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The Patient (2022). L’umanizzazione come processo di cura – Recensione

Dal 14 Dicembre è disponibile, sulla piattaforma Disney+, una serie intitolata “The Patient”, nata dalla sceneggiatura di Joe Weisberg e Joel Fields. Si tratta di un thriller psicologico che ha come protagonisti Steve Carell, nei panni di Alan Strauss, un noto psicoterapeuta e Domhnall Gleeson, che interpreta Sam, un assassino seriale.

Attenzione! L’articolo potrebbe contenere spoiler!

 Dal punto di vista psicologico, la serie si articola alternando momenti di costruzione di un insolito setting terapeutico, con l’intento di non spettacolarizzare la malattia mentale o le doti di cura del terapeuta, ma di mostrare il lato umano dei due personaggi principali e di quelli secondari. In senso introspettivo, infatti, la trama narrativa della serie guida lo spettatore nell’avvicendarsi emotivo degli eventi. Nel caso del paziente, l’accrescere della rabbia verso un “altro ingiusto” spiega all’audience come emotività e razionalità si dominano a vicenda, in una continua lotta tra ciò che si sente e ciò che viene agito, anche se questo agito si trasforma in aggressività.

Dall’altro lato, emerge il versante emotivo del terapeuta, che, nell’ottica della trasparenza del patto terapeutico, non nasconde il suo lato umano, che si concretizza nella paura che il paziente possa fare del male ad altri o a lui stesso, confrontandosi con un senso di impotenza, incrementato da uno spazio claustrofobico e angusto, ben diverso dal suo studio. Al contrario di Sam, la cui storicità ed esperienza compare gradualmente a partire dalle sedute, nel caso del terapeuta, gli aspetti umani sono ricostruiti attraverso flashback o mentre immagina di parlare con il suo supervisore, da tempo deceduto.

 In questo alternarsi tra spazi individuali e di terapia, ciò che viene posto al centro è che la cura non ha necessariamente un fine risolutivo, ma di iniziale consapevolezza e comprensione del proprio modo di funzionare, al fine di imparare a conoscere gli stati emotivi e ciò che li scatena, con l’obiettivo di ri-orientarli con un nuovo senso. Chiari sono, fin dall’inizio, i movimenti compiuti dal terapeuta, fin quando la situazione non si esaspera e l’aggressività aumenta. In questo punto di svolta, è interessante la contrapposizione tra la de-umanizzazione (Fiske, 2013) agita inconsapevolmente da Sam e l’umanizzazione della vittima (Paladino & Vaes, 2011), come strategia di gestione e controllo. Invero, laddove Sam considera la persona aggredita solo come l’oggetto del suo impulso, privandola di qualsiasi forma di riconoscimento, si contrappone –nella terapia– un tentativo di restituire alla vittima una narrazione, legata alla sua famiglia, alle sue passioni, alle sue emozioni. L’idea di fondo dell’umanizzazione, infatti, è quella di rendere la vittima molto più simile al protagonista, allenando a metterlo nei panni dell’altro.

Come dimostrato anche nelle trame narrative della serie, l’umanizzazione della vittima consente di orientare l’emotività verso nuovi significati che, se per Sam acquistano senso solo dopo l’assenza del terapeuta, per lo stesso Strauss è proprio la situazione di prigionia a spingerlo nella ricerca di nuove consapevolezze riguardo agli eventi passati.

Ed è proprio in questo doppio legame psicologico, tra intimo e condiviso e tra Sé e l’Altro, che “The Patient” sa parlare alla “pancia” dello spettatore, richiedendo un’attenzione e coinvolgimento totale. Questo coinvolgimento attentivo è costruito sulla logica ambivalente tra de-umanizzazione e umanizzazione che si delinea non solo tra paziente e terapeuta, ma, di rimando, anche nel legame tra personaggi sulla scena e spettatori.

The Patient – Guarda il trailer:

 

La comunicazione della perdita e le reazioni dei fratelli dopo una Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS), ovvero la “morte improvvisa e inaspettata del lattante”, è un evento luttuoso tragico e potenzialmente traumatico non solo per la coppia genitoriale, ma anche per i fratelli

 

La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

 La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS) è definita come la morte improvvisa e inaspettata di un neonato apparentemente sano di età inferiore a un anno, che rimane inspiegabile anche dopo un’indagine approfondita del caso, l’esecuzione di un’autopsia completa con test ausiliari, l’indagine del sito di morte e la revisione della storia clinica (Goldstein et al., 2019). La SIDS può essere un evento fortemente traumatico per il sistema familiare ed è in grado di sconvolgere e perturbare gli equilibri in modo più intenso rispetto ad altri tipi di lutto (Markusen et al., 1978).

Dopo la morte di un bambino per SIDS, i fratelli sopravvissuti possono mostrare alcune conseguenze sul piano psicologico e comportamentale (Hutton & Bradley, 1994) nei primi 3 mesi e, per alcuni bambini, perdurare fino a quasi 3 anni (Powell, 1991).

L’impatto che la SIDS ha sui fratelli è duplice: da una parte essi perdono un compagno di giochi e di vita; dall’altra, per un lasso di tempo, essi perdono l’attenzione e il supporto dei genitori, travolti dal proprio dolore (Hogan & DeSantis, 1994; Packman et al., 2006; Avelin et al., 2014). Pertanto, i fratelli sopravvissuti si trovano a dover gestire sia il vissuto di lutto per il proprio fratello, sia le emozioni correlate al cambiamento del proprio ruolo come fratello maggiore (Powell, 1991).

Nonostante dopo una perdita i sintomi dei bambini possano essere simili a quelli degli adulti, vi sono delle differenze nel processo di elaborazione dovute al fatto che essi possiedono capacità cognitive e personalità ancora in evoluzione. Inoltre, è più alta la probabilità che essi utilizzino meccanismi di difesa più primitivi e che siano più a rischio di disagi psicologici dopo una perdita (Osterweis et al., 1984). Le reazioni comportamentali ed emotive dei fratelli dipendono dal rapporto con il defunto e dal grado di sostegno che ricevono da parte del caregiver, oltre che dall’età, a sua volta correlata alla capacità del bambino di sopportare lo stress, di gestire le emozioni e di comprendere la morte (Powell, 1991; Hunter & Smith, 2008).

Le reazioni dei fratelli dopo una Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

Nei bambini di età compresa tra i 16 mesi e i 6 anni, si è osservato come frequente l’emergere di paure circa il fatto che anche loro possano morire o che i genitori possano scomparire (Mandell et al., 1988), fino allo sviluppo di una fobia della morte (Crehan, 2004). Possono emergere alcuni disturbi del sonno, causati da incubi o dal rifiuto del bambino di andare a dormire per paura di non risvegliarsi, soprattutto se la morte del fratellino è avvenuta durante il sonno (Mandell et al., 1988). È frequente una richiesta di maggiore affetto e attenzioni attraverso comportamenti indisciplinati e possono manifestarsi alcune regressioni rispetto ad alcune tappe evolutive come, per esempio, la ricomparsa di enuresi notturna (Price, 2007). Infine, nei bambini più piccoli, può manifestarsi ansia da separazione, specialmente quando i genitori sono molto immersi nel proprio lutto (Mandell et al., 1988).

Se nei bambini di età prescolare la morte è vista come reversibile e temporanea, invece, a partire dai 5 anni, poiché i bambini acquisiscono il pensiero logico-concreto e non comprendono ancora la propria mortalità, la personificano e la associano alla credenza che solo le persone anziane o malate possano morire (DeMaso et al., 1997).

In alcuni bambini tra i 6 e gli 8 anni possono emergere una fissazione per la morte (Price, 2007), accompagnata da domande insistenti e curiosità incessanti verso i genitori; un vissuto di rabbia indirizzato verso i genitori, per aver “permesso” che il fratellino morisse, oppure verso il fratellino stesso per essere morto causando dolore (Hutton & Bradley, 1994). Infine, il senso di colpa (Price, 2007), che si presenta come risultante di una combinazione tra i sentimenti ambivalenti verso il nuovo arrivato, la presenza di pensiero magico, le poche conoscenze riguardo la morte e l’alone di silenzio che spesso circonda la perdita (Mandell et al., 1988; Crehan, 2004).

Tra gli 8 e i 10 anni, bambini comprendono che la morte è un fenomeno naturale irreversibile, che consiste nella “cessazione delle attività vitali” e che può colpire tutti; infatti, il loro concetto di morte inizia a essere molto simile a quello adulto (DeMaso et al., 1997). Nei bambini sotto i dieci anni di età è verosimile che, dopo una SIDS, i genitori rilevino alcuni cambiamenti nei comportamenti dei propri figli e osservino: una aumentata insicurezza, una maggiore ricerca di attenzioni, una paura della solitudine, una aumentata insonnia, alcuni incubi notturni, una costante tristezza, una maggiore aggressività, insieme ai comportamenti tipici della loro fase di sviluppo (Powell, 1991).

I bambini più grandi, di età compresa tra i 10 e i 13 anni, sono in grado di leggere l’accaduto in modo più logico e possono mostrare diverse modalità come reazione all’evento, come la ricerca di conforto e di vicinanza con i genitori oppure, al contrario, con il distacco a causa di un senso di colpa verso sé o verso i genitori, o attraverso un abbassamento del rendimento scolastico (Price, 2007). Nel contesto scolastico, si è osservato anche un cambiamento nei comportamenti di questi bambini verso i pari e reagire con maggiore aggressività oppure isolandosi (Mandell et al., 1988).

Infine, negli adolescenti si è osservato come il senso di colpa sia anche presente, specialmente quando la SIDS è avvenuta mentre erano loro a occuparsi del fratellino: il senso di colpa nasce dall’auto-accusa del non essersi presi cura del piccolo nel modo corretto ed è aumentato dalla mancanza di cause certe di morte che possano smentire questa convinzione (Price, 2007).

 Per quanto riguarda lo stile comunicativo intrafamiliare, è stato osservato che la condivisione e la comunicazione aperta siano in grado di agevolare l’elaborazione del lutto portando ad aggiustamenti positivi a lungo termine (Martinson & Campos, 1991). Al contrario, l’evitamento del tema e la non condivisione dell’accaduto possono instillare nel bambino fantasie disfunzionali all’elaborazione del lutto, come la convinzione che la morte del fratellino sia un segreto spaventoso di cui non si parla. I genitori sono la principale fonte di apprendimento per un bambino sia per quanto riguarda informazioni che da solo non è in grado di comprendere, sia per le modalità di affrontare il lutto (Cain et al, 1964).

Dopo una SIDS, i bambini sono in uno stato di elevata vulnerabilità e, poiché la sicurezza della famiglia è stata minacciata, anche le interazioni che hanno con i genitori subiscono delle trasformazioni, a causa del clima familiare perturbato dall’evento. Alcuni genitori riferiscono di aver bisogno di più intimità, mentre altri si sentono più protettivi nei confronti del proprio figlio  (Mandell et al., 1988).

Comunicare il lutto ai fratelli in seguito a SIDS

Per comunicare il lutto ai bambini è buona prassi parlarne con loro in modo efficace, adattando i contenuti e la forma a ciò che il bambino è in grado di comprendere, con una particolare attenzione all’età: fino ai 5 anni, è fondamentale utilizzare affermazioni semplici, evitare eufemismi o metafore che il bambino non è in grado di comprendere e che potrebbero portare a concezioni distorte della morte. Ad esempio, se il bambino chiede dove sia il fratello è utile rispondere con frasi tipo “il tuo fratellino è morto”, “la morte avviene quando un corpo smette di funzionare”, evitando descrizioni della morte che facciano riferimento al dormire o all’essere andati via; a questa età è importante nominare in modo corretto le emozioni e utilizzare la terminologia appropriata per farvi riferimento (DeMaso et al., 1997).

I bambini in età scolare possono rivolgere la loro attenzione ad aspetti più specifici della morte: è importante rispondere con trasparenza alle domande fornendo anche materiali appropriati all’età come dei libri illustrati che permettano al bambino di comprendere ed esaurire i propri dubbi (Price, 2007). Come abbiamo già visto si può sviluppare un certo grado di senso di colpa; per prevenirlo è necessario integrare alle risposte il fatto che la SIDS è un tipo di morte che, nonostante non abbia cause certe, non avviene per colpa di qualcuno (DeMaso et al., 1997).

È importante non screditare le convinzioni che i bambini sviluppano, anche se possono apparire poco logiche; piuttosto, è utile incoraggiare la loro discussione in modo da poterle reindirizzare e aiutare il bambino a esprimere i propri stati d’animo, anche attraverso l’espressione artistica.

A partire dai 10 anni, è possibile che i bambini spostino l’attenzione su aspetti più spirituali e/o religiosi e, quindi, la famiglia può integrare alle spiegazioni dell’accaduto i significati che fanno parte del proprio sistema di credenza. A questa età, il bambino è in grado di sopportare maggiormente questo disagio, sebbene abbia comunque bisogno di tempo e spazio per elaborarlo. Ad esempio, si è visto che può essere utile l’utilizzo di un diario personale in cui tenere traccia dei propri vissuti.

Gli adolescenti sono in grado di comprendere anche le implicazioni pratiche e future riguardo la morte; pertanto, è utile che i genitori offrano loro l’opportunità di un confronto alla pari sull’accaduto e sullo svolgimento delle indagini. Inoltre, lo stress provocato dalla SIDS potrebbe contribuire ad accelerare il processo di distacco dalla famiglia tipico dell’adolescenza, motivo per cui è importante rispettare il volere del ragazzo di condividere alcuni vissuti emotivi al di fuori del nucleo familiare (Price, 2007).

In conclusione, per fornire un adeguato supporto ai fratelli, la letteratura mette in luce quanto sia importante aiutare la famiglia a creare una maggiore condivisione emotiva interna e un senso di vicinanza reciproca e, infine, far vedere loro che ciascuno non è solo nella sofferenza, ma che essa accomuna tutti, sebbene venga espressa con modalità differenti.

 

Attività motorie e funzioni esecutive (2022) di Fedeli, Pascoletti e Zanon – Recensione

Il libro “Attività motorie e Funzioni esecutive. Metodi e percorsi per la scuola primaria” pubblicato a Luglio 2022, è stato scritto da Daniele Fedeli, Stefano Pascoletti e Francesca Zanon, docenti universitari e ricercatori nell’ambito della pedagogia e dell’educazione presso l’Università di Udine.

 

 Il manuale si rivolge a insegnanti, educatori, istruttori sportivi e più in generale al personale che si occupa dei processi educativi nel corso del primo ciclo di istruzione.

L’obiettivo che si prefigge tale volume è proprio quello di indagare le interazioni tra le funzioni esecutive e le attività motorio-espressive come ad esempio: lo sport e il gioco.

Le funzioni esecutive sono abilità cognitive avanzate utilizzate per raggiungere con successo obiettivi personali, includendo quindi anche i processi cognitivi, quali ad esempio: flessibilità cognitiva, pianificazione e inibizione comportamentale. Questi due aspetti risultano fortemente correlati tra loro, in quanto, le attività motorio-espressive consentono al bambino di esercitare e potenziare le proprie funzioni esecutive e a sua volta lo sviluppo delle funzioni esecutive impatta sulle attività motorio-espressive. Queste connessioni vengono indagate all’interno del libro prendendo in considerazione la fascia d’età della scuola dell’infanzia e primaria, poiché queste fasi risultano particolarmente significative per uno sviluppo sano del bambino.

Nel libro, in primo luogo, viene sviluppata un’introduzione teorica in cui vengono presentati i principali modelli esplicativi delle funzioni esecutive, il loro impatto nello sviluppo e la loro interazione con l’ambito espressivo e motorio. Vengono poi analizzati i principali strumenti di assessment delle funzioni esecutive utilizzabili in età evolutiva prendendo in considerazione sia strumenti già validati e diffusi sia una batteria recentemente sviluppata dagli autori stessi (FE Battery).

La Batteria delle Funzioni Esecutive è stata ideata ai fini di supportare le osservazioni e le misurazioni delle funzioni esecutive nell’età dello sviluppo. Lo scopo di tale scala è quello di intercettare eventuali bias nella valutazione delle funzioni esecutive dovuti a compiti nuovi svolti all’interno di un contesto non conosciuto. Successivamente, il libro si focalizza su linee guida per la stesura di programmi educativi orientati all’ambito motorio, utili all’affinamento delle funzioni esecutive. In altri termini, fa riferimento alla dimensione didattica prendendo in considerazione sia lo sviluppo tipico che atipico con una particolare attenzione alla disabilità intellettiva. Un esempio di strumento di valutazione in ambito educativo proposto dagli autori è la batteria di prove denominata MOVIT.

La MOVIT è uno strumento che permette una valutazione dell’area psicomotoria, evidenziando le abilità, le difficoltà e le potenzialità di allievi a sviluppo tipico e in situazione di disabilità.

 Gli autori si sono soffermati anche sul rapporto bidirezionale tra funzioni esecutive e potenziamento delle prassie, definite come coordinazione dei movimenti che costituiscono un determinato atto. Questo concetto viene poi ampliato inserendolo all’interno degli ambiti dell’attività sportiva e del gioco. Vengono presentati tre esempi pratici in cui l’attività sportiva è utilizzata come strumento per potenziare le funzioni esecutive in una popolazione con sviluppo atipico. Il primo fa riferimento all’attività motoria scolastica con bambini autistici, il secondo prende in considerazione l’arrampicata con bambini iperattivi e il terzo, le arti marziali con bambini aventi un deficit di attenzione. Prendendo in considerazione l’esempio dell’arrampicata sportiva per bambini con ADHD, gli autori risultano particolarmente chiari nel fornire i motivi che hanno spinto all’utilizzo di tale sport per la popolazione di interesse. Infatti, viene chiaramente esplicitato che: l’arrampicata sportiva fornisce condizioni esterne prevedibili, la presenza di diverse vie di salita stimola la capacità di problem solving, è utile per allenare abilità quali attenzione, memorizzazione dei passaggi necessari e gestione dello sforzo.

In conclusione, possiamo dire che questo libro è utile in quanto offre elementi innovativi, riguardanti sia l’assessment delle funzioni esecutive sia la stesura di programmi educativi, il cui focus è l’aspetto motorio. Inoltre, fornisce numerose evidenze scientifiche sull’importanza dell’attività sportiva, la quale risulta benefica non solo da un punto di vista fisico ma anche cognitivo. Infine, la presenza di esempi pratici sul legame tra sport e funzioni esecutive, consente la comprensione dell’argomento non solo agli esperti in materia, ma anche ad un pubblico più ampio.

 

Comorbidità ADHD e altri disturbi psichiatrici

Uno studio di Bitter e colleghi, pubblicato nel 2019, ha evidenziato la necessità di approfondire in maniera più definita la presenza di sintomi riconducibili all’ADHD, poiché molto spesso questo disturbo non viene diagnosticato correttamente.

 

L’ADHD nell’adulto

 Il disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (ADHD o DDAI) è definito come un disturbo del neurosviluppo, caratterizzato da un persistente e inappropriato livello di disattenzione e/o iperattività e impulsività, con conseguente compromissione del funzionamento generale (APA, 2013). Tendenzialmente, le caratteristiche di ADHD più frequenti negli adulti corrispondono a scarse capacità attentive, associate a disorganizzazione e disregolazione emotiva (Kooij et al, 2010).

L’ADHD nell’adulto è spesso associato a risvolti di vita negativi, come compromissione del funzionamento psicosociale, scarsa qualità di vita, basso rendimento scolastico e lavorativo, relazioni interpersonali povere, capacità di guidare compromessa, basso status socioeconomico, bassa autostima o alti tassi di criminalità (Buitelaar et al., 2011; Chang et al.,2014).

È importante sottolineare che la diagnosi di ADHD rimane a oggi problematica proprio per gli alti tassi di comorbidità con altri disturbi mentali (Asherson et al, 2014). In particolare, se paragonati a persone prive di diagnosi ADHD, i pazienti con ADHD hanno alta compresenza di disturbi come depressione maggiore, distimia, disturbo bipolare, disturbi d’ansia, abuso di sostanze, disturbi di personalità (Asherson et al. 2014; Perroud et al., 2014). Allo stesso tempo, le statistiche mostrano la presenza di ADHD non diagnosticato pari al 19%, anche in pazienti in cura per altri disturbi (Deberdt et al., 2015). Questo dato fa riflettere in merito all’efficacia complessiva dei trattamenti somministrati poiché, a livello psicologico, essere sottoposti a un trattamento psicoterapeutico e farmacologico senza ottenere miglioramenti significativi nel tempo o avendo frequenti ricadute ha un’influenza negativa su questi pazienti, sui quali non è stata effettuata una corretta diagnosi di ADHD. La difficoltà nell’effettuare una corretta diagnosi risiede anche nella presenza di sintomi “sovrapponibili”, ovvero riconducibili a livello eziologico a diversi disturbi.

L’ADHD non diagnosticato

 Uno studio di Bitter e colleghi, pubblicato nel 2019, ha evidenziato la necessità di approfondire in maniera più definita la presenza di sintomi riconducibili all’ADHD, proprio perché molto spesso questo disturbo non viene diagnosticato correttamente. Infatti, sebbene negli ultimi anni questo disturbo venga riconosciuto e trattato più facilmente, ci sono ancora molte comorbidità nascoste, che ne rendono difficile la diagnosi, anche in pazienti già in cura per altri disturbi psichiatrici. Lo scopo di questo studio (Bitter et al., 2019) è stato dunque quello di stabilire il tasso di prevalenza dell’ADHD non diagnosticato in pazienti psichiatrici. I soggetti partecipanti allo studio sono stati selezionati da diversi centri di cura in Repubblica Ceca e Ungheria, ai quali è stato somministrato un questionario self-report per ADHD e successivamente l’intervista Conners’ Adult ADHD Rating Scale.

Secondo i criteri diagnostici del DSM-5, il manuale statistico e diagnostico per individuare la presenza di disturbi psichiatrici, la presenza di ADHD sfuggito a precedente diagnosi, in pazienti affetti da altri disturbi, corrispondeva al 9.27%. Lo studio condotto da Bitter e collaboratori (2019) ha analizzato il rapporto tra altri sintomi o veri e propri disturbi psicopatologici e la presenza di ADHD non diagnosticato. Il risultato più rilevante emerso riguarda il rapporto con il rischio suicidario; infatti, il legame tra rischio suicidario e ADHD non diagnosticato è risultato significativamente elevato, proprio come emerso da un precedente studio (Balazs & Kereszteny, 2017). Inoltre, l’ipotesi di Bitter e colleghi (2019) è che la presenza di ADHD fosse associata a una maggior severità di sintomi psicopatologici in casi di comorbidità con altri disturbi psichiatrici, ad esempio, la presenza di ADHD in molti casi aumenta le probabilità di sviluppare o aggravare l’abuso di sostanze (Ohlmeier et al., 2008).

Procedure e strumenti di autoterapia umoristica (2022) – Recensione

“Procedure e strumenti di autoterapia umoristica. L’umorismo: uno strumento efficace per favorire il benessere” ci spiega come sia utile non prendere sempre tutto troppo sul serio e come sia possibile utilizzare lo humor in terapia e fuori dalla terapia.

 

 Dopo un evento emotivamente difficile molti potrebbero essersi sentiti dire da un amico o da un familiare: ridi che ti passa, impara a riderci sopra oppure fatti una risata e vedrai che passa, e molti di questi potrebbero essersi arrabbiati o sentiti invalidati da questi suggerimenti. Potrebbero aver pensato dell’assurdità del ridere dopo un evento difficile o in una situazione spiacevole connotata di intensa tristezza, ansia, panico, rassegnazione, rabbia, senza rendersi conto sul momento che forse l’umorismo avrebbe potuto essere l’arma vincente per superare il problema.

“Procedure e strumenti di autoterapia umoristica” di Scarinci, Ruggiero, Carloni e Recanatini, edito da Franco Angeli, ci svela come sia possibile utilizzare l’umorismo “sano” per tollerare degli stati emotivi intensi e spiacevoli, i fallimenti che si incontrano sul proprio cammino, gli ostacoli alla propria realizzazione, mantenendo una prospettiva flessibile e nuova degli eventi che accadono, divertendosi, smorzando tensioni e creando coesione all’interno delle relazioni. Chi utilizza l’umorismo conosce bene i suoi benefici sul malessere, è consapevole della sua potenza spiazzante nel rovesciare un punto di vista predefinito e nell’aprire al contempo spiragli nuovi e imprevedibili. Allo stesso modo, la ricerca scientifica ha rimarcato la funzione positiva dell’umorismo nel trattamento dei disturbi psicologici  (Tse et al., 2010; Irving, 2019). Tali prove hanno consentito ai diversi approcci psicoterapeutici di far uso del sense of humor come strumento di conoscenza, consapevolezza e accettazione della realtà, di se stessi e degli altri.

Infatti, nella sua forma “sana” scevra da scopi aggressivi, prevaricanti o svalutanti, l’umorismo permette di decatastrofizzare e sdrammatizzare uno scenario pauroso o imbarazzante, di confrontarci con le perdite in modo meno drammatico e di ridurre l’esagerata sensibilità nei rapporti interpersonali, aumentando l’accettazione dell’ineluttabile o l’impegno a guardare le cose in una prospettiva non coerente rispetto la propria abituale.

 Gli autori propongono al lettore varie applicazioni dell’umorismo da utilizzare dentro e fuori il setting terapeutico attraverso l’uso di battute, esagerazioni, metafore, ragionamenti illogici e illustrazioni. Tra le procedure e le tecniche descritte per promuovere e incoraggiare il sense of humor troviamo l’autocaratterizzazione, il genogramma, la ristrutturazione cognitiva, l’immaginazione. Sebbene queste tecniche si concentrino su aspetti e dimensioni diverse della persona, tutte sono volte ad aiutare la persona a descrivere, ricostruire e narrare la propria “storia” andando alla ricerca del “lato divertente” mai banalizzando, ma sempre contestualizzando e disinnescando i processi e i contenuti disfunzionali. Per esempio, la ristrutturazione cognitiva umoristica potrebbe assolvere lo scopo di disputare in termini umoristici idee o pensieri irrazionali per produrre cambiamenti comportamentali ed emotivi, così come l’immaginazione potrebbe consentire di alterare la funzione avversiva di un’immagine o di un pensiero evocando sensazioni ed emozioni differenti.

Il libro di Scarinci e colleghi ci accompagna pagina dopo pagina, vignetta dopo vignetta, a scoprire come sviluppare e coltivare il nostro “io umorista” e un po’ pagliaccio a cui possiamo affidarci nei momenti della vita più difficili per regolare le emozioni intense, progettare un cambiamento o oltrepassare ostacoli attraverso una risata e con amorevole gentilezza e compassione verso noi stessi.

 

La morte della farfalla (2016) di Pietro Citati – Recensione

Nel libro “La morte della farfalla” (2016), Citati ripercorre la salita verso il successo dei coniugi Fitzgerald e la loro caduta nel buio della malattia. 

 

 Quello che ci presenta Citati è una doppia biografia, in cui si evidenzia il ruolo di Zelda Fitzgerald, moglie dello scrittore Scott e lei stessa autrice, dimenticata, però, dal panorama letterario. Ultimamente, infatti, si sta cercando di far chiarezza sull’ascesa nel mondo della scrittura di Scott, a cui sicuramente ha contribuito, anche con aiuto autoriale, Zelda. A questo enorme successo della famiglia, segue il loro declino psicologico e psichico, che continuerà fino alla morte delle due farfalle.

Inizio di un amore

Chi sono Zelda e Scott Fitzgerald? Ripercorriamo in breve la loro relazione: furono una delle coppie più iconiche degli anni ’20 del Novecento. I due si conobbero da giovani ad un ballo e, sin da subito, Scott corteggiò Zelda perché colpito dall’audacia di questa donna indipendente che sfidava i costumi di quel periodo. Scott riuscì nel suo intento, infatti nel 1920 si sposarono e vissero i primi anni di matrimonio con grande entusiasmo. Dopo un po’ di anni, però, le discussioni tra i due iniziarono a essere più frequenti e accese, accompagnate dai problemi di insonnia e alcolismo di lui, e di depressione di lei.

Il ruolo della malattia

La malattia, nel testo di Citati e nella vita di Scott e Zelda, ha un ruolo fondamentale poiché tormenta i due coniugi fino alla loro morte: dopo il successo, hanno a che fare con un declino precipitoso della loro vita, dato che i libri di Scott non raggiungono il successo dei precedenti e Zelda, sentendosi sempre più tradita, sia dal punto di vista relazionale, sia per quanto riguarda l’attività di scrittrice, diventa sempre più fragile.

Tra i due si instaura un rapporto molto problematico, viste anche le criticità della salute mentale di entrambi, un rapporto che Citati descrive con queste parole:

Erano la stessa persona, con due cuori e due teste; e questi cuori e queste teste si volgevano appassionatamente l’una verso l’altro, l’una contro l’altro, fino ad ardere in un unico rogo
(La morte della Farfalla).

Questo rapporto sfocerà in una vera e propria malattia nel caso di Zelda, e in dipendenze per Scott. Vediamo in che forme la malattia caratterizza la loro vita, e il loro rapporto con l’arte, precisamente con la danza per lei e con la scrittura per lui.

Scott e al scrittura

Francis Scott Fitzgerald diventò uno scrittore molto cosciente di sé e della sua arte, grazie al successo che ottenne in America. Lui riteneva che la sua arte fosse un dono tanto che nei Taccuini scrisse: “In ogni mio racconto c’era una piccola goccia di qualcosa – non di sangue, non di pianto, non del mio seme – ma qualcosa di più intimamente mio di questo”.

Questo non voleva, però, dire abbandonarsi alla vocazione e lasciarsi trasportare dalla penna, ma lavorare con fatica e sacrificarsi in nome dell’amore per l’arte. Era una questione sì di vocazione, ma anche di sudore, volontà, fatica e sacrificio.

Per riprendere la metafora usata da Pietro Citati, da giovane era stato una farfalla con le ali coperte di polvere iridescente, ma poi diventò un soldato. Il perché di questo cambiamento ci viene spiegato:

Le condizioni di una vita artisticamente creativa sono così ardue, che ad esse posso paragonare soltanto i doveri di un soldato in tempo di guerra
(La morte della farfalla).

Fitzgerald, infatti, stava sempre in casa a dedicarsi al suo lavoro, come un recluso, convinto che lui e la sua arte bastassero per una vita completa, convinto di poter sopravvivere senza alcun contatto esterno. Sentiva di essere un artista, un soldato alla frontiera […] contro le orde selvagge di una melanconia essenziale (Kierkegaard).

 Un artista rende l’arte il mezzo per dare voce, e vita, alla melanconia, o melancolia, essenziale ed esistenziale che preme sulla sua vita; questo è anche il caso di Scott. Un legame, quello tra arte e melancolia, che percorre innumerevoli pagine della letteratura, tanto che lo vediamo anche nella Grecia del IV secolo a.C. Con il Problema XXX, pseudo-aristotelico e riconducibile a un allievo di Aristotele, Teofrasto, si affronta la relazione tra melancolia e genio. Si cerca di dare una spiegazione, anche fisiologica, di come la melancolia, come patologia o disposizione caratteriale, sia in un rapporto molto stretto con il genio e l’estro creativo. Anche F. Scott Fitzgerald vive questo dualismo, questa relazione tra melancolia e arte.

Zelda e la danza

Zelda, come suo marito, si rifugiava nell’arte, con cui tentava di colmare le mancanze causate dalla sua malattia mentale, ma non faceva che immergersi nel buio dei suoi pensieri. Lei si rifugiava nella danza: ballava sia di notte che di giorno, davanti allo specchio per osservare meglio il suo corpo, da sola e con gli altri. Lei aveva sempre amato la danza, ma a un certo punto iniziò la sua irrefrenabile velleità di diventare ballerina professionista. Molti pensavano fosse un desiderio innocuo, senza sapere che ciò avrebbe aumentato le sue insicurezze. Questa è la radice della sua tragedia: dietro i movimenti sinuosi e apparentemente leggeri e fragili della danza, nascondeva la sua malattia, la schizofrenia. Si autoflagellò con l’attività fisica: danzava davanti allo specchio, si interrompeva solamente per bere, aveva lividi in tutto il corpo, la notte legava i piedi alle sbarre del letto, per raggiungere i canoni estetici della danza classica, e il suo corpo diveniva sempre più rigido.

Quello che otteneva non era, però, leggiadria e leggerezza ma, come i coniugi Murphy raccontarono, “qualcosa di terribilmente grottesco nell’intensità” (La morte della farfalla). Tutto era pesantezza, infelicità, sforzo, uno sforzo che ci ricorda quello di Scott nello scrivere, uno sforzo che portò a un delirio che si estese sempre di più, fino a che lei iniziò a parlare in modo insensato, sorridere senza alcuna ragione e tacere isolandosi per ore.

Zelda e la scrittura

Nelle parole di Citati, si percepisce come lui abbia uno sguardo affettuoso e compassionevole nei confronti di Zelda e una certa freddezza nei confronti di Scott.

Questo possiamo immaginare sia dovuto al fatto che diversi studi hanno portato alla luce come Zelda, probabilmente, fu autrice di numerose pagine, passate sotto il nome di Scott. Lei era molto appassionata alla scrittura, a cui si dedicava con la stesura dei suoi diari, diari dati a Scott per il suo romanzo d’esordio “Di qua dal paradiso”, la cui protagonista era plasmata sulla figura di Zelda.

Per il romanzo successivo, “Belli e dannati”, pare che Scott abbia riportato pagine intere dei diari di Zelda. Vi fu la proposta di pubblicare in un’opera i diari di Zelda, opera che si sarebbe intitolata “A Young Girl’s Diaries” ma Scott non fu d’accordo. Proprio dopo quest’evento, i diari di Zelda sparirono. Zelda, dopo la pubblicazione di “Belli e Dannati”, scrisse questo:

Mi sembra che in una pagina ho riconosciuto una parte di un mio vecchio diario misteriosamente scomparso poco dopo il mio matrimonio, e anche frammenti di lettere che, sebbene notevolmente modificati, mi suonano vagamente familiari. In effetti, il signor Fitzgerald – credo che sia così che scrive il suo nome – sembra credere che il plagio inizi a casa.
(The New York Tribune).

Non si sa quanto sia ironica o quanto sia sincera, ma sappiamo che qualcosa non è chiaro in questa questione.

Morte delle due farfalle

Scott continuò a scrivere, mantenendo viva la sua creatività sino alla morte. L’ultimo libro a cui si dedicò fu “The last Tycoon”, di cui riuscì a scrivere qualche capitolo. Un attacco cardiaco, però, portò la fine della sua vita, ma non della sua arte, che sopravvisse nel tempo.

Hemingway parla della sua morte con parole evocative:

Scott… aveva ancora la tecnica e lo spirito romantico per fare qualsiasi cosa, ma da molto tempo tutta la polvere era sparita dall’ala della farfalla, anche se l’ala ha continuato a battere fino alla morte della farfalla (La morte della farfalla).

L’angelo con le ali un po’ bruciacchiate, Zelda, non guarì mai dalla sua malattia, ma perse il fuoco della sua giovinezza e fece del tormento sfondo delle sue giornate.

Nel pieno della sua sofferenza, tornata un’altra volta allo Highland Hospital, affermò di non avere paura di morire, ma un incendio nella cucina d’ospedale portò alla sua morte, “arsa per sempre dal suo fuoco”.

Di lei rimase solamente una pianella quasi incenerita, che permise di riconoscerne il cadavere e seporlo vicino al marito.

Una vita di luci e ombre

La vita dei coniugi Fitzgerald, come abbiamo visto, è fatta di eccessi e viene ricordata ancora oggi come mito e paradigma dei “ruggenti anni 20”, della vita di successo e sfarzo che vissero. Gli eccessi, però, vi furono sia nel bene che nel male e portarono a un declino davvero precipitoso.

Così continuiamo a remare, barche contro la corrente, risospinti senza posa nel passato (“Il Grande Gatsby”, F. Scott Fitzgerald): queste le ultime parole de “Il Grande Gatsby” incise sulla lapide dei due coniugi, sepolti uno vicino all’altro. Sebbene la loro notte non sia stata tenera e la loro vita sia stata davvero tormentata, la loro vita e la loro arte sono passate alla storia.

Se Lev Tolstoj aveva ragione a scrivere “Tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza della vita è composta d’ombra e di luce” (Anna Karenina), la vita dei Fitzgerald è stata varia, deliziosa e bella. Soprattutto è stata una vita piena di ombre e di luci, dalla luce del successo all’ombra della malattia, dall’alba della loro vita, invidiata da chiunque, al crepuscolo di un’esistenza inquieta.

 

Il contatto tra autori di reato e vittime

Lo studio condotto nel 2020 da van Denderen e colleghi, ha come scopo quello di esplorare, in quattro ospedali psichiatrici forensi diversi, la giustizia riparativa e l’esperienza degli assistenti sociali durante l’incontro tra vittima e autore di reato.

 

La giustizia riparativa

 Il crescente interesse nei confronti del contatto tra vittima e autore di reato, nella pratica scientifica così come in quella clinica, si inserisce in generale nel contesto degli sviluppi delle pratiche di Giustizia Riparativa (Restorative Justice, RJ).

La giustizia riparativa è un approccio nei confronti del crimine che dà alle vittime, agli autori di reati ed agli altri individui coinvolti, una maggiore influenza nel modo in cui le conseguenze del reato sono trattate (Latimer et al., 2005; Sherman et al., 2015).

Le pratiche di giustizia riparativa danno maggiore rilevanza alla possibilità di coinvolgere e tenere conto dei bisogni delle vittime e degli autori di reato (Robinson & Shapland, 2007). Queste pratiche vogliono essere un mezzo di riparazione morale, psicologica e sociale (Zinsstag & Keenan, 2017).

Alcuni studi hanno riportato effetti positivi che includono: una diminuzione della rabbia, del bisogno di vendetta e dei sintomi del disturbo da stress post-traumatico delle vittime (Angel et al., 2014; Daly, 2003). Ciononostante, altri studi hanno riportato anche risultati negativi, come il peggioramento dei sentimenti di paura da parte delle vittime nei confronti degli aggressori (Wemmers & Cyr, 2005).

Anche riguardo ai pochi studi che hanno indagato l’impatto del contatto tra vittime e autori di reato sulla recidività, i risultati hanno rilevato dati contrastanti (Jonas-van Dijk et al., 2020; Livingstone et al., 2013).

Le procedure ed i possibili miglioramenti riguardanti il contatto tra vittime e autori di reato, o in generale riguardanti le pratiche di giustizia riparativa, sono state spesso studiate prima della sentenza come un’aggiunta al procedimento penale oppure in un contesto carcerario (Latimer et al., 2005; Sherman et al., 2015; Stewart et al., 2018; Strang et al., 2006; Wemmers & Cyr, 2005; Zebel et al., 2017).

L’incontro tra vittima e autore di reato

I dati sono ancora insufficienti; si hanno poche evidenze riguardo alle circostanze in cui potrebbe essere vantaggioso il contatto tra vittime e autori di reato, così come non si sa molto della presenza di specifiche caratteristiche degli autori di reato che potrebbero influenzare i risultati. Per questo, lo studio condotto nel 2020 da van Denderen e colleghi, ha come scopo quello di esplorare, in quattro ospedali psichiatrici forensi diversi, l’esperienza degli assistenti sociali durante l’incontro tra vittima e autore di reato.

In particolare, gli autori hanno intervistato 35 assistenti sociali su 56 casi di reato, investigando: la psicopatologia degli individui, il reato commesso, la relazione tra vittima e autore di reato, lo svolgimento del contatto e i possibili fattori di promozione o di ostacoli che possono occorrere.

Il risultato principale riguarda la capacità degli autori che hanno commesso reati gravi e con severi disturbi mentali di avere un contatto con la vittima, a seconda degli obiettivi e della tipologia di contatto. Infatti, gli assistenti sociali non hanno riscontrato particolari categorie di disturbi mentali o di reati che escludessero –“per definizione” e a priori– l’incontro.

 Gli assistenti sociali hanno inoltre riportato che il contatto tra vittime e autori di reato può determinare numerosi benefici; alcune vittime ottengono risposte alle loro domande e sono in grado di esprimere le conseguenze emotive del crimine al loro aggressore, mentre gli autori dei crimini riescono ad esprimere il loro rammarico alla vittima e riescono anche a ripristinare i possibili precedenti rapporti (in caso le vittime fossero parenti dell’aggressore).

In linea con i risultati di un precedente studio condotto nel 2015 (Cook et al., 2015), il processo preparatorio è risultato essere un altro fattore benefico, sia per la vittima che per l’autore di reato, anche in assenza di un contatto conclusivo.

Gli assistenti sociali hanno riscontrato determinate caratteristiche che risultano facilitare od ostacolare il contatto: secondo quanto riferito nelle interviste, la consapevolezza dei problemi causati, la capacità riflessiva ed una condizione psichiatrica stabile sono fattori che possono influire positivamente; al contrario, una comprensione scarsa del problema arrecato alla vittima, insieme ad aspettative irrealistiche su ciò che potrebbe succedere incontrando la vittima, sono fattori che possono influire negativamente.

Un dato importante è che, gestendo le aspettative delle due parti, nella maggior parte dei casi gli assistenti sociali sono riusciti a far avvenire il contatto nonostante le caratteristiche ostacolanti (Drennan, 2018).

I risultati di questo studio suggeriscono che la psicopatologia dell’autore di reato non è necessariamente determinante per il contatto con la vittima; in realtà, è stato riscontrato che molti dei risultati positivi dipendono dalle competenze degli assistenti sociali e del team per il trattamento, dal modo di gestire la psicopatologia e dalla forma di contatto che si decide di far intraprendere. Anche questo dato è in linea con i risultati precedenti che evidenziano che per permettere un contatto con autori di reato che soffrono di disturbi mentali, sia necessaria una maggior formazione e personale qualificato a lavorare con pazienti che soffrono di psicopatologie gravi (Garner & Hafemeister, 2003).

Una delle motivazioni principali che porta gli autori di reato a voler instaurare un contatto è il ripristino dei legami con i parenti (che sono state vittime). Questo è in linea con altre ricerche che hanno mostrato l’efficacia delle pratiche riparative nel rafforzare la rete di sostegno sociale (Hafemeister et al., 2012). Un ambiente familiare stabile e un forte sostegno sono risultati essere dei fattori protettivi nei confronti di individui che mostrano comportamenti violenti ripetuti (de Vogel et al., 2011).

Conclusioni

In conclusione, è stato riportato che il contatto tra vittima e autore di reato non dovrebbe essere scoraggiato a priori poiché, come riportato dagli assistenti sociali in questo studio, non sono state riscontrate specifiche categorie di disturbi mentali o reati per i quali il contatto è escluso per definizione. Facilitare il contatto è un processo complesso che richiede professionisti altamente qualificati, preferibilmente in gruppi multidisciplinari. È importante che la direzione degli ospedali forensi aiuti i propri professionisti a svolgere al meglio il loro lavoro, fornendo tempo, formazione e mezzi sufficienti all’organizzazione del contatto tra vittima e autore di reato (van Denderen et al., 2020).

 

Psicologia del giudicare: tra ragione e sentimento 

Il presente contributo vuole rappresentare uno spunto di riflessione psicologica che punta al superamento della dicotomia tra ragione ed emozione approfondendo il contesto della psicologia giuridica.

 

Abstract

 La sfera emotiva, infatti, rappresenta un contributo indispensabile per la razionalità, una mente senza emozioni non è per nulla una mente (Le Doux J, 1998). Pur riconoscendo la reale possibilità che influenze emotive possono essere alla base di ragionamenti sbagliati, non si può non considerare quello che gli studi psicologici (De Groot 1965; Chase e Simon 1973; Kahnemann 2011) hanno consolidato da tempo, ossia che è l’apporto emotivo a dare inizio al processo decisionale. Allora il focus non è più da considerarsi in termini di esclusione della dimensione emotiva, quanto di una sua indispensabile integrazione che deve passare dalla consapevolezza che l’emotività possa avere aspetti devianti ma anche virtuosi.

Alcune bussole per orientarsi

Per secoli le emozioni sono state contrapposte alla razionalità, ma mantenere questo atteggiamento mentale non permette di avere accesso alle dimensione emotiva che è sempre presente in ogni atto della ragione: negandole non si elimina certo il peso, anzi lo si rende un’incognita.

La difficoltà ad includere le emozioni all’interno del processo decisionale si evince anche dall’analisi delle teorie scientifiche proposte fino agli anni cinquanta. La principale teoria faceva riferimento ai principi della coerenza​ e della massimizzazione, invocando l’indipendenza dal contesto e la massima utilità. È solo a partire dagli anni 70 che con Simon, Premio Nobel dell’economia nel 1978, si inizia a comprendere come la complessità dei dati e i limiti cognitivi dell’uomo non permettono di operare solo e sempre attraverso logiche deduttive, ma è più vicina alla realtà quotidiana parlare di decisioni soddisfacenti. Nascono così le prime teorie descrittive che cercano di delineare il come in realtà gli individui prendono le decisioni. Si evidenzia l’importanza del ragionamento induttivo che consente di utilizzare l’esperienza passata per orientare il comportamento presente. Questo processo permette di arrivare a conclusioni plausibili e probabilmente vera. Ecco che la dimensione esperienziale inizia a palesarsi nel processo decisionale.

Kahneman e Tversky nel 1974 identificano delle scorciatoie che ognuno di noi utilizza nell’uso della propria esperienza: queste scorciatoie prendono il nome di euristiche. Gli autori ne rintracciano alcune: l’euristica della disponibilità in forza della quale gli eventi più facili da ricordare solo più disponibili. Un esempio è costituito da quanto ci sta accadendo: se dovessimo chiedere se nel 2020 in Italia ci siano stati più morti per Covid o di tumori molti risponderebbero di Covid ma non perché questo corrisponda al vero, ma solo perché la nostra esposizione mediatica rende più disponibile le informazioni relative ai decessi da SARS-2.

Un’altra scorciatoia è rappresentata dall’euristica della rappresentatività ossia più l’evento esaminato assomiglia alle caratteristiche di una determinata classe, più ne farà parte. Un esempio classico che spiega quest’euristica è dato da una serie di interviste nelle quali veniva chiesto a un soggetto di immaginare un cittadino a caso con gli occhiali che parlava in maniera pacata, che è ordinato e che legge molto; veniva poi chiesto loro di dire se tale individuo fosse un bibliotecario o un agricoltore. La maggior parte degli intervistati rispose che il soggetto era un bibliotecario laddove è evidente che per numero di abitanti il numero di agricoltori è di molto superiore a quello dei bibliotecari.

Un’altra euristica individuata dagli autori e quella dell’ancoraggio in forza della quale quando ci troviamo a valutare una serie di eventi i primi hanno su di noi, e sulla nostra scelta, un peso molto superiore ai successivi. Le euristiche descritte non sono artifici teorici, ma sono trappole cognitive, errori sistematici a cui tutti siamo esposti.

Di quanto la dimensione emotiva sia necessaria in ogni processo decisionale se n’è avuta prontezza anche dal punto di vista clinico: soggetti con danno prefrontale ventro mediale, nei quali era stata rilevata una incapacità a provare emozioni, non riuscivano più a prendere delle decisioni, a fronte dell’integrale capacità intellettiva, attentiva e mnestica (Damasio, 1995). Le predette osservazioni portarono Damasio e il suo gruppo di lavoro ad ipotizzare che le emozioni svolgessero una funzione di guida cognitiva nel processo decisionale.

Altro interessante spunto di riflessione sulle emozioni è quello dato da Michael Brady (2014), che sottolinea il valore epistemico delle emozioni in forza delle loro caratteristiche di riflessività. In altre parole la possibilità che il soggetto ha di riflettere sulle proprie decisioni, avendo consapevolezza dello stato un motivo che ha provato, permetterebbe un ulteriore approfondimento epistemico da parte del soggetto stesso. In quest’ottica le emozioni, attraverso pratiche virtuose, possono restituire credenze giustificate: questa riflessione aiuterebbe a correggere certi pregiudizi affinando il giudizio o mettendo a tacere certe considerazioni.

Accertato che la dimensione emotiva costituisce un elemento importante nei processi decisionali come possiamo però determinare il suo peso? E come questo varia da persona a persona?

Davinson (2012) prova a rispondere a queste domande definendo il concetto di stile emozionale come particolarità unica che caratterizza ogni persona. Tale stile, identificato come un pool affettivo del quale ognuno di noi è portatore, secondo l’autore sarebbe la combinazione di 6 dimensioni: resilienza, istinto sociale, autoconsapevolezza, sensibilità al contesto e attenzione. Per ognuna di queste dimensioni Davidson definisce specifiche caratteristiche neuronali e, benché lo stile emozionale rimanga piuttosto stabile nel tempo, esso può tuttavia essere modificato da esperienze contingenti.

La particolare combinazione tra elementi emotivi individuali, informazioni acquisite e modalità di elaborazione porterebbe a definire quelli che Susan Scott (1995) ha identificato come stili decisionali. L’autrice ne ha individuati cinque: lo stile razionale contraddistinto dalla ricerca completa delle informazioni per l’analisi delle alternative possibili e delle conseguenze; lo stile intuitivo con una particolare attenzione agli aspetti globali e la tendenza a decidere in base alle sensazioni; uno stile dipendente nel quale si tende a ricorrere a suggerimenti degli altri; uno stile esitante ed, infine, quello spontaneo caratterizzato dalla tendenza a decidere più velocemente possibile. Particolari eventi nella vita di ognuno determinano la costruzione del nostro assetto emotivo di base e questo esercita un peso sia nel processo decisionale che nella formulazione di un giudizio.

Altri elementi influenzano i nostri processi decisionali come l’umore, l’ansia, lo stress. Generalmente le nostre decisioni tendono a perpetrare il nostro umore. Ad esempio i soggetti ansiosi tenderebbero, nel processo decisionale, ad utilizzare un minor numero di informazioni e salterebbero alle conclusioni; inoltre, questi soggetti presenterebbero una maggiore difficoltà nell’apprendere dalle esperienze e sarebbero propensi a vivere ogni evento come nuovo.

Oltre alla dimensione emotiva, altre insidie possono determinare una involontaria faziosità del giudizio: sono tutte quelle serie di convinzioni di cui ognuno di noi è portatore. Parliamo della psicologia implicita intesa come quell’insieme di credenze e teorie che ognuno matura sul comportamento del prossimo, e della teorie della mente ossia la tendenza del soggetto ad attribuire stati mentali agli altri. Convinzioni, ad esempio, quali: i bambini specie se piccoli non sanno mentire; le prime dichiarazioni dei bambini sono quelle più genuine; se due testimoni dello stesso fatto dicono cose diverse uno dei due dice falso; sono spesso il frutto di queste trappole cognitive.

Questi elementi possono, inoltre, essere alla base di uno schema mentale che costruiamo ogni volta che veniamo in contatto con le informazioni o con una persona nuova. Numerosi studi (Willis, Torow; 2006) hanno mostrato come questi schemi tendono a resistere al cambiamento influendo sulle interpretazioni che il soggetto fornisce degli eventi (bias della conferma), ma vi è più: se si considera l’effetto priorità, in base al quale l’informazione che giunge per prima ha maggiore impatto rispetto a quella successiva, tali schemi possono far risentire i propri effetti anche quando si scopre che l’impressione iniziale è palesemente sbagliata.

In una visione ecologica del processo decisionale, inoltre devono introdursi anche elementi contestuali che incidono sul nostro funzionamento e si fa riferimento alla pressione sociale che in determinati casi può essere associata ad un particolare processo. Il quadro si complessifica ancor di più se si pensa che in ogni passo del processo del giudicare si possono introdurre elementi distorcenti ed ognuna proporre una propria specifica narrazione. Appare esemplificativo quanto ci ricorda Rovelli (2014) “noi non conosciamo il mondo com’è, costruiamo narrazioni che ci danno una struttura per concettualizzare il mondo, ma queste non possono essere prese per fondamento di una certezza poiché esistono altre narrazioni possibili”.

L’atto del giudicare

Probabilmente il pensare che giudicare non significa essere insensibili, ma essere in ascolto ci aiuta maggiormente a non pensare ragione e sentimento come entità separate. Colui che giudica, infatti, dovrebbe lasciarsi muovere dalla specifica esperienza nella quale è processualmente immerso perché tutti gli attori processuali sono anche attori emotivi. E ogni attore tende naturalmente a “punteggiare” in maniera personale la sequenza comunicativa organizzando secondo una specifica prospettiva. Per esempio il marito dirà che picchia la moglie perché questa lo insulta ma lei dirà che lei lo insulta perché lui la picchia. Il Pubblico Ministero giustificherà il proprio rigore con il ‘cattivo’ comportamento processuale dell’imputato il quale invece spiegherà la propria condotta come giustificata dal rigore del Pubblico Ministero ecc.” (Gulotta, 1987).

L’emotività è non solo un dato innegabile, ma è anche un qualcosa che può e deve essere integrato positivamente nell’iter decisionale.

Ragione e sentimento possono essere intesi, secondo la teorizzazione proposta da Kahneman (2011) come due sistemi a velocità differenti; due vie che guidano il nostro modo di decidere, un Sistema Euristico (Sistema 1) e un Sistema Analitico (Sistema 2).

Il primo sistema opera con modalità caratterizzate da rapidità, impulsività e automatismi; tutti funzionamenti difficili da controllare o modificare. Esempi del suo funzionamento sono i ragionamenti esplorativi nei quali si salta velocemente alle conclusioni. Nel mondo anglosassone, quando si vuol definire una decisione intuitiva, si fa ricorso all’espressione gut feeling. L’immagine evoca un modo di sentire viscerale. Questo sistema euristico può essere pensato come un inconscio cognitivo, un pilota automatico che, acquisito evolutivamente, ci permette di avere elementi per muoverci agevolmente nel mondo in maniera sufficientemente efficiente e senza sforzo, è il sistema che Altavilla (1948) annovera tra le “esperienze subcoscienti”. È in questo sistema che la dimensione emozionale rappresenta un elemento estremamente importante.

Il secondo sistema implica processi consapevoli, più ponderati e lenti, come quelli messi in campo quando si affronta un calcolo matematico.

Secondo questa teorizzazione S1 si farebbe carico del problema azzardando una soluzione che poi passerebbe al vaglio del sistema S2. In quest’ottica gli errori di giudizio sarebbero da ricercare nella difettosità del controllo operato da S2. Già Altavilla ammoniva: “l’intuito, proprio per questa sua origine, può alle volte dare risultati preziosi, alle volte creare un uniformismo pericoloso per il giudice. L’intuito è certamente una voce che sorge dall’incosciente, in cui si è accumulata la nostra esperienza e anche quella della razza, che precedendo ogni processo analitico di ragionamento, ci fa sentire come un avvenimento ha dovuto verificarsi. Ed alle volte questo giudizio anticipato si cristallizza così prepotentemente nella coscienza del giudice, che non soltanto le risultanze processuali non varranno a modificarlo ma egli, inconsapevolmente, si sforza di adattare questi risultati al suo convincimento”.

Trovare un giusto equilibrio tra ragione e sentimento è fondamentale per aumentare le probabilità di successo quando bisogna prendere una decisione. Ogni posizione estrema è espressione di una rigidità che diventa incapacità e limitatezza.

Tutto porta verso un inevitabile superamento della dicotomia classica tra emotivo e cognitivo, poiché l’emozione diviene parte fondamentale della cognizione. I sistemi neurofisiologici alla base di questi due circuiti sono interconnessi e grazie alla loro interazione permettono di scegliere le alternative comportamentali più adatte ad una specifica situazione. Emerge dunque da tale interconnessione la necessità delle componenti emotive per attuare un processo decisionale (Forza et al., 2017).

Lo stesso affidarci esclusivamente alla razionalità nei fatti porterebbe ad una stortura del funzionamento umano e con esso alla capacità di decidere. Essere dei signor Spock, come il personaggio della serie Star Trek, nei fatti costituirebbe una mortificazione del nostro stesso essere. Quasi alla ricerca di un’integrazione possibile il dott. Spock, teso a funzionare solo con la ragione è, nella rappresentazione narrativa, un vulcaniano; come se le sue origini riportassero comunque ad una necessaria integrazione emotiva.

 Come ricorda Gulotta “il pensatore logico e razionale non è affatto colui che è in grado di controllare e mitigare il peso delle emozioni, in quanto senza queste il processo decisionale sarebbe molto meno efficace ed adattivo. Gli stati emotivi, infatti, sono qualcosa di intrinsecamente legato al processo decisionale: nel prendere una decisione, e nel memorizzare il suo esito, va ad accrescersi in noi una ‘memoria emozionale’ che permetterà, in situazioni successive, di generare decisioni più rapide ed efficaci grazie all’attivazione del medesimo stato emozionale”. …Pertanto, ‘liberarsi’ dalle emozioni per diventare decisore migliore non solo non è possibile, ma non è nemmeno auspicabile. Piuttosto, risulta utile conoscere ed essere consapevoli del funzionamento specifico delle reazioni emotive e del modo in cui queste si manifestano (Gulotta, 2018)

Esemplificazione clinica: il caso Tortora

Ogni teorizzazione, e non fanno eccezione quelle proposte nel presente contributo, propone un modo per leggere la realtà nella consapevolezza che ogni esperienza di vita mai si adatterà pienamente ad una definizione univoca o ad un modello seppur complesso.

Con questa premessa, nella seguente esemplificazione vogliamo provare, nella rilettura del caso Tortora, a identificare i possibili processi che probabilmente hanno sotteso alcune fasi di quello che venne definito da Giorgio Bocca (2010) come “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso effettuato dal nostro paese”. L’analisi proposta assume un ulteriore valore se si considera il costo che gli errori giudiziari hanno per l’erario del nostro Paese.

In Italia, solo per l’anno 2018 sono stati versati 33 milioni di euro per 895 casi di ingiusta detenzione. Si intende qui fare riferimento a coloro che subiscono una misura cautelare intramuraria o domiciliare per andare poi incontro ad una assoluzione. Per gli errori giudiziari sono stati versati, invece, circa 48 milioni di euro a fronte di 913 innocenti ingiustamente condannati. Si consideri errore giudiziario il caso in cui dal 1992 al 2017, a causa di condanne errate sono stati erogati quasi 700 milioni di euro; se si considerano anche gli errori giudiziari la somma ammonta a 768 milioni per un totale di 26 mila persone ingiustamente condannate (Gulotta, 2018).

Enzo Tortora è stato un giornalista, un conduttore (radiofonico e televisivo) e un politico. La carriera di Tortora viene bruscamente interrotta il 17 giugno 1983, quando viene arrestato con l’accusa di “associazione per delinquere di stampo camorristico”; viene accusato di essere un membro della Nuova Camorra Organizzata e di essere dedito allo spaccio di stupefacenti. Le accuse furono avanzate dalla Procura di Napoli, dai pubblici ministeri Di Pietro e Di Persia in seguito alle dichiarazioni di pregiudicati, assassini e camorristi: se ne contarono più di undici.

Su alcuni di questi personaggi appare opportuno spendere poche parole solo per identificare possibili “storture del giudicare”. Giovanni Pandico, uno dei primi a fare il nome di Tortora è per gli inquirenti “un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare ”. È probabile che lui diventa nella mente dei giudici una figura rappresentativa, un prototipo del “pentito”; ogni sua parola diventa fonte di preziosa informazione. A conferma di ciò ecco cosa dichiareranno i giudici nelle motivazioni del processo di primo grado “deve darsi atto al Pandico, al di là di qualsiasi valutazione critica sulla reale entità del suo contributo, di aver dimostrato una dedizione senza pari alla causa della giustizia, sposata con impeto e senza vie di mezzo”.

L’euristica della rappresentatività, come già precedentemente espresso nel presente contributo, nei fatti congela l’idea che si ha di una persona addebitandole caratteristiche che potrebbe non possedere.

Altri magistrati, quelli del così detto terzo troncone dell’inchiesta, probabilmente meno invischiati dall’euristica della rappresentatività su Pandico diranno “(…) non è stato mai affiliato alla Nco, Pandico ha dato corpo a sue personali convinzioni o a suoi personali risentimenti, che nel corso di questo procedimento non hanno risparmiato nessuna delle persone che hanno avuto un qualche rapporto con lui”. Ed è lo stesso Giovanni Pandico che ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, e che per i medici è “schizoide e paranoico”. Ritornando ai fatti: l’accusa prende corpo, di fatto, unicamente da un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista con su scritto a penna un nome che appare essere, all’inizio, quello di “Tortora”, con a fianco un numero di telefono; nome che, a una perizia calligrafica, risulterà non essere il suo, bensì quello di tale “Tortona”.

Nemmeno il recapito telefonico risulterà appartenere al presentatore. Dal nostro vertice di osservazione la narrazione, probabilmente nella mente della procura inizia proprio con una fascinazione che la presenza di quel nome porta con sé: non a caso tutta l’operazione porta il nome Portobello, il nome della trasmissione televisiva. Una ponderosa operazione più di 850 mandati di cattura e 4000 arresti. All’epoca dei fatti il conduttore televisivo veniva seguito nella sua trasmissione da una media di 18.900.000 spettatori.

A partire da quello che potrebbe essere un banale errore di lettura di una grafia incerta, si innescano tutta una serie di dichiarazioni di pregiudicati che vanno a corroborare quella che Cecchin (1997) avrebbe definito “un’idea perfetta”.

Sull’importanza delle prime informazioni e sul loro peso si è già parlato quando si è fatto riferimento all’euristica dell’ancoraggio e all’effetto priorità. Le informazioni successive non si vanno mai a sommare algebricamente a quelle precedenti, secondo un principio commutativo; ma rimangono subordinate alle prime.

Il funzionamento della mente inquirente, come più volte descritto nel presente contributo, alla ricerca di coerenze nei fatti selezionerà solo le informazioni che corroborano l’ipotesi iniziale. Non sono sufficienti le dichiarazioni del proprietario dell’agendina che affermerà che il nome non è Tortora ma Tortona con tanto di numero telefonico associato; non saranno sufficienti le vistose incoerenze di luoghi e di tempi nei racconti dei pentiti.

Fissata l’idea che il noto presentatore fosse un camorrista questa diventa, probabilmente, l’immagine maggiormente disponibile (euristica della disponibilità) e quella alla quale più facilmente si farà riferimento tanto nella costruzione della narrazione degli inquirenti che dei pentiti.

A complicare quello che può essere definito un castello “autoportante” degli equivoci anche una lettera che un carcerato aveva scritto alla trasmissione condotta da Tortora: la redazione riceveva circa duemila lettere al giorno. Il detenuto aveva spedito una serie di centrini fatti a mano con la speranza che potessero essere venduti in trasmissione; questi manufatti vennero dispersi e dopo una serie di lamentazioni epistolari la trasmissione propose un risarcimento per la perdita del pacco. Questo carteggio nella visione ad imbuto degli inquirenti diventa un segno tangibile della compromissione di Tortora: i centrini all’uncinetto diventano linguaggio in codice per intendere gli stupefacenti e il debito reclamato diventa quello che il presentatore dovrebbe a seguito di una partita di droga sottratta all’organizzazione criminale di cui avrebbe fatto parte. Lo stesso detenuto confermerà che l’oggetto delle missive erano centrini e non altro, ma i magistrati ormai innamorati della loro tesi non solo non prendono in considerazione queste affermazioni, ma asseriranno che l’autore delle lettere sia un altro detenuto omonimo rispetto al dichiarante. Il 17 settembre del 1985 Tortora viene condannato a 10 anni di carcere e a cinquanta milioni di lire di multa. Il 15 settembre 1986 Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla Corte d’appello di Napoli: i giudici smontarono le accuse rivolte dai camorristi, per i quali inizia un processo per calunnia.

Conclusioni

Tutti gli individui indipendentemente dall’ambito nel quale operano sono esposti a commettere errori sistematici per effetto dei naturali limiti della mente. La componente emotiva, lungi dall’essere sempre un elemento peggiorativo e distorcente, svolgerà una parte costruttiva nel processo decisionale. La razionalità, come ricorda Sutherland (2010), di una decisione deriva dalla pienezza del quadro conoscitivo che si possiede. Quando le nostre conoscenze si dimostrano insufficienti, allora, è ragionevole procurarsi ulteriori elementi; purtroppo lo facciamo di solito in modo emotivo e del tutto irrazionale, dal momento che cerchiamo solo quelle evidenze che supportano le nostre precedenti convinzioni. L’obbligo della motivazione, relativamente ad un giudizio esprime, ed al tempo stesso garantisce, la natura cognitiva anziché discrezionale del giudizio stesso. È in forza della motivazione che la decisione risulta argomentata da affermazioni in quanto tali verificabili e falsificabili. L’apporto di nuove conoscenze che le neuroscienze stanno dando al mondo del processo è destinato dunque a mettere in tensione categorie consolidate e tra queste forse anche quella del libero convincimento del giudicante. Scienza e giudizio non costituiscono, dunque, due entità separate ed indipendenti, bensì contesti esposti a una reciproca integrazione possibile alla luce di una epistemologia complessa.

 

Iniziativa Vivere Meglio di ENPAP, tra potenzialità e limiti – Intervista al Prof. Paolo Moderato

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio. In questo numero pubblichiamo l’intervista al Prof. Paolo Moderato.

 

L’iniziativa Vivere Meglio

 Vivere Meglio è una recente iniziativa proposta dall’Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi (ENPAP). È un bando che offre 1000 borse lavoro di 5000 euro che finanziano la partecipazione ad un progetto per interventi psicologici per disturbi mentali di ansia e depressione. Interventi basati su protocolli di intervento strutturati e di efficacia confermata da evidenze scientifiche.

Si tratta dunque di una iniziativa finalizzata a favorire l’accesso gratuito dei Cittadini alle terapie psicologiche per ansia e depressione utilizzando, in maniera nuova per l’Italia, un protocollo diagnostico e terapeutico fondato sugli esiti della Consensus Conference avviata dall’Università di Padova e patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità. Grazie a questo progetto i cittadini potranno accedere ad un percorso strutturato di diagnosi e trattamento a seguito di uno screening iniziale. Infine, il complesso degli interventi sarà oggetto di una raccolta dati che le Università utilizzeranno per verificare gli esiti individuali e gli impatti collettivi generati dall’applicazione delle prassi indicate dalla Consensus Conference.

Anche per gli operatori sanitari sembrano esserci vantaggi. Psicologhe e psicologi beneficiari della borsa lavoro riceveranno un contributo di 5.000 euro, parteciperanno ad una formazione sull’applicazione del protocollo e a incontri di supervisione.

La redazione di State of Mind ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei più noti esponenti del panorama psicoterapeutico italiano per comprendere il loro punto di vista sulle potenzialità, ma anche sui limiti, dell’iniziativa Vivere Meglio.

Vivere Meglio: l’intervista al Prof. Paolo Moderato

State of Mind (SoM): Paolo Moderato, 72 anni di cui 46 spesi nell’università, è stato presidente di corso di laurea, direttore di dipartimento, direttore di scuola di dottorato, past president dell’associazione Europea di Terapia Comportamentale Cognitiva (EABCT), ora presidente di CBT Italia e professore emerito. Una storia che ci può aiutare ad affrontare il problema della formazione in psicoterapia. Lei è uno dei firmatari proponenti del manifesto per la psicoterapia. Perché questo manifesto?

Paolo Moderato (PM): Per rispondere devo fare un breve riassunto della storia recente della formazione in psicologia, che ho vissuto direttamente. Come alcuni ricorderanno, i primi due corsi di laurea in psicologia sono stati istituiti nel 1971 nelle facoltà di Magistero di Padova e di Roma. Per 15 anni, fino al 1986, queste sono state le due uniche sedi in cui si studiava per divenire psicologi, e questo ha creato degli effetti distorsivi: ad esempio si è arrivati a 1800 matricole all’anno, 12.000 iscritti per ogni sede, con le difficoltà che questi numeri comportano nel proteggere la qualità della formazione.

Nel 1978 è stata approvata la legge di riforma del servizio sanitario nazionale che ha consentito finalmente negli anni ottanta e novanta che questo alto numero di psicologi potesse essere inserito nel mondo del lavoro.

Nel 1986 il piano di studi del corso di laurea in psicologia è stato riformato, passando da 4 a 5 anni, articolati, come le facoltà di medicina e ingegneria, in un biennio formativo di base e in quattro trienni di indirizzo. Contemporaneamente il monopolio formativo Padova-Roma va a cadere con l’apertura di nuove sedi di laurea, la prima a Palermo, e a seguire, negli anni Novanta, Bologna, Milano, Trieste, Torino e via di seguito.

Nel frattempo in Parlamento veniva approvata la legge 56/89 sull’ordinamento della professione di psicologo, che istituiva l’ordine e l’albo degli psicologi. L’articolo 3 definiva la specificità della formazione quadriennale in psicoterapia, presso scuole di specializzazione universitaria o “istituti a tal fine riconosciuti”. Il riconoscimento avviene con la legge 127/97 (art 17 comma 96) e con il conseguente regolamento applicativo contenuto nel Decreto 509 del 1998.

Dopo il conseguimento del diploma gli allievi sono legittimati all’esercizio della psicoterapia.

Nel 1999 ha luogo la  riforma universitaria che modifica gli ordinamenti precedenti operando la distinzione tra laurea di primo e di secondo livello: questi due livelli di laurea venivano chiamati prima specialistica e poi magistrale. In base al decreto 270 del 2004 questa riforma viene applicata anche alla psicologia. Lo scopo di questa legge è evidente: quello di inserire più precocemente i giovani nel mercato del lavoro: purtroppo questo obiettivo non si è raggiunto e manca ancora un profilo professionale ben chiaro per i laureati di primo livello in psicologia.

Ultimo passaggio: 5 anni fa, nel dicembre del 2017, la psicologia è riconosciuta come professione sanitaria, inserita a pieno titolo nella tutela della salute dei cittadini, riconosciuta dalla nostra Costituzione. Il diploma di specializzazione non è solo il lasciapassare per l’esercizio della psicoterapia nel proprio studio privato, ma diviene anche il titolo che consente l’accesso ai concorsi di dirigente psicologo nel servizio sanitario nazionale, come già accadeva per i medici.

Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto ora ha il diritto di sapere perché questa dettagliata introduzione.

SoM: Infatti, me lo stavo chiedendo anch’io.

PM: Ci sono due aspetti che mi preme sottolineare: in primo luogo la suddivisione in laurea triennale e laurea magistrale si è rivelata per la psicologia molto improduttiva, come è testimoniato dalla percentuale irrisoria di psicologi che si fermano al terzo anno e che sono iscritti alla sezione B dell’albo, qualche centinaio sugli oltre 100.000 psicologi. In realtà si è avuto un progressivo indebolimento della formazione psicologica, se prendiamo come punto di partenza e di riferimento il piano studi quinquennale del 1986, in cui i primi due anni erano destinati a una solida formazione di base e i tre anni successivi alla formazione specifica, mentre nella laurea triennale professionalizzante attuale bisogna fornire sia un po’ di formazione di base sia un po’ di formazione pratica, e questo ha creato problemi, di fatto contraendo entrambe le aree.

Data la formazione meno approfondita nasce l’esigenza sentita da moltissimi colleghi di ulteriore formazione, dopo la laurea, da ottenere con corsi di master e corsi di specializzazione. Il problema della formazione post lauream non riguarda solo la specializzazione in psicoterapia, ma anche i vari corsi di master in campo educativo e riabilitativo: ad esempio i corsi per DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), necessari per chi si occupa di trattamento psicologico dei ragazzi con problemi di dislessia o BES (bisogni educativi speciali), o i corsi di master in ABA (applied behaviour analysis, analisi applicata del comportamento) per coloro che si vogliono occupare di disturbi del neurosviluppo, e così via.

La seconda considerazione è che la distinzione fra interventi psicologici e psicoterapia, e la necessità di una specifica formazione post lauream, non è un’invenzione degli ultimi tempi, nasce insieme alla legge istitutiva dell’albo professionale, anche se trova piena applicazione solo alcuni anni più tardi. Allo stesso modo viene definito fin dall’inizio il doppio canale formativo per la psicoterapia, quello universitario e quello degli istituti privati. Anche questo punto ha delle spiegazioni possibili, ad esempio la scarsa tradizione di ricerca in psicoterapia in molte Università italiane, dovuto a scarsi mezzi, a ritardo nel riconoscimento della importanza della ricerca e a volte anche al dominio di modelli di terapia lontani dal mondo della ricerca. Di fatto la risposta alla domanda di formazione negli anni è stata coperta in gran parte dal privato accreditato dal MIUR. Ricordo altresì che la formazione privata accanto a quella pubblica non è peculiare della psicoterapia, dato che è presente in tutto l’arco formativo, potremmo dire dall’asilo nido fino all’università. Basta pensare alla scuola dell’infanzia delle suore o al modello Reggio Children, alle scuole Montessoriane o Steineriane, al liceo dei Salesiani o dei Gesuiti, alle università (pubbliche) non statali come Cattolica, Bocconi, San Raffaele, Kore e last but not least la Sigmund Freud University di Milano. Tutti questi enti formativi rilasciano titoli legalmente riconosciuti dallo stato italiano, esattamente come le scuole di specializzazione riconosciute, i cui programmi di insegnamento, tecnicamente gli ordinamenti didattici, sono autorizzati e verificati dal ministero dell’università, come accade per i corsi universitari. La necessità di avere più istituti formativi, che fanno riferimento a modelli clinici diversi, nasce dal fatto che la psicologia è ancora una scienza non unificata al cui interno coesistono prospettive cliniche e scientifiche diverse.

 Ci tengo a sottolineare questo punto perché uno degli argomenti usati pretestuosamente da qualche critico del manifesto per la psicoterapia è che questo manifesto persegue e difende interessi privatistici. Gli istituti riconosciuti rilasciano un titolo di studio che, lo ribadisco, non consente solo l’esercizio libero professionale della psicoterapia, ma è un titolo di accesso ai concorsi per dirigente psicologo nel servizio sanitario nazionale. Questo significa che nel servizio sanitario nazionale per prendere in carico il caso clinico di un paziente, è necessario che lo psicologo abbia conseguito una specializzazione quadriennale post laurea in psicoterapia. A onor del vero bisogna anche riconoscere che non tutti gli istituti di formazione psicoterapeutica, anche approfittando, e talvolta abusando, degli aspetti di debolezza di questa “diversità”, sono stati all’altezza del compito. Però ci sono due aspetti che mi fanno ben sperare per il futuro: in primo luogo, il lavoro della commissione tecnico scientifica presieduta dal collega Cesare Maffei, che sta procedendo a un riordino sistematico del settore. In secondo luogo, la crescente consapevolezza degli studenti, che con le loro scelte agiscono come meccanismo selettivo di qualità, premiando con la loro presenza le scuole di alta qualità clinica e scientifica e contribuendo all’estinzione progressiva di quelle scadenti.

SoM: Partendo da queste considerazioni arriviamo al punto nodale, che riguarda il bando dell’Ente Nazionale di Previdenza di  Assistenza per gli Psicologi (ENPAP): “Vivere Meglio – Promuovere l’accesso alle terapie psicologiche per ansia e depressione”? Qual è la sua analisi?

PM: Proviamo a fare una SWOT Analysis, un’analisi dei punti di forza (Strength), delle debolezze (Weaknesses), delle opportunità (Opportunities) e dei pericoli (Threats). Partiamo dai punti di forza. Il modello adotta una metodologia di trattamento per passi (stepped care); gli interventi sono commisurati alla necessità di trattamento. È basata sul principio di good enough, che non significa abbastanza buono ma buono quanto basta: gli interventi a bassa o ad alta intensità vengono applicati in funzione della necessità non in modo schematico. È basato su un modello empiricamente supportato di terapia (EST), erogazione di trattamenti basati su prove di efficacia. Fa riferimento ad un modello messo a punto e sperimentato da anni in Inghilterra.

SoM: Passiamo ai punti di debolezza.

PM: Il modello vivere meglio è preso dal progetto inglese IAPT (Improving Access to Psychology Therapies, accesso migliorato alle terapie psicologiche) che si basa su un modello formativo e clinico diverso da quello italiano. L’intervento psicoterapeutico in Inghilterra può essere erogato da professionisti diversi dallo psicologo (infermieri, assistenti sociali ecc.), formati ad hoc, che operano su prescrizione e sotto la supervisione di uno psicologo con una formazione clinica post lauream (specializzazione o dottorato). Lo stesso accade negli Stati Uniti, ricordiamo che Marsha Linehan era un’assistente sociale. Si tratta quindi di uno psicoterapista, che fornisce un aiuto di tipo sostanzialmente tecnico, l’equivalente psichico di uno fisioterapista. In Italia non è così come abbiamo visto, anche per la lunga storia storicista e umanistica tipica del nostro paese. Ciò richiede dei modelli di trasformazione che complicano il quadro e che il progetto “vivere meglio” a volte sembra non tenere in adeguata considerazione. Io penso però che il punto più critico sia la definizione di alta/bassa intensità e il rapporto con la tipologia di intervento. Se la bassa intensità definisce la necessità di un intervento non psicoterapeutico ma di sostegno clinico, allora nulla questio. Se invece la bassa intensità definisce la necessità di un intervento psicoterapeutico allora questo può essere erogato solo da uno specialista, a garanzia della salute del paziente. Il punto è l’ontologia della psicoterapia, ciò che la definisce come tale, non il dosaggio. Negli ultimi anni sono stati messi a punto, prevalentemente in ambito CBT, modelli di psicoterapia breve e brevissima che proprio in quanto tali richiedono una preparazione altamente specialistica del professionista che li mette in atto. Per fare un’analogia con la medicina, l’ontologia dell’antibiotico non varia se viene prescritto e somministrato come copertura per un semplice intervento odontoiatrico o come terapia per combattere una grave infezione batterica.

SoM: Ma ci sono anche delle opportunità in questo progetto?

PM: Penso che un progetto di interventi brevi, con prove di evidenza, erogati da persone con adeguata formazione che siano in grado di fare un’appropriata concettualizzazione del caso e di gestire correttamente l’alleanza/relazione terapeutica rappresenti certamente un’opportunità da sviluppare e sostenere buona idea che deve però essere migliorata e fare i conti in modo più articolato con la realtà italiana.

SoM: E i pericoli? Quali sono?

PM: I disturbi psicologici sono materia sensibile, vanno trattati con la competenza e la cura che si raggiunge solo con una preparazione approfondita. La preparazione prevista dal piano di trattamento non sembra rispondere adeguatamente a questi criteri, e questo può produrre mal practice e comportare un rischio per la salute del paziente. Nella formazione psicoterapeutica molte ore sono dedicate alla supervisione, da parte di un terapeuta esperto, ma nel piano questa parte è molto carente. Chi è coinvolto negli istituti di formazione sa che fonte di sicurezza la supervisione rappresenti per il giovane professionista che si deve comunque assumere dei rischi.

SoM: Secondo lei è fondato il timore che si venga a creare una zona grigia tra psicoterapia e interventi non psicoterapeutici nella quale vengono effettuate da parte di psicologi non psicoterapeuti delle psicoterapie, sia pure definite a bassa intensità?

PM: Temo di sì. Tutti noi ricordiamo quando, da giovani, amici o conoscenti scoprivano la nostra formazione, l’incubo della domanda: “allora mi puoi spiegare la differenza tra psicologo, neurologo, psichiatra, psicoanalista, psicoterapeuta e così via?”

SoM: Qualche considerazione finale?

PM: Vorrei invitare tutti a moderare i toni, e a non cercare di scatenare una guerra interna al mondo psicologico che non gioverebbe a nessuno, certamente non ai nostri pazienti, che devono essere il nostro punto di riferimento, in scienza e coscienza. Più della metà degli psicologi iscritti all’Albo sono anche psicoterapeuti, e la richiesta di psicoterapia breve ed efficace è in costante crescita, in modo particolare dopo la pandemia, spesso da parte delle persone che sono state più colpite, come gli adolescenti e le persone più fragili. La risposta a questa crescente domanda di aiuto non può essere una diminuzione della qualità e del controllo della offerta clinica, anzi. Ricordare le differenze tra interventi psicologici e psicoterapia, differenze definite ab initio nella legge istitutiva, non significa togliere la clinica agli psicologi, anche se andrebbe magari definito che cosa si intende per formazione clinica, visto che ci sono oltre 50 etichette che definiscono la laurea magistrale in Psicologia (LM 51). Ma questo aspetto ce lo riserviamo per una prossima intervista.

 

Leggi le altre interviste relative al bando Vivere Meglio:

Covid-19: sostegno psicologico mirato per operatori sanitari in “prima linea”

Il Journal of Nursing Management (Arcadi et al., 2021) ha recentemente pubblicato uno studio che racconta il vissuto degli infermieri durante la prima ondata della pandemia da Covid-19

 

Riassunto

 L’articolo si propone di esporre l’importanza dell’intervento di sostegno psicologico tempestivo nei confronti degli infermieri che stanno affrontando in prima linea la pandemia da Covid 19. Nello specifico, viene illustrata la modalità di intervento dell’Area Funzionale Psicologia dell’Emergenza della S.C.Psicologia ASL TO3-Regione Piemonte.

Il sostegno psicologico offerto agli infermieri è mirato alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva legata alla difficile gestione del lavoro nei reparti Covid. L’articolo descrive le modalità di trattamento ad indirizzo cognitivo comportamentale volte alla promozione delle abilità di coping e della resilienza, anche attraverso tecniche a mediazione corporea.

Il lavoro clinico svolto ha facilitato il rientro degli infermieri sul posto di lavoro, dopo un periodo di contagio o di forte stress lavoro-correlato alla pandemia contingente, preservandone le competenze ed il senso di efficacia.

Al termine del trattamento, i sanitari hanno riferito una migliore capacità di gestione delle emozioni, una percezione del proprio ruolo e della propria identità maggiormente basata sull’equilibrio tra vita lavorativa e familiare, tra paura del contagio e rispetto delle norme di prevenzione.

Abstract

The article aims to explain the importance of early psychological support to nurses who are facing the Covid 19 pandemic. In particular, the modality of intervention of the Functional Area Emergency Psychology of the S.C.Psychology ASL TO3-Piedmont Region is illustrated.

The psychological support offered to the nurses is aimed at reducing the anxiety and depressive symptoms linked to the difficult management of work in Covid departments. The article describes the modalities of cognitive behavioral treatment aimed at the promotion of coping skills and resilience, also through body mediation techniques.

The clinical work carried out has facilitated the return of nurses to the workplace, after a period of contagion or severe work-related stress to the contingent pandemic, preserving their skills and sense of effectiveness.

At the end of the treatment, health professionals reported a better ability to manage emotions, a perception of their role and identity more based on the balance between work and family life, between fear of infection and compliance with prevention standards.

Introduzione

Durante l’emergenza sanitaria da Covid-19, la presa in carico integrale del paziente, il suo inserimento e accompagnamento all’interno di un percorso terapeutico sono stati gli obiettivi principali dell’assistenza, in cui hanno giocato un ruolo importante tutte le diverse figure dei professionisti sanitari.

Tutto questo, come sappiamo, è avvenuto in un contesto di incertezza generale, di paura, di urgenza e di aspettative, connotate dalla fantasia della popolazione, che viveva la percezione di essere in pericolo di vita, sperando di essere “salvati” dal personale sanitario.

In questo scenario, la figura sanitaria dell’infermiere è stata centrale, sia nei casi gravi ed urgenti, sia nei casi long term, così come nella prevenzione e nel conseguente evitamento di spreco di risorse pubbliche. L’infermiere, figura fondamentale nel rapporto quotidiano con il malato, ha quindi costituito un riferimento importantissimo nell’aderenza alle terapie da parte dei pazienti e nella sostenibilità del sistema di cura.

Da quando è cominciata l’emergenza sanitaria da Covid-19, i professionisti sanitari si sono impegnati in prima linea a fronteggiare l’epidemia nei vari setting del Servizio Sanitario: si sono esposti al rischio di infezione e a un sovraccarico emotivo; soprattutto in una situazione iniziale in cui vi era carenza di adeguati dispositivi di protezione individuale, hanno sostenuto turni di lavoro pressanti e la fatica fisica, hanno affrontato il lavoro di cura in un contesto di riduzione delle risorse umane e talvolta di precarietà organizzativa.

La letteratura scientifica (Krämer et al., 2016; Kushal et al., 2018) relativa allo stress lavoro-correlato aveva già ampiamente confermato come il settore sanitario fosse caratterizzato da fattori di rischio psicosociale, strettamente legati alla sicurezza e alla salute degli operatori e all’organizzazione lavorativa: turni, reperibilità, gestione di emergenze e urgenze, carenza di personale, confronto quotidiano con situazioni di estrema sofferenza, potenziale rischio di episodi di aggressione verbale e/o fisica. Tali fattori, in questo momento di emergenza, si sono inevitabilmente amplificati.

I vissuti del personale infermieristico

Il Journal of Nursing Management (Arcadi et al., 2021) ha recentemente pubblicato uno studio che racconta il vissuto degli infermieri durante la prima ondata della pandemia da Covid-19.

È emerso che siano principalmente quattro le tematiche emotive emergenti durante la pandemia: l’incertezza e la paura; l’alterazione nella percezione dello spazio e del tempo; l’attribuzione di un significato diverso al termine “to care”; il cambiamento nei ruoli e nelle relazioni multidisciplinari.

L’incertezza è stata una compagna costante della maggior parte degli infermieri coinvolti, sin dal primo giorno della diffusione del contagio. Questo ha scatenato un enorme disorientamento e mancanza di riferimenti, dettati dalla paura dell’ignoto, non solo riferibile alla mancanza di certezze diagnostiche e di cura, ma anche di tipo epidemiologico, alla paura di poter contagiare i propri familiari. Quest’ultimo aspetto ha spesso condotto alla decisione di isolarsi a garanzia dell’incolumità dei propri familiari.

Durante la prima ondata si sono dovute affrontare moltissime carenze, come ad esempio la mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuali o la disponibilità di risorse di personale estremamente limitata. Tuttavia, nel corso di un’epidemia, anche quando le misure preventive e protettive sono adeguate, il personale sanitario resta comunque esposto a un alto livello di stress psicologico oltre che fisico, aggravato ulteriormente dalla sofferenza per la perdita di pazienti e talvolta di colleghi, alla separazione prolungata dalla famiglia, ai cambiamenti nelle pratiche e nelle procedure di lavoro.

Tutto questo ha inevitabilmente determinato la necessità di fornire un maggiore supporto emotivo agli operatori.

Da alcuni studi (Brooks, 2020; Pierce et al., 2020; WHO, 2020) si rileva che, rispetto ad altre situazioni di emergenza sanitaria, come per esempio le catastrofi naturali, il fattore di rischio maggiore durante la pandemia da Covid-19 è stato proprio l’isolamento sociale, dovuto alle misure di distanziamento, alla quarantena o in alcuni casi alla discriminazione e all’assenza del sostegno familiare a causa del pericolo di contagio. Significativa è stata anche la riduzione del confronto con i colleghi e del rapporto con i pazienti dovuto all’aumento del carico di lavoro. È quindi frequente che emergano emozioni di rabbia, ostilità, frustrazione, senso di impotenza e che si manifestino sintomi depressivi e stati d’ansia con somatizzazioni, insonnia, aumento del consumo di caffeina, alcol e tabacco.

Una metanalisi condotta su 59 articoli (Kisely et al., 2020) e vari studi svolti in Cina sui rischi psicosociali dello stress tra il personale sanitario (Kang et al., 2019) durante le epidemie di SARS ed Ebola, durante la pandemia influenzale A/H1N1 e durante la gestione dell’epidemia Covid-19, hanno rilevato la comparsa di sintomi assimilabili a PTSD (Rossi et al., 2020). In particolare, uno studio trasversale condotto in Cina (Lai, 2020) su 1257 operatori sanitari impegnati nei presidi coinvolti nella gestione di pazienti con Covid-19 ha evidenziato come le donne, il personale infermieristico e coloro che lavorano nelle zone con maggiore concentrazione di casi (e che quindi più coinvolti nell’emergenza) hanno sintomi più intensi. Questo potrebbe essere imputabile al fatto che quando la domanda assistenziale è troppo elevata, non lascia spazio all’elaborazione di una risposta psicologica funzionale o alla formulazione di una richiesta d’aiuto da parte dell’operatore.

Le risorse del personale infermieristico

Le immagini trasmesse dai media inerenti al lavoro nei reparti e nelle terapie intensive hanno sicuramente reso l’idea della fatica affrontata dagli operatori nei mesi in cui i picchi della diffusione e della gravità dei sintomi del Covid-19 erano più intensi. Attraverso queste immagini vi è stata l’attribuzione da parte della popolazione di una qualità eroica a questa professione.

Il senso di advocacy della professione infermieristica è stato espresso in modo straordinario; infatti, molti infermieri hanno chiesto volontariamente di venire reclutati nei reparti Covid. Il ruolo degli infermieri nell’assistenza ai pazienti durante la pandemia ha fatto emergere la vera essenza della professione infermieristica, fatta di vicinanza, contatto fisico e di relazione con l’assistito, il cui valore più forte è stato sicuramente la costanza, la continuità in ogni fase della malattia.

Un fattore significativo di resilienza è stato la collaborazione tra i membri dell’équipe sanitaria, talvolta già presente e stabilizzata prima della pandemia, in altri casi, costruita ad hoc per far fronte a specifiche situazioni emergenziali.

L’intervento psicologico rivolto agli infermieri nell’ASLTO3

Durante la prima ondata della pandemia, presso la SC.Psicologia-AF.Psicologia dell’Emergenza dell’ASLTO3-Regione Piemonte, è stato messo a punto uno specifico protocollo rivolto a tutta la popolazione del territorio, agli operatori sanitari e nello specifico agli infermieri professionali. In particolare, è stato diffuso un numero di telefono e un indirizzo mail al quale presentare richiesta di supporto. La coordinatrice dell’A.F. Psicologia dell’Emergenza ha effettuato un primo contatto con le persone che richiedevano aiuto, prevedendo l’assegnazione ad un collega psicoterapeuta per l’avvio di un percorso psicologico, ove possibile, entro 48 ore. Particolare attenzione è stata data alla celerità della risposta alle richieste provenienti dal personale sanitario, al fine di contenere fin da subito i vissuti di solitudine e incertezza e di promuovere autoefficacia ed empowerment, fondamentali per poter affrontare nei migliori dei modi l’elevata richiesta in ambito lavorativo.

In base alla richiesta della persona, si sono proposti percorsi di consulenza o di psicoterapia focale. In particolare, gli psicoterapeuti a indirizzo Cognitivo Comportamentale appratenti all’A.F Psicologia dell’Emergenza hanno messo a punto un protocollo di intervento rivolto alla figura dell’infermiere professionale.

L’assessment

La presa in carico prevede un primo colloquio clinico con la funzione di avviare la relazione d’aiuto attraverso l’ascolto empatico, individuando i bisogni che hanno spinto la persona a chiedere supporto e raccogliere informazioni riguardo al disagio alla base della richiesta. Fin da subito è prevista l’esplorazione delle risorse personali fondamentali in tutte le fasi del percorso successivo.

Laddove emergevano sintomi legati al PTSD, veniva somministrato il Clinician Administered PTSD Scale (CAPS), o in alternativa, l’International Trauma Questionnaire (ITQ), entrambi strumenti finalizzati alla valutazione della presenza di sintomi psicopatologici, durata e gravità del quadro clinico. Inoltre, a inizio e fine percorso, veniva proposta la compilazione del Clinical Outcomes in Routine Evaluation-Outcome Measures (Core-OM), per valutare l’efficacia dell’intervento psicologico.

Nei colloqui iniziali si è chiesto all’operatore-paziente di ripercorrere i momenti lavorativi e familiari che lo avevano messo maggiormente alla prova, che potevano aver influito sulla normale gestione emotiva quotidiana. Le esperienze riportate si discostavano in modo marcato dai vissuti derivati da tanti anni di lavoro nei vari reparti, anche se gli infermieri presi in carico avevano già precedentemente lavorato in contesti connotati da esperienze emotive molto forti, come il pronto soccorso, i reparti oncologici infantili, le terapie palliative ecc.

Nei colloqui effettuati, è stata trasversale la paura del contagio, legata anche all’utilizzo dei vari dispositivi, oggetto di nuovi protocolli d’uso che nel tempo si sono modificati.

 Nel contesto di pandemia, strategie funzionali prima perseguite con successo, hanno perso di efficacia: i protocolli hanno determinato infatti nuove disposizioni su come i dispositivi dovevano venire indossati e sull’idoneità dei contesti, con particolare attenzione alla gestione dei momenti di pausa, quando l’attenzione dell’operatore anche a causa della stanchezza, tende a venire meno. Spesso la tensione saliva nel cercare un raccordo fra modalità differenti di perseguire quanto indicato dalle varie linee guida.

Tutto ciò ha costituito inevitabilmente una fonte di preoccupazione, perplessità, tensione e rabbia, che andava inevitabilmente a minare la buona cooperazione e il clima emotivo all’interno del gruppo di lavoro.

Il tema del contagio ha condizionato spesso il contesto extra-lavorativo. Episodi di cronaca nazionale riportavano contagi estesi, partiti da soggetti che si recavano in contesti sanitari e, una volta infetti, diffondevano il virus indiscriminatamente. Soprattutto durante la prima ondata, quando si avevano poche e frastagliate informazioni sul virus, era prevalente il vissuto di impotenza e di incertezza.

Essere possibile fonte di contagio di Covid-19 all’interno del proprio ambito familiare, soprattutto se costituito da bambini e anziani, ha influito ulteriormente sullo stato ansioso e sul tono dell’umore degli operatori.

Fase 2: il trattamento

Agli infermieri che hanno richiesto un sostegno psicologico è stato offerto un trattamento focalizzato, costituito da una media di dieci colloqui, mirato alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva legata alla difficile gestione del lavoro nei reparti Covid. Si è lavorato in parallelo sulle strategie di coping e sul tema della resilienza, sottolineando l’esperienza acquisita dal professionista in pregresse situazioni di emergenza, ancorandolo a dati di realtà che restituivano un alto livello di preparazione e professionalità.

Quando emergeva la presenza di importanti traumi pregressi non elaborati, che si riattivavano in modo importante, è stato necessario prevedere percorsi più lunghi per favorire la rielaborazione dei vissuti traumatici.

Durante il trattamento si è dato ampio spazio alle tecniche di ristrutturazione cognitiva, intesa come ridefinizione dei pensieri negativi disfunzionali e alle false credenze relative alla pandemia. Questo ha permesso di riportare l’operatore a un piano di razionalità. L’utilizzo delle linee guida per la gestione dei pazienti positivi al Covid-19, l’attenzione nel seguire le indicazioni fornite dalla Direzione, sono state rilevanti a livello di conoscenza oggettiva e hanno favorito l’acquisizione di buone pratiche per la copertura dal rischio.

È stato importante valorizzare le precedenti esperienze professionali dell’operatore, anche se ciò ha comunque comportato in parallelo una forma di adattamento. La pandemia ha portato gli operatori sanitari a confrontarsi con l’impossibilità di aiutare il paziente in situazioni di grave patologia. Molti infermieri chiamati a lavorare nei reparti Covid-19 avevano già lavorato in passato in reparti ad alta intensità emotiva, con malati terminali o pazienti molto gravi. Ciò che differiva a livello di gestione pratica ed emotiva, secondo quanto riportato nei colloqui effettuati, è stata la repentinità con cui si aggravavano i pazienti infetti: questo ha comportato una difficoltà di gestione della sofferenza fisica ed emotiva del malato, accentuata dall’assenza del familiare, che avrebbe potuto contribuire ad alleviare il senso di paura e di smarrimento del proprio caro.

La gravità dei pazienti, la solitudine nella gestione, gli aggravamenti improvvisi e il carico di lavoro hanno portato spesso ad un cambiamento nella modalità di comunicazione delle diagnosi, che gli operatori hanno vissuto come salto temporale indietro, rispetto ai diritti acquisiti negli anni sulla comunicazione della diagnosi di malattia e dell’acquisizione di quanto disposto dall’articolo 4 del codice deontologico degli infermieri, secondo cui “il tempo di relazione è tempo di cura”.

L’empatia, punto portante del lavoro dell’infermiere, è stata messa quindi a dura prova. Spesso l’operatore descrive la sensazione di sentirsi “svuotato” a fine turno. Stanco a livello fisico per le enormi incombenze a cui è sottoposto, ma ancora più provato dall’impotenza, dall’identificazione vissuta in modo marcato con pazienti in fase terminale, che spesso in poche ore erano deceduti.

L’immagine che rimane in genere più impressa è stata la procedura di trasporto delle salme nelle camere mortuarie che spesso erano stanze improvvisate. La persona di cui avevano avuto cura fino a poche ore prima, si trasforma in un oggetto di possibile trasmissione di contagio, che deve essere il prima possibile reso “innocuo” attraverso procedure di disinfezione delle salme. Tali metodi sono stati molto pesanti da praticare da parte degli operatori, perché vissuti come vilipendio nei confronti del deceduto.

Queste esperienze spesso diventano ricorrenti nei pensieri del personale che ha svolto questi compiti. I colloqui venivano mirati alla ricerca di significato che permettesse all’operatore di poter perseguire questi nuovi mandati, in netta contrapposizione con il tema dell’empatia e del prendersi cura della persona in difficoltà.

Nei colloqui, è emersa spesso la necessità di una ridefinizione del tema dell’empatia. Spesso l’operatore partiva dalla fantasia che fosse di qualcosa di indefinito, sia a livello qualitativo che quantitativo, spesso erroneamente ricondotta solamente a una caratteristica personale o ad una disponibilità innata. Nello specifico, si è cercato di lavorare sul pensiero disfunzionale relativo al concetto di “risorsa inesauribile”, cercando di circostanziarla meglio come “risorsa limitata, soggetta a stanchezza, da distribuire con attenzione e moderazione”; una parte della quale deve essere obbligatoriamente riservata a se stessi e alle relazioni al di fuori del contesto lavorativo. Tale presa di coscienza ha in molti casi permesso all’infermiere di riconoscerne il limite naturale, immodificabile a livello quantitativo, ma controllabile nell’erogazione.

Il senso di colpa relativo al non essere stati sufficientemente empatici con tutti i pazienti seguiti durante il proprio turno viene quindi sostituito da una maggior consapevolezza e senso di controllo da parte del professionista. Questo è stato utile per minimizzare il rischio di esaurire tutte le energie troppo presto e per evitare un progressivo processo di chiusura e distacco nella vita familiare ed amicale, causa di inevitabile bourn out.

Una parte del trattamento psicoterapeutico ha previsto l’utilizzo di tecniche a mediazione corporea. Lo stato di tensione continua in cui hanno vissuto gli infermieri nel periodo della pandemia, ha originato una serie di sintomi neurofisiologici, quali agitazione, insonnia e tachicardia, ma anche stanchezza e dolori muscolari, di difficile gestione sia nelle ore di lavoro con i dispositivi di protezione, sia nelle ore di riposo.

Quando le persone sono esposte ad un evento stressante si ha un’attivazione del sistema nervoso simpatico, che a sua volta determina un aumento della produzione di sostanze in grado di regolare l’espressione dei geni preposti alla produzione di proteine, che determinano infiammazione a livello cellulare. Questi effetti infiammatori della reazione “attacco-fuga” rinforzano temporaneamente l’attività del sistema immunitario.

Lo stress psicologico di lunga durata, al contrario, pare incidere sulla persistente espressione dei geni pro-infiammatori, con ricaduta negativa su problemi medici e psichiatrici.

Oggi la Teoria Polivagale di Porges sottolinea che quando il nostro sistema nervoso autonomo è continuamente impegnato in attività difensive, queste possono diventare potenzialmente dannose per la nostra salute, poiché viene a mancare in modo cronico l’equilibrio tra le diverse branche del sistema nervoso autonomo.

La Teoria Polivagale (Porges, 2013) pone l’enfasi sull’esistenza di due circuiti vagali, anziché uno unico e sull’importanza della relazione gerarchica tra loro. Esiste una reazione simpato-adrenergica ventro-vagale, responsabile delle nostre risposte di mobilizzazione (attacco/fuga); ma c’è anche una reazione dorso-vagale, che quando è attivata in condizioni di sicurezza ha il ruolo fondamentale di mantenere l’omeostasi, consentendo ad esempio i comportamenti riproduttivi, ma che può diventare pericolosa se usata come reazioni di difesa primaria e prolungata.

Le tecniche di rilassamento rientrano nella categoria degli interventi psicofisiologici, cioè quegli interventi che prendono in considerazione l’inscindibile interazione tra vissuti mentali e vissuti corporei, cercando integrazione ed equilibrio tra le due componenti.

In particolare, sono stati utilizzati il training autogeno (T.A.) di Schultz e la respirazione lenta.

Il training autogeno consiste nell’apprendimento e nell’allenamento costante di una serie di esercizi di rilassamento di tipo autoindotto. L’obiettivo è insegnare al paziente una modalità alternativa di rispondere ad un determinato stimolo, attraverso l’esposizione progressiva e la conseguente risposta controllata. Una volta appreso, diviene uno strumento che il soggetto può utilizzare in autonomia, in situazioni diverse della vita quotidiana.

La respirazione lenta si rivela particolarmente efficace nel caso di forti emozioni, come ansia o collera. Entrambe sono buone strategie da mettere in pratica senza richiedere particolari setting o attrezzature.

Conclusioni

Introdurre una forma di riflessione di risparmio delle energie emotive, permette di essere maggiormente consapevoli dei propri disagi e di passare da un ruolo di spettatore passivo ad una situazione di maggiore utilizzo delle strategie di coping e self-efficacy.

Il senso di advocacy che ha costituito una grande spinta per gli infermieri a lavorare con determinazione durante la pandemia, non deve essere confuso con l’ignorare il senso di limite personale, che spesso viene letto come freno verso possibili azioni più determinanti. Portare avanti il mandato professionale, rispettando sé stessi, porta al raggiungimento del target professionale ed in parallelo tutela l’operatore.

Spesso gli operatori che hanno richiesto un aiuto psicologico sono giunti al Servizio di psicologia dell’emergenza già provati da periodi prolungati in reparti Covid-19; alcuni sono stati contagiati dal virus con conseguenze fisiche ed emotive in certi casi rilevanti.

La richiesta psicologica riportata è di un periodo di distacco in altri contesti per poter “prendere fiato”. A livello clinico, tenendo anche in considerazione l’importanza della presenza di professionisti preparati in reparti Covid-19, si evince quanto possa essere utile, più che un periodo prolungato di mutua, un rientro in altri contesti, anche riconducibili alla prevenzione dal Covid-19 (vaccinazioni o tamponi) o in ambulatori “puliti”. Infatti, il prolungamento della mutua può in alcuni casi accentuare una percezione di isolamento, una maggior sensazione di vulnerabilità e di inefficacia. Un reinserimento in altri reparti porta spesso progressivamente il professionista a reinstaurare una nuova modalità di svolgere il proprio lavoro, riappropriandosi del proprio ruolo e della propria identità di “operatore efficace”.

È stato quindi facilitato il bisogno dell’operatore di rientrare rapidamente al lavoro, dopo un periodo di contagio o di forte malessere derivato dalla situazione contingente, orientandolo su altri reparti o su altre mansioni, quando possibile, preservandone le competenze ed il senso di efficacia.

Il lavoro sulle strategie di coping, promuovendo la resilienza, con l’ausilio anche di tecniche a mediazione corporea, ha permesso all’operatore di avere un maggiore controllo emotivo e neurofisiologico in situazioni di stress.

Al termine del trattamento la maggior parte degli infermieri presi in carico hanno riferito di essersi riappropriati del proprio ruolo e della propria identità, ristabilendo un buon equilibrio tra empatia e professionalità, tra vita lavorativa e familiare, tra paura del contagio e buona prevenzione, tra senso di isolamento e condivisione di sensazione, riscoprendo i punti di forza dei propri confini\limiti. Hanno riferito di “gestire” meglio le emozioni, recuperando l’idea di poter fronteggiare le nuove ondate di pandemia assieme ad altri colleghi che possono vivere in parallelo disagi, paure e timori, ma con la convinzione di avere un obbiettivo condiviso ed affrontabile.

Alcune indicazioni pratiche tratte dall’analisi della letteratura

Riportiamo alcune indicazioni sulla prevenzione dello stress emotivo degli operatori sanitari legato alla situazione di emergenza da Covid-19.

Indicazioni per le Aziende sanitarie e i Dirigenti delle strutture sanitarie

  • Garantire una buona comunicazione e fornire al personale aggiornamenti precisi e accurati su ciò che sta accadendo. Questo può contribuire a mitigare le preoccupazioni degli operatori legate all’incertezza e far percepire un senso di controllo.
  • Riferire feedback positivi utili a rafforzare il valore e l’importanza del ruolo svolto.
  • Promuovere il lavoro in team. Il Buddy system, per esempio, è un metodo che prevede che due colleghi coinvolti nell’emergenza lavorino affiancati, divenendo responsabili della sicurezza personale l’uno dell’altro e sostenendosi nella reciproca capacità di affrontare circostanze avverse.
  • Facilitare l’accesso ai servizi di supporto psicologico, assicurandosi che il personale sia a conoscenza di come e dove accedervi, incluso il supporto telefonico o altre opzioni di servizio a distanza, se disponibili.

Indicazioni per gli operatori sanitari

  • Organizzare, per quanto possibile, il lavoro, mantenendo un monte ore ragionevole e facendo delle pause. Durante la fase acuta dell’emergenza è fondamentale garantirsi degli spazi di tregua per riposare e riflettere sull’esperienza che si sta vivendo. Gestire lo stress e occuparsi della propria salute mentale è importante per mantenere la salute fisica.
  • Utilizzare strategie individuali di gestione delle difficoltà (coping) rivelatesi efficaci in altri contesti può aiutare a superare anche una situazione completamente nuova e senza precedenti come l’attuale emergenza da COVID-19.
  • Confrontarsi con i colleghi è fondamentale sia per coordinare le attività, sia per condividere la percezione personale e trovare un supporto reciproco, rispettando i diversi modi di reagire alla situazione critica. Esplicitare un riconoscimento professionale nei confronti di un collega può rafforzare la motivazione e moderare lo stress.
  • Cercare di mantenere stili di vita salutari, mangiando e idratandosi a sufficienza e in modo sano per essere in condizioni di affrontare la pressione che inevitabilmente viene accumulata. Ridurre l’assunzione di caffeina, nicotina e alcol.
  • Concedersi sonno e riposo adeguati a ricaricarsi, fare un po’ di esercizio fisico.
  • La pressione, lo stress e i sentimenti associati, possono far emergere sensazioni di impotenza e inadeguatezza verso il proprio lavoro. È importante, quindi, riconoscere ciò che si è effettivamente in grado di fare per aiutare gli altri, valorizzando anche i piccoli risultati positivi; riflettere su ciò che è andato bene e accettare ciò che non è andato secondo le aspettative, riconoscendo i limiti legati alle circostanze. È anche importante stare in contatto con gli stati d’animo personali, essere consapevoli del carico emotivo, imparando a riconoscere sintomi fisici e psicologici secondari allo stress. Prendersi cura di sé e incoraggiare i colleghi a farlo è il modo migliore per continuare a essere disponibili con i pazienti.
  • Rimanere in contatto con gli amici, la famiglia o altre persone di cui ci si fida per parlare e ricevere sostegno, anche a distanza.

 

L’attaccamento sicuro-guadagnato: perché un’infanzia avversa non è un destino ineluttabile

Lo studio di (Dansby Olufowote et al. (2020) ha lo scopo di specificare in quali condizioni e tramite quali comportamenti è possibile un cambiamento positivo nello stile di attaccamento giungendo all’attaccamento sicuro-guadagnato.

 

Cos’è l’attaccamento sicuro-guadagnato?

 Con l’espressione “attaccamento sicuro-guadagnato” (Earned Secure Attachment), la letteratura fa riferimento al processo attraverso cui una persona che ha sviluppato in infanzia un attaccamento insicuro riesce, in un’epoca successiva della vita, ad acquisire un nuovo senso di sicurezza (Hesse, 2008; Main et al., 2008; Saunders et al., 2011).

Ma come fanno realmente gli adulti con una storia di attaccamento insicuro a “guadagnare” sicurezza interiore? Quali specifiche condizioni rendono possibile questo processo?

Lo studio di Dansby Olufowote e colleghi (2020) ha lo scopo di colmare alcune lacune presenti nella letteratura sull’attaccamento che, pur citando la possibilità di sviluppare un attaccamento sicuro a seguito di un’infanzia avversa, non ha mai esplicitato i processi attraverso cui si possa compiere tale cambiamento. Manca, di fatto, un modello esplicativo che spieghi non solo se lo stile di attaccamento possa cambiare nel corso della vita, ma anche come questo possa modificarsi e sotto quali condizioni. A partire da questa domanda di ricerca, gli autori hanno cercato di rispondere muovendo da una serie di considerazioni teoriche fondamentali.

Innanzitutto, nella paradigmatica teoria di Bowlby (1969), l’attaccamento è quel legame affettivo che si forma in infanzia nell’esperienza relazionale col caregiver e che permane in età adulta sotto forma di modelli operativi interni (Ainsworth e Bell, 1970). Questi ultimi influenzano lo stile relazionale dell’individuo, dal momento in cui lo portano a proiettare le aspettative interpersonali, esperite nei legami primari, anche nelle relazioni dell’età adulta, aspettandosi o meno che l’altro sia degno di fiducia, dipendenza e sicurezza (Mikulincer & Shaver, 2007). A seconda della disponibilità e responsività ricevuta dal caregiver, il soggetto svilupperà un legame di attaccamento sicuro o insicuro (quest’ultimo può essere di tipo evitante o ansioso), che condizionerà le sue relazioni successive. Un’ampia mole di letteratura testimonia i numerosi benefici a lungo termine associati a uno stile di attaccamento sicuro, così come molti sono i dati a sostegno dei costi che un attaccamento insicuro porta con sé (Dutton e White, 2012). Se queste sono le premesse, è importante e doveroso esplorare la possibilità che le persone possano ottenere la “base sicura” interiore (Bowlby, 1969) che è mancata in un’infanzia avversa. Come affermato dallo stesso Bowlby (1969), anche se lo stile di attaccamento pone le sue radici nei primi anni di vita e informerà sempre del modo in cui l’individuo vede il mondo, i modelli operativi interni sono in continua revisione, influenzati dalle esperienze sociali conseguenti che possono disattenderne le aspettative (Mikulincer e Shaver, 2007). In questa direzione, il suddetto studio (Dansby Olufowote et al., 2020) ha lo scopo di specificare in quali condizioni e tramite quali comportamenti tale cambiamento positivo nello stile di attaccamento può avvenire.

Come si costruisce l’attaccamento sicuro-guadagnato?

Sullo sfondo metodologico della teoria costruttivista e dell’utilizzo di interviste semi-strutturate, gli autori hanno individuato una teoria coerente capace di descrivere, in generale, il processo di “guadagno” della sicurezza nel sistema d’attaccamento, a partire da tre principali categorie di processi (Dansby Olufowote et al., 2020):

Meta-condizioni per acquisire sicurezza, trasversali nel tempo e nelle altre due categorie, perché facilitatori nel progresso continuo verso un attaccamento sicuro. Esse includono:

  • l’intenzione e la motivazione al cambiamento nell’attaccamento, perché la trasformazione non avviene per caso, ma occorre impegno e sforzo continuo;
  • la capacità di superare gli ostacoli lungo il percorso, che non può essere lineare;
  • essere supportati da un percorso di psicoterapia o aiuto personale, dove sia centrale la relazione col terapeuta;
  • avere figure di attaccamento alternative a quelle familiari, con cui relazionarsi positivamente e in modo inedito.

Cambiamenti intrapsichici, di tipo emotivo, cognitivo e spirituale, osservati interiormente alla persona che ha cambiato stile di attaccamento. Essi coinvolgono:

  • ridefinizione della propria identità e del proprio valore come essere umano, riformulando le percepite qualità negative personali come punti di forza;
  • abbandono della mentalità vittimistica, che vede il Sé determinato dal proprio passato, in virtù del quale ha un ingannevole diritto ad agire in maniera insicura.

Cambiamenti interpersonali, riscontrabili nelle azioni relazionali che hanno aiutato la persona a modificare lo stile di attaccamento, fra cui:

  • fare pace col proprio passato, sperimentando sentimenti nuovi e positivi associati alla propria infanzia;
  • vedere la propria famiglia d’origine sotto un’altra luce, consapevole dell’insicurezza dei comportamenti da loro attuati in infanzia e del nuovo e necessario modo di rapportarsi a loro nell’attualità;
  • provare manovre relazionali che aprano all’altro, in cui assumersi piccoli rischi e provare ad avere fiducia.

 Nel rispondere alla domanda di ricerca, la teoria che si è venuta a formulare delinea un processo multifattoriale di cambiamento positivo nello stile di attaccamento, che prevede acquisizione di sicurezza su tre piani relazionali: con la propria famiglia d’origine, con se stessi e con gli altri (Dansby Olufowote et al., 2020). Tale considerazione finale ha implicazioni cliniche dal valore inestimabile. Se si pensa che, fino a qualche tempo fa, gli studiosi ritenevano che lo stile di attaccamento formatosi in infanzia non si sarebbe potuto modificare molto durante la crescita (Waters et al., 2000), i passi fatti per scardinare il determinismo di un attaccamento insicuro e, parallelamente, approfondire la processualità dello stile di attaccamento sono stati molti. In questo caso, lo studio ha avuto il merito di sottolineare l’importanza della presenza di alternative figure di attaccamento, che vicarino il bisogno di sicurezza mancato in età infantile, il ruolo della terapia, per vivere un’esperienza relazionale ed emozionale correttiva, e la necessità di cambiamenti duplici, intrapsichici e interpersonali, per acquisire uno stile di attaccamento sicuro anche in un’epoca successiva della vita. Di questo, ciò che dovrà interessare i professionisti della salute mentale è allora la centralità della relazione, comun denominatore alle variabili di cambiamento sopra citate, nella quale poter vivere un’esperienza di sicurezza inedita e trasformativa (Dansby Olufowote et al., 2020).

 

L’impossibile mappa del cervello (2021) di Eva Filoramo – Recensione

Eva Filoramo, laureata in fisica teorica e traduttrice editoriale di mestiere, ha pubblicato nel 2021, con Flaco Edizioni Group, un interessante libro dal titolo: “L’impossibile mappa del cervello”.

 

 La Filoramo è una divulgatrice scientifica appassionata e rigorosa, con questa sua ultima opera affronta un argomento particolarmente complicato: l’evoluzione del cervello e le teorie ad oggi note sul suo funzionamento. Quest’organo, particolarmente complesso, che i sistemi d’intelligenza artificiale attualmente non sono in grado di eguagliare, è contemporaneamente l’oggetto studiato e lo strumento di studio.

Negli ultimi anni sono stati prodotti numerosi studi neuroscientifici che hanno smentito alcune concezioni del passato, anche recente, sul funzionamento dell’encefalo ed hanno rivelato nuove consapevolezze.

Eva Filoramo in modo semplice, scrupoloso e decisamente godibile racconta le numerose conoscenze che il genere umano ha acquisito, conducendo il lettore alla scoperta del cervello. Il viaggio parte da lontano, dai primi tentativi di costruire una mappa cerebrale, correlando le varie strutture neuroanatomiche a specifiche funzioni, per giungere alle nuove cognizioni, come ad esempio la plasticità cerebrale, acquisite grazie anche alle tecniche di neuroimaging.

 Lungo il percorso si incontrano contraddizioni e situazioni ancora non comprese o non pienamente esplorate. L’autrice illustra come nel tempo il pensiero riduzionista si sia dovuto confrontare con quello sistemico che ha messo in crisi alcune concezioni riguardanti il funzionamento cerebrale.

Sono molti gli argomenti presenti nel libro: la memoria, l’apprendimento, l’invecchiamento. Il lettore trova una descrizione utile anche rispetto alle buone e cattive abitudini che possono influenzare la funzionalità di questo spettacolare organo: il cervello. La Filoramo dedica un’attenzione speciale all’evoluzione dell’encefalo e nel suo libro ne spiega la motivazione: “perché sapere come quest’organo si è evoluto è fondamentale per capire com’è fatto e comprenderne il funzionamento”.

Il libro appartiene al marchio trefoglie del gruppo editoriale siciliano che per ogni mille copie stampate pianta, in Sicilia, tre alberi.

 

Conosci la fibromialgia? – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Conosci la fibromialgia?”.

 

Conosci la fibromialgia? Si tratta di una sindrome dolorosa cronica, cioè di una condizione clinica che ha come caratteristica principale il dolore fisico persistente in molte parti del corpo. Il dolore, tuttavia, non è l’unico sintomo della fibromialgia; sono infatti frequenti stanchezza persistente, difficoltà cognitive, disturbi del sonno e problematiche emotive. La diagnosi è molto complessa e non esistono esami che possano certificarne la presenza. Anche il trattamento è spesso difficile e purtroppo non esiste una cura definitiva.

Per tutti questi motivi la fibromialgia, è considerata come una delle sindromi dolorose croniche a cui è più difficile adattarsi. Sempre più spesso si parla di approccio psicologico alla fibromialgia e diverse linee guida sottolineano l’importanza della terapia cognitivo-comportamentale per ridurre l’impatto della malattia e migliorare la qualità della vita di chi ne è affetto. Ma cosa si intende per terapia cognitivo-comportamentale della fibromialgia? Di che si tratta nello specifico? Quale ruolo può avere nel percorso di cura di una persona con questa sindrome? Ascolta l’episodio del podcast per conoscere meglio la fibromialgia e l’approccio cognitivo-comportamentale al trattamento di questa problematica.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

La depressione attraverso l’arte e la letteratura

La depressione è la principale causa di disabilità a livello globale (World Health Organization, 2017) e questa disabilità è aggravata dallo stigma che viene associato alla sua diagnosi. La natura della sua condizione rende il disturbo un’esperienza molto soggettiva e isolante, che allontana i pazienti dalla famiglia e dagli amici.

 

 Mustafa e Normahani (2020) si sono rivolti alla letteratura e all’arte per offrire un nuovo paio d’occhiali con cui osservare la depressione, al fine di aumentare la nostra comprensione e la nostra capacità di mostrare compassione ai pazienti che ne sono affetti.

Un’oscurità trasparente, William Styron

“Un’oscurità trasparente” di William Styron (1990) è uno straordinario libro di memorie che traccia il declino dell’autore nella depressione e la sua successiva guarigione. Il titolo del libro è tratto dal Paradiso perduto di John Milton (1667), all’interno del quale emerge un senso di opprimente disperazione che Styron riprende nella sua descrizione della depressione che: “assomiglia al disagio di essere imprigionati in una stanza surriscaldata… poiché non c’è via di fuga da questa reclusione, ed è del tutto naturale che la vittima cominci a pensare incessantemente all’oblio”.

Questa rappresentazione della sofferenza è incredibilmente evocativa e permette al lettore di farsi un’idea della gravità dell’angoscia provocata dalla depressione. Sottolinea l’importanza delle narrazioni dei pazienti nella comprensione di questa condizione, e Styron lo ribadisce: “Quando si dice che il disturbo dell’umore si è evoluto in una tempesta –una vera e propria tempesta, che è in effetti ciò a cui la depressione clinica assomiglia come nient’altro– chiunque potrebbe mostrare compassione, piuttosto che la reazione standard che la depressione evoca, qualcosa di simile a Ne uscirai, abbiamo tutti brutte giornate.

Styron chiarisce, tuttavia, che “l’incomprensione è di solito dovuta all’incapacità di base delle persone sane di immaginare una forma di tormento così estranea all’esperienza quotidiana”.

Egli documenta il declino della sua salute mentale per diversi mesi, culminando in una grave depressione suicida che lo porta a essere ricoverato per circa sette settimane. In ospedale trova un “rifugio” e la sua guarigione è costante. Conclude il suo libro di memorie con l’affermazione positiva che la depressione “si può vincere”.

La campana di vetro, Sylvia Plath

“La campana di vetro” di Sylvia Plath (1963) è un romanzo semi-autobiografico basato sulle lotte della stessa Plath contro la malattia mentale. Plath impiega immagini molto vivide per descrivere l’esperienza della depressione, con la “campana di vetro” del titolo che funge da metafora centrale della depressione: “Non riuscivo a sentire nulla… perché ovunque mi sedessi… ero seduta sotto la stessa campana di vetro, a stufare nella mia stessa aria”.

Attraverso questa immagine, Plath fornisce un’idea della disperazione che può accompagnare questa condizione, poiché la protagonista del romanzo, Esther, si chiede: “Come facevo a sapere che un giorno –da qualche parte, in qualsiasi luogo– la campana di vetro, con le sue soffocanti distorsioni, non sarebbe scesa di nuovo?”.

 Seguiamo Esther attraverso una serie di tentativi di suicidio e di cura, fino al momento in cui comincia a sentire la campana di vetro “sollevarsi” con un conseguente miglioramento dell’umore. Tuttavia, l’inquietante campana non è mai lontana e il lettore è lasciato a contemplare le implicazioni di questa condizione che dura tutta la vita quando, anche dopo un trattamento riuscito, Esther commenta la presenza della “campana di vetro appesa, sospesa, a qualche metro sopra la [sua] testa”.

Mentre la protagonista di Plath guarisce, purtroppo la stessa Plath si suicida nel 1963, alcune settimane dopo la pubblicazione del romanzo.

Campo di grano con volo di corvi, Vincent Van Gogh

Vincent Van Gogh lottò con la malattia mentale per tutta la vita, e il suo stato di deterioramento culminò nel suicidio nel luglio 1890. Nel mese precedente la sua morte, dipinse il “Campo di grano con volo di corvi”. L’oscurità della notte è quasi opprimente e incombe minacciosa sul paesaggio, creando un senso di presagio. Questo è aggravato dagli stormi di corvi, forieri di sventura. I sentieri serpeggianti nel campo non sembrano portare da nessuna parte, creando un senso di confusione e di paurosa incognita. L’effetto è enfatizzato dalle brusche pennellate, che creano l’impressione di un paesaggio ostile e spietato.

Depressione nell arte e nella letteratura quali rappresentazioni Fig 1

Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890, Amsterdam, Museo Van Gogh.

Malinconia, Edvard Munch

Edvard Munch presenta nel suo dipinto “Malinconia” (1894-96) un’immagine di isolato sconforto. La figura principale è seduta da sola in primo piano, con lo sguardo vuoto davanti a sé, lontana dalle figure sullo sfondo che interagiscono tra loro. L’uso del colore da parte di Munch è particolarmente efficace nel trasmettere un senso di dolore: i toni spenti del marrone e del blu creano un senso di cupa tristezza. Inoltre, l’oscurità dei capelli e dei vestiti del personaggio lo contraddistingue, quasi come un lutto. La sua espressione lugubre e la sua posa scoraggiata trasmettono ulteriormente un senso di infelicità. Questa rappresentazione allude alle lotte dello stesso Munch con la sua sofferenza mentale, forse più chiaramente rappresentate nel suo dipinto del 1893 “L’urlo”. Nel 1908, Munch fu ricoverato in un istituto in seguito al declino della sua malattia, aggravato dal consumo di alcol. In seguito, trascorse gran parte della sua vita in isolamento.

Depressione nell arte e nella letteratura quali rappresentazioni Fig 2

Edvard Munch, Malinconia, 1894-96. Collezione Rasmus Meyer, Bergen.

Questi sono solo alcuni esempi di artisti che, nelle loro opere, hanno rappresentato e/o espresso la depressione, le cui sfumature nella letteratura e nell’arte sono gremite di metafore e spunti visivi in grado di promuovere una comprensione più profonda del disturbo, facilitando la nostra capacità di cura compassionevole.

 

Meditazione Mindfulness (2022) di Daniel J. Siegel – Recensione del libro

Daniel Siegel, docente statunitense di psichiatria, propone un programma di Mindfulness di ventuno giorni per sviluppare la propria consapevolezza. “Meditazione Mindfulness” è una guida che accompagna i lettori, passo dopo passo, lungo un percorso di tre settimane per scoprire la presenza mentale.

 

 Nel testo sono presenti diversi esercizi pratici che compongono un programma semplice e pratico, alla portata di ogni lettore.

Respirare, rallentare e recuperare il proprio equilibrio psicofisico non è facile in un mondo sempre più frenetico, ma grazie alle istruzioni presenti nel testo i lettori possono sviluppare un maggior benessere psicologico.

La Mindfulness si basa su studi scientifici che dimostrano infatti quanto sia utile per migliorare la qualità di vita. Ciò può avvenire grazie anche allo sviluppo di una maggior consapevolezza, indispensabile per disinnescare il pilota automatico e adottare un approccio alla quotidianità che permetta di allontanare lo stress dannoso. Tali effetti benefici si riflettono anche sul corpo. Secondo Siegel grazie allo sviluppo dell’attenzione focalizzata, della consapevolezza aperta e dell’intenzione gentile si possono affrontare al meglio le sfide della quotidianità mantenendo un maggiore stato di serenità e felicità.

L’autore propone esercizi diversi per ogni settimana, partendo dalla ruota della consapevolezza.

Esercizi di respirazione, di scrittura di amor proprio e altri ancora accompagnano i lettori.

 È un percorso pratico che può quindi aiutare a rafforzare la propria mente allontanandosi dalle fonti di stress ed imparando semplicemente a essere. È una pratica personale, come sottolinea l’autore, che è possibile attuare ogni volta che lo si ritiene opportuno in modo da sviluppare la propria autoconsapevolezza.

La ruota della consapevolezza è una metafora del funzionamento della mente. Pensieri, emozioni, propriocezioni e sensazioni vengono rappresentate dal cerchio della ruota, mentre il fatto di sentirsi consapevoli viene rappresentata dal mozzo. Tramite la ruota della consapevolezza diventa così possibile integrare le esperienze interne, relative ai propri stati d’animo, con quelle esterne e raggiungere un maggiore stato di benessere.

 

Ipnosi e letteratura: considerazioni sui fenomeni ipnotici partendo da un esempio letterario

Con ipnosi ci si riferisce ad uno stato molto simile al sonno, o agli stati ad esso associati, in cui si verifica la trasmissione, da un ipnotizzatore ad un ipnotizzato, di una suggestione ovvero di un suggerimento.

 

Per entrare subito nel merito della questione che voglio affrontare con questo scritto riporterò un brano dal breve romanzo di Guy de Maupassant “Le Horla”:

14 Luglio – Festa della Repubblica.
Ieri ho assistito a certi fatti che mi hanno assai turbato.
Desinavo dalla mia cugina, maritata a Sable, che comanda il 76° cacciatori a Limoges. C’erano due giovani donne, una delle quali ha sposato il dottor Parent che si interessa di malattie nervose e delle straordinarie manifestazioni che in questo periodo sono provocate dagli esperimenti sull’ipnotismo e sulla suggestione. Il dottor Parent ci parlò a lungo degli straordinari risultati che sono stati ottenuti da scienziati inglesi e dai medici della scuola di Nancy. Mi citò fatti così strani che non ci potevo proprio credere, e glielo dissi:
– Siamo in procinto di scoprire, – diceva, – uno dei più importanti segreti della natura, ossia uno dei più importanti segreti della Terra: altri ve ne sono, di diversa importanza, lassù nelle stelle. Da quando l’uomo pensa, da quando è capace di esprimere e scrivere il suo pensiero, egli sente di sfiorare un mistero che i suoi sensi grossolani e imperfetti non riescono a penetrare e cerca di supplire all’impotenza degli organi con gli sforzi dell’intelligenza. Finché l’intelligenza era ancora allo stato rudimentale, il terrore dei fenomeni invisibili assumeva forme scioccamente spaventose, da cui son nate le credenze popolari nel soprannaturale, le leggende degli spiriti vagabondi, delle fate, degli gnomi, dei fantasmi e voglio anche aggiungere la leggenda di Dio, poiché le nostre concezioni dell’operaio creatore, da qualunque religione provengano, sono le più mediocri invenzioni, e le più sciocche e inammissibili che siano uscite dal cervello spaventato delle creature. Non c’è nulla di più vero della frase di Voltaire: “Dio ha fatto l’uomo a sua immagine, ma l’uomo gli ha reso la pariglia”.
“Ora, dopo più d’un secolo, sembra di presentire l’avvento di qualcosa di nuovo. Mesmer ed alcuni altri ci hanno messo su una strada imprevedibile, e davvero siamo giunti, specialmente da quattro o cinque anni a questa parte, a risultati sorprendenti”. La mia cugina, anch’ella completamente incredula, sorrideva. Il dottor Parent le disse:
– Volete che provi ad addormentarvi, signora?

– Sì, certo.
Ella si sedette su una poltrona e il dottore cominciò a guardarla fissamente, incantandola. Ero turbato, il cuore mi batteva a precipizio e mi sentivo la gola chiusa. Vedevo gli occhi della signora Sable appesantirsi, la sua bocca torcersi, e il suo seno affannare. Dopo dieci minuti dormiva.
– Ponetevi dietro a lei, – disse il dottore.
Mi sedetti dietro a lei. Il dottore le mise in mano un biglietto da visita e le disse: – Questo è uno specchio; cosa ci vedete?
– Vedo mio cugino, – rispose ella.
– Che sta facendo?
– Si attorciglia i baffi.
– E ora?
– Si leva di tasca una fotografia.
Le due giovani donne, spaventate, dicevano: – Basta! Basta! Il dottore proseguì: – Domani vi alzerete alle otto, andrete da vostro cugino, all’albergo, e lo pregherete di prestarvi cinquemila franchi che vuole vostro marito e che vi chiederà al suo ritorno. E la svegliò. Tornando all’albergo ripensavo a quella curiosa seduta e fui preso da dubbi, non sulla buona fede, assoluta ed insospettabile, della mia cugina che conoscevo come una sorella fin dall’infanzia; ma sulla possibilità d’un trucco del dottore. Forse egli nascondeva in mano uno specchio e lo mostrava alla giovane addormentata, insieme al biglietto da visita? I prestigiatori di professione fanno cose ben più notevoli.
Me ne andai a letto. Stamani, verso le otto e mezzo, il mio cameriere è venuto a svegliarmi dicendomi:
– La signora Sable vuol parlarvi subito.
Mi vestii in fretta e la feci introdurre. Si sedette visibilmente turbata, tenendo gli occhi abbassati; e senza levarsi la veletta mi disse:
– Caro cugino, devo chiedervi un gran favore.
– Che cosa, cugina?
– Sono molto imbarazzata, eppure devo dirvelo. Ho bisogno assoluto di cinquemila franchi.
– Cosa mi dite? Voi…
– Sì, io: o meglio mio marito, che m’ha incaricato di trovarli.
Ero così stupito che nel risponderle balbettavo. Mi chiedevo se non si prendesse beffa di me, d’accordo col dottor Parent, se si trattasse d’uno scherzo ben preparato e bene eseguito. Pure, guardandola attentamente, i miei dubbi scomparvero. Quella richiesta le doveva riuscire tanto dolorosa che tremava e mi accorsi che stava sul punto di scoppiare in singhiozzi.
So che è ricchissima, perciò le dissi:
– Ma come, vostro marito non può disporre di cinquemila franchi? Suvvia, pensateci un poco… Siete sicura che vi abbia detto di venirmeli a chiedere? Restò esitante per qualche secondo, come se si sforzasse di frugare nella memoria, e mi rispose:
– Sì, sì, sono sicura.
– Vi ha scritto? Esitò ancora, riflettendo. Indovinai il lavorio tormentoso della sua mente. Non lo sapeva. Sapeva solamente di dovermi chiedere in prestito cinquemila franchi per suo marito. Decise di mentire.
– Sì, m’ha scritto.
– Quando? Ieri non mi avete detto nulla.
– Ho ricevuto una lettera stamattina.
– Potete farmela vedere?
– No… no… no… c’erano cose troppo intime, troppo personali… sicché l’ho… l’ho bruciata.
– Insomma vostro marito ha dei debiti…
Esitò di nuovo, e poi mormorò:
– Non lo so.
Le dissi bruscamente:
– Il fatto è, cara cugina, che in questo momento non posso disporre di cinquemila franchi.
Mandò un’esclamazione di dolore:
– Oh! vi prego! vi prego, trovateli!…
S’era eccitata, aveva giunto le mani, come per pregarmi. La sua voce aveva mutato tono: piangeva e balbettava, torturata, dominata dall’irresistibile ordine che aveva ricevuto.
– Vi supplico… sapeste quanto soffro… ne ho bisogno per oggi.
Ebbi compassione di lei.
– Ve li farò avere subito, ve lo giuro.
– Oh, grazie! – esclamò: – come siete buono…
– Vi ricordate, – seguitai, – cos’è successo ieri sera a casa vostra?
– Sì.
– Vi ricordate di essere stata addormentata dal dottor Parent?
– Sì.
– Lui vi ha ordinato di venire stamattina da me a chiedermi in prestito cinquemila franchi, e in questo momento voi gli state obbedendo.
Stette qualche secondo a pensare, e mi rispose:
– Ma me lo ha chiesto mio marito…
Cercai, per un’ora, di convincerla, ma non ci riuscii. Quando se ne fu andata, corsi subito dal dottore. Stava per uscire.
Sorridendo mi ascoltò, poi disse:
– Ci credete ora?
– Per forza.
– Andiamo dalla vostra cugina.
Costei stava sonnecchiando, sfinita, su una poltrona a sdraio. Il dottore la prese per il polso, la guardò per un poco, tenendole una mano davanti agli occhi, che a poco a poco, sotto quell’insostenibile influenza magnetica, si chiusero. Appena si fu addormentata le disse:
– Vostro marito non ha più bisogno dei cinquemila franchi. Perciò dimenticatevi di essere andata dal vostro cugino a supplicarlo di prestarveli; e anzi, se lui ve ne parlerà non lo capirete. Dopo la ridestò. Io trassi di tasca il portafoglio.
– Allora, mia cara cugina, eccovi quel che mi avete chiesto stamani…
Restò così sorpresa che non ebbi il coraggio d’insistere. Provai a rinfrescarle la memoria ma seguitò a negare con forza, credette che la pigliassi in giro e insomma ci mancò poco che s’offendesse. Sono tornato or ora, non m’è riuscito di mangiare nulla, tanto quell’esperimento mi ha sconvolto.”

Avrei potuto scegliere un altro esempio, tra i molti presenti in letteratura, ma ho deciso d’impiegare proprio questo brano principalmente per due motivi: in primo luogo perché Maupassant utilizza dei riferimenti storici particolarmente esatti, come ad esempio il riferimento agli esperimenti condotti a Nancy da Hyppolyte Bernheim; in secondo luogo, perché alcuni elementi della narrazione sono perfettamente congruenti con la realtà e risulta pertanto possibile fare alcune considerazioni sui reali esperimenti ipnotici della fine del diciannovesimo secolo.

Che cos’è l’iponosi?

Prima di entrare nel merito della questione cerchiamo di dare un paio di nozioni riguardo all’ipnosi: con trattamento ipnotico ci si riferisce ad uno stato molto simile al sonno, o agli stati ad esso associati, in cui si verifica la trasmissione, da un ipnotizzatore ad un ipnotizzato, di una suggestione ovvero di un suggerimento. Evidentemente ipnosi e sonno non sono perfettamente identici, lo stato ipnotico è infatti un sonno del tutto particolare. Come nel sonno, ci si trova di fronte ad un fenomeno a cavallo tra il fisiologico e lo psichico, ma l’ipnosi, a parte le sue caratteristiche superficiali come gli occhi chiusi ed il rilassamento, presenta delle peculiarità che non possiamo trascurare. Per esempio: il soggetto è, sì, addormentato, ma è al contempo vigile e capace di reagire agli stimoli esterni e a rispondere alle domande dell’ipnotizzatore. Ed è proprio il rapporto tra i due che caratterizza l’ipnosi. In effetti, la reazione agli stimoli esterni non è estesa a tutti o a tutto; il paziente dorme nei confronti del mondo intero, ma è vigile per il suo ipnotizzatore: è sotto la sua influenza. Sotto un influsso profondo l’ipnotizzato diviene docile, credulo, capace di prestazioni sorprendenti pur di soddisfare le richieste dell’ipnotizzatore. Quando l’ipnotizzatore suggerisce all’ipnotizzato di osservare una lastra specchio – come nel caso del brano di Maupassant – ciò viene eseguito immediatamente, senza opporre alcuna resistenza. In altri casi l’ipnotizzatore può indurre l’ipnotizzato ad esperire una particolare sensazione, come ad esempio l’assaporare un gusto acido, ed immediatamente sul volto di costui appare la tipica espressione contratta di chi ha bevuto l’aceto o assaggiato un limone. L’ipnotizzato sta in questo caso allucinando dei fenomeni, proprio come avviene nel sogno – dove in effetti tutto sembra perfettamente reale. La sottomissione e la credulità dell’ipnotizzato somigliano molto a quelle del bambino nei riguardi dei genitori, o quelle del cosiddetto innamorato perso nei riguardi dell’amata. Tramite questo rapporto è possibile inibire, ostacolare o influenzare una grandissima mole di fenomeni: si possono influenzare le funzioni motorie, sensitive, certi riflessi, o addirittura sentimenti, istinti, memoria ed attività. Questo naturalmente non significa che tutto è possibile, l’immagine dell’assassino per volontà dell’ipnotizzatore è una pura e semplice finzione cinematografica. Il Dottor Caligari non esiste, ci sono dei limiti a cui la soggettività dell’ipnotizzato si manterrà sempre salda, quale che sia il grado d’influenza.

Proprio come il brano di Maupassant mostra chiaramente, una volta che il paziente è sotto l’influenza della suggestione ipnotica egli porterà a zero le proprie azioni volontarie, per essere esclusivamente in balìa dei suggerimenti dell’ipnotizzatore. A differenza, però, degli esempi fatti fino ad ora, quello dell’Horla è un caso di suggestione post-ipnotica. Infatti, che la donna sia intensamente sottomessa alla volontà dell’ipnotizzatore, non ne abbiamo prova subito, ma il giorno seguente. Ed è proprio l’esecuzione di quel particolar comando a mettere il protagonista nell’angosciosa condizione di accettare la veridicità del fenomeno a cui aveva assistito. Ci terrei ora a sottolineare che non solo la donna non si ricorda della suggestione impartitale, ma – e questo è molto interessante – quando viene interrogata sulle cause del suo comportamento, si sforza con ogni mezzo di trovare delle spiegazioni, che sono false. quanto inverosimili, benché ella, bisogna sottolinearlo, si ricorda chiaramente di essere stata messa sotto ipnosi!

Ipnosi e nevrosi

Per quanto Maupassant abbia naturalmente romanzato la faccenda, tocca un punto fondamentale: così come il nevrotico non è conoscenza delle ragioni che stanno dietro al proprio comportamento patologico, anche l’ipnotizzato trova innumerevoli scuse alla sua assurda condotta. Ciò avviene perché sono entrambi sotto l’influenza di processi psichici inconsci, nel primo caso sulla base di una suggestione indiretta (o autosuggestione) e nel secondo sulla base di una suggestione diretta ovvero il comando impartitogli dall’ipnotizzatore. Possiamo pertanto affermare che la suggestione condiziona, nelle sue dinamiche dirette ed indirette, non solo la coscienza del soggetto, ma anche e soprattutto il suo inconscio.

 

Cool Kids: un programma di prevenzione e intervento precoce per l’ansia applicato in contesto scolastico 

Adottando una prospettiva preventiva, recentemente si sta sviluppando l’interesse verso un’applicazione universale del programma Cool Kids a livello scolastico rivolto a tutti gli studenti e non soltanto a coloro che sarebbero identificati come a rischio di sviluppare sintomatologia ansiosa.

 

Disturbi d’ansia in età evolutiva

I disturbi d’ansia sono considerati disturbi psichici comuni tra I bambini e gli adolescenti con un range di prevalenza variabile tra il 4% e il 25% (Beesdo-Baum, Knappe, 2012; Kessler, Petukhova, Sampson, 2012), possono esordire precocemente e divenire cronici (Beesdo, Knappe, Pine, 2009).

Nonostante vi siano programmi di trattamento evidence-based, è frequente che bambini e adolescenti con sintomi ansiosi non ricevano trattamenti appropriati, con alcuni studi che evidenziano che meno del 20% dei soggetti in età di sviluppo che presenta disturbi d’ansia ha accesso a terapie adeguate (Merikangas, He, Burstein, 2011).

Secondo Donovan and Spence (2000) la criticità maggiore in tal senso risiede in trattamenti attuati tardivamente rispetto all’esordio della sintomatologia. Per ovviare a questi problemi, alcuni autori suggeriscono di includere gli interventi di prevenzione, screening, assessment e trattamento dei disturbi d’ansia all’interno dei setting scolastici (Neil, Christensen, 2009). Infatti l’ambiente scolastico avrebbe diversi vantaggi, tra cui favorire la destigmatizzazione ed essere maggiormente accessibile all’utenza da diversi punti di vista.

Alcune review e meta analisi (Neil, Christensen, 2009; Scaini, Belotti, Ogliari, et al. 2016) hanno evidenziato che programmi di prevenzione dell’ansia attuati all’interno di contesti scolastici possano essere strumenti efficaci nella riduzione dei sintomi ansiosi nei bambini e negli adolescenti.

Il programma Cool Kids per il trattamento dell’ansia in età evolutiva

Il programma Cool Kids è uno dei principali protocolli di trattamento cogntivo-comportamentale dei disturbi d’ansia nell’età evolutiva (dai 7 ai 18 anni). Il programma è una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale Coping Cat di Philip C. Kendall (1994) e Coping Koala di Paula Barret, Mark Dadds e Ronald Rapee (1996). Si tratta di un trattamento nato in ambito clinico per essere somministrato a bambini specificamente selezionati per sintomi d’ ansia o a rischio di svilupparli, che si basa su ricerche effettuate da istituzioni australiane (la Macquarie University di Sydney, il Royal North Shore Hospital di Sydney e l’università del Queensland) nel corso di un decennio. I principi fondamentali sono descritti in Treating Anxious Children and Adolescents: An Evidence-Based Approach (Rapee, Wignall, Hudson, & Schniering, 2000).

Il programma include componenti di psicoeducazione, ristrutturazione cognitiva, strategie di gestione del bambino ed esposizioni graduali, oltre ad altri moduli aggiuntivi relativi alle social skills e all’assertività. L’efficacia del programma Cool Kids è stata solidamente e congruamente dimostrata empiricamente sia in Australia che nel contesto di molti altri paesi (Arendt, Thastum, Hougaard, 2016;  Rapee, Lyneham, Wuthrich, 2017; Zikopoulou, Rapee, Simos, 2021).

Il programma Cool Kids presenta anche diverse evidenze di efficacia quando applicato e valutato all’interno di setting scolastici (Mifsud, C.; Rapee, 2005) con dati che segnalano una riduzione significativa della sintomatologia ansiosa nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo (costituito da soggetti in lista d’attesa di trattamento) con un mantenimento di tali esiti positivi anche a un follow-up di 4 mesi. Altri studi hanno riportato risultati simili, tra cui una ricerca norvegese che ha mostrato un significativo miglioramento dei sintomi ansiosi in adolescenti sottoposti al programma Cool Kids rispetto ai controlli (Haugland, Haaland, Baste, 2020).

L’applicazione del Cool Kids in ambito scolastico

Adottando una prospettiva preventiva, recentemente si sta sviluppando l’interesse verso un’applicazione universale del programma Cool Kids a livello scolastico rivolto a tutti gli studenti frequentanti la scuola e non soltanto a coloro che sarebbero identificati come a rischio di sviluppare sintomatologia ansiosa.

Ad oggi non vi sono studi che abbiano indagato l’efficacia del programma Cool Kids in qualità di programma universalmente applicato finalizzato alla prevenzione primaria dei sintomi ansiosi in età evolutiva.

Lo scopo dello studio di Scaini e colleghi (2022) è quello di applicare, verificandone l’efficacia, il programma Cool Kids a un’intera popolazione scolastica, e non soltanto a soggetti considerati “a rischio“ o clinicamente diagnosticati con un disturbo d’ansia.

Il campione è stato costituito da 73 bambini italiani (35 maschi e 36 femmine, con un range di età compreso tra i 10–13 anno) che frequentavano l’ultimo anno della scola primaria oppure il primo anno della scuola secondaria di primo grado. Il programma Cool Kids è stato rivolto a tutti gli studenti indipendentemente dalla loro condizione in termini di salute mentale.

L’adattamento del protocollo Cook Kids al contesto scolastico italiano ha previsto anzitutto un incontro preliminare con insegnanti e genitori per illustrare il programma di intervento. Il programma ha previsto 5 incontri di Gruppo della durata di due ore con la classe tenuti da uno psicologo con esperienza in psicoterapia cognitivo comportamentale e alla presenza di un insegnante. Durante gli incontri è stata svolta attività di psicoeducazione sull’ansia e sulle prinicapli tecniche per la gestione della stessa, come ad esempio ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale, problem solving, etc, utilizzando giochi, materiale digitale e lavori di gruppo.

I partecipanti hanno completano alcuni questionari self-report (il questionario “Screen for Child Anxiety-Related Emotional Disorders – SCARED” e il “Child Depression Inventory”) durante il primo e ultimo incontro di gruppo. Anche i genitori hanno compilato un questionario (Child Behavior Checklist) relativamente alla sintomatologia dei figli prima e immediatamente dopo l’implementazione del programma Cool Kids.

I risultati delle analisi statistiche hanno evidenziato un trend di diminuzione dei sintomi ansiosi nel questionario “SCARED”, soprattutto a livello di punteggio globale, e nelle subscale di ansia somatica, ansia generalizzata, ansia da separazione, ansia sociale e ansia scolastica nella valutazione post-trattamento. Tuttavia, nei questionari compilati dai genitori non è stato evidenziato tale miglioramento nei livelli di ansia percepita nei figli.

In relazione agli aspetti depressivi, anche i punteggi dei sintomi depressivi si sono significativamente ridotti nella fase di post-trattamento rispetto al pre-assessment, suggerendo l’efficacia di un programma di prevenzione dell’ansia attuato in setting scolastico anche per il miglioramento di altre aree problematiche correlate all’umore.

Tali esiti sono in linea con precedenti ricerche che hanno dimostrato come i programmi di prevenzione dell’ansia contribuiscono a prevenire e migliorare lo sviluppo di sintomi depressivi, considerando la comorbidità tra le due tipologie di disturbo (Bienvenu, Ginsburg, 2007; Flannery-Schroeder, 2006).

Questa ricerca fornisce importanti elementi che rafforzano l’evidenza del programma Cool Kids, anche erogato in una modalità breve e non eccessivamente dispendiosa, può essere una valida modalità di prevenzione universalmente rivolta a tutti gli studenti per prevenire l’ansia in età evolutiva all’interno del contesto scolastico che implica la riduzione della sintomatologia ansiosa anche in soggetti non clinici.

Anche se tali risultati sono promettenti, sono necessarie ulteriori ricerche per confermarli e generalizzarne l’evidenza, superando anche i limiti del presente studio tra cui la mancanza di un gruppo di controllo, l’utilizzo di scale self-report per l’assessment dei sintomi ansiosi e la presenza di un campione piuttosto limitato.

 

Il ruolo della lettura nei primi anni di vita

Qual è il ruolo della lettura nei primi anni di vita? In che modo, attraverso la lettura, pagina dopo pagina, il caregiver può contribuire allo sviluppo della regolazione affettiva del bambino?

 

Leggere non è una semplice attività, bensì una vera medicina in grado di apportare notevoli benefici sia intrapsichici che interpersonali.

Questa semplice attività se da un lato stimola la fioritura di nuove sinapsi e dunque di nuovi collegamenti neuronali, dall’altro è in grado di creare e rafforzare quei legami tra genitori e figli, che proprio attraverso la lettura e la sua condivisione, danno vita ad uno scambio interattivo capace di riflettersi anche sotto il profilo neurobiologico (Dehaene, 2009).

Se dunque un buon libro amplia le nostre conoscenze e la nostra curiosità, letto in compagnia può rappresentare una vera e propria forma di apprendimento di future modalità di autoregolazione, rispetto alle quali ciò che si apprende è un vero e proprio bagaglio psicobiologico dove ad essere chiamati in causa sono gli emisferi destri di ambo gli attori della relazione stessa (Schore, 2022).

La neurobiologia interpersonale quale lente applicata alla lettura

Grazie al contributo di Allan N. Schore, e alle nuove scoperte nell’ambito delle neuroscienze, risulta possibile comprendere come “una neurobiologia interpersonale dello sviluppo umano consenta la comprensione della struttura e del funzionamento sia della mente che del cervello” (Schore, 2009).

Secondo l’autore ad emergere sin da subito sono un arricchimento ed un’interazione tra il genitore e il bambino, capaci di creare un’esperienza accompagnata dalla fioritura di quello che Siegel (2021) definisce stato della mente.

Volendo rapportare quanto appena introdotto all’ambito della lettura condivisa, risulta interessante notare quanto a prescindere dal formato scelto, cartaceo e/o digitale, conti perlopiù la condivisione di quanto ci si appresta a leggere (Baron, 2022).

La lettura ad alta voce tra il caregiver e il proprio bambino può dunque rappresentare non solo un valido momento di co-costruzione, bensì un vero e proprio processo attraverso il quale creare quegli strumenti con cui autoregolare le medesime emozioni che attraverso la lettura si sceglie di condividere e di conoscere, e, non ultimo, dinanzi alle quali il nostro emisfero destro sembra giocare un ruolo davvero significativo (Schore, 2022).

Allineamento e sincronizzazione degli emisferi destri

Mostrando una maturazione più precoce rispetto a quello sinistro, l’emisfero destro gioca un ruolo cruciale nelle fasi prenatali e postnatali dello sviluppo.

Secondo il contributo del neuropsicologo Don Tucker “la specializzazione di questo emisfero per la comunicazione emotiva attraverso canali non verbali suggerisce un dominio della mente che si avvicina all’inconscio psicoanalitico” (Tucker e Moller, 2007).

La lettura condivisa sembra pertanto riflettere un’interazione emotiva rispetto alla quale la comunicazione che si instaura non solo avviene “da emisfero destro ad emisfero destro”, bensì promuove lo sviluppo e il rimodellamento di quei circuiti che quando leggiamo, permettono sia di immedesimarci nei personaggi percependo le loro stesse emozioni sia di autoregolarsi psichicamente e biologicamente. Consentendo l’ingresso in una dimensione dove le emozioni fungono da guida per orientarci col corpo, con la mente e col pensiero. Nondimeno durante quest’attività viene gradualmente a delinearsi quello che Baron (2022) definisce “discorso dialogico”, grazie al quale è possibile descrivere la conversazione che prende piede con i bambini e i neonati nel momento in cui si legge.

La progettazione di materiali digitali più focalizzati per l’apprendimento

Per quanto la scelta del cartaceo sia da sempre quella maggiormente consigliata, al giorno d’oggi tuttavia la pediatria sembra schierarsi sul fronte del digitale. Come sostenuto infatti dalle figure di Kucirkova e Zuckerman (2019), l’uso dei touchscreen e dunque l’impiego degli schermi sembra favorire lo sviluppo del vocabolario, contribuendo inoltre allo sviluppo fine della motricità, alla coordinazione oculo-manuale e alla promozione di una buona comunicazione.

Ciò che dunque risulta maggiormente importante non è tanto il formato, quanto piuttosto il coinvolgimento da parte dei caregiver in grado di condividere un momento semplice, rispetto al quale guidare l’apprendimento del piccolo. Se da un lato quindi leggere riflette un momento condiviso di vero e proprio apprendimento, dall’altro creare “un’impalcatura attorno alla storia che si legge insieme” riflette uno spazio condiviso attorno al quale inserire nuove conoscenze e nondimeno nuove modalità di autoregolazione quali canali grazie ai quali prendere contatto con le stesse emozioni. A differenza del formato cartaceo, per libri digitali si intendono libri o app in grado di replicare i materiali scritti e grafici di un libro stampato, ai quali però si accede attraverso un dispositivo elettronico (Baron, 2022). Al contempo un libro digitale potenziato “incorpora una o più funzionalità aggiuntive che possono rendere la lettura digitale diversa da quella su carta. Proprio per la presenza di suoni, animazioni, aree interattive e giochi. Quest’ultima tipologia infatti sulla base di uno studio condotto sembra confermare come la memorizzazione e dunque l’apprendimento aumentino proprio nel momento in cui il testo viene letto da un genitore. Quest’ultimo infatti non solo ricopre un ruolo fondamentale, bensì rappresenta quel canale attraverso cui filtrano tutte quelle informazioni inerenti il suo background esperienziale e che attraverso la lettura possono tradursi in una modalità grazie alla il bambino sarà o meno capace di farsi guidare da quelle parole che prenderanno la forma di nuove emozioni.

La neurobiologia dell’apprendimento a partire dalle prime fasi di vita

Grazie al contributo di Stanislas (2009) imparare a leggere consiste nel mettere in connessione due sistemi cerebrali presenti nel bambino: quello visivo relativo al riconoscimento delle forme e le aree del linguaggio. Nondimeno attraverso la tappa pittorica, fonologica e ortografica si delineano sempre più il valore e l’importanza della relazione diadica tra il caregiver e il bambino, in quanto come accennato in precedenza è proprio nella qualità della relazione che si instaura un buon imprinting sia per una fioritura sinaptica sia l’instaurarsi di cablaggio neuronale in grado di sincronizzare gli emisferi destri di chi legge e di chi ascolta (Stanislas, 2009). Grazie al modello del riciclaggio neuronale è possibile focalizzare l’attenzione su quella finestra temporale dai 0 ai 5 anni di vita, rispetto alla quale secondo l’autore il cervello del bambino sembrerebbe contenere già quelle strutture neuronali adibite alla lettura, e che tuttavia non aspettano altro se non di essere coltivate e scoperte in compagnia di chi sceglie di condividere un nuovo spazio dai benefici incredibili!

Pertanto coltivare quest’attività in compagnia dei propri figli non farebbe altro che apportare benefici in grado di propagarsi a livello emotivo, psicofisico e neurobiologico.

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