Esiste una relativa superiorità di efficacia e/o efficienza di un trattamento? Si è cercato di rispondere a questa domanda attraverso il confronto diretto tra psicoterapie tramite Trial clinici, gli studi controllati randomizzati e le meta-analisi.
Il presente contributo è il secondo di una serie di articoli sull’argomento. Il primo contributo ci ha aiutato a comprendere il punto di vista di Rosenzweig sull’efficacia delle procedure psicoterapiche
Non dipende dai veloci
la corsa,
nè dai forti
la guerra,
nè dai sapienti
il nutrimento,
nè dai più abili
la ricchezza
e neppure dai più sensibili
una grazia. (Qoelet 9,11)
Secondo quadro: Luborsky: di chi è la vittoria? – La “corsa arruffata” delle psicoterapie – Secondo slittamento
Qualcuno obbietterà: esiste o potrebbe esistere, in ogni caso, una relativa superiorità di efficacia e/o efficienza di un trattamento. E questo vorrebbe dire che UNO ha vinto.Questa ipotesi è stata formulata e messa alla prova attraverso il confronto diretto tra psicoterapie. Le tecniche di confronto utilizzate sono state i Trial clinici, gli studi controllati randomizzati e le meta-analisi. Lo studio fondamentale, costituito da una meta-analisi di meta-analisi, è stato effettuato da Luborsky e coll. nel 2002. Nella loro meta-analisi, che analizzava 17 meta-analisi di confronto tra diverse psicoterapie, emergeva un effect size di 0.20, troppo piccolo e statisticamente non significativo. Tale coefficiente è ulteriormente diminuito (0.12) quando hanno tenuto conto dell’ “effetto fedeltà” (Therapist and Researcher Allegiance).
Per Therapist and Researcher Allegiance, nella ricerca in psicoterapia, si intende che l’esito degli studi di comparazione del trattamento aumenterà sistematicamente l’effetto di quello favorito dai ricercatori.
Nel 2001 Ahn and Wampold (2001) hanno condotto una meta-analisi sulle diverse componenti includibili nel trattamento psicoterapeutico, e concludono che non vi sono differenze significative di outcome dipendenti dalla presenza o assenza di specifici fattori, e pertanto che un concreto specifico componente fosse necessario all’effetto terapeutico.
Di più ancora, una meta-analisi (Henry, Schacht, Strupp, Butler, & Binder, 1993) sugli effetti di terapie manualizzate, che rappresenterebbero il gold standard delle psicoterapie, mostravano che l’adesione al manuale non incrementava l’efficacia della terapia, ed era invece, al contrario, correlato al deterioramento dell’alleanza terapeutica in numerosi studi esaminati.
Si possono citare ulteriori studi sulla questione della superiorità di un trattamento rispetto ad altri e avremo risultati altalenanti, ambigui, contestabili, etc.
Una domanda qui va posta: sono sensati e a cosa servono gli studi randomizzati controllati (CRT)?
Howard e coll. pongono alcune questioni basilari di metodo che possono spiegare, almeno in parte, perché si possa avere “l’effetto Dodo”, e che sono legate ai problemi creati dalle difficoltà procedurali nell’impostare gli studi, dalle limitazioni dei disegni sperimentali (come, ad esempio la rappresentatività delle misure utilizzate per valutare i processi del trattamento), nonché allo stesso potere persuasivo dei risultati (Howard, Krause, Sauders, & Kopta,1997).
Blatt rileva che spesso non vengono tenute in considerazione dimensioni quali le interazioni tra le personalità dei partecipanti all’interazione clinica, le credenze su ciò che funziona o non funziona in terapia, il tipo di manifestazioni psicopatologiche rilevanti, nonché la possibilità che vi siano differenti effetti in persone diverse (“different strokes for different folks”), che Blatt definisce effetti diversi “in vitro” e “in vivo” (Blatt, 1992).
Nel 2009 Budd e Hughes sottolineano come la validità di Trials randomizzati controllati nel campo delle psicoterapie sia afflitta da vizi distorsivi dei risultati, poiché incorporano assunzioni legate alla loro adesione al razionale riduzionistico. Ad esempio, l’uso inappropriato di campioni clinici che, pur essendo omogenei dal punto di vista della diagnosi nosografica secondo i criteri diagnostici standard (DSM, per capirci) non lo sono da quello della validità “ecologica”, sia per la alta comorbidità tra condizioni psicopatologiche, sia per i confini sfocati tra le diverse condizioni. Gli stessi autori rilevano che non è fondato il criterio di considerare il tipo di terapia come una variabile indipendente. Esiste una difficoltà ulteriore legata all’oggetto di studio, cioè la possibilità di distinguere e confrontare in modo chiaro i diversi tipi di intervento, anche per la tendenza dei terapeuti a mescolare tecniche appartenenti a modelli diversi. Infine, un’assunzione fallace è determinata dalla deriva verso una prospettiva riduzionista dei processi che governano l’insorgenza, il mantenimento e il trattamento dei disturbi mentali, considerati analoghi a quelli che governano le malattie organiche. In questa analogia, la psicoterapia è una “cura” e le sedute sono la “dose”. Ma, come da molti sostenuto, i disturbi mentali non si comportano come costrutti medici, ed è perciò necessario essere molto cauti nell’applicare la stessa logica nel costruire gli studi e nell’interpretarli (Borsboom & Cramer, 2013).
Mi accorgo qui che sto dicendo cose talmente ovvie e scontate che, forse, non valeva lo sforzo di cercare e scriverne. Eppure è necessario.
Ad ogni buon conto e per amore di discussione, consideriamo la “corsa arruffata” una procedura valida per designare un vincitore; anche così è proprio vero che UNO vince?
Vi faccio un esempio in cui NESSUNO vince: i concorsi in magistratura o per l’abilitazione notarile. In questi concorsi esiste una soglia minima di votazione per risultare idoneo, perciò è possibile che nonostante si abbiano a disposizione un certo numero di posti, ma è possibile (in linea teorica e spesso anche in concreto) che i concorrenti possano arrivare primi, senza vincere alcun premio, perchè non raggiungono il punteggio minimo richiesto. Qual è uno standard minimo soddisfacente per vincere nella gara tra psicoterapie? In effetti, è possibile essere migliori di altri, ma non vincenti. Credo che questa sia la tesi di Dimaggio. In questo caso direi “che una psicoterapia vince, ma non convince”.
Ma può essere anche possibile che MOLTI (O TUTTI) vincano, pur essendo UNO solo il primo, e anche in questo caso anche il verdetto del Dodo sarebbe del tutto vero. Essere primi ed essere vincenti non sono necessariamente termini sovrapponibili.
Parliamo di farmaci, ad esempio gli antiipertensivi. Esistono almeno 5 categorie di farmaci (Diuretici, Sartani, ACE inibitori, beta bloccanti, vasodilatatori). Due di queste categorie agiscono sulla funzione (sartani e ace inibitori), mentre all’interno del gruppo dei diuretici ci sono diversi meccanismi d’azione che ottengono lo stesso effetto clinico. Lo stesso si può affermare per i vasodilatatori (che comprendono i calcio antagonisti, gli alfa litici, il catapresan).
TUTTE le categorie di farmaci citate sono efficaci, perciò TUTTE vincono e TUTTE ricevono il premio, senza che vi sia una classifica in cui UNO risulta il primo.
Concludendo, l’efficacia, ossia il vincere, ha a che fare con l’appartenere a un insieme (l’insieme dei vincitori), arrivare primo ha a che vedere con una classifica e il primo in classifica può appartenere o no all’insieme dei vincitori.
Si può anche obbiettare che si fanno alcuni errori di logica quando si accetta il verdetto del Dodo, ad esempio inferire dalla difficoltà a identificare il trattamento più efficace l’equivalenza tra i trattamenti. Ma non è questo il nostro caso infatti quel che si va a verificare è che, mostrando tutti i trattamenti di pari efficacia, qualcosa deve accomunarli. La storia parte dalla constatazione di similarità negli esiti e si conclude con il tentativo di spiegare la sovrapponibilità di risultato.CHI ha mai detto, però, che i trattamenti sono uguali? Gli effetti ed alcuni specifici effetti (sui sintomi espliciti e presi come indicatori di una diagnosi nosografica, magari DSM omologata?) sono (possono essere) uguali, ma non è affatto detto che TUTTI gli effetti siano uguali!
Sostiene lo stesso Luborsky insieme ad Asay (1999) che le spiegazioni per la sovrapposizione di esiti possono essere almeno tre. Primo, che diverse terapie possono giungere a risultati simili attraverso processi diversi. Secondo, che i risultati potevano essere stati diversi, ma che la ricerca in questione non li aveva identificati o riconosciuti. Solo la terza spiegazione è quella che “fattori comuni” possano essere attivi, ma che non siano enfatizzati dalla teoria del cambiamento centrale in una singola scuola.
Ci può essere un secondo errore, questa volta legato alla mancanza di considerazione dell’effettiva superiorità di alcuni trattamenti così come risulta dalla letteratura scientifica, infatti alcuni trattamenti si sono dimostrati migliori di altri.
La domanda qui è: migliore per cosa, migliore rispetto a cosa? La discussione precedente e le altre innumerevoli che si sono susseguite nel corso dei decenni contengono molte ipotesi e teorizzazioni in proposito.
Solo a titolo esemplificativo citiamo l’articolo di Kazdin e Bass (1989), che hanno messo in dubbio il valore della maggior parte degli studi comparativi passati sulla base di una “mancanza di potere statistico” e quello dello stesso Lambert e coll., che segnala, appunto, “seri problemi nella misurazione accurata del cambiamento comportamentale” (Lambert, Christensen, DeJulio, 1983).
Se la corsa “arruffata” è una scelta bizzarra, chi la propone e cerca a tutti i costi un vincitore e spara sul verdetto del Dodo?
Secondo alcuni autori che mi hanno guidato in questa rassegna, due classi di persone: l’associazione degli psicologi americani, che teme che operatori non professionali propongano interventi di aiuto concorrenziali con quelli psicologici codificati e certificati, e le agenzie di assicurazione che vogliono trattamenti brevi ed economicamente convenienti (Belopavlovic e coll, 2018) (tra le agenzie, ovviamente, ci sono i servizi sanitari, prima di ogni altro quello britannico, thatcherianamente riformato, aggiungo io).
E tuttavia, nonostante questo, noi (tutti noi, io credo) continuiamo incessantemente a correre, nell’attesa di ricevere un riconoscimento, anche se tardo e parziale, perché non riusciamo a farne a meno.
Commento
Correre non è un buon modo di asciugarsi, come pesare il cavallo non è il miglior modo per farlo ingrassare. Ma ad alcuni piace correre e ad altri pesare cavalli. Ad altri sembra conveniente che ci sia una corsa o una pesata. Così è e così sia!
Ringraziamenti
Ringrazio mio figlio Filippo, brillantissimo logico, per avermi suggerito l’articolazione della discussione sull’antefatto.
Ringrazio Mancini per la sua lucidità, che permette anche ai suoi interlocutori di chiarirsi le idee.
Ringrazio il Ruggiero e con lui Sassaroli e Caselli, che offre l’occasione per pensare a ciò che agiamo.
I meriti del mio commento sono di tutti gli autori citati; le banalità, le inesattezze e gli errori tutti miei.
Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:
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- Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
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- Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
- Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
- Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
- Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
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