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Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra

Davvero ci si possono aspettare gli stessi risultati da qualunque psicoterapia per qualunque disturbo? DIscussione sul verdetto del Dodo.

Di Francesco Mancini, Guyonne Rogier

Pubblicato il 02 Set. 2020

Aggiornato il 22 Dic. 2020 12:49

Numerosi autori hanno evidenziato come il verdetto del Dodo si poggi su evidenze empiriche e ragionamenti teorici che presentano notevoli criticità, mettendo seriamente in discussione la sua fondatezza. In questo articolo si considereranno tre limiti delle ricerche che sostengono il verdetto del Dodo e alcune sue implicazioni paradossali.

 

Nel 1936 il Dodo espresse il suo verdetto sulle psicoterapie: sono tutte ugualmente efficaci, dunque tutte meritano un premio (Rosensweig, 1936).

Da questo verdetto sono derivati due filoni di ricerca. Il primo dedicato a controllare la validità del parere del Dodo: è vero che ci si possano aspettare gli stessi risultati da qualunque psicoterapia per qualunque disturbo? Il secondo deriva dal seguente ragionamento, se tutte le psicoterapie funzionano, allora ci devono essere dei fattori terapeutici comuni, e ci si pone la domanda di quali essi siano. In questo articolo ci occuperemo solo della prima questione. A favore del verdetto vi sono diverse ricerche, la prima fu pubblicata nel 1975 da Luborsky, Singer e Luborsky. Gli autori confrontarono tutti gli studi empirici pubblicati fino ad allora sull’efficacia delle psicoterapie e conclusero che le psicoterapie apparivano sostanzialmente uguali quanto a risultati. Negli anni successivi, tale studio ebbe risonanza nella comunità degli psicoterapeuti e fu ripetuto da altre meta-analisi (e.g. Smith & Glass, 1997; Wampold et al., 1997; Luborsky et al., 2002).

In questo breve articolo considereremo alcune delle ragioni che hanno portato le più autorevoli linee guida internazionali a NON tener conto del Dodo, ma a basare le proprie indicazioni sulle risposte alla seguente domanda “quale o quali psicoterapie sono più efficaci per quale disturbo?”. Non si è tenuto conto del Dodo perché le prove a suo favore non sono adeguate e perché ci sono ottimi argomenti per ritenere che il verdetto derivi da artefatti metodologici e per sostenere che le psicoterapie non siano tutte efficaci allo stesso modo per tutti i disturbi. Numerosi autori, infatti, hanno evidenziato come il verdetto del Dodo si poggi su evidenze empiriche e ragionamenti teorici che presentano notevoli criticità, mettendo seriamente in discussione la sua fondatezza (e.g. Chambless, 2002; Crits-Cristoph, 1997; Hunsley e Di Giulio, 2002; Marcus, O’Connell, Norris, & Sawaqdeh, 2014).

In questo articolo considereremo tre limiti delle ricerche che sostengono il verdetto del Dodo e alcune sue implicazioni paradossali.

Il primo limite: le diverse psicoterapie sono confrontate in modo inadeguato

Una prima critica può essere rivolta a diverse metanalisi (Shapiro & Shapiro, 1982; Robinson, Berman, & Neimeyer, 1990; Smith, Glass, & Miller, 1980), che, di fronte all’eccessiva numerosità delle tecniche psicoterapeutiche studiate nelle ricerche primarie, che sono l’oggetto delle meta-analisi, le hanno raggruppate in macro-categorie che hanno confrontato rispetto alla loro efficacia.  I criteri con cui sono state definite le macro categorie appaiono molto discutibili dal punto di vista teorico e inficiano quindi la validità delle conclusioni tratte dagli studi. Per esempio, la terapia psicodinamica è stata inclusa nella stessa categoria assieme alla terapia umanistica (Shapiro & Shapiro, 1982). In questo modo psicoterapie di efficacia molto diversa tra loro sono state inserite nella stessa macro-categoria con il risultato che il loro effect size complessivo risulta ben poco informativo (Cuijpers, van Straten, Bohlmeijer, Hollan, & Andersson, 2010).

In merito a questo punto, il caso della meta-analisi di Smith, Glass e Miller (1980), successivamente esaminata da Hunsley e Di Giulio (2002), appare esemplificativo. Gli autori hanno in un primo momento confrontato centinaia di dati relativi a esiti del trattamento o studi di confronto tra trattamenti. Facendo ciò, trovarono chiare evidenze a supporto dell’esistenza di differenze, in termini di efficacia, tra diverse terapie e “sottoclassi” di terapie. Ad esempio, i trattamenti cognitivi e cognitivi comportamentali mostravano gli effect size più elevati, seguiti dai trattamenti comportamentali e psicodinamici, dai trattamenti umanistici e infine trattamenti di sviluppo personale, come ad esempio il counselling. Smith et al. hanno poi analizzato i risultati considerando l’efficacia delle sottoclassi di terapie rispetto ai diversi disturbi. Di nuovo sono emerse sostanziali differenze. Per quanto riguarda il trattamento della depressione, ad esempio, l’effect size relativo ai trattamenti cognitivo e comportamentali era di 1.18 mentre quello relativo ai trattamenti umanistici raggiungeva soltanto il .50. Quindi, confrontando sottoclassi di psicoterapie, gli autori non hanno trovato conferma del verdetto del Dodo.

Le psicoterapie non risultavano tutte uguali né in generale né per ogni disturbo.

Questi dati, tuttavia, non sono presi in considerazione dai sostenitori del Dodo. I quali invece si focalizzano su analisi condotte non su “sottoclassi”, ma riunendo le psicoterapie in macro categorie. Ad esempio, Smith et al. (1980) dopo aver analizzato i confronti fra le sottoclassi, divisero le psicoterapie in due macro categorie, quelle “comportamentali” e quelle “verbali”, ne confrontarono gli esiti e non trovarono differenze. Quindi, c’erano differenze tra “sottoclassi” di psicoterapie che però scomparivano se le psicoterapie erano distinte in macro categorie. Come mai? Per rispondere dobbiamo porci una domanda preliminare, quali psicoterapie erano state incluse nelle due macrocategorie? Gli autori hanno inserito i trattamenti cognitivo-comportamentali e comportamentali, come ad esempio la desensibilizzazione sistematica, nella macro-categoria “comportamentale”. Tra i trattamenti inclusi nella categoria di confronto, denominata “verbale” vi erano le psicoterapie psicodinamiche, umanistiche e anche quelle cognitive. La suddivisione operata dagli autori appare arbitraria e poco giustificabile sul piano concettuale. Per esempio, che senso ha mettere la terapia cognitiva assieme a quella psicodinamica e non a quella comportamentale? Non solo, ma poiché lo scopo era il confronto dell’efficacia, è ovvio che non ci fossero differenze fra le due macro-categorie, perché le due sottoclassi di maggior efficacia erano state inserite una, la terapia comportamentale, nella macro-categoria “comportamentale” e l’altra, quella cognitiva, nella macro-categoria “verbale”. Come osservano Hunsley e Di Giulio (2002), e come brevemente esemplificato dal caso di Smith et al. (1980), i supporti empirici forniti da alcune meta-analisi sembrano quindi derivati da errori di classificazione.

In aggiunta, diverse meta-analisi, che hanno sostenuto la legittimità del verdetto del Dodo, non hanno tenuto conto che negli studi primari l’efficacia di una psicoterapia fosse misurata (Chambless et al., 2002; Crits-Christoph, 1997; Marcus et al., 2014) rispetto a gruppi di controllo molto diversi, come lista d’attesa, condizioni placebo, trattamenti farmacologici o altre psicoterapie. È piuttosto ovvio che uno studio che confronta due tecniche terapeutiche entrambe efficaci, ad esempio la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione e prevenzione della risposta per un disturbo d’ansia, osservi un divario minore, in termini di efficacia, rispetto a uno studio che confronta una tecnica psicoterapeutica, ad esempio psicodinamica, con una lista d’attesa o un intervento di sostegno. Ad esempio, la metanalisi di Smith e Glass (1997) ha considerato più di 400 trial controllati. In questi trial gli esiti ottenuti da diversi tipi di psicoterapia erano stati confrontati con quelli ottenuti in condizioni di controllo. Il risultato della meta-analisi è stato che le varie psicoterapie apparivano uguali fra loro quanto a efficacia. Cioè tutte risultavano più efficaci delle condizioni di controllo. Il problema è che le condizioni di controllo utilizzate nelle ricerche primarie erano diversissime e ciò inficia completamente le conclusioni della meta-analisi. Ad esempio è evidente che l’efficacia, rispetto alla cura del disturbo di panico di una psicoterapia, confrontata con una condizione placebo, o con una lista d’attesa, è sopravvalutata, rispetto a quanto avviene se la si confronta con un’altra psicoterapia altrettanto efficace. Una meta-analisi che mira a supportare il verdetto del Dodo, dovrebbe assicurarsi che tutti gli studi primari considerati usino le stesse condizioni di controllo e sarebbe ancor meglio se usassero, come controllo, unicamente trattamenti psicoterapeutici e non placebo, liste di attesa, supporto psicologico o il cosiddetto trattamento as usual. In assenza di questo prerequisito, le conclusioni tratte da uno studio meta-analitico sono falsate e dunque inaffidabili e inutili.

Forti di tali consapevolezze, una successiva meta-analisi che fornì supporto al verdetto del Dodo, condotta da Wampold et al. (1997), cercò di ovviare a queste due importanti limitazioni. Al fine di non ricorrere al discutibile utilizzo delle macro-categorie di psicoterapie, gli autori procedettero esaminando la distribuzione di tutti gli effect size relativi ai singoli confronti tra trattamenti e testarono l’eterogeneità della distribuzione degli effect size, centrata attorno allo zero. La scarsa eterogeneità dei risultati fu interpretata come una prova del verdetto del Dodo. Tuttavia, è stato osservato che il metodo utilizzato per calcolare l’eterogeneità degli esiti dei diversi trattamenti, inevitabilmente favoriva una apparente omogeneità (Hunsley e Di Giulio, 2002). Wampold et al. usarono anche un sistema più semplice cioè calcolarono tutti gli effect size, fra le coppie dei trattamenti, poi li sommarono e li divisero per il loro numero. L’effect size medio fu 0.19. Secondo Wampold et al. (1997) questa differenza sarebbe troppo modesta per poter dire che alcune psicoterapie siano più efficaci di altre e, pertanto, avrebbe ragione il Dodo. Secondo altri invece, questo dato non autorizza la conclusione che tutte le psicoterapie siano di pari efficacia e comunque è rilevante, se si considera la questione dal punto di vista di un paziente, sapere che un certo trattamento offre delle probabilità maggiori di stare meglio (Rounsaville e Carroll, 2002).

Ma il risultato più interessante appare solo se si considerano più da vicino le psicoterapie che Wampold et al. (1997) hanno inserito nella loro metanalisi e ci si chiede quali psicoterapie erano state confrontate. Il risultato indebolisce le conclusioni di Wampold. Crits-Christoph (1997) ha riscontrato che il 69% degli studi confrontava un trattamento CBT con un altro trattamento CBT, ad esempio la ristrutturazione cognitiva con l’esposizione e prevenzione della risposta. Per Hunsley e Di Giulio (2002) addirittura l’80% degli studi considerati nella metanalisi di Wampold riguardava confronti tra interventi CBT. Quindi, le conclusioni di Wampold et al. (1997) circa l’equivalenza delle psicoterapie sembrerebbero valide per i trattamenti CBT ma non per quelli bona fide in generale.

Infine Sanders e Hunsley (2018) riconoscono a Wampold et al. il merito di aver introdotto come criterio di inclusione il concetto di psicoterapia bona fide, ma criticano l’inclusione di trattamenti psicoterapeutici per problematiche molto difformi fra loro come l’abbandono scolastico, training per le abiltià sociali, l’obesità e conflitti decisionali e non solo disturbi di ben definito interesse clinico. Saners e Hunsley concludono suggerendo che la valutazione delle psicoterapie dovrebbe considerare trattamenti bona fide per disturbi clinici bona fide, cioè ben definiti.

Il secondo limite: la natura degli esiti delle diverse psicoterapie non è sempre la stessa e ciò non le rende facilmente confrontabili

Un’altra critica agli studi che sostengono l’effetto Dodo riguarda l’eterogeneità degli esiti considerati dagli autori (e.g. Marcus et al., 2014). In alcune meta-analisi (e.g. Wampold et al., 1997) gli autori non hanno differenziato gli esiti considerati primari (ad esempio, la riduzione della sofferenza psicopatologica) dagli esiti secondari (ad esempio, il benessere globale). In merito a questo punto, è esemplificativa la conclusione di Baardseth et al. del 2013 che notò come psicoterapie diverse fossero equivalenti rispetto a certi esiti, ma non rispetto ad altri. Alla luce di questa critica, la conclusione secondo la quale tutte le psicoterapie sarebbero efficaci allo stesso modo non appare corretta perché alcune psicoterapie potrebbero essere efficaci per un esito primario e altre per uno secondario. La critica è ben riassunta da Rounsaville e Carroll (2002):

Come cinque sedute di desensibilizzazione sistematica potrebbero avere gli stessi effetti qualitativi [corsivo nostro] di tre anni di psicoterapia psicodinamica intensiva?

Le meta-analisi a sostegno del Dodo spesso non hanno tenuto conto di un’altra importante differenza tra gli esiti (Marcus et al., 2014), cioè hanno assimilato gli effetti dei trattamenti al follow-up, agli effetti ottenuti alla fine del trattamento. Ciò è particolarmente problematico perché nel periodo che intercorre tra la fine della psicoterapia e il follow-up spesso i pazienti proseguono il trattamento o, in caso di scarsi risultati, possono ricorrere ad altri interventi o comunque risentire di altre variabili confondenti, come importanti eventi di vita.

Il terzo limite: le medesime psicoterapie non sono ugualmente efficaci per tutti i disturbi

Ammettiamo per un momento che le ricerche dei sostenitori del Dodo siano prive dei limiti che le sono abitualmente riconosciuti, da ciò deriva che tutte le psicoterapie, purché bona fide, siano ugualmente efficaci per qualunque disturbo? Difficile da credere. Ci sono ottime ragioni, infatti, per ritenere che per alcuni disturbi, alcune terapie siano più efficaci di altre. Ad esempio, la CBT risulta più efficace delle altre psicoterapie con cui è stata confrontata per i disturbi d’ansia (Baardseth et al. 2013). Non ci sono studi che dimostrano che una qualunque psicoterapia sia superiore alla CBT per il disturbo ossessivo (Chambless, 2002). Ma è interessante osservare che, sempre continuando l’esempio del disturbo ossessivo compulsivo, vi siano differenze tra diverse tecniche della terapia comportamentale: la desensibilizzazione sistematica è meno efficace dell’esposizione e prevenzione della risposta (Chambless, 2002). Non solo, ma ci sono differenze anche di tipo di esito, per lo stesso genere di disturbo, fra le diverse psicoterapie. Ad esempio, la CBT è più efficace di altre psicoterapie per la riduzione della sofferenza sintomatologica nei disturbi d’ansia (ad esempio, Tolin, 2010), ma di pari efficacia rispetto a misure di benessere globale (Baardseth et al., 2013).

È altresì sostenibile che la CBT, la psicoterapia interpersonale, l’attivazione comportamentale e la psicoterapia psicodinamica abbiano risultati sostanzialmente simili per la depressione (Braun et al. 2013) .

Pertanto, appaiono plausibili le conclusioni di Marcus et al. (2014): disturbi che si manifestano con sintomi specifici, ad esempio,  agorafobia, disturbo ossessivo, ansia sociale si avvantaggiano di trattamenti che entrano nel merito del profilo interno del disturbo, come la CBT, che si è dimostrata capace di ridurre la sofferenza sintomatica più di altre psicoterapie. Mentre per disturbi con sintomi più diffusi, come la depressione, le psicoterapie, compresa la CBT, si rivelano simili nella loro capacità di migliorare il benessere globale.

Non solo il verdetto del Dodo appare non adeguatamente fondato, ma ha, di fatto, anche delle implicazioni potenzialmente dannose.

Lo stesso Wampold e colleghi (1997) evidenziano che l’affermazione “tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci” vale solo per le psicoterapie bona fide che abbiano solide prove di efficacia e che siano state confrontate con altre psicoterapie, dunque, non per qualunque psicoterapia. Di fatto, invece, si osserva che il verdetto del Dodo è impropriamente utilizzato per legittimare l’utilizzo di psicoterapie in assenza di studi seri relativi alla loro efficacia. Un’altra conseguenza dannosa dell’accettazione acritica del verdetto del Dodo potrebbe essere la delegittimazione della domanda “quale psicoterapia è migliore per questo paziente?”, con la conseguenza di proporre, ad esempio, ad un paziente depresso un trattamento che si è dimostrato efficace per il disturbo post traumatico da stress.

Inoltre, se si prendesse per buono il verdetto del Dodo allora ci sarebbe l’interruzione delle ricerche dedicate a confrontare l’efficacia di diverse psicoterapie per i diversi disturbi, perché ogni psicoterapia sarebbe considerata efficace per ogni disturbo o problema psicologico. Non solo, ma ci sarebbe anche una riduzione delle ricerche sui processi psicologici che generano e mantengono i diversi disturbi. Se tutto funzionasse per tutto, che interesse ci sarebbe a comprendere, ad esempio, perché un paziente ricade continuamente in depressione e un altro ha un disturbo borderline di personalità? L’omogeneizzazione delle psicoterapie rischierebbe di favorire anche l’omogeneizzazione della conoscenza psicopatologica.

Infine, ci sarebbero conseguenze rilevanti per le politiche sanitarie. Se davvero tutte le psicoterapie fossero di pari efficacia, allora sarebbe ragionevole scegliere le psicoterapie che costano di meno, e, di conseguenza la terapia comportamentale (che certamente è più breve e meno costosa di altre psicoterapie) dovrebbe diventare la psicoterapia di riferimento per tutti i servizi, per tutti i pazienti, di tutte le età, per tutti i disturbi, a prescindere dalla risposta alla questione di se la richiesta è ridurre la sofferenza legata a un disturbo d’ansia o incrementare la soddisfazione per la vita o essere aiutati a superare una fase del ciclo vitale (Rounsaville & Carroll, 2002). Conseguentemente dovrebbe essere privilegiata la formazione nella terapia comportamentale, mentre la psicoanalisi dovrebbe essere esclusa perché più onerosa sia da apprendere sia da erogare.

Una riflessione

Ci sono ragioni metodologiche ed empiriche che suggeriscono un atteggiamento estremamente cauto nei confronti del Dodo (Cuijpers et al., 2019; Sanders & Hunsley, 2018). Dopo tante ricerche, il verdetto appare credibile, solo se si misura l’efficacia delle psicoterapie inserendole in macro-categorie create ad hoc, se non si tiene conto che i diversi studi inseriti nelle meta-analisi hanno utilizzato gruppi di controllo molto diversi fra loro, dalla lista di attesa a trattamenti efficaci, se non si tiene conto delle differenze qualitative fra gli esiti, primari e secondari, e, soprattutto, della diversa efficacia per i diversi disturbi. Diverse problematiche metodologiche hanno ostacolato la capacità dei ricercatori di trarre conclusioni autorevoli dalle loro meta-analisi e inficiano la possibilità per i professionisti della salute mentale di trarre indicazioni cliniche utili da tali risultati.

Tuttavia, dietro le discussioni sui metodi e i risultati, a favore o contro il verdetto del Dodo, si nasconde una questione cruciale che riguarda due modi di concepire la psicoterapia e che si rende manifesta se si considera la domanda cui cercano una risposta i sostenitori del verdetto e quella che si pongono i critici. I primi cercano di rispondere, possibilmente in modo positivo, alla questione se tutte le psicoterapie, purché bona fide, siano ugualmente efficaci. I secondi cercano di capire quali psicoterapie siano efficaci per determinati disturbi e per determinati pazienti e quali lo siano di più. Le due domande rivelano una profonda differenza tra due concezioni della psicoterapia che sembra di poter dire, in accordo con Wampold (2001), opposti.

Uno, quello dei sostenitori del Dodo, affronta la questione della efficacia a partire dallo psicoterapeuta e da quei fattori comuni a tutti gli psicoterapeuti che li rendono efficaci, ma mostra poco interesse per gli specifici processi psicologici che generano e mantengono i diversi disturbi clinici. L’altro, invece, parte proprio dai disturbi, ponendosi problemi del tipo “cosa fa soffrire questa persona? Che cosa sarebbe opportuno cambiare affinché non soffra più?” Cui segue la domanda “quale tipo di intervento è utile a questo fine?”

Per usare una terminologia cara a Semerari (2000), i sostenitori del Dodo si pongono primariamente un problema di teoria della cura. Gli oppositori, invece, subordinano la teoria della cura alla teoria della sofferenza psicopatologica. A noi sembra ragionevole che prima si risponda, possibilmente in modo scientifico, alla domanda “perché un paziente soffre?”, e poi alla domanda “cosa può essere terapeutico?”.

 


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Francesco Mancini
Francesco Mancini

Medico chirurgo, Specialista in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapeuta Cognitivista

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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