeman, Francesco Gazzillo, Stefan Hofmann, Steven D. Hollon, Marco Innamorati, Francesco Mancini, Nicola Marsigli, Gabriele Melli, Paolo Migone, Paolo Moderato, Fabio Monticelli, Claudia Perdighe, Eckard Roediger, Saverio Ruberti, Mariano Ruperthuz Honorato, Angelo Maria Saliani, Diego Sarracino, Antonio Scarinci, Antonio Semerari, George Silberschatz, Avigal Snir, Peter Sturmey, Raffaella Visini, Kelly G. Wilson e David A. Winter.

QUI IL LINK: La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale

Il libro è strutturato come un dibattito tra i curatori e i contributori; esso contiene una serie di tesi sul ruolo della formulazione del caso nel processo terapeutico esposte dai curatori; ogni tesi è criticamente commentata in altri capitoli denominati “riflessioni” dai contributori.

L’assunto del libro è che la formulazione del caso sia la mossa iniziale e il principale strumento operativo degli approcci CBT con cui un terapeuta gestisce l’intero processo psicoterapeutico. L’idea è che, nella CBT, la formulazione del caso incorpori sia gli interventi CBT specifici del trattamento che le componenti non specifiche, tra cui la negoziazione dell’alleanza terapeutica e la gestione della relazione terapeutica. Inoltre, questo volume presuppone che, negli approcci CBT, la formulazione del caso sia una procedura incessantemente e apertamente condivisa tra il paziente e il terapeuta dall’inizio alla fine del trattamento.

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La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale Il libro Fig 2

 

I capitoli sviluppano questo programma e sono scritti dai tre curatori Giovanni Maria Ruggiero, Gabriele Caselli e Sandra Sassaroli e trattano la formulazione del caso sia nell’orientamento terapeutico CBT che non-CBT, mentre le “Riflessioni” sono commenti critici sugli assunti principali del libro forniti da esperti in specifici orientamenti terapeutici. Ad esempio, il capitolo sulla formulazione del caso nella terapia cognitiva standard di Beck è seguito da una riflessione di Arthur Freeman, un clinico e ricercatore nell’area cognitiva standard.

Per dare un’idea del dibattito, riportiamo qui di seguito i titoli di ogni capitolo e di ogni riflessione dei contributori.

Introduzione: La formulazione condivisa del caso come principale processo terapeutico nelle terapie cognitivo-comportamentali (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli).

Capitolo 1: La formulazione del caso nella terapia cognitivo- comportamentale standard (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Il processo di concettualizzazione nella terapia cognitivo- comportamentale (A. Freeman), Formulazione del caso in terapia cognitiva: lo sgabello a tre gambe (S.D. Hollon), L’uso degli scopi nella formulazione del caso in terapia cognitivo-comportamentale (A.M. Saliani, C. Perdighe, B. Barcaccia e F. Mancini)

Capitolo 2: La formulazione del caso nella tradizione comportamentale: Meyer, Turkat, Lane, Bruch e Sturmey (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Relazione terapeutica, cognizione, metacognizione e vita autogestita: quale relazione con la formulazione del caso? (P. Sturmey)

Capitolo 3: Connessione B-C, negoziazione dell’F e razionale del D: progettare e realizzare una disputa efficace e cooperativa nella REBT (G.M. Ruggiero, D. Sarracino, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: La connessione B-C e la negoziazione dell’F nella REBT (R. DiGiuseppe e K. Doyle); La REBT come base per la formulazione del caso in una procedura continua, implicita e ipotetico-deduttiva di raccolta dati nella collaborazione critica e paritaria con il paziente (W. Backx).

Capitolo 4: La formulazione del caso nelle terapie di processo (G.M. Ruggiero, G. Caselli, A. Bassanini e S. Sassaroli). Riflessioni: La CBT basata sul processo come approccio alla concettualizzazione del caso (A. Snir e S. Hofmann); Formulazione del caso e analisi del comportamento (P. Moderato e K.G. Wilson); Schema Therapy, Contextual Schema Therapy e formulazione del caso (E. Roediger, G. Melli e N. Marsigli).

Capitolo 5: Forza e limiti della formulazione del caso nelle terapie cognitive costruttiviste comportamentali (G.M. Ruggiero, A. Scarinci, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Un pioniere della formulazione costruttivista (D.A. Winter e G. Feixas); TMI: caratteristiche, relazione terapeutica e formulazione del caso (A. Carcione e A. Semerari); Il ruolo del trauma nelle complicazioni psicoterapeutiche e il valore della prospettiva cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti (B. Farina); La formulazione del caso nel modello costruttivista post-razionalista (M. Dodet); La formulazione del caso e la relazione terapeutica dal punto di vista di una teoria evoluzionistica della motivazione (F. Monticelli); Emozione, motivazione, relazione terapeutica e cognizione nel modello di Giovanni Liotti (R. Visini e S. Ruberti)

Capitolo 6: La formulazione del caso come finale di partita, e non come mossa di apertura, nei modelli relazionali e psicodinamici (G.M. Ruggiero, A. Scarinci, G. Caselli e S. Sassaroli). Riflessioni: Formulazione del piano vs. formulazione del caso: la prospettiva della Control Mastery Theory (F. Gazzillo e G. Silberschatz); Alcune osservazioni storiche e teoriche sulla valutazione psicodinamica (M. Innamorati e M.Ruperthuz Honorato); La formulazione del caso in psicoanalisi e nelle terapie cognitivo-comportamentali (P. Migone)

Capitolo 7: Lo stato empirico della formulazione del caso: Integrazione e validazione di elementi cognitivi, processuali ed evolutivi della formulazione CBT del caso mediante la procedura LIBET (S. Sassaroli, G. Caselli e G. M. Ruggiero). Riflessioni: Una prospettiva costruttivista sulla procedura LIBET (D.A. Winter)

Capitolo 8: Nuove dimensioni nella pianificazione dei casi: Integrazione di applicazioni elettroniche per la salute mentale (E-mental health) (C. Eichenberg) 287

Postfazione: Il cielo in una stanza: La CBT condivide la formulazione del caso più facilmente (ma non troppo) (G.M. Ruggiero, G. Caselli e S. Sassaroli).

La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale Il libro Fig 1

 

La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale Il libro Fig 3

La cura della depressione secondo Adler

Per Adler, la depressione nasce come forma di compensazione di fronte all’incomunicabilità che sopraggiunge con essa.

 

Gli ingredienti alla base della ricetta per la soluzione della depressione, come sostengono Francesco Parenti e Pier Luigi Pagani (pionieri del pensiero Adleriano in Italia), sono la comunicazione, la possibilità credibile di fare progetti, coltivare l’area del piacere, la mobilità fisica e psichica e la capacità di polemizzare senza odio. Analizziamo questi ingredienti uno per uno; partiamo dalla comunicazione.

Per comunicazione, secondo la lettura che Parenti e Pagani danno del pensiero di Adler, s’intende uno scambio tra persone immune da diffidenza e inibizione autodifensiva, cioè un interloquire che si fonda sulla solidarietà reciproca, su un ampio spazio di libertà e spontaneità d’espressione. Infatti, per Adler, la depressione nasce come forma di compensazione di fronte all’incomunicabilità che sopraggiunge con essa. Esaminando ora il secondo punto, la creatività, Parenti e Pagani sostengono che tutti gli esseri viventi per poter sopravvivere debbano necessariamente protendersi verso scopi che di volta in volta si ricreano per non finire nell’abulica mancanza di desiderio e progettazione, che immobilizzano e paralizzano pensiero e azione del soggetto. La terza “garanzia culturale” contro la depressione è l’area del piacere, ossia la pratica di un erotismo possibilmente associato all’affettività, le gratificazioni intellettuali, artistiche, estetiche, lavorative che vedono la loro origine dall’acquisire ammirazione e apprezzamento, non vissute però in senso egoistico e/o narcisistico bensì condividendole con gli altri. Per quanto concerne la mobilità psico-fisica, si sostiene che la duttilità di azione e di pensiero possano disancorare la persona dal piattume dello stile depressivo. È sconsigliato quindi seguire quelle “regole” dettate dalle società iper-egualitarie che vanno a punire ogni forma di anticonformismo e quelle delle società iper-competitive castiganti le minoranze sconfitte con l’astensionismo obbligato. All’ immobilismo porta anche l’uso eccessivo della tecnologia, per cui, senza voler spingere a una regressione al primitivismo, è consigliato creare uno spazio per le dinamiche emotive del singolo.

L’ultimo fattore di “vaccinazione” antidepressiva può essere costituito dall’abilità del polemizzare senza odio. Siamo difatti immersi in una cultura più propendente verso il punire quando invece sarebbe più efficace esercitare la persuasione, questo perché punendo si vanno a creare due fazioni, ognuna composta da persone che si sentono vittime, posizione che sollecita la depressione. Va ricordato infatti come Adler ritenga la persona depressa un accusatore frustrato. Infine, un antidoto apparentemente banale è quello dell’accettazione di sé proponendosi dunque per l’accettazione altrui; impostare modifiche interiori trasformando l’autocritica in nuova capacità produttiva, in un rinnovamento mutevole dei propri mezzi d’espressione.

Riassumendo, dal punto di vista Adleriano, per sconfiggere la depressione, occorre accettarsi e fare progetti nella sessualità, negli affetti, nel vivere civile, nell’impiego duttile di tutte le proprie doti.

 

I genitori sono tutti uguali.. o forse no. Come gestiscono le stress nello sport?

I genitori hanno un ruolo molto importante nello sviluppo di un atleta, permettendogli di raggiungere il proprio potenziale, fornendo supporto finanziario, organizzativo ed emotivo (Wolfenden & Holt, 2005).

 

Tuttavia, essere un genitore di un giovane atleta può essere impegnativo (Harwood & Knight, 2015) e non tutti i genitori si impegnano in modi appropriati o ottimali (Knight & Holt, 2014). Sfortunatamente, alcuni comportamenti dei genitori (ad. es., pressioni e comportamenti direttivi) sono associati a esiti sfavorevoli per gli atleti, tra cui un aumento dell’ansia precompetitiva e una riduzione del divertimento e della competenza percepita (Amado, Sánchez-Oliva, González-Ponce, Pulido-González e Sánchez-Miguel, 2015; Boiché, Guillet-Descas, Bois, & Sarrazin, 2011; Bois, Lalanne, & Delforge, 2009). È stato suggerito che la dimostrazione di comportamenti genitoriali inappropriati può aumentare se i genitori non sono in grado di far fronte efficacemente ai fattori di stress che incontrano in contesti sportivi d’élite e di gestire le relative minacce (Harwood & Knight, 2009b).

Per valutare la minaccia, un individuo utilizza 2 tipi di valutazione: primaria e secondaria (Lazarus, 1999). Durante la prima valutazione, l’individuo porta alla luce il significato personale di una domanda sulle proprie convinzioni e valori. Ad esempio, un genitore potrebbe valutare il proprio figlio che vive in un centro di formazione da lunedì a venerdì con il timore di non essere in grado di sostenerlo nei momenti di difficoltà. Tuttavia, un altro genitore potrebbe valutare la stessa situazione come un’eccellente opportunità per il proprio figlio di sviluppare indipendenza e autonomia. La valutazione secondaria, invece, è correlata all’esplorazione da parte di un individuo della propria capacità di far fronte ai fattori di stress (Lazarus, 1999). Ad esempio, nel caso precedente, un genitore potrebbe pensare di avere le risorse per far fronte al fatto che il proprio figlio vive lontano dalla famiglia, mentre l’altro no.

I fattori di stress per i genitori degli atleti

I fattori di stress possono essere:

  • competitivi, che comprendono le richieste relative alla partecipazione del proprio figlio alle competizioni, compresa la preparazione della partita, i problemi con gli avversari e le prestazioni e le reazioni del proprio figlio;
  • organizzativi, che sono esigenze associate alla logistica quotidiana, agli investimenti personali e al sistema/organizzazione in cui operano i genitori, compreso l’impatto finanziario dello sport sulla famiglia, il trasporto del bambino all’allenamento e alla competizione e la gestione degli infortuni;
  • di sviluppo, che consistono in richieste associate al futuro sviluppo sportivo, educativo e personale del loro bambino (Burgess et al., 2016; Harwood & Knight, 2009a).

Le strategie di coping dei genitori degli atleti

Contrariamente agli studi sui fattori di stress, pochi si sono concentrati sulle strategie di coping utilizzate dai genitori (Hayward, Knight e Melalieu, 2017). Il coping si realizza attraverso continui sforzi cognitivi e comportamentali per gestire le richieste valutate come minacciose (Nicholls & Polman, 2007). Ad esempio, genitori di ginnasti e nuotatori d’élite hanno riferito di aver utilizzato diverse strategie per far fronte ai fattori di stress che incontravano. Queste strategie di coping sono state suddivise in 4 temi: distacco dallo sport, normalizzazione delle esperienze, volontà di apprendere e gestione delle reazioni emotive. Queste strategie sembrano variare a seconda del fattore di stress (es., tempo richiesto o guardare i propri figli competere), della situazione (es. fattori di stress competitivi incontrati dai genitori prima, durante o dopo le prestazioni dei propri figli) e del periodo temporale (es. competizione o allenamento) (Burgess et al., 2016; Hayward et al., 2017).

Tuttavia, secondo Lienhart e colleghi (2019), esistono differenze interindividuali nelle esperienze di stress e di coping dei genitori che possono derivare da una serie di ragioni, comprese le precedenti esperienze di stress, la risposta del loro bambino o il contagio emotivo (Hayward et al., 2017). Date tali differenze, è chiaro che i genitori dovrebbero essere considerati come individui piuttosto che come gruppi quando vengono sviluppate iniziative, incontri o formazioni con genitori sportivi, cercando di individualizzare l’insegnamento di nuove strategie di coping (Knight, Dorsch, Osai, Haderlie e Sellars, 2016).

 

Strategie d’intervento nel gioco di azzardo patologico (GDA)

Nell’ambito del Gioco d’Azzardo Patologico occorre che il terapeuta ed il giocatore costruiscano una relazione basata su aspetti di compliance al trattamento più che di controllo del sintomo in senso stretto.

 

La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme (D. Winnicott).

Il Gioco d’Azzardo Patologico

Quando si inizia a progettare un intervento terapeutico per un giocatore d’azzardo patologico le variabili da tenere in considerazione sono molteplici. Bisogna valutare a quale tipologia di giocatore il paziente appartiene, in secondo luogo saper scegliere gli strumenti terapeutici efficaci ed efficienti in termini di evidence based health, fare riferimento all’esperienza clinica e, last but not least, valutare l’alleanza terapeutica che si è instaurata con la persona che si ha di fronte. Ogni paziente, pur “facendo parte” di qualche classificazione nosologica, possiede una sua individualità, una storia e un’infinità di mondi interni che lo rendono unico ed irripetibile e che, inevitabilmente, determinano il fatto che ogni trattamento terapeutico non possa essere la replica di nessun altro. Un trattamento efficace per risultare efficiente deve essere ad approccio multifattoriale; cioè che sappia integrare i diversi saperi (la medicina, la psicologia, la pedagogia e le scienze sociali), i diversi approcci teorici (cognitivo-comportamentale, psicoanalitico, sistemico-relazionale o gruppale), i differenti setting di intervento (ambulatoriale, residenziale), inoltre, accanto ai più tradizionali strumenti terapeutici (psicoterapia individuale e famigliare, gruppi terapeutici, gruppi di auto-mutuo aiuto per pazienti e famigliari, presa in carico sociale, accompagnamento educativo) è necessario sviluppare strumenti “innovativi” per rispondere alle specificità cliniche del Gioco d’Azzardo Patologico (DGA). La fase iniziale di presa in carico rappresenta un importante momento di valutazione ed autodiagnosi che il paziente (e la famiglia, laddove questa rappresenti una risorsa utile e coinvolgibile) fa del proprio comportamento disfunzionale. Si tratta ovviamente di strumenti Self Report poiché una delle principali differenze con la clinica dei disturbi da uso di sostanze è che nel caso del Gioco d’Azzardo Patologico non è ovviamente possibile marcare biologicamente il comportamento. Si tratta di strumenti di auto-osservazione che vengono in parte gestiti dal paziente per quanto concerne la rendicontazione del giocato, attraverso la compilazione del diario giornaliero, ed in parte possono invece essere compilati dai familiari, attraverso il controllo scrupoloso del conto corrente e di tutti gli strumenti bancari di gestione del denaro. Tali procedure consentono di fare diagnosi e di mettere in sicurezza il paziente e la sua famiglia, riducendo al minimo il rischio di ulteriori perdite di denaro. Nell’ambito del Gioco d’Azzardo Patologico non è possibile garantire un controllo completo del sintomo, né avere conferme “oggettive” del raggiungimento di una condizione di remissione completa poiché, anche laddove si attivino ulteriori misure di messa in sicurezza dei pazienti (ad esempio all’apertura di un’Amministrazione di Sostegno), ciò non impedisce in alcun modo al giocatore di richiedere ed ottenere prestiti presso Istituti di credito, finanziarie o, ancor più grave, a usurai. Occorre quindi che il terapeuta ed il giocatore costruiscano una relazione basata su aspetti di compliance al trattamento più che di controllo del sintomo in senso stretto; gli strumenti di gestione del denaro vanno orientati anzitutto ad obiettivi di riduzione del danno, in secondo luogo al raggiungimento della remissione (completa o parziale) e, in ultimo, alla prevenzione delle recidive. La definizione degli “ingredienti terapeutici”, della modalità e intensità con cui proporli al paziente, dipende anche dalla “scelta” di un modello di classificazione del giocatore che possa guidare il terapeuta nel delineare protocolli di intervento adatti alle caratteristiche dei diversi soggetti. Si utilizzano di solito o quella di Blaszczynski e Nower (2000) o la suddivisione in action seeking gamblers (giocatori d’azione) ed escape seeking gamblers (giocatori per fuga) di Lesieur (1977). La preferenza degli obiettivi dipende anche dal livello motivazionale del paziente, quest’ultimo valutabile attraverso il modello transteorico degli stadi del cambiamento di Prochaska e Di Clemente (1982):

  • La precontemplazione, il paziente non ha ancora preso in considerazione l’idea di cambiare, non lo vuole o non se ne sente capace.
  • La contemplazione, la persona ammette di essere preoccupata e prende in considerazione la possibilità del cambiamento, vi è ambivalenza ed incertezza.
  • La determinazione, in questa fase la persona sta progettando di mettere in atto un cambiamento nel futuro prossimo, considera che cosa fare in concreto.
  • L’azione, l’utente effettivamente inizia a procedere verso il cambiamento, ancora non si trova in una condizione di stabilità.
  • Il mantenimento, il paziente in questa fase raggiunge l’obiettivo iniziale della remissione e opera per mantenere le acquisizioni raggiunte.

In base alla valutazione motivazionale sarà possibile modulare gli interventi, orientandoli, ad esempio, all’esplorazione delle possibili conseguenze del perpetuare il comportamento di gioco patologico versus l’interromperlo; ad es. utilizzando lo strumento della “bilancia motivazionale”; oppure, qualora il paziente si trovi in una fase di determinazione/azione, ci si potrà focalizzare  sui triggers, o ancora, in fase di mantenimento, l’intervento potrà essere regolato verso la prevenzione della ricaduta.

La MET è una tecnica che viene usata nelle fasi iniziali della terapia cognitivo-comportamentale per affrontare la resistenza e l’ambivalenza e rafforzare la motivazione al cambiamento, concordando con il paziente gli obiettivi da raggiungere. Consta di quattro sessioni pianificate e individualizzate. Le prime due sono basate su quanto emerso in fase di assessment, sui progetti del paziente e sul suo livello di motivazione al cambiamento. Le ultime due sono utilizzate dal terapeuta per rafforzare i progressi e per fornire una prospettiva realistica sul processo di cambiamento. Altra risorsa d’intervento è l’utilizzo del gruppo, esso rappresenta nella tradizione clinica delle dipendenze patologiche, un prezioso strumento terapeutico: favorisce potenti meccanismi trasformativi attraverso la nascita di legami identificativi, lo sviluppo di relazioni transferali fra pari e la creazione di una cultura comune: esso è un’esperienza evolutiva per i suoi membri. Yalom individua nel gruppo alcune caratteristiche: Universalità, Informazioni, Infusione della speranza, Cambiamento del copione familiare, Altruismo, Sviluppo di tecniche di socializzazione, Comportamento imitativo, Apprendimento interpersonale, Coesione del gruppo, Catarsi. Il gruppo diviene anche luogo in cui suggellare l’alleanza terapeutica con il Servizio, con evidenti ricadute positive in termini di efficacia dell’intervento. La terapia cognitivo-comportamentale si basa essenzialmente sull’assunto secondo cui molti disturbi psichici sono dovuti alle particolari e complesse relazioni esistenti tra pensieri, emozioni e comportamenti.

Distorsioni e schemi cognitivi nel Gioco d’Azzardo Patologico (GDA)

Secondo questo modello non è la situazione che fa sentire bene o a disagio un individuo (cioè che provoca una determinata emozione), ma ciò che egli pensa dell’evento stesso (il significato che ha quell’evento per quella persona, come lo interpreta). Il significato attribuito ad un evento e i pensieri legati a questo che spesso sopraggiungono in modo automatico, sono influenzati però da convinzioni più profonde relative al funzionamento del mondo e al rapporto dell’individuo con esso. In altre parole, i pensieri (automatici e irrazionali), relativi ad un evento o ad una situazione, sono influenzati dagli “schemi cognitivi”, stili di pensiero con cui ci si rappresenta la realtà. Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, la caratteristica centrale e ricorrente dei giocatori con Gioco d’Azzardo Patologico è rappresentata dalle distorsioni cognitive riguardanti il gioco d’azzardo, in particolare da un’erronea percezione del concetto di casualità. Si può infatti osservare come nella maggior parte dei giocatori con Gioco d’Azzardo Patologico siano presenti delle convinzioni erronee soprattutto riguardo alle possibilità di vincita o di perdita. Molti giocatori, ad esempio, credono di poter controllare le loro vincite o di poter prevedere gli esiti del gioco. Non è infrequente riscontrare tra di essi idee come quella che perdere molto aumenta le probabilità di vincite future o che vincere molto indica la possibilità di altre vincite future.

Questo insieme di idee erronee rappresenta le più comuni distorsioni cognitive. Tuttavia, è stato sperimentato come il livello di distorsioni cognitive, in buona parte responsabile dell’avvio e del mantenimento del disturbo, possa essere ridotto dal trattamento cognitivo-comportamentale. È stato anche rilevato come la presenza di distorsioni cognitive sia correlata ad un elevato grado di impulsività; questo potrebbe essere uno dei fattori responsabili della persistenza delle distorsioni cognitive in presenza di elementi di realtà più che evidenti, come il continuare a perdere denaro e accumulare problemi, poiché non concederebbe al soggetto il tempo necessario per riflettere o stimare/anticipare le conseguenze delle decisioni. Il fattore impulsività risulta essere correlato ad un pensiero del tipo “tutto o nulla” (distorsione cognitiva) o ad una eccessiva personalizzazione delle esperienze negative, di conseguenza uno stile impulsivo, nella presa di decisioni, può accentuare la tendenza a considerare come adeguate alcune credenze erronee rispetto ad altre più razionali. Quando il giocatore sperimenta l’esperienza della perdita in seguito ad una previsione di vincita, si crea in breve tempo una dissonanza cognitiva, una sostanziale distanza tra ciò che si crede e la realtà dei fatti, che evidenzia come la probabilità di vincere al gioco d’azzardo sia del tutto casuale e quindi indipendente dalle convinzioni del giocatore. È a questo punto che il giocatore inizia a sviluppare varie strategie conseguenti alle sue specifiche distorsioni cognitive ritenendo così di poter aumentare la probabilità di vincita. Queste false credenze, secondo cui egli si sente in grado di controllare eventi che in realtà sono determinati dal caso, sono responsabili in larga misura del mantenimento del Disturbo da Gioco d’Azzardo. Le distorsioni cognitive fanno sì che i giocatori formulino una errata valutazione dei risultati del gioco, la cui conseguenza sarà quella di credere che nel tempo i risultati saranno in qualche modo pareggiati. La terapia CBT si propone dunque come obiettivo primario quello di mettere in discussione queste credenze erronee allo scopo di indurre il giocatore a modificare il comportamento. Ladouceur, Sylvan e Boutin (Ladouceur e coll. 2000) hanno proposto un protocollo che individua un percorso di ristrutturazione cognitiva, costituito da:

  • Acquisizione e comprensione della nozione di “caso” attraverso la psicoeducazione (ogni puntata è indipendente dall’altra, non può esistere alcuna strategia di controllo dei risultati in un gioco d’azzardo, è impossibile controllare il caso); per raggiungere questi obiettivi ci si avvale anche di dimostrazioni pratiche, ad esempio usando i dadi.
  • Identificazione delle credenze erronee: attraverso l’Analisi Funzionale, che consiste nell’applicazione del modello ABC per l’individuazione delle distorsioni cognitive e/o dei pensieri disfunzionali che inducono stati d’animo, il terapeuta lavora per individuare le credenze erronee e correggere l’errore relativo al principio dell’indipendenza degli eventi, evidenziando che l’illusione del controllo è un potente fattore di mantenimento del Disturbo da Gioco d’Azzardo.
  • Addestramento alle verbalizzazioni adeguate dei pensieri irrazionali (esprimere ad alta voce tutti i pensieri che attraversano la mente durante una sequenza di gioco): dopo aver identificato le convinzioni irrazionali e disfunzionali (distorsioni cognitive) il terapeuta descrive e dimostra la differenza tra le verbalizzazioni adeguate e quelle non adeguate
  • Addestramento alla correzione cognitiva delle verbalizzazioni inadeguate e disfunzionali talvolta anche con l’ausilio della registrazione sonora, da far riascoltare al paziente. L’impostazione cognitivo-comportamentale integra le tecniche comportamentali, di sviluppo delle abilità sociali, di produzione di gratificazioni alternative e più funzionali e quelle di coping ed esplora e individua i meccanismi di rinforzo positivo o negativo. Il percorso terapeutico permette di far individuare al giocatore i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a giocare: il paziente tenderà nella maggior parte dei casi, se consapevole dell’esistenza di un vero e proprio disturbo e se motivato a superarlo, ad individuare rapidamente gli svantaggi del continuare a giocare.

Il terapeuta ha il compito di sostenerlo nella individuazione e nella comprensione dei possibili vantaggi, come ad esempio fuggire da una situazione di stress e preoccupazioni e procurarsi quindi uno stato di sollievo (auto-medicazione) o procurarsi un momento di piacevole eccitazione all’idea di risolvere tutti i suoi problemi economici. Il giocare d’azzardo può servire, al pari delle sostanze chimiche, a modificare gli stati emotivi, funge da “stabilizzatore dell’umore”. Si è ipotizzato che alcune persone abbiano una scarsa capacità sia nella identificazione delle emozioni sia nella loro gestione, in particolare con la tendenza a non esprimere lo stato emotivo e una scarsa capacità nella ridefinizione del significato dell’evento attivatore dell’emozione negativa (reappraisal). Per questo tipo di giocatori il comportamento di gioco d’azzardo rappresenta un efficace regolatore delle emozioni, ed è forse anche per tale ragione che esso ben presto diventa la modalità elettiva per la ricerca dell’equilibrio emotivo, fino allo sviluppo della dipendenza. Una caratteristica dei soggetti con Gioco d’Azzardo Patologico è, oltre alle scarse capacità di gestione delle emozioni e alla difficoltà di controllo degli impulsi, quella di non saper affrontare adeguatamente le situazioni avverse in grado di provocare stati d’animo negativi come ansia, tensione emotiva, depressione, noia, frustrazione, ecc. Per tale ragione è importante intervenire, nel corso del trattamento psicoterapico sullo sviluppo delle abilità di coping. L’intervento CBT comprende a tal proposito specifici Training: Problem Solving, per insegnare ai pazienti a fronteggiare i problemi, le avversità, le situazioni difficili sia nel quotidiano che per quanto riguarda i problemi legati al Gioco d’Azzardo; Decision Making e Social Skills Training, per lo sviluppo delle abilità sociali, sia per prendere delle decisioni più funzionali ed adeguate alla realtà, sia per sostenere il paziente nell’uscita dallo stato di isolamento, instauratosi a causa della pervasività del gioco d’azzardo, e ristabilire o creare relazioni adeguate con gli altri; Prevenzione delle Ricadute, per addestrare il paziente ad affrontare in modo adeguato, attraverso le tecniche acquisite durante il percorso di psicoterapia, eventuali situazioni rischiose e conseguenti ricadute nel comportamento di gioco d’azzardo. Ciò può avvenire con relativa facilità perché in quel momento, confrontandosi con il terapeuta e lontano dai triggers, egli è lucido e del tutto ragionevole. Prendere coscienza di cosa comporta la rinuncia al gioco d’azzardo, al di là delle buone e ragionevoli intenzioni, è molto importante e utile perché può potenzialmente indurre nel paziente una attivazione verso alcuni cambiamenti del proprio modo di vivere, fino a quel momento condizionato dalla assoluta centralità del gioco d’azzardo. Togliendo o riducendo il gioco d’azzardo, il paziente può riscoprire piaceri dimenticati, interessi mai avuti, e soprattutto può sperimentare benessere e sollievo senza ricorrere necessariamente al gioco. Il terapeuta aiuta il paziente a fare una lista delle situazioni a rischio, momenti in grado di stimolare nel paziente il desiderio di giocare, come: luoghi, persone, pubblicità o particolari stati d’animo e attraverso la tecnica dell’Analisi Funzionale si individuano quei pensieri irrazionali che, innescati dalle situazioni a rischio, costituiranno delle “autorizzazioni” al comportamento di gioco, ossia la scelta di giocare. Il riconoscimento e la consapevolezza di questi pensieri come attivatori della scelta di giocare possono consentire al paziente una decisione più consapevole e meno automatica, il che si può tradurre operativamente in una minore probabilità di comportamento di gioco d’azzardo. L’esplorazione sia delle modalità di gioco, comprese tutte le azioni che il paziente fa per riuscire a giocare, sia degli errori di pensiero, facendo descrivere nei dettagli una intera sessione di gioco, sarà importante, perché darà spiegazioni e informazioni riguardanti i meccanismi cognitivi delle credenze irrazionali e il loro effetto sul comportamento di gioco, delle idee erronee presenti nel paziente, e della loro funzione di rinforzo sul gioco d’azzardo. Nella Prevenzione delle Ricadute il paziente si sperimenta nella condotta d’astinenza avendo acquisito le capacità di riconoscere e modificare i pensieri erronei e di identificare le situazioni a rischio, oltre agli stati emotivi potenzialmente in grado di innescare il craving. Il poter fronteggiare il craving, e sperimentare la propria autoefficacia e il conseguente rafforzamento dell’autostima e della self efficacy possono rendere meno probabile il ritorno al gioco d’azzardo.

Trattare il Gioco d’Azzardo Patologico con l’EMDR

L’Eye movement desensitization/reprocessing (EMDR) si è rivelata una tecnica utile nella prevenzione delle ricadute soprattutto nelle persone in cui si ipotizza l’esistenza di una significativa correlazione tra il disturbo da dipendenza e i vissuti traumatici di vario genere sperimentati durante l’infanzia. Si ipotizza che probabilmente in questi soggetti si sia sviluppata la dipendenza come una strategia difensiva e di fuga dallo stress prodotto dal trauma. L’EMDR permette l’individuazione di ricordi o di immagini legati all’avvio del disturbo, scopo della tecnica è quello di riprocessarli, attraverso il meccanismo della desensibilizzazione sistematica. Il riprocessamento prevede la “stimolazione bilaterale”; Shapiro ha evidenziato come i movimenti oculari possano attenuare la carica emotiva disfunzionale dei ricordi disturbanti collegati al trauma aiutando i soggetti con Gioco d’Azzardo Patologico a mantenere nella memoria le loro esperienze traumatiche riprocessandole in una maniera meno disturbante, così da attenuare il craving e rendere meno necessario il ricorso al Gioco d’Azzardo.

Trattare il Gioco d’Azzardo Patologico con la Mindfulness

Altra strategia d’intervento che si è dimostrata efficace è la Mindfulness. Essa viene pensata come un’abilità di coping affettivo poiché aiuta i pazienti a mantenere la distanza dalle loro cognizioni ed emozioni, tramite due processi chiamati decentramento (Hofmann, 2012) e distanziamento (Hayes 2012). I pazienti imparano a vivere nel qui ed ora e che le loro cognizioni ed emozioni sono solo eventi mentali, piuttosto che fatti. I pazienti apprendono anche che ciascun momento è unico e che l’angoscia emotiva provata in un dato momento non implica necessariamente angoscia emotiva in momenti successivi. Le persone vengono incoraggiate ad affrontare i propri pensieri; Jon Kabat-Zinn (Jon Kabat-Zinn)1990 definisce questo come “porre attenzione in un modo particolare” a sé stessi: intenzionalmente, nel momento presente e in modo non giudicante. Nel 1979 il dr. J. Kabat- Zinn ideò e strutturò la Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) per poter somministrare una terapia ai malati cronici; questa tecnica risulta d’aiuto ai pazienti affetti da dolore cronico, nello specifico nel ridurre i pensieri e i comportamenti di rimuginazione e di distrazione. Obiettivo della terapia è quello di defondersi dai propri pensieri dolorosi ampliando e sviluppando il Sé Osservante per porsi in una posizione di differente prospettiva, iniziando un percorso verso l’accettazione del dolore, passo importante per poter vivere una vita che si incammina verso i propri valori: come un impegno quotidiano. Bowen (Bowen e coll. 2012) ha introdotto la Mindfulness nel trattamento delle dipendenze, realizzando un programma di prevenzione della ricaduta denominato MBRP – Mindfulness Based Relapse Prevention. Condivide come obiettivo di modificare il rapporto che l’individuo ha con sé stesso, osservandosi senza giudicarsi, riconoscendo i propri processi cognitivi- affettivi che lo inducono a comportarsi in maniera disfunzionale; alimentando a sviluppare la capacità di mentalizzare i propri stati affettivi, senza regolarli attraverso la ricerca del gioco. L’atteggiamento non giudicante facilita anche la riduzione dei sentimenti di colpa e di fallimento durante il periodo della ricaduta. La pratica della mindfulness facilita la diminuzione della “ruminazione mentale” e incrementa la capacità di accettazione, favorisce l’interruzione dei triggers che contribuiscono alla messa in atto del comportamento disfunzionale. Bowen e alt. (Bowen, Chawla e Marlatt 2010) hanno notato che, adoperando la mindfulness con i pazienti che usano il gioco come modulatore delle emozioni e come strategia disfunzionale di adattamento alla realtà, essi potevano approdare ad una esperienza consapevole delle proprie emozioni, di non attribuire un significato di verità ai pensieri, di affrontare la realtà senza aspettative, accettando quando succedeva senza giudicarsi. Inoltre, studi evidence -based hanno dimostrato come la mindfulness abbia influenza sui processi neuronali legati all’esperienza di craving e sui processi neuroadattativi associati all’addiction: i processi automatici bottom-up  di risposta allo stress e alla reattività emozionale, la spinta alla ricerca dello stimolo vengono ad essere ridotti; di contro si incrementerebbero i processi top-down quali quelli della regolazione attentiva e delle emozioni, il controllo cognitivo, la motivazione e il decision making (Witkiewitz, Bowen, Douglas et alt.2003). MBRP è un protocollo Mindfulness specifico per la prevenzione delle ricadute delle dipendenze da sostanze e comportamentali (Witkiewitz et al. 2005). Agisce su: Stress, Emozioni negative, Comportamento patologico di ricerca di piacere derivante dall’utilizzo di Internet. Il protocollo MBRP serve per far comprendere al soggetto gli schemi che lo legano alla dipendenza, offre così la possibilità di uscire da questi e allontanarsi dai comportamenti patologici, inoltre risulta utile per prevenire le ricadute; poiché la ricaduta, di solito viene vissuta come una sconfitta e un fallimento. La persona apprenderà attraverso gli incontri di mindfulness che fallire significa “ho fallito”, ma “posso farcela”.  Il protocollo Mindfulness Based Relapse Prevention si divide in otto incontri a cadenza settimanale, ognuno con una durata di due ore circa. Gli argomenti degli incontri saranno:

  • Pilota automatico e ricaduta. L’obiettivo sarà quello di far comprendere alla persona che agisce il comportamento disfunzionale senza consapevolezza. L’automatismo porta a compiere una serie di azioni senza il giocatore se ne renda conto. Questo è uno dei primi meccanismi responsabili che lo portano alla ricerca di gratificazione attraverso un comportamento disfunzionale come l’utilizzo incontrollato e patologico del gioco.
  • Consapevolezza degli eventi che innescano la dipendenza da gioco d’azzardo. L’obiettivo sarà quello di aumentare la consapevolezza degli eventi scatenanti (triggers) la dipendenza. Comprendere quali esperienze di vita innescano pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali.
  • La Mindfulness nella vita quotidiana; la Mindfulness può aiutare a disinnescare il pilota automatico, scopo sarà quello di portare la consapevolezza nella vita di tutti i giorni.
  • La Mindfulness nei comportamenti ad alto rischio È un passaggio fondamentale del programma MBRP. L’obiettivo sarà quello di insegnare al soggetto come utilizzare la Mindfulness nelle azioni potenzialmente rischiose, quelle che solitamente attivano il processo di addiction.
  • Accettazione e comportamento efficace: il mantra sarà: “Presta attenzione al presente”. La persona apprenderà che non si possono, a volte, controllare alcune emozioni quali ansia, rabbia e tristezza. Apprenderà quindi che bisogna accettare questi momenti, adottando così un’azione più efficace.
  • Vedere i pensieri come pensieri. L’obiettivo sarà quello di comprendere che i pensieri non sono realtà assolute, essi non sono fatti bensì sono solo delle supposizioni, degli schemi mentali, si è liberi di credere oppure no ad essi. Assieme al paziente si analizzano quali pensieri si attivano nel momento in cui si utilizza il gioco in modo incontrollato.
  • Cura di sé stessi e stile di vita equilibrato. In questa sessione, si esaminerà lo stile di vita attuale del soggetto, per comprendere cosa può essere dannoso e ad alto rischio. L’obiettivo sarà quello di costruire un piano d’azione mirato alla cura del proprio corpo e della propria mente.
  • Supporto sociale e pratica continua. In questo incontro verranno discusse nuovamente le pratiche precedenti, per comprendere, una volta terminato il programma MBRP, che sarà fondamentale attuare una pratica continua di mindfulness. Si discuterà con il paziente dell’importanza della rete di supporto sociale.

Pornografia: i ruoli, le norme di genere e la prevalenza della violenza delle relazioni

L’industria della pornografia è cresciuta a dismisura negli ultimi vent’anni. Grazie anche ad internet e alla crescente normalizzazione all’interno della nostra società, gli utenti possono accedere ad una serie infinita di contenuti sessualmente espliciti in qualsiasi momento e ovunque vogliano (Price et al., 2016).

 

Inoltre, il numero di utenti raggiunti cresce di anno in anno; il sito pornhub.com ha dichiarato che “nel 2019 ci sono state oltre 42 miliardi di visite su Pornhub, il che implica una media di 115 milioni di visite al giorno” (Pornhub.com, 2019).

Nonostante la crescita e la normalizzazione dell’industria pornografica sottintenda aspetti positivi per la nostra società, essa comporta anche conseguenze negative per quanto riguarda i ruoli, le norme di genere e la prevalenza della violenza delle relazioni.

La violenza nella pornografia

Lo studio di Stepanko (2022) ha esaminato la letteratura disponibile sugli effetti che la pornografia ha sulle norme di genere e sulla prevalenza della violenza nelle relazioni intime, supportando l’idea che la pornografia, insieme ad altri fattori, abbia la capacità di influenzare negativamente i ruoli e le norme di genere e di condonare la violenza contro le donne, normalizzandola per molti dei suoi spettatori.

Ciò non stupisce dato che la pornografia attuale raffigura molte sfaccettature della mascolinità tossica e della violenza, dove le donne sono costantemente oggettivizzate sessualmente e sono più che spesso vittime di aggressioni verbali e fisiche (Mikorski & Szymanski, 2017). Un’analisi di Brem e colleghi (2018) ha dimostrato che nei video pornografici mainstream, l’88% delle scene ritraeva violenza fisica e il 48% ritraeva aggressioni verbali. Questa violenza e aggressione era diretta per il 94% delle volte verso le donne (Brem et. al.,2018).

Se consideriamo, inoltre, che gli utenti dei siti pornografici tendono ad essere sempre più giovani (Stepanko, 2022), le statistiche precedenti risultano particolarmente preoccupanti dato che l’esposizione a questi comportamenti e ideologie può avere un impatto sulle opinioni, le credenze e la comprensione dei ruoli di genere da parte degli spettatori.

Per spiegare questi comportamenti di violenza viene spesso utilizzata la teoria del copione, che suggerisce che più un individuo è esposto ad un particolare stile di vita, comportamento o ideologia, più è probabile che l’individuo li normalizzi e li eserciti nella propria vita. Pertanto, nel contesto della pornografia, se un individuo visualizza costantemente media pornografici violenti o aggressivi, è più probabile che agisca in base a questi copioni nelle proprie relazioni di coppia e sessuali (Rostad et. al.,2019).

A conferma della teoria del copione, molti studi hanno riscontrato correlazioni positive tra l’esposizione alla pornografia violenta e una maggiore tendenza alla violenza sulle donne, oltre a detenere credenze a favore della violenza contro le donne (Mikorski & Szymanski, 2017). In particolare, in riferimento alla teoria del copione, è stata confermata anche la relazione tra visione di pornografia violenta e aggressioni/violenza negli appuntamenti romantici tra adolescenti (CIT).

Effetti della pornografia violenta sugli adolescenti

Sebbene la mascolinità egemonica sia riscontrabile in vari aspetti della nostra società e sia costantemente rafforzata attraverso film, programmi televisivi, musica, pubblicità e riviste, i ruoli di genere visualizzati all’interno di una grande quantità di video e immagini pornografiche aggiungono un altro livello, più profondo, di mascolinità tossica attraverso l’aggressione sessuale e la subordinazione delle donne. Questo risulta essere un problema per tutta la popolazione, ma per gli adolescenti è un problema maggiormente significativo data l’impressionabilità e la mancanza di conoscenza che hanno sul comportamento sessuale appropriato e sui ruoli di genere.

Oltre all’uso della violenza, la pornografia crea un’idea irrealistica delle relazioni sessuali e degli standard corporei. I risultati ci mostrano, ad esempio, che coloro che hanno sviluppato un consumo malsano di pornografia spesso hanno difficoltà ad eccitarsi con rapporti sessuali genuini (Medical News Today, 2021). Inoltre, le donne che guardano la pornografia sessualmente oggettivante possono paragonare il loro aspetto fisico e le loro capacità sessuali alle protagoniste dei video o delle immagini, nonostante mostrino standard irrealistici di bellezza e fantasie sessuali (Wright et. al., 2016). Vengono a mancare inoltre esempi positivi sulle relazioni consensuali e di piacere realistiche tra le parti: “… la pornografia mainstream presenta tipicamente le donne come oggetti di scena per il piacere sessuale maschile: ricevendo sesso vaginale e anale, fornendo sesso orale agli uomini, e come partecipanti a (o vittime di) “doppia penetrazione” e stupri di gruppo” (Mikorski & Szymanski, 2017; p.259 Jensen, 2007).

Per cui, gli adolescenti, che si affidano alla pornografia come modello per l’educazione ai ruoli e ai comportamenti sessuali (Rostad et al., 2019), vedendo questi video violenti potrebbero iniziare a concepire le donne come oggetti sessuali e tentare di ricreare il contenuto del video con i propri partner, giungendo così alla violenza nella relazione (Mikorski & Szymanski, 2016, p.259).

Collettivamente, i dati mostrano che l’esposizione alla pornografia violenta porta i consumatori a interiorizzare ideologie maschili più tossiche, che in alcune circostanze possono portare alla violenza. Anche se c’è bisogno di ulteriori ricerche per meglio comprendere gli effetti che la pornografia ha sui ruoli di genere nella società e per accertare la relazione tra pornografia violenta e violenza nelle relazioni intime, alcuni autori sostengono l’esistenza di prove sufficienti per considerare questa questione come problematica e bisognosa di risoluzione.

Con l’escalation dei tassi di consumo di pornografia nella nostra società e gli utenti che diventano sempre più giovani, non è realistico aspettarsi che gli adolescenti non esplorino la pornografia, specialmente con la facile accessibilità; fornire un’educazione sulla navigazione della pornografia attraverso una lente critica potrebbe potenzialmente portare a ridurre la violenza negli appuntamenti degli adolescenti, le aspettative irrealistiche e una problematica ideologia dei ruoli di genere.

 

L’ipotesi del cervello matematico. Non soltanto lettori, ma anche matematici per natura

Esiste davvero una zona del cervello deputata, in maniera specifica, al riconoscimento delle quantità analogiche? Esiste davvero una capacità semantica innata, atta a distinguere quantità numeriche differenti, pur non avendo alcuna familiarità con la conoscenza numerica? Esiste davvero un “cervello matematico”?

 

In ambito neuropsicologico si è di spesso fatto riferimento alla capacità innata – tipica del genere umano- di apprendere la lingua parlata, intesa come la capacità di interpretare elementi di un codice linguistico da utilizzare nel contesto sociale. La teoria innatista del linguaggio (Chomsky, 1969) costituisce la testimonianza più consolidata di questa ipotesi. Al contempo si è costruita l’ipotesi circa l’esistenza di un instinct reading, una capacità non appresa grazie alla quale i soggetti sarebbero in grado di decodificare un contenuto linguistico in maniera quasi istintiva, senza necessità di apprendimento approfondito. Tutto ciò ha lasciato ipotizzare che esistano delle zone cerebrali direttamente coinvolte nell’espressione linguistica innata e nella sua trasmissione genetica. Recenti studi neuropsicologici hanno cercato di estendere questa capacità anche in ambito matematico, sostenendo come, analogamente a quanto avviene per la lettura e la lingua parlata, anche le strategie di calcolo possano costituire una competenza non appresa, ed occupare zone cerebrali funzionalmente destinate al loro utilizzo e al loro sviluppo. In poche parole si è ipotizzata la presenza di un “cervello matematico” innato.

La teoria piagetiana e i nuovi studi sulla competenza matematica dei bambini

Piaget (1964) afferma che la conoscenza dei numeri viene acquisita intorno ai 6/7 anni, nel periodo c.d. preoperatorio, e che in precedenza non sia possibile riscontrare alcuna competenza di memorizzazione, comprensione e riproduzione numerica.

Studi più recenti hanno ravvisato la possibile erroneità di tale assunto, rilevando che la presenza della consapevolezza numerica, e dunque dell’intelligenza matematica, sia in realtà molto antecedente alla soglia evolutiva sostenuta da Piaget.

Wynn (1992) ha dimostrato come già nei bambini di pochi mesi sia presente una sorta di istinto matematico che si esplicita con attenzione selettiva e sostenuta verso insiemi numerici più o meno numerosi. Un istinto innato, e dunque non appreso, che testimonia come la presenza di un cervello matematico in grado di far percepire le differenze quantitative potrebbe addirittura precedere l’acquisizione formale di competenze numeriche.

Gli esperimenti svolti con il metodo dell’abituazione e della preferenza sono fondati sul presupposto che i bambini osservino più a lungo stimoli nuovi, e che questo tempo di fissazione sia destinato a comprimersi man mano che lo stimolo perde il proprio connotato di novità, divenendo familiare.

Per consolidare l’ipotesi dell’esistenza di una conoscenza matematica non appresa, e quindi di una sorta di istinto numerico innato, si è ricorsi all’utilizzo dei due metodi indicati, applicandoli in esperimenti di osservazione strutturata.

In particolare alcuni bambini di 6 mesi sono stati posti di fronte ad un cartoncino- che vedevano per la prima volta- sul quale apparivano disegnati due pallini, l’uno accanto all’altro. I piccoli hanno osservato il cartoncino per un certo lasso di tempo, distogliendo lo sguardo solo quando è stato loro presentato un ulteriore cartoncino sul quale erano stati raffigurati tre pallini. Dunque un numero superiore rispetto al precedente.

Il tempo di fissazione maggiore che i bambini hanno dedicato al cartoncino contenente tre pallini dimostra un’avvenuta differenziazione tra grandezze, per quanto rudimentale e limitata ad un livello meramente percettivo, non cognitivo né semantico.

Tale competenza istintiva del riconoscimento numerico, con ulteriori esperimenti, è stata confermata in neonati da 1 a 12 giorni di vita (Antell e Keating, 1983).

Gli esperimenti sulla percezione della numerosità

Sembra di poter connotare di una matrice innata anche il concetto di percezione della numerosità.

Nel 1992 Wynn ha sottoposto un gruppo di bambini di 5 mesi ad un esperimento condotto col metodo di violazione dell’aspettativa, che presuppone un maggior tempo di osservazione dello stimolo presentato nel caso in cui quest’ultimo assuma una conformazione diversa rispetto a quella normalmente attesa.

Nello specifico, per la durata di alcuni minuti, ai bambini è stato mostrato un pupazzo che è poi stato collocato al di là di un pannello, in modo da non essere più visibile. Subito dopo ai bambini è stato mostrato un nuovo pupazzo, per lo stesso lasso di tempo, al termine del quale anch’esso è stato nascosto al di là del pannello. A questo punto gli sperimentatori hanno cominciato ad estrarre i pupazzi dal pannello, presentandone alternativamente due o uno soltanto. Nei casi di aspettativa numerica non violata i pupazzi presentati erano due, mentre nel caso di violazione dell’aspettativa veniva presentato un pupazzo soltanto. Sorprendentemente è risultata quest’ultima la condizione in cui i bambini hanno mostrato un tempo di fissazione maggiore. Evidentemente essi si aspettavano di veder uscire dal pannello tutti e due pupazzi che vi erano stati nascosti, e quando ciò non avveniva il loro livello attentivo risultava maggiore, così come i tempo di fissazione dello stimolo.

È dunque fondato ritenere che i bambini avessero maturato un’aspettativa numerica additiva o sottrattiva, mantenendo al contempo una rappresentazione dettagliata degli oggetti dietro il pannello anche quando questi scomparivano. Ma si tratta di bambini di 5 mesi, e questo contraddice clamorosamente quanto ipotizzato da Piaget.

L’ipotesi del cervello matematico

Dunque esiste davvero una zona del cervello deputata, in maniera specifica, al riconoscimento delle quantità analogiche? Esiste davvero una capacità semantica innata, atta a distinguere quantità numeriche differenti, pur non avendo alcuna familiarità con la conoscenza numerica? Sembra di poter rispondere affermativamente: studi di neuorimaging l’hanno identificata con il solco intraparietale, mentre il giro angolare sinistro è deputato alle competenze lessicali, di transcodifica verbale e di denominazione dei numeri, la parte posteriore del lobulo parietale superiore si occupa della matematica interna ai numeri, ovvero degli aspetti sintattici, di scrittura e di incolonnamento degli stessi, mentre la corteccia frontale consente le operazioni di conteggio mentale e scritto (Amalric, Denghien, Dehaene, 2018). Ogni dominio, ben distinto e strutturato, ha una competenze specifica che, integrandosi funzionalmente con quelle degli altri, favorisce il completarsi del processo di apprendimento aritmetico.

Non è tutto. Sembra che si possa assumere l’esistenza di una linea immaginaria dei numeri, una sorta di immagine visuospaziale che consente la rappresentazione di una disposizione numerica lineare, in senso crescente, orientata da sinistra a destra (Dehane, 1993).

Si può dunque ipotizzare l’esistenza di un cervello matematico innato, dato anche come gli studi scientifici depongono per l’esistenza di aree cerebrali deputate alla competenza del numero diverse da quelle interessate all’area lessicale. Questo significa che, esattamente come esiste un instinct reading, identificato nella capacità innata di utilizzare visivamente e fonologicamente i dati utili al processo di lettura, esiste anche una competenza matematica innata, grazie alla quale siamo naturalmente predisposti all’utilizzo e all’apprendimento dell’aritmetica.

D’altro canto non risulta così difficile credere che un istinto di riconoscimento per i numeri e le quantità semantiche  – il c.d. “subitizing”- (Kaufman, 1949) abbia potuto rivestire, nel corso della storia evolutiva della specie, una fattore protettivo indispensabile per la sopravvivenza, in quanto permetteva di discriminare la quantità di cibi da accaparrarsi, dei predatori da cui difendersi e simili.

Tali competenze numeriche innate, definite come fattori di selezione della specie, si ritroverebbero anche in alcune specie animali, a testimonianza di come una elementare e rudimentale competenza numerica sia frutto di una dote istintuale non suscettibile di apprendimento, ma naturalmente inserita nel patrimonio filogenetico dell’essere vivente.

La teoria piagetiana potrebbe dunque dover cedere terreno all’ipotesi del mathematical brain (Butterworth, 1999), che attribuisce all’essere umano doti matematiche innate, perché collegate a zone cerebrali specificamente deputate alla funzionalità aritmetica.

 

Psicologia dell’Emergenza: dai disastri naturali al Covid-19

Cosa succede nel momento in cui, su scala globale, l’evento emergenziale riguarda tutta la popolazione, inclusi coloro che si occupano degli interventi di Psicologia dell’Emergenza?

 

Cos’è la Psicologia dell’Emergenza?

La Psicologia dell’Emergenza è un particolare ambito della disciplina psicologica che opera attraverso azioni sul campo e attività di ricerca, nel campo dell’emergenza/urgenza che si sviluppa a seguito di eventi traumatici, disastri, calamità naturali e, più in generale, eventi critici ed improvvisi, che interessano non solo il singolo individuo, ma anche la più ampia collettività e comunità (Sbattella, 2009).

Questi eventi critici improvvisi, che possiamo riconoscere in alcuni esempi come terremoti, incidenti stradali, rapine sul posto di lavoro, hanno un impatto sul benessere psicologico e fisico degli individui coinvolti, rendendo dunque necessario un intervento di sostegno psicologico al fine di prevenire ricadute più gravi delle immediate reazioni di shock, stress, paura e la cronicizzazione del trauma che potrebbe evolvere in un vero e proprio disturbo da stress post traumatico (Sbattella e Tettamanzi, 2012).

La Psicologia dell’Emergenza si occupa dunque di quegli eventi che si pongono al di fuori dell’ordinario e dei processi psichici che ne conseguono (Sbattella, 2009), considerando in una visione complessa non solo il singolo individuo, ma anche la più ampia collettività comunitaria che partecipa e vive l’evento percepito come minaccioso, pericoloso, improvviso e imprevedibile. E questo avviene attraverso tre distinti momenti: il prima, attraverso la prevenzione; il durante, attraverso i processi di primo soccorso psicologico, mentalizzazione, empowerment; il dopo, con la riparazione, la risignificazione degli eventi e la loro rielaborazione storica e narrativa (Sbattella, 2009).

In particolare sono due gli interventi più rilevanti all’interno del primo soccorso psicologico che permettono al cittadino, vittima dell’evento traumatico, di elaborare e mentalizzare l’esperienza vissuta in forma narrativa e storiografica: il defusing e il debriefing.

Il defusing è un intervento di breve durata, massimo quaranta minuti, che si svolge in piccoli gruppi. È una tecnica definita “a caldo” poiché viene utilizzata subito dopo l’evento, permettendo una prima elaborazione narrativa comune di pensieri e di emozioni, in quanto tiene conto delle diverse prospettive dei partecipanti (Trabucco e Buonocore, 2007).

Il debriefing invece è un intervento più strutturato, “a freddo”, che viene effettuato dalle 24 alle 76 ore dopo l’evento traumatico e ogni incontro dura circa tre ore, per un totale di circa dodici settimane. Anche il debriefing si svolge in piccoli gruppi e permette ai partecipanti di comprendere e normalizzare il proprio vissuto e la propria esperienza, riducendone l’impatto emotivo e permettendo di identificare i soggetti a rischio di ricadute più gravi (Trabucco e Buonocore, 2007).

Dai disastri naturali al Covid-19: l’intervento in emergenza/urgenza

Nell’immaginario collettivo dunque lo Psicologo dell’Emergenza è lo psicologo soccorritore umanitario che, nel momento in cui avviene un disastro collettivo, più tipicamente di origine naturale, come inondazioni o terremoti, interviene per offrire il primo soccorso psicologico alle vittime e alle loro famiglie, accompagnandole nel processo di ricostruzione personale e collettivo delle proprie vite e della comunità più ampia. Un soccorritore esterno, che non ha vissuto direttamente l’evento, ma che facilita quei processi di risignificazione narrativa attraverso le tecniche di defusing e debriefing che possono prevenire il cronicizzarsi dei vissuti traumatici. Cosa succede quindi nel momento in cui, su scala globale, l’evento emergenziale riguarda tutta la popolazione, psicologi compresi?

Durante la pandemia di Covid-19 gli psicologi dell’emergenza hanno ricoperto infatti un duplice ruolo, che forse mai prima d’ora era stato ricoperto con questa estensione: quello di soccorritore, ma anche quello di vittima, acquisendo una dimensione del tutto nuova (Dalvit, et al., 2020). Si sono resi infatti necessari prima di tutto interventi di confronto e sostegno per gli operatori della salute mentale in emergenza (Dalvit, et al., 2020; Conte, et al., 2020) per poi rivoluzionare le classiche modalità di intervento che hanno caratterizzato da sempre l’intervento psicologico in emergenza/urgenza: l’impossibilità di svolgere servizi di primo soccorso psicologico in presenza ha quindi traslato gli interventi andando a costituire da un lato il videodebriefing e dall’altro la creazione di attività basate sulla tecnologia, come ad esempio il telefono, che potessero sostenere la popolazione durante il periodo della quarantena, fornendo servizi di ascolto per i cittadini (Dalvit, et al., 2020).

Partendo dunque da interventi tra e per gli operatori dell’emergenza, che permettessero una narrazione personale e professionale degli eventi della pandemia e creassero una rete di confronto e supporto per gli psicologi coinvolti negli interventi rivolti ai cittadini, si è poi arrivati alla costruzione di un piano di azione che permettesse alla popolazione di accedere a servizi di supporto utilizzando nuovi mezzi di comunicazione. In particolare, i servizi di ascolto psicologico telefonico sono stati bene accolti dagli utenti (Dalvit, et al., 2020).

L’intervento della Psicologia dell’Emergenza è quindi cambiato drasticamente rispetto alle modalità fino ad ora utilizzate, ampliando quelle che possiamo ora riconoscere come nuove prospettive di sostegno psicologico in urgenza/emergenza che tengono conto sia della salute dell’operatore sia del benessere del cittadino.

 

Le famiglie omogenitoriali. Teoria, clinica e ricerca (2021) di Nicola Carone – Recensione

Edito da Raffaello Cortina Editore nella Collana di Psicologia clinica e Psicoterapia diretta da Franco del Corno, il libro Le famiglie omogenitoriali di Nicola Carone – psicologo, psicoterapeuta e docente all’Università di Pavia – rappresenta una review importante della ricerca scientifica nazionale e internazionale ad oggi presente in tema di omogenitorialità.

 

Quando parliamo di famiglia in quale modo la immaginiamo composta? Da quanti genitori e di che genere? Esiste una sola tipologia di famiglia? E cosa fa di una persona un genitore?

Le famiglie omogenitoriali è un volume che racchiude in sé una duplice natura: da un lato la scientificità del testo permette la lettura ad un pubblico focalizzato all’argomento e competente che possa coglierne l’importanza teorica e i risvolti nella pratica della ricerca, dall’altra il volume volge lo sguardo all’aspetto clinico, perciò maggiormente applicativo, delle tematiche, offrendo una chiave di lettura al fine di agire con queste tipologie di famiglie. Il tutto è impreziosito dal taglio empatico che offrono le trascrizioni delle testimonianze di diverse persone intervistate dall’autore stesso durante le sue diverse ricerche.

Suddiviso in quattro capitoli, il volume affronta la questione della (omo)genitorialità intesa in senso ampio sia per le molte aree di indagine che intersecano l’argomento sia perché con il termine non si intenda una solo tipologia di famiglie. Nota di stile per la parentesi sulla parola ‘omogenitoriale’ – che verrà ripresa più avanti all’interno del testo nel sottocapitolo La (ir)rilevanza del legame biologico – che trasmette tutto il significato di quanto il prefisso omo sia apparentemente necessario, ma fondamentalmente accessorio se compreso bene il significato dell’argomento.

Dopo l’egregia prefazione di Roberto Baiocco, che anticipa al lettore la portanza del volume e offre un valore aggiunto, l’introduzione scritta dall’autore offre una panoramica anche a livello numerico della diffusione e della diversità presente quando si parla di famiglie omogenitoriali.

I capitoli totali del libro creano due grandi aree tematiche. La prima è rappresentata dai capitoli 1 e 2 che indagano, offrendo una prospettiva scientifica e minuziosa, cosa significhi il concetto di omogenitorialità e quali caratteristiche e funzioni questo sistema complesso abbia nelle diverse espressioni e contesti. Il secondo capitolo, dedicato maggiormente alla prospettiva psicologica di come il ruolo genitoriale si sviluppi all’interno dell’individuo, nella sua parte finale presenta una digressione sulla comunità LGBTQ+, in particolare l’universo gay e lesbo; il che porta alla seconda aree tematica, la quale indica le implicazioni psicologiche e non del concepimento attraverso la donazione di seme e la surrogazione di maternità (GPA).

Il libro è sicuramente un elemento importante per approcciarsi e iniziare a conoscere l’ampio mondo delle diverse condizioni di omogenitorialità, ma rappresenta anche un occasione per comprende come i legami familiari si creino e si costruiscano non solo tra i membri, in un aspetto interpersonale, ma e soprattutto ad un livello intrapersonale profondo. Il lettore è portato anche a comprendere come la questione familiare non sia solo condizione intima e soggettiva o dualista di coppia, ma presenti inevitabilmente anche un aspetto di dichiarazioni informali e formali e di comunità, che molto spesso la ostacola a causa di discriminazione nei vari contesti, pregiudizi e minacce.

In conclusione, il linguaggio e la modalità di scrittura con cui sono espressi i contenuti lo avvicinano quasi ad un volume accademico; le conoscenze pregresse richieste al lettore sono quelle proprie dell’approccio di ricerca scientifico. La letteratura presente annovera ricerche nazionali e internazionali, il che rende il testo completo e ben strutturato. Il linguaggio tecnico offre la possibilità di usufruire delle informazioni contenute in ambito clinico e di ricerca. Un testo destinato a diventare un riferimento importante per i professionisti che si occupano di genitorialità legata al concetto di orientamento sessuale nelle sue diverse forme.

“Ma tu hai copiato?”: disonestà accademica, personalità e desiderio di realizzarsi

I metodi di prevenzione alla disonestà accademica convenzionali raramente affrontano le differenze nella personalità e nelle motivazioni accademiche degli studenti, che possono essere correlate alla tendenza a imbrogliare.

 

Gli studenti copiano durante gli esami?

‘Mi passi il compito?’, ‘Ma tu hai copiato?’ sono domande che probabilmente scatenano il disagio di molti. Questa è una reazione normale, considerando che la maggior parte delle persone non ama l’idea che qualcuno imbrogli, plagi, menta o sia ingannevole. La frequenza della disonestà accademica riportata nella ricerca fa emergere la natura globale di questo fenomeno. Per esempio, il 57,3% degli studenti universitari in Canada ha permesso a un altro studente di copiare il proprio lavoro (Ternes et al., 2019). Allo stesso modo, il 61% degli studenti in Svezia ha copiato materiale per il lavoro del corso da un libro o altra pubblicazione senza riconoscere la fonte (Trost, 2009). Lavorare insieme su un compito quando dovrebbe essere completato individualmente è stato riferito dal 53% degli studenti di quattro diverse università australiane (Brimble, Stevenson-Clarke, 2005), e copiare dal foglio di qualcuno negli esami almeno una volta è stato fatto dal 36% degli studenti di quattro università tedesche (Patrzek et al., 2014). I sistemi di prevenzione della disonestà accademica esistenti includono l’uso di punizioni e supervisione, informare gli studenti sulle differenze tra azioni accademiche oneste e disoneste, l’adozione di codici d’onore universitari e l’insegnamento su come scrivere documenti e condurre ricerche correttamente (Owens, White, 2013). Anche se questi metodi portano ad una riduzione della disonestà accademica, ottengono solo un impatto limitato sugli atteggiamenti verso l’imbroglio (Roig, Marks, 2006). Le possibili ragioni di queste difficoltà includono il fatto che i metodi di prevenzione convenzionali raramente affrontano le differenze nella personalità e nelle motivazioni accademiche degli studenti, che possono essere correlate alla tendenza a imbrogliare.

Quali tratti di personalità sono legati alla disonestà accademica?

Indagare le relazioni tra personalità, motivazione, autoefficacia e disonestà accademica è stato lo scopo dello studio di Baran e Jonason (2020). Gli autori hanno scelto di focalizzarsi sulla psicopatia, in quanto include la tendenza a essere impulsivi, a impegnarsi nella ricerca di sensazioni e la resistenza allo stress, tutte caratteristiche associate alla disonestà accademica (Ternes et al, 2019).

Nel suddetto studio sono stati coinvolti 390 studenti e residenti polacchi, mediamente ventitreenni.

Gli studenti che hanno compilato i questionari online, provenivano dalle facoltà di scienze sociali, umanistiche, scientifiche e tecnologiche, di legge ed amministrazione e di medicina.

Per valutare la psicopatia è stato utilizzato il TriPM-41(Pilch et al.,2015), ovvero la versione polacca del Triarchic Psychopathy Measure (Patrick et al., 2009). Gli items sono stati sommati per creare tre sottoscale: disinibizione (es. item ‘Mi cimento nelle cose senza pensare’) meschinità (es. item ‘Non provo troppa simpatia per le persone’) ed audacia (es item. ‘Sono nato/a leader’).

Il raggiungimento degli obiettivi è stato valutato con la versione polacca del Achievement Goals Questionnaire-Revised (Elliot & Murayama, 2008), un questionario composto da items simili a ‘Il mio obiettivo è essere più performante rispetto agli altri studenti’. Gli items di questa scala sono stati sommati per calcolare gli indici di padronanza e di performance legati al raggiungimento degli obiettivi. Per misurare i livelli di autorealizzazione è stata utilizzata la traduzione polacca della New General Self-Efficacy Scale (Chen et al.,2001) (es. item ‘Anche quando ciò che devo fare risulta difficile, riesco ad essere performante’), mentre per misurare i livelli di disonestà accademica è stata utilizzata la Academic Dishonesty Scale (Sanecka & Baran, 2015), un questionario composto da 16 esempi di comportamenti accademicamente scorretti (es. ‘Usare i bigliettini’, ‘Falsificare la bibliografia’). Per quanto riguarda l’ultima scala citata, i partecipanti dovevano assegnare un punteggio da 0 (mai) a 4 (sempre) per indicare la frequenza con cui avessero messo in atto determinati comportamenti durante il loro percorso scolastico.

Disonestà accademica, meschinità e disinibizione

Dai risultati del presente studio è emerso che gli studenti con livelli più alti di disonestà accademica avevano anche livelli elevati di meschinità e disinibizione, ma non di audacia.

Per quanto concerne la meschinità, questa relazione potrebbe indicare una propensione alla disonestà derivante da una mancanza di paura che porta ad un minore impatto del rischio percepito di essere scoperti a barare. In altre parole, questa forma di sensazionalismo comporta l’adozione di comportamenti distruttivi indipendentemente dalle possibili conseguenze negative di tali azioni, ed una propensione a sfruttare il lavoro di altri studenti per superare gli esami.

Nello specifico l’associazione tra disinibizione e disonestà accademica potrebbe derivare da problemi di autocontrollo e dall’incapacità di prevedere le possibili conseguenze negative dell’imbroglio. Al contrario, la mancata correlazione tra audacia e disonestà accademica potrebbe indicare che, anche se gli studenti audaci possono affrontare con successo situazioni stressanti e hanno alti livelli di ricerca delle sensazioni, queste caratteristiche non sono in relazione con la tendenza a barare nel contesto accademico. A tal proposito, è bene sottolineare che lo ‘psicopatico di successo’ può essere caratterizzato da audacia ma non da comportamenti antisociali e, tra le diverse sfumature della psicopatia, la disinibizione si afferma come il predittore più forte di disonestà accademica.

I dati sull’orientamento agli obiettivi di padronanza hanno evidenziato che, senza una buona motivazione ad acquisire conoscenze, gli studenti possono imbrogliare per raggiungere obiettivi accademici indipendentemente dall’equità o dalle conseguenze delle loro azioni.

Infine, è emerso che l’autoefficacia può fungere da moderatore sulla disonestà accademica, ciò significa che gli studenti disinibiti che hanno un alto senso di autoefficacia percepita in merito alla capacità di controllare le proprie possibilità di successo o fallimento, potrebbero essere in grado di superare la tendenza ad imbrogliare risultante dalla loro personalità caratterizzata da alta impulsività e bassa motivazione.

Studi futuri potrebbero adottare un approccio longitudinale per cogliere dal primo anno di studi fino alla conclusione del percorso accademico in modo più solido l’influenza della personalità, degli obiettivi di conseguimento e dell’autoefficacia sulla disonestà accademica degli studenti.

 

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