Il cosiddetto verdetto del dodo asserisce che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni, primo fra tutti la relazione terapeutica.
Tratto dall’articolo di Freeman & Freeman pubblicato nel 2014 sul The Guardian
“Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”.
Per chiunque abbia studiato psicologia questa frase non è una semplice citazione tratta da Alice nel Paese delle Meraviglie: il verdetto del dodo è il simbolo di uno dei più grandi terremoti che abbia mai sconquassato il mondo della psicoterapia.
Infatti, nel 1936 Saul Rosenzweig suggerì che tutte le psicoterapie fossero ugualmente efficaci grazie a fattori aspecifici comuni; nessuna tecnica specifica rendeva un approccio psicoterapeutico più efficace di un altro.
Quasi 40 anni dopo, Luborsky et Al. (1975) pubblicarono uno studio i cui risultati supportavano la tesi di Rosenzweig, ipotizzando che il fattore aspecifico determinante potesse essere la relazione terapeutica.
Da allora, si sono susseguiti una miriade di studi di outcome volti a confermare o smentire il verdetto del dodo psicoterapeutico.
Sebbene i risultati sembrino in realtà asserire che no, non è vero che tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci, è anche vero che tendenzialmente gli studi vengono condotti nel tentativo di dimostrare l’efficacia e la superiorità del proprio approccio sugli altri e quindi potrebbero essere non proprio imparziali.
Ed è proprio alla luce di quest’ultima considerazione che uno studio del 2014 pubblicato sull’American Journal Psychiatry assume particolare rilevanza all’interno del dibattito.
Questo studio clinico controllato randomizzato, condotto da Poulsen e colleghi su 70 soggetti, aveva come obiettivo il confronto tra psicoterapia psicoanalitica e psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) nel trattamento della bulimia nervosa.
I pazienti furono divisi in due gruppi: a un gruppo fu assegnata una psicoterapia psicoanalitica una volta a settimana per due anni, all’altro 20 sedute di CBT nell’arco di 5 mesi.
Entrambi i gruppi mostrarono miglioramenti, ma i risultati ottenuti per il gruppo trattato con CBT furono nettamente maggiori: dopo 5 mesi il 42% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate, contro il 6% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica; dopo 2 anni il 44% dei pazienti in CBT non presentava più condotte di purging e abbuffate (a distanza di un anno e mezzo dal termine del trattamento), contro il 15% dei pazienti in psicoterapia psicoanalitica.
Perché questo studio è così importante per la discussione sull’efficacia delle psicoterapie?
Perché i terapeuti che hanno condotto il trial e che hanno somministrato la CBT erano… psicoanalisti! Per l’occasione infatti Stig Poulsen e Susanne Lunn hanno seguito per due giorni un training CBT per i disturbi del comportamento alimentare condotto niente meno che da Christopher Fairburn, oltre a essere costantemente supervisionati nel lavoro terapeutico durante i 5 mesi di psicoterapia.
E nel probabile tentativo di dimostrare l’efficacia del proprio approccio sono giunti alla conclusione opposta, tanto da auspicare lo sviluppo di una versione della psicoterapia psicoanalitica per la bulimia più strutturata e focalizzata sul sintomo.
Il verdetto del dodo risulta quindi ormai superato; è invece importante riconoscere che esistono trattamenti maggiormente indicati per determinati disturbi e che è necessario muoversi in questa direzione per identificare e migliorare sempre più interventi e protocolli specifici, così da indirizzare i pazienti verso il miglior trattamento evidence based disponibile ed efficace per la loro condizione; con buona pace di Rosenzweig, Luborsky e del dodo.
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