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Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo

Sebbene gli studi indichino che le psicoterapie non sono tutte ugualmente efficaci, molti di questi studi vengono condotti nel tentativo di confermare l’efficacia del proprio approccio sugli altri. Una recente ricerca pubblicata sull'American Journal Psychiatry sembra tuttavia portare nuovi e inaspettati risultati.

Di Valentina Davi

Pubblicato il 16 Lug. 2018

Aggiornato il 22 Dic. 2020 12:47

Il cosiddetto verdetto del dodo asserisce che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni, primo fra tutti la relazione terapeutica.

Tratto dall’articolo di Freeman & Freeman pubblicato nel 2014 sul The Guardian

 

“Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”.

Per chiunque abbia studiato psicologia questa frase non è una semplice citazione tratta da Alice nel Paese delle Meraviglie: il verdetto del dodo è il simbolo di uno dei più grandi terremoti che abbia mai sconquassato il mondo della psicoterapia.

Infatti, nel 1936 Saul Rosenzweig suggerì che tutte le psicoterapie fossero ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni; nessuna tecnica specifica rendeva un approccio psicoterapeutico più efficace di un altro.

Quasi 40 anni dopo, Luborsky et Al. (1975) pubblicarono uno studio i cui risultati supportavano la tesi di Rosenzweig, ipotizzando che il fattore aspecifico determinante potesse essere la relazione terapeutica.

Da allora, si sono susseguiti una miriade di studi di outcome volti a confermare o smentire il verdetto del dodo psicoterapeutico.

Sebbene i risultati sembrino in realtà asserire che no, non è vero che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci, è anche vero che tendenzialmente gli studi vengono condotti nel tentativo di dimostrare l’efficacia e la superiorità del proprio approccio sugli altri e quindi potrebbero essere non proprio imparziali.

Ed è proprio alla luce di quest’ultima considerazione che uno studio del 2014 pubblicato sull’American Journal Psychiatry assume particolare rilevanza all’interno del dibattito.

Questo studio clinico controllato randomizzato, condotto da Poulsen e colleghi su 70 soggetti, aveva come obiettivo il confronto tra psicoterapia psicoanalitica e psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) nel trattamento della bulimia nervosa.

I pazienti furono divisi in due gruppi: a un gruppo fu assegnata una psicoterapia psicoanalitica una volta a settimana per due anni, all’altro 20 sedute di CBT nell’arco di 5 mesi.

Entrambi i gruppi mostrarono miglioramenti, ma i risultati ottenuti per il gruppo trattato con CBT furono nettamente maggiori: dopo 5 mesi il 42% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate, contro il 6% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica; dopo 2 anni il 44% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate (a distanza di un anno e mezzo dal termine del trattamento), contro il 15% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica.

Perché questo studio è così importante per la discussione sull’efficacia delle psicoterapie?

Perché i terapeuti che hanno condotto il trial e che hanno somministrato la CBT erano… psicoanalisti! Per l’occasione infatti Stig Poulsen e Susanne Lunn hanno seguito per due giorni un training CBT per i disturbi del comportamento alimentare condotto niente meno che da Christopher Fairburn, oltre a essere costantemente supervisionati nel lavoro terapeutico durante i 5 mesi di psicoterapia.

E nel probabile tentativo di dimostrare l’efficacia del proprio approccio sono giunti alla conclusione opposta, tanto da auspicare lo sviluppo di una versione della psicoterapia psicoanalitica per la bulimia più strutturata e focalizzata sul sintomo.

Il verdetto del dodo risulta quindi ormai superato; è invece importante riconoscere che esistono trattamenti maggiormente indicati per determinati disturbi e che è necessario muoversi in questa direzione per identificare e migliorare sempre più interventi e protocolli specifici, così da indirizzare i pazienti verso il miglior trattamento evidence based disponibile ed efficace per la loro condizione; con buona pace di Rosenzweig, Luborsky e del dodo.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

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Valentina Davi
Valentina Davi

Coordinatrice di redazione di State of Mind

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Diversi sono gli studi che hanno cercato di indagare l'efficacia delle diverse terapie a conferma o meno del cosiddetto verdetto dodo. Spesso vengono messe a confronto la terapia dinamica e la terapia cognitivo comportamentale (CBT) nel trattamento di diversi disturbi, ma i dati non sono semplici da interepretare.

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