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Il terapeuta sotto pressione (2021) di Muran e Eubanks – Recensione del libro

Il libro Il terapeuta sotto pressione è una testimonianza del lavoro svolto sul campo dagli autori, una panoramica degli aspetti più insidiosi del lavoro clinico.

 

Non è raro che il lavoro dello psicoterapeuta evochi, in chi non lo pratica e non lo conosce, commenti talvolta semplicistici ed ironici, quando non astiosi, sulla vita comoda di chi ha il vantaggio di poter guadagnare standosene semplicemente seduto ad ascoltare sornione i fatti altrui, limitandosi ad annuire o intervenire brevemente ad intervalli regolari, insomma ‘cavandosela a chiacchere’, per dirla con il caro Roberto Lorenzini.

Il recente volume di Muran e Eubanks, Il terapeuta sotto pressione, edito da Raffaello Cortina, appare quindi come una dichiarazione di empatia e solidarietà, una mano tesa verso chi il lavoro di psicoterapeuta invece lo svolge e ne conosce bene le indubbie gratificazioni, ma anche le notevoli fatiche, il logorio mentale e fisico, i rischi e le tensioni. La pressione, appunto.

Il libro è una testimonianza del lavoro svolto sul campo dagli autori, una panoramica degli aspetti più insidiosi del lavoro clinico, destinata idealmente soprattutto ad una formazione preventiva dei colleghi più giovani che magari non hanno ancora dovuto sperimentare in prima persona alcune delle trappole più frequenti nel processo di cura.

Gli autori si concentrano nello specifico sulla pressione connessa al rapporto particolarissimo che si crea tra terapeuta e paziente nel qui ed ora della singola terapia e che diventa possibile luogo di fratture, tensioni, crisi, rotture relazionali.

La sintonia tra paziente e terapeuta è una dimensione delicata e sfuggente, su cui difficilmente si riesce ad esercitare un pieno e totale controllo; una buona dose di autostima del clinico può per certi versi metterlo al riparo da derive depressive, senso di inefficacia e scoraggiamento (ingredienti spesso fatali al buon esito della terapia) connessi ai momenti di stallo e di crisi del trattamento.

Tuttavia il rischio è che una simile negazione grandiosa, al contempo sano meccanismo di difesa e rischio professionale a cui spesso i terapeuti si espongono, impedisca di riconoscere oggettive e reali rotture dell’alleanza terapeutica e quindi precluda la possibilità di esplorarle e ripararle.

Le crisi si possono verificare in qualunque fase del trattamento e possono consistere in sfide al contratto terapeutico, coincidere con il momento in cui la terapia mette in crisi gli abituali meccanismi di difesa del paziente o quando il sollievo dagli aspetti sintomatologici più invalidanti consente un’esperienza più consapevole delle proprie fragilità più profonde, identitarie ed esistenziali.

Spesso le rotture sono rappresentazioni dei sentimenti sollevati dalla relazione terapeutica ed è per questo che il messaggio implicito che percorre tutto il libro è un monito ai terapeuti affinché si ricordino di chiedersi sempre qualcosa del tipo: ‘Cosa sta succedendo, qui e ora, nel rapporto tra me e questo paziente che lo sta portando ad aggredirmi/trasgredire il contratto/minacciare di abbandonare la terapia/essere evasivo o deferente/ etc.’.

Proprio perché i momenti di implicita o esplicita rottura nell’alleanza tendono ad evocare forti emozioni nel terapeuta (ansia, frustrazione, colpa, preoccupazione, rabbia) essi richiedono un’attenta analisi ed un’accurata gestione, affinché il clinico non sia trascinato dal paziente nella direzione di un abbandono dello sforzo esplorativo e supportivo, se non della terapia stessa.

Difficile manualizzare in modo rigido e definitivo il processo di gestione delle crisi che può variare a seconda delle situazioni; può richiedere al terapeuta di diventare temporaneamente più proattivo oppure di rafforzare l’adesione alla cornice del trattamento o ancora di optare per opportune deviazioni dal contratto terapeutico.

Il concetto di base è che la gestione delle crisi pone una sfida all’adeguatezza della cornice stabilita nel contratto e all’abilità del clinico di muoversi con elasticità all’interno di questa cornice man mano che il trattamento procede. È indispensabile sforzarsi di capire il significato implicito e profondo delle sfide al setting piuttosto che lasciare che la rottura demolisca il contratto e distorca il trattamento.

Nel libro si trova una dettagliata disamina delle possibili rotture dell’alleanza terapeutica, riconducibili per gli autori a due categorie (di ritiro o di confrontazione) e corredata da esempi e vignette cliniche.

Possibili indicatori di rischio esaminati nel manuale sono risposte laconiche, comunicazioni astratte, narrazioni evitanti, deferenza e accondiscendenza, scissione degli affetti, autocritica e rassegnazione, lamentele sulla terapia e sul terapeuta, rifiuto degli interventi, atteggiamento difensivo o tentativi di mettere il terapeuta sotto pressione.

Il terapeuta potrebbe d’impulso reagire difensivamente a tali segnali di rottura dando risposte blandamente supportive che, per quanto possano salvare nell’immediato la terapia, precludono l’opportunità di ragionare su cosa stia accadendo alla diade, oppure potrebbe fornire un feedback neutrale e strutturato, essenzialmente corretto dal punto di vista tecnico ma rigido e rifiutante, che inconsciamente mira a far precipitare la fine della terapia per porre fine all’ansia crescente del terapeuta.

È per questo che gli autori propongono viceversa un modello di riparazione delle rotture che parta dal riconoscimento e dall’esplorazione dell’esperienza condivisa con rinegoziazione di compiti e obiettivi, in un clima di dilemma condiviso attento a ciò che accade nel qui ed ora, senza che il clinico abbia timore di esplorare e condividere il proprio contributo all’insorgere della rottura e riconoscendo che il rapporto è in continua evoluzione e che ad una riparazione possono seguire nuove rotture e così via.

La capacità individuale degli psicoterapeuti di gestire correttamente le loro reazioni controtrasferali è stata resa operativa nel manuale con la Countertransference Factors Inventory (CFI), una misura delle dimensioni di empatia, gestione dell’ansia e abilità di concentualizzazione.

Degno di nota l’approfondimento sull’importanza della cura di sé da parte dei clinici; è necessario sottolineare che accogliere messaggi emotivamente ed affettivamente carichi per molte ore al giorno può rapidamente condurre all’esaurimento proprio di quelle risorse emotive indispensabili ad un proficuo contatto empatico e alla buona riuscita del lavoro di uno psicoterapeuta.

Un clinico può lavorare bene solo quando dà ascolto ai propri legittimi bisogni personali, anche se ciò assorbe a sua volta tempo ed energia.

Riconoscere e appagare i propri bisogni di sonno, riposo, svago, attività fisica, soddisfazione economica e formazione e supervisione continua è un fattore indispensabile al lavoro e un ottimo antidoto alle tendenze masochistiche che generalmente presentano gli operatori impegnati nel campo delle relazioni di aiuto.

Alcune strategie di autocura descritte nel volume consistono nel praticare la mindfulness prima delle sedute, tenere un diario delle emozioni per ripercorrere le reazioni nei confronti dei pazienti, promuovere un atteggiamento di indagine critica rispetto ai propri bias cognitivi, fare pratica tramite role-play e ricorrere al supporto e alla supervisione di colleghi più esperti.

In sostanza ciò che gli autori cercano di trasmettere è che momenti di crisi o sentimenti negativi del clinico non sono inauditi, disdicevoli o segnali di errore, ma fanno parte di qualsiasi percorso terapeutico, pur con vari gradi di gravità e di intensità e che, benché possano comprensibilmente generare forti stati d’animo negativi, tali da rendere talvolta difficile proseguire con il trattamento, se ben gestiti, costituiscono preziose opportunità non solo per la salvaguardia, ma addirittura per l’avanzamento stesso del processo terapeutico.

Un suggestivo esempio di consapevolezza e gestione di una rottura (piuttosto mascherata, peraltro) che ha consentito uno scatto nella terapia ce lo dà Irving Yalom, nel suo illuminante Il dono della terapia:

Fornisco a tutti i pazienti le stesse indicazioni per il mio studio in occasione della loro prima visita: procedete lungo la strada X per mezzo miglio dopo la strada XX, voltate a destra al viale XXX dove c’è un’insegna per Fresca (un attraente ristorante locale) sull’angolo. Alcuni pazienti fanno commenti sulle indicazioni, altri no.

Un paziente in particolare (lo stesso che si era lamentato del sentiero fangoso) mi affrontò in una delle prime sedute: ‘Com’è che ha scelto Fresca come punto di riferimento piuttosto che Tio?’ (Taco Tio è un fast-food messicano, un pugno nell’occhio all’angolo di fronte) […]

Scelsi di rispondergli candidamente: ‘Be’, Bob, ha ragione! Invece di dire: volti a destra al Fresca, avrei potuto dire: volti a destra alla bancarella dei tacos. Perché ho fatto la scelta che ho fatto? Sono sicuro che è perché preferisco associare me stesso con il ristorante più raffinato. Non mi sarei sentito a mio agio dicendo: volti alla bancarella dei tacos’.

Di nuovo, qual è il rischio? Sto solo riconoscendo qualcosa che lui ovviamente sapeva. E solo dopo esserci tolti di mezzo il problema con la mia ammissione potemmo dedicarci all’importante questione di esplorare il suo desiderio di mettermi in imbarazzo.

 

I disturbi umorali agevolano l’espressione artistica?

La creatività, definita come la capacità di produrre qualcosa di nuovo, utile e prezioso per un dominio specifico (Csikszentmihalyi, 1996; Runco, 2014) viene spesso associata alla psicopatologia (Kaufmann & Kaufmann, 2014; Holm-Hadulla et al., 2021).

 

Il legame tra creatività e psicopatologia nell’antichità

Sin dalla filosofia antica, la creatività è associata a disturbi mentali, instabilità cognitiva ed emotiva: Esiodo, nel 500 a.C, descrive il Dio Kronos come l’incarnazione dell’aggressività malinconica e della creatività (Klibansky et al., 1964), mentre Teofrasto (371-287) si chiede perché tutti coloro che sono diventati eminenti in filosofia, in politica, nella poesia o nell’arte sono chiaramente malinconici, e alcuni di loro in misura tale da essere colpiti da malattie causate dalla bile nera (in passato, un eccesso di bile nera era visto come causa delle malattie depressive) (Akiskal & Akiskal, 2007). Akiskal e Akiskal (1988) hanno esaminato il concetto di creatività secondo gli antichi greci per comprendere se è associato a disturbi umorali, come depressione e bipolarismo, osservando come tale tendenza sia correlata ad una forma lieve di bipolarità, definita come ‘attenuata’ rispetto al disturbo bipolare in senso stretto.

Nel Rinascimento, il medico filosofo Marsilio Ficino ha elaborato un’idea simile a quella di Andreasen e Carter (1974), cioè che gli individui con una creatività predominante e dei tratti bipolari mostrerebbero una psicopatologia più contenuta rispetto alle persone che soffrono di bipolarismo. Goethe (1749-1832) ha dimostrato come l’estro creativo possa essere motivato da umore depresso, tratti ansiosi, disturbi di personalità o dell’adattamento, e come tali sintomatologie portino ad una produttività concreta solo quando incanalati in un’attività pratica (Holm-Hadulla, 2019). In linea con Nietzsche, che vede il caos mentale come sublimabile attraverso una ‘maggiore salute’, le teorie psicoanalitiche hanno coniato l’ipotesi che la creatività non sia il risultato di disturbi mentali, bensì di manifestazioni autorealizzative che promuovono il benessere e la salute delle persone.

Quale relazione tra psicopatologia e aumentata creatività

Holm-Hadulla e colleghi (2021) hanno offerto una panoramica sulla creatività e sulla psicopatologia, basandosi su studi empirico-statistici, fenomenologici e anche biografici per compensare le possibili lacune presenti in letteratura. Gli studi retrospettivi di Jaminson (1993) evidenziano come i poeti soffrono, con una maggiore frequenza, di disturbi affettivi e tendenze suicidarie rispetto alla media, mentre i gravi disturbi maniaco-depressivi sembrano più diffusi nella popolazione generale. Coerentemente con tali risultati, Ludwig (1997) evidenzia come le persone creative, come scienziati, attivisti sociali, saggisti e artisti soffrono meno di disturbi mentali rispetto alla popolazione generale. Al contrario, invece, i poeti soffrono tre volte di più di episodi depressivi, tendenze suicidarie e dipendenza da alcool (Holm-Hadulla et al., 2021).

Alcuni ricercatori hanno ipotizzato anche una correlazione tra un eccezionale successo creativo ed una propensione ad episodi psicotici (Carson et al., 2003). Mentre esistono condizioni che inibiscono la creatività, come la schizotipia e la schizofrenia – nello specifico, quest’ultima se cronica compromette e distrugge la creatività (Kuks & Snoek, 2018) – alcuni sostengono che esistano delle forme di psicoticismo ‘lievi’ e non specificatamente definite dalla schizofrenia che dovrebbero rafforzarla (Kuks & Snoek, 2018). Terman (1925) ha svolto degli studi per individuare una correlazione tra la creatività del genio e ‘follia’. Ha selezionato un campione composto da studenti dotati, fisicamente e psicologicamente, al di sopra della media (857 maschi e 671 femmine; QI medio di 151) e i risultati mostrano come i soggetti hanno maggiore costanza e perseveranza, un alto livello di fiducia nei propri confronti, umore equilibrato e sono meno impulsivi. Allo stesso tempo, i soggetti molto dotati cognitivamente hanno maggiori difficoltà di adattamento rispetto a quelli meno dotati (Eysenck, 1998).

Psicopatologia e creatività ridotta

Mentre Rothenberg (2006) sostiene che la creatività sia una forma di adattamento psicologico cruciale, alcuni ricercatori non trovano una relazione tra creatività e sintomatologia psicopatologica. Verhaeghen e colleghi (2005) sottolineano come la connessione tra depressione e comportamento creativo non dipenda dalla sintomatologia, come affettività negativa e anedonia, bensì dalla ruminazione autobiografica. Per quanto riguarda l’ansia, due studi sperimentali (Carlsson, 2002) sostengono come la paura e l’ansia non portino la persona che le sperimenta ad essere estrosa. Data la presenza di dati contrastanti in letteratura, Hoffman e colleghi (Hofmann, 2010) hanno ipotizzato che la depressione moderata e la depressione grave inibiscano la creatività e che portino ad una compromissione del ragionamento creativo. Il pensiero divergente è stato meno influenzato dalla depressione rispetto al pensiero convergente, orientato all’obiettivo e al concretizzare idee, e la gravità dei sintomi è correlata alla riduzione delle attività creative nella vita quotidiana (Hofmann, 2010; Holm-Hadulla et al., 2021). In accordo con i risultati di Hofmann (2010), anche Csikszentmihalyi (1996) e Runco (2014) sostengono che le forme lievi di disturbi mentali sono compatibili con il lavoro creativo, purché la persona abbia sufficiente energia, capacità cognitive e fattori di supporto.

La presenza di queste ricerche in letteratura suggerisce come il troppo disagio psicologico possa portare ad una mancanza di creatività, non dovuta esclusivamente ad un distacco dalla realtà osservabile in patologie psicotiche, bensì dovuta anche a sintomi gravi della flessione del tono timico o di stati ipomaniacali.

Creatività e personalità

Come si può tornare quindi ad essere creativi? Holm-Hadulla e i suoi colleghi (2021) riportano degli studi biografici che dimostrano come i cinque fattori della struttura della personalità (Big Five; Widiger & Crego, 2019) interagiscono dialetticamente nelle diverse fasi del processo creativo. Dato che possono essere attivate contemporaneamente o in diversi passaggi, come preparazione, incubazione, illuminazione, realizzazione e verifica, è molto importante sapere come e quando entrano in gioco i diversi aspetti dei tratti di personalità. In terapia, la creatività di per sé può essere un importante modulo autoterapeutico per far fronte al disagio emotivo, cognitivo e ai problemi relazionali che la persona sta vivendo.

 

Caffè Cognitivo: i tratti di personalità protagonisti della nuova stagione – Il quarto episodio è dedicato alla Distraibilità

State of Mind presenta la nuova stagione di Caffè Cognitivo in formato podcast: una raccolta di episodi, uno inedito ogni settimana, per conoscere ed esplorare il mondo della Psicologia e della Psicoterapia, accompagnati dalle voci dei nostri professionisti e dei più noti esperti in materia. Fil rouge di questa nuova stagione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

 

Caffè Cognitivo: dalle webseries ai podcast

Dato il successo ottenuto dalle precendenti edizioni (create dapprima in formato webseries e successivamente diventate un podcast), il gruppo Studi Cognitivi ha realizzato una nuova stagione di “Caffè Cognitivo”, questa volta esclusivamente in formato podcast, una scelta fatta per rendere la fruizione dei contenuti più facile e accessibile per chi ci segue. Fil rouge della nuova edizione sarà l’argomento: “I tratti di personalità”.

Gli episodi della nuova stagione di Caffè Cognitivo

Ogni episodio del podcast prenderà avvio da una conversazione tra due o più clinici del gruppo Studi Cognitivi che discuteranno sul tema personalità, esaminando in ogni episodio uno specifico tratto personologico, attraverso un confronto leggero, fatto di pochi tecnicismi, pensato per tutti i nostri ascoltatori, esperti e non.

Durante la quarta puntata della nuova stagione, la Dott.ssa Sandra Sassaroli e il Dott. Gabriele Caselli  avranno come ospite la Dott.ssa Alessia Minniti. Si parlerà di Distraibilità, ovvero difficoltà di concentrazione e di focalizzazione sui compiti. Perché spesso la nostra attenzione è facilmente deviata da stimoli estranei? Scopritelo nel quarto episodio.

Dove ascoltare il quarto episodio

Gli episodi di Caffè Cognitivo sono disponibili su diverse piattaforme, ascolta il quarto episodio su:

 

La psicologia dell’esperienza ottimale

Secondo la prospettiva di Csìkszentmihàlyi la felicità è uno stato intrinseco all’individuo e non può essere ricercato all’esterno, attraverso gratificazioni o piaceri che soddisfano la nostra psiche solo temporaneamente.

 

Felicità e filosofia

Secondo il filosofo greco Aristotele il benessere o felicità può essere distinto in due diverse concettualizzazioni: quella edonica e quella eudaimonica.

La prospettiva edonica concentra la sua attenzione sull’affetto positivo, sulla felicità, sulla bassa affettività negativa e sulla soddisfazione per la vita, quest’ultima intesa come valutazione personale della propria condizione di vita. Il filosofo considera infatti l’edonia come la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore.

La seconda prospettiva, quella eudaimonica, si concentra prevalentemente sul funzionamento psicologico e sullo sviluppo umano. L’eudaimonia è per Aristotele quel processo di autorealizzazione che porta l’individuo a raggiungere il suo pieno potenziale (Disabato, Goodman, Kashdan, Short & Jarden, 2015).

Il benessere eudaimonico è la percezione personale rispetto al significato della propria vita. In base a questo concetto, avere determinate qualità e soddisfare certi bisogni sono un aspetto fondamentale per la crescita personale (Stone, A.A. & Mackie).

Felicità e psicologia

Lo psicologo Martin E.P. Seligman attraverso la Psicologia Positiva ha conciliato il piacere e la buona vita, ossia gli aspetti edonici ed eudaimonici, sottolineandone le correlazioni.

La disciplina psicologica sostiene che la felicità possa essere sperimentata in differenti modi, in base alle diversità soggettive.

Lo psicologo ungherese Mihàly Csìkszentmihàlyi introducendo il concetto di flusso o flow, lo ha definito come lo stato ‘in cui le persone sono così coinvolte in un’attività che non ha più importanza (lo scopo, ndr); l’esperienza è così piacevole che le persone continueranno a farlo anche a caro prezzo, per il puro gusto di farlo’ (Csìkszentmihàlyi, 1990).

La soddisfazione personale e i processi psicologici che regolano la felicità sono stati analizzati dall’autore a partire dalle storie dei reduci della Seconda guerra mondiale che, dopo aver perso il lavoro, la casa e la propria stabilità economica hanno perso anche la capacità di vivere una vita appagante.

In questo caso, come sostenne anche lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung in un suo studio, i soggetti protagonisti erano stati traumatizzati dalla guerra stessa.

I traumi possono essere alla base dell’incapacità del soggetto di raggiungere il benessere, ma allo stesso tempo possono rappresentare, se accolti precocemente, terreno fertile per una nuova rinascita.

Se seguiamo la prospettiva di Csìkszentmihàlyi la felicità è uno stato intrinseco all’individuo e non può essere ricercato all’esterno, attraverso gratificazioni o piaceri che soddisfano la nostra psiche solo temporaneamente.

Felicità e Teoria del Flow

Ciò che permette di modificare il livello di felicità è l’introduzione dello stato di flusso. L’autore spiega bene nel suo manuale Flow. Psicologia dell’esperienza ottimale, come la felicità non possa essere considerata come una sensazione statica ed immutabile. Infatti, per provare felicità è necessario uno sforzo volontario.

‘Una briciola di volontà pesa più di un quintale di giudizio e persuasione’. Con questa frase il filosofo Arthur Schopenhauer intende sostenere che la forza di volontà è quell’unico seme interno che può realmente cambiare le sorti di ogni individuo.

La volontà è forse uno degli aspetti principali dell’Io cosciente e, come tale, se si acquisisce la capacità di entrarvi in contatto, essa porta ad importanti cambiamenti, anche sul piano neurochimico e neuropsicologico, che incidono positivamente sulla condizione di salute e benessere degli individui.

Sempre in base alla teoria del flow, la volontà è la chiave che permette di avere un certo grado di controllo sul livello di felicità. Dopo aver condotto diversi studi e aver intervistato artisti e atleti, l’autore ha affermato che l’immersione all’interno di uno stato di flow permette non solo di massimizzare il livello di felicità, ma anche di essere più creativi e produttivi.

Potremmo dunque dedurre che lo stato di infelicità sia dovuto all’assenza di volontà, di concentrazione e di obiettivi rispetto all’attività che si sta svolgendo.

Come raggiungere il Flow State e la felicità

Csìkszentmihàlyi ha analizzato, in particolare, otto caratteristiche per poter raggiungere il Flow State:

  • Avere obiettivi chiari. Questo è ciò che permette di agire in modo consapevole utilizzando le strategie più adatte per raggiungere lo scopo desiderato;
  • Avere un riscontro immediato. Questo permette alla propria mente di comprendere, tramite dei feedback auto-referenziati che si sta procedendo sulla strada giusta;
  • La concentrazione. Questo è l’elemento che permette alla mente di focalizzarsi su una sola attività;
  • La possibilità di concludere il compito con successo. Essa è regolata dall’impegno che si mette nell’attività che si sta svolgendo;
  • Il coinvolgimento totale che riguarda il puro desiderio di svolgere qualcosa, al di là del denaro o del riconoscimento sociale;
  • Perdere la coscienza di sé che permette la fusione tra individuo-compito;
  • Sentire di avere il controllo sull’ambiente;
  • La distorsione temporale, ossia la percezione che il flusso del tempo si sia modificato, accelerandolo o facendolo scorrere più lentamente.

La felicità, come lo stesso stato di flusso, è portata da cambiamenti a livelli neurofisiologici. Secondo lo scrittore Arne Dietrich una ridotta attivazione della corteccia prefrontale è collegata al Flow State. Quest’area è responsabile dello stato d’animo cosciente, pertanto quando ci si trova in uno stato di massima concentrazione si attiva un processo definito come ipofrontalità transitoria che porta alla distorsione del tempo, alla perdita della coscienza di sé stessi e alla mancanza di critica interna oltreché ad un aumento di creatività.

Ostacoli alla felicità

Oggigiorno, ciò che rende difficile il raggiungimento del Flow e della stessa felicità sono i cosiddetti ‘rapinatori di attenzione’ come gli smartphone, i social media e i videogame. Questi portano ad una gratificazione immediata e ad uno stato di benessere illusorio. Riempiono un vuoto temporaneo e abituano la mente a questo stato di sospensione e di incertezza in modo simile a come altre sostanze come alcool e droghe operano.

In base alla psicologia dell’esperienza ottimale, è essenziale al fine del raggiungimento della felicità o del benessere, uno stato di equilibrio interno. Questo è un ingrediente fondamentale di autorealizzazione individuale.

Trovare la motivazione per svolgere una determinata attività porterà conseguentemente ad uno stato di gratificazione costante che alimenterà il proprio senso di autoefficacia e la propria autostima, incidendo positivamente sull’intero benessere psicofisico.

Il benessere, dunque, non è tanto una meta da raggiungere o uno stato finale, quanto piuttosto un seme da coltivare quotidianamente come processo di realizzazione personale.

In conclusione, la felicità è una questione puramente personale. Questa è infatti il risultato di percorsi diversi che rispecchiano le proprie caratteristiche soggettive.

Cercare di omologarsi alle richieste della società allontana i soggetti dalla gioia portata dall’autenticità e dal rispetto di sé stessi e delle proprie volontà che bisognerebbe difendere a denti stretti.

 

Io mi fido di te. Storia dei miei figli nati dal cuore (2021) di Luciana Littizzetto – Recensione

Luciana Littizzetto condivide nel suo libro Io mi fido di te. Storia dei miei figli nati dal cuore la sua esperienza di affido raccontando il percorso di genitorialità affidataria compiuto con Jordan e Vanessa.

 

Un progetto di maternità e paternità che lega genitori e figli con un filo che attraversa la vita e unisce storie familiari diverse chiamando in gioco il desiderio di accompagnare nella vita, di proteggere, di accogliere. Un percorso affascinante e complesso che inizia dalla disponibilità di diventare genitori e di confrontarsi ogni giorno con le sfide della crescita di un figlio che ha incontrato molte difficoltà sin dall’inizio della sua vita.

L’autrice racconta la nascita del desiderio di genitorialità che non passa attraverso il corpo come processo generativo, ma dal cuore come desiderio di accompagnare un figlio in un momento della vita in cui non può vivere con la famiglia di nascita: un figlio con una storia complessa, con due famiglie, con reti relazionali  complicate che grazie all’affido trova un sostegno, un punto di appoggio per proseguire il proprio percorso in una famiglia che si rende disponibile ad accoglierlo come figlio.

Caro te. Femmina o maschio, poco importa. Te che non sei nato dalla mia pancia ma dal mio cuore. Te che hai una faccia diversa dalla mia, anche se tutti dicono che mi somigli. Te che la vita è bastarda, perché ti ha fatto nascere in un posto e rinascere in un altro. E non hai potuto scegliere. Nessuna delle due volte. Te che una mamma ce l’avevi ma poi n’è arrivata un’altra e adesso ne hai due ed è un gran casino….

Luciana Littizzetto descrive in modo delicato che la genitorialità nell’affido è un’esperienza diversa da quella biologica: non si basa sulla somiglianza, ma sulla diversità che arriva dal mondo e da questo punto inizia e si interseca la storia di un’altra famiglia, il percorso di madre e padre. Si parte da zero, ci si sperimenta genitori e figli nella quotidianità imparando a conoscersi e a vivere il proprio ruolo.

Genitori di cuore e figli di cuore, un progetto complesso, affascinante e che presuppone un cammino di condivisione di minuti e giorni che nel tempo formano il legame famigliare, ovvero esserci per l’altro, un figlio/a che sta diventando uomo e donna.

Nel raccontare il percorso dell’affido l’autrice definisce il momento del progetto: la scelta e la consapevolezza di aprirsi al mondo di una genitorialità molto diversa da quella tradizionale perché con l’affido si accolgono, nella maggior parte dei casi figli già grandi, con esperienze di vita complesse e a volte drammatiche, con una famiglia di nascita che in quel momento non riesce a prendersi cura di loro. Diventare genitori affidatari e adottivi ha come caratteristica, quindi, quella di accogliere un figlio che la vita ha spezzato e di accompagnarlo nella crescita anche attraverso la comprensione degli eventi traumatici vissuti.

La loro storia di  famiglia affidataria è iniziata con la disponibilità e una richiesta di affido all’età di quarantuno anni e quarantatré del compagno e rispettivamente di nove anni di Jordan, e undici anni di Vanessa, insomma  un universo di mondi, di storie, di età, di bisogni e desideri.

Un percorso pieno di emozioni, pensieri, preoccupazioni che partono da un comune sentire Ancora non li ho visti e sono già miei. Ma lo stesso è per il desiderio dei bambini che desiderano una famiglia e immaginano la possibilità di vivere in una famiglia, esattamente come raccontato per Jordan che nella fase di pre-affido era impaziente e spingeva perché Luciana e il compagno lo portassero finalmente a casa…aggiungendo che  in caso contrario e se non si sbrigavano lui avrebbe cercato altri genitori.

L’affido è un percorso a due direzioni: si diventa genitori affidatari e quindi si sceglie di accompagnare un figlio nel suo percorso di vita nella consapevolezza che manterrà i legami con la famiglia di nascita che per lui rappresentano la sua storia; di conseguenza i figli imparano a vivere in due famiglie o comunque a mantenere i contatti con la famiglia di nascita. L’autrice sottolinea che per Jordan e Vanessa, così come per i ragazzi che vivono questa esperienza, non è semplice tutto questo, anzi spesso è un gran casino… su cui comunque bisogna lavorare con l’obiettivo di stare bene.

I bambini si destreggiano tra le diverse figure nella quotidianità ed è così che la madre di nascita è chiamata ‘mamma’ mentre lei, mamma affidataria, è ‘Lu’, ma l’aspetto rilevante è che i figli, quando si confrontano con i compagni e insegnanti, la presentano come mamma. Ecco che Lu è riconosciuta nel ruolo che ha per loro nella quotidianità: una mamma presente, che segue, ascolta, parla, consiglia, ama, sgrida dolcemente quando serve, ma soprattutto guida.

L’affido nel libro è presentato nella vita di tutti i giorni come un aggrovigliarsi di momenti, di tensioni, di progetti, insomma una storia d’affetti che tra le diverse emozioni fa crescere e diventare grandi i figli, cambiare e trasformare gli adulti in genitori capaci di accompagnare i più piccoli nella loro vita. Il racconto è ricco di aneddoti sulla vita in famiglia, sul rapporto con i figli, con le altre mamme, con le insegnanti, come l’idea di Jordan appena arrivato a scuola e deciso a vendere gli autografi di Luciana con un articolato progetto dove li ritagliava dal diario.

La genitorialità diventa accompagnare un figlio in un  gioco di equilibrio continuo tra umori, emozioni barcollanti e sensazioni di fragilità e anche di percezione di imperfezione e instabilità. Questo è un messaggio importante del libro: diventare e essere madri e padri è un lavoro complesso che si confronta con l’imperfezione e gli errori per ripartire e cercare l’equilibrio in ogni giornata.

Luciana Littizzetto a questo proposito presenta le sue fragilità e la percezione di madre che si confronta con la propria imperfezione confrontandosi con la ‘madre perfetta’ dichiarando

Dio come le ho odiate queste mamme perfette… genitrici naturali di figli perfetti. Pitonesse dagli occhi a mirtillo sempre pronte a farti sentire inadeguata e inutile come il mignolo per le arpiste. A spampanarti il cuore, a te che ti danni l’anima nel tentativo di trasformare quel mucchio di detriti in un bambino tranquillo e felice. Provaci tu, madre gaudiosa, a inventarti madre a quarant’anni di due bambini di nove e undici anni senza un minimo di tirocinio….

Questa riflessione affonda nella descrizione dell’essere madre  cogliendo l’essenza di questo ruolo che si compone di un confronto continuo ‘con mille variabili’.

La descrizione delle diverse anime della maternità, crocevia di modi diversi di rapportarsi con i figli per aiutarli a crescere. In questo modo l’autrice racconta aneddoti sulla maternità dell’alligatrice, della pinguina imperatrice, della casuaria, della koala, della blatta rinoceronte, della femmina del quokka…’l’animale più felice del mondo’ e, infine, della giraffa con quel collo lungo, una gravidanza di 450 giorni, un cuore grande di 11 kg per 60 cm e una calma serafica mentre è lì a masticare le foglie degli alberi.

La riflessione di base è intorno alla felicità di essere madre e di accompagnare nella vita i cuccioli: il focus non è sulla madre perfetta, ma su una mamma felice che ama e sa che l’amore è un gioco continuo di tensioni tra emozioni contrapposte, è un percorso attraverso incertezze, paure, equilibri precari, ma con la meta chiara e  definita di accompagnare un figlio ad essere autonomo, indipendente e felice di vivere.

Le mamme imparano a fare le madri e in particolare le mamme affidatarie e adottive che conoscono i loro figli quando sanno già parlare e camminare, che spesso camminano sulle sabbie mobili, trovano compromessi e  interpretano il proprio ruolo rispettando sé stesse e il proprio modo di essere:

Ciascuna è madre a modo suo. Uniformarsi e tentare di eguagliare dei modelli diversi temo non sia una scelta salutare. Il tuo essere madre dipende da mille variabili. Dal carattere, dall’attitudine, dal mestiere che fai, dalla tua storia di figlia e di sorella, dalla tua esperienza di moglie o di compagna. Non sta agli altri giudicare. L’unica cosa che conta è il coraggio di guardarsi allo specchio e chiedersi: sto facendo tutto quello che posso? Se la risposta è sì, non c’è proprio niente da aggiungere.

Io mi fido di te. Storia dei miei figli nati dal cuore è un libro sulla famiglia, sulla genitorialità sociale, sulla condivisione e l’aiuto sociale che ricorda il bisogno dei bambini di trovare una famiglia disponibile all’accoglienza quando la vita ‘bastarda’ li ha gettati a terra e che racconta la semplicità, la gioiosità, le difficoltà e le fatiche della vita famigliare, qualsiasi essa sia. Un libro che ricorda l’importanza dell’adozione e dell’affido in un periodo storico in cui è sempre più difficile essere e diventare genitori e accogliere e rendersi disponibile a crescere un figlio che la vita ha segnato sin dai primi momenti. Un libro pieno di passione, di speranza nella vita e di fiducia nelle relazioni.

Quando ti controllo ma so che non dovrei farlo. L’influenza della gelosia comportamentale e del rimuginio nella coppia secondo una prospettiva LIBET

L’estrema gelosia romantica è una delle principali cause di disagio nelle coppie (Pines, 1998). I comportamenti dettati dalla gelosia possono essere ulteriormente rinforzati da una componente metacognitiva, come il rimuginio (Lehay e Tirch, 2008).

 

L’estrema gelosia romantica è una delle principali cause di disagio nelle coppie (Pines, 1998). Le emozioni associate a essa possono includere la rabbia, la paura, la tristezza, l’invidia e l’umiliazione; tutte emozioni che tipicamente hanno un impatto fortemente negativo sulla soddisfazione relazionale e sul benessere della coppia. Oltre alla componente emotiva, la gelosia può causare una serie di sintomi fisiologici quali dolori allo stomaco, difficoltà nel dormire, sensazioni di affaticamento, tremore alle mani e battito cardiaco aumentato.

Osservando la gelosia romantica attraverso una prospettiva multidimensionale, essa si rivela essere composta da tre differenti dimensioni: una dimensione cognitiva, la quale fa riferimento alla frequenza di sospetti e preoccupazioni di un individuo riguardo la possibilità che il partner possa provare interesse verso un’altra persona; una dimensione emotiva, che fa riferimento al grado di attivazione emotiva che un individuo esperisce quando si trova ad affrontare una situazione di gelosia; una dimensione comportamentale, che comprende un insieme di azioni volte al controllo del proprio partner, al monitoraggio dei suoi spostamenti e all’invasione della sua privacy, con lo scopo di affrontare la minaccia di un rivale, sia esso reale o immaginario, che possa compromettere la stabilità della relazione (Pfeiffer e Wong, 1989; Elphinston et al., 2013).

Tali comportamenti possono essere ulteriormente rinforzati da una componente metacognitiva, come il rimuginio (Lehay e Tirch, 2008). Esso, infatti, riveste un ruolo chiave nei pensieri che elicitano i comportamenti gelosi. Lo stato di preoccupazione verso il rivale può causare una disfunzionale ipervigilanza costante, che ha lo scopo di prevenire ogni potenziale minaccia, o di preparare la persona a essere in grado di gestire al meglio tale minaccia, qualora si verificasse. Questo stato di continua ipervigilanza rende l’individuo molto suscettibile all’interpretazione errata di ogni tipo di stimolo, sia esso anche neutro, associando ogni informazione ottenuta a possibili minacce verso la stabilità della relazione.

La gelosia comportamentale

La gelosia comportamentale fa riferimento alla frequenza con la quale un individuo attua dei comportamenti di controllo (Elphinston et al., 2011). Può essere espressa in differenti modalità, per esempio si possono attuare comportamenti di sorveglianza volti a controllare il partner o comportamenti aggressivi e violenti (Elphinston et al., 2013). Il continuo porre domande di carattere inquisitorio, il parlare continuamente della propria gelosia e l’eccessiva richiesta di sicurezza dal proprio partner sono azioni che solitamente hanno un impatto altamente negativo sulla soddisfazione diadica (Yoshimura, 2004).

La caratteristica principale dell’individuo geloso, solitamente, è il bisogno di controllare e mantenere la supremazia sulla relazione, anche in condizioni di stabilità (Giusti e Frandina, 2017). Questa ricerca di controllo è caratterizzata da un’attenzione minuziosa ad ogni particolare, rendendo la relazione una continua forma di controllo sul partner, causando così uno spostamento dell’attenzione sulla ricerca di dettagli che confermino i propri timori, piuttosto che sul tentativo di controllare i propri comportamenti.

La gelosia e il rimuginio

Spesso, il rimuginio ansioso compromette diverse aree di vita di un individuo, causando problematiche lavorative, interpersonali e di coppia (Ruiz et al., 2019). Le preoccupazioni inerenti alla relazione di coppia sono frequentemente incentrate sui sentimenti del partner, la stabilità della relazione e il suo futuro, giustificando così la presenza di atti di gelosia spesso eccessivi, che possono risultare in disagi relazionali, fino ad arrivare, in alcuni casi, alla separazione della coppia. A livello metacognitivo, l’individuo geloso è sicuro del fatto che un’ipervigilanza perenne sia utile per prevenire ogni tipo di sorpresa, preparandolo al peggio e facendo in modo che non soffra eccessivamente nel momento in cui scoprirà la verità (Leahy e Tirch, 2008). Tipicamente, l’individuo geloso rimuginante ha paura di lasciare scoperta la guardia e di trovarsi impreparato ad affrontare la minaccia. È presente una forte attivazione cognitiva persistente, in quanto la persona gelosa continua a cercare nella sua mente pensieri o memorie riguardanti la gelosia, che possano giustificare i suoi pensieri.

Inoltre, il rimuginio elicita delle strategie di coping disfunzionali che possono compromettere negativamente la soddisfazione relazionale (Leahy e Tirch, 2008). Alcune di queste strategie disfunzionali possono comprendere l’attacco al partner, sotto forma sia di offese verbali che di aggressioni fisiche, oltre al continuo monitoraggio dei suoi spostamenti, con la possibilità di arrivare a minacce dirette al partner. In aggiunta, è possibile che l’individuo geloso rimuginante sviluppi bias attentivi, come la lettura della mente (e.g. ‘Lei è interessata a lui’), la personalizzazione (e.g. ‘Lui sta leggendo il giornale perché non è più interessato a me’), la previsione catastrofica del futuro (e.g. ‘Mi lascerà’) e la generalizzazione (e.g. ‘Lui fa sempre così’). Inoltre, anche gli schemi emotivi dell’individuo geloso hanno un ruolo importante, in quanto condizionano significativamente la visione della realtà della persona gelosa. L’intensità emotiva viene utilizzata come rinforzo della veridicità delle proprie idee di pericolo per la relazione, soprattutto se le emozioni esperite dall’individuo risultano incontrollabili.

La coppia e la gelosia da una prospettiva LIBET

Osservando questi comportamenti attraverso una prospettiva LIBET (Life themes and plans Implications of biased Beliefs: Elicitation and Treatment; Sassaroli et al., 2017), essi potrebbero essere letti come piani semi-adattivi, e possono essere percepiti come utili e/o incontrollabili.

Secondo il modello LIBET, l’interazione tra i partner avviene tramite l’utilizzo delle proprie convinzioni; in base a esse gli individui agiscono, pensano, vivono emozioni e pensano sui propri pensieri e sui pensieri del proprio partner, interagendo con le proprie convinzioni distorte, i propri pensieri, le proprie emozioni e i propri comportamenti (Rebecchi e Vinai, 2017). All’interno della coppia, l’individuo ha costruito, e costantemente costruisce, le sue credenze sulla coppia, ovvero assunti, standard, comportamenti relazionali e credenze metacognitive. L’interazione tra i piani dei singoli genera il piano di vita della coppia, che ne rappresenta l’unicità, ed è dato dall’insieme delle credenze relazionali di entrambi i partner (e.g. credenze definitorie su scopi e modalità di essere della coppia), dalle metacredenze (e.g. tolleranza nel fronteggiare le differenze e i cambiamenti) e dagli standard (e.g. convinzioni sulla relazione e il partner ideali).

Quando i piani semi-adattivi di entrambi i partner si incontrano, e interagiscono tra loro, può accadere che l’interazione che ne nasce diventi rigida e inflessibile, causando un’escalation di cicli interpersonali disfunzionali (Rebecchi e Vinai, 2017). Per esempio, può accadere che in una coppia l’individuo decida di non tollerare più gli atteggiamenti e i comportamenti di gelosia del partner, che ha sempre sopportato, poiché ritiene che siano diventati eccessivi. In questo caso, probabilmente l’individuo reagirà con comportamenti ed emozioni di distacco e rifiuto nei confronti del partner geloso. Quest’ultimo, di conseguenza, aumenterà il suo livello di ansia e i comportamenti di controllo causati da essa.

Se osservate singolarmente, la gelosia comportamentale e il rimuginio risultano quindi essere due variabili che hanno una forte influenza sulla soddisfazione diadica. Nel caso in cui ci dovesse esserci un’interazione tra le due, la soddisfazione relazionale risulterebbe ulteriormente compromessa. Fortunatamente, è possibile affrontare queste problematiche con un percorso di psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, partendo da una concettualizzazione del caso condivisa, per poi indagare i pensieri irrazionali che sono alla base dei comportamenti di gelosia (Lehay e Tirch, 2008).

 

Slamsex: quando iniettare droga diventa pratica sessuale

Il termine slamsex indica un particolare modo di assumere droghe e un particolare tipo di sesso. Lo slamming si riferisce alla pratica di iniettare droghe – tipicamente la metanfetamina – per via endovenosa. Accostare il termine ‘slamming’ con ‘sesso’ significa fare della somministrazione endovenosa di droga l’elemento definitivo nella delineazione di una pratica sessuale.

Articolo tratto da “Injecting as a sexual practice: Cultural formations of ‘slamsex’ di Race e colleghi (2021)

 

Lo slamsex

Il termine slamsex trova la sua origine nel gergo gay degli ultimi anni per indicare un particolare modo di assumere droghe e un particolare tipo di sesso. Lo slamming si riferisce in questo contesto alla pratica di iniettare droghe – tipicamente la metanfetamina – per via endovenosa. Accostare il termine ‘slamming’ con ‘sesso’ significa fare di una via di somministrazione della droga l’elemento definitivo nella delineazione di una pratica sessuale.

Lo slamsex può essere considerato una sottocategoria del chemsex, un termine che i professionisti hanno trasposto dal gergo gay per nominare quello che ritenevano come un insieme problematico di comportamenti (Race, 2018). Ma laddove le definizioni del chemsex specificano l’uso di particolari sostanze – tipicamente metanfetamina, gamma idrossibutirrato/gamma butirrolattone (GHB/GBL) e mefedrone – e contesti (incontri mediati da app) come caratteristiche integranti della pratica, lo slamsex fa riferimento a uno specifico modo di somministrare le relative sostanze, ed è emerso come oggetto di interesse solo più recentemente. Inquadrare lo slamming come una preferenza sessuale implica dirigere l’attenzione agli attaccamenti erotici che alcuni praticanti sviluppano a vari aspetti dell’esperienza, tra cui: i rituali di preparazione e sistemazione delle droghe e delle attrezzature; le attività coinvolte nella somministrazione della droga e i vari ruoli che questo comporta;  le sensazioni caratteristiche e le intensità dello ‘sballo’ e le possibilità sessuali a cui queste danno luogo. In quest’ottica, l’attaccamento delle persone a questo metodo di somministrazione della droga è legato ai loro desideri per un determinato tipo di esperienza sessuale. Questa modalità di somministrazione della droga potrebbe dunque essere considerata parte dell’incontro sessuale, piuttosto che semplicemente un mezzo per un fine.

I significati dello slamsex

Mentre gli studi preliminari sono stati poco espliciti sui piaceri, i desideri e le motivazioni che animano la pratica, preoccupati principalmente dai rischi a essa associati – specialmente la trasmissione dell’HIV e dell’epatite C (Scheibein et al., 2020) – lo studio di Race et al. (2021) ha esplorato le dimensioni qualitative dello slamsex e i significati, gli attaccamenti e i ruoli che lo costituiscono come pratica sessuale.

Per indagare al meglio il fenomeno dello slamsex sono state inizialmente raccolte le interviste semi-strutturate approfondite di 42 persone coinvolte nel Chemical Practices Project, uno studio australiano che indaga il consumo di droghe legali ed illegali nella comunità LGBTQ+. L’analisi qualitativa dello studio di Race e colleghi (2021) si basa su 13 interviste fatte a chi avesse precedentemente dichiarato di fare uso di metanfetamina, somministrata per endovena, in un periodo di tempo che andava dall’anno precedente ad almeno dieci anni. Tutti i partecipanti erano uomini apertamente omosessuali di un’età compresa fra i 27 ed i 66 anni, provenienti da Sydney o Melbourne. Le interviste sono state audio registrate, trascritte, rese anonime tramite l’assegnazione di pseudonimi e codificate tramite il software NVivo.

Nelle interviste sono state indagate diverse aree legate al fenomeno quali la differenza fra assumere la metanfetamina endovena o per inalazione e il ruolo della sostanza e della ‘ritualità’ dello slamming all’interno delle relazioni erotiche.

Lo slamsex e l’iniezione di sostanze

Dalle interviste condotte è emerso che, sebbene esistano numerose tipologie di droghe che possano essere assunte per scopi differenti, la ricorrenza e la coerenza del collegamento tra slamming e sesso nei resoconti dei partecipanti potrebbe essere la prova di una cultura sessuale emergente che valorizza l’intensità delle sensazioni corporee. Alcuni praticanti dello slamsex rivestono di significati erotici la figura dell’’iniettore’, il quale si fa carico di iniettare la droga in modo responsabile, prendendosi cura del partner sessuale. La scelta di farsi iniettare la sostanza si configura come un’attenta negoziazione tra le fantasie sessuali interpersonali e i desideri relazionali, la visione erotica legata al sottomettersi alle competenze altrui e il grado di responsabilità che si è disposti ad assumere quando si inietta la metanfetamina. Il ruolo dell’iniettore molto spesso viene percepito a tutti gli effetti come un lavoro che comporta delle ricompense: status sociale, piacere vicario, persino retribuzione e qualsiasi altro beneficio che potrebbe derivare dall’essere considerato per la propria capacità di dare piacere agli altri. Dallo studio è emerso inoltre un uso consapevole delle siringhe utilizzate per le iniezioni, che offre il potenziale per creare relazioni di fiducia, sottomissione, vulnerabilità e cura tra partecipanti, contribuendo a delineare relazioni e ruoli slamsex come l’iniettore competente, il destinatario sottomesso e la loro dinamica erotica. Alcuni partecipanti hanno affermato di preferire l’iniezione all’inalazione poiché la prima consente loro di sperimentare un maggiore senso di connessione erotica. Il fenomeno dello slamsex porta con sé delle preoccupazioni legittime relative ai rischi correlati all’iniezione e, a tal proposito, Race (2021) suggerisce di pensare, insieme a chi pratica slamsex, a possibili strategie di riduzione dei rischi  che incontrino le esigenze relazionali, erotiche e semantiche di chi adotta questa pratica sessuale.

 

Perché si crede alle teorie del complotto

Le teorie del complotto resistono a qualunque prova di falsificazione, non sono quindi verificabili in quanto si basano su assunti e teorie non dimostrabili.

 

Secondo il vocabolario Treccani on line, un complotto è una Cospirazione, congiura, intrigo ai danni delle autorità costituite o di persone private.

I complotti esistono, fin dall’antichità. Fu un complotto quello ordito dai senatori a danno di Giulio Cesare, che fu assassinato il 15 marzo del 44 a.C., così come fu un complotto quello architettato dal presidente americano Richard Nixon – il famoso scandalo Watergate – contro gli avversari democratici, che portò alle sue dimissioni l’8 agosto 1974 (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019)

Definizione di teorie del complotto

Se quindi i complotti esistono cosa si intende quindi per teorie del complotto?

Tali teorie prevedono che un gruppo segreto di cospiratori, ordisca e manovri tutto quello che accade (Uscinski, 2017). Nelle teorie del complotto nulla è come sembra e niente accade per caso (COMPACT Education Group, 2020). L’idea di base delle teorie del complotto è che, cercando a fondo, si trovano connessioni tra persone, fatti ed organizzazioni che chiariscono cosa sta succedendo in realtà (COMPACT Education Group, 2020), perché in fondo, “sotto sotto qualcosa non va” (Stephan Lewandosky e John Cook, 2020)

Le teorie complottiste resistono a qualunque prova di falsificazione (Uscinski, 2017). Esse non sono quindi verificabili in quanto si basano su assunti e teorie non dimostrabili.

È comunque importante determinare quando una notizia risulta attendibile visto che talvolta scomode verità sono bollate a fini politici come fake o teorie cospirative (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Bisogna poi tenere presente che vi è differenza tra fake news e teorie del complotto. Ciò in quanto, in linea generale, le fake news sono intenzionalmente diffuse, mentre i fautori delle teorie del complotto credono veramente nelle teorie medesime. Inoltre, sempre in linea generale, la narrativa retrostante le fake news non prevede l’intervento di sinistri gruppi di cospiratori, che sono invece sempre presenti nelle teorie del complotto (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Le teorie del complotto ‘storiche’

Nella storia del complottismo possiamo individuare alcune teorie ‘storiche’, come quella sull’assassinio del Presidente Kennedy (Karen M. Douglas e altri, 2019). Infatti, in molti credono che Kennedy non sia stato ucciso da Lee Harvey Oswald, ma da un gruppo di cospiratori composto in varie maniere, a seconda della teoria a cui si decide di credere (Posner, 1993) (Adams, 2011). Il tema sull’assassinio Kennedy è molto sentito negli Stati Uniti, dove di tanto in tanto si fanno sondaggi sull’argomento, che danno risultati diversi a seconda del momento storico (AEI Public Opinion Studies, 2013).

Queste variabilità nei risultati sono confortate dagli studi che hanno evidenziato che in periodi di sfiducia nelle istituzioni, si tende a credere di più alle teorie del complotto (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019). Nello stesso senso anche nei periodi di incertezza (Karen M. Douglas e altri, 2019) (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019) e in quelli di instabilità economica (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Altre teorie del complotto, che possiamo definire ‘consolidate’ sono quelle relative al presunto falso sbarco sulla Luna (AEI Public Opinion Studies, 2013) nonché quella relativa all’11 settembre 2001, che molti credono sia stato un ‘inside job’ del governo americano. Anche in quest’ultimo caso, a seconda della teoria, il governo ha lasciato che accadesse o ha partecipato attivamente a organizzare la demolizione delle Torri Gemelle (AEI Public Opinion Studies, 2013).

È stato inoltre visto (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019) che i democratici maggiormente credono a queste teorie sull’11 settembre, considerato che all’epoca il presidente statunitense era il repubblicano George Bush Jr.

Le ‘nuove’ teorie del complotto

In questi ultimi anni, ‘nuove’ teorie del complotto si aggiungono alle ‘vecchie’ (Signorelli, 2021) come la teoria di QAnon, che vede Trump come un eroe che combatte segretamente contro i Democratici che, secondo la teoria, sarebbero satanisti e pedofili.

Trovandoci in tempo di pandemia non potevano poi mancare le teorie sul vaccino contro il COVID 19 che si affiancano alle ‘tradizionali’ teorie antivacciniste (Zheng Yang e altri, 2021), regalo di Andrew Wakefield.

Chi crede alle teorie del complotto e perché

È stato visto che i complottisti in genere credono in più di una teoria (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019) (Robert Brotherton e altri, 2013). Inoltre è stato osservato che possono anche credere in più teorie che riguardano uno stesso argomento, anche se si contraddicono tra di loro.

Ad esempio, molti credono che la Principessa Diana sia morta per mano dell’MI6 – il servizio segreto britannico – ma che abbia anche simulato la sua morte (Karen M. Douglas e altri, 2019) (Karen M. Douglas e altri, 2012). In senso analogo c’è chi crede che Osama Bin Laden fosse già morto al momento del blitz degli americani ma che, nel contempo, non è vero che sia morto (Karen M. Douglas e altri, 2012).

In linea generale, i complottisti si collocano ai margini della società (Karen M. Douglas e altri, 2019) (Karen M. Douglas e altri, 2017) e sono insoddisfatti della loro situazione. Essi, quindi, cercano di attribuire la colpa della loro situazione ad altri, in genere alle istituzioni pubbliche (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

È stato però anche osservato che gli aderenti alle teorie cospiratorie, talvolta cercano di soddisfare bisogni di socializzazione (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

In ogni caso, credere in una teoria porta a far parte di gruppi nei quali prevale la logica del ‘noi’ contro ‘loro’ (Karen M. Douglas e altri, 2019). Alcuni studi, in particolare statunitensi, hanno poi evidenziato che gli afroamericani sono in genere più propensi a credere alle teorie complottiste (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Ulteriori motivi per credere alle teorie del complotto sono il bisogno di sentirsi unici e ‘diversi’ dagli altri (Anthony Lantian e altri, 2015), nonché la convinzione di avere conoscenze ‘segrete’ che nemmeno gli esperti hanno (Karen M. Douglas e altri, 2019). È stato poi osservato che gli aderenti alle teorie del complotto hanno scarse capacità di pensiero logico (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019; Viten Swami e altri, 2014) e bassi livelli di istruzione. Talvolta l’adesione a teorie complottiste soddisfa dei bisogni narcisistici di gruppo (Karen M. Douglas e altri, 2019).

Le conseguenze delle teorie del complotto

L’adesione alle teorie del complotto può comportare molte conseguenze, in generale da evitare.

Può quindi aversi un minore impegno in politica o anche una mancata adesione alle azioni per la lotta contro il cambio climatico (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

È stato poi evidenziato che i soggetti che aderiscono alle teorie no-vax sono ovviamente contrari alla vaccinazione, sia in linea generale, sia per quella specifica contro il COVID 19 (Zheng Yang e altri, 2021). Il paradosso che risulta da alcune ricerche è che comunque l’anti vaccinista, pur non negando l’esistenza del COVID 19, rifiuta di mettere in atto le politiche di prevenzione, come l’uso della mascherina ed il distanziamento sociale (Kinga Bierwiaczonek e altri, 2020). Quanto detto comporta, ovviamente, grossi rischi sia per lo stesso no-vax, sia per la salute pubblica.

I complottisti, peraltro, lungi dall’essere un puro fenomeno di folclore, si sono resi spesso responsabili di azioni violente (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019). Ad esempio, in tempi recenti (6 gennaio 2021) gli aderenti alla teoria di QAnon, hanno invaso il Campidoglio a Washington causando cinque morti.

Ulteriori esempi sono poi dati dalle follie di Timoty Mc Veigh e Anders Breivik (Karen M. Douglas e altri, 2019). Il primo è responsabile per l’attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, che causò la morte di 168 persone. Breivik, norvegese, è invece l’autore degli attentati del 22 luglio 2011 in Norvegia, che determinarono 77 vittime (Karen M. Douglas e altri, 2019) a causa dell’adesione alle teorie dell’islamizzazione (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Tali azioni omicide sono coerenti con i risultati di alcune ricerche (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020) le quali hanno evidenziato che i complottisti ritengono accettabile l’uso della violenza. I ‘mezzi forti’ sono comunque ritenuti accettabili più dagli uomini che dalle donne (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020)

In alcuni casi è stato però evidenziato che la ‘spinta’ delle teorie del complotto può influenzare in senso positivo l’azione delle istituzioni pubbliche, inducendo ad una maggiore trasparenza delle stesse (CREST – Centre for Research and Evidence on Security Threats, 2019).

Come parlare ai complottisti

Non è facile parlare ai complottisti perché il loro modo di ragionare si basa sul sospetto e sul rifiuto delle prove (Stephan Lewandosky e John Cook, 2020). Considerato che i complottisti ritengono di essere liberi pensatori, è stato suggerito che ci si dovrebbe appellare all’utilizzo del pensiero critico, per poi ridirezionarlo al fine di valutare in maniera adeguata le evidenze ed i fatti accertati (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020).

Si ritiene comunque opportuno evitare di ridicolizzare i complottisti (Stephan Lewandosky e John Cook, 2020). Sempre molto elevati sono poi i rischi di ‘backfire effect’ cioè il rifiuto di qualsiasi evidenza e l’utilizzo della stessa come prova del complotto (Federico Vegetti e Levente Littvay, 2020).

 

DSM-5-TR: quali novità?

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quinta edizione, Text Revision, DSM-5-TR, è la risorsa più completa e attuale di cui i professionisti della salute mentale possano disporre.

 

Il DSM-5-TR, rispetto all’edizione precedente, include testi e riferimenti scientifici completamente revisionati, nonché un aggiornamento dei criteri diagnostici e dei codici ICD-10-CM.

Inoltre presenta un nuovo disturbo, il Disturbo da Lutto Persistente, e anche i codici per il comportamento suicida e autolesionismo non suicidario, utilizzabili dal clinico senza la necessità di porre alcun’altra diagnosi.

In uscita nel mese di marzo 2022, DSM-5-TR fornisce una presentazione coerente e aggiornata di criteri, codici diagnostici e del testo (American Psychiatric Association, 2021).

Quali novità nel DSM-5-TR?

  • Testo completamente rivisto per ciascun disturbo con sezioni aggiornate su caratteristiche associate, prevalenza, sviluppo e decorso, fattori di rischio e prognostici, cultura, marcatori diagnostici, suicidio, diagnosi differenziale e altro ancora.
  • Aggiunta del disturbo da Lutto Persistente alla Sezione II.
  • Oltre 70 set di criteri modificati con utili chiarimenti dalla pubblicazione del DSM-5
  • Introduzione e utilizzo del manuale completamente aggiornati per guidare l’utente nell’utilizzo e per fornire una terminologia comune.
  • Considerazioni sull’impatto del razzismo e delle discriminazioni sui disturbi mentali.
  • Nuovi codici per segnalare e monitorare il comportamento suicidario e autolesionismo non suicidario, a disposizione di tutti i medici di qualsiasi disciplina e senza la necessità di alcun’altra diagnosi
  • Ripristinato il ‘Disturbo dell’umore non specificato’ per presentazioni di umore misto che non soddisfano i criteri per un disturbo bipolare o depressivo.
  • Codici ICD-10-CM completamente aggiornati e implementati dal 2013, inclusi oltre 50 nuovi aggiornamenti di codifica, per intossicazione e astinenza da sostanze e altri disturbi.
  • Classificazione diagnostica aggiornata e riprogettata.
  • Due disturbi sono stati rinominati: la disabilità intellettiva è ora rinominata disturbo dello sviluppo intellettuale e il disturbo di conversione è rinominato disturbo da sintomi neurologici funzionali.
  • Aggiornamenti della terminologia e della nomenclatura. Il termine ‘neurolettico’ viene sostituito da altri termini che dipendono dal contesto in cui viene utilizzato. Verrà utilizzato ‘Farmaco antipsicotico’ quando ci si riferisce al trattamento dei sintomi psicotici, mentre ‘medicinali antipsicotici o altri agenti bloccanti i recettori della dopamina’ quando ci si riferisce alla classe farmacologica più ampia. Questa decisione è stata presa poiché il termine neurolettico enfatizzava gli effetti collaterali. Pertanto non sarà più utilizzato se non nel caso della ‘sindrome neurolettica maligna’.
  • Aggiornamenti significativi alla terminologia utilizzata per descrivere la disforia di genere. Il termine ‘genere desiderato’ è ora sostituito da ‘genere esperito’, il termine ‘procedura medica per il cambio di sesso’ è ora ‘procedura medica di affermazione del genere’ e il termine ‘maschio alla nascita’/’femmina alla nascita’ è ora ‘maschio assegnato all’individuo /femmina alla nascita’.

Disturbo da Lutto Persistente nel DSM-5-TR

Il disturbo da Lutto Persistente o Prolonged Grief Disorder (PGD) è il risultato di anni di ricerca ed esperienza clinica che indicano che alcune persone sperimentano un’incapacità pervasiva a superare il lutto per la perdita di una persona cara e tali sintomi sono così gravi da influenzare il funzionamento quotidiano dell’individuo. Si stima che in seguito alla perdita non violenta di una persona cara, 1 adulto su 10 sia a rischio di sviluppare un disturbo da lutto persistente.

Codici comportamento suicidario e autolesionismo non suicidario nel DSM-5-TR

I codici del comportamento suicidario e dell’autolesionismo non suicidario compaiono nella Sezione II, capitolo ‘Altre condizioni che possono essere al centro dell’attenzione clinica’. Questo capitolo presenta condizioni e problemi che non sono disturbi mentali di per sé, ma per i quali è utile disporre di un modo sistematico di registrazione, per i ricercatori, perché può aiutarli a tenere traccia della prevalenza e delle correlazioni, e per i clinici, perché queste condizioni possono giustificare attenzione continua.

Il codice dei sintomi del comportamento suicidario può essere utilizzato per le persone che si sono impegnate in comportamenti potenzialmente autolesionistici con almeno una certa intenzione di morire a causa dell’atto. La prova dell’intenzione di porre fine alla loro vita può essere esplicita o dedotta dal comportamento o dalle circostanze. Un tentativo di suicidio può comportare o meno un vero e proprio autolesionismo.

Invece, il codice dei sintomi dell’autolesionismo non suicidario può essere utilizzato per le persone che hanno intenzionalmente inflitto dei danni al proprio corpo e che di conseguenza possono presentare: sanguinamento, lividi o dolore (ad esempio, tagliando, bruciando, pugnalando, percuotendo o eccessivo sfregamento) in assenza di intenti suicidi.

Per quali disturbi sono stati revisionati i criteri nel DSM-5-TR?

Inoltre, sono state apportate modifiche alle definizioni degli specificatori per diversi disturbi (Moran, 2021).

In Conclusione il DSM 5 -TR, in uscita a marzo 2022, sembra apportare innumerevoli modifiche di varia natura, dimostrando di essere uno strumento adattivo e perfettibile, sempre migliorabile per poter essere più adeguato al raggiungimento degli obiettivi preposti. Non resta che aspettare l’uscita, che per adesso è disponibile solo in lingua inglese.

 

Le prigioni esistenziali in ‘America Latina’ (2022) – Recensione del film

Nella recensione a seguire si proporrà una rilettura psicologica del film America Latina, proponendo al lettore alcuni intrecci con la letteratura di stampo esistenzialista.

 

Attenzione! L’articolo può contenere spoiler

Introduzione

America Latina è un film tagliente, crudo, con un color grading dalle tinte oniriche e febbrili.

Alcune scene paiono quasi accostarlo a un tipico B-movie, sia anche per l’intento abbastanza esplicito di disturbare l’attenzione dell’osservatore – che ne risulta, in maniera magistrale, puntualmente sospesa.

Le colonne sonore, firmate dal trio bergamasco dei Verdena, aggiungono ulteriore acidità corrosiva e spessore emotivo al susseguirsi di scene horror e, solo secondariamente, dai toni di thriller psicologico.

I dialoghi stringati, l’ambientazione spazio-temporale volutamente vaga e poco esplorata, sono tutti elementi atti a descrivere il reale set della narrazione: le coordinate interiori del protagonista che, al tempo stesso, è anche antagonista. In effetti, l’intero film si innesta proprio lungo questa ambivalente tensione che, l’attore stesso, riesce bene ad incarnare e performare nel corso della pellicola.

La trama è nota:

Massimo è un dentista di Latina benestante, felicemente sposato e con due figlie. Un giorno come un altro, scende in cantina per una faccenda domestica e vi trova una ragazza legata e imbavagliata che chiede aiuto (Wikipedia).

Kafka in America Latina

Personalmente ho trovato l’attore condannato a vivere, in maniera ossessiva e perentoria, un dramma Kafkiano, più precisamente, è tutto lo schema narrativo che assume caratteristiche del tutto sovrapponibili alla trama del Processo. (Kafka, 2004). Difatti, entrambi esordiscono in medias res, focalizzandosi su di un personaggio – forse innocente o forse no – che diviene vittima di un ingranaggio che lo incastra e lo condanna ad uno sterile eterno ritorno.

Quanto detto, ricorda anche lo schema della Metamorfosi di Kafka (2004), nel cui racconto il protagonista si risveglia d’un tratto – senza particolari premesse logiche degne di nota – nei panni di uno scarafaggio.

Ulteriore aspetto in comune con le opere di Kafka, rimarcato nel film in questione, pare essere il costante vissuto d’angoscia che l’attore intrattiene con la quotidianità.

Molti sono i primissimi piani dal taglio claustrofobico, i colori desaturati e le sequenze, in cui il respiro affannoso del dentista di Latina prevale su tutto il resto, espandendosi nel corpo dello spettatore, ennesimo partecipe innocente di tanta oppressione (Beebe & Lachman, 2013).

Dostoevskij in America Latina

Il rapporto stesso, che l’attore intrattiene con l’autorità paterna, è sorretto da una serie di schemi ricorrenti e disfunzionali, connotati da forti tratti di impotenza. Tali schemi, lo porteranno a un continuo processo di (auto)sabotaggio implicito, tali da richiamare, alla mente di chi scrive, temi tipici del celebre Delitto e Castigo (Dostoevskij, 2014).

Anche qui, come accadeva a Raskolnikov nel romanzo di cui sopra, i dubbi ossessivi di carattere morale paiono far desistere l’attore dagli atti definitivi che, solo un attimo prima, s’era posto di portare a termine con una certa convinzione. Questo tema – quello della redenzione – pare emergere in maniera pregnante proprio nell’epilogo del film che, come un progressivo colpo di scena, andrà chiarendosi, sin dai primi secondi della storia, agli occhi degli spettatori.

Questo profondo senso di colpa implicito che il dentista rimuove, dissocia e proietta fuori da sé – in maniera allucinatoria – pare, a volte, prender forma nei compulsivi lavaggi delle mani – frammenti intrusivi della sua quotidiana deformazione professionale; la stessa, talvolta, che lo porterà ad intrattenere un rapporto – addirittura di cura – con la vittima segregata e legata nel suo scantinato e a cui riserverà le proprie attenzioni morbose e confuse (Farina & Liotti, 2018; Bromberg, 2014).

Si potrebbe pensare che la scelta scenografica di relegare la vittima nelle Memorie del sottosuolo (Dostoevskij, 2021; Jung, 1991) – ossia, collocandola in cantina – sia frutto di una precisa scelta dei fratelli d’Innocenzo: quella di rappresentare gli aspetti profondamente dissociati della casa interiore del protagonista; lo stesso che, quando volta le spalle alla porta del seminterrato, è ben attento a chiuderla a chiave con quattro mandate. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

In compenso, la vita del dentista risulta costellata da una fantasmatica famiglia, persino spensierata e dalle vesti bianche lucenti, apparentemente pulite da ogni forma di pericolo e bruttura.

Per altro, forse è proprio il disperato tentativo del protagonista di mantenere coesa la propria integrità morale – gran lunga aldilà dell’esame di realtà – a terrificare in maniera spettrale lo spettatore, del tutto immerso in questo teatro splittato (Verdesca, 2018a; 2020a;2020b) .

Niente è come sembra: prigioniero di sé stesso

Mi preme concludere che, a pellicola conclusa, una domanda sorgerà forse lecita: chi era il vero prigioniero della storia?

In questo punto cieco, in questo drammatico fraintendimento, si nasconde quell’ordinaria follia, discretamente dipinta – nei tratti più introspettivi – dai fratelli d’Innocenzo.

Conclusione

Se qualcuno dovesse domandarsi se tale film descriva accuratamente i disturbi dissociativi di identità (Morrison, 2014) la risposta, a parer di chi scrive è un no. Secco.

Piuttosto, esso tratteggia le prigioni esistenziali delle terre di nessuno ad essi connesse, dove l’isolamento sociale amplifica ed affila i lati cruenti di cui l’uomo può divenir vittima.

Un film, dunque, che parla di memorie in frammenti, di narrazioni vitali ridotte in cocci – ben in vista nella locandina ufficiale del film – che tentano d’esser tenuti, invano, uniti… restituendo un puzzle rattrappito e confuso che tanto racconta dell’incommensurabile solitudine interiore.

 

AMERICA LATINA – Guarda il trailer del film:

Un momento di consapevolezza prima della morte: la lucidità paradossale nei pazienti con demenza

La lucidità paradossale è un episodio di lucidità inaspettata, spontanea e rilevante in un paziente che si presume abbia perso permanentemente la capacità di interazione verbale o comportamentale a causa di un processo progressivo e fisiopatologico di demenza (Mashour et al., 2019).

 

Che cos’è la lucidità paradossale

Gli operatori sanitari che si occupano di demenza hanno riportato alcuni episodi in cui i pazienti, spontaneamente e inaspettatamente, parlano o si comportano in modi che sembrano suggerire lucidità e consapevolezza del loro ambiente e riacquistano la memoria e le funzioni verbali che sembravano aver perduto (Normann et al., 2006).

Il termine più utilizzato per inquadrare questo episodio di remissione è lucidità paradossale, denominato lucidità terminale quando esso si verifica in prossimità della morte. La lucidità paradossale è un episodio di lucidità inaspettata, spontanea e rilevante in un paziente che si presume abbia perso permanentemente la capacità di interazione verbale o comportamentale a causa di un processo progressivo e fisiopatologico di demenza (Mashour et al., 2019).

Gran parte di ciò che sappiamo attualmente su questo fenomeno si basa su informazioni derivanti dalla vecchia letteratura medica, specialmente del XIX secolo, quando gli studi di casi individuali erano un elemento più comune. In seguito, l’interesse per il fenomeno si è affievolito e sono stati pubblicati pochi rapporti o discussioni sull’argomento. Per esempio, Witzel (1975) ha seguito 250 pazienti durante le settimane precedenti la morte, riferendo che un certo numero di pazienti ha mostrato un aumento della vitalità e un miglioramento generale poco prima di morire. Egli sottolineò che: ‘Immediatamente prima della morte il bisogno di farmaci analgesici diminuì e molti pazienti mostrarono un breve aumento di vitalità, apprezzarono di nuovo il cibo e sembrarono migliorare in generale’ (p. 82).

Gli studi sulla lucidità paradossale

Negli ultimi anni, una serie di studi (Fenwick, Lovelace, & Brayne, 2010; MacLeod, 2009, Schreiber & Bennett, 2014) condotti sull’argomento ha suggerito che questi episodi lucidi precedono il declino clinico e la morte del paziente, facendo eco alle osservazioni di Witzel e dei medici del XIX secolo.

Per quanto riguarda i casi più recenti è emerso che il 70% degli operatori in una casa di cura ha assistito a episodi di lucidità terminale in pazienti morenti con demenza, grave deterioramento cognitivo e confusione nei cinque anni precedenti (Brayne, Lovelace e Fenwick, 2008). In uno studio successivo, Fenwick e Brayne (2011) riportano che il 14 % del campione analizzato ha sperimentato un episodio lucidità terminale in fin di vita.

Nell’unico studio prospettico pubblicato fino ad oggi, Macleod (2009) ha osservato 100 decessi consecutivi in un hospice in Nuova Zelanda e ha trovato sei casi di miglioramento inaspettato e spontaneo delle funzioni cognitive e della capacità verbale entro 48 ore prima della morte del paziente.

Per cercare di fare chiarezza sull’argomento, uno studio da poco pubblicato (Batthyány & Greyson, 2021) ha studiato la fenomenologia e la struttura degli episodi di lucidità paradossale in un campione di pazienti con demenza. I risultati hanno dimostrato che, prima dell’episodio di lucidità, più del 90% del campione era stato estremamente compromesso cognitivamente, e quasi l’80% ha avuto episodi lucidi che hanno coinvolto una comunicazione verbale chiara e coerente che è apparsa ‘quasi normale’. Questi episodi lucidi di solito duravano meno di un’ora, anche se il 20% persisteva per un giorno o più.

La demenza prevede di norma delle fluttuazioni cognitive, ma raramente accade che le funzioni cognitive ormai compromesse vengano riacquisite quasi completamente, come nel caso degli episodi di lucidità paradossale. Più dell’80% dei pazienti nello studio sembra aver sperimentato una completa, anche se breve, inversione del deterioramento cognitivo nella demenza avanzata. I risultati ottenuti sembrano quindi suggerire l’esistenza di una specifica sindrome di ritorno delle funzioni cognitive e della capacità di comunicazione in pazienti la cui diagnosi e lo stadio della malattia lo rendono improbabile.

Lucidità paradossale e vicinanza della morte

Nonostante in letteratura siano stati presentati anche casi di lucidità non correlati poi alla morte (Normann et al., 2006), i risultati di Batthyány e Greyson (2021) mostrano una vicinanza temporale tra la lucidità e la morte notevolmente alta: più di due terzi di questi pazienti sono morti entro due giorni dall’episodio lucido, e solo il 6% è sopravvissuto più di una settimana.

Lo studio in questione suggerisce quindi che la lucidità paradossale mostra una certa sovrapposizione con il costrutto di lucidità terminale, nella misura in cui questi episodi sembrano entrambi verificarsi in relazione alla morte. Mashour e colleghi (2019) hanno ipotizzato una somiglianza tra la lucidità terminale e altri fenomeni di eccitazione inattesi vicino alla morte, come l’esperienza di quasi morte (NDE). Sebbene i meccanismi dell’esperienza di quasi morte e della lucidità paradossale siano attualmente sconosciuti, i due sembrano condividere il fenomeno dell’eccitazione cognitiva inaspettata a fronte di una funzione corticale in declino o compromessa (Chiriboga-Oleszczak, 2017; MacLeod, 2009; Mashour et al., 2019).

Lucidità paradossale e prospettive future

Gli studi futuri dovrebbero cercare di chiarire se e quali meccanismi fisiologici o psicologici durante il processo di morte possono essere coinvolti nella remissione cognitiva in pazienti precedentemente compromessi e, cosa importante, se e come questi meccanismi possano essere utilizzati o attivati da nuove strategie terapeutiche per le demenze e altri disturbi neurologici.

Inoltre, è importante chiedersi se l’attuale modello delle demenze come processi patologici irreversibili possa essere adeguato dato che una certa percentuale di pazienti potrebbe, verso la fine della loro vita, sperimentare la lucidità terminale.

Una migliore comprensione della neurobiologia della lucidità paradossale potrebbe anche favorire la ricerca in quei campi cognitivi che indagano, per esempio, il recupero della coscienza in seguito ad amnesie, lesioni cerebrali traumatiche o ictus.

 

Che cosa intendiamo per Terapia Metacognitiva

La Terapia Metacognitiva è una forma di psicoterapia di recente sviluppo. Nata alla fine del secolo scorso grazie ad Adrian Wells e Gerald Matthews (1994), si fonda sul modello metacognitivo della sofferenza psicologica.

 

La Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy o MCT) ha introdotto un nuovo modo di concettualizzare e trattare i disturbi psicologici. Dapprima applicata al trattamento del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 1995, 2000), la MCT ha poi mostrato la propria efficacia anche su altri tipi di disturbi (Norman, van Emmerik e Molina, 2014).

La Terapia Metacognitiva propone un modello di intervento basato su una teoria scientificamente fondata (evidence-based theory) e un bagaglio di tecniche di colloquio e tecniche esperienziali integrate.

Terapia Metacognitiva e Metacognizione

La metacognizione è spesso definita come il “pensare i propri pensieri”, indica dunque quei processi di auto-monitoraggio e di controllo dei propri processi cognitivi e attentivi.

Mentre alcuni aspetti della metacognizione operano al di fuori della nostra coscienza, può capitare a volte che particolari pensieri vengano colti dalla nostra consapevolezza e vi possiamo reagire con modalità problematiche che comprendono ipervigilanza, rimuginio ed evitamento. Queste reazioni contribuiscono ad aumentare i pensieri e le emozioni spiacevoli.

Questa modalità di reagire a pensieri negativi è chiamata CAS (Cognitive Attentional Syndrome) ovvero Sindrome Cognitivo-Attentiva.

Il Modello della sofferenza psicologica nella Terapia Metacognitiva

Il modello metacognitivo è un modello transdiagnostico che vede il mantenimento di tutta la psicopatologia legato allo stile di pensiero perseverante della CAS. La CAS si declina in varie forme di pensiero ripetitivo (come rimuginio e ruminazione) e in diversi comportamenti disfunzionali di coping (quali evitamento, soppressione del pensiero, ricerca di rassicurazioni) che una persona impiega nel tentativo di gestire pensieri e sentimenti angoscianti. Tali tentativi, tuttavia, non fanno altro che aumentare i pensieri e i sentimenti angoscianti, riducendo la flessibilità dell’attenzione, che porta così a sperimentare uno scarso controllo su pensieri ed emozioni negative.

Secondo il modello di Wells, infatti, pensieri ed emozioni negative hanno carattere temporaneo. Tuttavia, quando una persona risponde a questi con la CAS, ne prolunga l’effetto disadattivo, aumentando di pari passo il proprio disagio psicologico.

Ma da dove nasce la CAS? La CAS è controllata dalle conoscenze metacognitive, credenze non sempre consapevoli che riguardano la natura dei fenomeni mentali e le reazioni necessarie per gestirli. Le credenze metacognitive possono avere sia valenza positiva (es. “Preoccuparmi mi aiuta ad affrontare meglio le situazioni”) che negativa (es. “Non riesco a controllare i miei pensieri”).

Obiettivi della Terapia Metacognitiva

Obiettivo della Terapia Metacognitiva è identificare e modificare tali credenze metacognitive. La Terapia Metacognitiva mira ad aiutare i pazienti a sviluppare nuovi modi di reagire ai pensieri negativi attraverso nuovi modi di controllare l’attenzione.

Il primo passo nella Terapia Metacognitiva è concettualizzare la formulazione del caso col paziente e presentargli i processi di mantenimento della sua sofferenza, compreso l’impatto di rimuginio e ruminazione e l’inefficacia delle strategie di coping messe in atto. Successivamente le credenze metacognitive vengono discusse e testate attraverso esperimenti che mirano a cambiare il rapporto con i propri fenomeni mentali, a uscire dai circuiti di rimuginio e ad acquisire maggior governo del proprio funzionamento psicologico.

Tra le tecniche terapeutiche troviamo, ad esempio, l’Attention Training (un compito uditivo per “allenare” l’attenzione con l’obiettivo di riguadagnare flessibilità attenzionale, rafforzare il controllo esecutivo e quindi interrompere la CAS) e la Detached Mindfulness (con la quale il paziente è istruito a diventare consapevole dei pensieri disfunzionali e a distaccarsene con la finalità di disimpegnarsi dai processi di preoccupazione e ruminazione). La Terapia Metacognitiva prevede interventi brevi (12-15) sedute focalizzate su disturbi d’ansia o d’umore specifici. Lo scopo generale è scoprire quanto possiamo controllare la nostra mente per abbandonare la tendenza a rimuginare e a lottare contro i pensieri negativi e le sensazioni di disagio che attraversano la nostra mente.

Complessivamente la Terapia Metacognitiva mira ad aumentare l’esperienza di controllo dell’attenzione da parte della persona e promuovere lo sviluppo strategie di coping più adattive.

In che cosa la Terapia Metacognitiva è differente dalla Terapia Cognitivo Comportamentale

Rispetto alla Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT), la Terapia Metacognitiva si concentra sui processi di pensiero, piuttosto che sul contenuto: mentre la CBT mette in discussione la validità del pensiero (es “io non valgo”), la Terapia Metacognitiva considererebbe tale pensiero normale, transitorio per la maggior parte delle persone, ma che può dar vita a processi di preoccupazione o ruminazione se gestito in modo inadeguato. La Terapia Metacognitiva pone dunque l’attenzione sulle modalità con cui ci si lascia coinvolgere da determinati pensieri e lavora sui processi responsabili del controllo di questi pensieri.

Nonostante affondi le sue radici nei modelli cognitivi, la Terapia Metacognitiva è un trattamento autonomo che, come abbiamo visto, utilizza altre tecniche rispetto a quelle della CBT tradizionale.

In arrivo il Masterclass Internazionale di Terapia Metacognitiva

L’innovazione che la Terapia Metacognitiva ha introdotto nella concettualizzazione e nel trattamento dei disturbi psicologici (non solo limitata ai disturbi d’ansia, ma anche a quelli ossessivi, depressivi, post-traumatici, ecc), ha creato nei professionisti una sempre maggiore curiosità e una crescente domanda verso percorsi formativi che consentano di conoscere gli aspetti teorici ma soprattutto di padroneggiare gli aspetti pratici di questo nuovo approccio.

Per tale motivo, l’MCT-Institute, in collaborazione con MCT-Italia, organizzerà un Masterclass per colleghi psicoterapeuti e specializzandi di lingua italiana.

Il Masterclass rappresenta il primo livello di competenza nella Terapia Metacognitiva e certifica l’iscrizione nell’elenco internazionale degli psicoterapeuti metacognitivi.

Sarà un corso dalla durata di due anni (dal 2022 al 2024), organizzato prevalentemente online tramite piattaforma ZOOM con traduzione in italiano. Il corso sarà composto da 8 incontri di due giorni, dedicati all’applicazione pratica della Terapia Metacognitiva e alla supervisione di casi clinici.

Il Masterclass sarà condotto interamente dai fondatori dell’ MCT-Institute e della terapia metacognitiva: Prof. Adrian Wells e Prof. Hans Nordahl.

 

Per informazioni sul Masterclass MCT >> CLICCA QUI

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Metà della gente mente, l’altra metà non dice nulla. Le trappole nascoste nel dibattito televisivo

La modalità di discussione più diffusa nei programmi televisivi di informazione è il dibattito, che si svolge attraverso il confronto tra diversi ospiti che intervengono esprimendo il proprio pensiero relativamente ad un tema proposto dal conduttore.

 

I dibattiti e le regole

Come per qualsiasi tipo di gioco, di sport o di attività condivisa, anche i dibattiti linguistici hanno delle regole e come in tutti i giochi, anche in un dibattito, è possibile barare.

Questo può avvenire per il tentativo dei contendenti di avere la meglio con mezzi scorretti, oppure può verificarsi in modo non consapevole in seguito a ragionamenti che, pur apparendo ben condotti, nascondono da qualche parte un errore.

Nello specifico, non ci riferiamo a quelle regole di forma che prevedono il rispetto di tempi e turni di intervento o a quelle regole di comportamento che invitano ad adoperare un linguaggio educato e rispettoso, le regole di cui tratteremo sono quelle che garantiscono che i partecipanti al dibattito, nel presentare la propria idea, non ricorrano all’uso di trappole linguistiche, logiche, psicologiche, ecc… tali da falsare l’argomentazione proposta.

Tali trappole sono chiamate fallacie.

Le fallacie nei dibattiti

Le fallacie sono errori nascosti nel ragionamento che comportano la violazione delle regole di un confronto argomentativo corretto. I ragionamenti fallaci appaiono come rigorosi e logici, ma in realtà non sono validi perché le premesse illustrate non implicano le conclusioni a cui giunge il ragionamento (Irving M. Copi e Carl Cohen, 1999).

In questa analisi considereremo il dibattito come atto linguistico che si manifesta nell’uso contestuale della lingua come azione reale e concreta. Osserveremo la strategia di comunicazione dei partecipanti al dibattito tentando di individuare la frequenza con cui le fallacie si presentano.

Più nello specifico, ci occuperemo di come un dibattito che presenta fallacie non segnalate distorca la codifica, e quindi la comprensione, del messaggio da parte dello spettatore.

L’intenzione dell’articolo è dunque quella di osservare e misurare cosa accade se in un dibattito televisivo uno o più partecipanti utilizzano una fallacia.

Le fallacie nei dibattiti televisivi

Lo studio ha avuto inizio con l’individuazione dei principali programmi televisivi di informazione, andati in onda nel 2021 sulle principali reti generaliste della televisione italiana, che utilizzano il dibattito come strumento principale del format.

Tra queste abbiamo selezionato le venti trasmissioni con i livelli di audience più elevati e per ognuna abbiamo seguito interamente 10 puntate, per un totale di 200 puntate complessive.

I programmi monitorati presentavano una durata variabile che andava da un minimo di 30 minuti ad un massimo di 3 ore per le trasmissioni di prima serata. Le ore di programmazione complessivamente visionate sono state 225.

L’osservazione ha prodotto i seguenti risultati:

  • In tutti i format osservati è presente la figura del moderatore che è quasi esclusivamente svolta dal conduttore, spesso supportato da un gruppo di collaboratori, autori, redattori, ecc…
  • Il conduttore, nella quasi totalità dei casi, si limita a garantire (con più o meno efficacia) le regole di forma, cioè quelle che prevedono il rispetto di tempi e turni di intervento o di quelle regole di comportamento che invitano ad adoperare un linguaggio educato e rispettoso. Allo stesso modo è il conduttore che regola il confronto tra le parti: gestisce i conflitti troppo violenti, evita che ci si accavalli in modo eccessivo, ecc…In questo caso dunque il conduttore non interviene mai nel merito dell’argomentazione.
  • In rari casi, il conduttore interviene nel correggere le informazioni palesemente errate riportate dal partecipante al dibattito, segnalando allo spettatore il dato ritenuto corretto. Tale intervento però presenta una distorsione, poiché l’intervento del conduttore (arbitro) sembra essere espressione dell’opinione personale del conduttore stesso, un’opinione tra le opinioni presenti nel dibattito. L’impressione è confermata dal fatto che il partecipante che è stato corretto dall’arbitro non accetta il nuovo dato (in nessuna circostanza vi è un confronto tra le fonti) ma continua nella sua argomentazione contestando lo stesso arbitro come fosse uno dei tanti giocatori in campo. L’insieme di questi elementi mostra come il ruolo dell’arbitro non è di fatto riconosciuto dalle parti.
  • In nessun caso osservato il moderatore/conduttore interviene nella segnalazione di scorrettezze argomentative seppur palesemente presenti.
    Le fallacie vengono accolte come un qualsiasi ragionamento, e cosa ancor più grave, vengono spesso riprese dallo stesso conduttore (arbitro) e utilizzate come tema su cui concentrare il resto del dibattito. Rispondere ad una fallacia argomentativa senza denunciarla di fatto ne autorizza l’utilizzo e ne rafforza la capacità persuasiva. La fallacia, da errore di ragionamento di una delle parti, si trasforma in tema stesso del dibattere.
  • Solo in 2 casi l’utilizzo di fallacie è stato evidenziato, ma non dal conduttore del programma, da uno degli stessi partecipanti al dibattito. In questo caso, l’ospite ha riconosciuto l’utilizzo della fallacia, ha identificato e illustrato quale tipologia di errore argomentativo fosse emerso, segnalando l’invalidità di tale affermazione. In queste circostanze il conduttore (arbitro) si è limitato a registrare tale segnalazione come fosse anch’essa una tra le opinioni in gioco e non una irregolarità come di fatto è stata.

Conclusioni

Alla luce di tali dati, ci chiediamo:

Se lo spettatore medio nella gran parte dei casi non dispone degli strumenti e delle conoscenze sufficienti neppure per riconoscere che il fallo è stato commesso, che senso ha assistere ad un confronto in cui i partecipanti possono barare senza che l’arbitro segnali il fallo?

Immaginate di assistere ad una partita di calcio in cui il fuorigioco, pur essendo una importante regola della competizione, sia sconosciuto a parte dei giocatori e alla quasi totalità del pubblico. Lo stesso arbitro, che conosce perfettamente questa regola, pur riconoscendo l’avvenuto fallo, non segnala mai tale infrazione, permettendo sempre al gioco di continuare. Il pubblico che assiste alla partita, ignorando tale regola ed incapace di riconoscere il fallo, non protesta, anche qualora la squadra avversaria se ne serva per aggiudicarsi un vantaggio illecito.

Non ricevendo penalità da parte dell’arbitro, e non essendoci proteste da parte del pubblico, i giocatori sono dunque lasciati liberi di commettere falli, ognuno in base alla propria coscienza individuale, invalidando di fatto il risultato.

In questa competizione ‘falsata’ non è una delle due squadre a perdere ma lo spettatore, poiché crede di assistere ad un partita di calcio, ma sta osservando altro, perché un gioco senza regole non è più lo stesso gioco.

 

Ossitocina, l’ormone dell’amore. Fonte di calma, rigenerazione e guarigione (2019) di Kerstin Uvnas Moberg – Recensione

Attraverso le pagine di Ossitocina, l’ormone dell’amore l’autrice Kerstin Uvnas Moberg illustra quello che definisce ‘sistema calma e connessione’ antagonista, in una visione dualistica, del ‘sistema attacco e fuga’ molto più conosciuto e studiato oggigiorno.

 

In fisiologia, quella branca della medicina che cerca di descrivere il funzionamento interno degli esseri viventi, da molto tempo ci si dedica allo studio del sistema attacco o fuga (fight or flight) basato sulla produzione di stress e come reazione allo stesso. Nel caso di questa reazione ben conosciuta, noi e gli altri mammiferi ci prepariamo ad affrontare situazioni stressanti attaccando oppure mettendoci in salvo. Tutta l’energia del corpo si concentra per difenderci da un eventuale pericolo, reale o immaginario che sia. Non è difficile capire il motivo di tanto interesse in una società come la nostra, indirizzata all’agire, al fare, al produrre.

L’autrice vede, invece, l’altra faccia della medaglia. Ci accompagna in un viaggio alla scoperta di quel processo fisiologico che è l’esatto contrario, indispensabile quanto misconosciuto, il sistema calma e connessione.

Il sistema calma e connessione è visto come un sistema a sé stante e non solo come semplice assenza di stress. Un processo altrettanto essenziale del nostro corpo: si attiva quando il corpo è a riposo. Dietro la quiete apparente si nasconde una quantità enorme di lavoro che non è orientata al movimento, allo sforzo, all’azione, ma aiuta piuttosto il corpo a recuperare, crescere, guarire, trasformare il nutrimento in energia ed immagazzinarlo per un utilizzo futuro. Influenza le interazioni sociali. In questo stato possiamo accedere con più facilità alle risorse interne e alla creatività.

Alla base di questo sistema c’è la produzione di ossitocina.

L’ossitocina è un ormone peptidico prodotto nel nucleo sopraottico e nel nucleo paraventricolare dell’ipotalamo. Questa molecola straordinaria è allo stesso tempo un ormone, che agisce attraverso il circolo sanguigno e un neurotrasmettitore all’interno del sistema nervoso (Argols A. 1991).

Lo studio dell’ossitocina è strettamente legato alla gravidanza e ancora di più al momento del parto nella vita della donna ed è innegabile che sia la star indiscussa dell’allattamento. Ma oggi sappiamo che ha implicazioni molto più ampie, ad esempio nelle interazioni sociali, tanto che la producono anche gli uomini con evidenti effetti in entrambi i sessi.

Una maggiore comprensione del ruolo dell’ossitocina e dei circuiti neurali e ormonali che vi sono implicati, potrebbe aiutare a ritrovare il benessere nella società di oggi, così complessa ed esigente. Ristabilendo un equilibrio, chiave di volta nel raggiungimento della salute intesa nel senso più ampio del termine, tra attività e riposo, tra lavoro rivolto verso l’esterno e riflessione interiore. Solo riscoprendo le enormi potenzialità del sistema calma e connessione, sarà possibile affrontare le situazioni quotidiane di stress senza perdere l’equilibrio. Questa è la via per la salute, su scala sia individuale che sociale (KU Moberg 2019).

 

Effetto placebo e nocebo nel trattamento del dolore cronico e acuto

Le evidenze empiriche mostrano come le suggestioni verbali, il condizionamento classico e l’apprendimento osservazionale possono portare ad ipoalgesia, come effetto placebo, o ad iperalgesia, come nocebo (Brascher et al., 2018).

 

L’effetto placebo e nocebo

La parola placebo deriva dal latino e significa ‘piacerò’: è una sostanza o una procedura priva di attività specifica per la condizione trattata (Shapiro & Morris, 1978) e tale terapia viene usata deliberatamente per il suo effetto specifico o aspecifico. L’effetto placebo è l’effetto psicologico e psicofisiologico prodotto da un placebo, e Vernon Oh (1994) lo definì come ‘una forma di trattamento senza la sua sostanza’. Balint (1957) ha definito un placebo come il più potente agente terapeutico in quanto un ossimoro, una sostanza inerte a livello chimico e biologico, ma non a livello psicologico, mentre l’effetto nocebo agisce come un ‘avversario’ in grado di produrre una malattia iatrogena. L’effetto nocebo, antitetico all’effetto placebo, indica le reazioni psicologiche negative che si sperimentano dopo l’assunzione di un farmaco inerte (Treccani, n.s.). Proprio per la mancanza di una reazione generata chimicamente, tale reazione indesiderata viene sperimentata a causa di un atteggiamento emozionale che induce stati quali insicurezza, patofobia, angoscia (Treccani, n.s.).

L’effetto placebo e nocebo sul dolore

Mentre l’ipoalgesia viene definita come la diminuzione della sensibilità al dolore, dovuta ad una causa patologica (Hoepli, 2015), l’iperalgesia è causata da alterazioni periferiche e centrali ed è un’aumentata sensibilità nei confronti di stimoli dolorifici (Treccani, n.s.). Le evidenze empiriche mostrano come le suggestioni verbali, il condizionamento classico e l’apprendimento osservazionale possono portare ad ipoalgesia (come effetto placebo) o ad iperalgesia (come nocebo; Brascher et al., 2018). La letteratura evidenzia risultati discordanti, in quanto è complesso individuare articoli che indaghino gli effetti del condizionamento senza suggerimenti verbali e, in caso contrario, l’effetto placebo e nocebo sono spesso connotati in termini medici (Voudouris et al., 1990; de Jong et al., 1996; Kirsch et al., 2014; Montgomery & Kirsch, 1997). Contestualizzare questi due dei termini può indurre più facilmente delle aspettative aggiuntive ed erronee durante la manipolazione sperimentale. Di conseguenza, i partecipanti potrebbero essere condizionati e potrebbero sviluppare idee, riferite al concetto di condizionamento stesso, che complicano l’esito di quest’ultimo (Brascher et al., 2018).

Brascher e colleghi (2018) si sono focalizzati sul contributo del condizionamento nell’induzione di un effetto fisico placebo, come l’ipoalgesia, e nocebo, come l’iperalgesia, raccogliendo prove che il condizionamento può essere influenzato da un’aspettativa formatasi da uno stimolo subliminale. Viene posta una particolare attenzione agli studi che utilizzano un condizionamento implicito, dove non vengono presentati stimoli sulla consapevolezza della contingenza. Un numero limitato di studi implementa il condizionamento di placebo e nocebo senza utilizzare un linguaggio esplicito ma usando stimoli condizionanti, come luci rosse e verdi. Molti altri studi esaminano partecipanti sani, mentre solo alcuni indagano il dolore clinico dei pazienti (Peerdeman et al., 2016). I risultati mostrano come i suggerimenti verbali sembrano essere efficaci per il dolore, acuto e cronico, indotto sperimentalmente in pazienti con la sindrome dell’intestino irritabile (IBS; Peerdeman et al., 2016; Klinger et al., 2017).

Effetto placebo sul dolore cronico

Gli effetti positivi dell’effetto placebo sono stati dimostrati in studi che combinano la suggestione verbale e il condizionamento fisico (ad esempio, somministrazione di creme) dei pazienti con IBS (Lee et al., 2012), artrosi del ginocchio (Hashmi et al., 2014), dolore muscoloscheletrico (Muller et al., 2016), lombalgia cronica (Peerdeman et al., 2016) e dermatite atopica (Kingler et al., 2007). Il condizionamento costituisce un aspetto importante nel dolore cronico (Vlaeyen & Linton, 2000). Al contrario, nonostante i pochi studi presenti in letteratura a causa di vincoli etici, l’effetto nocebo può diventare persistente a causa dell’esperienza ripetuta di fallimenti terapeutici, comuni nel dolore cronico (Brascher et al., 2018). Anche un apprendimento più scarso, ad esempio come effetto di una predisposizione inefficace, o gli effetti di blocco, cioè delle risposte inefficienti ad uno stimolo condizionato, aumentano il rischio di esperienze negative di trattamento.

Un’ipotesi per ricerche future sul trattamento del dolore cronico può focalizzarsi sulle prove che gli effetti placebo condizionati sono più duraturi degli effetti placebo indotti dalle aspettative esplicite (Kingler et al., 2007; Colloca et al., 2011). Un’altra possibilità per evitare la confusione tra condizionamento e induzione dell’aspettativa potrebbe essere l’implementazione di disegni di condizionamento implicito, dove sarebbero direttamente esclusi i suggerimenti espliciti, oppure la creazione di un disegno sperimentale dove vengono indotti effetti placebo e nocebo contrari, attraverso aspettative esplicite e condizionamento, per misurare tali effetti su variabili indipendenti. Di conseguenza, potrebbero esistere delle opportunità per trattare le diverse condizioni cliniche di dolore (Brascher et al., 2018).

 

Coppia e confini: la domanda non è perché, ma per chi ti auto-saboti?

Cosa avviene quando la coppia è in crisi? Spesso, quando i ruoli nella coppia cambiano e non si è pronti ad affrontare il cambiamento, si ha la cosiddetta crisi di coppia. Ci sono diverse ragioni, motivi che portano la coppia a destabilizzarsi.

 

Secondo la definizione data dal vocabolario, la coppia è composta da ‘due persone conviventi legate da un rapporto amoroso stabile’ (Treccani online). Ma tutti sappiamo che non è così semplice perché nella coppia intervengono vari fattori e variabili, dati dal sistema di credenze familiari che ognuno di noi si porta dietro come uno zaino sulle spalle.

Quando si entra in relazione con l’altro, ci si compone con le rispettive credenze e si cerca l’incastro perfetto per essere in sintonia. Delle volte, l’incastro avviene in maniera naturale e altre volte bisogna smussarne gli angoli.

Ma cosa avviene quando la coppia è in crisi? Spesso, quando i ruoli nella coppia cambiano e non si è pronti ad affrontare il cambiamento, si ha la cosiddetta crisi di coppia.

Ad esempio, con la nascita di un figlio cambiano i ruoli sia all’interno della coppia, sia all’interno delle rispettive famiglie di origine: la coppia passa dall’essere figli all’essere genitori e i rispettivi genitori diventano nonni e così via.

Bisogna specificare però che a volte la coppia va in crisi ancor prima che un evento così importante si verifichi. Ci sono diverse ragioni, motivi che portano la coppia a destabilizzarsi.

Le tre aree della crisi

La letteratura sull’argomento ha individuato tre grandi aree che possono portare i partner alla crisi.

La prima area riguarda l’infrazione del ‘contratto di coppia’ che è spesso implicito. Tale contratto si sviluppa in maniera naturale all’interno della coppia, basti pensare ai partner che scegliamo e alla connessione che c’è tra scelta dell’altro e ‘i nostri bisogni personali di cura, affiliazione, ma anche disponibilità all’accudimento dell’altro’ (Ghezzi, 2004). Ed è proprio dai bisogni personali di ciascuno che si sviluppa il contratto, una sorta di ‘non detto’ e quando ad esempio uno dei due è stanco di avere il ruolo nella coppia di soccorritore, protettore perché magari vorrebbe essere a sua volta protetto e ‘curato’ da parte dell’altro, si ha la crisi (ibidem). In questo esempio specifico è come se si dicesse ‘non era nei patti, il bisognoso di cure e attenzioni ero io e non tu’ e dunque tale cambiamento viene visto come una sorta di tradimento.

Una seconda ragione della crisi potrebbe essere il desiderio di crescita personale e/o professionale che uno dei due mette in atto. Tale desiderio di autonomia di uno dei due partner può produrre turbamento inatteso e scombussolare l’equilibrio della coppia (ibidem).

La terza grande area è data da quello che gli psicoterapeuti sistemico relazionali chiamano come mancato svincolo dalla propria famiglia di origine e la mancanza di confini chiari tra la coppia e le rispettive famiglie di origine. Il mancato svincolo avviene quando uno dei due partner o entrambi non hanno mai abbandonato davvero la condizione di figli e quindi per questo vivono la relazione di coppia in modo immaturo e con difficoltà anche gravi (ibidem).

Confini diffusi e confini rigidi

Minuchin, psicoterapeuta familiare, definisce i confini come l’insieme di regole che consentono e definiscono il passaggio delle informazioni tra i vari membri della famiglia.

Egli differenzia due grandi categorie di confini: ‘confini diffusi’ e ‘confini rigidi’.

I confini diffusi si hanno in quelle famiglie in cui vi è mancanza di confine e ciò significa che trapelano, passano troppe informazioni, non vengono celati determinati contenuti e i problemi di un membro della famiglia diventano problemi di tutti (Minuchin, 1974). In sintesi, possiamo dire che in questo caso tutti sanno tutto di ciascun membro della famiglia.

Mentre, invece, i confini rigidi sono tipici delle famiglie definite da Minuchin come ‘disimpegnate’. In queste famiglie si ha la sensazione di non essere visti, ascoltati e di non appartenere realmente ad una famiglia (ibidem).

Ritornando alla crisi di coppia, quindi, è importante stabilire dei confini chiari (né troppo rigidi né troppo diffusi) e attuare un passaggio di informazioni limitate e pertinenti tra coppia e rispettive famiglie di origine (Minuchin, 1974). Ciò significa il capire quando la famiglia di origine richiama troppo l’attenzione distogliendo lo sguardo dalla coppia e mantenendo lo stato di perenne figlio/a.

L’autosabotaggio

Molti individui fanno fatica a svincolarsi dalle famiglie proprio perché ad un certo livello avvertono la sensazione di non poterlo fare, di non poter lasciare del tutto il nido. Forse perché hanno paura di lasciare da sola la mamma con il papà o viceversa, forse perché la madre e/o il padre non sono pronti a ritornare ad essere coppia, etc.

E qui si arriva all’argomento centrale e cioè per chi ti auto-saboti?

La parola ‘autosabotaggio’ ormai è entrata a far parte del linguaggio comune ed è quindi necessario comprendere cosa si intende con tale parola. L’autosabotaggio racchiude pensieri e comportamenti incentrati a ostacolare il raggiungimento degli obiettivi. Questo fenomeno è più diffuso di quanto si pensa e tutti almeno una volta siamo stati ‘vittime’ di ciò senza rendercene conto (Villa M., 2021).

Delle volte la coppia non decolla per una serie di ragioni, ma altre volte ci si sabota e si fa di tutto per non farla funzionare e ciò ovviamente avviene in maniera inconscia. In questi casi è utile chiedersi per chi ci si sabota, forse per continuare a mantenere l’omeostasi della famiglia e mantenere così lo status quo? Oppure perché nella storia personale risulta proibita una coppia che funziona forse perché la narrazione familiare è segnata da separazioni, da coppie non felici, etc. Questi sono solo alcuni esempi che hanno l’obiettivo di farvi riflettere in quanto la vera domanda non è perché ci si auto-sabota, ma per chi.

 

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