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Nuove tecnologie nel trattamento dell’autismo: la terapia assistita da robot (RAAT) – Psicologia Digitale

I più recenti sviluppi tecnologici nel campo dell’intelligenza artificiale hanno fornito nuovi metodi per il trattamento dell’autismo.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 27) Nuove tecnologie nel trattamento dell’autismo: la terapia assistita da robot (RAAT)

 

 Nei disturbi dello spettro autistico abbiamo una significativa compromissione del neurosviluppo che porta a interessi ristretti e ripetitivi, interazioni e comunicazione (verbale e non) inadeguate (APA, 2013). Le prime manifestazioni del disturbo insorgono entro i 3 anni e possono variare notevolmente da soggetto a soggetto; quello che accomuna i bambini con disturbi dello spettro autistico è il dover fronteggiare delle sfide notevoli: infatti sviluppare le abilità sociali, comunicative e comportamentali, rappresenta un compito non facile per il quale necessitano di supporto specializzato.

Sono stati sviluppati e validati diversi interventi per i bambini con disturbi dello spettro autistico, principalmente di matrice cognitivo comportamentale. A questi si vanno ad aggiungere quelli supportati dalle tecnologie, in particolare la terapia assistita da robot per l’autismo (RAAT), che abbraccia ed integra molte discipline tra cui, ma non solo, psicologia dello sviluppo, informatica, robotica, ingegneria.

Aree di sviluppo e RAAT

La terapia per l’autismo assistita da robot ha come obiettivi terapeutici ed educativi il miglioramento ed il potenziamento dello sviluppo sociale ed emotivo, cognitivo, motorio e sensoriale. Ognuna di queste aree richiede un approccio e tipologie di dispositivi specifici, per questo sono stati realizzati modelli di intervento distinti a seconda degli scopi della determinata competenza su cui lavorare.

Quando parliamo di sviluppo sociale facciamo riferimento a tutte quelle situazioni in cui il bambino sperimenta la – e si sperimenta in – relazione ad altri. Durante queste interazioni ha modo anche di esplorare la gamma delle emozioni, esprimendole adeguatamente al contesto ed alla circostanza. I robot possono supportare nel riconoscimento e nel rispecchiamento delle emozioni, per esempio migliorando la capacità di espressione facciale. I robot aiutano ad incentivare la condivisione e la comunicazione, portando alla costruzione di abilità sociali sperimentate prima in situazioni specifiche che possono poi essere generalizzabili; si lavora anche al miglioramento delle interazioni verbali e non verbali come il contatto visivo e i gesti (ad esempio, indicare, etichettare o toccare).

Altri comportamenti che vengono sollecitati nei bambini durante le interazioni con i robot sono l’attenzione congiunta, l’imitazione, le interazioni spontanee, quelle triadiche e diadiche, il turn-taking e i comportamenti di richiesta. Grazie alla messa in scena di giochi interattivi i bambini non vengono appesantiti da setting troppo artificiali e allo stesso tempo si esercitano nelle abilità sociali; utilizzare giochi interattivi stimola anche la motivazione che incentiva ancora di più i piccoli alla partecipazione attiva e al coinvolgimento.
Anche lo sviluppo motorio e sensoriale può beneficiare di tecniche di terapia assistita da robot. Infatti, esercizi mirati in cui il bimbo è affiancato da un robot possono aiutarlo ad interagire più efficacemente con l’ambiente circostante e raffinare la percezione visiva, tattile, spaziale e corporea, per esempio con esercizi di scrittura dedicati a migliorare la motricità fine delle mani e delle dita.

Le diverse tipologie di robot

Le tipologie di robot utilizzate nella RAAT variano molto a seconda degli obiettivi terapeutici e delle tecnologie impiegate. Attualmente possiamo raggrupparle in cinque categorie che Alabdulkareem e colleghi (2022) raggruppano in base alle loro caratteristiche strutturali: robot umanoidi, simili ad animali, a giocattoli, a macchine o indossabili.

Nella prima tipologia, in cui rientrano ad esempio modelli come NAO o Kaspar (Mengoni et al, 2017; Rakhymbayeva et al., 2021), i robot hanno sembianze umane con testa, mani, gambe, occhi, naso, bocca. L’obiettivo è quello di replicare il più possibile le fattezze umane e creare così interazioni il più possibile simili a quelle con umani. Stessa cosa per quelli che somigliano ad animali, molto spesso a cani come nel modello KiliRo (Bharatharaj et al., 2017), in cui vengono coperte parti metalliche con piume o lana per rendere la somiglianza agli animali anche tattile.
I robot simili a giocattoli invece mirano ad avere in maniera più esplicita le sembianze di un peluche, di un pupazzo o di una macchinina, come Probo o Cozmo (Anamaria et al.,2013; Ghiglino et al., 2021). Questa tipologia è disponibile in diverse forme, dimensioni e materiali e risulta piacevole ai bimbi che si prestano volentieri ad interagire con loro. Lo scorso anno è stato invece pubblicato uno studio (Chen et al.,2021) sul primo prototipo di robot indossabile che permette agli operatori di monitorare le interazioni con una prospettiva in prima persona: questo li aiuta a vedere la situazione dalla prospettiva del bambino e a comprendere maggiormente quali sono le sue difficoltà.

Direzioni future nella terapia assistita da robot

Anche se le ricerche al momento disponibili ci offrono spunti positivi oltre che interessanti, ci sono sicuramente aspetti da indagare ulteriormente ed alcune possibili limitazioni. Oltre a dubbi che concernono privacy ed etica (è considerabile un inganno proporre interazioni artificiali a soggetti che potrebbero non comprendere del tutto o in parte che si tratta di artifici?), aspetti pratici come costi e formazione dovranno essere oggetto di riflessione.

I costi di una terapia assistita da robot non sono certo trascurabili anche se, va ricordato, si tratta per lo più di costi iniziali di progettazione e realizzazione da sostenere una sola volta. Vanno considerati costi anche la formazione ad hoc che è richiesta ai terapeuti, formazione che attualmente è lasciata alla decisione del singolo dato che non sono ancora presenti percorsi standardizzati. Questo punto si collega alla necessità che ci siano competenze multidisciplinari e che si parlino professionisti di diversa estrazione: ingegneri, informatici, psicologi. La collaborazione tra professionisti di diverse discipline per progettare e costruire dispositivi sempre più efficienti porterà ad un numero maggiore di contributi in questa area di ricerca con conseguenti ricadute positive sulle terapie.

Rimangono importanti i punti a favore della terapia assistita da robot. Essendo trattamenti informatizzati è possibile tracciare e monitorare i progressi e gli step del trattamento che quindi può essere altamente personalizzato e adattato alle specifiche esigenze del singolo bambino. I disturbi dello spettro autistico si caratterizzano per la grande variabilità che c’è tra un soggetto e l’altro e la possibilità di avere strumenti condivisi ma personalizzabili è sicuramente di grande vantaggio per i clinici.

La RAAT migliora l’efficacia e l’efficienza dei trattamenti cognitivo-comportamentali (Alabdulkareem et al., 2022). La terapia assistita da robot è un campo di ricerca ed applicazione promettente, un’altra delle sfide che tecnologia e clinica affrontano insieme allo scopo di supportare i pazienti.

Sexsomnia: si possono avere rapporti sessuali nel sonno e al risveglio non ricordarsi più nulla?

Col termine sexsomnia si indica una particolare declinazione del disturbo dell’arousal del sonno non-REM, una parasonnia che il DSM-5 colloca all’interno del capitolo relativo ai disturbi del sonno.

 

Che cos’è un parasonnia?

Secondo l’American Psychiatric Association (2014), le parasonnie sono disturbi caratterizzati da esperienze e comportamenti anomali o da eventi fisiologici che si verificano in associazione al sonno e che, di solito, esordiscono durante l’infanzia. L’aspetto interessante è dato dal fatto che parliamo di condizioni che rappresentano un misto di sonno e di veglia assieme, a dimostrazione di come questi stati non si escludano a vicenda, ma possano bensì coesistere.

Il DSM-5 descrive quattro parasonnie principali:

  • il disturbo da incubi;
  • il disturbo comportamentale del sonno REM;
  • la sindrome delle gambe senza riposo;
  • il disturbo dell’arousal del sonno non-REM.

La sexsomnia è un comportamento che rientra in quest’ultima categoria, accanto al sonnambulismo, al pavor nocturnus e all’alimentazione correlata al sonno (APA, 2014). Ciononostante, la letteratura riporta anche dei casi in cui è stato descritto in relazione alle parasonnie del sonno REM (Martynowicz et al., 2018).

Che cos’è la sexsomnia?

Si tratta di una forma ‘specializzata’ di sonnambulismo, in cui durante il sonno non-REM sono messi in atto comportamenti sessuali di vario livello, che possono andare dalle vocalizzazioni (gemiti o dirty talk) al palpeggiamento, fino ad arrivare al rapporto sessuale completo. La particolarità è che, al risveglio, il soggetto presenterà amnesia dell’episodio (APA, 2014, Toscanini et al., 2021).

L’individuo non riferirà neanche particolari sequenze oniriche congruenti col comportamento sessuale, in quanto tali episodi si verificano in una fase non-REM (APA, 2014).

Tra le molteplici manifestazioni della sexsomnia c’è anche la violenza sessuale, insieme a lesioni fisiche che il soggetto può cagionare a se stesso e agli altri (Schenck et al., 2007; Toscanini et al., 2021).

Quali sono i fattori di rischio per la sexsomnia?

Secondo una review condotta nel 2007 da Schenck, Arnulf e Mahowald, i fattori di rischio per le manifestazioni di sexsomnia includono:

  • il contatto fisico con un’altra persona nel letto (64%);
  • lo stress (52%);
  • l’affaticamento (41%);
  • l’uso di alcol (14,6%);
  • l’uso di droghe (4,3%).

Il medesimo studio evidenzia anche delle correlazioni con altre categorie di disturbi del sonno, tra cui (Schenck et al., 2007):

  • altre parasonnie;
  • sindrome di Kleine-Levin;
  • grave insonnia cronica;
  • narcolessia;
  • erezioni dolorose legate al sonno;
  • disturbi dissociativi legati al sonno;
  • disturbi psicotici notturni.

Secondo altri studi (Martynowicz et al. 2018; Soca et al., 2015; Kim et al., 2021), un’altra correlazione importante è quella con l’apnea/ipopnea ostruttiva del sonno, un disturbo del sonno correlato alla respirazione. Si tratta del tipo più comune di apnea notturna, caratterizzata dall’ostruzione completa o parziale delle vie aeree superiori (Martynowicz et al., 2018; APA, 2014). Secondo lo studio della Martynowicz (2018), la co-occorrenza di sexsomnia e apnea ostruttiva del sonno sarebbe la seconda più comunemente segnalata, dopo quella con i disturbi del sonno non-REM. Sono inoltre stati riportati casi di persone che presentavano epilessia ipermotoria correlata al sonno (Martynowicz et al., 2018).

Le cause possono essere evidenziate attraverso accurate valutazioni cliniche, che includono le interviste cliniche, la polisonnografia, i questionari per i disturbi del sonno, l’actigrafia e il monitoraggio elettroencefalografico clinico durante la veglia e il sonno (Guilleminault et al., 2002). Una volta individuate, è possibile trattarle efficacemente (Schenck et al., 2007).

Secondo diversi studi (Guilleminault et al., 2002; Kim et al., 2021; Martynowicz et al., 2018; Schenck et al., 2007; Soca et al., 2015), nella maggior parte dei casi presi in esame, gli episodi di sexsomnia sono stati controllati quando si è iniziato a trattare i disturbi del sonno concomitanti, grazie all’integrazione di psicoterapia e farmacoterapia. Buone risposte sono state ottenute anche grazie a terapie che intervengono sui disturbi correlati alla respirazione, come ad esempio la CPAP (una terapia di ventilazione che sfrutta un presidio esterno) (Kim et al., 2021; Soca et al., 2015; Martynowicz et al., 2018).

In un recente studio di Toscanini et al. (2021), anche la riduzione dei fattori stressogeni della vita quotidiana ha evidenziato ripercussioni positive sugli episodi di comportamento sessuale correlato al sonno.

Quali sono le ripercussioni psicologiche della sexsomnia per chi ne soffre?

Una ricerca di Guilleminault et al. del 2002 ha preso in esame una serie di soggetti con condotta sessuale atipica durante il sonno, che si è rivelata spesso lesiva sia per l’individuo sia per le persone con cui condivideva il letto.

Tali condotte sessuali durante il sonno risultavano associate a sentimenti di colpa, vergogna e depressione. Proprio a causa di questi sentimenti, spesso il comportamento anomalo era tollerato per molto tempo prima di rivolgersi a uno specialista.

Quali ripercussioni per la sexsomnia in ambito forense?

Le conseguenze medico-legali sono frequenti e stanno richiedendo un’attenzione sempre maggiore soprattutto in ambito forense (Kim et al., 2021; Schenck et al., 2007; Toscanini et al., 2021), specie quando il comportamento sessuale coinvolge un minore (Schenck et al., 1998; Schenck et al., 2007).

La letteratura, infatti, riporta casi relativi ad episodi di sexsomnia che hanno coinvolto adulti nei confronti di minorenni (Schenck et al., 1998; Schenck et al., 2007; Toscanini et al., 2021).

A tal proposito, una raccomandazione fornita da Schenck et al. basata sui dati pubblicati nel loro studio del 2007, è proprio quella d’informare adolescenti ed adulti con parasonnie e disturbi dell’arousal del sonno non-REM (ad esempio il sonnambulismo) dei rischi derivanti dal dormire in prossimità di un minorenne, soprattutto quando si è in uno stato di deprivazione del sonno, sotto stress o dopo aver bevuto alcolici. Infatti, essendo questi dei fattori di rischio per la sexsomnia, possono verificarsi dei toccamenti involontari, di cui la persona non ha assolutamente consapevolezza, che potrebbero precipitare in comportamenti sessuali durante il sonno. Questo, di conseguenza, costituirebbe non solo un evento altamente traumatizzante per il minore, ma provocherebbe anche serie ripercussioni legali e psicologiche nei confronti dell’individuo che ha manifestato il comportamento atipico.

 

Dopo la violenza. Lo stupro e la ricostruzione del sé (2021) di Susan J. Brison – Recensione

Con il titolo Dopo la violenza la scrittrice vuole mettere i riflettori soprattutto su tutto quello che viene ‘dopo’ la violenza: frustrazioni, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi, tra il racconto e i silenzi delle risposte non date alle domande delle vittime.

 

I racconti pongono sempre un’introflessione speculare al lettore che viene reso capace di percepire gli scorci di disagio delle vittime: la vaga innocenza incomunicabile, la costrizione, l’immaturità del male, l’intelaiatura muta ricacciata all’interno di sé stessi… è un grido terrificante! Un grido che, grado a grado, indica lo spegnersi delle parole e dei significati del mondo, si assorbe dalla sostanzialità interiore e afonica figurata nella carica del dolore che spazza in un attimo tanti anni passati a costruire una pienezza interiore. È una circostanza che nasce e sedimenta, che inizia da un punto zero con la sua metastasi… proprio nell’attimo della violenza (Claudio Lombardo).

Dopo la violenza è un racconto dove l’osceno e il sublime convivono. L’osceno della violenza e il sublime della narrativa, del denunciare pubblicamente, di reagire a severe avversità quali possono essere il giudizio degli altri o la vergogna di sé stessi. Una tipologia di violenza che, a differenza di altre, lede l’intimità della persona, sia sotto il profilo corporeo che, ancor più – e a volte irrimediabilmente – su quello psicologico.

Con questo titolo la scrittrice vuole mettere i riflettori soprattutto su tutto quello che viene ‘dopo’ la violenza: frustrazioni, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi della cultura tra memoria e oblio, ricordo e rimozione, tra il racconto e i silenzi delle risposte non date alle domande delle vittime.

Le considerazioni, di profondo taglio dialettico e facilmente assimilabili, fronteggiano scogli percettivi superati solo da una narrazione dettagliata che rende fosforescenti quelle immagini mentali che sono annebbiate da stereotipi, pregiudizi o dall’ignoranza dell’esperienza che nelle parole, nel detto, trova un modo per spiegare l’inspiegabile, per confortare ciò che non capisce, per tentare di cancellare la persistente paura di una realtà immorale scritta sul corpo della vittima.

È così che inizia il libro, con un cambio di prospettiva che manda in frantumi alcune credenze popolari sullo stupro. Nondimeno è coinvolta anche la scienza, o meglio chi fa scienza….

Esempio è uno scorcio del libro: ‘Diversamente da altri — ad esempio Sharon Lamb (professore americano nel Dipartimento di Counseling e Psicologia Scolastica presso l’Università del Massachusetts Boston) — che pensano che le diagnosi mediche sulle vittime di violenza sessuale ne sviliscano (o addirittura ne ledano) l’agentività, io ho provato un sollievo enorme quando mi sono resa conto di avere tutti i sintomi del DPTS (‘Disturbo Post-Traumatico da Stress) e ho saputo che esistevano prove che si trattasse di un disturbo ‘neurologico’, curabile con farmaci. C’è speranza, ho pensato, è una questione chimica! Dopo aver battagliato per i primi sei mesi cercando di sentirmi meglio senza supporto medico, è stato liberatorio pensare di avere un danno fisico’.

Continua la scrittrice: ‘I sintomi del DPTS smentivano il dualismo latente che ancora pervade l’atteggiamento predominante della società nei confronti del trauma, e cioè l’idea che le vittime dovrebbero tirarsi su, gettarsi il passato alle spalle e andare avanti con la propria vita. L’ipervigilanza, le esagerate risposte di allarme, l’insonnia e altri sintomi del DPTS non erano psicologici, se con questo si intende che fossero sotto il mio controllo cosciente, più di quanto non lo fossero il mio battito cardiaco e la mia pressione sanguigna’.

L’autrice mette in risalto una questione da me affrontata con altri articoli, ovvero la distinzione tra quello che è corporeo e quello che non lo è. Una distinzione molto spesso non chiara anche in ambito specialistico.

Altresì è importante comprendere come i ‘limiti’ (sicurezze, barriere, difese) vengono compromessi nel momento in cui la vittima è incapace di placare l’ira dell’aggressore con tutte le strategie messe in atto, fino ad arrivare all’estrema passività dell’implorazione, che spesso sortisce l’effetto di amplificare l’ira dell’aggressore. In tutto questo, come scrive l’autrice, «I confini del mio corpo sono i confini del mio Io», nel momento in cui questi confini vengono cancellati da un trauma ha inizio la disintegrazione del sé: ci si sente perennemente in pericolo, si perde di autostima e agentività. La persona è ridotta a una cosa. (Su questo punto viene citata Améry che paragona la tortura allo stupro, un accostamento appropriato, non solo perché entrambi considerano la vittima come oggetto e la traumatizzano, ma anche perché il dolore che si infligge la riduce a pura carne, a qualcosa di solamente fisico).

Ma la questione più indegna, quasi surreale, con cui deve fare i conti la vittima (e le persone che ha intorno) è la nuova identità, il cambiamento che il trauma trasmette: ‘Il trauma mi ha cambiata in modo irreversibile, e se troppo spesso insisto perché i miei amici e la mia famiglia lo riconoscano, è perché temo che non sappiano chi sono’.

In definitiva questo libro racconta una solitudine diversa da quella collettivamente percepita, è la solitudine dello stupro e del suo processo di guarigione in cui l’atto della narrazione e testimonianza integra il cambiamento, ma anche l’esperienza consentendo così di vivere un futuro, seppur diverso, con maggiore armonia.

Prima il dovere o il piacere? Il modello metacognitivo della procrastinazione

La procrastinazione si definisce come l’atto di rimandare lo svolgimento di un’attività perseguita per raggiungere un obiettivo (Fernie et al., 2016).

 

In un campione costituito da una popolazione adulta di sei diverse nazioni (Australia, Perù, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti e Venezuela), è emersa la prevalenza del 13,5% per una procrastinazione ‘stimolante’ (guidata dal desiderio di contrastare la noia) mentre del 14,3% per una procrastinazione ‘evitante’ (motivata dall’avversione al compito) (Ferrari et al., 2016). La prevalenza della procrastinazione cronica negli studenti è stata riportata come ancora più alta: Day et al. (2014) hanno stimato tassi del 32%. La problematicità di questo comportamento è risultata in una recente meta-analisi che ha riportato una relazione negativa tra procrastinazione e performance accademica (Kim & Seo, 2015). La procrastinazione non è solo dannosa per il rendimento accademico, ma anche per il benessere mentale, dacché è significativamente associata all’ansia e alla depressione. Tuttavia, potrebbe non essere sempre problematica; può riflettere anzi una raccolta adattiva di risorse e portare a risultati migliori. A tal fine, la procrastinazione è stata variamente delineata in sottotipi: funzionale e disfunzionale (Ferrari et al., 1995), attiva e passiva (Chu & Choi, 2005), intenzionale e non intenzionale (Fernie et al., 2016). Nonostante queste diverse terminologie condividano molte caratteristiche sovrapposte, vi sono importanti e sfumate differenze. Per esempio, la procrastinazione intenzionale si riferisce a un comportamento deliberato e consapevole (cioè attivo), ma non necessariamente vantaggioso (cioè funzionale), mentre la quella non intenzionale si riferisce a un comportamento non deliberato che è tipicamente sia disfunzionale che passivo.

Le metacognizioni sulla procrastinazione

Per poco più di un decennio, diversi studi hanno indagato la procrastinazione da una prospettiva metacognitiva. Le metacognizioni sono definite come credenze che gli individui detengono (sia implicitamente che esplicitamente) sulle proprie strategie attenzionali, comportamenti, processi di pensiero ripetitivi (ad esempio, ruminazione e preoccupazione) ed emozioni. Le convinzioni metacognitive sono state ampiamente delineate in sottotipi positivi e negativi. Per esempio, una credenza metacognitiva positiva sulla procrastinazione è ‘La procrastinazione permette alla creatività di verificarsi in modo più naturale’, mentre una credenza metacognitiva negativa è ‘La mia procrastinazione è incontrollabile’ (Fernie et al., 2009). Le credenze metacognitive positive sono associate positivamente con la procrastinazione intenzionale e meno con quella non intenzionale, mentre le credenze metacognitive negative sono più fortemente associate positivamente alla procrastinazione non intenzionale che a quella intenzionale (Fernie et al., 2017, 2016).

La procrastinazione tra gli studenti

Lo studio di Fernie et al. (2018) ha indagato le relazioni tra credenze metacognitive positive e negative sulla procrastinazione e l’umore depresso, tentando di spiegare, inoltre, i meccanismi alla base della relazione tra procrastinazione e performance accademica. Sono stati coinvolti 246 studenti, universitari o laureati, che nell’ultimo anno avessero avuto almeno una scadenza per un progetto universitario o lavorativo. L’età media dei partecipanti era di 23 anni.

Per raccogliere i risultati accademici è stato chiesto ai partecipanti di dichiarare 1 o 5 voti assegnati negli ultimi 12 mesi ai loro progetti, specificando il massimo punteggio ottenibile per ciascuno (es 100/100). Successivamente ogni voto ottenuto è stato diviso per il massimo ottenibile e poi sommato per creare la variabile ‘performance accademica’.

Per raccogliere dati sulla procrastinazione intenzionale sono stati proposti quattro items legati al dominio ‘Intentional Decision to Procrastinate’ (IDP) della Active Procrastination Scale (APS; Choi & Moran, 2009). Un esempio di item di questa scala è ‘Per utilizzare in modo efficiente il mio tempo, scelgo deliberatamente di posticipare alcuni compiti’. Per la procrastinazione involontaria è stata utilizzata la Unintentional Procrastination Scale (UPS: Fernie et al., 2016), una scala composta da sei items quali ‘Vorrei seriamente finire i compiti in tempo, ma raramente ci riesco’. Per valutare le metacognizioni rispetto alla procrastinazione è stata utilizzata la Metacognitions about Procrastination Scale (MaPS) di Fernie et al., 2008. Questa scala è composta da due domini, metacredenze positive sulla procrastinazione (PMP) e metacredenze negative su di essa (NMP), con otto items per ciascuno. Un esempio di item per valutare la PMP è ‘La procrastinazione mi aiuta a non iniziare qualcosa quando non mi sento pronto’, mentre un esempio di item per valutare la NMP è ‘procrastinare può essere dannoso’. Per raccogliere dati rispetto ai sintomi depressivi, è stato utilizzato il Patient Health Questionnaire 8 (PHQ-8), una forma ridotta del Patient Health Questionnaire 9 (Kroenke et al., 2001), omettendo l’item che valuta l’ideazione suicidaria.

Metacredenze positive e negative sulla procrastinazione

I risultati dello studio offrono prove a favore del ruolo strategico che le metacredenze positive sulla procrastinazione (PMP) rivestono nella procrastinazione intenzionale (IDP) rispetto a quella involontaria (UPS). I dati emersi suggeriscono che la procrastinazione involontaria (UPS) risulta essere un indicatore psicopatologico più forte rispetto a quella intenzionale (IDP) (Fernie et al., 2016). Sebbene sia le metacredenze positive sulla procrastinazione (PMP) che quelle negative (NMP) abbiano effetti negativi significativi sulla performance accademica, l’analisi del percorso accademico suggerisce che sono le metacredenze negative (NMP) ad avere un’influenza maggiore sulla performance accademica.

Per quanto concerne l’impatto delle metacredenze positive e negative sull’umore depresso, le prime (PMP) sembrano avere un’influenza minore rispetto alle seconde (NMP). Studi precedenti hanno dimostrato che le credenze metacognitive sulla preoccupazione possono essere associate all’ansia da prestazione (O’Carroll e Fisher, 2013; Spada et al., 2006), che a sua volta viene associata ad una scarsa performance accademica (Cassady & Johnson, 2002). Tuttavia il focus del presente studio è sul ruolo che hanno le metacredenze rispetto alla procrastinazione, piuttosto che sulla preoccupazione.

Nonostante nello studio siano presenti dei limiti legati alla desiderabilità sociale, ai bias di autovalutazione o agli effetti del contesto che possono aver contribuito nel commettere errori nelle misure di autovalutazione, vengono fornite prove a sufficienza per affermare che il modello metacognitivo della procrastinazione spiega una parte significativa della varianza nelle performance accademiche degli attuali studenti universitari. Ciò evidenzia il potenziale beneficio che si può trarre dallo sviluppo di interventi psicologici per affrontare la procrastinazione utilizzando tecniche mirate alle credenze metacognitive sulla procrastinazione.

La musica: quel linguaggio simbolico che tocca le emozioni

Ascoltare musica attiva la produzione di endorfina, una sostanza chimica che stimola le aree cerebrali che producono piacere all’organismo, funziona come inibitore del dolore fisico e aiuta a ridurre lo stress.

 

La musica nasce insieme all’uomo che da sempre ha manifestato il bisogno di esprimersi attraverso di essa, inizialmente quando la comunicazione verbale non era ancora sviluppata e, in seguito, affiancando queste due forme di linguaggio, quasi a voler integrare il linguaggio verbale con una forma di comunicazione in grado di raggiungere in modo più rapido e profondo la sfera emotiva.

Il fatto che i suoni siano più difficili da razionalizzare in quanto sono privi di caratteristiche logico-deduttive, li rende una via di accesso privilegiata alla nostra sfera emotiva.

Un linguaggio simbolico

A differenza della comunicazione basata sul linguaggio, con la musica la condivisione di un codice perde la sua centralità, all’ascoltatore non sono richieste competenze musicali specifiche, chiunque è in grado di ascoltare musica e di trarne qualcosa, ma non va comunque dimenticato che il contesto culturale e sociale in cui si vive contribuisce a far assimilare una serie di informazioni che anche a nostra insaputa danno vita a quella specifica sensibilità musicale che ciascuno di noi possiede.

Anche un linguaggio simbolico come la musica segue delle regole: si basa su convenzioni, facoltà e libertà espressive, funzioni sociali, che si adattano e si modificano in funzione dell’epoca e del luogo. Così come anche il contesto in cui si ascolta musica risulta estremamente importante a determinare il modo in cui il messaggi stesso verrà percepito.

Il modello di comunicazione emotiva in musica

Il messaggio musicale parte da un compositore che ha il difficile compito di tradurre un’emozione in qualcosa di senso compiuto in modo che altri (gli ascoltatori) possano raccoglierla e sperimentarla in prima persona. Non dimentichiamo che egli è a sua volta ascoltatore di moltissimi altri messaggi musicali provenienti da diverse fonti che possono influenzare il suo lavoro, dando un carattere circolare a questa forma di comunicazione.

Partendo dalla teoria elaborata del linguista russo Roman Jakobson, possiamo individuare questi passaggi:

  • il messaggio emotivo è ciò che si vuole trasmettere, e risponde a un insieme di regole che devono essere valide e comprensibili anche per persone che non padroneggiano il codice specifico della musica, detto codice musicale;
  • per trasmettere questo messaggio si utilizza un canale, che può consistere per esempio in uno strumento, nella voce, o anche in strumenti quali una radio o un lettore CD;
  • in questo tipo di comunicazione il contesto ha un ruolo fondamentale, inteso come ambiente e contesto socio-relazionale, che può a sua volta condizionare un altro elemento della comunicazione: lo status emotivo;
  • lo status emotivo è rappresentato dalla situazione emozionale in cui si svolge la comunicazione; da tenere presente che per trasmettere un’emozione è necessario che colui che riceve il messaggio sia nella disposizione d’animo giusta per essere aperto e disponibile a entrare in sintonia con il messaggio, fino a modificare il suo stato emozionale;
  • a disturbare la corretta ricezione del messaggio subentra il rumore, inteso come elemento di disturbo in senso generale, non solo sonoro ma anche emotivo, che distrae o distorce il significato del messaggio;
  • infine, a rendere fattibile il passaggio del messaggio emozionale dal compositore all’ascoltatore è l’esecutore.

Compositore, esecutore e ascoltatore sono legati fra loro da un meccanismo di feedback che influenza vicendevolmente il comportamento degli elementi coinvolti.

L’importanza del fattore umano

Per valutare l’importanza del fattore umano nell’esecuzione di un brano, alcuni studi hanno indagato le risposte dei neuroni, misurate attraverso una risonanza magnetica in grado di fornire un riscontro di come il flusso di sangue derivante dall’attività neurale del cervello cambiasse con l’ascolto di musica dal vivo particolarmente coinvolgente, per poi compararlo con la reazione all’ascolto dello stesso brano suonato da un computer.

I risultati hanno confermato una maggior attività neurale durante l’ascolto dal vivo, in modo ancora più evidente nel caso si trattasse di ascoltatori che fossero anche esperti musicisti, e hanno messo in evidenza un aspetto forse ancor più interessante. Come era stato ipotizzato, attraverso un sistema di neuroni specchio, gli ascoltatori erano in grado di percepire le emozioni dell’esecutore dando luogo ad una forma di empatia tra le parti, grazie alla quale si rendeva possibile capire ed imitare l’azione e le intenzioni di chi si aveva di fronte, non attraverso il ragionamento concettuale, ma attraverso delle semplici sensazioni.

Musica registrata e musica dal vivo

La maggior parte della musica che ascoltiamo oggi è musica registrata, ci arriva da cd, radio e da molte altre fonti e accompagna il nostro quotidiano. Tuttavia molti tra noi saranno d’accordo nel dire che la musica che ci emoziona e ci coinvolge di più è quella che ascoltiamo dal vivo.

Provate ad immaginare una canzone che vi piace e immaginate di ascoltarla attraverso gli auricolari, seduti sul divano o camminando per la strada. Adesso pensate alla stessa canzone e immaginate di ascoltarla durante un concerto: già il solo pensiero vi avrà probabilmente suscitato emozioni molto diverse.

Come è cambiata la fruizione della musica

La scelta tra musica dal vivo e musica registrata è un’opportunità relativamente recente che coincide con la nascita dei primi strumenti di riproduzione del secolo scorso: prima di allora la musica si ascoltava esclusivamente dal vivo il che, se da un lato offriva un coinvolgimento emotivo maggiore, dall’altro comportava naturalmente anche un numero minore di occasioni d’ascolto. Un bene o un male per la musica?

Sicuramente la maggiore diffusione ha consentito il coinvolgimento di più persone, pensiamo a chi magari non aveva i mezzi economici per poter seguire spesso musica dal vivo, e ha permesso la diffusione della conoscenza di un patrimonio culturale.

Altrettanto sicuramente ha comportato un mutamento radicale nel modo di fruire la musica. Con l’avvento della musica registrata si incontrano più facilmente singoli pezzi piuttosto che il repertorio di un artista o un genere specifico presentato in uno stesso concerto, con il risultato che il livello di attenzione cala. Ci si distrae più facilmente durante l’ascolto, si accende e si spegne mentre una canzone è in corso, si usa la musica come sottofondo ad altre attività.

Musica registrata e musica dal vivo: un diverso modo di ascolto

Ascoltare musica attiva la produzione di endorfina, una sostanza chimica che stimola le aree cerebrali che producono piacere all’organismo, funziona come inibitore del dolore fisico e aiuta a ridurre lo stress. Ma quando parliamo di emozioni, la differenza tra musica registrata e musica dal vivo diventa netta.

L’ascolto della musica registrata è un tipo di ascolto molto diverso da quello che possiamo fare durante un concerto e anche il contesto è molto differente. Se possiamo ascoltare musica registrata in qualsiasi momento, indipendentemente dal fatto che siamo contemporaneamente impegnati in altre attività, diverso è quando decidiamo di uscire, recarci in un determinato luogo, prendere posto con la precisa disposizione d’animo rivolta all’ascolto, al coinvolgimento e alla partecipazione più o meno attiva.

La presenza dal vivo ci permette di cogliere meglio anche le varie sfumature di quello che ascoltiamo, la musica registrata non ha il fiato, le mani e la forza di chi suona. Ci permette di creare uno scambio emozionale più forte con l’esecutore e di sentirci veramente immersi nella musica più di quanto non potremmo fare nemmeno indossando le migliori cuffie presenti sul mercato. Senza contare che ascoltare un’esecuzione dal vivo non significa mai fruire dell’esatta riproduzione di un’altra esecuzione, sia pure degli stessi brani, come invece avviene per la musica registrata.

Altro elemento da considerare è la funzione socializzante della musica, vivere l’esperienza di un concerto dal vivo consente una condivisione e uno scambio emozionale anche con il pubblico presente, che è testimone insieme a noi di quell’esecuzione unica.

Per contro, la musica registrata può arrivare ad un livello di perfezione più alto, in una sala di registrazione si possono correggere imperfezioni, l’esecutore non risente delle distrazioni che possono arrivare dal pubblico (ma nemmeno della carica che innegabilmente il pubblico sa regalargli), può essere completamente ed esclusivamente concentrato sull’esecuzione e riservarle i momenti in cui le sue condizioni psicofisiche sono più adatte.

 

Covid-19 e gravidanza: come lo stress prenatale legato alla pandemia influenza lo sviluppo comportamentale dei neonati – Intervista al Dott. Livio Provenzi

Gli esperti del CIPee (Cliniche Italiane di Psicoterapia – Età Evolutiva) intervistano per State of Mind il Dott. Livio Provenzi per approfondire gli aspetti relativi allo stress da pandemia durante la gravidanza.

 

Per comprendere gli effetti della pandemia sulle madri in gravidanza e sui neonati, abbiamo intervistato il Dott. Livio Provenzi, coordinatore del progetto ConfiNATI (MOM-COPE), in modo da capire come i fattori dello stress legati al Covid-19 possano avere un’influenza sul temperamento dei neonati.

Diversi studi hanno dimostrato come lo stress materno durante la gravidanza possa influenzare lo sviluppo comportamentale, affettivo e socio-cognitivo del bambino (Buitelaar et al., 2003; Graignic-Philippe et al., 2014; Hartman et al., 2018). La pandemia da Covid-19 ha rappresentato un evento traumatico collettivo che potrebbe avere effetti duraturi in individui fragili o in periodi sensibili, come la gravidanza (Provenzi et al., 2021b). Perciò, il progetto ConfiNATI (Measuring the Outcomes of Maternal COVID—related Prenatal Exposure, MOM-COPE) si è posto l’obiettivo di comprendere in che modo lo stress prenatale dovuto alla pandemia possa influenzare lo sviluppo temperamentale del neonato. È stato osservato che lo stress prenatale vissuto dalle madri può essere trasmesso al neonato attraverso meccanismi epigenetici, come la metilazione del DNA (Provenzi et al., 2021b). Infatti, i fattori ambientali a cui siamo esposti hanno un’influenza sulla capacità del nostro DNA di attivare o modulare la disponibilità di specifiche proteine o neurotrasmettitori (Provenzi et al., 2021b). I risultati ottenuti dal progetto ConfiNATI suggeriscono che i figli, le cui madri hanno sperimentato un maggiore stress prenatale legato al Covid-19, presentano livelli più elevati di metilazione in corrispondenza di uno specifico gene (SLC6A4) deputato alla regolazione della serotonina e disregolazione emotiva e attentiva a tre mesi (Provenzi et al., 2021b).

Per avere maggiori approfondimenti, abbiamo intervistato il coordinatore del progetto ConfiNATI, il Dott. Livio Provenzi.

State of Mind (SoM): Quali sono state le principali difficoltà riscontrate nel condurre uno studio sperimentale in piena pandemia da Covid-19?

Dottor Livio Provenzi: Condurre un progetto di ricerca in una condizione emergenziale senza precedenti ha certamente presentato numerose sfide, alcune del tutto inedite. Per prima cosa, bisogna considerare che il progetto MOM-COPE è partito durante la prima fase di lockdown, tra marzo e maggio 2020, un periodo in cui era possibile comunicare tra ricercatori solo online e viaggiare non era possibile. Oggi sembra scontato, perché come esseri umani ci adattiamo abbastanza velocemente ad utilizzare nuove strumentazioni per comunicare via web, ma solo ad inizio 2020 l’uso di piattaforme di videoconferenza era limitato ai contatti con colleghi stranieri. Per di più, il progetto confiNATI è uno studio multi-centrico; coinvolge infatti dieci neonatologie del Nord Italia – da Pavia a Monza, dal Buzzi (Milano) a Brescia, da Lodi a Piacenza. Molte delle persone coinvolte non si erano mai incontrate prima. Ancora oggi, in qualità di coordinatore del progetto, ho potuto incontrare di persona solo pochi collaboratori in occasione di convegni o conferenze. Ancora: il progetto confiNATI prevede la raccolta di materiale biologico – saliva – alla nascita da mamma e neonato. Questo materiale ci è utile per poter misurare lo stato di metilazione di specifici geni coinvolti nella risposta allo stress e che – durante un periodo di elevata plasticità come la gravidanza – possono incorrere in modificazioni del loro funzionamento attraverso processi di tipo epigenetico. Anche questo aspetto è stato una sfida, perché abbiamo dovuto scambiare competenze e indicazioni pratiche solo online e senza la possibilità di uno scambio diretto e più immediato. Nonostante questo, il coinvolgimento e l’entusiasmo di tutte le persone che hanno preso parte al progetto, dai genitori ai colleghi delle neonatologie, dagli studenti ai servizi di coordinamento della ricerca offerti dall’IRCCS Fondazione Mondino di Pavia, hanno contribuito al successo del progetto. Basti pensare che ogni neonatologia ha reclutato circa 50 diadi madre-bambino; quando abbiamo iniziato potevamo solo sperare in un risultato del genere. Inoltre, dover affrontare queste sfide ci ha obbligato ad esplicitare ancora di più le scelte, le procedure, le azioni che di solito possono essere date per scontate in un progetto di ricerca: dover comunicare solo a distanza ci ha portato a produrre molti documenti e vademecum che hanno reso le procedure ancora più rigorose e riproducibili. Insomma, abbiamo trasformato una sfida in un’opportunità di crescita.

SoM: Gli aspetti che destavano maggiori preoccupazioni nel campione di madri da voi selezionato erano circoscritti al momento presente (es. dover partorire da sole senza il supporto del partner in ospedale / ammalarsi di Covid-19 durante la gravidanza), oppure sono emerse anche preoccupazioni più generalizzate rivolte all’incertezza del futuro in un mondo post-pandemico?

L. Provenzi: Il progetto ha evidenziato elementi di rischio e preoccupazione che riguardano sia il breve che il lungo termine. Per prima cosa è importante sottolineare che nel nostro campione di più di 350 diadi madre-bambino non erano presenti situazioni di positività al virus. In questo senso, i nostri dati ci aiutano a capire come uno stress di tipo psicosociale – non strettamente il contagio da Covid-19 – possa esercitare effetti sul benessere materno e sullo sviluppo del bambino. Da questo punto di vista, le preoccupazioni che le donne riportavano durante la gravidanza riguardavano il rischio di contagio per se stesse, ma anche per i loro compagni e per il feto; così come le difficoltà nel gestire vita privata e lavorativa durante la fase di lockdown, la paura di perdere il lavoro, le preoccupazioni per vivere in zone ad alta densità di diffusione del virus, vivere l’ospedalizzazione o la morte di un amico o di un familiare. Avendo avviato il progetto in un periodo di grande emergenza, ad inizio pandemia, il nostro focus è stato su fattori di stress immediati e circoscritti – non abbiamo messo a fuoco eventuali preoccupazioni per il futuro; all’epoca, l’idea di futuro si era accartocciata molto. Tuttavia, lo stress vissuto in gravidanza era associato a più alti livelli di depressione e ansia nelle madri dopo il parto e a maggiori difficoltà nel vivere il ruolo genitoriale (Grumi et al., 2021). Questi effetti immediati sulla salute psicologica materna e sulla qualità dell’ambiente di cura precoce erano inoltre riflessi nel profilo comportamentale del bambino a tre mesi. I bambini di madri che avevano vissuto in modo più stressante la gravidanza durante il periodo emergenziale della pandemia mostravano difficoltà nella regolazione delle emozioni e dell’attenzione a tre mesi (Provenzi et al., 2021a) . È importante sottolineare che si tratta di alterazioni in un ambito di normalità: in altre parole, quello che abbiamo osservato è una maggiore presenza di differenze individuali, ma non di tratti francamente patologici. Certamente, è importante sviluppare consapevolezza circa la presenza di una maggiore ampiezza nella variabilità individuale delle competenze di regolazione dei bambini nati durante la pandemia per aiutare genitori e insegnanti a riconoscere i loro bisogni e a prendersi cura di loro al meglio. Infine, il progetto ci sta aiutando a comprendere come i processi epigenetici che regolano il funzionamento del DNA possano essere un meccanismo – un ponte psicobiologico – che lega stress materno e sviluppo successivo del bambino. Infatti, i bambini di madri che presentavano maggiore stress prenatale mostravano un’elevazione nello stato di metilazione del gene che produce il trasportatore di serotonina – un neurotrasmettitore chiave per la regolazione comportamentale, attentiva ed emozionale (Provenzi et al., 2021b). Più concretamente, questo gene era meno attivo nei bambini di mamme che riportavano maggiore stress durante la gravidanza, il che contribuiva ad aumentare le differenze nel modo in cui questi bambini regolavano le emozioni e l’attenzione durante i primi mesi di vita. In altre parole, lo stress prenatale legato alla pandemia può aver lasciato delle tracce nel DNA dei bambini nati durante l’emergenza sanitaria. Oggi non sappiamo se queste tracce siano un bene o un male. Certamente, ci dicono che il nostro corpo non è indifferente alla qualità delle nostre esperienze, anche a quelle più precoci. Il nostro corpo non smette mai di imparare e possiamo trovare le tracce di questo apprendimento nell’epigenetica. La domanda da farci è: cosa se ne faranno i bambini (e i loro genitori) di questi apprendimenti biologici? Come possiamo aiutare i piccoli, le loro famiglie e gli insegnanti a costruire percorsi di accudimento, crescita e cura che conducano da questi apprendimenti a traiettorie evolutive di benessere? Questa è la sfida più importante di cui dovremmo occuparci, anche sulla scorta di ciò che abbiamo imparato durante la pandemia.

SoM: Sono ipotizzabili differenze rispetto allo stress percepito dalle madri durante la prima ondata della pandemia mediate da fattori di natura socioeconomica (es. avere perso o meno il posto di lavoro, vivere in una casa con giardino rispetto ad un appartamento in città, etc)?

L. Provenzi: Nel nostro progetto abbiamo reclutato le diadi madre-bambino tra marzo 2020 e febbraio 2021. I dati a nostra disposizione possono quindi aiutarci a fare luce sull’impatto dello stress pandemia-relato in diverse fasi dell’emergenza sanitaria o in diversi momenti della gravidanza. Al momento stiamo ancora analizzando i dati e la risposta a questa domanda può essere solo parziale. Quello che è interessante sottolineare è che all’interno di questa storia di emergenza e paura, emergono anche dati confortanti. Infatti, nel sottogruppo di donne che hanno vissuto il secondo e il terzo trimestre di gravidanza durante la pandemia – cioè le donne reclutate tra la primavera e l’estate del 2021 – il rischio di sviluppare sintomatologia psicologica e di vivere con difficoltà la transizione alla genitorialità era significativamente ridotto nel caso in cui le donne avessero ricevuto visite domiciliari dopo il parto. Infatti, in questo sottogruppo di 177 donne – studio al momento in revisione e non pubblicato – anche una sola visita domiciliare da parte di professionisti della perinatalità era in grado di ridurre il senso di preoccupazione e paura e proteggere le donne da elevazioni nella sintomatologia affettiva. Questi dati preliminari ci confortano e ci ricordano che siamo nati per essere in connessione; anche in un periodo di emergenza senza precedenti, è proprio la nostra capacità di investire nel contatto umano e nella riparazione degli strappi che può consentirci di essere più resilienti e capaci di crescere dentro le difficoltà.

SoM: È possibile ipotizzare percorsi, ad esempio di parent training, rivolti ai caregiver dei soggetti che al follow-up di tre mesi si presentano come più inclini a significative alterazioni temperamentali, volti a prevenire nello specifico l’acuirsi di stati psicopatologici nel bambino più avanti nello sviluppo?

L. Provenzi: Questo è un punto cruciale. Come ho detto sopra, i risultati di questo progetto ci stanno dicendo che lo stress prenatale può risultare in una maggiore differenza individuale nel modo in cui i bambini regolano comportamenti, emozioni e attenzione. Comprendere come la pandemia potrebbe aver lasciato tracce o cicatrici nel benessere genitoriale e nello sviluppo infantile è un obiettivo prioritario, perché ci aiuterà a capire come avviare interventi di prevenzione e cura efficaci e tempestivi. Queste differenze non sono patologiche; ma possono condurre a esiti maladattivi in età successive se chi si prende cura dei piccoli non ne comprende i segnali e i bisogni. Per questo la parola chiave è prevenzione. La speranza mia e del gruppo di ricerca dietro al progetto ConfiNATI è proprio quella che questi dati possano aiutarci a investire maggiormente in interventi di prevenzione e cura a favore della salute materno-infantile (e paterno-infantile) in modo più sistematico e organico. Se dovessi dire in poche parole cosa questo studio ci insegna è che siamo fragili. E la fragilità chiede ascolto e cura. Pertanto, sono convinto che anche con il supporto di questi dati, dovremmo investire energie e risorse lungo tre importanti direzioni. Per prima cosa, sviluppare una cultura della genitorialità come luogo di apprendimento e crescita importantissimo, come primo fattore di prevenzione, tra i professionisti che a diverso titolo si occupano di primo sviluppo, dai sanitari agli educatori e agli insegnanti. La seconda direzione riguarda la messa a punto di percorsi di supporto alla genitorialità e al primo sviluppo fondati sulle evidenze e che non lascino sole le famiglie dalla gravidanza almeno fino ai primi tre anni. Infine, occorre che a livello di politiche socio-sanitarie venga garantito un accesso equo a queste risorse, facendole diventare sempre più parte integrante dei servizi minimi offerti a mamme, papà e bambini.

SoM: In questo caso, il campione sperimentale è composto da soggetti provenienti dal Nord Italia, saranno disponibili dati che riguardino anche Sud e Centro Italia volti ad offrire una panoramica più generale dell’andamento del fenomeno nel nostro Paese?

L. Provenzi: Al momento, il progetto non prevede ulteriori raccolte dati. Tuttavia, il progetto ConfiNATI fa ora parte della rete internazionale COVGEN: un consorzio di clinici e ricercatori da ogni parte del mondo – dall’Italia agli Stati Uniti, dall’Australia all’Etiopia, dalla Giordania al Brasile – che vogliono comprendere come la pandemia ha influenzato il benessere di bambini e genitori e i rischi a medio e lungo termine di questa situazione emergenziale. Inoltre, stiamo conducendo uno studio in collaborazione con AUSL Toscana Nord Ovest (progetto SPACE-NET) in cui vogliamo comprendere come la pandemia può aver influenzato in modo particolare genitori di bambini nati pretermine. Per queste mamme e papà, il lockdown ha implicato una separazione drammatica dal proprio piccolo, mentre questo era ricoverato per settimane o mesi in terapia intensiva neonatale. Anche con questo progetto vogliamo contribuire a sviluppare una cultura della genitorialità che consideri madri e padri come parte integrante di ogni intervento di prevenzione e cura rivolto a bambini a rischio evolutivo.

 


Intervista realizzata dagli esperti di CIPee – Cliniche Italiane di Psicoterapia Età Evolutiva

 

 

Che cosa è la psiche – Filosofia e neuroscienze (2021) di Franco Fabbro – Recensione

La psiche, intesa come ordine simbolico, presiede a numerosissime funzioni – spiega Franco Fabbro in Che cosa è la psiche? – come l’autocoscienza, il sé, il calcolo, la lettura, la scrittura e il linguaggio.

 

La domanda sulla natura della psiche è antica quanto la stessa umanità. Il termine ‘psiche’ nasce in Grecia, con Omero, che ha indirizzato per sempre il modo in cui l’uomo occidentale ha pensato se stesso. Aristotele, considerato il fondatore della psicologia (Watson, 1963), ha dedicato un intero libro, Dell’anima, allo studio della psiche. Per Aristotele il corpo e la psiche rappresentano un’unica entità, come la cera e l’impronta. La riflessione moderna sulla psiche è iniziata con Cartesio. Riprendendo alcune riflessioni di sant’Agostino, Cartesio edificò le fondamenta della sua filosofia sull’io pensante.

L’analisi delle diverse concezioni della psiche, elaborate da filosofi, psicologi e neuroscienziati, ci ha permesso di ritornare alle origini del pensiero occidentale. Sembra che la metafora migliore per rappresentare la psiche sia ancora quella di un’immagine della consistenza del fumo o delle ombre (con riferimento al significato di psychè nell’Iliade e nell’Odissea).

Secondo il filosofo tedesco Thomas Metzinger, la realtà virtuale rappresenta una delle metafore più promettenti per comprendere la psiche umana. L’attività del cervello viene paragonata a quella di un simulatore totale di volo, cioè a un sistema automodellante in grado di generare, oltre a un modello di aeroplano in volo, anche un’immagine virtuale del pilota (Metzinger, 2009).

Franco Fabbro intitola quest’opera con la domanda Che cosa è la psiche? invitando il lettore a cominciare il suo percorso per approdare a delle risposte possibili. Porre domande e rilanciare questioni è l’esercizio principale della filosofia.

L’autore ritiene che la psiche costituisca il terzo grande ordine simbolico, che ha caratterizzato l’evoluzione umana, dopo il codice genetico e il linguaggio. È presente in tutti gli animali, in differenti gradi di complessità e si trasmette per via ereditaria attraverso il codice genetico da cui dipende, ma non ne è determinato. La psiche intesa come ordine simbolico presiede a numerosissime funzioni, come l’autocoscienza, il sé, il calcolo, la lettura, la scrittura e il linguaggio.

In termini filosofici, intendere la psiche come un codice simbolico significa considerarla il trascendentale di ogni sua attività. Come le catene degli amminoacidi che costituiscono il DNA determinano tutte le sue possibili configurazioni.

L’autore si rivolge ai lettori desiderosi di conoscere e di riflettere, evidenziando la necessità di essere cittadini consapevoli e informati, capaci di intervenire nei processi decisionali vitali che riguardano e riguarderanno l’organizzazione della vita, del lavoro e delle società future, in particolare su argomenti inerenti la robotica, la bioinformatica, le nanotecnologie e in tutti gli ambiti che impattano sulla qualità di vita dell’intera comunità.

La lettura richiede un certo impegno, ma il tema trattato e la molteplicità degli approcci considerati offrono spunti di riflessioni importanti per il lettore, anche il più esigente.

Alcuni argomenti trattati riguardano:

  • la natura della materia dall’iniziale distinzione proposta da Cartesio fino al Modello standard delle particelle elementari, ossia un modello matematico della realtà. Attualmente non sappiamo di che cosa sia fatta la materia e come George Musser ha sostenuto ‘più i fisici si immergono a fondo nella realtà, più la realtà sembra evaporare’ (Musser,2019).
  • La filosofia della scienza a partire dal concetto di conoscenza di Immanuel Kant fino ad arrivare alla prima metà del secolo scorso, alla proposta di utilizzare il criterio della confutabilità di Karl Popper e in ambito psicologico, ad un nuovo approccio di tipo probabilistico basato sul teorema di Bayes.
  • Neurofisiologia e robotica. Lo studio dell’attività elettrica di gruppi di neuroni ha permesso di evidenziare i limiti di alcune idee riguardanti il funzionamento del cervello. L’attività mentale dipende dall’incrocio delle informazioni che provengono dallo stato dinamico interno, che genera un flusso di informazioni (top-down), con le informazioni provenienti dal mondo esterno (bottom-up). Questo tipo di studi influenza in particolare le ricerche sui dispositivi bionici e sulle interfacce cervello-macchina-cervello, sollevando problemi di natura ingegneristica, etica e filosofica. Si sottolinea la necessità di distinguere la ‘ricerca’, che deve essere il più possibile libera, dalle ‘applicazioni’ che devono essere controllate dalle comunità di cittadini, il più possibile informati e consapevoli.
  • Neuroscienze e teorie della mente. La teoria neurobiologica della mente, più completa, è quella proposta da Gerald Edelman (premio Nobel per la medicina nel 1972). Antonio Damasio ha proposto una teoria neurobiologica della mente e della coscienza che si ispira a una filosofia riduzionista, nella quale le configurazioni neurali (mappe neurali) corrispondono alle immagini (mappe mentali). Mentre la teoria del ‘cervello predittivo’ si ispira all’ipotesi che il cervello si comporti come un dispositivo probabilistico di tipo bayesiano.
  • Le immagini della memoria. L’anello di collegamento tra la dimensione fisica e quella psichica è costituito dalle ‘mappe neurali’. Nel cervello degli esseri umani sono state descritte numerose ‘mappe corticali’ (tattili, olfattive, gustative, uditive, visive e motorie). Le mappe cognitive costituiscono l’architettura di base dei ‘modelli mentali’ descritti da Kenneth Craik. Molta parte della cognizione e in particolare ampi settori della memoria si basano sulle mappe neuronali e cognitive. Lo sviluppo di macchine che simulano l’intelligenza umana ha mostrato l’utilità della generazione di stati interni (Imagining Machines) per operare in maniera efficace nel mondo reale.
  • Vedere e riconoscere. La ‘visione’ sembra rappresentare una delle metafore più fertili della conoscenza anche all’interno dei percorsi spirituali. Psicologi e studiosi di antropologia delle religioni, come Carl Gustav Jung e Henry Corbin, hanno sostenuto che l’immaginazione visiva costituisce un sentiero privilegiato verso la trascendenza (Silberer, 1914, Corbin, 1958, Jung,2009). In questo senso, le vie spirituali coincidono con percorsi immaginativi che hanno l’obiettivo di esplorare possibili dimensioni, situate al di là del mondo naturale. Thomas Kuhn ha suggerito che la visione sia una metafora della conoscenza, infatti da una concezione passiva della visione, sostenuta nell’antichità da Democrito e Lucrezio, si è passati alla attuale concezione integrata, nella quale i movimenti oculari esercitano un ruolo fondamentale e studi di Alfred Yarbus hanno mostrato che i movimenti oculari riflettono il pensiero.
  • Il linguaggio e il pensiero. Molto prima della scrittura e dell’aritmetica, il linguaggio ha colonizzato il cervello basandosi sul fenomeno del riciclaggio neuronale. Dagli Homo sapiens e i suoi antenati l’invenzione del linguaggio ha aumentato la capacità di trasmettere conoscenze, pratiche e teoriche (narrazioni), dando origine alla rivoluzione cognitiva.
  • La filosofia della mente. Solitamente le concezioni pluraliste vengono raramente prese in considerazione, sebbene grandi pensatori, come Karl Popper, Hannah Arendt, Raimon Panikkar e Tzvetan Todorov, le abbiano analizzate e sostenute. Franco Fabbro propone di interpretare le varie posizioni filosofiche sulla natura della mente alla luce dello sviluppo del pensiero individuato da Peter Fonagy.
  • Libero arbitrio. Gli studi di Benjamin Libet, seppur interessanti, sembrano rivestire un significato piuttosto limitato per la comprensione del libero arbitrio. La libertà umana consiste nella capacità di immaginare differenti scenari da realizzare nel futuro e nella possibilità di sceglierne alcuni. Un’azione libera presuppone la consapevolezza, poiché a livello cosciente si può decidere di compiere un’azione e, secondo Fabbro, l’osservazione consapevole della mente è una delle manifestazioni più chiare della libertà umana (Fabbro, 2019). La meditazione sati (meditazione di consapevolezza o mindfulness) permette di sviluppare l’autocoscienza, l’osservazione equanime della mente, la gentilezza e la spontaneità.
  • La sfida del dolore. Di fronte a un evento mentale, come il dolore, gli esseri umani tendono a reagire secondo tre modalità: allontanarsi, avvicinarsi o ignorare il contenuto mentale. L’elaborazione di queste modalità di reazione sembra essere, secondo Karen Horney e Keith Oatley, alla base delle emozioni, dei sentimenti e delle strutture di personalità. Una via completamente differente di stare di fronte al dolore si trova negli insegnamenti dal Buddha. Nella sua attività pedagogica, il Buddha ha sostenuto che la natura intrinseca della mente è caratterizzata dal dolore (dukkha), poiché gli individui fin dalla più tenera infanzia hanno imparato a reagire agli eventi mentali attivando, di volta in volta, uno dei tre veleni (avversione, desiderio o ignoranza).
  • Che cosa significa conoscere. In una prospettiva biologica, secondo Edelman gli organismi viventi sono in grado di conoscere non utilizzando la logica, ma attraverso degli specifici ‘sistemi di riconoscimento’. Il primo sistema di riconoscimento è quello dell’evoluzione per selezione naturale. Il sistema immunitario è il secondo sistema di riconoscimento e il terzo sistema di riconoscimento è il sistema nervoso. La posizione filosofica dell’autore è quella del pluralismo critico delle conoscenze (Searle 1997, p. 175). In questa prospettiva, la riflessione filosofica, le esperienze fenomeniche e le teorie scientifiche devono essere considerate come ambiti interconnessi, anche se autonomi e indipendenti (Velmans, 2009, p. 173 e p. 228).
  • Tempo e apprendimento. Gli esseri umani vivono in una realtà caratterizzata a livello fisico e psicologico dal continuo mutamento. Lo sviluppo storico e culturale ha permesso agli esseri umani di inventare il linguaggio e sviluppare una concezione esistenziale del tempo (Fabbro, 2018). Numerosi antropologi, linguisti e neuroscienziati si sono interrogati sulle ragioni che hanno reso possibile la rivoluzione cognitiva e la successiva espansione di Homo sapiens in tutti i continenti. Ian Tattersall, Noam Chomsky, Philip Lieberman e Michael Corballis ritengono che questi avanzamenti cognitivi e comportamentali siano collegati alla comparsa del linguaggio articolato, avvenuta circa 80.000 anni fa (Corballis 2002, p. 188; Tattersall, 2012, p. 238; Lieberman, 2013, pp. 176-177; Chomsky, 2016 p. 51).

L’opera è organizzata in due parti. Nella prima, che riguarda i Fondamenti della filosofia e delle neuroscienze, vengono presi in esame alcune principi di base riguardanti la filosofia della scienza, la natura della materia, lo sviluppo storico e filosofico dei principali concetti della psicologia, oltre alle più recenti teorie neurobiologiche che riguardano la natura della mente.

Nella seconda parte, intitolata Meditazioni di filosofia e neuroscienze, vengono presentate e discusse le conoscenze e le riflessioni sull’origine della mente, della memoria e della coscienza, e i rapporti che collegano la visione e l’immaginazione alla conoscenza. Nei successivi capitoli vengono trattati in maniera critica i problemi che si riferiscono al riconoscimento degli oggetti, al senso del tempo e alla questione del libero arbitrio. Gli ultimi capitoli sono dedicati alle caratteristiche distintive del linguaggio, della coscienza e alle teorie filosofiche che riguardano la natura della mente.

Infine vengono esaminati il metodo di ricerca basato sulla scomposizione, la distinzione tra la dimensione interiore e quella esteriore, la gerarchia degli ordini simbolici, e il rapporto tra ricerca scientifica e riflessione filosofica.

Franco Fabbro con questo testo esprime tutta la sua passione per l’integrazione della conoscenza e dell’esperienza umana e offre un grande contributo alla diffusione del sapere a favore di una cittadinanza consapevole, memore che ‘l’autentica conoscenza rende le persone sapienti più umili, poiché, ad esse, l’orizzonte dell’ignoto appare con maggiore chiarezza’.

 

Come il BMI può influenzare la soddisfazione corporea nelle donne di mezza età

Le ragazze più giovani attribuiscono maggiore importanza al peso corporeo rispetto alle donne di mezza età, sebbene, anche tra queste, sembra esserci una relazione tra indice di massa corporea e soddisfazione del proprio corpo.

 

Immagine corporea e indice di massa corporea

Nella società odierna, spesso gli standard di bellezza irrealistici proposti dai media influenzano le donne che, molto più frequentemente degli uomini, desiderano mantenere un’immagine corporea impeccabile e un aspetto giovanile. Questo, secondo una prospettiva evolutiva, accade perché sono giudicate attraenti in base ad alcuni requisiti che indicano la fecondità, la forma fisica e il potenziale materno (Buss & Schmitt, 1993). Diversi studi mostrano che, tra le donne di mezza età, la qualità della vita e la soddisfazione corporea sono correlate tra loro: quando le donne perdono la capacità riproduttiva, la stima del corpo tende a diminuire. Il periodo della menopausa è caratterizzato da cambiamenti corporei, ormonali, dell’umore e della condizione fisica generale, che influenzano la qualità di vita e sono considerati un fattore di rischio per la scarsa stima del proprio corpo (Mangweth-Matzek et al., 2013). Inoltre, molti risultati presenti in letteratura, evidenziano una relazione tra l’indice di massa corporea (Body Mass Index; BMI) e la stima del proprio corpo, sia negli uomini che nelle donne. Un BMI più basso è associato solitamente ad una stima più alta, sebbene alcuni autori sostengano che la misura in cui ciascun individuo attribuisce importanza alle dimensioni del proprio corpo possa influenzare tale associazione (Pilafova et al., 2007). A supporto di ciò, uno studio di Mendelson e Andrews del 2000, ha dimostrato che, tra i diciottenni di un college, un BMI elevato prediceva una bassa autovalutazione dell’aspetto fisico solo tra coloro che ritenevano il peso importante.

Indice di massa corporea e autostima

Tendenzialmente le ragazze più giovani attribuiscono maggiore importanza al peso corporeo rispetto alle donne di mezza età, sebbene, anche andando avanti con gli anni, sembra esserci una relazione tra l’indice di massa corporea e la soddisfazione del proprio corpo (Slevec & Tiggemann, 2011). Quest’ultima può essere influenzata da alcune caratteristiche di personalità: una visione ottimistica, per esempio, può modificare gli effetti della percezione negativa di sé causati dall’invecchiamento (Wurm & Benyamini, 2014). Infine, alcuni autori si sono occupati di studiare la relazione che intercorre tra stima del proprio corpo e autostima globale; tale relazione è controversa in quanto alcuni vedono l’immagine corporea come componente dell’autostima globale, altri invece ipotizzano che non tutti gli aspetti della stima del proprio corpo siano associati ugualmente all’autostima globale (Davison & McCabe, 2005). Rosenberg, ad esempio, nel 1989 concettualizzò l’autostima globale come una valutazione complessiva del proprio valore (orientamento positivo o negativo verso se stessi). Un’alta autostima globale sembra infatti essere la convinzione di essere una persona ‘relativamente buona’ e di valore, non per forza migliore di altre persone; una bassa autostima è invece l’espressione di una mancanza di soddisfazione e di un malcontento verso sé stessi (Rosenberg et al., 1995).

Indice di massa corporea e stima del proprio corpo nelle donne di mezza età

Dal momento che non è chiaro ad oggi quali elementi della considerazione corporea siano più influenti nell’autostima globale, Olchowska-Kotala nel 2018 ha condotto uno studio con l’obiettivo di identificare i predittori della stima del corpo ed esaminare il legame tra autostima globale e stima corporea, in un campione di donne di mezza età. 67 donne tra i 44 e i 64 anni sono state incluse nel campione e sono stati sottoposti loro diversi test: la Body Esteem Scale (BES- Lipowska & Lipowski, 2013) per valutare la stima del corpo, tramite tre sottoscale (attrazione sessuale, preoccupazione per il peso e condizione fisica); il Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES- Rosenberg, 1989) per valutare l’autostima; il questionario OPEB per valutare l’ottimismo (Czerw, 2010). Successivamente, siccome esiste una grande variabilità tra i sintomi della menopausa, l’autrice ha presentato alle donne una lista di sintomi comuni chiedendo a ciascuna di loro di indicare quali avessero sperimentato nell’ultimo mese (Jane & Davis, 2014) e di descrivere la storia mestruale recente. Infine, dopo aver calcolato il BMI effettivo è stato calcolato quello ideale, accompagnato da alcune domande sul comportamento di controllo del peso.

I risultati mostrano che la stima del corpo nelle donne di mezza età è stata predetta dall’indice di massa corporea: più basso era il BMI delle donne, più erano soddisfatte del loro corpo. Inoltre altri predittori sono risultati essere l’ottimismo, l’autostima e i sintomi della menopausa. È emerso infatti che la stima del corpo nelle donne può essere aumentata sviluppando un atteggiamento ottimistico verso la vita, che spesso è considerato una risorsa psicologica (Conversano et al., 2010). In aggiunta, analizzando i dati, è possibile notare che più sintomi della menopausa una donna ha sperimentato, peggiore era la sua stima del proprio corpo. Tuttavia, il numero di sintomi sperimentati potrebbe non essere correlato allo stato della menopausa in cui si è. Infine è risultato che, sebbene il BMI fosse il principale predittore della stima del corpo, l’autostima globale era più fortemente correlata ai sentimenti sull’aspetto e sulla condizione fisica rispetto ai sentimenti sulla dimensione del corpo: è possibile, quindi, che i sentimenti relativi alle dimensioni corporee influenzino l’autostima solo negli individui con sentimenti estremamente negativi o positivi sulle loro dimensioni corporee. In conclusione i risultati di tale studio forniscono alcune indicazioni per dei possibili interventi clinici per le donne di mezza età: coloro che hanno una scarsa immagine corporea, per esempio, potrebbero beneficiare di interventi volti a promuovere una prospettiva ottimistica (Olchowska-Kotala, 2018).

 

Dissociazione e cure post-traumatiche: il contributo delle neuroscienze e della psicoterapia al tempo del Covid – XI Convegno Nazionale, Sabato 12 Marzo 2022

XI Convegno Nazionale di Neuroscienze, Neuropsicologia e Psicoterapia: Trauma e Recovery

Dissociazione e cure post-traumatiche: il contributo delle neuroscienze e della psicoterapia al tempo del Covid

Data: Sabato 12 marzo 2022
Dove: Live streaming su ClickMeeting
Con la partecipazione di Allan N. Schore

 

XI Convegno Nazionale di Neuroscienze, Neuropsicologia e Psicoterapia

I vissuti collettivi al tempo della grande pandemia di Covid stanno modificando le percezioni sulla salute, la sicurezza, il futuro sia nella politica sia nell’economia e nella comunicazione globale.

In che modo il nostro cervello sta vivendo l’adattamento a questi potenti cambiamenti?

Come la salute mentale e la sofferenza si modificano?

Partendo da queste domande, oggetto dei nostri studi, ci interroghiamo sul sistema delle cure e della psicoterapia che si deve rendere flessibile, attento al bisogno di gruppalità e appartenenza, capace di arrivare con le parole attraverso i canali digitali a tutti.

Con questo convegno prosegue il confronto tra studiosi di neuroscienze, clinici e pensatori del nostro tempo inquieto e incerto, in cui c’è un grande bisogno di direzione e nuove sicurezze e connessioni.

Crediti ECM

L’evento prevede l’attribuzione di 9 crediti ECM attribuibili a tutti i professionisti sanitari, previo superamento del questionario di apprendimento e presenza certificata alle ore formative del 100%.

Ingresso Gratuito

Ingresso gratuito per studenti Universitari Facoltà di Psicologia e Medicina, tirocinanti psicologi, allievi PerFormat, docenti e tutor dei corsi PerFormat attivi. L’ingresso gratuito non prevede crediti ECM.

CFU UniPi e ingresso gratuito

CFU UniPi e ingresso gratuito per studenti Università di Pisa Facoltà di Psicologia. Il convegno è accreditato per gli studenti PSI-L e WPC-LM – Leading Themes e rilascia 1 credito CFU per gli studenti che frequentano l’intera giornata, 0.5 crediti CFU per gli studenti che frequentano solo la mattina o solo il pomeriggio.

 

Per il programma completo, maggiori informazioni e iscrizioni consulta la pagina web >> CLICCA QUI

 

Quoziente intellettivo ed effetto Flynn inverso: cosa dicono gli studi scientifici

In molti hanno cercato di dare una spiegazione all’effetto Flynn inverso, cioè la riduzione del QI nella popolazione; numerose sono state le ipotesi proposte e diversi studi scientifici se ne sono occupati.

 

L’effetto Flynn e l’effetto Flynn inverso

Il quoziente intellettivo (QI) è un numero che esprime il rapporto tra il livello intellettivo di una persona, misurato attraverso appositi test, e quello della media dei soggetti appartenenti alla sua stessa condizione socio-culturale e fascia di età. Il QI viene considerato come una misura dell’intelligenza o dello sviluppo cognitivo di un individuo .

Dal 1938 fino a circa il 1985, in tutto il mondo industrializzato, il QI della popolazione è stato in crescita (Flynn J. 1987). Il primo ad osservare questo fatto fu James Robet Flynn ed il fenomeno prese allora il nome di effetto Flynn. A partire dai primi anni duemila si è cominciata a rilevare una tendenza inversa, il quoziente intellettivo, con il passare degli anni, anziché aumentare nella popolazione, diminuisce. A questo avvenimento è stato dato il nome di effetto Flynn inverso (Teasdale T., Owen D. 2005).

In molti hanno cercato di dare una spiegazione delle cause di questo fatto, numerose sono state le ipotesi proposte e diversi studi scientifici si sono occupati dell’effetto Flynn inverso.

Le cause dell’effetto Flynn inverso

Nel 2004 in Norvegia fu pubblicato uno studio dal titolo The end of the Flynn effect?: A study of secular trends in mean intelligence test scores of Norwegian conscripts during half a century, che dimostrava il peggioramento del QI, nella popolazione norvegese, a partire dalla metà degli anni novanta (Sundet JM., Barlug D.,  Torjussen TM. 2004).

In Danimarca nel 2005 fu pubblicata la ricerca A long-term rise and recent decline in intelligence test performance: The Flynn Effect in reverse. Gli autori riferiscono un calo del QI della popolazione danese a partire dalla fine degli anni novanta. Ipotizzano che un fattore alla base di questo fenomeno possa essere un calo del numero dei ragazzi, tra i 16 ed i 18 anni, che accedono a programmi scolastici di livello avanzato (Teasdale T., Owen D. 2005).

Nel 2008 è stato pubblicato lo studio The decline of the world’s IQ secondo il quale il calo del QI nella popolazione è collegato a cause disgenetiche. Gli autori si rifanno a studi precedenti, condotti in quattro paesi economicamente sviluppati. In base alla analisi dei dati ritengono probabile che l’effetto Flynn inverso si diffonderà nei paesi in via di sviluppo e tutto il mondo  entrerà in un periodo di declino dell’intelligenza genotipica e fenotipica (Lynn R., Harvey J. 2008).

Nel 2009  Flynn realizzò la ricerca Requiem for nutrition as the cause of IQ gains: Raven’s gains in Britain 1938–2008 confermando il calo di QI nella popolazione britannica a partire dagli 2000. Secondo Flynn il calo del QI non è stato influenzato dall’alimentazione.

L’effetto Flynn inverso e i fattori ambientali

Nel 2018 Bratsberg B. e Roberger O. hanno pubblicato la ricerca Flynn effect and its reversal are both environmentally caused. Secondo i due autori del Ragnar Frisch Centre for Economic Research dell’Università di Oslo, le cause dell’effetto Flynn inverso sono da ricercare principalmente nei fattori ambientali. I ricercatori, infatti, hanno condotto un’analisi dei dati riguardanti i trend familiari e dall’osservazione dei dati non sono emersi fattori consistenti, all’interno delle famiglie, collegabili alla diminuzione del QI. Per questo è possibile escludere che il calo del quoziente intellettivo possa essere dovuto al numero di componenti del nucleo familiare, al tipo di educazione familiare ed all’aumento dell’immigrazione. Bratsberg e Roberger ritengono che l’effetto Flynn inverso sia collegato alla formazione scolastica, all’utilizzo eccessivo di videogiochi ed internet ed alla diminuzione del tempo dedicato alla lettura.

 

Fishbein e Ajzen: dalla Teoria dell’Azione Ragionata al modello dell’Autoregolazione Comportamentale nella scelta di un viaggio

Il Modello dell’Autoregolazione Comportamentale sembrerebbe aumentare la capacità di previsione di un comportamento, anche per quanto riguarda la decisione di intraprendere un viaggio.

 

Fishbein e Ajzen sono due psicologi sociali che si sono occupati di esaminare il rapporto tra atteggiamenti e comportamenti, studiando gli indici di predittività di un atteggiamento in base ai comportamenti riscontrati negli individui sottoposti alle analisi. Tale studio è stato pubblicato nel 2009 sulla rivista Psicologia e Turismo. Per poter procedere alla comprensione delle due teorie occorre appurare la differenza tra comportamento e atteggiamento in tale contesto di analisi: per comportamento si intende ‘il complesso coerente di atteggiamenti assunti in reazione a determinati stimoli, o l’attività di un soggetto nelle sue manifestazioni’ (Treccani, settembre 2017); l’atteggiamento, invece, è ‘una tendenza psicologica che viene espressa valutando una particolare entità con un determinato grado di favore o sfavore’ (Treccani, settembre 2017).

La scelta di un viaggio secondo la Teoria dell’Azione Ragionata

La Teoria dell’Azione Ragionata (TAR) ipotizza che ‘un comportamento specifico sia determinato direttamente dall’atteggiamento di eseguirlo e che l’intenzione, a sua volta, sia influenzata dall’atteggiamento e dalla norma soggettiva’ (Bellettini, 2009, 286), ovvero un soggetto che compie un’azione, la esegue tenendo conto del comportamento di tipo volitivo (sotto il controllo della volontà del soggetto) e volto alla produzione di un atteggiamento specifico, nel corrente caso riferito alla vacanza. Questa teoria, sviluppata negli anni ’70, è stata estrapolata a partire dall’analisi dei campioni di individui che hanno svolto un questionario relativo agli atteggiamenti nei confronti della vacanza o del viaggio. Il limite della TAR è di non tenere conto degli antecedenti, ossia del controllo comportamentale percepito da parte del soggetto: ciò ‘consiste nella credenza relativa alla facilità con la quale sia possibile o meno la messa in atto di un comportamento’ (ibidem, 286).

La scelta di un viaggio secondo la Teoria del Comportamento Pianificato

A motivo di ciò la precedente teoria è stata rivisitata ed espansa con la nuova Teoria del Comportamento Pianificato. In tale modo si è potuto tenere presente anche il background delle intenzioni e del comportamento per avere una visione più globale di come il soggetto tende a fare le scelte relative ai propri viaggi. È stato dimostrato però che ancora non bastano le variabili al fine di definire esaustivamente le intenzioni e i comportamenti umani rispetto alla scelta di un viaggio. A questo proposito è stato valutato un nuovo studio che ha portato al Modello dell’Autoregolazione Comportamentale il quale ‘attraverso il coinvolgimento di sotto-processi conativi, emotivi, sociali e volitivi, indaga le relazioni tra atteggiamenti, norme soggettive, intenzioni e comportamenti’ (ibidem, 2009). Tale modello risulta un punto chiave poiché si contraddistingue per l’inserimento dei processi sopracitati.

La scelta di un viaggio secondo il Modello dell’Autoregolazione Comportamentale

Il Modello dell’Autoregolazione Comportamentale sperimenterebbe il poter arrivare a una più globale comprensione dell’azione sociale e di aumentare la capacità di previsione di un comportamento. Infatti, attraverso il modello, che si applica effettuando osservazioni e batterie di test su soggetti che desiderano partire, è possibile comprendere meglio se la volontà di partire per un viaggio possa essere prevista attraverso lo studio degli atteggiamenti e i pensieri volitivi, conativi o emotivi legati al viaggio stesso.

Speculando, si potrebbe dire che questo modello, se applicato nelle agenzie turistiche, potrebbe fornire delle previsioni sulla possibile partenza o meno del cliente che richiede informazioni all’agenzia.

Implicazioni per il turismo

In conclusione, ciò che si riscontra è che soggetti con alto grado di monitoraggio tendono a prendere decisioni basandosi sulle proprie norme soggettive, mentre individui con basso grado di monitoraggio danno maggiore peso agli atteggiamenti piuttosto che alle norme soggettive al fine di prendere decisioni. Per una maggiore chiarezza concettuale, è bene fornire una definizione di monitoraggio: esso si definisce come la capacità di un soggetto di fare introspezione, di chiarirsi le idee rispetto a cosa vuole fare, di essere consapevole delle proprie scelte e comprendere quanto si sente motivato ad attuare un comportamento (in questo caso un viaggio). Per esempio, un soggetto che sembra essere molto interessato ai viaggi e che spesso si reca in agenzia per informarsi su dove potrebbe andare, si diversifica da una persona che ama viaggiare, ma non si interessa quasi mai di un viaggio che potrebbe fare, non recandosi in agenzia o non facendo ricerche su possibili mete da esplorare. Quindi questo significa che a livello di monitoraggio interno del soggetto, egli non fornisce molta importanza a ciò che desidera, o comunque predilige altre scelte comportamentali che esulano da quella del viaggio.

Riconducendo tale ricerca alla pratica turistica, si possono notare dei riscontri effettivi nel momento in cui si osserva il soggetto nell’atto di fare delle scelte rispetto al viaggio che sta per intraprendere. Il viaggio in sé produce dei cambiamenti in un essere umano ed anche nel suo background formato dalle decisioni da prendere relative a tutte le componenti della vacanza stessa, a partire da dove andare, fino ad arrivare a quali indumenti inserire nella valigia, modificano la psiche del vacanziero.

 

La mente che sente. A tu per tu: dialogando in vicinanza, nonostante tutto (2021) di Daniela Lucangeli – Recensione

Il libro La mente che sente datato 2021 ed edito da Edizioni Centro Studi Erickson è un prezioso contributo che la Lucangeli offre per condividere l’esperienza passata e ancora presente di come i singoli e la collettività abbiano vissuto e rispondano al Coronavirus.

 

Primavera 2020, in tutto il mondo inizia a diffondersi una pandemia globale che cambierà inevitabilmente il modo di vivere, di lavorare, di godere del tempo di ognuno di noi. La pandemia ha modificato la nostra visione del mondo, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Con il passare del tempo la scuola, il lavoro, ogni cosa si è dovuta adattare in funzione del virus così come noi tutti, ognuno a proprio modo a seconda delle esperienze che il Covid in questi anni ha lasciato.

All’inizio della pandemia, sommersi dalla moltitudine di emozioni che la nuova e sconosciuta condizione portava con sé, hanno preso vita molte iniziative online per aiutare la popolazione a trovare giuste strategie di gestione della condizione di lockdown e il successivo ritorno alla socialità, ecco che tra queste iniziative si inseriscono le dirette social dal titolo A tu per tu di Daniela Lucangeli.

Da questa esperienza nasce questo volume che racchiude alcune tra le esperienze vissute in questi incontri a distanza. 152 pagine per descrivere attraverso il racconto il modo in cui la nostra mente si approccia alle emozioni, soprattutto quelle negative dello sconforto, della frustrazione, del dolore costante.

Come si fa a reagire posti di fronte a una situazione simile? Come si può essere resilienti? Cosa ci dicono le ricerche scientifiche e le esperienze comuni? Domande chiave che possono essere sorte in alcuni di noi durante questo periodo e che fungono da fili conduttori nella lettura di La mente che sente.

Il libro presenta la trascrizione di 15 dialoghi di A tu per tu organizzati in tre grandi aree tematiche: Sentire, Fare, Illuminare il futuro.

Capitoli brevi descritti con un linguaggio accogliente e informale come l’autrice stessa preannuncia nell’introduzione al volume. La Lucangeli, nota per l’importanza riservata alle emozioni all’interno delle sue ricerche, arriva con questo testo nel profondo di ognuno proprio perché le esperienze proposte e rielaborate all’interno dei diversi capitoli rappresentano situazioni che ognuno, individualmente e in comunità, può aver vissuto durante la pandemia. Ecco dunque che il tema narrato nelle pagine diventa personale, il lettore colora della propria valenza emotiva quel racconto sulla base di ciò che per lui è stato ed ha rappresentato.

Ogni capitolo è organizzato come fosse un diario, la pagina dedicata al titolo del A tu per tu riporta una didascalia che introduce il lettore al tema sul quale si farà luce; a pagina nuova la data scandisce temporalmente nella nostra mente il periodo della pandemia e ci catapulta nei ricordi personali. Nota di stile per la poesia riportata subito dopo la data. Il resto del capitolo entra nel vivo del tema narrando esperienze diverse, trasportate dalla voce narrante dell’autrice che racconta l’argomento principale del capitolo quasi come una scoperta intima, l’utilizzo della prima persona nello stile narrativo aumenta l’enfasi sulla prospettiva personale.

Sul finire di ogni capitolo un rettangolo che simula un foglio di quaderno offre una spiegazione psicologica basata sulle ricerche svolte circa il tema trattato nel capitolo: affianco all’elemento personale ed emotivo, un altro di carattere scientifico chiarisce al lettore le basi scientifiche del tema trattato o di argomenti analoghi.

Il percorso narrativo passa dal sentire – riconoscere le emozioni, le situazioni, le proprie risorse interne – al fare, in cui mettiamo in atto, agiamo, facciamo per arrivare infine a parlare del futuro con l’ultimo capitolo conclusivo datato giugno 2021.

Un libro intimo e sentito, che a livello personale e di collettività può toccare aspetti profondi di ognuno di noi. Una risposta alle molte emozioni che la situazione pandemica ha portato con sé per cercare modalità edificanti anche a distanza di anni. Linguaggio semplice e stile colloquiale rendono la lettura scorrevole e accessibile a tutto il pubblico.

Il capitolo finale apre la riflessione sul nostro essere dapprima singoli individui all’interno delle proprie vite e poi cittadini inseriti in una comunità che si deve preoccupare del domani vivendo al meglio il tempo donato oggi.

 

Depressione perinatale: l’influenza sulla relazione madre-figlio

Per depressione perinatale (DP) si intende un episodio depressivo che può insorgere nelle donne durante la gravidanza o successivamente in un periodo compreso tra le 4 settimane e i 3 mesi dopo il parto (Reck et al., 2004), che mostra una prevalenza del 10-20% nei paesi occidentali (Lee & Chung, 2007).

 

I fattori di rischio per lo sviluppo della depressione perinatale sono: depressione e/o ansia durante la gravidanza o precedenti storie di depressione, stress, mancanza di supporto sociale e una vita di coppia problematica (Ryan et al., 2005). Ai fattori di rischio elencati si aggiunge plausibilmente anche l’attaccamento, dato che questo, durante l’infanzia, influenza la modalità di relazionarsi con gli altri e i legami affettivi che si stabiliscono successivamente in età adulta (Brennan et al., 1998).

Effetti della depressione perinatale sul bambino

Nonostante spesso si pensi alla depressione perinatale come una patologia che interessa solo il versante materno, essa ha dimostrato di avere un’influenza anche sulla relazione madre-bambino.

Le madri depresse, infatti, presentano spesso un comportamento ritirato e inibito, uno scarso contatto fisico e visivo e difficoltà nell’interpretare i bisogni del bambino (Campbell et al., 1995).

Numerosi studi hanno dimostrato che i figli di madri con depressione post-partum hanno un rischio maggiore, rispetto ai controlli, di sviluppare disturbi e un minore riconoscimento delle emozioni, possibili deficit neuropsicologici o cognitivi, disturbi comportamentali internalizzanti ed esternalizzanti e disturbi del sonno (Martucci et al., 2021). Diversi risultati hanno suggerito che la depressione materna è legata al temperamento nei bambini piccoli; così, le difficoltà precoci nella relazione madre-bambino possono essere collegate ad un temperamento negativo nella fase infantile, con conseguenze a lungo termine sulla salute mentale del bambino e dell’adolescente (Prenoveau et al., 2017).

In letteratura sono presenti pochi studi che valutano i bambini nel periodo compreso tra i 3 e i 12 mesi dopo il parto. Era fondamentale colmare questa lacuna, proprio perché il primo anno dopo il parto è molto importante se si considera che un’adeguata interazione madre-figlio influenza lo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino in un periodo caratterizzato dalla mielinizzazione del sistema limbico e dalla maturazione dell’emisfero destro, con impatto anche sulle aree corticali (Martucci et al., 2021).

Uno studio di Martucci e colleghi (2021) ha cercato quindi di colmare queste mancanze in letteratura, studiando le differenze nelle traiettorie di sviluppo dei figli di madri depresse, rispetto ai figli di madri non depresse, in un periodo compreso tra i 3 e i 12 mesi dopo il parto. Inoltre, sono state descritte le differenze nello stile di attaccamento romantico, del legame madre-figlio e dello stress genitoriale delle madri depresse, confrontate con un campione di controllo di madri non depresse.

Coerentemente con quanto riporta la letteratura, che indica fattori di rischio quali una storia pregressa di depressione, ansia o disturbi bipolari, conflitti con il partner, scarso sostegno sociale ed eventi di vita stressanti (O’Hara & Wisner, 2014), nel campione analizzato nello studio di Martucci e colleghi (2021) è stata riscontrata la presenza di disagio psicologico nell’anamnesi personale delle madri e di problemi psichiatrici nella storia clinica delle loro famiglie. In particolare, fattori che hanno assunto una grande importanza sono i problemi socio-economici e l’assenza di supporto sociale. Non casualmente, la maggior parte delle madri depresse ha descritto il periodo perinatale come un’esperienza traumatica caratterizzata da fatica e solitudine.

Depressione perinatale e stile di attaccamento

In aggiunta, dai risultati si evince una prevalenza di attaccamento di tipo insicuro nel gruppo delle madri con depressione perinatale. Il 63% di loro dimostrava pattern relazionali caratterizzati da alta ansia e/o evitamento. Nel campione di controllo, formato dalle madri non depresse, l’85% ha mostrato un attaccamento sicuro. Queste percentuali, messe a confronto, sembrano indicare una certa valenza dell’attaccamento in questo fenomeno, confermando gli studi precedenti (Meutti et al., 2015).

Inoltre, un aumento dei sintomi depressivi era associato ad uno stile di attaccamento insicuro e l’ansia, a sua volta, era associata a punteggi più bassi nelle dimensioni cognitive, linguistiche e motorie. Questi risultati sembrano suggerire una interazione madre-figlio disfunzionale con conseguenze sullo sviluppo dei bambini. Ciò evidenzia la vulnerabilità delle madri depresse e della relazione madre-bambino in un periodo di maggiore richiesta di sintonizzazione con i bisogni del bambino. Di conseguenza, in questi casi, per la madre che soffre di depressione perinatale, la cura del bambino sembra essere molto stressante. Questo è stato dimostrato dai risultati del Parental Stress Index, che, per il primo anno dopo la nascita del bambino, mostra punteggi di stress genitoriale molto più alti nelle donne con depressione perinatale rispetto alle madri del campione di controllo.

Depressione perinatale e sviluppo del bambino

Coerentemente con altri studi in letteratura (Urizar & Muñoz, 2021), quindi, i risultati dimostrano che i bambini di madri depresse presentano maggiori rischi per le aree di sviluppo motorio e cognitivo e, secondariamente, del linguaggio. In particolare, la maggior parte dei bambini del campione clinico aveva punteggi più bassi nella scala motoria (74%) rispetto al gruppo di controllo (14,3%).

Questo può essere plausibile se consideriamo che, in questa prima fase della vita, l’inter-soggettività guida l’area di sviluppo motorio. Questo, a sua volta, porta allo sviluppo del sé e della mente del bambino, soprattutto nei primi sette mesi, proprio perché è attraverso il movimento che, nel primo anno, il bambino sperimenta la sua dimensione cognitiva e relazionale.

Conclusioni

In conclusione, questi risultati si mostrano coerenti con la letteratura ma, allo stesso tempo, forniscono nuovi suggerimenti riguardo alle dinamiche della depressione perinatale e all’influenza che potrebbe avere sullo sviluppo dei bambini nel primo anno di vita. Riconoscere precocemente stili genitoriali disfunzionali e, di conseguenza, il rischio di un ritardo nello sviluppo socio-emotivo e psicomotorio del bambino, rende possibile pianificare un intervento immediato. La depressione perinatale, tenendo a mente le conseguenze che può comportare, dovrebbe essere considerata una patologia che colpisce le madri, ma allo stesso tempo e in egual modo influenza la relazione madre-figlio.

 

Il viagra rosa secondo Emily Nagoski: l’esplorazione libera e il non giudizio – Recensione del libro “Come as you are”

Emily Nagoski, attraverso il suo libro Come as you are: risveglia e trasforma la tua sessualità, ci conduce nel territorio arduo della sessualità e prova a parlare alle donne con sincerità e scientificità.

 

L’argomento sesso o sessualità, piacere sessuale, eccitazione, masturbazione, giocattoli o pratiche sessuali (purtroppo) non è mai facile da trattare. Nonostante le grandi rivoluzioni sociali e femminili che si sono susseguite nel tempo e il contributo di alcune serie televisive o film che hanno provato a sdoganarlo e normalizzarlo, il sesso e i suoi correlati rimangono ancora oggi argomento tabù.

La difficoltà nel parlare di quest’argomento si aggrava ulteriormente quando, oltre al silenzio, si aggiungono contesti che incoraggiano l’autocritica, l’inadeguatezza o l’insoddisfazione per il proprio corpo o la propria relazione affettiva e la diffusione di messaggi socio-culturali che ‘ingabbiano’ il sesso e il desiderio sessuale entro sbarre stereotipate e negative. Se a queste difficoltà si aggiungesse anche l’appartenenza al genere femminile, ecco che la sessualità potrebbe non essere più considerata un ambito di piacere ma qualcosa di sgradito, ‘anormale’, a volte persino doloroso.

Da esperta ricercatrice ed educatrice sessuale, Emily Nagoski, attraverso il suo libro Come as you are: risveglia e trasforma la tua sessualità, ci conduce in questo territorio arduo e prova a parlare alle donne con sincerità e scientificità.

A partire dalle domande più frequenti che si è sentita rivolgere dalle donne nel corso della sua lunga esperienza – ‘Non riesco mai a prendere l’iniziativa con il mio partner, non riesco ad accendermi come succede a lui, non riesco ad avere l’orgasmo con la penetrazione, cosa c’è che non funziona?’, l’autrice introduce ciascuno dei nove capitoli del libro e ne accompagna il contenuto adottando una prospettiva scientifica con dati ed evidenze, esempi pratici e piccoli suggerimenti da poter implementare nella propria quotidianità sessuale.

Convinta che le problematiche sessuali femminili siano dovute principalmente alla mancanza di accettazione e a frequenti vissuti di ‘anormalità’ da parte delle donne, il libro di Emily Nagoski si pone l’obiettivo di normalizzare tali esperienze fornendo informazioni medico-scientifiche, ma soprattutto facendo luce sui diversi fattori contestuali interni ed esterni che contribuirebbero a dare origine ai nostri atteggiamenti nei confronti del sesso.

I modelli scientifici precedenti che hanno provato a descrivere e comprendere la sessualità come quello di Masters e Johnson (Masters, 1966) o di Helen Kaplan (Kaplan, 1983) l’hanno considerata nei termini esclusivi di un comportamento con una sua frequenza, durata e con delle caratterizzazioni peculiari (con o senza il coito, con o senza partner, con o senza eccitamento o desiderio sessuale). Tuttavia, entrambi questi modelli, concentrandosi esclusivamente sulla descrizione di cosa accade tra i partner durante l’attività sessuale, hanno tralasciato il come e il perché si verificano certi comportamenti sessuali o si manifestino certi atteggiamenti nei confronti di questi ultimi.

Le problematiche legate alla sessualità femminile spesso infatti si accompagnano a vissuti di vergogna, colpa, ansia e le esperienze che se ne fanno vengono interpretate come qualcosa di ‘anormale’, ‘non giusto’, ‘strano’ soprattutto quando il comportamento sessuale femminile non rispecchia l’esperienza emotiva o mentale della donna.

Di conseguenza risulta fondamentale che il lavoro sulla sessualità e sui diversi comportamenti sessuali sia fatto a partire dalla comprensione delle loro ragioni d’essere sia biologiche che fisiologiche, ma includa anche il legame tra queste e i contesti interni (lo stress, l’umore, il rapporto con il proprio corpo) ed esterni (le caratteristiche del partner quali l’odore o l’aspetto fisico, la relazione, l’ambientazione) che favoriscono l’eccitamento o l’inibizione.

Aderendo al modello del duplice controllo di Janssen e Bancroft (Janssen, 2007), l’autrice mostra come le nostre risposte sessuali sarebbero costituite da stimoli e fattori in grado di ‘accelerare’ o ‘frenare’ il desiderio sessuale e come di conseguenza una donna, perfettamente in salute dal punto di vista fisico e all’interno di una relazione affettiva stabile e intima, possa non provare interesse sessuale per il proprio partner o avere difficoltà nell’eccitamento sessuale in presenza di specifici fattori che impattano negativamente sul suo desiderio sessuale. Questi fattori, a parere dell’autrice, oltre ad ostacolare il benessere sessuale della donna, acuirebbero la discrepanza tra ciò che essa esperisce fisicamente in ambito sessuale e quello che si trova a provare da un punto di vista emotivo.

La conoscenza e l’identificazione di questi fattori contestuali favorirebbe la normalizzazione delle esperienze sessuali nella donna in quanto essa sarebbe in grado di relazionarsi in modo positivo con le proprie sensazioni senza contrastarle, anche quando queste non corrispondono alle aspettative socio-culturali. La liberazione da credenze e messaggi stereotipati del proprio contesto di appartenenza e il cambio di prospettiva e approcci nei confronti dei propri stati interni consentirebbe la realizzazione di una vita sessuale soddisfacente e piacevole.

Da queste considerazioni generali deriva l’organizzazione del libro che inizia con una sintesi dei meccanismi cerebrali, fisiologici e delle diverse componenti anatomiche, sia maschili che femminili, che rendono possibile il desiderio, l’eccitamento e l’orgasmo, per poi passare al riconoscimento dei fattori contestuali o ‘messaggi’ interni ed esterni che impattano positivamente o negativamente su di essi.

Come as you are è piacevolmente scorrevole anche nel fornire le informazioni più tecniche e rappresenta una preziosa risorsa per normalizzare o liberarci da alcune nostre credenze non utili sulla sessualità.

 

Il pasto assistito nel trattamento dei disturbi alimentari in A.S.L. CN1

In questo articolo l’obiettivo è quello di evidenziare come nel territorio dell’Azienda Sanitaria Locale di Cuneo CN1, tra le pratiche riabilitative adottate per i disturbi alimentari rientri quella del pasto assistito, essendo presente in sede la figura della dietista.

Introduzione

I disturbi dell’alimentazione implicano un’alterazione persistente dell’alimentazione o del comportamento ad essa relativo che modifica il consumo o l’assorbimento del cibo ed ostacola significativamente la salute fisica e/o il funzionamento psicosociale.

Essi comprendono secondo il DSM 5, il Manuale Diagnostico e Statistico del Disturbi Mentali:

I disturbi alimentari di cui ci occupiamo in modo precipuo nel Centro dei Disturbi del Comportamento Alimentare dell’ASL di Cuneo (CN1) sono rappresentati dall’Anoressia, in cui vengono adottate o la restrizione degli alimenti o l’utilizzo di condotte compensatorie atte ad eliminare calorie; dalla Bulimia, con o senza condotte compensatorie; dal Disturbo da alimentazione incontrollata (o Binge Eating Disorder), in cui non vengono messe in atto metodiche compensatorie per cui, se il disturbo si protrae nel tempo, il destino al quale vanno incontro i pazienti che ne sono affetti è rappresentato quanto meno dal sovrappeso e, nei casi più gravi, dall’Obesità conclamata. Inoltre il nostro ambulatorio annovera tra le persone assistite quelle affette da Disturbo dell’Alimentazione non altrimenti specificato (NAS), cioè quei disturbi che non soddisfano i criteri diagnostici di nessuno dei disturbi precedentemente elencati.

Spesso i disturbi alimentari rappresentano solo la punta di un iceberg, sotto al quale c’è tutto un mondo sommerso, dietro l’apparenza fisica c’è la difficoltà di esprimere a voce ciò che sembra solo corporeo, ma che non è solo corporeo. È vero che i mass media hanno la loro parte di responsabilità nel presentare un modello di donna efebica, androgina, come donna oggetto di desiderio sessuale, ma questi non sono certo gli unici fattori responsabili del problema: le culture occidentali danno sempre meno spazio alla espressione delle emozioni tramite il contatto e sempre più spazio alla espressione delle stesse tramite ‘emoticons’ che troviamo sui nostri smarphone, le faccette che spesso non sono interpretabili in modo univoco, ma con uno scambio di emozioni espresse in modo dubbio. La contraddizione evidente è che, accanto alle pubblicità di donne che indossano la taglia trentasei/ trentotto, si assiste alla pubblicità di catene di fast food che propongono una alimentazione del tutto scorretta a base di cibi grassi, fritti ed ipercalorici.

L’esordio dei disturbi alimentari

Come intercettare il problema alimentare? Ci riferiamo soprattutto all’Anoressia che rimane, tra i disturbi alimentari quello più grave, perché mette in serio pericolo la vita delle/ dei nostri pazienti, o sotto forma di lento suicidio, o con tentativi di suicidio realmente agiti.

Per le famiglie, anche quelle più attente alle problematiche adolescenziali, non è facile accorgersi del disagio all’esordio, per cui capita che spesso giungano al nostro Centro di Cuneo pazienti già molto defedate, in cui il primo approccio non può essere quello ambulatoriale ma deve avvenire tramite un ricovero ospedaliero, diventando difficile, se non impossibile, una presa in carico solo di tipo ambulatoriale.

Qualche campanello di allarme può essere rappresentato dalla ortoressia, ossia l’attenzione esagerata alle calorie, più caratteristica del sesso femminile o dalla vigoressia, con considerevole sviluppo della massa muscolare a scapito delle altre componenti corporee, più caratteristica del sesso maschile e che, di fatto, maschera, almeno fisicamente, il disturbo reale. In quest’ultimo caso per andare ad individuare il problema anoressico non è sufficiente il peso del soggetto e neppure solo il BMI, ossia il calcolo dell’indice di massa corporea, ma è necessario servirsi di metodiche più accurate, come la plicometria, per valutare esattamente in che percentuale sono rappresentate la massa grassa, quella magra e quella muscolare. Nonostante le difficoltà fisiologicamente insite nel periodo adolescenziale e puberale, per lo più si cerca di stabilire un legame equilibrato tra quelli che sono i bisogni biologici di alimentazione e le ambizioni in fatto di immagine corporea.

Alcune persone però, non riescono a stabilire questo equilibrio, o forse esso per qualche ragione si è incrinato, spezzato, ed è in questi casi che è probabile riscontrare un disturbo del comportamento alimentare. Per tale motivo, da un punto di vista psicologico, sarebbe necessario individuare altri campanelli di allarme che non riguardano solo il cambiamento nelle abitudini alimentari, ma anche nello stile di vita, cambiamenti nelle relazioni sociali e disagi emotivi.

I disturbi alimentari possano insorgere anche in età adulta, ma l’incidenza maggiore è individuata tra i 10 e 19 anni di età, periodo in cui i cambiamenti corporei innescano negli adolescenti forti crisi di accettazione ed autostima.

Il pasto assistito nei disturbi alimentari

Il pasto assistito rientra in un programma di riabilitazione psico-nutrizionale e prevede che il paziente affetto da disturbi alimentari sia supportato durante i pasti da un operatore (il dietista, l’infermiere professionale o lo psicologo). In questo articolo il nostro obiettivo è quello di evidenziare come nel territorio dell’Azienda Sanitaria Locale di Cuneo CN1, del quale noi rappresentiamo l’équipe terapeutica, tra le pratiche riabilitative da noi adottate rientri quella del pasto assistito, essendo presente in sede la figura della dietista. La nostra struttura è l’unica in Piemonte che ha questo tipo di servizio territoriale. Il momento della condivisione del pasto riveste un ruolo centrale all’interno di percorsi terapeutici ospedalieri, residenziali e semiresidenziali dei DAN ( Disturbi dell’alimentazione e della nutrizione) e riscontra applicazione a livello ambulatoriale e di day-service. L’obiettivo del progetto da noi adottato, basato sulle Linee Guida Nazionali e sul modello del nostro Centro Pilota che è quello della Clinica Universitaria ‘Le Molinette’ di Torino, diretta dal Prof. Giovanni Abbate-Daga, consiste nel favorire un adeguato apporto nutrizionale, coadiuvando il paziente nel progressivo superamento della paura nei confronti del cibo e nell’abbandono dei rituali inappropriati che ne ostacolano l’assunzione. Il risultato di questo nostro lavoro quotidiano, che si svolge nell’ambito del Centro tutti i giorni dal Lunedì al Venerdì, ha evidenziato, grazie alle testimonianze da parte degli utenti del Servizio, l’importanza del pasto assistito e, seppure con differenze tra i diversi tipi di quadri psicopatologici, dopo un percorso di cura più o meno lungo che in media dura un anno, l’utilità ed i benefici non riguardano solo il pasto in sé, ma anche la possibilità di ampliare la rete di relazioni sociali. Il cibo, infatti, si sa, non è solo nutrimento per il corpo, ma anche per l’animo e momento di convivialità. Per la sua valenza terapeutico-riabilitativa, il momento del pasto assistito, al quale seguono altre attività terapeutico-riabilitative nel post-prandium, è stato mantenuto anche nella fase pandemica da Covid-19, seppur nel rigoroso rispetto del distanziamento interpersonale e dell’utilizzo dei DPI.
L’osservazione condotta finora ha dimostrato come l’attitudine generale degli intervistati rispetto al servizio sia decisamente positiva, con le difficoltà nella partecipazione al servizio da parte degli utenti lavoratori e la necessità di adottare nuove strategie organizzative.

 

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Pedofilia acquisita: una nuova prospettiva

Lopez e colleghi (2020) hanno revisionato la letteratura per esaminare casi di pedofilia acquisita, includendo articoli che riportavano casi di acquisizione della pedofilia a seguito di un danno cerebrale.

 

La diagnosi di disturbo pedofilico

La pedofilia è definita come la persistente attrazione nei confronti di bambini che si manifesta nelle fantasie erotiche e sessuali. Quando la persona mette in atto delle azioni concrete, viene diagnosticato un disturbo pedofilico. Nello specifico, il DSM 5 (APA, 2013) evidenzia come si possa diagnosticare un disturbo pedofilico se la persona predilige l’avere esperienze sessuali con i bambini a causa di difficoltà psicosociali. Se invece la persona mostra assenza di senso di colpa, vergogna o ansia per quanto riguarda tali impulsi, in quanto non ha avuto esperienze sessuali con minori, si parla di un orientamento sessuale pedofilico e non di un disturbo pedofilico. All’interno del DSM 5 (APA, 2013), i criteri richiedono delle fantasie sessuali, impulsi o comportamenti che includono attività sessuali con bambini (generalmente di 13 anni, o meno) per oltre un periodo di sei mesi. L’individuo, che ha almeno 16 anni e 5 anni in più del bambino per cui prova attrazione, agisce in funzione di questi impulsi sessuali oppure tali fantasie generano un disagio clinicamente significativo. Le specificazioni riguardano il ‘tipo esclusivo’, cioè l’attrazione esclusiva per i bambini, oppure il ‘tipo non esclusivo’ (APA, 2013): oltre il 90% dei pazienti con diagnosi di pedofilia è anche attratto sessualmente da persone adulte (Hall & Hall, 2007). Il disturbo parafilico è maggiormente frequente nella popolazione maschile (Fedoroff et al., 1999) e sembra essere intrinseco alla mascolinità biologica: per questo motivo, tale attrazione per persone con un’età prepuberale viene notata nei primi anni dell’adolescenza da parte del paziente, se non prima. Ha una prevalenza stimata del 3% nella popolazione generale (Hall & Hall, 2007) e, solitamente, esistono almeno altri due disturbi parafilici. Tale disturbo è particolarmente rilevante a causa del suo significato clinico e delle sue implicazioni morali e forensi (Finkelhor, 1979), in quanto sono evidenti delle interazioni tra personalità antisociale e disturbo pedofilico (APA, 2013).

Negli ultimi anni è cresciuto l’interesse verso l’indagare le basi neurali della pedofilia grazie allo sviluppo di tecniche di neuroimaging, utili a sondare in vivo l’anatomia cerebrale (Mohnke et al., 2014). La domanda di ricerca sulla neurologia di questo disturbo vuole indagare se sia possibile modificare delle strutture neurali critiche attraverso interventi chimici o chirurgici, anche se uno dei problemi principali consiste nella presenza di risultati discordanti e frammentati, ad esempio riguardo alle cause e ai substrati neurochimici (Lopez et al., 2020).

Cos’è la pedofilia acquisita

Lopez e colleghi (2020) hanno revisionato la letteratura per esaminare casi di pedofilia acquisita, riportando articoli presi da PubMed e PsycInfo. Gli articoli inclusi riportavano casi di acquisizione della pedofilia a seguito di un danno cerebrale circoscritto, degenerativo o irritativo: quest’ultima espressione fa riferimento all’area di tessuto corticale che produce dei picchi elettrografici interictali (Rosenow & Luders, 2001). I ricercatori hanno definito la pedofilia acquisita come l’espressione comportamentale di impulsi pedofilici in individui precedentemente ‘normali’, cioè definiti in passato come socialmente autonomi nell’instaurare e nel mantenere delle relazioni interpersonali produttive, dal punto di vista amicale e affettivo (Lopez et al., 2020). Sono stati inclusi dei soggetti i cui impulsi sono causati da una lesione cerebrale, indipendentemente dalla natura patologica della lesione, dalla causa, dalla modalità di esordio o dalla velocità di progressione degenerativa. Al contrario, sono stati esclusi tutti quei soggetti che erano incapaci di giudicare l’erroneità dei loro atti comportamentali (Casanova, Mannheim e Kruesi, 2002; Lopez et al., 2020).

I casi pubblicati che soddisfacevano i criteri di inclusione erano 22, registrati tra il 1972 e il 2018. L’ipersessualità, definita come un accrescimento del desiderio, dell’attività sessuale (Baumeister et al., 2001) e della messa in atto di comportamenti finalizzati alla loro attuazione, è risultata presente in 18 casi. La maggior parte dei soggetti (n=10) era sposata, mentre tre avevano divorziato in quanto la loro predisposizione aveva posto fine alle relazioni affettive costruite precedentemente. Undici soggetti erano attratti esclusivamente da bambini in età prepuberale, mentre quattro erano attratti da ragazzi in età puberale: cinque erano omosessuali e tre bisessuali (Lopez et al., 2020). Nonostante la posizione delle lesioni appaia troppo vaga per consentire un accurato diagramma anatomico, a livello neuronale si è visto come la localizzazione di queste ultime sembri essere determinante nella pedofilia acquisita. Nello specifico, sette lesioni erano presenti nel lato destro, una era circoscritta sull’emisfero sinistro, mentre le altre erano bilaterali (Lopez et al., 2020). La natura delle lesioni non differiva dalle cause ordinarie della malattie transcraniche: sono stati osservati diversi tipi di malattie intracraniche come tumori (n=7), malattie degenerative corticali (n=5), trauma cranico (n=3), sclerosi multipla (n=2), ischemia (n=2), lobotomia temporale (n=1), pallidotomia (n=1) e malattia di Huntington (n=1).

Danni cerebrali nella pedofilia acquisita

I ricercatori suggeriscono come l’emergere della pedofilia a seguito di un danno cerebrale derivi dalla lesione o dalla disfunzione di alcuni settori delle cortecce FTI o dalle loro connessioni subcorticali, in quanto le lesioni che rientrano nei confini di queste regioni sembrano comportare due conseguenze che costituiscono la presentazione clinica della pedofilia acquisita. Nello specifico, dopo aver determinato il modello degli interessi sessuali devianti e la possibile comorbidità di altre parafilie o di disturbi del controllo degli impulsi, si osserva come il rilascio delle fibre dopaminergiche che attraversano il fascio proencefalico mediale siano modulate dalle cortecce FTI lese (Lopez et al., 2020). La relativa iperfunzione del sistema mesocorticale così strutturato porta all’aumento delle pulsioni sessuali che costituiscono il fulcro delle manifestazioni patologiche legate all’ipersessualità (Lopez et al., 2020). La possibilità che delle lesioni cerebrali possano rendere un’idealizzazione un vero e proprio atto pedofilico supporta le distinzioni fenomenologiche e comportamentali esistenti nella nomenclatura (APA, 2013; Berlin, 2002). Allo stesso tempo, questa possibilità non può essere generalizzata perché è difficile indagare sulle fantasie nascoste dei pazienti nel corso degli anni, a volte con l’acquiescenza dei parenti più stretti. Di conseguenza, è un’ipotesi incompleta in quanto le informazioni su una possibile cattiva condotta sessuale pre-morbosa sono difficili da indagare (Lopez et al., 2020).

 

GDR (giochi di ruolo): quando la fantasia aiuta la realtà

Negli ultimi anni si è riscoperto un tipo di gioco che per molto tempo è rimasto sconosciuto ai più o, nel caso entrasse nella conversazione, è stato sempre visto come una sorta di perdita di tempo fino anche a divenire oggetto di vera e propria demonizzazione: il Gioco di Ruolo.

 

Probabilmente questo termine è maggiormente familiare alla comunità videoludica in varie declinazioni, ma è anche conosciuto da un’ampia fetta della popolazione che ne ha fatto esperienza attraverso film che solitamente rappresentavano un gruppo di ragazzi (identificati come nerd) che giocavano chiusi in una stanza, fomentando lo stereotipo di ragazzo socialmente impacciato ed escluso dal mondo che lo circonda, che si rifugia in questo mondo fantastico dove poter essere un valoroso cavaliere o un potente mago. Ma è davvero tutto così semplice? Davvero i giochi di ruolo sono da relegare ad un gruppo di nerd chiusi in una stanza a fantasticare su mondi irreali e fantastici? Non è possibile che ci sia altro di più profondo e complesso?

Perché proprio il GDR da tavolo?

Il termine GDR sta per Gioco Di Ruolo, ossia un gioco in cui i personaggi interpretano un ruolo fingendo di essere qualcun altro. Esistono vari tipi di Giochi Di Ruolo: i Giochi Di Ruolo cartacei prevedono che i giocatori si riuniscano intorno ad un tavolo utilizzando carta, matita e dadi, i Giochi Di Ruolo online sono giocati tramite chat o su forum, i Giochi Di Ruolo per console si giocano tramite console o PC e possono essere giocati da soli o in modalità multigiocatore online, i Giochi Di Ruolo dal vivo prevedono che i giocatori indossino costumi e interpretino realmente un ruolo prendendo la forma di una rappresentazione teatrale. Partendo dal presupposto che i Giochi Di Ruolo in generale richiedono una certa immedesimazione ed utilizzo dell’immaginazione, vorrei parlare dei Giochi Di Ruolo cartacei in quanto presentano delle caratteristiche peculiari rispetto agli altri. Primo, permettono una maggiore libertà rispetto ad esempio ai Giochi Di Ruolo per console o PC poiché questi sono essenzialmente dei giochi in cui, nonostante sia permessa una certa dose di libertà, questa è comunque vincolata al fatto che il gioco è programmato e definito da chi ha creato il gioco. Secondo, permettono l’interazione faccia a faccia con gli altri giocatori rispetto ai Giochi Di Ruolo giocati tramite chat o forum, anche se è comunque possibile che anche i Giochi Di Ruolo cartacei siano giocati a distanza tramite PC (ma quasi sicuramente il gioco si svolgerà con l’utilizzo di webcam comunicando faccia a faccia). Terzo, anche se i Giochi Di Ruolo cartacei condividono con i Giochi Di Ruolo dal vivo i primi due aspetti sottolineati, i Giochi Di Ruolo cartacei richiedono meno risorse per essere attuati non prevedendo la necessità di costumi, di oggetti o di un luogo adatto allo svolgimento del gioco, permettendo un maggiore livello di immaginazione poiché non c’è alcun appiglio al mondo reale da utilizzare per definire le caratteristiche fisiche dei personaggi, i luoghi o gli eventi che si stanno vivendo, lasciando la totale libertà ai giocatori di utilizzare il teatro della mente. Quindi i Giochi Di Ruolo cartacei permettono l’interazione faccia a faccia, sono più facili da mettere in atto e sono molto più adattabili alle risorse materiali dei giocatori (d’altronde bastano un tavolo, dei dadi, carta e matita e la voglia di giocare).

Sperimentarsi in ruoli differenti

Il gioco di ruolo permette di sperimentarsi in ruoli differenti, scelti dal giocatore all’interno del gruppo, che in qualche modo vengono convalidati dal gruppo stesso. Quindi non solo il giocatore ha la libertà di scegliere un ruolo che non viene imposto dall’esterno, come può accadere in contesti di vita reale, ma ha anche la certezza che questo ruolo sia riconosciuto, accettato e convalidato da tutto il gruppo. Questa libertà di scelta permette di sperimentarsi in ruoli differenti e che nella vita reale non potrebbero essere ricoperti o per ragioni legate alla persona o perché quel ruolo è già ricoperto da un’altra persona all’interno del gruppo. Naturalmente ricoprire un determinato ruolo porta a dover mettere in atto le skills e le competenze tipiche di quel ruolo, a ragionare secondo modalità concordanti con quel ruolo e comportarsi di conseguenza. E questa è una grande opportunità di apprendere, di conseguenza, le skills, le competenze e le modalità comportamentali e di ragionamento in linea con il ruolo ricoperto, con la possibilità di trasferire tutto questo al di fuori del tavolo da gioco. Questo può portare anche ad una scoperta per quanto riguarda ciò che si pensava di sapere su sé stessi, svelando aspetti nuovi di sé che altrimenti sarebbero rimasti celati.

Sviluppare un senso di autoefficacia e realizzazione

Riuscire a ricoprire il ruolo che si è scelto porta il giocatore a sperimentare un senso di autoefficacia che può aiutare la motivazione e l’autostima, stati probabilmente difficilmente o per nulla sperimentati nella vita quotidiana. I successi e le vittorie che si ottengono nel gioco possono aiutare a sperimentare un senso di autoefficacia, non solo per quando riguarda la ricompensa immediata che il personaggio ottiene attraverso le sue azioni, ma anche per la soddisfazione derivante dalla riuscita dei piani e dei progetti che il giocatore, con le sue scelte e il suo agire, è riuscito a compiere.

Imparare a procedere per obiettivi

Il procedere per obiettivi è un elemento che va di pari passo con la pianificazione. Infatti, per raggiungere i suoi obiettivi, il giocatore deve escogitare dei piani, deve pianificare le proprie azioni, da solo o insieme al gruppo, per raggiungere gli scopi prefissati. Ma se questi obiettivi fossero vaghi e poco verificabili non sarebbero molto utili. Sono necessari piani concreti e verificabili, efficaci per raggiungere gli obiettivi, con un piano d’azione ben strutturato, a volte con l’individuazione di sotto-obiettivi, più semplici e vicini nel tempo, che scompongono l’obiettivo principale, a volte complesso e a lungo termine. Ma anche la minuziosa pianificazione può non andare a buon fine. Questo non è fondamentale perché la questione principale è essere stati in grado di scomporre un problema, di analizzarlo e di aver cercato soluzioni e, nel caso di fallimento, la modalità di un tale procedere permetterà una analisi per comprendere ciò che non è andato bene (anche se vale la pena ricordare che è pur sempre un gioco con i dadi e, spesso, l’ultima parola spetta a loro!). Naturalmente questa modalità di approccio al problema potrà essere riportata nella vita reale, permettendo alla persona di applicare le modalità di analisi, di pianificazione e di azione, ed eventualmente di verifica nel caso di fallimento.

Apprendere strategie di problem solving

Quanto detto fino ad ora ci porta a prendere in considerazione anche i possibili effetti positivi che il Gioco Di Ruolo può avere sulle strategie di problem solving, ossia un approccio al problema che porta ad una serie di operazioni cognitive, affettive e comportamentali per poter fronteggiare richieste interne o esterne. Quindi, il Gioco Di Ruolo può promuovere l’apprendimento e la messa in pratica di strategie di problem solving che, una volta lasciato il tavolo di gioco, potranno essere riproposte nelle situazioni problematiche della vita reale.

Sperimentare strategie di risoluzione dei conflitti

Come in ogni gioco che si fa insieme altre persone, è normale che possano insorgere conflitti e contrasti, ma per la natura collaborativa (e non competitiva) dei Giochi Di Ruolo è necessario che si arrivi ad una risoluzione dei conflitti, sia nel caso in cui avvengano tra i giocatori sia nel caso in cui la storia, gli eventi passati, le caratteristiche psicologiche o l’indole del personaggio portino inevitabilmente a questi conflitti, con la necessità che si attuino delle mediazioni e delle contrattazioni tra i personaggi in gioco e tra i giocatori, affinché il gruppo possa procedere nell’avventura e raggiungere gli obiettivi comuni. Le modalità di risoluzione, di confronto e di dialogo possono essere ripetute anche in contesti di vita reale, trasformando delle skills apprese in gioco in competenze relazionali fuori dal gioco.

Allenare lo sviluppo di una capacità narrativa

La costruzione del personaggio da utilizzare nel gioco richiede vari livelli di ideazione. Bisogna scegliere un background, qual è la storia del personaggio, da dove viene, chi è e chi è stato, quali sono state eventuali persone per lui significative, cosa gli è accaduto in passato e quali sono stati gli eventi che lo hanno portato ad intraprendere il suo viaggio, quali obiettivi vuole raggiungere. Una volta definito il background si passa a definire quali sono i suoi tratti di personalità, quali valori lo guidano, quali desideri ha, quali paure, qual è la sua morale, quale visione del mondo ha abbracciato. Successivamente si passa a delineare quali sono le caratteristiche fisiche, il suo aspetto, se ha dei tic, dei modi di fare particolari (che possono anche derivare dalle esperienze passate), il suo portamento, qual è la sua razza (le più immediate che possono venire in mente sono umano, elfo, nano, orco, ma ve ne sono molte altre). In ultimo si passa alla definizione della classe (guerriero, mago, bardo, ecc…), delle sue abilità, delle sue competenze, in cosa è bravo, cosa non sa fare, se ha dei talenti che sono innati o sono stati frutto del duro allenamento o di intenso studio.

Tutti questi elementi devono in qualche modo essere riuniti per formare una narrativa coerente del personaggio, definendo la sua identità, i suoi tratti psicologici e le sue skills e competenze. Così il giocatore può fare esperienza di una costruzione narrativa coerente e coesa del sé, che può aiutare la persona a raccontare la propria storia, guardando come gli eventi passati possono averlo portato ad essere ciò che è ora, a divenire capace di riconoscere ciò in cui è bravo e ciò in cui non lo è, ma con un’ottica di apertura verso la possibilità che, con l’allenamento e l’impegno, ci sia sempre l’opportunità di migliorarsi.

Ma questa narrativa non resta isolata, relegata alla soggettività. Infatti, tutti i giocatori hanno attuato lo stesso processo di costruzione, facendo sì che le singole narrative vadano ad intrecciarsi con il procedere dell’avventura portando alla costruzione di una narrativa sovraordinata, che non viene dalla semplice somma delle parti ma dal loro intreccio, portando a qualcosa di più complesso. Ed è proprio questa narrativa condivisa che sarà l’aspetto principale del gioco. Infatti, nonostante ci sia una trama delineata dal conduttore del gruppo (definito Game Master o più semplicemente Master) che propone i vari scenari ai giocatori e rende ‘vivo’ il mondo di gioco attraverso la descrizione e l’introduzione di personaggi che non sono dei giocatori (detti PNG o Personaggi Non Giocati), ma che arricchiscono la narrazione e offrono ai giocatori degli spunti per tessere relazioni, tutto ciò che accade viene costruito dalle interazioni e dalle scelte dei giocatori, co-costruendo una narrazione unica e condivisa da tutti. Questa co-narrativa richiede a tutti i giocatori di riuscire a prendere il punto di vista degli altri, di comprendere ciò che accade nella mente degli altri, di attuare un continuo dentro e fuori dal gioco, immedesimandosi nel proprio personaggio ed osservando il suo agire dall’esterno, utilizzando quelle competenze metacognitive che potranno essere poi applicate una volta lasciato il tavolo da gioco.

Conclusioni

Questa breve apologia del gioco di ruolo vuole portare l’attenzione su alcuni interessanti aspetti che questo tipo di gioco può offrire, alle possibilità di confronto e di relazione che possono nascere da una tale attività di gruppo, soprattutto se si svolge in un gruppo di pari.

 

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