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Accesso alle psicoterapie e qualità del trattamento: il bando “Vivere meglio”

Anche ai cittadini e al grande pubblico può interessare la controversia nata in queste settimane intorno all’iniziativa “Vivere Meglio” dell’ENPAP. La discussione sta generando una riflessione sul ruolo di psicologi e psicoterapeuti nel servizio sanitario nazionale e sulle ricadute che il servizio offerto avrà per i pazienti

 

Anche ai cittadini e al grande pubblico può interessare la controversia nata in queste settimane intorno all’iniziativa dell’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”. Si tratta di una discussione che sta generando una riflessione sul ruolo e sulla definizione degli psicologi e degli psicoterapeuti nel servizio sanitario nazionale e che avrà ricadute anche per i pazienti e sul servizio che verrà loro offerto.

Di che si tratta? È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche e individuati dalla Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità.

L’interesse dei cittadini dovrebbe essere il possibile passo avanti verso la salute emotiva della popolazione generale. Ansia e depressione sono disturbi diffusi e che colpiscono le persone nel pieno della loro vita lavorativa e familiare. Inoltre, si tratta di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti di una Consensus Conference. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dell’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

A fronte di questi aspetti positivi, ve ne sono altri meno convincenti. Quello che genera più controversie è il fatto che il bando distingue tra interventi a maggiore e a bassa intensità, questi ultimi somministrabili anche da psicologi e psicologhe non specializzati in psicoterapia. Il timore è che si crei una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici in cui si rischi di far effettuare a psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità. Vi è poi una seconda preoccupazione, che è quella della qualità della selezione e dell’invio dei pazienti al trattamento, selezione che avverrebbe in termini che ora sembrano corrispondere a un semplice screening e ora sembrano prevedere un’intervista psicodiagnostica; infine il terzo timore è che il tipo di formazione specifica e supervisione che fornisce la borsa sia frettolosa e per questo rischiosamente superficiale: i beneficiari della borsa di studio devono frequentare 3 giornate di formazione e 3 mezze giornate di supervisione e possono, inoltre, utilizzare una forma di supervisione a richiesta.

Le risposte a queste perplessità, fornite da Paolo Michielin, uno dei curatori del Protocollo Diagnostico e Terapeutico, sono che gli interventi a bassa intensità che sono stati assegnati agli operatori non psicoterapeutici effettivamente non costituiscono psicoterapia essendo solo informazione, psicoeducazione, auto-aiuto e interventi a bassa intensità, che la formazione e la supervisioni non sono superficiali ma specifiche per operatori già formati e infine che lo screening si integra con interviste psicodiagnostiche per ottenere più rigorosità.

Dall’altro lato varie società scientifiche di psicoterapia, come CBT-Italia o la SITCC, o organi di rappresentanza e collegamento come la Consulta delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, ribadiscono che gli interventi proposti dal progetto, per quanto definiti a bassa intensità, sono interventi di psicoterapia essendo rivolti a pazienti con diagnosi di disturbi psico-patologici e finalizzati a curarne la sintomatologia. Da qui ne risulterebbe uno scadimento di qualità e di credibilità della professione.

Il vero problema è che l’iniziativa ENPAP si inserisce proprio nella ancora carente condizione giuridica in Italia della professione di psicoterapeuta, definita ancora oggi come un livello della formazione e non propriamente una professione diversa da quella psicologica. All’interno di questa ambiguità e forse in parte proprio per questo, la professione psicoterapeutica in Italia non si sottopone ancora a pratiche formalizzate di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione continua dopo quella fornita dalle scuole e supervisione. L’operazione ENPAP nasce anche con questo intento, anche se indubbiamente propone forme di selezione, formazione, supervisione e monitoraggio discutibili. E tuttavia si tratta di una iniziativa che va a coprire una lacuna del servizio psicoterapeutico italiano, ancora in larghissima praticato in Italia nelle forme dell’artigianato privato dello psicoterapeuta singolo nel suo studio. Al contrario, questa iniziativa è ispirata dalla consolidata esperienza inglese di psicoterapia nel servizio sanitario pubblico dello IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) di cui si conoscono vantaggi, difetti, esiti e rapporto costi/benefici. Inoltre, non va dimenticato che l’operazione proposta da ENPAP potrebbe rappresentare un’iniziativa importante per offrire accesso alle terapie psicologiche a cittadini che, pur avendone bisogno, non potrebbero farlo per limitate disponibilità economiche. 

Forse la vera risposta degli organi di rappresentanza degli psicoterapeuti ai limiti di questa esperienza sarebbe quella di introdurre in essa pratiche formalizzate più rigorose e più intense di accertamento dei disturbi, formulazione del caso, proposta di trattamento, monitoraggio dell’andamento, formazione e supervisione. Chiedere una distinzione più netta tra informazione, psico-educazione, auto-aiuto da un lato e psicoterapia a bassa o maggiore intensità dall’altro è giusto e legittimo ma limitarsi a fare solo questo non si qualificherebbe come un segnale di comprensione del significato dell’iniziativa e come un contributo al suo miglioramento.

Master semestrale: tecniche di regolazione delle emozioni – I Edizione Online, Settembre 2022

Tra settembre 2022 e marzo 2023 si terrà online la prima edizione del master in tecniche di regolazione delle emozioni

Perché un master sulla regolazione delle emozioni

Se pensiamo al nostro vissuto quotidiano, ai nostri ricordi e ai motivi per cui una persona solitamente accede ad uno studio di psicoterapia, possiamo riconoscere come il tema della comprensione e regolazione delle emozioni difficili sia tanto trasversale quanto cruciale. Per quanto accadano eventi, incontri e situazioni diverse, sono le emozioni che sembrano causarci spesso le difficoltà che incontriamo nella nostra vita. O meglio, il nostro modo di relazionarci ad esse, di negarle, ingigantirle o contrastarle è la costante di quel che definiamo sofferenza psicologica.

Molti studi evidenziano da un lato come il disagio emotivo sia forse il problema presentato più ricorrente nelle parole dei pazienti. E dall’altro lato, che i così definiti i disturbi emotivi (es. ansia, depressione, etc.) rappresentano di gran lunga la macro-categoria diagnostica più ricorrente negli studi di psicoterapia. Ciononostante, è assai difficile definire in maniera chiara cosa siano le emozioni!

A prescindere dall’approccio o dal setting terapeutico, chiunque lavori nella salute mentale non può non includere nel proprio bagaglio professionale le teorie e le tecniche finalizzate alla regolazione delle emozioni. Purtroppo, data la vastità e trasversalità del tema i terapeuti si scontrano spesso con due alternative poco percorribili per la propria crescita: ridurre al minimo le strategie di regolazione note o imbarcarsi in infiniti training e certificazioni. Nasce da qui la decisione di creare un percorso formativo articolato e integrato, in grado di raccogliere le basi dei più recenti sviluppi sulle teorie e le tecniche finalizzate alla regolazione delle emozioni.

Tages Onlus, Centri Clinici Tages e Scuole di Psicoterapia Cognitiva APC/SPC hanno quindi deciso di sviluppare un curriculum che fosse primariamente utile al nostro lavoro quotidiano, nella convinzione che una formazione direttamente orientata alla pratica sarebbe poi stata di interesse anche per altri colleghi. È nato così il primo master italiano online sulla regolazione delle emozioni, a cui prendono parte clinici e docenti esperti, nazionali e internazionali, accomunati dal desiderio di aiutare i propri pazienti a sviluppare strategie sostenibili ed efficaci nel confrontarsi con le proprie emozioni.

Piano didattico e docenti

L’obiettivo del master è quello di formare chi quotidianamente si occupa di salute mentale alla comprensione e regolazione delle emozioni difficili dei propri pazienti in contesti sia pubblici che privati. Al termine del corso i partecipanti avranno acquisito le competenze teoriche e pratiche necessarie per comprendere il funzionamento emotivo del paziente e per attuare l’intervento psicoterapeutico ritenuto più efficace per la problematica presentata.

I docenti guideranno gli iscritti nella formulazione del caso, nella comprensione delle tecniche e dei protocolli evidence-based e nella complessa ed articolata elaborazione di un piano terapeutico. Particolare attenzione verrà dedicata alla declinazione operativa dei modelli presentati nella pratica clinica, tramite strumenti teorici basati sui più recenti approcci terapeutici e tecniche esperienziali, immaginative e corporee fondamentali nella regolazione delle emozioni difficili. Particolare attenzione è dedicata alla cornice cognitivo-comportamentale e ai suoi sviluppi di Terza Onda (DBT, RO DBT, EMDR, Sensorimotor, CFT, MBCT, TMI, ST, MSC, etc.) che hanno grandemente contribuito al moderno approccio alla regolazione emotiva. La modalità didattica è fortemente interattiva e prevede numerose esercitazioni pratiche, role-playing e discussioni su casi clinici per favorire l’interazione tra docenti e partecipanti.

Il master ha una durata semestrale e si svolgerà tra settembre 2022 e marzo 2023 per un totale di 12 giornate di lezione suddivise in 4 moduli. Durante le 48 ore di formazione si alterneranno alcuni tra i massimi esperti internazionali di psicoterapia rivolta alla sofferenza emotiva: Tobyn Bell, Antonella Centonze, Simone Cheli, Todd Farchione, Robert Hindman, Chris Irons, Cecilia La Rosa, Thomas Lynch, Renato Mazzonetto, Matthe Pugh, Ilaria Riccardi, Zindel Segal.

Al termine del corso i partecipanti riceveranno l’attestato del corso “Master in Tecniche di Regolazione delle Emozioni”.  Compatibilmente con la verifica della frequenza effettiva ad esse, verrà rilasciato un ulteriore attestato di partecipazione alle lezioni tenute dal Prof. Todd Farchione sul Protocollo Unificato per i disturbi emotivi (certificazione ufficiale UP Institute per il Training Introduttivo).

 

Per maggiori informazioni sul corso, i docenti e le modalità didattiche >> CLICCA QUI 

 

La relazione medico-paziente nel setting medico

Il paziente segue più facilmente il percorso terapeutico nella misura in cui è soddisfatto delle spiegazioni ricevute e ha compreso fino in fondo in maniera inequivocabile quanto gli è stato detto dal medico, la relazione medico-paziente ha quindi un ruolo fondamentale.

 

Abstract

Esistono differenti fenomenologie di pazienti nel contesto medico, che richiedono degli approcci relazionali diversificati. Fra di essi si possono citare il paziente oppositivo, il manipolativo, il richiedente, l’irascibile, il piacevole e quello che “sa tutto”. L’adesione del paziente al trattamento terapeutico proposto dipende da più fattori, rapportabili alle caratteristiche di personalità del paziente, a quelle del medico e agli aspetti comunicazionali che si strutturano nel rapporto fra chi cura e chi è curato.

Keywords: pazienti, medici, aderenza terapeutica.

Le differenti fenomenologie dei pazienti

La gamma dei pazienti che si interfacciano con i contesti di cura è polimorfa. Infatti, in accordo con Ripamonti (2015), possiamo avere differenti tipologie di pazienti nel setting medico, come ad esempio:

  • il paziente oppositivo;
  • il paziente manipolativo;
  • il paziente richiedente;
  • il paziente irascibile;
  • il paziente piacevole;
  • il paziente che “sa tutto”.

Spesso il confrontarsi con le differenti tipologie di pazienti, che presentano caratteristiche relazionali diversificate, può elicitare nel medico delle condizioni di disagio. Infatti,

le difficoltà relazionali che derivano dall’interazione con determinate tipologie di pazienti possono non solo interferire con il processo terapeutico, ma anche aumentare i livelli di distress del medico […]. La consapevolezza che atteggiamenti e comportamenti disfunzionali del paziente non dipendano necessariamente dall’interlocutore può aiutare il medico […] a vivere con maggiore distacco emotivo eventuali attacchi, critiche, richieste eccessive o espressioni rivendicative (Ibidem, pp. 193).

Relativamente alle categorie dei pazienti sopra elencati, si possono fare alcune riflessioni e delineare delle strategie con cui relazionarsi con loro.

Il paziente oppositivo è un soggetto che presenta una scarsa aderenza al piano terapeutico proposto, frequentemente ingaggia delle sfide con il personale sanitario, svalutando quello che viene da loro detto. Il modo migliore per affrontare questo tipo di paziente è quello di non raccogliere le sfide e di avere un atteggiamento di accoglienza, con la finalità di capire quali sono le vere ragioni alla base dell’opposizione.

Il paziente manipolativo è quello che cerca di suscitare nel medico sentimenti positivi per essere accontentato nelle sue richieste: infatti, ha la necessità che i suoi bisogni e i suoi desideri siano soddisfatti e per ottenere questo non disdegna anche l’utilizzo di condotte seduttive. In questa circostanza il sanitario non deve lasciarsi coinvolgere in questo gioco seduttivo, ribadendo le ragioni alla base delle sue decisioni se queste non sono sintoniche con le richieste avanzate dal paziente.

Il paziente richiedente cerca costanti attenzioni e insiste perché il medico effettui tutta una serie di azioni e di procedure che possono non essere necessarie (Ibidem, pp. 195).

In questa circostanza il sanitario deve spiegare al paziente quello che può essere di pertinenza del personale sanitario e quello che invece esula per una serie di ragioni (etiche, pratiche o di altra natura) dalla competenza medica.

Il paziente irascibile è quello che tende ad essere aggressivo nei confronti del sanitario, in quanto è la modalità relazionale che utilizza prevalentemente quando si interfaccia con l’alterità. Alla base di questo atteggiamento ci sono spesso delle frustrazioni che il paziente vive nella propria quotidianità, che sottendono un disagio emotivo. In questa circostanza è bene che il sanitario faccia emergere questa emotività di fondo.

Il paziente piacevole è rappresentato dal soggetto che si mostra estremamente educato, segue alla lettera tutte le prescrizioni, tende ad esaltare la competenza del medico a cui si rivolge, si fida ciecamente del suo operato. In questa evenienza l’operatore sanitario dovrebbe porre attenzione ad evitare forme eccessive e poco realistiche di ottimismo, dettate dal non voler deludere il paziente.

Il paziente che “sa tutto” è quello che dimostra di avere una competenza in ambito sanitario derivata prevalentemente dalla lettura di riviste mediche o dalla navigazione in rete. Frequentemente egli porta al medico copia degli articoli che ha letto per renderlo edotto su alcune tematiche. A questo paziente va spiegato con cortesia e fermezza che la professionalità medica non si acquisisce con la lettura di articoli o consultando siti Internet specifici e che egli non ha il necessario distacco emotivo per occuparsi della sua patologia, in quanto è coinvolto emotivamente da essa.

L’adesione del paziente al trattamento terapeutico

Nel momento in cui propone ad un paziente un trattamento terapeutico, il medico non sa se l’utente aderirà alle indicazioni e alla cura proposti (Salovey, Rothman e Rodin, 1997). Questo dipende da numerosi fattori, alcuni imputabili alle caratteristiche personali del paziente, altri alle peculiarità del medico e altri rapportabili agli aspetti relazionali che sono elicitati dal rapporto fra due alterità (medico e paziente) che si confrontano.

Relativamente alle peculiarità personali del paziente, quelle che fanno la differenza sono le credenze che il paziente ha riguardo alla propria malattia, ovvero se la considera grave e fonte di uno scadimento della qualità della vita, e al percorso di cura, ossia se lo ritiene idoneo per la propria guarigione (Zani e Cicognani, 2000). Difatti, laddove il soggetto propende per la gravità della propria patologia e ha la convinzione che il percorso di cura proposto sia quello giusto, egli aderirà completamente al piano terapeutico. A questo proposito, diverse ricerche svolte (Ibidem) sottolineano che solo il 30% dei pazienti segue correttamente il percorso di cura, il 50% lo adotta in parte e una percentuale che oscilla fra il 20 e il 50% non lo segue.

Riguardo alle caratteristiche personali del medico, i pazienti rispondono meglio ad un farmaco nella misura in cui il medico che lo prescrive si dimostra ottimista, ha un atteggiamento terapeutico piuttosto che sperimentale, ovvero utilizza l’espressione “ti prescrivo questo farmaco efficace” piuttosto che dire “proviamo questo farmaco e vediamo che effetto ha”, e si mostra gioviale nei confronti del paziente (Amendolagine, 2021).

In rapporto agli aspetti relazionali che si instaurano fra medico e paziente, si possono fare alcune considerazioni. Differenti ricerche hanno messo in evidenza che l’adesione del paziente al trattamento proposto dipende da alcune variabili che sono elicitate dalla comunicazione che si instaura fra medico e paziente. In sostanza, il soggetto segue più facilmente il percorso terapeutico nella misura in cui è soddisfatto delle spiegazioni ricevute e ha compreso fino in fondo in maniera inequivocabile quanto gli è stato detto (Zani, Selleri e David, 1994). Per quanto riguarda la soddisfazione mostrata dal paziente, sono stati proposti due modelli esplicativi, ossia un modello affettivo e un modello cognitivo (Zani e Cicognani, op. cit.).

Secondo il modello affettivo, la soddisfazione del paziente origina dai comportamenti affettivi mostrati dal medico, ovvero

il suo essere amichevole piuttosto che distaccato e manageriale, mostrare di capire i timori (del paziente) […], essere dotato di abilità comunicative positive (Ibidem, pp. 144).

Secondo il modello cognitivo, la soddisfazione dell’utente è in funzione dell’efficacia razionale della comunicazione ricevuta, ossia l’input comunicazionale ricevuto deve essere inteso totalmente, espresso in parole semplici, che possono essere ricordate con facilità (Ley, 1989).

In aggiunta, la relazione che si instaura fra curato e curante ha anche una finalità psicopedagogica, che deve essere soddisfatta. In altre parole, tale relazionalità si pone come obiettivo l’insegnare al paziente a prendersi cura di sé e, soprattutto, a ricercare dentro di sé le risposte alle sue domande. Affinché questo avvenga, il medico, o in generale chi si occupa della cura del paziente, deve avere alcune caratteristiche, quali:

  • sviluppare uno stile relazionale improntato alla positività e all’ottimismo;
  • avere l’abilità di mettersi nei panni di chi ha di fronte e considerarlo nella sua globalità, ovvero come una persona da accettare senza remore o preconcetti (Amendolagine, op. cit.).

A tal riguardo, giova da parte del medico una forma di riflessione su di sé, che, in accordo con Ripamonti (op. cit.), deve rispondere ad alcune domande, quali:

Mi arrabbio facilmente, sono irritabile, mi metto sulle difensive?
Sono emotivo, mi rattristo facilmente, ho paura di certe situazioni?
Sono troppo brusco e impaziente?
Quanta compassione ed empatia ho per persone che mi sono totalmente estranee?
Qual è il mio livello di flessibilità?
Sono amichevole oppure asociale?
Posso sembrare calmo anche quando in realtà sono ansioso?
Ho il senso dell’umorismo e so come utilizzarlo in modo appropriato?
Devo sempre avere il controllo della situazione?
Sono capace di accettare le critiche?
Ho dei pregiudizi che possono influenzare la mia oggettività?.

In conclusione, esistono differenti fenomenologie di pazienti, che richiedono degli approcci relazionali diversificati. Fra di essi, si possono citare il paziente oppositivo, il manipolativo, il richiedente, l’irascibile, il piacevole e quello che “sa tutto”. L’adesione del paziente al trattamento terapeutico proposto dipende da più fattori, rapportabili alle caratteristiche di personalità del paziente, a quelle del medico e agli aspetti comunicazionali che si strutturano nel rapporto fra chi cura e chi è curato.

 

Il piacere digitale (2020) di Michele Spaccarotella – Recensione del libro

Nell’era digitale, in una società di iper-connessi, l’autore di Il piacere digitale mette a disposizione degli addetti ai lavori e non, un’ampia panoramica circa l’universo del virtuale, le dinamiche psicologiche, le tentazioni, i rischi e i pericoli, analizzati con attenzione e professionalità.

 

Tocchiamo più volte lo schermo del cellulare che il corpo della persona amata. Lo schermo si è sostituito alla pelle.

Questa è una delle frasi del libro Il Piacere digitale che più mi ha colpito, che rimanda ad una realtà tristemente e fortemente vera e che in modo più o meno intenso coinvolge tutti, professionisti e non, giovani e meno giovani.

Il Piacere digitale, un testo ricco di contenuti espressi in modo accessibile a tutti, è scritto da Michele Spaccarotella, psicologo e psicoterapeuta, responsabile della didattica e di scienze del corso biennale in Psicosessuologia presso l’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica (IISS) di Roma, cultore della materia presso la Cattedra Parafilie e Devianza dell’Università degli Studi dell’Aquila, impegnato in attività di ricerca, formazione e divulgazione nell’ambito della psicologia e sessuologia.

Nell’era digitale, in una società di iper-connessi, il lavoro di Michele Spaccarotella mette a disposizione degli addetti ai lavori e non, un’ampia panoramica circa l’universo del virtuale, le dinamiche psicologiche, le tentazioni, i rischi e i pericoli, analizzati con attenzione e professionalità.

Da un punto di vista psicologico verranno infatti approfondite dinamiche psicologiche sia individuali che relazionali dell’homo digitans, come cambia la dimensione del piacere, del corpo, mode e tendenze di massa, la smania dei selfie e condivisione del proprio mondo, dove proprio il condividere ed il postare diventa più importante del vivere nel reale.

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Imm.1 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Imm.2 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Imm.3 – Immagine dal libro “Il piacere digitale”

Ma la realtà virtuale rimane sempre una grande tentazione che riesce ad affascinare tutti, giovani ed adulti, single e coppie e all’interno del testo l’autore approfondirà riflessioni, dati e studi su ciò che sempre di più si verifica in rete e le relative dinamiche psicologiche in gioco. Il mondo digitale, dove è possibile tutto, è un mondo affascinante ma anche pericoloso, un mondo interessante ed importante da conoscere ed il libro diventa un validissimo strumento in tal senso.

Tanti i termini attinenti a questo mondo di iper connessi, ampiamente spiegati dall’autore, ma vediamone alcuni: sexting (crasi dei termini inglesi sex e texting, consistente nella pratica di inviare messaggi di testo o immagini a sfondo sessuale), revenge porn (riferita ad una forma di vendetta che uno dei due partner agisce alla fine di una relazione, diffondendo delle foto intime dell’ex senza il consenso della persona), grooming (adescamento di un minore online), ghosting (dinamica in cui dopo una frequentazione senza apparente motivo, uno dei due partner scompare ed interrompe ogni forma di comunicazione), smombie (neologismo che descrive questo comportamento antisociale consistente nel tenere lo sguardo fisso sul telefono quando si è in giro, ignorando tutto ciò che ci circonda), vamping (la pratica, più diffusa tra giovani ed adolescenti, di stare svegli fino a tarda notte per navigare su internet e svolgere attività sui social), flaming (l’offesa magari anche volgare, rivolta a qualcuno fatta sui social pubblici) e tanti altri.

Ed ancora app a disposizione per tutti e pronte a soddisfare ogni forma di desiderio e/o bisogno, il ruolo ed i cambiamenti intercorsi nell’ambito della pornografia, dinamiche di dipendenza o compulsive agite in tali mondi virtuali che possono sfociare in patologie, ripercussioni sulle relazioni amicali e sentimentali dovute alla presenza/assenza di questo terzo incomodo (virtuale/reale).

Un mondo dunque veramente ampio e complesso, che l’autore direi essere riuscito in pieno a farci conoscere e scoprire scorrendo le varie pagine del suo libro, un mondo che come sottolinea Michele Spaccarotella, non è da considerare a monte come buono o cattivo, ma che di certo l’educazione e la conoscenza dello stesso può aiutare ad un uso più consapevole.

Un testo dunque consigliatissimo quanto agli addetti ai lavori che all’ampio pubblico.

 

Il ruolo del senso di colpa e della vergogna nelle abbuffate

Uno studio di Bottera e colleghi del 2020, ha tentato di distinguere la vergogna e il senso di colpa in relazione alle abbuffate e al vomito auto-indotto.

 

Il rapporto tra abbuffate e affettività negativa

I disturbi alimentari spesso hanno come fattore di rischio transdiagnostico l’affettività negativa (negative affect; NA), tanto che diversi studi hanno dimostrato un rapido aumento di affettività negativa nelle ore precedenti e successive alle abbuffate (Berg et al., 2015). Heatherton & Baumeister, nel 1991 hanno proposto la teoria della fuga che può fornire una possibile spiegazione all’associazione tra abbuffate e affettività negativa. Tale teoria afferma che le emozioni negative che implicano un’autovalutazione come la colpa e la vergogna, in modo molto più efficace rispetto alle emozioni negative non auto-valutative (e.g. tristezza) possono “essere fuggite” mettendo in atto dei comportamenti che facilitano un restringimento cognitivo. Le abbuffate possono quindi momentaneamente alleviare emozioni come il senso di colpa e la vergogna attraverso il restringimento cognitivo. Il senso di colpa è risultato infatti essere maggiore rispetto ad altre emozioni come ostilità, paura e tristezza nelle ore precedenti e successive a un episodio di abbuffata e potrebbe quindi essere un aspetto dell’affettività negativa particolarmente rilevante per il verificarsi di quest’ultima (Berg et al., 2013). In particolare sembra che il senso di colpa sia diminuito maggiormente e più velocemente negli individui con bulimia nervosa che non si sono impegnati nel vomito auto-indotto rispetto a quelli con anoressia nervosa.

Senso di colpa e vergogna: quale differenza?

È importante però distinguere la vergogna dal senso di colpa: sebbene si assomiglino apparentemente, la vergogna e il senso di colpa possono essere associate in modo diverso ai comportamenti di un disturbo alimentare, poiché hanno importanti differenze concettuali che implicano conseguenze diverse. La vergogna è concettualizzata come il sentirsi male con sé stessi in seguito ad una trasgressione (e.g.: sono una brutta persona); inoltre è indice di un problema all’interno del sé che provoca conseguenti giudizi all’identità più che alle circostanze (Tangney & Dearing, 2002). Il senso di colpa implica invece il sentirsi male per un comportamento e un’autovalutazione negativa in seguito a qualche fattore esterno; può essere quindi visto come un’esperienza emotiva adattiva che promuove l’impegno in situazioni sociali attraverso azioni correttive (Lewis, 1971). La vergogna invece non provoca nessuna azione riparativa, può essere un’esperienza emotiva che si tenta di evitare tramite comportamenti di un disturbo alimentare.

Gli studi che si sono occupati di studiare le oscillazioni del senso di colpa, tuttavia, hanno utilizzato la subscala del Positive and Negative Affect Schedule (PANAS-X; Watson & Clark, 1999) che non permette di distinguere la colpa dalla vergogna; alcuni risultati della letteratura affermano però che i pazienti con disturbi del comportamento alimentare (DCA) mostrano una maggiore vergogna rispetto al senso di colpa (Oluyori, 2013). È possibile dunque che la vergogna sia un’altra componente importante della affettività negativa.

La relazione tra disturbi alimentari, vergogna e colpa

Sebbene molti studi abbiano studiato le relazioni tra la psicopatologia alimentare e gli stati affettivi, nessuno tra questi si è mai occupato di confrontare gli effetti della colpa e della vergogna sui comportamenti messi in atto dai pazienti con disturbi alimentari. Uno studio di Sanftner e colleghi del 1995, per esempio, ha sottolineato che la vergogna è più facilmente associata ad alcuni sintomi specifici tra i quali il desiderio di magrezza, il vomito auto-indotto e le abbuffate mentre il senso di colpa era negativamente associato ai comportamenti di un disturbo alimentare. La teoria della fuga suggerisce infatti che le abbuffate sono particolarmente efficaci per allontanare i sentimenti di vergogna; i comportamenti che seguono le abbuffate come il vomito auto-indotto, al contrario, possono essere interpretati come azioni riparative per tentare di annullare gli effetti di queste. È possibile quindi che il senso di colpa conseguente a un’abbuffata possa predire il vomito.

Abbuffate, vergogna e senso di colpa

Uno studio di Bottera e colleghi del 2020, ha tentato di distinguere la vergogna e il senso di colpa in relazione alle abbuffate e al vomito auto-indotto. Le ipotesi formulate dagli autori erano quindi che la tendenza a provare vergogna e la vergogna di stato fossero associate alle abbuffate in quanto queste ultime possono essere utilizzate per sfuggire alle esperienze stesse di vergogna; e che la tendenza a sentirsi in colpa e il senso di colpa di stato fossero positivamente associati al vomito negli gli individui che si abbuffano, in quanto può essere utilizzato come azione riparativa per le abbuffate. 347 partecipanti hanno completato le sottoscale di vergogna e colpevolezza del Test of Self-Conscious Affect (TOSCA-3; Tangney et al., 2000); la State Shame and Guilt Scale (SSGS; Marschall et al., 1994) per valutare la vergogna e il senso di colpa; la Eating Disorder Diagnostic Scale (EDDS; Stice et al., 2000) che valuta gli atteggiamenti e i comportamenti relativi al Disturbo Alimentare; infine le scale analogiche visive (VAS) utilizzate per valutare gli stati soggettivi (Wewers & Lowe, 1990) sono state create per valutare alcune variabili momentanee tra cui la fame, la voglia di abbuffarsi e la voglia di vomitare.

I risultati mostrano che la vergogna è associata soltanto alle abbuffate e all’impulso di abbuffarsi mentre il senso di colpa non risulta esserne significativamente legato. Inoltre, al contrario di quanto ipotizzato, il senso di colpa non è risultato associato al vomito auto-indotto tra coloro che si abbuffano. Tali risultati mostrano quindi che la vergogna e il senso di colpa hanno un ruolo differente nei sintomi di un disturbo alimentare: solo la vergogna sembra suscitare sempre il desiderio di abbuffarsi. 

 

ABC della sessualità: per costruire un’alleanza terapeutica – Podcast Terapeuti al Lavoro

È online l’episodio del Podcast Terapeuti al Lavoro dal titolo ‘ABC della sessualità: per costruire un’alleanza terapeutica migliore’.

 

È disponibile sulle principali piattaforme Terapeuti al Lavoro, il podcast realizzato da State of Mind dedicato ai professionisti della salute mentale, che raccoglie i più interessanti webinar di formazione su vari temi della psicoterapia e della psicologia clinica

Nell’episodio che pubblichiamo oggi per i nostri lettori parliamo di sessualità. Nell’episodio sono fornite le nozioni di base che riguardano la sessualità: sesso assegnato alla nascita, identità di genere, ruolo ed espressione di genere e l’orientamento affettivo e sessuale. Per comprendere maggiormente questi aspetti della sessualità verrà utilizzato il Genderbread Person nella versione italiana tradotta dal gruppo fluIDsex di Sigmund Freud University.

Sono illustrate, quindi, tutte le terminologie che vengono utilizzate per descrivere l’identità sessuale: gender fluid, non-binary, gender nonconforming, fluidità sessuale, poliamore e molto altro. Lo scopo di questo webinar è di condividere una terminologia comune per poter capire il mondo attorno a noi e la sua veloce evoluzione.

L’episodio è condotto dalla Dott.ssa Greta Riboli, Psicologa, Educatrice Pedagogica, Collaboratrice presso il Centro Età Evolutiva delle Cliniche Italiane di Psicoterapia e Docente presso Sigmund Freud University Milan e dal Dott. Luca Daminato, Dottore in Psicologia, Dottorando di ricerca presso Sigmund Freud University Milan

 

 

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

Il Colloquio Rideterminativo: modello di intervento psicoterapeutico

Il Colloquio Rideterminativo conduce il paziente, attraverso una serie di domande mirate alla scoperta delle sue regole e dei suoi schemi interpretativi e valutativi, a un graduale sviluppo della consapevolezza sui diversi livelli rappresentazionali.

 

I processi taciti

Negli ultimi anni le terapie orientate cognitivamente hanno affinato i loro modi di affrontare gli aspetti centrali della conoscenza personale cercando di inglobare nel loro campo di indagine quelli meno accessibili, ampliando la prospettiva idiografica orientata al significato ed operando un marcato spostamento dall’analisi dei fatti oggettivi a quella dei significati soggettivi.

Questo spostamento si è gradualmente determinato sviluppando le impostazioni teoriche già presenti nella seconda rivoluzione cognitiva, si pensi alla Psicologia dei Costrutti Personali di Kelly, al concetto di pensiero sovraordinato nei problemi Secondari di Ellis, sino alla più marcata accentuazione posta da Guidano con le Organizzazioni di Significato Personale.

Tali conclusioni hanno evidentemente modificato sostanzialmente l’idea che avevamo sul funzionamento dell’individuo, proponendo approfondimenti teorici che hanno avuto una chiara ricaduta nell’ambito procedurale di chi si occupa di psicoterapia, consentendo nel contempo di recuperare ed integrare coerentemente rilevanti intuizioni che non avevano avuto la giusta attenzione per ragioni di “coerenza interna” delle teorie di riferimento precedentemente accettate.

Tra i vari temi proposti quello sicuramente più rilevante risulta essere l’accettazione dei processi taciti come elementi fondamentali nella costruzione della conoscenza individuale.

Se all’interno di un quadro di riferimento evolutivo si assume una prospettiva motoria della mente, gli aspetti taciti (ordine sensoriale preverbale), ed espliciti (pensiero verbale cosciente), della conoscenza appaiono come l’espressione di due livelli di processi cognitivi reciprocamente interconnessi, sebbene differenti (Guidano, 1987).

I dati che provengono dalle neuroscienze hanno confermato questa ipotesi definendo i processi di elaborazione tacita come schemi emozionali connessi alle corrispondenti regole per gestirli.

Queste regole altro non sono che procedure automatiche le quali, basandosi su processi associativi di natura iconica, interpretano e valutano le esperienze confrontandole con situazioni precedenti che contengano elementi simili e utili ad una qualche comprensione dell’evento vissuto.

Tale comparazione risulta più efficace se avviene sulla base di una regola combinatoria, che appare più potente in termini di quantità di informazioni se si avvale di una rappresentazione per immagini e, inoltre, questo codice (analogico) svolge egregiamente il suo lavoro anche in assenza del codice simbolico del linguaggio che da un punto di vista evolutivo appare solo successivamente.

Le scene nucleari forniscono così i tratti fondamentali che consentono di ordinare il flusso delle esperienze fornendo una matrice interpretativa stabile, sebbene pre-cosciente, che permetterà gradualmente di costruire le prime rappresentazioni di sé e del mondo. Come sostiene Damasio:

Di fatto si potrebbe sostenere che il contenuto coerente della narrazione verbale della coscienza – indipendentemente dalle bizzarrie della sua forma – permette di dedurre la presenza dell’altrettanto coerente narrazione non verbale per immagini che io propongo come fondamento della coscienza (Damasio, 2000).

Ora, se la psicoterapia cognitiva si è da sempre caratterizzata sulla base di una prospettiva centrale che definisce i comportamenti del soggetto come conseguenti al significato soggettivo che egli attribuisce agli eventi, interni od esterni che siano, o in termini più costruttivisti, come l’individuo elabora la realtà che lo circonda utilizzando gli schemi conoscitivi a sua disposizione, appare evidente che debba coerentemente integrare in questa prospettiva gli elementi di elaborazione tacita utilizzati dal soggetto.

Il rendere esplicite queste conoscenze e convinzioni consente all’individuo di poterle rielaborare acquisendone i significati sottesi e di poterle riscrivere in termini più funzionali al proprio stile di vita.

Dopo che ne avrà modificato le eventuali distorsioni cognitive l’individuo le potrà inserire, coerentemente, nella rappresentazione del Sé. (Cicinelli 2003)

Questi nuovi significati potranno quindi indurre dei processi di riorganizzazione, offrendo in tal modo spunti di riflessione ed approfondimento secondo le capacità del paziente, capacità che saranno modificate ed incrementate dall’instaurarsi del processo di rideterminazione attuato.

Il problema principale che si pone quindi risulta essere connotato da difficoltà procedurali piuttosto che teoriche, di come cioè accedere a questo materiale e come utilizzarlo per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

Ellis, alla fine degli anni quaranta, di fatto sviluppò la terapia cognitiva spostando l’attenzione dello psicoterapeuta dai processi inconsci a quelli coscienti e formalizzando il Colloquio Psicoterapeutico Cognitivo presentando il Modello ABC.

Tale modello si struttura come una indagine lineare che ha lo scopo di rappresentare il rapporto esistente tra gli A, definiti come gli avvenimenti, gli antecedenti, che fungono da stimolo per il soggetto; i B, le credenze, i ragionamenti e comunque tutte le attività mentali riconducibili agli antecedenti ed i C intesi come conseguenze di natura emotiva e comportamentale.

Lo schema così proposto risulta apparentemente semplice e lascia supporre che anche la sua applicazione pratica nel trattamento risulti abbastanza agevole.

In realtà le cose non stanno esattamente così, l’indagine sui B impone la distinzione delle attività e dei processi cognitivi operanti, e la presa in esame delle varie e complesse attività psichiche come le valutazioni, le inferenze, i giudizi, le descrizioni, le anticipazioni, gli schemi di riferimento personali.

Un modello -del funzionamento umano- più esplicativo da un punto di vista teorico è quello proposto da Cesare De Silvestri elaborato sulla base del modello ABC e del Modello lineare a 8 punti di Richard Wessler (Wessler 1980) e riportato in Figura 1.

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 1

Schematizzando al massimo un singolo episodio di funzionamento, individuiamo al punto 1: il contesto, la massa degli stimoli provenienti dall’ambiente, uno di tali eventi viene in genere attivamente scelto dall’attenzione selettiva, punto 2: l’individuo sulla base delle aspettative di quel momento dipendenti dal suo attuale sistema di convinzioni, valori e regole. Questo stimolo, attivamente selezionato tra i tanti, viene percepito, descritto e definito al punto 3: simbolizzazione – dove viene rappresentato in termini analogici, iconici e/o linguistici e, successivamente, al punto 4: inferenze, interpretazioni – l’individuo gli attribuisce un senso ed un significato a fini previsionali operando una serie di interpretazioni e inferenze che lo portano ad emettere una specie di valutazione globale al punto 5: dove esprime in termini idiografici di giudizio e/o apprezzamento per la specifica importanza dell’evento considerato alla luce della sua concezione di benessere ed è qui che, secondo De Silvestri avverrebbe il più importante processo cognitivo della sequenza. Si realizza cioè il passaggio dai precedenti processi cognitivi relativamente “freddi” di definizione ed interpretazione della percezione dell’evento, a quelle che vengono chiamate “cognizioni calde”, marcate dall’assegnazione di valore intrinsecamente legata al significato attribuito all’evento in ragione di una complessa elaborazione, che ne definisce l’importanza  nel rapporto dei propri schemi personali di vita e di benessere.

Tale passaggio si accompagna ed induce una variazione più o meno marcata dello stato di attivazione del suo sistema nervoso autonomo, punto 6, che si manifesta attraverso risposte emozionali che provocano in genere una risposta neuromuscolare al punto 7, dove si attuata mediante un’azione o un  comportamento.

La variazione si esprime nell’ambiente in cui si trova l’individuo e può provocare quindi reazioni e risposte: punto 8, che chiudono il feedback relazionale individuo/ambiente e che a loro volta possono  determinare cambiamenti nel contesto: punto 1, che possono ulteriormente venir focalizzate dall’attenzione selettiva, punto 2, ed elaborate in un nuovo episodio di funzionamento.

Tale modello delinea più chiaramente le molteplici interazioni esistenti tra le varie funzioni cognitive, evidenziando la complessità delle variabili in causa nella elaborazione di un evento e proponendo implicitamente livelli di elaborazione non consapevoli.

Inoltre tale rappresentazione ci costringe ad abbandonare un livello di lettura lineare suggerendo come  tutte le attività cognitive siano in grado di influenzare più o meno direttamente le altre in una interconnessione a raggiera abilmente illustrata visivamente nel modello.

Modello che deve allora essere integrato con la presenza strutturale dell’elaborazione tacita, inserendo un elemento rappresentativo degli schemi personali di base che definisca teoricamente le ipotesi proposte.

Ecco quindi come si presenta il modello rivisitato (Figura 2):

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 2

Una particolare attenzione deve allora essere posta sul nucleo centrale dove abbiamo indicato la presenza degli schemi personali. Questi a loro volta possono essere individuati secondo i vari livelli di consapevolezza ed indicativamente suddivisi come in  Figura 3:

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 3

Inizialmente troviamo I Pensieri Automatici: sono le cognizioni più vicine alla consapevolezza, sono rappresentate da parole o da piccole frasi che attuano una prima lettura dell’evento. E’ questo il livello a cui fa riferimento Beck con la sua Analisi Cognitiva, interessata ai livelli inferenziali e alle varie distorsioni cognitive.

Esse sono regole che sono state elaborate consapevolmente, accettate come procedure vere e utili e che nel tempo, in ragione del principio del risparmio psichico, sono successivamente state automatizzate.

Sono anche quelle più facilmente confutabili ai fini di una rivisitazione o di un cambiamento in quanto in genere non attivano direttamente strutture cognitive più importanti.

Nel mezzo abbiamo le Convinzioni Intermedie: regole, opinioni, credenze che predicano comunque su noi stessi, gli altri e le relazioni con l’ambiente. Ci permettono di organizzare la nostra esperienza, prendere decisioni. Sono presenti sia in forma tacita che esplicita, risultano necessariamente molto stabili, ma sono soggette a possibili cambiamenti in ragione di particolari esperienze. Possono essere esprimibili verbalmente sebbene in forma telegrafica, mantenendo gran parte dei significati a livello sincretico.

Sono rigide e assolute, non tendono ad interpretare la realtà ma la rappresentano e la definiscono; potremmo dire che esse sono la realtà, così come è percepibile dagli occhi del soggetto. Possiamo collocare in questo stadio le Idee Disfunzionali di Ellis.

In ultimo troviamo i core beliefs: le convinzioni di base; convinzioni così profonde che le persone non le esprimono neanche a se stesse. Sono considerate più che verità assolute e indiscutibili in quanto identificano e definiscono sé stessi (schema di sé), gli altri (schema degli altri) e le relazioni con gli altri (schema interpersonale). Esse rappresentano i massimi livelli di organizzazione dell’individuo, quello che la persona “sente” potentemente dentro di sé come una tendenza a “fare”. Essendo costituite da schemi interpretativi di base sono essenzialmente stabili, rigide, analogiche. Il loro scopo è quello di strutturare i successivi livelli interpretativi. Non sono sempre verbalizzabili e quando è possibile renderle consapevoli vengono espresse con un linguaggio sincretico ove i significati sottesi restano preponderanti.

In termini clinici tali cognizioni risultano spesso inavvicinabili da un’analisi consapevole, tanto da dover imporre una completa “rideterminazione” dei sentiti emozionali, che devono essere interpretati e definiti sulla base delle conoscenze e convinzioni della persona, per facilitare la costruzione di una nuova narrativa di Sé, più articolata e funzionale.

La complessità del modello deriva dal fatto che i livelli taciti si strutturano gerarchicamente sia all’interno di uno stesso schema, definendo livelli di interpretazioni sovraordinati, quelli che io chiamo la scala inferenziale, sia attuando una gerarchia tra schemi differenti definiti primario, secondario e terziario, secondo il loro livello di insorgenza.

E’ per questo che spesso l’indagine effettuata durante il colloquio pone in evidenza l’intrusione di idee e convinzioni che non sono oggettivamente attribuibili agli altri elementi cognitivi presenti nella rappresentazione fornita. Cambiano i soggetti, le attivazioni emozionali sono varie e apparentemente contrastanti tra di loro, l’asse temporale dove vengono collocati gli eventi oscilla tra il passato e il futuro ecc.

Ellis aveva intuito che queste idee “estranee” sono dei pensieri sovra ordinati, sono cioè delle valutazioni che il soggetto fa non sugli avvenimenti scatenanti, ma sulle proprie reazioni a quegli avvenimenti, definendo tali considerazioni degli schemi secondari, successivi cioè agli schemi ABC primari di iniziale insorgenza. Formulando l’ipotesi degli ABC Secondari, egli aveva anticipato di fatto la teoria della metacognizione evidenziando come gli esseri umani non solo possono procurarsi un problema interpretando erroneamente la realtà, ma successivamente, valutando la condizione determinatasi, possono crearsi un ulteriore problema, attribuendo una serie di significati personali ai nuovi eventi comportamentali e/o emotivi vissuti.

Secondo lo schema proposto, si comprende allora che questi diversi livelli di “interpretazioni” di fatto determinano una scala metacognitiva di interpretazioni/valutazioni che si innestano su altre interpretazioni/valutazioni, definendo una vera e propria costellazione di livelli interpretativi che possono teoricamente essere organizzati in uno schema generale dove le sequenze ABC possono essere rappresentate sia linearmente che in una struttura a matrice dove l’organizzazione semplice, caratterizzata da due soli livelli gerarchici, primario e secondario, deve lasciare il posto ad una più ampia gamma di collegamenti verticali, che possono in parte sovrapporsi ed intrecciarsi fra di loro determinando una costellazione di problemi molto complessa.

Colloquio Rideterminativo un modello di intervento psicoterapeutico Fig 4

Il Colloquio Rideterminativo

Il Colloquio Rideterminativo riprende quindi, sviluppandone le potenzialità, lo schema concettuale basato sul modello ABC e, seguendo i principi dell’ars maieutica, si presenta come uno strumento fortemente direttivo con il quale il terapeuta, partendo dalle affermazioni del paziente, lo conduce mediante una serie di domande mirate alla scoperta delle sue regole e dei suoi schemi interpretativi e valutativi, consentendogli un graduale sviluppo della consapevolezza sui diversi livelli rappresentazionali.

Attraverso una continua operazione di dettaglio si impone al paziente una lettura sempre più definita dei suoi processi inferenziali risalendo mediante le implicazioni consapevoli ai livelli cognitivi più radicali, quelli appunto che definiscono e costituiscono le euristiche di base con le quali il soggetto ha costruito e strutturato il suo mondo, i suoi valori, la sua personalità.

In altri termini il Colloquio Rideterminativo si definisce come un processo mediante il quale la conoscenza implicita nella mente diviene gradualmente conoscenza esplicita per essere utilizzata dalla mente.

In questo percorso a ritroso si parte quindi dai processi disponibili in termini analitici che in genere sono delle inferenze per definire conseguentemente i livelli più o meno taciti indicati negli schemi personali del modello esposto per poter approcciare quelle convinzioni e regole che rappresentano le certezze indiscutibili, il credo inviolabile, lo schema concettuale prototipico sul quale il soggetto ha poi costruito tutti gli altri schemi interpretativi di sé e del mondo.

È importante sottolineare come il sistema rappresentazionale dell’individuo sia più complesso di una semplice dicotomia fra rappresentazioni tacite ed esplicite; è ipotizzabile invece l’esistenza di livelli intermedi fra l’informazione procedurale implicita radicalizzata negli schemi senso motori e la conoscenza dichiarativa consapevole.

Pertanto, per raggiungere i suoi obiettivi, il terapeuta deve muoversi dentro la massa di materiale prodotto seguendo e cercando quel filo di coerenza che lega le varie correlazioni basandosi nella sua analisi su quella consequenzialità predittiva che giustifica l’utilizzo dei processi taciti cercando una coerenza interna che è sempre presente anche negli schemi disfunzionali che determinano i disturbi psicopatologici più gravi.

Inoltre, man mano che si procederà nella definizione delle singole cognizioni, e ci si avvicinerà alla comprensione degli schemi strutturali, il paziente incontrerà sempre più difficoltà nella verbalizzazione dei suoi stessi pensieri, fino a raggiungere la possibilità di rimandare solo a sensazioni corporee, non altrimenti verbalizzabili e definibili se non tramite un vissuto emozionale.

Egli si confronterà infatti con quelle convinzioni indiscutibili che rappresentano gli schemi concettuali basilari con i quali ha costruito gli altri schemi interpretativi e per i quali non dispone di schemi sovraordinati che ne consentano l’esplicitazione.

Infatti ciò che distingue uno stato cosciente da uno non cosciente è la condizione di avere un pensiero di ordine superiore su di esso che lo definisca.

Sono proprio questi gli schemi ai quali il terapeuta mira, è per ottenere le verbalizzazioni di questo “sentito” interno che il terapeuta lavora con il paziente inducendolo a rappresentarsi secondo degli schemi concettuali comprensibili il disagio espresso esclusivamente tramite sensazioni fisiche.

È proprio questa forzatura che gli renderà possibile acquisire la consapevolezza della motivazione che ha posto alla base del suo agire nel mondo; è nel dirsi e nel dire, è nel sentire le parole che descrivono ciò che pensa e ciò in cui crede, è udendo i significati attribuiti da se stesso ai suoi vissuti che realizza una consapevolezza frutto del proprio sforzo personale, che dimostra al paziente che la causa ultima del suo disagio è posta nel suo stesso essere, e che è quindi accessibile e modificabile al fine di ottenere quel cambiamento strutturale che implica l’accettazione di schemi alternativi a quelli rivelatisi disfunzionali.

Si comprende quindi che il Colloquio Rideterminativo non si limita ad un primo livello di intervento, quello riferito all’Analisi Cognitiva di Beck, focalizzato soltanto sul livello inferenziale esplicito, ma coinvolge tutti i significati soggettivi del paziente riconducendo le schematizzazioni operate sulla conoscenza, la generalizzazione, l’eliminazione e la distorsione delle informazioni ad elementi intermedi fortemente  condizionati dagli schemi personali.

Esso permette di definire gradualmente i vari ambiti dei significati sottesi ampliando il livello di consapevolezza del paziente che è spinto a tradurre le regole tacite, quindi inespresse verbalmente in rappresentazioni analitiche che, rilevando i significati compressi sincreticamente, restituiscono consapevolezza al paziente rispetto alle reali e concrete motivazioni che sostengono il suo disagio.

Tale graduale passaggio dal sentito emozionale alle prime rozze rappresentazioni verrà rinforzato sistematicamente dall’utilizzo di descrizioni verbali sempre più definite e consapevoli, proponendo il dialogo metacognitivo non come un semplice colloquio clinico, ma piuttosto come un procedimento finalizzato ad una vera e propria costruzione di significati.

Il terapeuta ricerca attivamente lo schema nascosto nel disordine espositivo del paziente, disordine dettato dalla miscela di espressioni consapevoli frammiste a convinzioni tacite, processi inferenziali, razionalizzazioni dei propri vissuti e di tutta la zavorra cognitiva che grava sulle confuse procedure utilizzate.

Presumendo che il sintomo sia coerente con una costruzione della realtà sostenuta da convinzioni radicali, esso potrà essere funzionalmente abbandonato solo quando sarà resa possibile una ricostruzione più adeguata e conveniente di queste stesse convinzioni.

Il raggiungimento di tale obiettivo caratterizza l’intervento che si focalizza sulla trasformazione delle costruzioni tacite in elementi consapevoli che, opportunamente modificati, possano essere inseriti in una diversa rappresentazione di sé.

Questa concettualizzazione del problema implica due obiettivi, conciliabili e coerenti della terapia: il primo connotato dall’individuazione e dalla decodifica in termini verbali espliciti dei significati sottesi alle sensazioni problematiche con l’arricchimento della gamma di significati attribuibili agli eventi; ed il secondo, conseguente, finalizzato alla correzione di alcune distorsioni, non perché più corrispondenti ad un supposta realtà, ma in quanto disfunzionali soggettivamente rispetto agli stessi schemi di riferimento dell’individuo, e l’inserimento di queste nuove rappresentazioni in una trama narrativa rappresentativa del sé.

Attraverso questa nuova narrazione assolviamo all’importante funzione di stabilire una continuità intellegibile  nelle nostre esperienze, ma l’elemento caratterizzante risiede nella possibilità di costruire una narrativa coerente, una storia di noi, che renda le nostre esperienze riconducibili a quello che pensiamo di noi stessi, ampliando la percezione di ciò che definisce noi stessi.

Secondo Guidano la discrepanza fra i processi taciti e quelli espliciti, rendendo indecodificabili le oscillazioni intense e significative emerse alla coscienza e quindi non più evitabili, ostacolano la capacità auto integrante del Sé basata sulle funzioni dei processi espliciti coscienti.

In questa prospettiva, pertanto, la caratteristica essenziale della dinamica di una disfunzione cognitiva consiste nella continua oscillazione tra due serie di processi conoscitivi, antagonisti competitivi tra loro, la cui integrazione in una nuova dimensione unitaria supera generalmente lo spettro delle possibilità di elaborazione esistenti, che a loro volta dipendono dal grado di astrazione che il soggetto è in grado di raggiungere (Guidano 1987)

Ecco allora che l’obiettivo di una psicoterapia è quello di far raggiungere all’individuo un equilibrio dinamico tra i due tipi di conoscenza che può essere ottenuto mediante un processo ricostruttivo delle proprie esperienze di vita che permetta di realizzare nel contempo una descrizione esplicativa e una riformulazione funzionale.

 

La nostra postura può influenzare la nostra autostima?

Uno studio di Körner e colleghi (2021) ha cercato di studiare possibili aumenti nell’autostima di stato a seguito dell’aver assunto una postura del corpo aperta e espansiva.

 

Cosa si intende con power pose?

Nel 2012, durante una conferenza TED, la psicologa Amy Cuddy introdusse il concetto di “power posing”, che potremmo tradurre come postura che trasmette forza e sicurezza. Il video riguardo la conferenza da lei tenuta, ad oggi, ha ottenuto più di 50 milioni di visualizzazioni (Cuddy, 2012). Da quel momento, numerosi allenatori e guide hanno sostenuto che alcuni tipi di posture del corpo rendono le persone più sicure di sé. Ma quanto riportato ha una reale base scientifica?

Il concetto di “power posing” è stato utilizzato per la prima volta nel 2010 e comprendeva posizioni corporee espansive come stare in piedi con il petto in fuori e le mani sui fianchi. Al contrario, le posture a bassa potenza sono state definite come tutte quelle posture in cui il corpo è floscio e contratto (Carney et al. 2010).

Alcuni studi in letteratura riportano risultati interessanti a riguardo: Carney e colleghi (2010), ad esempio, hanno riportato aumenti di testosterone, diminuzioni del cortisolo e maggiore tolleranza al rischio negli individui che assumevano una power pose e un pattern ormonale opposto dopo una postura a bassa potenza. I risultati ottenuti, però, non sono stati replicati. Altri ricercatori hanno dimostrato cambiamenti nella percezione: Lee e Schnall (2014) hanno riferito che, dopo aver assunto una power pose, le persone giudicavano dei pesi da sollevare meno pesanti, al contrario di quando assumevano posture a bassa potenza.

Vacharkulksemsuk e colleghi (2016) hanno riscontrato un’associazione positiva tra l’assunzione di una power posing e il fascino romantico; posture espansive erano anche associate alla probabilità di essere assunti in un colloquio di lavoro simulato (Cuddy et al. 2015).

Altri studi hanno osservato che una power pose aumenta l’esperienza di emozioni positive e riduce l’esperienza di emozioni negative (ad es. Nair et al. 2014). Welker et al. (2013) hanno sostenuto che una power pose è collegata a una maggiore autostima, ma non sono stati in grado di trovare prove empiriche a sostegno di questa affermazione. Carney e colleghi (2015) hanno discusso gli effetti delle posture espansive rispetto a quelle più contratte, sostenendo che le posture espansive aumentano l’autostima.

Nonostante tutti questi risultati riportati, finora non ci sono prove che una power pose aumenti l’autostima o che una postura di potere basso riduca l’autostima in situazioni standard senza induzione di stress.

Qual è la relazione tra postura e autostima?

Per colmare questa mancanza, uno studio di Körner e colleghi (2021) ha cercato di studiare possibili aumenti nell’autostima di stato a seguito di posture del corpo aperte ed espansive. Gli autori hanno ipotizzato inoltre che l’assunzione di posture chiuse e contratte portasse ad una diminuzione dell’autostima di stato percepita.

I loro risultati hanno riportato una maggiore autostima di stato negli studenti che avevano assunto posture ad alta potenza rispetto agli studenti del gruppo di controllo o del gruppo che ha assunto posture a bassa potenza. L’aumento dell’autostima di stato si è verificato anche in un ambiente ecologico (ovvero nel mondo reale, e non solo sperimentale), permettendo ai ricercatori di giungere alla conclusione che gli effetti della power pose, probabilmente, non sono limitati al solo ambiente di laboratorio.

Per quanto riguarda invece le posture a bassa potenza, gli autori non hanno riscontrato nessun effetto tra l’assunzione di queste e l’autostima, nonostante ci si aspettasse una diminuzione del valore personale percepito. Questo risultato potrebbe essere dovuto al fatto che una postura neutra potrebbe essere vista come simile alla postura a bassa potenza per i partecipanti, così da rendere confusa la differenza tra le due. Un’ulteriore spiegazione per questo risultato potrebbe essere che i partecipanti che assumevano posture a bassa potenza si sforzavano in maniera attiva di non sentirsi impotenti, evitando quindi cali nell’autostima proprio perché il mantenimento dell’autostima e il miglioramento di sé sono forti motivazioni umane (Sedikides & Strube 1995). Quindi nei partecipanti che si impegnano in posture a basso potere, che possono essere implicitamente associate a una perdita di autostima, può attivarsi il desiderio di proteggere l’autostima.

Rispetto allo studio di Carney e colleghi (2010), per analizzare i cambiamenti nell’autostima, i partecipanti dello studio di Körner hanno trascorso il doppio del tempo nelle posture a basso e alto potere. La quantità ottimale di tempo che dovrebbe essere speso in una postura del corpo per ottenere degli effetti non è ancora chiara; gli studi presenti hanno utilizzato diverse posture del corpo, un diverso numero di posture e diversi lassi di tempo.

Conclusioni

In conclusione, i meccanismi sottostanti alla relazione esistente tra una power pose e autostima non sono ancora chiari e dovrebbero essere oggetto di ricerche future. È stato riportato che una power pose aumenta a sua volta i sentimenti di sicurezza (Gronau et al. 2017), ed è stato dimostrato che il senso di sicurezza innesca il sistema di attivazione comportamentale (Keltner et al. 2003), che a sua volta è collegato a un aumento dell’orientamento all’azione e delle emozioni positive. Una spiegazione dell’aumento dell’autostima può derivare dall’ipotesi dello stress power buffer (Carney et al. 2013), che propone che avere sicurezza porti a una ridotta risposta allo stress e a una ridotta coscienza di sé. Allo stesso modo, le power pose migliorano la gestione dello stress (Nair et al. 2014). Un’altra possibile spiegazione per l’effetto della posa ad alta potenza proviene dalla teoria dell’auto-percezione (Bem, 1967), che postula che le persone sviluppano atteggiamenti auto-diretti osservando il proprio comportamento. Una persona in una power pose elevata può dedurre di essere sicura di sé se assume una postura del corpo espansiva e aperta.

Il potenziale di un tale intervento in termini di riparazione dell’autostima potrebbe essere ulteriormente testato in studi futuri e potrebbe essere una via interessante nelle applicazioni psicologiche cliniche.

 

Scienza dell’Esperienza: Podcast Fenomenologico Post- Razionalista

Il 3 Marzo 2022 nasce un Podcast di Psicologia e Psicoterapia, denominato Scienza dell’Esperienza, orientato alla discussione scientifica circa tematiche di interesse trasversale alla psicologa, psicoterapia e medicina a partire da una prospettiva fenomenologica post-razionalista.

 

Questa iniziativa mira soprattutto a sensibilizzare un vasto pubblico al complesso intreccio tra mente e corpo, in un rimando di legami tra segni, sintomi ed emozioni. Il podcast, accessibile tramite piattaforme come Spotify, è erogato dal canale Radio 32 e ideato dal dottor Edgardo Reali, in collaborazione con altri psicologi e psicoterapeuti.

L’obiettivo del podcast Scienza dell’Esperienza è quello di creare uno spazio di approfondimento, che raccoglie temi derivanti dalla psicologia e dalla medicina, con l’intento di promuovere un ruolo attivo e consapevole della cura di sé. Ma, soprattutto, il podcast ha la funzione di fornire, ad un pubblico vasto, le informazioni per la sensibilizzazione del legame tra segni, sintomi ed emozioni, ovvero il legame, spesso, ignorato tra mente e corpo.

La cornice di tutto il podcast è mostrare l’importanza del coinvolgimento del paziente nel percorso di cura e l’importanza dell’intervento psicoterapeutico, con focalizzazione sull’approccio fenomenologico post- razionalista, che si concentra, come spiegato nel titolo stesso del podcast, sull’esperienza unica ed emotivamente situata (Arciero, Bondolfi, Mazzola, 2019) del paziente.

Invero, durante la psicoterapia, l’esperienza, nella sua unicità, è riportata dal paziente, attraverso la narrazione, ovvero la traccia che la persona ha per accedere a sé; “là dove questa traccia non riesce ad essere colta ed accolta, il contesto (il mondo) è in ombra e continua a lavorare alle spalle del soggetto che ne subisce i movimenti non potendo interagire da uomo libero (libertà che per natura gli apparterrebbe)” (Marchese, 2021). Il significato dell’esperienza perde, quindi, la sua connotazione psichica per essere direttamente riferito all’esperienza vissuta. L’intenzionalità diventa struttura del significato ed è dalla continua coordinazione tra sé, l’altro e il mondo che emergono gli stati d’essere che segnalano dove si è e dov’è l’altro. Il senso emerge nell’incontro stesso con le cose del mondo (Conti e Arciero, 2021). L’esperienza di sé che si dà, che esiste, che c’è già prima ancora di averne contezza, in quanto a livello preriflessivo (Arciero, 2009), dice che il senso è già contenuto nell’esperienza. Il sé esperienziale, quindi, corrisponde all’essere sé già fin da sempre presso un altro/mondo e, nella dialettica della temporalità, è situato tra l’accadere sempre e comunque di nuovo e il ritrovarsi come il medesimo (Arciero e Bondolfi, 2010).

In questa continua apertura dell’esperienza, il sintomo, come il dolore cronico legato all’emicrania trattato dalla dott.ssa Claudia Ianni nel primo intervento del podcast, può chiudere il paziente in una circolarità che è tipica della cronicità e fa perdere le tracce di senso dell’esperienza in cui è immerso. In questo caso l’intervento dello psicoterapeuta diventa fondamentale al fine di iniziare a decostruire e ricostruire il significato del sintomo e cogliere i contesti in cui si manifesta. Il ruolo dello psicoterapeuta, infatti, è quello di comprendere la complessità della variabilità, non solo fisiologica ma soprattutto emotiva, partendo dall’unicità e dalla centralità del paziente.

 

 

Logistica ospedaliera – Uno sguardo dietro le quinte

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

 

La logistica ospedaliera è un ambito molto importante che richiede un’attenzione costante. È rilevante per tutti i dipartimenti e i processi all’interno di un ospedale, per esempio ha una grande influenza sulla disponibilità dei materiali medicali, dei beni di consumo o dei posti letto. Questo articolo spiega cosa rientra in questo ambito e come può essere ottimizzato.

Aspetti della logistica ospedaliera

La logistica ospedaliera si occupa dei processi logistici e dei flussi di trasporto all’interno degli ospedali e include diversi campi, tra i quali:

  • Pianificazione e organizzazione
  • Trasporto e stoccaggio
  • Approvvigionamento di materiali
  • Trasmissione di informazioni
  • Disponibilità del personale

La logistica ospedaliera deve rispondere ai requisiti di igiene, salute, sicurezza sul lavoro e protezione antincendio.

Come si svolge la logistica

La logistica è fondamentale per tutti i processi che interessano l’ospedale. Serve da collegamento tra le aree funzionali e i dipartimenti che forniscono i materiali. Le aree funzionali sono, per esempio

  • sale operatorie
  • reparti
  • pronto soccorso.

I dipartimenti che forniscono i materiali sono:

  • magazzino economale
  • cucina
  • farmacia dell’ospedale.

Logistica ospedaliera e tecnologia moderna

Se si analizza la logistica negli ospedali oggi, si deve sempre tenere presente la digitalizzazione. Soprattutto nei tempi della pandemia da Coronavirus, le esigenze del personale medico e dei pazienti stanno cambiando rapidamente, motivo per cui è necessario il supporto delle moderne tecnologie.

Un’opzione già usata abbastanza frequentemente è quella di dotare i vari articoli di un codice a barre. Gli elementi contrassegnati in questo modo possono essere registrati più facilmente, risparmiando tempo ed evitando errori. Per esempio, i farmaci vengono assegnati al paziente giusto tramite il codice a barre; questo è particolarmente importante perché un farmaco sbagliato può comportare gravi rischi per la salute. Anche gli strumenti della sala operatoria sono in parte dotati di codici a barre e possono essere quindi controllati e preparati più rapidamente.

Un’altra possibilità è quella di utilizzare l’identificazione a radiofrequenza (abbreviata in RFID). Grazie a questa tecnologia, le informazioni vengono trasmesse in tempo reale, garantendo la comunicazione tra le diverse aree e i dipartimenti.

In futuro, la logistica ospedaliera sarà ulteriormente snellita e anche altri processi si svolgeranno in modo completamente automatico, per poter prestare le migliori cure possibili nel modo più semplice ed economico. In questo contesto, diventerà un tema sempre più rilevante l’uso della robotica, già utilizzata, tra l’altro, nelle sale operatorie o come ausilio nell’assistenza infermieristica.

Vantaggi offerti dalla digitalizzazione della logistica ospedaliera

Riguardo ai processi logistici, la digitalizzazione di un ospedale porta soprattutto miglioramenti per la trasparenza, la sicurezza e l’efficienza. Il progetto “Hospital 4.0 – Lean digital-supported logistics processes in hospitals” (fonte) si è concentrato sull’esame della logistica di magazzino e della gestione dei posti letto.

Il motivo più importante per automatizzare i processi logistici tramite la digitalizzazione è quello di alleggerire il personale. Se determinati processi non devono più essere eseguiti dal personale sanitario, allora questo può concentrarsi maggiormente sui compiti a valore aggiunto. Per esempio, il trasporto di campioni di pazienti, farmaci, articoli di prima necessità e documenti può essere eseguito tramite la posta pneumatica. All’interno di bossoli appositamente progettati, il materiale viene trasportato da un luogo all’altro attraverso l’uso di aria compressa o creando un vuoto, senza rischio di contaminare o danneggiare campioni o altro materiale. Questa soluzione di trasporto è più efficiente, meno soggetta a errori, e alleggerisce il personale che può così prendersi cura in modo adeguato dei pazienti.

Dal momento che molti processi avvengono in modo automatizzato e le informazioni sulle quantità esatte di farmaci e materiali vengono trasmesse in tempo reale e con precisione, si riducono gli sprechi, preservando così le risorse.

Conclusione

La logistica ospedaliera è un ramo necessario della logistica che sta diventando sempre più importante e nei prossimi anni riceverà sempre più attenzione. I processi logistici sono perfettamente adatti alla digitalizzazione per poter alleggerire il personale e fornire cure migliori ai pazienti.

 

Pandemic fatigue: cos’è e come rimotivare alla prevenzione del Covid

L’OMS propone quattro strategie chiave e cinque principi trasversali per mantenere e rinforzare l’aderenza del pubblico ai comportamenti protettivi contrastando la demotivazione che prende il nome di pandemic fatigue.

 

È ormai opinione condivisa che il dilagare del SARS-CoV-2 abbia messo a dura prova la società moderna. L’impatto della pandemia che ne è derivata è stato talmente dirompente da spingere i governi degli Stati di tutto il mondo a ritenere necessaria l’emanazione di varie misure restrittive finalizzate alla tutela della salute della popolazione: dall’impiego di mascherine all’aperto e nei luoghi al chiuso all’invito a osservare il distanziamento sociale e a limitare le occasioni di assembramento, fino alla modifica delle modalità di lavoro e degli spostamenti. Tutto ciò ha inevitabilmente determinato un drastico cambiamento nelle abitudini e nello stile di vita delle persone.

A distanza di tempo dall’inizio della pandemia, l’OMS riferisce la preoccupante presenza nella popolazione di crescenti segnali di pandemic fatigue (WHO, 2020).

Pandemic fatigue: che cos’è?

La pandemic fatigue si configura come una forma di distress che si traduce in demotivazione nel seguire i comportamenti protettivi raccomandati. Si tratta di una fisiologica e prevedibile reazione a un’avversità prolungata e ai disagi ad essa associati (in questo caso una crisi di salute pubblica), che emerge gradualmente nel corso del tempo e che conduce a sentimenti di angoscia (WHO, 2020).

A causa della pandemic fatigue un numero crescente di persone sta progressivamente abbassando la guardia relativamente alla situazione pandemica. Questa “stanchezza e intolleranza” da COVID-19 è, infatti, in grado di causare una riduzione del rischio percepito collegato al COVID-19, cui seguono un minore interesse e impegno nel seguire le raccomandazioni, con successiva diminuzione dell’efficacia dei comportamenti precedentemente attuati.

Pandemic fatigue: da cosa è causata?

Di fronte a un evento critico la maggior parte delle persone tende ad attivare delle strategie di coping funzionali ad affrontare le difficoltà nel breve termine, ma, qualora le circostanze di stress acuto si protraggano, potrebbero insorgere stanchezza e demotivazione (Masten et al., 2016).

È quello che è accaduto nel caso della pandemia da COVID-19, laddove la motivazione individuale è stata negativamente influenzata dalla durata della situazione pandemica (WHO, 2020). Nello specifico, la minaccia percepita del virus può gradualmente assumere un peso minore a causa dei seguenti fattori:

  • le persone si abituano nel tempo all’esistenza del virus, perdendo interesse;
  • le conseguenze sul piano personale, sociale ed economico derivate dalle misure di contrasto alla pandemia (lockdown, restrizioni) acquisiscono una rilevanza maggiore rispetto al rischio connesso al SARS-CoV-2;
  • si genera un desiderio di libertà e autodeterminazione come reazione alle limitazioni imposte per contenere il virus.

Pandemic fatigue: come contrastarla?

L’OMS ha stilato delle linee guida, ossia strategie e indicazioni che possono fungere da punto di riferimento per i governi e i cittadini, al fine di gestire la pandemic fatigue, rinvigorire la motivazione della popolazione rispetto ai comportamenti protettivi e incrementare la collaborazione delle persone nella prevenzione della diffusione del SARS-CoV-2.

In particolare l’OMS propone quattro strategie chiave e cinque principi trasversali per mantenere e rinforzare l’aderenza del pubblico ai comportamenti protettivi.

Le quattro strategie chiave sono:

  • comprendere le persone: identificare i gruppi di popolazione più demotivati o con maggiore incidenza di contagio, capire i loro bisogni e usare tali conoscenze per orientare politiche e interventi;
  • ingaggiare le persone: coinvolgere i cittadini a livello individuale e collettivo per farli sentire parte della soluzione;
  • permettere alle persone di vivere le loro vite ma diminuire i rischi: applicare misure locali, mirate, limitate nel tempo e a rischio effettivo per ridurre la diffusione del COVID-19, ma al tempo stesso permettere il proseguimento di una vita relativamente normale;
  • riconoscere le difficoltà che le persone vivono: fornire sostegno finanziario, sociale, culturale e psicologico per alleviare il disagio della popolazione.

Invece, i cinque principi trasversali nella progettazione di politiche e interventi sono:

  • trasparenza
  • correttezza e imparzialità
  • coerenza
  • coordinamento
  • prevedibilità

Infine alcuni consigli concreti forniti dall’OMS sono:

  • anziché incolpare, spaventare o minacciare le persone, fare loro appello e riconoscere il fatto che tutti stanno dando il loro contributo;
  • raccomandare comportamenti facili e poco costosi;
  • utilizzare una comunicazione efficace;
  • fornire informazioni in modo conciso e chiaro.

In conclusione, nonostante siano attualmente disponibili vaccini e terapie per proteggerci e curare l’infezione da COVID-19, i comportamenti protettivi individuali e collettivi continuano a rappresentare una risorsa di centrale importanza per il contenimento del virus, dal momento che la pandemia non è ancora del tutto giunta al termine. Ecco perché la pandemic fatigue si presenta come una insidiosa minaccia relativamente ai risultati raggiunti fino ad ora: abbassare la guardia adesso, infatti, può significare vanificare tutti gli sforzi effettuati per tenere sotto controllo la diffusione del SARS-CoV-2, spesso con costi elevatissimi in termini economici e sociali. Risulta, pertanto, fondamentale costruire un giusto equilibrio che da un lato garantisca alla popolazione una soddisfacente qualità di vita e dall’altro continui a mantenere ridotti i rischi riferiti al dilagare della pandemia.

 

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento(2022)- Recensione

Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento è composto da quattro capitoli: nel primo viene trattato il concetto di dipendenza affettiva, nel secondo quello di idolo, nel terzo le aspettative all’interno del rapporto con l’idolo, nell’ultimo la sindrome di Peter Pan e la paura di crescere.

 

Sono millenni che l’uomo si interroga su cosa sia l’amore. La tematica è complicata da analizzare e definire in tutte le sue sfaccettature relazionali ed emotive che investono le persone.

Ho percorso la lettura del libro in compagnia di diversi interrogativi; alcuni di essi sono soggettivi e spontanei, altri sono comparsi con la lettura, altri ancora sono proposti dall’autrice. Né è un esempio la questione se esista una ricetta univoca che, ponendo i giusti ingredienti insieme all’arte della lavorazione, sforni il giusto modo di amare. L’autrice interviene chiarendo che non esiste. Anzi, è un errore tipico pensarlo: non esiste una modalità unica di amare.

Semplificando, il modo in cui desideriamo essere amati non corrisponde a quello nel quale anche il nostro partner vorrebbe essere amato. Ecco che l’argomentazione su cosa sia l’amore si complica, arricchendosi.

Come anticipato, il libro nasce dalla volontà di comprendere alcune dinamiche dell’amare e, nello specifico della dipendenza affettiva. Si giunge ad attribuire, attraverso il gioco delle aspettative, la caratteristica di essere per se stessi l’unica possibilità per poter raggiungere la felicità, di essere felici.

Infatti, nella conclusione si legge che l’impegno era di cercare:

[…] una risposta al perché sentiamo il bisogno di riversare il nostro interesse e le nostre attenzioni su di un’altra persona, perché ci aspettiamo di trovare in lei tutto quello di cui sentiamo la necessità, perché finiamo per dipendere da lei e considerarla la nostra unica possibilità per essere felici.

Libro letto con vero piacere.

Oltre alla chiarezza d’esposizione e la qualità dei contributi presenti, sicuramente la piacevolezza della lettura è correlata al mio interesse verso la tematica della dipendenza affettiva; argomento verso il quale da anni ho sviluppato un interesse sempre maggiore che mi ha portato, e mi conduce attualmente, allo studio approfondito del fenomeno stesso.

L’autrice ha scritto Dipendenze affettive, idoli e modelli di riferimento con attenzione accurata al lettore. Esso si troverà immerso nella narrazione. La scrittura fluida e arricchita da argomentazioni fruibili su tematiche importanti lo condurrà verso la scoperta del fenomeno contestualmente alle risposte presentate.

Il testo è composto da quattro capitoli. Nel primo viene trattato il concetto di dipendenza affettiva, nel secondo quello di idolo; il terzo e il quarto sviluppano la riflessione nei confronti delle aspettative all’interno del rapporto con l’idolo, per terminare nell’ultimo capitolo col tema relativo alla sindrome di Peter Pan e alla paura di crescere di alcune persone.

Troviamo un concetto che potrebbe apparire lontano, inizialmente difficile da capire. Velato di stranezza o impossibilità esistenziale, esso mette il lettore di fronte al concetto che per amare veramente è necessario vivere la condizione di autonomia, è fondamentale riuscire a stare da soli.

Successivamente, l’autrice ci guida verso una nuova riflessione. Il costrutto di dipendenza affettiva non è sempre definibile come espressione di patologia. Difatti, esistono diverse tipologie di dipendenza, alcune sane e, ahimè, altre patologiche.

Nello specifico, la dipendenza è sana quando la relazione arricchisce gli individui; sono le amicizie, gli affetti familiari, i rapporti sociali dove le attenzioni e i bisogni sono vicendevolmente riconosciuti e ripagati.

Diversamente, si può definire patologica la dipendenza quando un individuo si lega ad una persona che riveste la qualità di unico centro di interesse. Siamo nella situazione in cui viene a mancare la reciprocità della relazione sana, quando essa è incapace di dare in cambio qualcosa ma si nutre, assorbe l’energia dell’altra persona. È l’unica ragione di vita, ma ci annulla.

Come sottolinea l’autrice:

Il desiderio di amare qualcuno si traduce, come tutti i desideri umani, nel raggiungimento di uno stato di gioia, di soddisfazione, di crescita, il vero amore non può andare contro i nostri interessi e la nostra felicità, non può implicare che una persona si annulli nell’altra, non può causare dipendenza e rinuncia della propria individualità.

Quali sono le caratteristiche della dipendenza affettiva?

Esse vengono riassunte in sei punti: ricerca di equilibrio, perdita di sé, l’altro è perfetto, passione ed egoismo, delusione e transitorietà.

Per spiegare cosa si intende per idolo possiamo immaginare alcune situazioni dell’esperienza quotidiana che molti hanno vissuto. Chi siamo e chi vorremmo essere, la percezione di invidia e ammirazione verso una persona a cui vorremmo assomigliare o vedere qualcuno con occhi sognanti e idealizzarlo come un semidio. Questi sono esempi resi noti dal pensiero dell’autrice per rendere concreta la sensazione di possedere un idolo e, nello stesso tempo, sapere cosa significhi averlo.

Interessante il confronto con la sacralità: l’idolo ci offre un Dio non impossibile da raggiungere.

Esistono così idoli buoni e idoli cattivi. Quali sono le caratteristiche che li contraddistinguono? I primi si allineano alla crescita individuale dell’individuo, aiutano nella costruzione di un sé indipendente. Gli idoli cattivi, al contrario, “[…] sono quelli che ci isolano dalla realtà, sono un rifugio dove si decide di nascondersi, sono quelli che creano un effetto di dipendenza senza renderci veramente autosufficienti.

Per spiegare i rapporti esistenti tra noi e i nostri idoli, l’autrice prende in esame i concetti di imitazione e di identificazione.

In ulteriore analisi, l’idolo assume il ruolo di essere funzionale a qualcos’altro, diventa amato per la rappresentazione che l’individuo si crea di esso invece che per quello che realmente è.

I concetti di essere innamorati e amare assumono lo stesso significato?

No, non sono sinonimi. Tumultuosità dei sentimenti e forte passionalità rientrano nel quadro dell’innamoramento. Può condurre all’amore, può altresì esaurirsi prima di giungere alla meta pensata e vissuta inizialmente.

Proseguendo la lettura del libro, scopriamo che per Annalisa Balestrieri “chi ama sa di amare e chi è amato sa di essere amato”; la priorità principe è la felicità del partner. Situazione in cui non è presente la ricerca del possesso, bensì condizione in cui regna la fiducia e la libertà della realizzazione della persona amata.

A volte l’amore termina, finisce.

Scompaiono le affinità viste nell’incontro iniziale col partner, l’investimento emotivo e relazionale diventa meno, non corrisponde più alle nostre necessità. La persona diventa sempre più una estranea e vengono a mancare i dialoghi.

Di attualità nel contesto in cui viviamo è l’argomento trattato nell’ultimo capitolo: Peter Pan.

La capacità di sognare non è sempre valutata come manifestazione negativa, come espressione della volontà di fuggire dalla realtà, ma al contrario può indicare una prospettiva per arricchire la nostra vita. Affinché non ci sia la fuga dalla realtà, nondimeno l’autrice ricorda l’importanza della consapevolezza di come saper sognare sia una strada di vita, modalità che tuttavia non deve sostituire gli aspetti reali del quotidiano.

La vita va sempre vissuta in prima persona!

 

Coscienza e memoria: ipotesi di ricerca per studi futuri

Di Sarno e colleghi (2018) hanno proposto un’ipotesi di ricerca per comprendere più approfonditamente come mai certi elementi della quotidianità diventano parte della coscienza sotto forma di contenuti consapevoli.

 

Cos’è la coscienza?

Uno dei costrutti più difficili da definire in psicologia è la coscienza. Haladjian e Montemayor (2016) la definirono come l’esperienza soggettiva di essere consapevoli dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Dato che è un concetto complesso, per semplificare il costrutto vengono prese in considerazione due componenti: il livello di coscienza, cioè la vigilanza e il contenuto della coscienza, e la coscienza definita in termini di esistenza intrinseca, composizione, informazione, integrazione ed esclusione (Tononi & Koch, 1668; Di Sarno et al., 2018).

Secondo la teoria dell’informazione integrata (IITC), l’esistenza intrinseca riguarda ogni esperienza che esiste nel qui ed ora, vissuta in modo reale e intrinseco da parte del soggetto che la sperimenta, indipendentemente da chi osserva dall’esterno (Di Sarno et al., 2018). Si parla invece di composizione in quanto la coscienza è strutturata e ogni esperienza viene distinta in base all’esperienza stessa sperimentata dalla persona: ad esempio, posso riconoscere un determinato dipinto, il colore utilizzato e discriminarlo da un altro dipinto in cui si utilizza lo stesso colore. L’informazione riguarda invece la specificità della coscienza, in quanto ogni esperienza è composta da delle distinzioni che differenziano ogni esperienza come diversa e unica. L’integrazione si riferisce all’irriducibilità dell’esperienza, in quanto non può essere scomposta in distinzioni fenomeniche non interdipendenti come i fotogrammi di un film, bensì la coscienza è unificata (Tononi & Koch, 1668; Di Sarno et al., 2018). Infine, l’esclusione riguarda la definizione in termini spazio-temporali della coscienza stessa.

Tutti i sistemi biologici presentano forme di autorganizzazione tali da poter mantenere un’integrità nonostante degli stati fluttuanti (ad esempio, si pensi ai battiti cardiaci o alle oscillazioni dell’attività cerebrale). La teoria di Markov Blanket postula un’interrelazione tra stati interni ed esterni: i primi sono aperti ai secondi in modo che le funzioni energetiche possano essere descritte in termini di credenze probabilistiche, o teorie, codificate dagli stati interni stessi nel rispetto di quelli esterni (Di Sarno et al., 2018). Questo significa che un organismo non segue un modello nel mondo, bensì è esso stesso un modello che minimizza l’entropia dei suoi stati interni attraverso l’interazione dei sottosistemi neurali, differenziati e organizzati gerarchicamente (Ramstead et al., 2017; Sperandeo et al., 2017).

Su cosa si basa la coscienza?

Ma l’uomo come può essere consapevole della sua coscienza, organizzandola in diversi gradi e diventando così un modello funzionale del mondo in cui vive? Probabilmente grazie alla memoria. Numerosi lavori scientifici sono stati pubblicati negli ultimi anni, mettendo in relazione la coscienza e la memoria di lavoro con il fine di comprendere se gli elementi memorizzati fossero consci (Baddeley, 2003) o inconsci (Soto et al., 2011; Stein, Kaiser & Hesselmann, 2016; Di Sarno et al., 2018). La memoria gioca un ruolo fondamentale per l’adattamento dell’uomo, in quanto permette la formazione identitaria del soggetto: senza essere in grado di ricordare che cosa ci succede o che cosa sperimentiamo, il nostro essere può essere compromesso in modo significativo (Di Martino, 2016; Sperandeo et al., 2016; Sperandeo et al., 2017).

Partendo dalla letteratura che conferma il ruolo della memoria nella strutturazione dell’esperienza conscia, al contrario della memoria di lavoro che mostra come alcuni elementi siano interiorizzati in modo inconscio, Di Sarno e colleghi (2018) hanno proposto un’ipotesi di ricerca per comprendere più approfonditamente (attraverso un’esperienza immersiva con l’utilizzo della realtà virtuale) come mai certi elementi della quotidianità diventano parte della coscienza sotto forma di contenuti consapevoli (Di Sarno et al., 2018). Per quanto riguarda i questionari, raccomandano la somministrazione di un test neurocognitivo come la Repeatable Battery For Neuropsychological Status (RBANS, Randolph et al., 1998) per valutare l’integrità delle funzioni cognitive dei partecipanti. È consigliato il Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 – Restructured Form (MMPI 2-RF; Sirigatti & Faravelli, 2012) per escludere la presenza di disturbi di personalità o di una sintomatologia che può inficiare lo studio. Una volta valutati questi aspetti, viene fornito un visore ai partecipanti, dove delle scene con stimoli neutri pian piano si sviluppano in scene più articolate e con dei contenuti emotivi più evidenti (l’esempio riportato descrive un soggetto che sorride mentre guarda il partecipante della ricerca). Gli autori dell’esperimento ipotizzano che a determinare tale consapevolezza degli elementi sia proprio la qualità degli stimoli interiorizzati: vivere un’esperienza vivida con la realtà virtuale, come sguardi, sorrisi e gesti, significativamente rilevanti, potrebbe attivare dei contenuti inconsci interiorizzati nella memoria di lavoro. Di conseguenza, dirigere l’attenzione in modo consapevole su questi elementi potrebbe rendere uno stimolo conscio, ipotizzando che il soggetto tenderà a ricordare una serie di dettagli ed elementi in modo direttamente proporzionale alla valenza emotiva dello stimolo osservato (Di Sarno et al., 2018). Svolgere questo esperimento non solo potrebbe essere utile per comprendere meglio come funziona la memoria o come quest’ultima sia correlata alla coscienza, bensì potrebbe apportare dei benefici in ambito terapeutico per quanto riguarda la strutturazione identitaria di un individuo in base a stimoli salienti o emotivi, percepiti come determinanti per la sua individualità.

 

Inizia il Forum di Ricerca in Psicoterapia – Report dall’intervento di apertura del Dr G. Caselli

Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Spetta al Dr. Gabriele Caselli dare avvio ufficialmente al Forum, la presentazione di apertura dell’evento conta più di 300 partecipanti.

 

Inizia il Forum della Ricerca in Psicoterapia. Un appuntamento che gli allievi di Studi Cognitivi ben conoscono e aspettano con anticipazione ogni due anni. La pandemia ha però stravolto la tradizione: non solo facendo saltare l’edizione del 2021 ma spostando il Forum – prima chiamato colloquialmente “Forum di Riccione” in quanto la città romagnola fungeva da punto di incontro per tutte le sedi del gruppo Studi Cognitivi – dalle calde spiagge della riviera al meno soleggiato mondo online. L’interesse e l’entusiasmo però restano quelli di sempre.

Parte infatti la presentazione di apertura dell’evento e i partecipanti superano i 300. Spetta al Dr. Gabriele Caselli dare avvio ufficialmente al Forum.

Inevitabile è il riferimento a quanto gli ultimi due anni abbiano stravolto le nostre vite, personali ma anche professionali. Numerosi cambiamenti hanno toccato il lavoro del terapeuta: basti pensare allo spostamento dell’attività terapeutica online e al conseguente proliferare delle piattaforme di Psicoterapia a distanza. Ma anche il mondo della formazione – ricorda Caselli – ha subito non pochi cambiamenti e il gruppo Studi Cognitivi, in questo senso, ha dovuto affrontare numerose sfide non sempre facili, non sempre ben viste, ma necessarie e anche stimolanti. Perché “stimolanti”? Perché – sottolinea Caselli – tutto ciò ci ha portato a pensare quanto sia possibile cambiare se e quando il contesto lo richiede: nonostante le varie difficoltà infatti, la Scuola si è evoluta, ha saputo riconoscere le limitazioni date del periodo pandemico e ha saputo trasformarle in opportunità. Pensiamo al duro lavoro per spostare online le lezioni, ma anche all’impegno in campo clinico per portare, in un periodo così delicato, la terapia scientifica ed evidence based a chi ne ha bisogno (impegno che ha permesso la nascita del portale inTHERAPY). Al tempo stesso, negli ultimi due anni, il gruppo Studi Cognitivi ha continuato a diffondere conoscenza scientifica in campo internazionale in particolare sulla formulazione condivisa del caso e sulla pianificazione del trattamento.

Perché il futuro da raggiungere – auspica G. Caselli – è un futuro in cui il terapeuta non è più solo nella sua stanza, ma lavora in modo coordinato e controllato attraverso il confronto con i colleghi e con l’utilizzo di protocolli efficaci, soprattutto in un periodo in cui una rinnovata attenzione alla terapia attraverso le piattaforme online e le politiche sociali (come ad es. bonus psicologo e “vivere meglio”), può essere ricca di opportunità ma, in un certo senso, anche di rischi per il professionista che lavora isolato.

Il prof Caselli conclude il suo intervento osservando come la disseminazione su larga scala di terapia sia possibile in termini scientifici, a partire dalla diffusione di un pensiero critico e scientifico che eviti derive naif, e non a caso, nel corso del Forum, sono ospiti due personalità di spicco nel campo della Psicoterapia Cognitiva su larga scala: Steven Hollon e David Clark. L’intento è costruire un confronto con gli altri Paesi già impegnati con interventi pubblici di Psicoterapia, in modo da analizzare meglio i limiti e le risorse di tali interventi, per poter poi creare nuovi ponti tra ricerca e clinica in questo nuovo mondo.

La parola passa infine al Dr Giovanni M. Ruggiero che presenta il Prof. Steven Hollon e la sua Keynote, in cui ci parla di depressione e terapia cognitivo comportamentale (a cui nei prossimi giorni dedicheremo un report più approfondito).

Mancherà il palco con i relatori e gli allievi seduti in platea che ascoltano con curiosità, mancheranno le chiacchiere tra colleghi mentre si passeggia tra i tanti poster di ricerca esposti e mancheranno anche i momenti più conviviali e di leggerezza che il Forum di Riccione portava con sé, di certo però non mancheranno le occasioni di confronto e scambio che permettono ad ogni partecipante di crescere personalmente e professionalmente. Buon Forum a tutti!

 

Essere genitori in epoca Covid – The Journal Club –

State of Mind presenta la nuova stagione di The Journal Club in formato podcast: un ciclo di appuntamenti per approfondire ed esplorare le novità dal panorama scientifico internazionale, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. 

 

Gli episodi della nuova stagione di The Journal Club

Ogni settimana l’analisi di un articolo scientifico dedicato a una particolare tematica. In ogni incontro, le Dott.sse Sara Palmieri e Alessia Offredi, accompagnate da un ospite del team di esperti di Studi Cognitivi, commentano l’articolo, per poi proseguire con alcune importanti riflessioni sulle implicazioni di quest’ultimo nel campo della Psicoterapia.

È online oggi il sesto episodio del podcast dedicato all’essere genitori nel periodo pandemico. Ospite dell’incontro: la Dott.ssa Cristina Ferrari.

Dove ascoltare il sesto episodio:

 

Che cos’è la dismorfia digitale

Filtri delle app, videochiamate, foto ritoccate: la nostra immagine riflessa sullo schermo ci può portare a sovrastimare difetti ed imperfezioni e a farci sentire insoddisfatti, fino alla dismorfia digitale.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 29) Che cos’è la dismorfia digitale

 

Negli ultimi anni molti professionisti nell’ambito dell’estetica, come dermatologi e chirurghi plastici, hanno assistito ad un aumento di richieste di interventi.

Secondo diversi professionisti questo fenomeno è dovuto alla continua esposizione delle nostre immagini, continuamente postate e condivise su social e app, ma anche all’abitudine di modificarle che funge da innesco non solo all’essere insoddisfatti di se stessi, ma anche a vere e proprie forme di dismorfia (Ramphul e Mejias, 2018; Pfund et al, 2020). Difatti, spesso si tratta di richieste legate alla propria immagine digitale: addirittura, molti richiedono trattamenti che li facciano somigliare alle loro foto modificate con i filtri delle app.

Il dismorfismo corporeo e la dismorfia online

Nel DSM-5 il disturbo da dismorfismo corporeo o dismorfia (body dysmorphic disorder, BDD) viene classificato tra i disturbi ossessivo-compulsivi. Il nucleo di questo disturbo è l’eccessiva e persistente preoccupazione per difetti fisici anche minimi o assenti. Che siano presenti o meno, questi difetti compromettono significativamente la qualità della vita ed il funzionamento dell’individuo, causando forte disagio.

Da qualche tempo si parla di nuove forme di insoddisfazione corporea che nascono online: se legata principalmente a video e foto si parla di “Snapchat dysmorphia” o “Instagram dysmorphia” o più in generale “selfie dysmorphia” o ”filter dysmorphia”.

Invece ci si riferisce a “Zoom dysmorphia” quando il disagio è relativo alla propria immagine nelle videochiamate (Ramphul e Mejias, 2018), diventate la forma principale di comunicazione per lavoro, scuola e socializzazione soprattutto durante la pandemia. Anche i servizi di videochiamate, infatti, offrono filtri per ritoccare il proprio aspetto e che hanno rafforzato questa tendenza (Pfund et al, 2020).

Al di là del termine specifico, ciò che è cruciale è che si tratta di immagini di obiettivi digitali che possono essere modificate e filtrate; immagini e video che abbiamo sempre sott’occhio e proprio questa continua osservazione di noi stessi può portarci a notare ed esacerbare aspetti di noi che non ci piacciono.

Editing di noi stessi

L’influenza di standard di bellezza e idealizzazione corporea guidati dai media, come stampa e televisione, sono ben noti; si tratta però di modifiche riservate a specifiche figure professionali, come modelli o attori, con strumenti di editing professionali utilizzati da esperti (Hunt et al., 2018).

Quando entriamo nell’ambito dei social media parliamo di una marea di filtri e applicazioni a disposizione di tutti, senza contare che possiamo ricevere feedback immediati, cosa che ci porta ancora di più a prestare molta attenzione a rivedere e a rifinire ogni dettaglio, compresi quelli che riteniamo non apprezzabili o che lo diventano man mano che si fa pratica con i filtri.

Questi filtri consentono praticamente ogni tipo di modifica: sbiancare i denti, ingrandire gli occhi, eliminare le rughe, cambiare il colore della pelle, eccetera.

Si può pubblicare un’immagine di sé ottimizzata, curata, in alcuni casi irrealistica: si finisce col condividere l’immagine desiderata, il sé ideale, più che un riflesso di se stessi (Tiggemann e Barbato, 2018; Rajanala e Maymone, 2018; Jiotsa et al, 2021).

L’approccio adeguato

Se da un lato i social media ci aiutano a rimanere connessi, informati, aggiornati, dall’altro c’è il rischio che l’idealizzazione e l’eccessiva attenzione alle immagini ci facciano sentire insoddisfatti o portino a veri e propri disturbi psicologici.

D’altro canto sono parte integrante della nostra vita quotidiana: certamente è essenziale per i professionisti capirne a fondo le tendenze, le sfumature negli utilizzi, le potenzialità ed i rischi.

È fondamentale saper riconoscere i sintomi di disagio per la propria immagine corporea assicurando così al paziente supporto, aiuto e comprensione del problema prima di eseguire qualsiasi procedura chirurgica. La conoscenza e l’educazione digitale aiutano i professionisti a gestire anche questa tipologia di pazienti ed eventualmente indirizzarli a percorsi di supporto psicologico laddove necessario.

 

Il ruolo dei modelli nell’adolescenza

Durante l’adolescenza ci si trova dinnanzi un cammino, più o meno impervio e oscuro, che conduce ciascuno di noi al raggiungimento dell’età adulta. In questo periodo è naturale il ricorso a modelli che aiutano a scegliere in quale direzione indirizzare i propri sforzi nella ricerca di un nuovo equilibrio. 

Dall’adolescenza all’età adulta

Si pensa spesso all’adolescenza come ad un periodo di passaggio, una fase con un inizio e una fine abbastanza delineabili. In realtà, però, non è una fase che scompare per sempre, quello che impariamo in questo periodo ci sarà utile nel futuro. La sua memoria e i suoi effetti si prolungano per tutta la vita e riemergono nei momenti cruciali e nelle grandi tappe dell’esistenza, come sostenuto da Erikson nel trattare le fasi dello sviluppo della personalità.

Nell’adolescenza vediamo il cambiamento che ci riguarda e ne sentiamo la portata, è una fase costruttiva in cui sentiamo il bisogno di coerenza, unità, in cui deve essere forte la percezione di sé. Per la prima volta le nostre aspettative devono confrontarsi con la realtà, a costo di delusioni.

Questo è forse l’aspetto principale di quanto dovremo apprendere perché i problemi che incontreremo nell’età dell’adolescenza (scelte, dilemmi, rapporti con i cambiamenti) non vengono superati con essa, ma da quel momento diventano parte del panorama esistenziale di ognuno di noi. Per imparare ad affrontarli, la crisi tipica di questa età deve essere affrontata e attraversata con la consapevolezza che non può essere evitata.

Il difficile processo di differenziazione

Durante l’adolescenza ristrutturiamo l’immagine di noi attraverso le modifiche cognitive ed emotive e il raggiungimento del pensiero logico, formale e autoriflessivo.

La crisi adolescenziale non può essere collocata in un periodo preciso, per alcuni può aver luogo anche in età adulta, oppure non verificarsi per tutta la vita. In questo caso, però, difficilmente riusciremo ad emergere da quello stato di dipendenza che caratterizza il periodo dell’infanzia.

La ricerca dell’autonomia passa attraverso la ribellione ai genitori. Ausubel, psicologo dell’età evolutiva, ci parla di un processo di desatellizzazione dalle figure genitoriali. Spesso l’adolescente si rifiuta di rispondere alle loro aspettative, assume dei modelli che loro vedono come negativi, esprime la deidealizzazione del genitore attraverso la critica, le identità negative di cui parla Erikson. La ribellione dell’adolescente non ha però una connotazione esclusivamente negativa, ma va vista come un progetto di vita.

Gli adolescenti hanno un umore fluttuante, sono spesso ambigui, svogliati, confusi. Si sentono inadeguati perché il concetto di sé è carente, l’autostima è bassa per la difficoltà dei compiti evolutivi che devono affrontare, per i vacillamenti e i fallimenti cui vanno incontro.

Gli eccessi

Durante l’adolescenza, le situazioni da affrontare appaiono enormi e catastrofiche. Gli adolescenti hanno aspettative e ideali esasperati e impossibili, il confronto con le frustrazioni è quindi enorme.

Uno dei problemi principali che incontra l’adolescente è un retaggio dell’infanzia, il non saper sopportare l’intervallo di tempo che intercorre tra i desideri e la loro soddisfazione. È necessario imparare a confrontarsi con la realtà e sopportare le frustrazioni che nascono da un’immagine inadeguata che si ha di sé e della realtà, dalla discrepanza che esiste tra ideale e realtà. Un percorso naturale e indispensabile, che deve però essere considerato tipico dell’adolescenza e che non è più funzionale se continua ad esistere nell’età adulta.

Falso capo

L’adolescenza è il periodo della comparsa del falso capo, una figura sostitutiva del genitore che il giovane adolescente investe di quell’onnipotenza di cui nell’infanzia aveva investito il genitore e nella quale cerca quella sicurezza che non ha ancora trovato in se stesso. Cambia il tipo di base sicura di cui ci parla Bowlby: se per il bambino il rapporto è fatto di accudimento, per gli adulti è fatto di reciprocità.

Qualunque cosa può fungere da falso capo, come può esserlo una persona (ad esempio il fidanzato, vissuto come unico amore al mondo) così può esserlo un ideale, in entrambi i casi questi saranno caratterizzati dall’eccesso di onnipotenza che gli viene attribuita. L’adolescente va soggetto a grandi delusioni e frustrazioni perché investe troppo in questo falso capo.

Dalla crisi e dall’illusione si passa alla delusione. Il conflitto che ne deriva non è solo inevitabile, ma è salutare. Quando l’adolescente fa questo investimento su altri e poi, un po’ alla volta, si rende conto di aver fallito perché quello che si aspettava non è realizzabile, torna in sé.

Queste crisi sono funzionali al disinvestimento, si passa dall’onnipotenza dell’altro alla ricerca della propria identità, alla fiducia nel proprio potere personale.

La figura di riferimento e la fine del mito

Fulvio Scaparro, psicologo e psicoterapeuta, ci dice che di una figura di riferimento non si può fare a meno e non è vero, come comunemente si pensa, che queste muoiano sempre spontaneamente quando si raggiunge l’adultità.

Perché ciò avvenga è indispensabile che si sappia mantenere da esse la necessaria distanza così da non confondere la propria personalità con la loro; solo in questo caso potranno svolgere appieno la loro funzione positiva, per poi svanire quando non saranno più necessarie. Chi vuole troppo avvicinarsi al modello rischia di fondersi con lui vivendo una sorta di vita immaginaria.

L’adolescenza è un periodo di crisi, non sempre le esperienze che si fanno a questa età sono positive, se non lo sono si può correre il rischio che si verifichi un rifiuto alla crescita per paura che queste situazioni negative tornino a ripetersi, identificando addirittura con esse la stessa età adulta.

Ogni bambino ha un mito, un personaggio particolare che vuole imitare, un eroe dei fumetti, un divo del pallone che rappresenta per lui un modello. Sarà fortunato se capirà, e se qualcuno lo aiuterà a capire, che ciascuno di questi personaggi rappresenta solo un interprete del mito, ma non è il mito stesso.

Quando il personaggio viene meno, perde il suo fascino, delude, non corrisponde più, insomma, alle aspettative che ci si erano fatte su di lui, si deve poter capire che è solo un interprete del mito a cadere e non il mito che egli interpretava, il quale continua ad andare oltre i limiti che sono propri, invece, del personaggio.

In conclusione

Nonostante i rischi di cui abbiamo parlato, non si deve cadere nell’errore di concludere che sia meglio saper fare a meno di un modello, ciò non è assolutamente possibile perché la sua utilità rimane innegabile.

L’adolescente deve acquistare modelli morali accettabili e adatti alla società in cui vive, ma anche adatti e accettabili al suo mondo. La lotta degli adolescenti è integrare i modelli morali che hanno ricevuto in famiglia con il loro mondo, quello che loro si sono scelti e che risponde alle loro personali esigenze e aspettative.

La nascita di un terapeuta sistemico (2022) – Recensione del libro

Il tema attorno a cui ruota il volume La nascita di un terapeuta sistemico sono le esperienze formative che coinvolgono direttamente le famiglie d’origine, i partner e, in alcuni casi, anche gli amici più importanti dei futuri terapeuti familiari.

 

Va dato merito al giovane editore napoletano Luigi Guerriero per aver dato vita, nonostante i tempi di crisi generalizzate, ad un progetto editoriale di testi di psicologia e di scienze umane, nato da pochi anni e in continua progressione. Il titolo più importante sinora è a mio avviso Quando volano i cormorani, il libro di Alfredo Canevaro, pubblicato per la prima volta nel 2009, andato esaurito e successivamente introvabile per problemi della precedente casa editrice (vedi recensione). Con la pubblicazione di La nascita di un terapeuta sistemico prosegue l’operazione editoriale di rendere nuovamente disponibili per i lettori italiani i testi di Canevaro. Questo, curato insieme al terapeuta familiare belga Alain Ackermans, fu ideato dai due curatori raccogliendo gli stimoli e le suggestioni emerse in un affollato convegno dell’E.F.T.A. (European Family Therapy Association) tenutosi a Parigi nel 2010 proprio sui temi al centro del volume. Il lavoro fu pubblicato simultaneamente nel 2013 in italiano e in francese, a testimonianza di uno sforzo di condivisione internazionale e raccoglie contributi di autori italiani, belgi, francesi e sudamericani. Il tema attorno a cui ruota il volume sono le esperienze formative che coinvolgono direttamente le famiglie d’origine, i partner e, in alcuni casi, finanche gli amici più importanti dei futuri terapeuti familiari.

Le principali scuole sistemiche reputano che il training debba essere il luogo privilegiato anche per il lavoro sulla “persona”, con l’eccezione dei casi in cui è lo stesso allievo a formulare una richiesta di uno spazio terapeutico personale, che deve essere individuato all’esterno del training gruppale. Proprio per questa caratteristica, la convocazione della famiglia dell’allievo, pur non strutturandosi come una seduta di terapia familiare, rappresenta un’occasione privilegiata di conoscenza dei propri vissuti emotivi e dei propri modelli relazionali. In effetti, sin dagli albori della terapia familiare negli Stati Uniti si sono confrontati due modelli: il primo, nato nella costa occidentale, enfatizzava il problem-solving e l’acquisizione delle abilità tecniche, mentre l’altra impostazione ha puntato sulla persona del terapeuta, dando spazio al lavoro sulla famiglia d’origine, al genogramma e alla ricerca di pattern trigenerazionali. Nel tempo, il lavoro sul Sé del terapeuta è apparso inevitabile, anche se non tutte le scuole ricorrono alla presenza reale dei familiari. Il tema dell’isomorfismo tra il processo terapeutico e il processo formativo è quindi un altro filo rosso che collega i diversi contributi.

Il libro è suddiviso in due parti ed è introdotto da una bella prefazione di Gigi Onnis, scomparso nel 2015, che dell’EFTA è stato co-fondatore e tenace animatore.

Nella prima, curata da Canevaro, sono ospitati i capitoli di Stefano Cirillo, Matteo Delfini e Anna Maria Sorrentino, che descrivono l’esperienza della Scuola Mara Selvini di Milano nel coinvolgere le famiglie d’origine degli allievi; di Matteo Selvini, in merito ad un gruppo multifamiliare per terapeuti esperti, di Alfredo Canevari e altri autori sudamericani che descrivono analoga esperienza condotta a Santiago del Cile; di Federico Cardinali e Gabriella Guidi, che presentano il loro lavoro sulla famiglia d’origine degli allievi strutturato in quattro tempi diversi.

La seconda parte, curata da Ackermann, contiene altri 5 capitoli, che fanno riferimento al modello di Chantal Van Cutsem e del Centro Studi della Famiglia e dei Sistemi (CEFS) di Bruxelles, all’esperienza francese dell’APRTF di Parigi, che parte dal modello di risonanza familiare, ispirato al concetto chiave formulato da Mony Elkaim, per finire con l’esperienza inglese di Mark Rivetti e Jeremy Woodcock, operanti a Bristol, che anticipano i temi della mindfulness, proponendo tecniche per trascendere il Sé nella formazione dei terapeuti sistemici. Le conclusioni del volume sono pure affidate a Ackermans, che si occupa di riepilogare i punti di contatto e le divergenze tra le varie modalità di lavorare sui legami familiari degli allievi nelle diverse realtà formative europee presentate.

Il libro mi pare particolarmente utile a chi si occupa di formazione, non esclusivamente in ambito sistemico, e a quanti sono interessati a comprendere l’evoluzione nel tempo delle teorie e delle prassi dei training per psicoterapeuti.

 

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