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Cinque buoni propositi psicologici per il 2023. Come iniziare il nuovo anno

Ecco cinque buoni propositi che puoi mettere in pratica da subito per migliorare il tuo benessere psico-fisico: fare attività fisica regolarmente, imparare un nuovo hobby, dormire tanto e bene, smettere di procrastinare, adottare un mindset positivo. 

 

Nuovo anno, nuovo inizio

 Iniziare un nuovo anno può essere emozionante, ma anche stressante. C’è l’aspettativa di cambiamento e di fare meglio rispetto all’anno precedente, ma anche l’ansia di poter fallire o di affrontare le sfide che ci si presentano. È normale sentirsi un po’ ansiosi o preoccupati all’inizio di un nuovo anno, ma ricorda che l’effetto “fresh start” (Dai et al., 2014) può essere una risorsa importante. Si tratta del fenomeno mentale per cui i buoni propositi vengono rimandati fino ad un momento simbolico, che può rafforzare il proposito stesso. Ad esempio “smetterò di fumare il primo gennaio” oppure “comincio la dieta da lunedì”.

Avere la possibilità di ricominciare da capo può darti la spinta per prendere in mano la tua vita e lavorare sui cambiamenti che vorresti fare. Non importa dove ti trovi o cosa hai fatto in passato, ogni giorno è una nuova opportunità per migliorare e crescere. Quindi, non avere paura di affrontare le sfide e di sfruttare al massimo le opportunità che il nuovo anno ti offre.

Cinque buoni propositi per il 2023

Ecco cinque buoni propositi che puoi mettere in pratica da subito per migliorare il tuo benessere psico-fisico.

  • Fare attività fisica regolarmente: fare esercizio fisico non solo ti aiuta a mantenere una buona forma fisica, ma può anche migliorare la tua salute mentale e il tuo benessere generale. Inoltre è un potente alleato per ridurre lo stress e offre nuove occasioni di socialità. Ricorda la celeberrima locuzione latina “mens sana in corpore sano”.
  • Imparare un nuovo hobby, o dedicati a quelli che hai già: le passioni al di fuori del lavoro permettono di distrarre la mente con attività piacevoli che sono rilassanti e stimolanti allo stesso modo. Un’ottima risorsa per il tuo benessere mentale.
  • Dormire tanto, dormi bene: dedica la giusta attenzione alla tua routine del sonno. Avere un riposo di qualità ti permette di avere le giuste energie per la giornata.
  • Smettere di procrastinare: prendi quella decisione che rimandi da tanto tempo. Ricorda che se l’obiettivo o la decisione ti sembrano eccessivamente grandi per essere affrontati, puoi scomporli in obiettivi più piccoli ed affrontarli uno alla volta. Rimandare le decisioni può causare stress e incertezza e può impedirti di fare progressi.
  • Adottare un mindset positivo: smetti di sprecare risorse mentali per le cose sbagliate. Impara ad accettare ciò che non puoi cambiare e dedica le tue energie a ciò che è davvero sotto la tua influenza. L’atteggiamento positivo è una scelta che puoi fare ogni giorno e può avere un impatto enorme sulla tua vita. Non significa negare i problemi o le sfide che affronti, ma significa affrontarli con ottimismo e determinazione. Spesso un mindset positivo è più strategico e permette di arrivare a soluzioni più efficaci più in fretta.

Come cambiare in modo strategico

Il tema del cambiamento e di quale sia il modo migliore di cambiare non è un argomento da sottovalutare.

 Il cambiamento richiede tempo e non dobbiamo aspettarci di vedere risultati immediati. È importante procedere a piccoli passi e non sovraccaricarci di impegni o aspettative eccessive. Anziché cercare di fare troppi cambiamenti in una volta sola, è meglio cominciare lentamente e costruire i nostri progressi nel tempo. Sovraccaricarci di cambiamenti eccessivi può portare a un senso di sopraffazione e può impedirci di raggiungere i nostri obiettivi a lungo termine. Pertanto, è importante essere pazienti e ricordare che il cambiamento richiede tempo e dedizione. Ricorda di prenderti cura di te stesso e di non sottovalutare il valore del piccolo passo.

 

I sommi sacerdoti. Autismo e Psicosi infantili (2022) di Carmine Saccu – Recensione

Il volume “I sommi sacerdoti. Autismo e Psicosi infantili” presentato di recente al Convegno organizzato per festeggiare i 30 anni di attività della Scuola di formazione di cui Saccu è direttore, rappresenta la seconda parte della narrazione scritta, in cui l’autore racconta la propria vita, mescolando fantasia, episodi biografici, documentazione dell’attività clinica, dando ampio spazio al suo pensiero e al suo modello. 

 

 La prima parte di questo racconto si intitolava: “Deutero, le metafore e Dio”, dove Deutero (in onore al concetto di deutero-apprendimento introdotto da Bateson) è il nome letterario che Carmine Saccu attribuisce a se stesso. La prima annotazione è che si è modificato lo stile di scrittura. Mentre nel precedente testo vi era quasi un linguaggio parlato, in cui appunto l’autore racconta in modo molto libero, in un fluire di parole che quasi evocava le libere associazioni, questa volta l’argomento è maggiormente delimitato, lo stile di scrittura è più controllato, il riferimento ai casi clinici è preciso e dettagliato e, di conseguenza, la lettura risulta molto agevole e avvincente. Nelle pagine finali, l’autore lascia intendere che vi possa essere anche un terzo capitolo dei suoi racconti ma, come sa chi lo conosce bene, lui è imprevedibile.

Il libro contiene la descrizione del modello di lavoro con bambini autistici e psicosi infantile attraverso un’ottica sistemico-relazionale-simbolico-esperienziale, elaborato e attuato da Carmine Saccu a partire dagli anni 1970-80, prima presso l’Istituto di Neuropsichiatria Infantile dell’Università Sapienza diretto da Bollea e poi presso la Scuola Romana di Psicoterapia Familiare dove da decenni svolge attività didattica e clinica.

Saccu invita ad ascoltare le sue parole come se si trattasse della descrizione di un sogno. Questo allo scopo di evitare che nell’interlocutore parta subito una posizione di critica, di sospetto, di non appartenenza che sempre il “nuovo” provoca, per la sua capacità di destabilizzare lo status quo, in questo caso le teorie scientifiche più accreditate.

Certo è davvero molto originale la visuale di Saccu, che i suoi allievi conoscono bene, secondo cui certi bambini, affetti da un disturbo relazionale, portatori di handicap o meno, possano essere considerati “sommi sacerdoti”, rispondenti al principio della “relazionalità assoluta”.

 I sommi sacerdoti sono maestri che posseggono la dote di “stare nella relazione, negando la relazione”. Per Saccu sono abilissimi nel non distrarsi mai, possedendo il controllo assoluto nella negazione di ogni significato e di ogni dialogo, in una dimensione temporale eterna in quanto ferma. Visti in questi termini, i sommi sacerdoti non sono più degli “incapaci”, ma rivelano al contrario un’abilità notevolissima nel rimanere fermi nella loro attitudine di diniego della relazione. Così, laddove apparentemente vi è solo mancanza di relazionalità, con emozioni indifferenziate, eventi privi di senso e assenza di dialogo, Saccu scorge, ad un livello logico più alto, una competenza inaspettata con il massimo coinvolgimento relazionale e persino una funzione altruistica, in quanto la modalità di arrestare il tempo è al servizio del sistema familiare. Compito del terapeuta diventa allora, con un gesto di imprevedibilità, creatività e apparente afinalità, fare qualcosa di tanto inconsueto da avere il potere di distrarre il sommo sacerdote dal suo compito, in modo che egli inizi a entrare nella relazione con l’altro. Emblematico il primo caso, quello di Sandro, con cui apparentemente era impossibile interagire, me che invece iniziò a rispondere a tono allorquando Saccu lo prese per i piedi e iniziò a rivolgersi ad essi. Tutte le storie cliniche sono molto belle e descrivono come, almeno nel qui e ora del setting terapeutico, effettivamente Deutero riesca a riattivare risorse comunicative impensabili. Il segreto è nella creatività del terapeuta, capace di inventarsi qualcosa che, spesso sotto forma di gioco che coinvolge tutti i familiari, attraverso la curiosità, induca il bambino a distrarsi e interrompere le sue modalità ripetitive. Inoltre, il terapeuta indaga sui fattori, talvolta plurigenerazionali, che possono essere connessi alla necessità di arrestare il tempo.

Il libro contiene nove casi clinici, alcuni recenti, altri svolti molti anni fa, arricchiti dall’accompagnamento di numerose foto del setting familiare e che beneficiano della sbobinatura dei nastri videoregistrati delle sedute realizzate dagli allievi della scuola. Alcuni dei casi presentati sono frutto di supervisione o di coterapie realizzate da Deutero. Tra i suoi riferimenti cita Carl Whitaker, con la sua attitudine terapeutica di decentralizzare il paziente psicotico, Jay Haley, visto all’azione come supervisore a Philadelphia, che pure descriveva l’arte di essere nella relazione senza esserci, Morin, che ha concettualizzato il modello della complessità. Ma per Deutero i suoi veri maestri sono stati proprio i sommi sacerdoti e le tantissime persone che ha incontrato in anni di lavoro, ciascuno portatore di un messaggio, che sta all’interlocutore saper cogliere. Così, mi piace concludere ricordando che per Saccu tra i compiti della missione dei sommi sacerdoti vi sia anche quello di far crescere gli psicoterapeuti “rendendo ridicole l’arroganza, la superbia e l’idea di essere infallibili o addirittura onnipotenti” (Saccu, 2022, pag. 5).

Chi fosse interessato all’acquisto del libro può rivolgersi direttamente alla Scuola Romana (www.srpf.it)

La personalità del terapeuta: una variabile di trattamento spesso trascurata

La revisione sistematica di Fletcher e Delgadillo (2022) ha lo scopo di mettere in luce l’influenza dei tratti di personalità del terapeuta sul processo di psicoterapia e sui relativi esiti.

 

Personalità e psicoterapia

Per molto tempo, la letteratura sull’argomento si è occupata di provare solo l’associazione fra il profilo di personalità del paziente e l’andamento della psicoterapia, senza considerare il ruolo delle caratteristiche personali del terapeuta.

Con il termine personalità s’intende “l’organizzazione dinamica dei sistemi psicofisici dell’individuo, che ne determinano il comportamento e il pensiero” (Allport, 1961, p.28). Essa differisce fra gli individui in base ai tratti, ossia modi stabili di pensare, sentire e agire che possono sinteticamente essere riassunti in un modello a cinque fattori, il Five Factor Model (FFM; McCrae e Costa, 1987). Quest’ultimo sarebbe in grado di descrivere in modo sufficientemente completo e dimensionale la struttura di personalità individuale in base a 5 macro-tratti:

  • Apertura all’esperienza, ovvero la disponibilità ad accogliere nuove idee ed esperienze;
  • Coscienziosità, ovvero la tendenza ad essere organizzati, responsabili, perseveranti;
  • Estroversione, ovvero la tendenza a ricercare interazione con gli altri e con l’ambiente;
  • Gradevolezza, ovvero l’inclinazione ad essere amichevoli e cooperativi;
  • Nevroticismo, ovvero la propensione ad essere instabili emotivamente;

Data l’innegabile influenza della personalità su una serie di risultati educativi, professionali e di vita, non è così difficile ipotizzare che i suoi tratti possano essere rilevanti anche nella pratica psicoterapeutica, dove al centro c’è un processo di tipo interpersonale e relazionale (Fletcher e Delgadillo, 2022). Gli studi basati sul Five Factor Model, tuttavia, fino ad ora si sono prevalentemente concentrati sul dimostrare le associazioni fra i tratti di personalità del paziente e variabili terapeutiche come l’alleanza (Hirsh et al., 2012), la partecipazione e l’aderenza al trattamento (Beauchamp et al., 2011; Bagby et al., 2016) e i suoi esiti (Ogrodniczuk et al., 2003). Molto meno si sa sulla potenziale rilevanza del profilo di personalità del terapeuta, se non a partire da qualche ricerca sporadica e dai risultati inconcludenti (Fletcher e Delgadillo, 2022).

Per colmare questa lacuna, Fletcher e Delgadillo (2022) hanno condotto una revisione sistematica degli studi che, fino a questo momento, hanno indagato le associazioni fra i cinque grandi tratti di personalità nei terapeuti con i processi e gli esiti della psicoterapia, avanzando per la prima volta una ricerca focalizzata sulla sintesi delle conclusioni finora tratte sull’argomento.

Personalità del terapeuta: le variabili dello studio

Precisamente, i tratti considerati per la personalità dei terapeuti erano quelli del Five Factor Model, mentre i domini di processo e di esito trattamentale contemplati si riferivano a:

  • Orientamento terapeutico, nello specifico il modello cognitivo-comportamentale, psicodinamico e umanistico-esistenziale;
  • Competenze interpersonali, fra cui empatia, genuinità, rispetto, funzione espressiva;
  • Competenze terapeutiche, fra cui competenze relazionali di base, stile relazionale affermativo, senso di agentività;
  • Aderenza al modello, in termini di fedeltà alle procedure;
  • Esiti del trattamento, in termini di riduzione del disagio, della sintomatologia e miglioramento del funzionamento psicologico;
  • Alleanza terapeutica, intesa come accettazione del paziente e non antagonismo relazionale;
  • Resilienza, stress e soddisfazione lavorativa del terapeuta, in riferimento al senso di auto-efficacia professionale e di esaurimento delle energie.

Incrociate le conclusioni di una dozzina di studi, i risultati più consistenti hanno provato un’influenza significativa dei tratti di personalità del terapeuta nella scelta dell’orientamento terapeutico e nelle sue competenze interpersonali (Fletcher e Delgadillo, 2022).

Personalità del terapeuta: i risultati dello studio

Per quanto riguarda la prima variabile, è emerso che una maggiore coscienziosità del terapeuta è associata all’orientamento cognitivo-comportamentale, una maggiore apertura all’esperienza e un più alto nevroticismo sono correlati all’orientamento psicodinamico e maggiori apertura all’esperienza e gradevolezza sono associate all’orientamento umanistico-esistenziale. Del resto, rispettivamente, il primo approccio privilegia obiettivi, compiti e procedure (Reinecke e Freeman, 2003), in accordo con una tendenza personologica coscienziosa; il secondo si basa su concetti astratti, che necessitano di una disposizione alla fantasia e alla curiosità intellettuale (Arthur, 2001); il terzo si concentra sulla comprensione dell’unicità dell’individuo, per cui è indispensabile una certa tendenza all’altruismo e all’empatia (Tremblay et al., 1986).

Per quanto riguarda la seconda variabile, sono emerse prove che testimoniano come competenze interpersonali terapeuticamente vantaggiose (come empatia, rispetto e funzione espressiva) siano associate a maggiori livelli di gradevolezza, estroversione e apertura del terapeuta. D’altronde, questi tratti sono correlati a comportamenti di calore, gentilezza e socialità in presenza di altri (McCrae e Costa, 1987), indispensabili a coinvolgere l’interlocutore nelle conversazioni e a considerarne i bisogni (Simpson et al., 1993). Questa associazione risulta importante se si ricorda la premessa sociale e relazionale in cui viene erogato l’intervento terapeutico (Schottke et al., 2017).

Se significativi sono i risultati in merito alle associazioni fra personalità del terapeuta, scelta nell’orientamento terapeutico e competenze interpersonali, meno consistenti sono le prove in merito all’influenza delle caratteristiche personali del terapeuta su altri aspetti del processo terapeutico e degli esiti trattamentali (Fletcher e Delgadillo, 2022). Infatti, l’aderenza al modello terapeutico e alle sue procedure sembra correlare negativamente con il tratto di apertura all’esperienza, anche se questa associazione non è stata riscontrata in maniera ricorsiva tra gli studi esaminati. Inoltre, non è stato possibile trarre conclusioni definitive riguardo alla relazione fra i tratti personologici del terapeuta e le competenze terapeutiche, gli esiti del trattamento, l’alleanza terapeutica e la resilienza e soddisfazione lavorativa del terapeuta.

Conclusioni

Di fatto, è possibile concludere che la relazione fra personalità, processi e risultati di cura è molto complessa e che, in futuro, essa richiederà disegni di ricerca che possano approfondire le interazioni fra questi domini. In particolare, ricerche future sulle associazioni e somiglianze fra i tratti di personalità del terapeuta e del paziente, oggi ancora limitate, potrebbero essere particolarmente utili e informative (Fletcher e Delgadillo, 2022).

Misoginia e supremazia maschile: gli incel e i forum online – Psicologia Digitale

Nate per rinforzare il senso di appartenenza e mitigare la solitudine, le comunità online di incel, o celibi involontari, possono rafforzare l’ideologia misogina. 

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 35) Misoginia e supremazia maschile: gli incel e i forum online

 

Comunità online e forum radunano e avvicinano utenti sulla base di interessi comuni e affinità, sono luoghi digitali in cui ci si sente rappresentati e liberi di esprimere pensieri e vissuti con altri utenti percepiti come simili. Se da un lato proprio per questo motivo possono favorire un effetto echo-chamber, ribadendo, amplificando e rafforzando idee simili, dall’altro favoriscono il senso di appartenenza, di discussione e di condivisione.

Sono ambienti digitali vissuti come sicuri, liberi, aperti. È comprensibile quindi che molto spesso siano utilizzati da membri di sottoculture che si sentono poco considerate. Grazie a questi luoghi, è possibile dare voce a esperienze comuni, non sentirsi soli, emarginati, diversi, esclusi dalla società.

Che cosa vuol dire incel: chi sono i celibi involontari

Si definisce ‘incel’ (dall’unione delle parole ‘involuntary celibate’) una persona che si ritiene celibe indipendentemente dalla propria volontà: per un incel le cause del celibato sono del tutto esterne a se stesso.

La mancanza di relazioni romantiche e sessuali deriva infatti da una società ingiusta che ‘premia’ chi possiede dei requisiti che lui non ha: un certo aspetto fisico, denaro, status sociale.

Lo studio di Liggett O’Malley e Helm (2022) ha indagato esperienze e motivazioni riportate in oltre 8.000 post dei due più importanti forum online di incel. Da questa analisi qualitativa emerge chiaramente come gli incel si vedano impacciati, timidi, goffi, ansiosi, evitanti, carenti di tratti fisici indissolubilmente legati alla loro visione di virilità, come capigliatura folta, mascella prominente, alta statura; ma non solo, anche essere di razza bianca è un requisito fondamentale per l’accesso ad esperienze affettive e sessuali.

Tra gli incel c’è chi si definisce “mentalcel”, ovvero chi attribuisce il suo stato di celibe a una presunta “neurodiversità”, raramente accompagnata dalla diagnosi di un professionista.

Per molti utenti l’adolescenza è la fase di svolta, il periodo chiave in cui non hanno avuto modo di fare le prime esperienze, in cui hanno saltato delle tappe del percorso evolutivo, tappe che ritengono non più recuperabili.

Oltre alla mancanza di adeguate competenze sociali, altro ostacolo è il reddito. Anche qui c’è un profondo vissuto di ingiustizia sociale, dato che la società non premierebbe chi ha le caratteristiche di un incel. Ricchezza e benessere economico sono cose da cui sono tagliati fuori per il fatto stesso di essere incel, quindi poco attraenti e competenti socialmente.

Questi sentimenti di isolamento, frustrazione, rabbia, vittimismo, disagio psicologico e pessimismo si accompagnano però a un forte senso di appartenenza al gruppo, in cui si prende atto della realtà e della verità (“siamo fatti così, è la società che è ingiusta”) e in cui si rafforza la propria autostima come persona che sa come stanno le cose, che per questo non si fa ingannare dalla società. Prende vita così l’identità comune fondata su ideologie condivise, dove essere incel è un atto di resistenza all’oppressione di un mondo ingiusto.

Gli incel online: l’uso dei forum

L’analisi delle conversazioni online ha evidenziato come nei forum degli incel siano frequenti le conversazioni su esperienze negative avute con le donne, episodi subiti di bullismo, problemi mentali (Liggett O’Malley e Helm, 2022). Come confermato anche da altri studi (ad esempio Moskalenko et al., 2022), la maggioranza degli incel riporta storie di bullismo, ostilità e problemi di salute mentale.

Gli utenti utilizzano i forum per sentirsi accettati, capiti, trovare persone che la pensano allo stesso modo e condividere il profondo senso di angoscia e inutilità che vivono nel quotidiano.

I forum per incel sono da un lato uno spazio di supporto e confronto, dall’altro rischiano di incoraggiare estremismi e violenza contro altri o contro se stessi.

I diversi fattori di rischio evidenziati assieme alla natura stessa dei forum online (che può rafforzare le ideologie polarizzate) rendono evidente l’importanza di approfondire e comprendere le dinamiche di queste comunità. I forum incel permettono agli utenti di diffondere idee e contenuti, reali o artefatti, che rafforzano convinzioni misogine e disfunzionali sulla società (O’Malley et al., 2022).

Prevenire la violenza

Anche se – è importante scriverlo -, come sottolineato anche da alcune ricerche (Liggett O’Malley e Helm, 2022) definirsi incel non implica necessariamente sostenere azioni violente, la cronaca recente ha riportato casi di vere e proprie aggressioni da parte di sottogruppi incel: nel 2021 un ragazzo ha ammesso di aver progettato un piano per sparare a delle studentesse in un’università dell’Ohio; nel 2018 a Toronto un incel uccise 11 persone e ne ferì 15, motivando l’attacco come una “ritorsione” nei confronti delle donne; ancora, nella strage del 2014 un ragazzo uccise 6 persone, ne ferì14, per poi togliersi la vita, il tutto dopo aver pubblicato un video su YouTube in cui spiegava le sue motivazioni: punire le donne perché si sentiva rifiutato, punire gli uomini che sono in grado di avere relazioni, il disprezzo per le coppie (Baele et al, 2019; Tolentino, 2018).

Come prevedibile, gli incel riportano livelli significativi di depressione, ansia e solitudine e livelli bassi di soddisfazione della vita. Quello degli incel è un gruppo a rischio che richiede interventi di prevenzione e sensibilizzazione (Costello et al., 2022). Bisogna contrastare le narrazioni misogine e violente, sostituendole con l’educazione all’uguaglianza di genere e al consumo critico dei media per contrastare la diffusione di contenuti pericolosi, radicali e fuorvianti. Non solo però alfabetizzazione digitale ma anche emotiva: fornire gli strumenti per esprimere in maniera più funzionale emozioni negative e al contempo trovare nuovi modi per essere validati (O’Malley et al., 2022).

 

Bullismo scolastico e cyberbullismo durante la pandemia Covid-19

La pandemia da COVID-19, a causa delle chiusure nazionali e le ripetute lunghe chiusure delle scuole, ha costretto la maggior parte degli studenti a frequentare l’istruzione online, con diverse ipotesi riguardo ai possibili effetti sul bullismo e sul cyberbullismo.

 

Bullismo scolastico e cyberbullismo

Il bullismo scolastico è molto diffuso, infatti, un bambino su tre è stato vittima di bullismo nel corso del suo percorso scolastico indipendentemente dal paese e dal reddito di appartenenza (Armitage, 2021; Bacher-Hicks et al., 2022). Inoltre, comporta anche notevoli costi sociali: sia le vittime che gli aggressori del fenomeno del bullismo hanno una probabilità più elevata di sviluppare problemi di salute mentale come depressione, ansia e pensieri e comportamenti suicidari rispetto ai loro coetanei non coinvolti. Queste difficoltà tendono poi a persistere, anche in seguito alla cessazione dell’abuso, nell’età adulta (Bacher-Hicks et al., 2022).

Oltre alle forme tradizionali, tra cui il bullismo fisico, verbale e psicologico, il cyberbullismo è un fenomeno relativamente nuovo che avviene attraverso l’utilizzo della tecnologia digitale (Armitage, 2021). In ogni caso però, si sviluppa sulle stesse basi motivazionali del bullismo tradizionale: il bisogno di acquisire uno status di gruppo e il bisogno di appartenenza (Repo et al., 2022). Quest’ultima forma di bullismo sembrerebbe avere un’associazione ancora più forte con l’ideazione suicidaria (Bacher-Hicks et al., 2022).

Impatto del Covid-19 sul bullismo: aspettative

La pandemia da COVID-19, a causa delle chiusure nazionali e le ripetute lunghe chiusure delle scuole, ha costretto la maggior parte degli studenti a frequentare l’istruzione online (Armitage, 2021; Bacher-Hicks et al., 2022). Questo ha portato a un aumento sostanziale dell’attività online di milioni di bambini e adolescenti a livello globale (Armitage, 2021).

Ma questi cambiamenti scolastici e questa maggiore attività online durante la pandemia, possono aver influenzato le relazioni/interazioni sociali degli studenti e, in particolare, le loro esperienze di bullismo?

Di fatto si è verificata un’improvvisa diminuzione delle interazioni personali e un’impennata nell’uso della tecnologia digitale. Con questo cambiamento sono arrivate le preoccupazioni dell’opinione pubblica su una possibile maggiore esposizione al cyberbullismo a causa dell’incrementato uso delle tecnologie (Sparks, 2020). In effetti, le ricerche precedenti al COVID-19 indicavano che una maggiore frequenza di utilizzo di Internet era associata a un aumento delle segnalazioni di cyberbullismo e cyber-vittimizzazione, ovvero l’essere vittima di minacce, molestie o stalking tramite tecnologia e social media, da parte dei giovani (Kowalski et al., 2019). Da ciò ci si può aspettare che, mentre il bullismo di persona potrebbe diminuire, il cyberbullismo potrebbe, invece, aumentare (Bacher-Hicks et al., 2022) e le vittime prese di mira potrebbero essere del tutto nuove (Armitage, 2021). Inoltre, si è anche ipotizzato che, a causa dell’aumento delle tensioni psicologiche dovute dalla pandemia da Covid-19, i livelli di stress siano aumentati e con questi anche i comportamenti antisociali come il cyberbullismo (Barlett et al., 2021).

Impatto del Covid-19 sul bullismo: realtà

La pandemia di COVID-19 ha cambiato radicalmente il contesto delle dinamiche del bullismo contrastando, tuttavia, le aspettative: il bullismo di persona e il cyberbullismo sono diminuiti del 30-40% circa durante la pandemia (Bacher-Hicks et al., 2022). In particolare, i tassi di coinvolgimento nel bullismo erano molto più alti prima della pandemia che durante la stessa in tutte le forme di bullismo (fisico, verbale e sociale), tranne che per il cyberbullismo, dove i tassi erano solo leggermente più alti prima della pandemia che durante la pandemia. Quindi, nonostante l’utilizzo di internet sia aumentato notevolmente, ciò non si è tradotto in un incremento dei tassi di coinvolgimento nel cyberbullismo, ma anzi in una diminuzione (Vaillancourt et al., 2021). Infatti, il cyberbullismo non è semplicemente una conseguenza della nuova tecnologia, in quanto tra coetanei di scuola è tipicamente aggravato e alimentato dal fatto di essere presenti di persona e per questo dovrebbe essere visto come un fenomeno che coinvolge sia episodi online che offline (Repo et al., 2022).

Tra le possibili spiegazioni di questo inaspettato esito c’è un generale cambiamento del contesto scuola. In particolare, può aver contribuito sia la diminuzione del frequentare la scuola di persona, che la ridotta quantità di tempo non strutturato e non sorvegliato a causa delle misure di sicurezza adottate per evitare la diffusione del contagio del virus (Bacher-Hicks et al., 2022). Inoltre, la pandemia può anche aver portato a un aumento della consapevolezza e della capacità di risposta del personale scolastico al benessere socio-emotivo degli studenti, come prestare maggiormente attenzione e affrontare forme di bullismo evidenziate dai media durante la pandemia (Bacher-Hicks et al., 2022). Questo ha portato di conseguenza a un maggior gradimento della scuola e un maggior sostegno da parte degli insegnanti per gli studenti vittime di bullismo prima del lockdown, consentendo una visione più positiva della scuola (Repo et al., 2022).

Conclusioni

Nel complesso, la chiusura della scuola sembra essere l’intervento universale anti-bullismo più efficace mai documentato (Repo et al., 2022).

Un importante motore del bullismo scolastico di persona e del cyberbullismo sembra essere l’interazione di persona nel contesto scolastico (Bacher-Hicks et al., 2022). Quindi, il bullismo in generale sembra essere un problema sociale dinamico che si evolve nella comunità scolastica, motivo per cui vi è sempre più la necessità di comprendere la scuola come una comunità che può limitare o rafforzare il bullismo (Repo et al., 2022). Le scuole, dunque, dovrebbero trarne insegnamenti costruttivi per evitare che il bullismo torni ai livelli elevati pre-pandemici (Bacher-Hicks et al., 2022).

Passoscuro. I miei anni tra i bambini del padiglione 8 (2022) – Recensione

Come racconta nel volume “Passoscuro. I miei anni tra i bambini del padiglione 8”, Ammaniti sceglierà di tornare nel padiglione 8 dell’ospedale romano Santa Maria della Pietà e cercherà di mettere in discussione un intero sistema dotato di una “propria entropia istituzionale”. 

 

Avevo poco più di trent’anni quando discesi volontariamente in quell’abisso. Loro erano bambini e adolescenti con gravi disabilità, e io ero intenzionato ad aiutarli a risalire alla luce del sole, gradino dopo gradino. 

Queste le battute di avvio del nuovo libro di Massimo Ammaniti, medico neuropsichiatra infantile, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo all’Università La Sapienza di Roma.

“Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8” (Ammaniti, 2022) è un romanzo autobiografico, autentico e commovente, in cui l’autore riporta alla memoria, con uno stile semplice e pulito, il suo viaggio professionale all’interno delle strutture e delle istituzioni psichiatriche. Muovendosi tra fatti, ricordi e riflessioni, Ammaniti ripercorre non solo i momenti salienti del suo intenso lavoro, ma anche quelli che hanno segnato un’epoca, tra gli anni Sessanta e Settanta, densa di movimenti politici, rotture e resistenze.

Al centro della narrazione si snodano i ricordi del suo lavoro nel reparto psichiatrico “per minori irrecuperabili” dell’ospedale romano Santa Maria della Pietà, una finestra sugli orrori e sul degrado che i bambini e gli adolescenti lì rinchiusi erano costretti a vivere.

La trama

L’autore ricorda il suo primo incarico al Padiglione 8: come giovane medico appena laureato giudicò l’inferno che gli si palesò di fronte come insostenibile e, pertanto, rassegnò le sue dimissioni dopo un solo giorno. I pazienti, bambini e giovani adolescenti con disabilità di vario tipo, erano chiusi in stanzoni chiamati “sorveglianze”. Qui, coperti solo di un camice, uguale per tutti, erano abbandonati a urla, pianti, crisi di rabbia. Chi dondolava, chi picchiava i pugni, chi era stato legato a un termosifone perché aveva mostrato comportamenti aggressivi. Quelli considerati più pericolosi o senza speranza, si trovavano invece al piano superiore, allettati, con mani e piedi legati.

Sarà solo nel 1974, sei anni dopo, che Ammaniti sceglierà di tornare in quello stesso padiglione, per saldare il “debito con sé stesso” e con quei bambini. Con una specializzazione in neuropsichiatria infantile e un bagaglio di esperienze e conoscenze rinnovato, anche grazie alla guida dei suoi maestri, Giovanni Bollea e Bruno Callieri, il medico cercherà di mettere in discussione un intero sistema dotato di una “propria entropia istituzionale”.

L’obiettivo di Ammaniti: restituire dignità ai pazienti

Di ritorno al Padiglione 8, preso atto che nulla era cambiato dalla sua prima visita, Ammaniti si scontrò subito con le resistenze dell’istituzione a ogni proposta di cambiamento. Spaventate dalla possibilità di veder aumentare il carico di lavoro e ormai assuefatte dalla ripetitività dei loro compiti di sorveglianza, le infermiere, capitanate dalle suore, si mostravano respingenti rispetto a ogni suggerimento di modifica.

Fu con costanza e perseveranza che il giovane Ammaniti iniziò a introdurre piccoli, semplici e nuovi gesti. Liberò i bambini dei loro camici, vestendoli con abiti di uso quotidiano. Con l’aiuto delle infermiere più collaborative istituì il momento dell’appello, in modo che i bambini potessero re-imparare a rispondere al proprio nome, restituendo loro un’identità che non li rendesse riconoscibili solo a sé stessi, ma anche alle persone che si interfacciavano con loro. Con l’aiuto di nuovi volontari, ricchi di uno sguardo fresco e desiderosi di cambiamento, introdusse delle piccole attività che facessero scoprire ai bambini la dimensione del gioco: la maggior parte di loro non aveva mai visto una palla. Le “sorveglianze” cambiarono nome e aspetto, trasformandosi in “soggiorni”.

E fu sempre in questa direzione, con l’obiettivo di liberare i piccoli pazienti dalle maglie oppressive del manicomio, che mai si era aperto al mondo esterno, che Ammanti non si diede per vinto finché non ottenne di poterli portare, per una giornata, a Passoscuro. Nella località balneare laziale, i bambini videro per la prima volta qualcosa di diverso rispetto alle pareti verdognole dei loro stanzoni. Lasciarono, seppur temporaneamente, la loro reclusione, per perdersi in uno spazio aperto il cui unico limite era l’orizzonte nei propri occhi. Quel giorno a Passoscuro, straordinario e a tratti folle, segnò un primo grande passo verso un cambiamento di paradigma.

Il nuovo paradigma si proponeva di rimettere al centro della cura il fattore umano. Ammaniti non poteva accettare la reclusione di bambini bollati come “pericolosi”, abbandonati dalle proprie famiglie, dalla società e dalle istituzioni che utilizzavano la loro complessità come alibi, lavandosene le mani. Considerava, invece, che la relazione e l’educazione dei suoi pazienti non fosse solo una prerogativa etica, ma di cura, al pari della riabilitazione neurologica e della terapia farmacologica. Non poteva fare a meno di pensare che l’apparente irrecuperabilità di quei bambini e ragazzi potesse essere ascritta non solo alla loro disabilità, ma anche alla deprivazione affettiva, sensoriale ed educativa a cui erano stati sottoposti fin dai primi anni di vita.

Propose dunque un approccio olistico, che togliesse i bambini dalle condizioni di squallore e degrado a cui erano ormai abituati, e che invece ne stimolasse la curiosità, le capacità, le spinte relazionali. Le piccole azioni che intraprese durante i suoi anni di lavoro al Padiglione 8 rivoluzionarono la neuropsichiatria infantile e la percezione generale della disabilità e dei disturbi neuropsichiatrici.

Un’epoca di cambiamenti

Tutto il testo si inserisce all’interno di un quadro storico e politico più ampio: in Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta era in corso una vera e propria trasformazione della coscienza sociale. Erano gli anni di Franco Basaglia e Adriano Ossicini, dei movimenti di critica contro i servizi pubblici e di istituzione manicomiale, contro gli autoritarismi repressivi e l’inevitabile discriminazione di classe. Le persone povere finivano nei manicomi, senza sapere se ne avrebbero mai visto la porta d’uscita; chi poteva permetterselo, invece, si serviva di cliniche private che ne preservavano “il potere contrattuale”, l’umanità e l’identità.

Assessori, direttori, capi di partito: tutti sembravano restii ad accettare cambi di rotta che mettessero in dubbio tutto il lavoro fatto sino a quel momento. Le proposte erano bollate come figlie di contestatori e sovversivi, desiderosi solo di mettere in dubbio il sistema e gettarlo nel caos.

Fu all’interno di questo contesto che il giovane Ammaniti prese consapevolezza della sua esigenza di impegnarsi dal punto di vista sociale, civile e politico. Prima, con l’iscrizione al partito comunista, poi, con la sua collaborazione con Franco Basaglia e Psichiatria Democratica. Lo scopo? Promuovere una riforma radicale nell’assistenza ai disabili e ai pazienti psichiatrici, che permeasse il tessuto sociale, portando i pazienti fuori dalle istituzioni e garantendo loro dei diritti: all’educazione, alla salute, al perseguimento della felicità. Era tempo di rimettere la persona al centro della discussione e di abbandonare i modelli di reclusione e sorveglianza, già prerogativa delle carceri.

 

Variazioni ponderali negli anziani e rischio di demenza: cosa dice la letteratura

Uno studio condotto da alcuni ricercatori della Corea del sud evidenzia come i cambiamenti di indice di massa corporea (BMI) in età avanzata, rappresentano un fattore di rischio per la comparsa di demenza.

 

Fattori di rischio per la demenza

La commissione di The Lancet, la prestigiosa rivista scientifica inglese, che riunisce i più grandi esperti mondiali di salute, ha evidenziato l’esistenza di diversi fattori di rischio sui quali intervenire per ridurre, nella popolazione mondiale, l’insorgenza di demenza, la cui forma più frequente è l’Alzheimer (Livingston et al., 2020). Tra i vari fattori è presente l’obesità e, come indicato nel Report of The Lancet Commission Dementia prevention, intervention, and care: 2020, il rischio di demenza aumenta se all’obesità si associa il diabete. Per la stesura del rapporto del 2020 la commissione di The Lancet ha utilizzato alcuni dati già presenti nella versione del 2017.

Nel 2019 è comparso su BMJ Open, uno studio condotto da alcuni ricercatori della Corea del sud, che evidenzia come i cambiamenti di indice di massa corporea (BMI), parametro che mette in relazione il peso e la statura, quando avvengono in età avanzata, rappresentano un fattore di rischio per la comparsa di demenza. Inoltre, i ricercatori segnalano che più è rapido il cambiamento del BMI più è elevato il rischio di demenza.

Per condurre questo studio osservazionale gli studiosi coreani hanno analizzato i dati riguardanti 67.219 anziani con un’età tra 60 ed i 79 anni. (Science Daily, 2019).

Demenza e obesità

Secondo una ricerca inglese del 2020 l’obesità è un fattore di rischio per le malattie neurodegenerative, tra cui la demenza. Lo studio è stato pubblicato sull’International Journal of Epidemiology dai ricercatori dell’University College di Londra. Il team ha tenuto sotto osservazione per 15 anni l’invecchiamento di 6.500 soggetti monitorando vari parametri tra cui l’indice di massa corporea (Ma Y., Ajnakinam O., Steptoe A., Cadar D 2020) .

È del 2022 la pubblicazione, sul giornale dell’associazione Alzheimer, di una ricerca della Boston University School of Medicine (Li J., Ch Liu C., Fang T. et al. 2022), che utilizza i dati del Framingham Heart Study, un’indagine epidemiologica di coorte che prende il nome dalla città del Massachusetts dove lo studio è stato condotto, a partire dal 1948, per raccogliere il maggior numero possibile di dati relativi ai fattori di rischio di malattie vascolari e cardiovascolari. Dal 1975 sono stati sistematizzati gli elementi relativi a 5205 partecipanti allo studio ultrasessantenni per determinare l’incidenza della demenza in relazione a vari fattori. I ricercatori della Boston University hanno rilevato come i soggetti che presentano un elevato BMI nella prima metà della vita ed un calo dello stesso nella seconda metà, siano a rischio di sviluppare demenza. Nello studio è stato inoltre evidenziato come, negli individui che durante la mezza età presentano un iniziale aumento del BMI seguito da un calo, esiste una solida associazione tra indice di massa corporea e demenza.

 

L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male

Nel 1971 lo psicologo statunitense Philip Zimbardo ideò e realizzò un interessante esperimento meglio conosciuto come “Esperimento carcerario di Stanford”, che portò all’emergere dell’Effetto Lucifero.

 

C’è qualcosa, nel cosiddetto Male assoluto, che non è affatto mostruoso e non-umano, ma proprio umano, troppo umano: qualcosa che ci riguarda tutti, almeno come terribile possibilità non ancora espressa (Roberto Escobar, Prefazione all’edizione italiana del libro L’effetto Lucifero di P. Zimabrdo, 2008).

Introduzione

 L’etica e l’esperienza morale sono aspetti della vita umana che coinvolgono quotidianamente ognuno di noi, nessuno escluso. Il fenomeno morale non è di facile comprensione, ma si può dire che esso prenda forma nel tentativo di colmare un divario tra due aspetti presenti nella nostra quotidianità: da un lato troviamo i nostri desideri, bisogni e impulsi, elementi che semplicemente fanno parte di noi; dall’altro, in quanto esseri sociali, viviamo calati in una realtà che presuppone il rispetto di norme, precetti e regole alle quali siamo inevitabilmente soggetti. Quindi da un lato vi è il modo in cui siamo fatti, dall’altro il contesto socioculturale che definisce i limiti del nostro agire.

Se si parte dal presupposto che l’etica sia una scienza dell’essere, è istintivo pensare che l’indole buona o cattiva di una persona si rifletta di conseguenza anche nelle sue azioni. In realtà, però, l’etica non è solo una questione di indole o predisposizione al Bene piuttosto che al Male, ma potrebbe implicare anche un certo grado di consapevolezza e libertà nel saper scegliere come agire. Il confine tra Bene e Male che siamo abituati a considerare come netto e invalicabile diventa allora molto più permeabile, perché tutti noi, in mancanza di uno di questi due elementi, potremmo ritrovarci a compiere azioni radicalmente discordanti rispetto ai nostri valori abituali.

Philip Zimbardo e l’Esperimento carcerario di Stanford

Nel 1971 lo psicologo statunitense Philip Zimbardo ideò e realizzò un interessante esperimento meglio conosciuto come “Esperimento carcerario di Stanford” con il quale si proponeva di osservare durante l’arco di due settimane il comportamento di 24 studenti maschi inseriti all’interno di un carcere riprodotto nel seminterrato del dipartimento di psicologia dell’Università di Stanford. Vennero selezionati 24 ragazzi ritenuti psicologicamente e fisicamente sani, e vennero poi casualmente attribuiti a uno di due gruppi: guardie e detenuti. Erano questi i due ruoli che i partecipanti avrebbero dovuto fingere di ricoprire durante l’esperimento, per un compenso di 15 dollari al giorno.

Senza esporre regole specifiche né particolari criteri di comportamento, a coloro che avrebbero ricoperto il ruolo di guardie venne semplicemente detto che avrebbero dovuto fare quel che ritenevano necessario per mantenere l’ordine tra i secondi, cioè i detenuti. L’unica cosa di cui vennero avvertiti fu che avrebbero dovuto evitare abusi e punizioni fisiche di ogni tipo.

La mattina del 15 agosto 1971, con la collaborazione realistica dei poliziotti di Palo Alto, i detenuti vennero raggiunti senza preavviso nelle loro abitazioni, arrestati e sottoposti a vari rituali di degradazione: vennero fotografati, schedati, denudati e disinfettati. Vennero poi rivestiti con sandali, uniformi alle quali era stato applicato un numero di identificazione sul petto e sulla schiena, e una calza di nylon da indossare in testa. Venne poi arrotolata attorno alle loro caviglie una pesante catena. Alle guardie, invece, vennero date uniformi color cachi, manganelli, fischietti da poliziotti e occhiali da sole a specchio che occultavano il loro sguardo. Tutti insieme si riunirono per discutere e redigere un corpo di regole cui i detenuti si sarebbero dovuti attenere durante le due settimane successive.

Ma successe l’imprevedibile. La finzione si rivelò presto più reale della realtà, al punto tale che lo psicologo statunitense, vittima del suo stesso marchingegno, si trovò costretto a interrompere l’esperimento prima del previsto.

Nonostante l’obiettivo iniziale fosse quello di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti, l’effetto più sconcertante delle dinamiche di gruppo si ebbe sulla trasformazione subita dalle guardie, che da semplici giovani equilibrati si trasformarono in aguzzini spietati. I ragazzi nel giro di poco tempo si calarono nei due rispettivi ruoli di guardie e prigionieri al punto tale da subire un processo di deindividuazione, trasformandosi così in guardiani violenti o in vittime psicologicamente passive.

Lo stesso Zimbardo, pur senza avere avuto un ruolo diretto nelle vessazioni di quei ragazzi innocenti, non fece nulla per porre immediatamente fine agli abusi e appoggiò un sistema arbitrario di norme, regolamenti e procedure che li legittimava e facilitava.

Come poté accadere tutto ciò? É come se i protagonisti di questo interessante studio scientifico avessero perso la loro bussola morale sospendendo la loro capacità inibitoria verso comportamenti scorretti. L’esteriore (la situazione e i ruoli) dominava completamente sull’interiore (l’essere), quasi come se essi non fossero consapevoli di poter scegliere con libertà di agire diversamente.

Siamo abituati e amiamo pensare netto e stabile il confine tra i due lati del nostro comportamento morale: il bene è il bene, mentre il male è il male. Dove inizia uno finisce l’altro. Ma non è così: la linea della dicotomia bene-male è molto più labile e permeabile di quanto crediamo.

 Durante l’esperimento, dei ragazzi del tutto normali, sentendo di appartenere a un’istituzione legittimante (la scienza e l’università che proponevano l’esperimento), si sono sentiti servitori di una buona causa. Ogni azione fatta per essa era dunque il Bene, e se il Bene richiedeva loro di incrudelire per garantire il rispetto delle regole, dovevano e potevano farlo, a prescindere dalle conseguenze e dall’eventuale dolore altrui.

Nel cercare di comprendere le cause del comportamento siamo spesso soggetti a un bias mentale meglio conosciuto come errore fondamentale di attribuzione, il quale ci porta a sopravvalutare l’importanza delle qualità disposizionali e interne di una persona e a sottovalutare la forza delle qualità situazionali. Resistere alle tentazioni situazionali conservando sempre parvenze di moralità e decoro può però rivelarsi molto più complicato del previsto.

A noi piace credere nella bontà essenziale e immutabile delle persone, nella capacità di resistere alle pressioni esterne grazie a una valutazione razionale che porta a rifiutare le tentazioni situazionali. Semplifichiamo la complessità dell’esperienza umana tracciando una stagna frontiera tra il Bene e il Male e costruendo il mito della nostra invulnerabilità alle forze situazionali. Siamo così sicuri della nostra piena umanità che siamo certi che mai potrebbe capitarci di compiere la follia del Male, la quale ci sembra quasi sovrannaturale. Paradossalmente, così facendo, prepariamo in realtà il terreno della nostra rovina, poiché non stiamo abbastanza in guardia contro il potere della situazione.

I ruoli di solito sono legati a situazioni, occupazioni o funzioni specifiche. Vengono recitati quando ci si trova in una determinata situazione e poi si è in grado di abbandonarli quando si torna alla vita “normale”. Con questa convinzione si riesce ad abdicare alle responsabilità delle proprie azioni, addossando la colpa a quel ruolo estraneo alla propria natura abituale. Ma non è sempre così: alcuni ruoli possono essere tremendamente insidiosi e possono essere così fortemente interiorizzati da condurre ad azioni al limite del prevedibile, anche se inizialmente se ne riconosceva la natura temporanea e artificiale legata alla situazione. Si potrebbe dire che obblighi dissonanti costringono le persone a razionalizzare e onorare decisioni sbagliate.

Ecco allora che l’esperimento carcerario di Stanford rivela un messaggio che forse non vogliamo accettare: ognuno di noi, quando si trova nel travolgente crogiuolo delle forze sociali, potrebbe subire trasformazioni caratteriali e comportamentali significative e radicalmente discordanti dai propri sistemi valoriali abituali.

Questo è l’Effetto Lucifero. Questo è il potere della situazione, terreno fertile per la deindividuazione e le peggiori forme di disumanizzazione perpetrate nella storia dell’umanità.

Conclusione

È importante chiarire che qualsiasi comportamento estremo manifestato dalle guardie e dai detenuti durante l’esperimento era sintomo del potere della situazione e non di una loro patologia personale, tant’è che vennero scelti proprio in quanto individui normali e sani. Si potrebbe dire che essi non avevano portato nel carcere nessun tipo di difetto personale ma, al contrario, era stato proprio il carcere a tirare fuori i più imprevedibili eccessi comportamentali.

Alla fine dell’esperimento entrambi i gruppi di partecipanti tornarono ai loro originari livelli di risposta emotiva “normale”. Questo ritorno alla normalità e riaggiustamento d’animo non significa che i ragazzi non siano rimasti turbati dai loro comportamenti e dalla loro incapacità di mettere fine agli abusi (anzi!), ma sembra essere un’ottima conferma della natura situazionale e temporanea delle loro reazioni.

L’esperimento è stato ritenuto poco etico e morale ed è stato parecchio dibattuto e contestato. Tuttavia, esso si è rivelato un fervido appello ad abbandonare il concetto semplicistico che separa nettamente il Bene e il Male, e che presume l’indubbia capacità del “buono” di dominare e distaccarsi sempre dal “cattivo”. Sostenere che esista un’impermeabile dicotomia Bene-Male assolve le persone buone dalle responsabilità liberandole dal dover prendere anche solo in considerazione un loro possibile ruolo nel creare, perpetuare o difendere le condizioni che contribuiscono e legittimano la violenza e gli abusi.

In realtà, solo prendendo consapevolezza della nostra vulnerabilità e riconoscendo la potenziale capacità che le forze situazionali hanno di contagiarci possiamo essere maggiormente in grado di sfidarle, evitarle e impedirle. La consapevolezza è infatti l’unica preziosa bussola in grado di guidarci verso la nostra essenza morale, l’unica in grado di plasmare le nostre azioni attorno al nostro essere interiore preservandone l’integrità più profonda.

Riportando le parole di Zygmunt Bauman: “Essere morali non significa essere buoni. Significa sapere che cose e azioni possono essere buone o cattive. Si potrebbe dire che ciò dipende dalla particella “no” presente in tutte le lingue. Dopotutto, e forse prima di tutto, la moralità riguarda la scelta. Saper dire no, saper disobbedire, conservare “eroicamente” questa capacità, l’unica che ci consenta di decidere e scegliere: questo ci serve per sfuggire all’Effetto Lucifero”.

 

Anche i supereroi vanno in terapia (2022) di Marcelo Rodriguez Ceberio – Recensione

Servendosi di una fantasia che prende spunto dalla letteratura fumettistica “Anche i supereroi vanno in terapia” offre al lettore qualcosa di più di una sbirciata voyeuristica oltre la maschera, dove la fragilità umana non fa eccezioni neanche per un supereroe.

 

 Maschere e costumi, superpoteri e grandi capacità strategiche, sempre impegnati nella lotta contro il male. È così che li conserviamo gelosamente nei nostri ricordi, sono gli eroi della nostra infanzia, e perché no anche della nostra vita adulta.

Per molti di noi sono stati presenze determinanti alle quali abbiamo affidato un processo di immaginazione fondamentale, identificandoci in una figura positiva che ha avuto un grande peso nello sviluppo della nostra identità.

Tra fumetti, film e cartoni, sono stati abitanti del nostro immaginario occupando un posto privilegiato con un compito importante: aiutarci a vivere scenari in cui era possibile sperimentare l’esperienza del senso di sicurezza e di giustizia. In queste dimensioni della nostra fantasia, il male e la paura di esso venivano ridimensionati e sottomessi a un equilibrio che si orientava alla vittoria dei buoni. Chi non ha avuto bisogno almeno una volta nella vita di visitare con la fantasia un simile scenario? I loro ideali divenivano i nostri, perché tutto sommato i loro racconti contenevano il potere di dare speranza a un’immaginario più roseo e incoraggiante.

Da sempre i nostri supereroi sono stati vissuti come garanti di un senso di giustizia e pronti a mettere i loro poteri e straordinari talenti al servizio di una causa e un bene comune.

Entrati nell’immaginario collettivo con le loro maschere e costumi sono divenuti icone di sicurezza e salvezza, ma da sempre la loro narrazione ha seguito un doppio filo nel racconto delle loro storie, dove ciò che avveniva dietro la maschera non era meno importante della lotta contro il male.

Di questi racconti abbiamo presto imparato che una simile esistenza, infatti, può avere un caro prezzo. Mentre la maschera combatte il male, l’alter ego che c’è dietro si corrompe, fa i conti con le fragilità umane, assorbe la sofferenza e alla fine si frammenta divenendo incapace di affrontare la sua essenza umana.

Perché spesso è questo che sono i nostri eroi, due grandi frammenti di esistenza divisi da un costume, che vivono la fatica di tenere insieme i pezzi.

Proprio cogliendo questa fondamentale caratteristica del supereroe, Marcelo Ceberio ci racconta la sua visione, su di esso e sulle sue fragilità, attraverso un copione che si muove con più libertà rispetto alle storie ufficiali, ma comunque fedele ai personaggi e alla loro storia personale.

Servendosi di una fantasia che prende spunto dalla letteratura fumettistica l’autore offre al lettore qualcosa di più di una sbirciata voyeuristica oltre a maschera, dove la fragilità umana non fa eccezioni neanche per un supereroe.

Ogni eroe occupa un capitolo del libro e la sua storia viene raccontata seguendo una struttura dettagliata e coinvolgente, dove sia l’appassionato che il neofita vengono introdotti al personaggio, iniziando dalla sua storia ufficiale e le sue origini, senza trascurare i primi tratti di matita che gli hanno dato vita. Risaltano storie difficili, spesso unite da caratteristiche comuni, come quella in cui molti eroi spesso provengono da storie familiari difficili e traumatiche, ed è da lì che ha origine tutto. Ogni personaggio nasce da un dolore, da una tragedia, da una risposta a qualcosa che nella vita di noi uomini purtroppo accade.

 Chi conosce il mondo dei supereroi sa molto bene che la loro storia segue uno schema narrativo molto preciso, dove ognuno di essi è legato in modo indissolubile al suo alter ego. Le sue straordinarie capacità vengono controbilanciate dal caro prezzo di una vita umana trascorsa restando nella goffaggine, nell’incapacità di essere interessante agli occhi del mondo, anche le relazioni ne risentono particolarmente. Dalla traumatica genesi dell’eroe è come se da quel momento tutta l’energia venisse sacrificata per dare vita all’eroe, mentre l’uomo dietro la maschera resta nell’ombra, rinunciando alla sua maturazione personale, alla propria auto-affermazione nella vita. Forse è proprio qui che si apre una visione interessante sull’eroe, sulla frattura di due esistenze che non possono avanzare separatamente, ma che sono in continuo disequilibrio, l’una parassita inevitabile dell’altra.

Così seguiamo un’ipotesi di evoluzione della storia che con fantasia l’autore propone, evidenziando le fragilità e le problematiche psicologiche dietro il costume e i poteri.

Avete mai fantasticato su come Superman avrebbe vissuto la sua vita coniugale con Loys? Insomma come potrebbe funzionare una relazione con un uomo invulnerabile e inscalfibile, ma con il senso di responsabilità onnipotente e la sindrome del sopravvissuto? Forse la Kryptonite non è l’unica cosa da temere quando il tormento, nascosto da una pelle impenetrabile, inizia a sollevarsi.

Un Batman che non riesce a vincere il declino umano e al vacillare della salute precipita dinanzi all’impossibilità di continuare a combattere il male nel vano tentativo di elaborare il suo un trauma infantile. Come se indossare la maschera e combattere per la giustizia fosse stata una strategia nata dal bisogno di modulare quel senso di colpa del sopravvissuto che da sempre l’ha accompagnato dopo la morte dei genitori, e ora quel tormento torna a temperature difficili da tenere sotto controllo.

Ma cosa avrà portato in terapia James Bond, Zorro o Braccio di ferro?

Capitolo per capitolo il lettore verrà proiettato nella parte oscura e sofferente di questi supereroi.

Avvertenza: la lettura di quest’opera potrebbe nuocere al vostro bisogno di idealizzazione!

In quest’opera, ogni personaggio dovrà fare i conti con qualcosa di più reale e imperfetto, con una vita dal sapore più reale. Si potrebbe dire che, se scegliete di leggere questo libro, piuttosto che a una perdita, bisogna prepararsi a imboccare la strada di un processo di maturazione importante, dove i nostri eroi diverranno reali, palpabili e meno irraggiungibili, inseriti in una dimensione umana, fatta di quei problemi che è bene sempre affrontare. Forse proprio questa è una possibile lezione, che ogni super potere non può essere abusato e la nostra natura umana merita attenzione e compassione.

Proprio questo è uno dei punti vitali del libro. Per Ceberio gli eroi sono anche o soprattutto le persone comuni, quelle che tutti i giorni fanno qualcosa per rendere il mondo un posto migliore come ad esempio tutti gli operatori sanitari che si sono impegnati per curare i malati di COVID. Sappiamo che abbiamo bisogno di persone così nella nostra società ed è sempre bene ricordare che quella nobiltà che esiste dietro un simile altruismo merita assolutamente una grande attenzione a chi c’è dietro la “maschera”, affinché l’eroe resti in equilibrio con la sua essenza umana.

Questo punto l’ho trovato di grande ispirazione e non ho potuto fare a meno di riflettere su quanto questo principio possa essere applicabile all’esistenza degli psicoterapeuti, a quella contrapposizione indissolubile tra il professionista e l’essere umano che vive la sua vita insieme ai propri affetti. Partendo da qui credo sia impossibile pensare una distanza marcata tra le due dimensioni che possa rendere valide e sane le due realtà. Ovvero la forte convinzione che sia impossibile che il benessere di una possa esistere senza il benessere dell’altra.

 

Associazione tra Cannabis e Depressione

Un numero crescente di studi ha messo in luce una significativa co-occorrenza tra consumo continuativo di cannabis e depressione. 

 

In particolare l’associazione tra consumo di cannabis e depressione è risultata essere più alta nella popolazione maschile in età adolescenziale e durante la prima età adulta, mentre nella popolazione femminile tale associazione risulta più alta durante la mezza età (Aspis et al., 2015).

Quale rapporto tra cannabis e depressione?

Diversi studi condotti su tale relazione suggeriscono come l’uso prolungato di cannabis potrebbe portare all’insorgenza di una più grave sintomatologia depressiva; tuttavia, esistono anche numerose evidenze in ambito scientifico che mostrano un’associazione di tipo inverso: soffrire di depressione potrebbe portare l’individuo ad iniziare ad assumere cannabis o ad aumentarne il consumo (Walsh et al., 2017).

Un ulteriore filone di ricerche si è concentrato sulla presenza di una potenziale correlazione genetica che contribuirebbe alla comorbilità tra dipendenza da cannabis e depressione maggiore: in particolare è stato ipotizzato che la serotonina (5-HT) fungerebbe da mediatore in questa associazione, ipotesi supportata dal fatto che esistono varie prove della presenza di alleli di rischio specifici per la dipendenza da cannabis (Danielsson et al., 2016).

La cannabis ha effetto sui sintomi depressivi?

Ma l’utilizzo della cannabis avrebbe davvero degli effetti positivi sui sintomi depressivi? Sono stati svolti diversi studi a riguardo, alcuni in particolare si sono concentrati sull’osservazione e il monitoraggio a lungo termine dell’evoluzione della depressione e del consumo di cannabis, non trovando di fatto alcun effetto positivo derivante dal consumo della sostanza (Otten et al., 2013).

Eppure studi recenti hanno mostrato l’esistenza di prove precliniche riguardo all’alterazione del sistema endocannabinoide, che potrebbe potenzialmente giovare ai pazienti affetti da depressione.

Tuttavia, se si considera la letteratura attuale, lo studio dell’uso della cannabis come antidepressivo, risulta essere in una fase iniziale di approfondimento. (Amato et al., 2017).

Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), attivati dall’uso della cannabis, sono risultati essere efficaci nel ridurre i sintomi depressivi o i tassi di uso di sostanze negli adolescenti; l’effetto di questi inibitori non è validato scientificamente se si considera il trattamento simultaneo di depressione e uso di sostanze (M. Borget et al., 2013).

In conclusione, nonostante le limitazioni metodologiche, la ricerca degli ultimi decenni ha ampliato le nostre conoscenze sull’associazione tra uso di cannabis e depressione da prospettive epidemiologiche, neurologiche, genetiche e farmacologiche, sebbene ulteriori studi e approfondimenti restino auspicabili.

 

La memoria emotiva: cos’è e come si sviluppa?

La memoria emotiva è una memoria relativa alle emozioni vissute in rapporto a determinate esperienze affettive, come quelle che caratterizzano le prime relazioni che il bambino ha con l’ambiente in cui nasce e in particolar modo con la figura di accudimento primaria. 

 

Come funziona la memoria

La memoria a lungo termine si divide in:

– Memoria dichiarativa, che comprende:

  • la memoria semantica (per fatti e conoscenze)
  • la memoria episodica (autobiografica);

– Memoria implicita (non dichiarativa), che comprende:

  • priming: abilità di identificare un oggetto a livello visivo o uditivo come il risultato di una precedente esposizione anche se al di sotto del livello di coscienza;
  • memoria procedurale: comprende abitudini e abilità cognitive motorie e percettive, è una memoria in origine (in fase di apprendimento) conscia che finisce per diventare automatica; la formazione della memoria procedurale a partire dalla fase di apprendimento conscia è priva di affetto come lo è la memoria a lungo termine non conscia che ne risulta.

 La memoria emotiva è strettamente connessa alle emozioni, processi adattivi e multicomponenziali attivati da eventi stimolo rilevanti per l’individuo. Tali risposte emotive possono essere selezionate perché possediamo degli schemi che abbiamo costruito durante l’esperienza e che fungono da norma o modello per fronteggiare le nuove situazioni. Il sistema delle emozioni utilizza schemi che si formano attraverso meccanismi di apprendimento inconsci (impliciti) di condizionamento. In particolare, l’apprendimento emotivo si riferisce alle forme più semplici di comportamento e alle fasi più precoci dello sviluppo emozionale.

La memoria emotiva è un apprendimento implicito condizionato delle risposte emozionali ad una situazione. La memoria emotiva può essere codificata e mantenuta fin dalla nascita, al contrario della memoria dichiarativa, che non diventa stabile prima dei 3 o i 4 anni di età (l’ippocampo, che non è maturo prima dei due anni, svolge un ruolo fondamentale nella formazione e nel consolidamento della memoria dichiarativa).

L’amigdala, che è già sviluppata fin dalla nascita, svolge un ruolo fondamentale nella formazione e nel consolidamento della memoria emotiva. L’amigdala è una massa cellulare di materia grigia a forma di mandorla localizzata nel lobo temporale mediale dell’uomo, la cui struttura e organizzazione essenziale è simile in ratti, uomini e scimmie (riguardo al comportamento della paura è stato sostenuto che rettili e uccelli hanno strutture simili all’amigdala). L’amigdala, assieme ad altre strutture, quali la fornice, il giro cingolato e l’ippocampo, fanno parte del sistema limbico, connesso anatomicamente e funzionalmente al tronco encefalico. Il sistema limbico è considerato il sistema che presiede alle emozioni, è coinvolto nella regolazione del comportamento istintivo, delle funzioni e dei ritmi biologici vitali, ma è anche implicato particolarmente nella memoria, nell’apprendimento e nell’attenzione.

L’amigdala basolaterale è composta da un nucleo basale, un nucleo laterale, che riceve informazioni dai sistemi sensoriali del talamo e della corteccia (olfattivo, gustativo, uditivo, visivo, somatosensoriale) e da un nucleo centrale, che invia le informazioni dall’amigdala ad altre parti del cervello, in particolar modo alle strutture del tronco encefalico che controllano specifiche risposte fisiologiche. La maggior parte dei neuroni dell’amigdala basolaterale sono neuroni a proiezione eccitatoria. L’amigdala inoltre contiene masse cellulari di interneuroni che regolano la connessione tra i diversi nuclei dell’amigdala, formando circuiti di natura inibitoria.

Il ruolo dell’amigdala nella memoria emotiva

Il ruolo dell’amigdala nella formazione della memoria emotiva è stato studiato principalmente rispetto al condizionamento alla paura, una forma di apprendimento associativo semplice che implica l’acquisizione di un’informazione emozionale. Il condizionamento alla paura è stato studiato attraverso il principio del condizionamento classico: uno stimolo condizionato, come ad esempio un suono, viene presentato assieme ad uno stimolo incondizionato, come ad esempio la salivazione del cane di fronte al cibo. Dopo ripetute associazioni tra lo stimolo condizionato e lo stimolo incondizionato, il soggetto, anche quando esposto allo stimolo condizionato, mostra la stessa risposta osservata per lo stimolo incondizionato.

La maggior parte degli studi sul condizionamento alla paura sono stati condotti su ratti attraverso l’utilizzo di scosse elettriche e stimoli uditivi.

Le informazioni sensoriali che arrivano dallo stimolo condizionato e dallo stimolo incondizionato sono elaborate dal nucleo laterale dell’amigdala. Il segnale viene poi inviato dal nucleo laterale al nucleo basale, che lo invia al nucleo centrale, che a sua volta lo invia a diverse regioni del cervello responsabili di alcuni risposte fisiologiche (aumento del battito cardiaco) e comportamentali (immobilizzazione). Queste risposte fisiologiche e comportamentali costituiscono le risposte emozionali.

L’informazione sensoriale raggiunge il nucleo laterale dell’amigdala mediante due vie parallele:

  • una via diretta, consideratoail circuito responsabile delle reazioni emozionali inconsce;
  • una via indiretta, che passa attraverso la corteccia sensoriale e l’ippocampo, considerata il circuito responsabile delle reazioni emotive che coinvolgono un’elaborazione più cosciente degli stimoli.

L’amigdala è composta da una rete di connessioni neuronali inibitorie (interneuroni) che previene l’invio di potenziali d’azione in risposta a stimoli irrilevanti. Stimoli nuovi producono una risposta, ma se lo stimolo è ripetuto si nota una riduzione della risposta (assuefazione). Se lo stimolo nuovo si associa ad un evento importante per l’individuo (come uno stimolo minaccioso) il controllo inibitorio degli interneuroni si riduce determinando la formazione dell’apprendimento emozionale condizionato.

Memoria emotiva e attaccamento

È importante sottolineare l’importanza della memoria emotiva e dell’apprendimento emotivo anche in relazione all’attaccamento: gli stimoli che portano il bambino ad apprendere in modo condizionato sono derivati dalla relazione emozionale con la figura di riferimento principale e comprendono comunicazione faccia a faccia, vocalizzazioni, gesti e contatto fisico. Questi scambi emotivi e visivi precoci vengono immagazzinati all’interno della conoscenza relazionale implicita, che è integrata nel legame di attaccamento, un legame non solo psicologico, ma anche neurobiologico e radicato nel corpo.

 In termini moderni l’attaccamento può essere definito come una strategia di regolazione dello stress e in questo senso è fondamentale l’apprendimento emotivo: nelle comunicazioni emotive, la madre, mediante il suo comportamento, regola le variazioni di attivazione fisiologica e degli stati emotivi del bambino, che viene così esposto alla capacità di regolazione psicofisiologica della figura di riferimento principale. Attraverso l’apprendimento emotivo condizionato, il cervello seleziona i circuiti neuronali più funzionali a rispondere agli stress dell’ambiente esterno e in questo modo si formano sistemi di risposta alle situazioni stressanti stabili e coerenti.

La capacità individuale di regolazione psicofisiologica in risposta a situazioni stressanti è quindi correlata ai primi legami di attaccamento.

L’apprendimento emotivo ha anche una spiegazione neurobiologica: quando il bambino viene cullato dalla madre, alcuni circuiti neuronali sono attivati e rinforzati. La presenza ripetuta della madre sarebbe alla base del processo di condizionamento, che a sua volta è alla base dell’apprendimento emotivo condizionato. Dal momento che durante i primi due anni di vita il cervello, e in particolar modo i circuiti limbici dell’emisfero destro, attraversano un periodo critico dello sviluppo (imprinting) questi apprendimenti condizionati si stabilizzano.

La relazione tra memoria emotiva e sonno

Matthew Walker, partendo dalla definizione di memoria emotiva, una memoria caratterizzata dal ricordo e dal tono affettivo, ha proposto un’ipotesi relativa alla relazione tra sonno ed emozioni, cioè l’ipotesi secondo cui il sonno REM svolgerebbe una funzione importante per la memoria emotiva, in quanto consentirebbe di consolidare un ricordo emotivo e al contempo di ridurre, fino a cancellare, il tono affettivo legato al ricordo stesso.

Tendiamo a ricordare meglio le informazioni associate ad una reazione emotiva rilevante, tuttavia, con il passare del tempo, la reazione emotiva legata alle informazioni precedentemente apprese si riduce. Questa riduzione del tono affettivo è fondamentale perché se non avvenisse resteremmo in uno stato di iper attivazione (tipico ad esempio di uno stato di ansia eccessiva) che è dannoso per il nostro fisico. L’ipotesi del sonno REM sostiene che durante la notte avvengano sia i processi di consolidamento del ricordo emotivo (attraverso il rinforzo dell’attività dell’ippocampo) sia la riduzione del tono affettivo legato al ricordo stesso (attraverso l’inibizione dell’attività dell’amigdala) e che essi siano modulati dalle caratteristiche neurobiologiche del sonno REM.

Durante il sonno REM sono attive alcune aree limbiche e in particolar modo l’amigdala e l’ippocampo: questa attivazione potrebbe essere associata al recupero di informazioni emotive precedentemente apprese. In seguito, l’interazione tra circuiti corticali e sottocorticali durante il sonno REM potrebbe essere associata all’integrazione del nuovo materiale emotivo con informazioni emotive precedentemente apprese, e permettere quel che chiamiamo “il vedere le cose entro una prospettiva più ampia”: durante il sonno REM le esperienze negative vengono rielaborate, riattivando esperienze già vissute, quindi l’emotività associata ad un ricordo si riduce, perché si associa ad esperienze già vissute in passato.

Autismo al lavoro (2022) di Attwood e Garnett – Recensione

Il testo “Autismo al lavoro” esplicita senza mezzi termini: a fronte delle innegabili limitazioni, l’autismo possiede una serie di punti di forza parzialmente compensativi. Doti che possono essere proficuamente impiegate ai fini di un’affermazione personale e, perché no, anche di una gratificazione nel mondo del lavoro

 

Trovare un lavoro è un’autentica impresa, nella realtà odierna. Molti giovani escono da un percorso di studi lungo e impegnativo senza la possibilità di sfruttare professionalmente le conoscenze acquisite. I requisiti imposti dal mercato del lavoro sono variegati, mutevoli, spesso difficili da raggiungere e ancor più da mantenere: ma non si tratta soltanto di ciò che viene appreso sui libri. La creazione di un’identità professionale attendibile e competitiva si fonda soprattutto sulla capacità di integrare le conoscenze informative ed esperienziali con le risorse emotive, cognitive e comportamentali, in modo da dar vita a un modello operativo che si distingua per flessibilità, capacità decisionale, negoziazione, creatività, adeguate competenze di problem solving; il tutto coniugato a uno stile relazionale collaborativo, empatico e al contempo dotato di quell’ambizioso agonismo che consente l’evoluzione, la conquista, il progresso.

Date le premesse, appare legittimo chiedersi se un soggetto affetto da autismo possa sperare di introdursi funzionalmente nel mondo del lavoro, superando lo svantaggio socio-individuale al fine di creare un ruolo professionale gratificante, in linea con le proprie possibilità, ma soprattutto socialmente riconosciuto.

La risposta del testo di Attwood e Garnett parte con un dato poco ottimistico, riferendo come circa il 73% degli autistici, stando agli ultimi sondaggi compiuti, riferiscano una seria difficoltà nel reperimento e nel mantenimento di una posizione lavorativa. Molti lo trovano addirittura impossibile.

Non è tuttavia un messaggio di resa quello che traspare dal lavoro degli autori, il cui intento è in realtà volto a dimostrare come, anche in una dimensione indubbiamente sfavorita come quella autistica, sia possibile trovare spunti e opportunità di crescita.

Autismo: non solo limitazioni

Il testo lo esplicita senza mezzi termini: a fronte delle innegabili limitazioni, l’autismo possiede una serie di punti di forza parzialmente compensativi. Doti che possono essere proficuamente impiegate ai fini di un’affermazione personale e, perché no, anche di una gratificazione nel mondo del lavoro: ad esempio una portentosa memoria associativa, le ben sviluppate competenze visuo-spaziali, la capacità di concentrarsi sul dettaglio, conferiscono all’autistico un’attenzione precisa e minuziosa. Allo stesso modo le sue doti di perseveranza e caparbietà nell’ottenimento dei risultati possono renderlo un professionista serio e affidabile. Egualmente, la scarsa attenzione al pensiero conformistico e all’approvazione sociale rendono meno probabile la tenuta di condotte manipolative –financo sleali– così tristemente frequenti nel mondo del lavoro.

Ove inserito nell’adeguato settore di competenza, la persona con autismo si mostra dunque un compagno di lavoro serio, onesto e impegnato, cui è necessario riconoscere –al di là delle categorizzazioni etichettanti– il possesso di un bagaglio esperienziale meritevole di considerazione, anche in ottemperanza a quel pensiero inclusivo che non deve trovare attuazione soltanto all’interno delle aule scolastiche, ma in ogni altro settore sociale, sulla scia di un accoglimento dell’altro che sia pieno e consapevole.

Il lavoro sfida l’autismo. L’autismo accetta la sfida

“Giocare, essere socievole, immaginare, dare un nome ai propri sentimenti, reagire in modo adeguato, comprendere il mondo e la vita: se sei autistico sei prigioniero del tuo modo di pensare” (De Clerq, 2005, p. 143).

Ma non è il caso di arrendersi. Il testo inizia esponendo alcuni consigli utili a inserirsi nel mondo del lavoro accettandone le sfide.

  • Primo punto: essere consapevoli dei propri punti di forza e delle proprie capacità si mostrerà d’aiuto nella ricerca di un’occupazione che sia in linea con le stesse e al contempo soddisfi le aspirazioni personali. Per questo è opportuno che gli studenti autistici ricevano una valutazione dettagliata delle rispettive attitudini professionali sin dagli anni della scuola secondaria.
  • Secondo punto: presentare un curriculum che riporti nel dettaglio il proprio percorso formativo ed esperienziale. È necessario mostrare con chiarezza le proprie competenze, evidenziando capacità operative e spunti motivazionali nel settore specifico.
  • Terzo punto: allenare le competenze socio relazionali per gestire con successo il colloquio. Esercitarsi nelle tecniche di gestione conversazionale servirà ad aggirare le difficoltà comunicative e meta comunicative comportate dal disturbo. Per non lasciarsi cogliere dal tanto temuto “effetto sorpresa”, sarà inoltre opportuno provare a immaginare le domande che potrebbero venir poste e pianificare le risposte più adeguate. Si rivelerà un utile strumento di autoverifica.
  • Quarto punto: dichiarare o meno la propria condizione? Gli autori ritengono che si tratti di una scelta individuale, e per questo liberamente gestibile. Nel caso in cui si opti per una soluzione di trasparenza, palesando la presenza dell’autismo sin dal primo colloquio, sarà tuttavia opportuno sfatare il mito del tutto negativo, esponendo con sicurezza skills e punti di forza, nella speranza che si tratti dei requisiti necessari al superamento della selezione.

Il programma nel dettaglio

“Autismo al lavoro”. È questo il nome di un programma finalizzato a fornire pratici strumenti di gestione del Sé socio-individuale da impiegare adattivamente nei più vari contesti professionali. Non si fa riferimento ad alcun impiego specifico: gli strumenti operativi, simpaticamente denominati “cassetta degli attrezzi”, illustrano strategie di gestione del sé spendibili in ogni settore, al fine di evitare quei vissuti di disorientamento che generano reazioni improvvise, non riflettute, spesso risolte con l’agito.

“Autismo al lavoro” è articolato in sette fasi, della durata di due ore ciascuna, da svolgere preferibilmente con il supporto di un educatore o di un life coach una volta alla settimana, in un contesto gruppale. Le aree di interesse del programma sono quelle maggiormente coinvolte nella costruzione di un’identità professionale solida e funzionale: strumenti per la gestione dello stress, strumenti per la gestione sensoriale, strumenti sociali, strumenti per la consapevolezza, strumenti per il pensiero, strumenti organizzativi.

Le prime sei fasi sono dedicate alla regolazione delle aree considerate maggiormente problematiche per un lavoratore autistico, mentre l’ultima, oltre a costituire una sintesi delle precedenti, permette la costruzione di un piano di lavoro individuale nel quale inserire gli obiettivi personali e i mezzi per raggiungerli. Il tutto da attuare in un contesto strutturato –con l’autistico è meglio non lasciare mai nulla al caso– al fine di sviluppare anche capacità di problem solving, automonitoraggio e autocontrollo.

Come ci si riesce?

Per risultare funzionale lo stile cognitivo dell’autistico necessita di regolamentazioni dettagliate, routine, direttive chiare e coerenti, utili a muoversi in una realtà percepita come iperstimolante, talvolta frastornante.

Nell’adattare l’ambiente per le persone con autismo dobbiamo tenere conto dei loro stili di pensiero e dei loro problemi sensoriali. Dobbiamo imparare a osservare il mondo attraverso lenti autistiche, cercando di vederlo come lo vedono loro (De Clerq, 2005, p. 259).

Inutile coltivare pretese irrealistiche e infruttuose. Per questo il contenuto della cassetta degli attrezzi viene somministrato attraverso l’impiego di quei canali che appaiono preservati, ove non potenziati, dalla presenza del disturbo: l’attenzione visiva e la percezione sensoriale. Le singole sessioni operative si avvalgono pertanto di esemplificazioni fornite attraverso supporti audio, registrazioni, video-modeling.

Oltre a potenziare i punti di forza, il programma si prefigge l’obiettivo di aggirare i punti critici, limitandone lo svantaggio: la raccomandazione è volta a costruire una condizione di lavoro ben organizzata, in cui le direttive vengano esposte con un linguaggio sintetico e privo di giri di parole, cercando soprattutto di non sovraccaricare l’impianto cognitivo e la concentrazione.

L’autismo impedisce un’attività di pensiero multitasking e una modalità di ragionamento a doppio binario: questo rende altamente difficoltoso formulare punti di vista alternativi al proprio, capacità di mentalizzazione e lettura emotiva, così come impedisce la possibilità di tenersi occupati su più fronti, impiegando un’attenzione divisa. È dunque preferibile affrontare un problema alla volta, scrivendo dubbi e incertezze nel quaderno delle attività previsto per ogni partecipante, per poi esporre il contenuto all’educatore e ai compagni in una finalità di confronto.

“Autismo al lavoro” si premura inoltre di valorizzare l’approccio con il Sé corporeo mediante l’applicazione di pratiche meditative e di rilassamento muscolare progressivo, descritte in un’apposita sezione di appendice. Questo non solo per l’importante funzione comunicativo-relazionale rivestita dal corpo, ma anche al fine di limitare, attraverso una maggiore consapevolezza propriocettiva, i vissuti di isolamento e le componenti alessitimiche tipiche del disturbo.

Attenzione specifica viene rivolta alla conoscenza del proprio stile cognitivo –sarebbe erroneo credere che l’autistico non ne possegga uno– e allo sviluppo della capacità di automonitoraggio, in modo da valutare in una prospettiva adattiva le competenze, le reazioni, i comportamenti. Per questo il programma prevede, all’interno di ogni fase, la possibilità di fare il punto della situazione, una sorta di consuntivo generale svolto attraverso domande autorivolte e test di autoverifica utili a mantenere il controllo degli apprendimenti.

E infine l’ultima regola, ma la più importante: mai perdersi d’animo di fronte alle difficoltà. Avere pazienza, ricominciare da capo, essere consapevoli delle proprie capacità e renderle punti di forza, malgrado gli ostacoli e gli elementi critici.

Il significato del programma

Il testo si rivolge al target autistico con coerenza e semplicità espositiva. Lo stile è netto e chiaro, così come il contenuto, che arriva dritto all’obiettivo e lascia il segno.

Soprattutto colpisce il tentativo di fornire un metodo da utilizzare nei più vari contesti, a dispetto di quella difficoltà che il disturbo autistico provoca nella capacità di generalizzazione e astrazione dei concetti.

Ma l’impressione è che non si tratti di un paradosso, né di un errore metodologico, quanto di una sfida volta a dimostrare quante potenzialità e punti di forza possano scaturire dalla somministrazione di un programma educativo consapevolmente strutturato, pur in una situazione non neurotipica come quella in oggetto.

Il lavoro di Attwood e Garrett costituisce la testimonianza di quanto sia lontano il tempo in cui l’autismo veniva considerato non trattabile, in quanto non capibile.

Oggi l’autismo può essere trattato perché è stato possibile identificarne l’origine, le connotazioni eziopatologiche, la sintomatologia; informazioni attinte dai più vari settori di competenza (clinica, psicologia, neuropsicologia, e genetica) che hanno offerto preziosi spunti per la costruzione di programmi volti all’abilitazione e al progresso individuale. Con sorprendente efficacia, è innegabile. L’ABA, il Teach, il Denver: tanti passi sono stati fatti, da quando l’autismo veniva considerato una psicosi priva di soluzione terapeutica.

Oggi l’autistico può studiare, può lavorare, può costruirsi un ruolo socio-professionale valido e gratificante; può permettersi di avere aspirazioni, propensioni, capacità e competenze, e infine può strutturarsi una vita non svantaggiata, ma semplicemente diversa dalle altre. E non dimentichiamo quanto la diversità possa risultare fonte di arricchimento, di scoperta, di creazione, in un mondo che si apre alla globalizzazione e all’integrazione reciproca!

L’importante è muoversi nei rispettivi ambiti di competenza, mostrandosi coerenti con le proprie possibilità. Senza pessimismi paralizzanti né ottimismi irrealistici, ma semplicemente armati di una buona dose di pazienza, onestà intellettuale e impegno, che rendono tutte le imprese degne di essere portate avanti.

Il programma educativo di Attwood e Garnett offre le basi di un progetto di vita, carico di quella resilienza e motivazione con cui tutti –senza eccezioni– dovremmo reagire di fronte alle sfide e alle difficoltà.

Nessuno può tirarsi indietro, dunque. Con “Autismo al lavoro”, tutti al lavoro.

 

Psicopatologia alimentare nelle ballerine di danza classica: una meta-analisi

Alcuni studi hanno evidenziato che le ballerine di danza classica, anche quando non soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare, presentano punteggi di insoddisfazione corporea e desiderio di magrezza paragonabili a quelli dei pazienti affetti da disturbi alimentari.

 

Introduzione

 I disturbi dell’alimentazione (EDs; Eating Disorders), maggiormente diffusi nelle adolescenti di sesso femminile, comprendono un gruppo eterogeneo di disturbi come l’Anoressia Nervosa (AN), la Bulimia Nervosa (BN), il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e i disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati (EDNOS) (Hudson et al., 2007). Si stima però che, nonostante sia una fascia ad alto rischio, solo un adolescente su quattro con disturbo alimentare riceva un trattamento adeguato (Fairburn & Brownell, 2002).

Non sono solo gli adolescenti ad essere una popolazione predisposta allo sviluppo di un disturbo alimentare. Infatti, è stato studiato che anche le ballerine di danza classica rientrano tra le persone a rischio (Bettle et al., 2001; Garner & Garfinkel, 1980; Szmukler et al., 1985).

I disturbi alimentari nella danza classica

Lo scopo dello studio descritto di seguito è stato quello di valutare se le ballerine di danza classica presentano punteggi di psicopatologia alimentare più elevati rispetto alla popolazione generale (Silverii et al., 2021). Tra i fattori che possono giocare un ruolo dominante nello sviluppo e nel mantenimento di comportamenti alimentari disfunzionali nelle ballerine possiamo trovare sicuramente la bassa autostima e il perfezionismo (Abraham, 1996). Inoltre, la spinta alla magrezza, la dura disciplina, gli elevati standard personali e il perfezionismo corporeo, frequenti nella danza classica, possono contribuire a comportamenti alimentari disfunzionali (Van Diest & Perez, 2012). L’insoddisfazione corporea, l’auto-oggettivazione e l’interiorizzazione dell’ideale di magrezza sembrano essere i fattori principali che aumentano ulteriormente il rischio di sviluppo dei disturbi alimentari (Slater & Tiggemann, 2011; Stice et al., 1994). In particolare, l’insoddisfazione corporea sembra essere uno dei fattori di rischio più importanti nel mantenimento di queste patologie (Stice et al., 1994). Alcuni studi hanno evidenziato che le ballerine di danza classica, anche quando non soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare, presentano punteggi di insoddisfazione corporea e desiderio di magrezza paragonabili a quelli dei pazienti affetti da disturbi alimentari (Ringham et al., 2006). Per approfondire l’argomento, gli autori dello studio hanno effettuato una ricerca sistematica sui database PubMed ed Embase, raccogliendo tutti gli studi osservazionali sugli atteggiamenti e i comportamenti alimentari che confrontano le ballerine di danza classica con i soggetti di controllo.

In generale, la meta-analisi mostra una maggiore prevalenza della psicopatologia alimentare nelle ballerine di danza classica rispetto ai controlli (Silverii et al., 2021).

Restrizione e desiderio di magrezza

In particolare, i risultati dello studio suggeriscono che le ballerine di danza classica mostrano livelli più elevati di restrizione e di desiderio di magrezza rispetto ai controlli (Silverii et al., 2021).

 I livelli più elevati di restrizione e di desiderio di magrezza tra le ballerine sono coerenti con una maggiore prevalenza di perfezionismo; infatti, il mantenimento della magrezza potrebbe svolgere un ruolo adattivo nel raggiungimento delle prestazioni nella danza classica. È stato riportato che gli sport ad alte prestazioni, in cui la forma del corpo gioca un ruolo importante (come la ginnastica, la danza, il pattinaggio, il nuoto e la corsa) (Szmukler et al., 1985), richiedono tutti un aumento dei livelli di perfezionismo, autocontrollo e controllo alimentare.

Questi dati sembrano confermare che la restrizione alimentare nelle ballerine di danza classica potrebbe essere una caratteristica peculiare ed essere considerata, almeno in alcune danzatrici, funzionale a un adattamento, piuttosto che disfunzionale (Martin & Bellisle, 1989).

In conclusione quindi, come affermato in precedenza, le ballerine di danza classica mostrano un livello più elevato di restrizione e di desiderio di magrezza rispetto ai soggetti di controllo. Questo risultato suggerisce che questi soggetti potrebbero essere un gruppo a rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari, in particolare l’anoressia nervosa. Per una migliore caratterizzazione della psicopatologia alimentare nelle ballerine sono però necessari ulteriori studi, che includano valutazioni della qualità di vita e della psicopatologia correlata, oltre a osservazioni longitudinali.

 

L’altra voce del dolore: il PTSD come antecedente della fibromialgia

La fibromialgia è stata oggetto di ogni declinazione possibile, da una malattia autoimmune a una malattia infettiva o somatica. Esisterebbe un’alta prevalenza di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) tra i pazienti con fibromialgia e, quando entrambi sono concomitanti, è stato dimostrato un aumento della gravità dei sintomi di entrambi i disturbi.

 

Introduzione

 Non esiste prova alcuna che la fibromialgia sia autoimmune o infettiva, ma la sua diffusa inclusione in queste categorie e il fatto che sia comunemente valutata e trattata dai reumatologi la rende una sindrome ideale per la discussione in un’ampia varietà di campi clinici. Anche se è stata conosciuta sotto una moltitudine di nomi per almeno un secolo, quella che ora è designata come fibromialgia o sindrome fibromialgica (FMS) non ha ricevuto la sua prima descrizione clinica dettagliata fino al 1990, momento in cui furono prese in considerazione diverse variabili sintomatologiche, tra i quali disturbi del sonno, affaticamento, rigidità mattutina, ansia, sindrome dell’intestino irritabile, mal di testa, depressione pregressa, parestesie e dolore in generale. Tuttavia, i criteri che meglio distinguevano la sindrome fibromialgica da altri disturbi reumatologici e dolorosi erano la presenza di dolore cronico diffuso e 11 dei 18 punti specifici di “tender points”, ovvero precisi punti del corpo la cui pressione provoca particolarmente dolore (Borchers & Gershwin, 2015).

Fibromialgia e PTSD

Esisterebbe un’alta prevalenza di disturbo da stress post-traumatico (PTSD) tra i pazienti con fibromialgia e, quando entrambi sono concomitanti, è stato dimostrato un aumento della gravità dei sintomi di entrambi i disturbi. I polimorfismi nei geni associati alla dopamina, così come la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) che porta alla secrezione di cortisolo legata a precedenti eventi traumatici, sono stati indicati sia nel PTSD e sia nella fibromialgia (Yavne et al., 2018). Dato il substrato biologico potenzialmente condiviso, sembra plausibile che la relazione tra fibromialgia e PTSD sia bidirezionale; il dolore può servire come stimolo traumatico per lo sviluppo del PTSD, e l’iperarousal, l’intolleranza allo stress e l’attenzione selettiva tipica del PTSD possono esacerbare il dolore. Sembra dunque che il PTSD e la fibromialgia siano due disturbi in comorbidità con meccanismi eziologici condivisi che possono svilupparsi in popolazioni vulnerabili dopo l’esposizione al trauma (Roy-Byrne et al., 2004).

Fibromialgia e disturbi somatoformi

La domanda principale è perché, dopo eventi o esperienze traumatiche, alcuni pazienti sviluppano problemi somatici, mentre altri manifestano disturbi psichiatrici. Da un punto di vista clinico ed esistenziale, si può dire che il “dolore” dei pazienti PTSD sia legato al rivivere il trauma. Vivere con il trauma e il dolore senza che ci sia una significativa diminuzione nel tempo, è parte integrante della disabilità e della sofferenza di questi pazienti. Non è inconcepibile che il dolore emotivo possa essere trasmutato o convertito in dolore fisico, soprattutto perché i sintomi fisici sono socioculturalmente più accettabili dei sintomi mentali ed emotivi. I disturbi somatici dei pazienti con fibromialgia possono essere in parte un meccanismo adattativo secondario di evitamento, modellato da fattori post-traumatici. Può anche darsi che questi disturbi somatici e la persistenza di molteplici sintomi fisici inspiegabili sia nella fibromialgia che nei pazienti con PTSD possano essere un fenomeno simile ai disturbi somatoformi. Invero, sono state riportate associazioni tra trauma/PTSD e disturbi somatoformi, e tra disturbi somatoformi e fibromialgia. A livello psicofisiologico, questa associazione è interessante: può essere possibile che i risultati implichino non una mera comorbidità, ma che la fibromialgia rappresenti un’espressione fisica dell’agitazione psicologica/fisiologica del PTSD, cioè una forma somatizzata di PTSD (Cohen et al., 2002). Il dolore cronico e il PTSD sono condizioni che si mantengono reciprocamente, ed esistono diversi percorsi attraverso i quali entrambi i disturbi possono essere coinvolti nell’escalation dei sintomi dopo il trauma (Peres et al., 2009). Secondo la letteratura, i pazienti con fibromialgia riportano livelli significativamente più alti di varie forme di trauma rispetto ai pazienti con altri tipi di dolore cronico e, in modo particolare, sono stati riscontrati alti tassi di traumi infantili e anomalie neuroendocrine. Uno studio ha mostrato che le donne con fibromialgia hanno maggiori probabilità di riferire una storia di abuso sessuale e/o fisico rispetto alle donne senza fibromialgia, e che lo stress cronico sotto forma di PTSD può mediare la relazione tra storia di abuso e fibromialgia (Ciccone et al., 2005).

Fibromialgia e ipocortisolismo

 La ricerca sui possibili fattori di mediazione nel collegare la psiche al soma si è spesso concentrata sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) (Cleare, 2004). L’asse HPA svolge un ruolo fondamentale nelle risposte adattive allo stress. L’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), ha un conseguente aumento della secrezione di cortisolo dalle ghiandole surrenali. L’associazione tra stress e aumento della secrezione di cortisolo si è consolidata negli ultimi decenni a tal punto che stress e aumento della secrezione di cortisolo sono diventati semplicemente sinonimi in letteratura e, inoltre, la presenza di ipersecrezione di cortisolo è stata utilizzata per definire gli stati di stress. In una notevole serie di studi, tuttavia, è stato descritto in modo più evidente il fenomeno dell’ipocortisolismo per i pazienti che hanno vissuto un evento traumatico e successivamente hanno sviluppato un disturbo da stress post-traumatico. Più recentemente, l’ipocortisolismo è stato riportato anche in pazienti che soffrono di disturbi corporei, come la sindrome da burnout con disturbi fisici, la sindrome da fatica cronica, la fibromialgia, il dolore pelvico cronico e l’asma. I risultati di alcune ricerche riguardanti l’ipocortisolismo nei disturbi corporei hanno portato ad affermare che l’ipocortisolismo può essere un fattore rilevante nella patogenesi di questa gamma di disturbi, in quanto una mancanza di disponibilità di cortisolo può promuovere una maggiore vulnerabilità ai disturbi corporei, come disturbi autoimmuni, infiammazioni, dolore cronico, asma e allergie (Heim et al., 2000). Ciò funge da cartina tornasole per affermare che i disturbi corporei come la fibromialgia possono rappresentare una famiglia di disturbi legati allo stress con antecedenti psicologici e caratteristiche endocrine simili.

Se l’ipocortisolismo dovesse rivelarsi un mediatore neurobiologico tra lo stress e la manifestazione dei disturbi fisici, questo modello fisiopatologico potrebbe aprire nuove strade per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dei classici disturbi psicosomatici.

Voci e parti dissociative. Un approccio pratico orientato al trauma (2022) di Dolores Mosquera – Recensione

Illustrare come lavorare con le voci e con le parti dissociative in psicoterapia è l’obiettivo del libro “Voci e parti dissociative. Un approccio pratico orientato al trauma”

 

 L’approccio, come riferisce il sottotitolo, è pratico e corredato da una serie di casi clinici in cui la Mosquera tratta pazienti traumatizzati con la presenza di parti dissociative relativamente indipendenti e articolate, segno di una traumatizzazione molto probabilmente precoce e grave.

Il testo si divide in cinque parti, l’ultima delle quali riporta cinque casi clinici in cui sono descritti in maniera dettagliata i vari interventi terapeutici.

Le altre quattro parti illustrano concetti chiave, procedure e tecniche su come aiutare il paziente a sviluppare il proprio Sé adulto; esplorare il sistema interno e comprenderne il conflitto interiore; come lavorare con le parti e le voci problematiche e tre questioni fondamentali: differenziazione tra realtà esterna e interna, co-coscienza per integrare le parti e le voci e integrazione delle stesse.

La prima parte presenta delle linee guida flessibili per l’impostazione del lavoro terapeutico e la strutturazione delle sedute cliniche che prevede diverse fasi.

Si parte con l’esplorazione delle voci e delle parti e per questo è necessario che i pazienti assumano un atteggiamento curioso verso il loro mondo interno. Poi è importante stabilire cosa stia succedendo quando le voci e le parti si presentano per collegare queste informazioni all’esplorazione della funzione e all’identificazione delle necessità. Un’altra fase va a identificare le fobie dissociative: se c’è, ad esempio, una parte che ha paura o si vergogna o prova disgusto per un’altra. E ancora, quale sia il livello di differenziazione (interno vs esterno) e l’orientamento temporale (qui e ora vs lì e allora); infine, pensare a risposte alternative e suggerire modi più utili o adattivi con cui la voce possa veramente aiutare la persona, individuare parti mancanti, raggiungere accordi e farle cooperare.

La seduta può essere suddivisa in tre momenti: il primo relativo alla valutazione degli effetti del lavoro fatto nella seduta precedente; nel secondo si lavora su questioni che emergono durante la seduta; e nell’ultimo si chiude in modo appropriato, senza che il paziente esca dalla seduta ancora attivato emotivamente.

Nella seconda parte del volume si evidenzia come il modello dell’approccio progressivo (González, Mosquera, 2015) proponga di lavorare con i pazienti dissociativi attraverso il Sé adulto per mostrare al paziente come parlare e comunicare con tutte le diverse voci e parti. L’obiettivo è di imparare a soddisfare i propri bisogni. Imparare ad ascoltare le voci o le parti del Sé e capirne la funzione e il significato che si celano dietro i comportamenti dirompenti diventa un aspetto cruciale del trattamento.

La terza parte del libro descrive come affrontare le parti e le voci.

È essenziale la considerazione del sistema come un tutto, il rispetto di ogni parte e dei suoi tempi, lo sviluppo di una sana curiosità, l’esplorazione delle funzioni adattive e delle risorse del sistema, e la promozione di empatia, cooperazione e capacità di negoziazione per ridurre il conflitto interno tra le parti e le voci.

Le voci che invece sono diffidenti, ostili, aggressive, suicide, sospettose o che imitano il perpetratore, diffidenti e impaurite poiché sono molto più complicate e impegnative; hanno bisogno di un trattamento più continuo e sistematico per far sì che riescano a vedere con i loro occhi che il pericolo è finito, hanno bisogno di capire che si possono differenziare e che ci sono modi più funzionali di proteggere il sistema.

La quarta parte del volume illustra il lavoro sulla differenziazione, la costruzione della co-coscienza la condivisione di esperienze o compiti tra gli stati dell’Io e/o le parti dissociative e l’integrazione.

Proprio l’integrazione delle parti è l’obiettivo e insieme il processo della terapia. L’autrice riprende la definizione di Janet:

L’integrazione consiste in una serie continua di processi mentali e fisiologici come la sintesi, che implica l’associazione di esperienza e realizzazione, ovvero il processo per mezzo del quale si sviluppa la comprensione cosciente e si estrae il significato dalle esperienze personali. La realizzazione, inoltre, implica la personificazione (“Quella bambina sono io!”) e la presentificazione (“Sono nel presente e il passato è passato, sono adulta e ora posso scegliere”) (Janet, 1928).

Nell’ultima parte sono presentati casi clinici con l’illustrazione della formulazione del caso e l’organizzazione del lavoro terapeutico.

“Voci e parti dissociative” è un libro prezioso per quanti lavorano con disturbi dissociativi perché entra nel dettaglio delle procedure e delle tecniche da seguire, esemplificando il lavoro affinché il lettore possa appropriarsi e fare tesoro dell’esperienza di chi da anni opera con questi pazienti.

 

Non abbiamo un pianeta B: un aiuto dal plantoide

Il plantoide, oltre a imporre un approccio trasversale, offre una ricchezza di spunti all’interno della comunità scientifica; aggrega e sensibilizza le preferenze della collettività a favore della sostenibilità ambientale, auspicabilmente anche in una prospettiva di altruismo intergenerazionale.

 

È davanti alla sorprendente modulazione formale della passiflora che la ragione umana indietreggia […]: ‘lI fiore stesso è espressione perfetta dell’assoluta coincidenza di vita e tecnica, materia e immaginazione, mente ed estensione’ (Porceddu Cilione, 2019, p. 143).

Introduzione

 Questo articolo descrive uno dei tasselli che concorrono all’evoluzione di un’intelligenza artificiale (IA) “buona”, cioè con finalità etiche. Senza alcuna pretesa di esaustività e sistematizzazione dell’argomento, lo studio vuole rappresentare una sorta di crocevia multidisciplinare dove si innestano tecnologia –segnatamente, robotica e intelligenza–, filosofia, biologia molecolare, neurobiologia vegetale, ambiente, arte, economia, psicologia, neuroeconomia, che amplia la metodologia alla base dell’esame microfondato delle scelte individuali –in tale prospettiva, essa è collocata nello spazio “where psychology and economics meet”– (Chorvat et al., 2004, p. 16).

Al centro di tale articolato crocevia, nello studio viene collocato il plantoide. Nel suo “piccolo” –una pianta– e nel suo “grande” –la portata dell’invenzione–, il plantoide può essere contestualizzato appieno nell’ambito degli SDGs (Sustainable Development Goals) dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, sottoscritta dai Paesi ONU. Fra i 17 Obiettivi (da conseguire entro il 2030), collegati al plantoide se ne ravvedono quantomeno tre: sicurezza alimentare e agricoltura sostenibile (Obiettivo 2); lotta contro il cambiamento climatico (Obiettivo 13); uso sostenibile dell’ecosistema terrestre (Obiettivo 15). Su tale scorta, c’è da osservare che fra le tante applicazioni energivore dell’intelligenza artificiale, il plantoide non figura tra queste.

Proprio la sua sofisticata architettura (un passaggio dall’intelligenza vegetale a quella artificiale; Mancuso e Viola, 2015; Mancuso, 2017; Mazzolai, 2019, 2021) e le sue poliedriche finalità, il plantoide, oltre a imporre un approccio trasversale, offre una ricchezza di spunti all’interno della comunità scientifica; aggrega e sensibilizza le preferenze della collettività a favore della sostenibilità ambientale, auspicabilmente anche in una prospettiva di altruismo intergenerazionale.

Pur riconoscendo la rilevanza della distinzione fra intelligenza e razionalità, nel lavoro ci si limiterà a registrare che, riguardo alle piante, alcuni autori insistono sul concetto di razionalità (ad esempio Castiello, 2020), altri su quello d’intelligenza (Mancuso e Viola, 2015; Mancuso, 2017; Mazzolai, 2019). Entrambi si declinano in una molteplicità di dimensioni, ad alcune delle quali si farà un breve cenno volto a migliorare la contestualizzazione in ambito vegetale di tali concetti. In particolare, si mutuerà il significato d’intelligenza secondo l’approccio di Mancuso e Viola (2015), cioè (1) nella loro capacità di problem-solving anche in presenza di un gran numero di variabili da considerare (dove cercare e allocare i nutrienti, quali organi generare e quali riconoscere obsoleti per disfarsene nel tempo, quando riprodursi, il numero di discendenti da creare, ecc; Cfr. Brenner et al., 2006); (2) nella loro “intelligenza di sciame” (Mancuso e Viola, 2015; Mazzolai, 2019), desunta dai comportamenti emergenti degli insetti sociali, dalla quale è nata una recente branca della robotica tra i cui fini c’è quello di studiare i meccanismi d’intelligenza distribuita nell’intero organismo (in antitesi all’approccio tradizionale di intelligenza unificata e centralizzata).

Vale anche la pena rifarsi a una suggestiva prospettiva: il cervello altro non è che una “metafora”, adottata da taluni studiosi della percezione delle piante, a significare la loro capacità sistemica –quali organismi senzienti– di fornire segnalazioni (Brenner et al., 2006). Infatti, come in un sistema di mercato parcellizzato in una pluralità di agenti e connotato da un contesto informativo imperfetto e in evoluzione, il rigore scientifico unito all’evidenza empirica dà conto che pure per le piante il “signalling” (al proprio interno, fra loro, nei confronti degli insetti, ecc.) ha valenza strategica di natura evoluzionistica: “Comunicare […] permette di scansare pericoli, di accumulare esperienza, di conoscere il proprio corpo e l’ambiente” (Mancuso e Viola, 2015, p. 74).

E, comunque –come la razionalità– l’intelligenza non è quasi mai intesa di per sé, bensì in funzione dell’ambito, delle sue capacità logiche, previsionali, emotive, ecc. Nell’ambito dell’intelligenza artificiale, nel machine learning l’intelligenza risiede nella sua capacità di apprendimento. Un programma sarà perciò “intelligente” se la sua performance nell’apprendimento si accresce con lo stock di esperienze accumulate (D’Abbraccio et al., 2021). Anche gli avanzamenti tecnologici incidono sulla nozione di intelligenza dell’intelligenza artificiale: nel deep learning, è collegata alla “non-umanità” dell’intelligenza, nel senso che più potenti e sofisticati diventano i sistemi, meno gli esseri umani sono in grado di comprenderli sentendosene quindi alieni (si cita la partita in cui AlphaGo, un software dotato di reti neurali profonde, ha sconfitto l’elevata abilità umana; Bridle, 2022).

Per il significato di razionalità, ci si limiterà a richiamare la nozione di razionalità strumentale e razionalità ecologica, che sembrano –anche in un loro mix– quelle che meglio si attagliano al mondo delle piante. Alla luce di questo binomio, appare particolarmente adatto, sul piano psicologico, pensare a quella vegetale come a una forma di psicologia evoluzionistica.

Inoltre, per particolari forme di comportamento delle piante, si esamineranno brevemente alcuni stupefacenti paralleli con le strategie analizzate attraverso il metodo della Teoria dei Giochi (strategie di cooperazione vs. competizione; strategie di coordinamento; Cfr. Fiocca, 2005).

D’altro canto, a irrobustire gli studi, gli esperimenti e l’evidenza empirica risultante dall’applicazione di metodologie scientifiche rigorose, esiste anche lo scenario controfattuale: se le piante fossero “stupide”, nel senso di sprovvedute e scarsamente equipaggiate, la selezione naturale le avrebbe punite già da tanto tempo. Le deprivazioni e il depauperamento cui si assiste, più che da un processo evoluzionistico, derivano soprattutto dall’uomo, benché quest’ultimo abbia bisogno delle piante (ma non viceversa).

Il sentire delle piante

Il plantoide richiede riflessioni preliminari su attitudini, comportamenti e sentire delle piante (qui in termini molto generali). In queste ultime, “i processi percettivi hanno inizio con la codifica dello stimolo, che giunge ai recettori attraverso specifici canali sensoriali, dando il via a una forma di interpretazione degli stimoli ambientali in ingresso. La percezione quindi consiste in una e vera e propria attività di elaborazione delle informazioni provenienti dall’ambiente” (Castiello, 2020, p. 37).

Grazie ai recettori diffusi lungo tutto l’organismo, le piante compensano la loro natura di organismi sessili con sensi estremamente sviluppati e distribuiti sia nell’ambiente sotterraneo sia in quello aereo. Hanno capacità uditive (ad esempio, ascoltano la musica, sentono il cinguettio degli uccelli, il rumore sotterraneo dei bruchi, lo scorrere dell’acqua verso cui allungare le radici); beneficiano di una elevatissima sensazione tattile (si arrampicano lungo elementi che reputano in grado di sostenerle, riconoscono l’effetto positivo o meno di un insetto che le tocca, ecc.); vedono (capaci, ad esempio, di individuare una sorgente luminosa di cui avvalersi); hanno un forte olfatto attraverso cui veicolano messaggi (pericolo, attrazione, repulsione, ecc.) e il senso del gusto che sfruttano per alimentarsi (le radici vanno alla continua ricerca di nutrienti appetibili, come potassio, fosfati, nitrati).

E poi, sono dotate di abilità all’apprendimento dall’ambiente e di memoria di quanto esperiscono. Inoltre, si muovono (e anche tanto!) per migliorare la loro fitness lungo il proprio processo evolutivo o, ad esempio, in reazione a urti, come tipicamente nel caso delle piante insettivore. È da intendersi una strategia di movimento da un posto all’altro persino la dispersione di semi (Mazzolai, 2019). Peraltro, la loro sensibilità va oltre i cinque sensi dell’uomo (ad esempio, riescono a sentire e quantificare la forza di gravità, i campi elettromagnetici, a scandagliare diversi gradienti chimici; Mancuso e Viola, 2015). E per il fatto di essere sessili, beneficiano –come per una forma di diversificazione del rischio dei propri asset– di una struttura modulare, cioè priva di organi concentrati in poche zone nevralgiche, scomponibile in parti divisibili. In più, le piante adottano comportamenti sociali, interagendo fra loro tramite codici non solo di suoni e odori, ma anche di colori e forme, nonchè costituendo alleanze e simbiosi (ad esempio, la loro capacità di mimetizzarsi con le piante vicine altro non è che una stretta interazione fra loro). Tali interazioni avvengono sia all’interno della biosfera, sia con altre forme di alterità, quali l’intelligenza artificiale. Si richiama un meccanismo simbiotico sorprendente e affascinante poiché evocativo di forme di attenzione e del prendersi cura. Il caso è famoso: si tratta di una “storia d’amore cyborg” che nasce fra due soggetti speciali, un bellissimo glicine – la Wisteria Floribunda di color rosa – e una sofisticatissima intelligenza artificiale – battezzata Antitesi. I due hanno un avversario comune, che combattono insieme: il cambiamento climatico. Antitesi assolve una triplice funzione a favore della sua protégé: attraverso i propri sensori digitali osserva l’impatto del clima sulla salute del glicine, perciò misura, calcola, compara i dati diacronici e sincronici acquisiti, scandaglia le informazioni utili a definire il suo stato; condivide con la comunità scientifica i dati raccolti tramite questo continuo monitoraggio; effettua investimenti in Borsa secondo una struttura di incentivi fondata su un sistema di punizione/premialità. Infatti, se i parametri registrano cambiamenti climatici pregiudizievoli per il glicine, Antitesi reagisce veementemente iniziando a investire in Borsa a sostegno delle imprese virtuose che combattono la crisi ambientale tramite strategie aziendali e i propri prodotti (Agrifoodtoday, 2021).

Gli esseri viventi si confrontano con un ambiente complesso, che evolve nel tempo, carente di informazioni, incerto, soggetto a shock, condizionato dall’operato degli esseri con cui ognuno entra in contatto e/o indirettamente interagisce. Di fronte alle asperità di questo ecosistema, le mutazioni genetiche hanno messo in condizione gli esseri umani e tutte le altre forme di vita di sopravvivere a shock, cioè a quanto Darwin chiamava “condizioni di vita”.

Ma guardiamo anche alle (tante) condizioni di ambiente positive, e non solo alle ispidità. L’ecosistema si espande e progredisce nel tempo, diventando inclusivo di nuove forme di attivismo, impegno sociale e sensibilizzazione culturale; consolidando un climax a favore del riconoscimento di una sfera più ampia dei diritti di animali e piante (caso pivot quello dell’elefantessa Happy); facendo proprio l’intreccio tra arte e tecnologia di frontiera. L’esempio stesso della diade glicine/intelligenza artificiale allarga gli orizzonti di solidarietà, collaborazioni, caregiving e anche di amore al di là degli stereotipi tradizionali, tipicamente attribuiti a uomini e animali (e agli uni con gli altri). In tale universo, più la scienza avanza, tanto più poliedriche, meravigliose, affascinanti e arricchenti le esperienze, le conoscenze e le forme d’arte che ci vengono offerte.

Sì, perché ideatori della diade Wisteria Floribunda-Antitesi sono due artisti, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, la cui opera è stata realizzata presso il Centro di ricerca “HER: She Loves Data” (Singapore). L’installazione costituisce la prima opera datapoietica dedicata al cambiamento climatico (“datapoiesis” è un neologismo che fa riferimento a un processo basato su dati e intelligenza artificiale, al fine di realizzare cose ed esperienze che aiutino le persone a capire fenomeni complessi e globalizzati). Coerentemente, anche il Centro di ricerca è di particolare interesse. Non solo perché utilizza dati e calcoli sofisticati volti alla sensibilizzazione culturale verso la ricerca e l’innovazione tecnologica, ma anche perché intende ridurre il digital divide prevalente fra sessi, stimolando le donne a contribuire all’interno di un mondo orientato al dataismo e avvicinandole alle discipline STEM.

L’intelligenza delle piante

Per via della loro struttura modulare, le piante si avvalgono di un’intelligenza decentralizzata. In particolare, l’apparato radicale è la loro parte più rilevante e l’intelligenza distribuita in tale (estesa) zona le guida nello sviluppo esplorando il suolo alla ricerca degli input necessari.

Lo stretto coordinamento fra radici nel movimento e l’interazione diretta tra pianta e ambiente determinano un comportamento emergente unitario tale da richiamare il movimento di uno sciame. “[…] si parla di comportamento emergente –o intelligenza collettiva– ogni qual volta un comportamento di alto livello si origina a partire dalle migliaia di interazioni semplici che avvengono tra agenti singoli” (Mazzolai, 2019, p. 135) o tra le diverse parti di un sistema. “Con i milioni di apici radicali e una parte aerea dotata di rami e foglie, in realtà le piante rappresentano il caso estremo di intelligenza distribuita in natura” (p. 139).

L’efficienza di questi meccanismi ha ispirato la realizzazione di robot sofisticati, che uniscono la robotica all’intelligenza artificiale. E passando dall’intelligenza vegetale a quella artificiale, ci troviamo di fronte alla robotica bioispirata, che si colloca nell’area di ricerca più ampia: la biorobotica (Mazzolai, 2021). Il plantoide è una delle sue creature.

La razionalità delle piante

Una breve digressione di natura economica a supporto dell’idea di razionalità vegetale.

Nell’agente economico, la razionalità (nella prospettiva strumentale) è da intendere come l’obiettivo di ottimizzazione sotto il vincolo delle risorse disponibili (ottimizzazione vincolata). Il carattere strumentale della razionalità sta sia nell’analisi da parte dell’agente sui costi-benefici di tutte le sue possibili azioni, sia nella scelta di quella efficiente, cioè deputata all’ottimizzazione. Alla luce della scarsità delle risorse e dei beni/servizi, tale nozione di razionalità ha perciò valenza fortemente competitiva per il raggiungimento dei fini da parte di ciascun soggetto contro gli altri.

Il parallelismo con le strategie delle piante è pressoché immediato. Innanzi tutto, anch’esse hanno come obiettivo l’ottimizzazione, adottano forme di decision-making, vivono in un ambiente fortemente competitivo. L’ottimizzazione (vincolata) sta nella scelta di allocare energie e materie nel modo più efficiente per il loro sviluppo. Ne segue che anche le piante attuano valutazioni costi-benefici grazie ai recettori che registrano ed elaborano le informazioni disponibili. Sulla base dei dati raccolti, mettono in atto un processo decisionale tramite cui pervengono a una risposta adattiva. Le decisioni (strumentalmente) razionali includono anche i tempi ottimali per fiorire e germogliare, e persino se è il caso di abortire i semi in circostanze estreme, quali infestazioni di parassiti o condizioni climatiche avverse (Castiello, 2020). In questo caso, l’aborto fa parte della cassetta degli strumenti per la sopravvivenza e la buona salute della specie.

 Prendiamo il caso della concorrenza fra piante per beneficiare della luce: il fototropismo è il loro movimento per riceverla in modo ottimale. La “fuga dall’ombra” è la dinamica che le spinge a crescere più rapidamente delle competitor per l’accaparramento della luce (Mancuso e Viola, 2015). La competizione delle piante non si limita naturalmente all’ambito del mondo vegetale. I competitor sono ovunque! Dagli uomini agli animali. È la sempiterna lotta tra prede e predatori.

La dimensione razionale delle piante può essere declinata anche secondo la sua accezione ecologica. Gli studi empirici, la teoria delle scelte in condizioni di incertezza, l’economia comportamentale, quella sperimentale, la neuroeconomia, insieme a tanti altri filoni di letteratura interdisciplinare hanno disvelato il profondo solco tra come gli agenti si comportano e come dovrebbero comportarsi. Le evidenze hanno dimostrato che, per comprendere i comportamenti individuali e non etichettarli necessariamente “irrazionali”, vi era l’urgenza di estendere la nozione stessa di razionalità per renderla a “misura d’uomo”, in contrapposizione a quella perfetta “onnipotente” dell’economia neoclassica (Fiocca, 1994).

La razionalità ecologica si fonda sull’abilità degli esseri che popolano la biosfera di attuare il loro decision-making prendendo a riferimento l’ambiente in cui si trovano. Cioè, l’ambiente esterno – e il modo in cui esso viene percepito – non è “neutrale”. La decisione non può essere quindi razionale di per sé, poiché non avviene nel vuoto e il soggetto non è una monade. È perciò necessario scontare le variabili situazionali, cioè le circostanze. Si tratta di una forma altamente contingente di elaborazione delle informazioni e, quindi, altrettanto flessibile. Sono chiari i tratti adattivi ed evoluzionistici di tale nozione che, come si vedrà più avanti, viene mutuata anche nel plantoide.

Studi importanti lungo questa linea di argomenti sono stati realizzati in psicologia, in particolare da quella evoluzionista. È stato suggerito che esiste una sfera psicologica vegetale e che essa può essere analizzata studiando il comportamento delle piante in termini di stimoli e risposte: entrambi costituiscono reazioni adattive all’ambiente (ad esempio, Castiello, 2020). In natura, si sa, l’evoluzione e l’adattamento di qualsiasi essere vivente avvengono non secondo un processo lineare, ma attraverso la discontinuità di un incessante “groping”, “trial and error” (Fiocca, 2005).

Di conseguenza, dopo aver agito per tentativi, nel lungo periodo le abilità all’apprendimento dall’ambiente e di memoria da parte del mondo vegetale si affinano, agevolandone la sopravvivenza e l’evoluzione. Meccanismi di variazione, eredità e selezione (Fiocca, 2020), quando memorizzati, possono costituire nel lungo periodo un imprinting genetico per lo sviluppo adattivo intergenerazionale. Tutto ciò è stato osservato scientificamente e confermato rigorosamente dall’evidenza empirica (Castiello, 2020).

Parallelismi di strategie di uomini e piante secondo la Teoria dei Giochi

Riguardo al mondo delle piante è vivo il dibattito sui risultati, in chiave evoluzionistica, di comportamenti egoisti o altruisti. Tra i tanti esempi, si cita quello di un particolare fungo che forma una specie di manicotto intorno alle radici di una determinata pianta, con un guadagno reciproco: il primo fornisce alle radici alcuni minerali e, in cambio, riceve gli zuccheri prodotti con la fotosintesi (Mancuso e Viola, 2015). Tale comportamento può essere stilizzato col metodo della Teoria dei Giochi (TdG), in cui gli agenti/giocatori sono due piante (ciò non toglie che uno degli attori che interagisce con la pianta sia un animale) e i loro rispettivi guadagni sono i payoff.

Le ipotesi fondanti della Teoria dei Giochi sembrano coerenti con i precedenti argomenti: le due piante riconoscono la reciproca interdipendenza; ciascuna di esse tenta di sfruttare tale interazione con l’obiettivo di massimizzare i propri payoff; entrambe sono razionali (in senso strumentale, a indicare l’obiettivo di ottimizzazione). Nel Dilemma del Prigioniero, la strategia non cooperativa di ciascuna pianta conduce a un risultato in cui entrambe perdono. La cooperazione converrebbe, però, solo se entrambe la applicassero, altrimenti si tratterebbe solo di sfruttamento di una (free-rider) a spese dell’altra. Consideriamo invece un gioco –come il Tit-for-Tat (“Colpo su colpo”, la cui filosofia alla base è “Occhio per occhio”)– ripetuto nel tempo un numero indefinito di volte (che ben si attaglia a un pattern evolutivo). Tale gioco dà spazio all’apprendimento, alla memoria, all’esperienza e al reciprocare la risposta. Grazie a questo background accumulatosi nel tempo, potrà emergere una soluzione di natura cooperativa anche fra soggetti egoisti –argomento che affonda le radici in Hobbes e Hume, rispettivamente a metà ‘600 e ‘700. L’altruismo, quindi, anziché genuino, ha natura strategica, ancora in coerenza con il paradigma strumentale della razionalità.

Al comportamento a sciame delle piante si può ricollegare un gioco di coordinamento (concetto naturalmente ben diverso dalla cooperazione). Noto esempio è la “Battaglia dei sessi”, che rappresenta le molte situazioni in cui i soggetti cercano di coordinare le proprie azioni (a prescindere dalle rispettive preferenze): il coordinamento è sinergico e, quindi, dà un valore aggiunto all’azione (circostanza anch’essa del tutto compatibile con le dimensioni strumentale ed ecologica della razionalità). L’interpretazione evoluzionista di tale gioco è che l’equilibrio raggiunto da una popolazione (il comportamento emergente che determina la forma di sciame) coincide con l’ottimizzazione di lungo periodo (l’unione fa la forza).

Il plantoide

È una tecnologia bioispirata –un “robot-pianta”– frutto dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alla robotica volta a contribuire alla sostenibilità ambientale (di cui agli SDGs). Il plantoide sconta l’avanzamento in robotica: “non più sistemi dalla forma predefinita e fissata una volta per tutte, ma in grado di evolversi e mutare” (Mazzolai, 2019, p. 36). La sua plasticità ne fa il primo robot che cresce e muta la morfologia, come il suo omologo biologico. Ad esempio, anch’esso è dotato di “idrotropismo” (cresce verso l’acqua) e di “tigmotropismo” (evita un ostacolo).

Segnatamente, il plantoide costituisce la replica artificiale dell’apparato radicale di una pianta sotto numerosi aspetti, quali: le sembianze, il comportamento, l’esplorazione del suolo, la capacità di percepire l’ambiente che sta esplorando per rispondere in modo adattivo alla varietà di stimoli esterni, e, quindi, le capacità di movimento, le capacità comunicative (Mazzolai e Salvini, 2018). La radice robotica (sono cinque le radici del plantoide) è analoga al suo omologo naturale. Ha quindi una parte apicale i cui sensori misurano i gradienti chimici ed evitano gli ostacoli. Ca va sans dire, l’apparato radicale del plantoide adotta un modello di comportamento emergente. Come in Natura, esso è stato dotato inoltre del “senso delle priorità”, che gli attribuisce un comportamento dinamico: “le radici robotiche si indirizzeranno verso una sostanza con maggiore preferenza rispetto a un’altra sulla base del fabbisogno della pianta robotica” in determinate circostanze (ad esempio, uno stress idrico; Mazzolai, 2019, p. 141).

Rispetto alle radici naturali, nel plantoide è più elevata la rapidità del movimento. Ciò è un limite nella verosimiglianza, poiché la velocità comporta un dispendio di energia, e le piante sono parsimoniose in questo: non hanno fretta. Inoltre, la loro esplorazione del suolo ha bisogno di tempo. Per sequoie, querce, ulivi, ecc., tempo e velocità assumono valori dilatati (Mazzolai, 2019). Le piante si sono evolute, quindi, in modo del tutto diverso dagli animali e –si direbbe – anche dagli uomini, costantemente abitati da fretta e impazienza.

Sotto il profilo estetico, il plantoide non è un granchè: un tronco piuttosto tarchiato (contenente la parte elettronica), agghindato di alcuni rami abbelliti da foglie artificiali il cui materiale è ispirato ai tessuti delle foglie vere e, come queste, reattive a cambiamenti di temperatura e tasso di umidità. Come accade in Natura, l’apparato fogliare del plantoide prende l’energia dal clima: i materiali intelligenti da cui è costituito “funzionano da sensori e motori al tempo stesso e, proprio come quelli naturali, possono interagire con l’umidità dell’aria generando un movimento associato” (Mazzolai, 2019, p. 131).

Insomma, il plantoide: un po’ bruttino, ma tanto intelligente.

Psicologia dell’esperienza immersiva nei copioni narrativi: best sellers, serie tv e serie cinematografiche

Questo articolo esplora in quali modi il best seller, il prodotto narrativo più diffuso di questi anni, contribuisce a plasmare il nostro immaginario psicologico, il nostro inconscio collettivo, i nostri ruoli sociali e i nostri valori.

 

“Se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano”  (Guy Debord)

Consideriamo solo i primi due dei cinque assiomi della comunicazione secondo Paul Watzlawick.

  • 1° assioma – È impossibile non comunicare. (“L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro”)
  • 2° assioma – In ogni comunicazione si ha una metacomunicazione che regolamenta i rapporti tra chi sta comunicando. (“Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione”)

 Nel voler ricercare chi siano, cosa vogliano comunicare e metacomunicare gli autori dei best sellers attraverso le storie che ci raccontano e i personaggi che le animano, dovremmo a mio parere tematizzare, dal vertice di una psicologia sociale e politica, ed anche piuttosto radicalmente, questi primi due assiomi della comunicazione.

Non v’è dubbio che “comunicare” è interesse precipuo di ogni autore di romanzi e storie, ma nel caso degli autori che vendono molti milioni di copie, come le star dell’editoria, la comunicazione attraversa innumerevoli passaggi intermedi, tutti i passaggi che riguardano il confezionamento del prodotto nella filiera che va dalla scrittura sulla scrivania dell’autore fino al comodino o alla mensola di casa nostra, passando dal contratto editoriale, la revisione e l’editing dei contenuti nel solco della politica editoriale della major editrice, le scelte di marketing e di promozione multimediale dell’opera nei canali adeguati, comprese, in certi casi, le leggende costruite ad hoc sull’opera e/o sull’autore, fino alla scelta della veste grafica, l’uso delle immagini e dei colori della copertina, le dimensioni del libro, le caratteristiche della carta, dei caratteri, dell’impaginazione, e così via.

Attraverso tutti questi passaggi di marketing editoriale passa però, carsicamente, un’altra forma di comunicazione, una metacomunicazione appunto, che ci racconta dei modi con cui l’editoria co-costruisce trame, personaggi, autori, brand editoriali e in definitiva modelli di riferimento che riguardano complessivamente il tipo umano contemporaneo. Editori e lettori co-costruiscono, metacomunicativamente, un medesimo intreccio di intenti, contenuti e codici simbolici.

Dunque tutto comunica e tutto metacomunica, ed è ingenuo pensare che l’industria culturale non programmi nei minimi dettagli il consumo di massa dei propri prodotti volendo al contempo incontrare, anzi interpretare e anticipare, bisogni e desideri dei lettori. Dice Edgar Morin a proposito dell’industria culturale:

“Si può asserire che una cultura costituisce un corpo complesso di norme, simboli, miti ed immagini che penetrano l’individuo nella sua intimità, strutturano gli istinti, orientano le emozioni. Questa penetrazione si effettua grazie a degli scambi intellettuali di proiezione e di identificazione polarizzati sui simboli, miti ed immagini della cultura come sulle personalità mitiche o reali che incarnano i valori (gli antenati, gli eroi, gli dei). Una cultura fornisce dei punti d’appoggio pratici alla vita immaginaria: nutre l’essere metà reale, metà immaginario, che ciascuno elabora all’interno di sé (la sua anima); l’essere metà reale, metà immaginario che ciascuno elabora all’esterno di sé e con cui si ricopre (la sua personalità)” .

A tal proposito è importante sottolineare che gli esperti di marketing distinguono il pull marketing, il marketing orientato all’offerta, alla proposta di prodotti, che incontra i gusti della clientela e dialoga direttamente con essa, dal push marketing, il marketing che offre la mercanzia alla clientela soprattutto attraverso la promozione verso gli intermediari della vendita (distributori), invogliandoli a spingere il prodotto indipendentemente dai gusti della clientela.

Nell’epoca in cui viviamo, dei big data e della Psicopolitica, dove l’idea stessa di libertà appare minata alle radici, si è avverata la profezia di Morin: non è più possibile concettualmente poter distinguere nettamente tra queste due modalità di vendita (pull e push) di un prodotto. Non è più possibile, vista la massa enorme di conoscenze sempre più dettagliata e profonda sulle abitudini delle clientele, distinguere quanto il bisogno di quel prodotto sia dal punto di vista di chi lo vende recepito o costruito o, come ipotizziamo qui, continuamente co-costruito. Il ruolo attivo e compiacente del consumatore – ogni consumatore – nella costante retroazione su abitudini di consumo, ci conduce su un paradigma di civiltà, ma anche di funzionamento del mentale, del tutto inedito.

In questo quadro, il prodotto narrativo best seller, a largo consumo, non fa eccezione rispetto a tutti gli altri, esso contribuisce in maniera decisa, anzi forse maggiormente rispetto ad altri considerata la sua natura narrativa, a dare forma al materiale del nostro inconscio collettivo e a definire tipologie umane, ruolizzazioni sociali e orizzonti valoriali, dove però ciò che viene utilizzato nella co-costruzione di questo apparato è uno strumentario molto più esteso e molto più raffinato, integrato e totalizzante. I corrispondenti modelli umani e narrativi dell’epoca moderna e pre-moderna, i cosiddetti classici, pur essendo long-sellers, non reggono il confronto rispetto alla penetrazione profonda nella vita mentale delle persone e del tessuto sociale. Se non altro per le limitate diffusioni mediatiche delle epoche precedenti alla nostra e per le limitate diffusioni e stratificazioni sociali legate all’alto tasso di analfabetismo.

Vediamo come avviene questa penetrazione e secondo quali criteri e significati.

Il prodotto da bancarella: l’esperienza sensoriale

Entrare in una grande libreria e osservare i banchi dei best sellers in bella vista con le loro copertine sgargianti, le edizioni speciali ed economiche, è esperienza molto diversa rispetto ad entrare in una polverosa biblioteca o anche in una libreria di pochi anni fa dove i tomi erano messi in ordine alfabetico e per categorie e ben poco spazio era concesso all’immagine. Il libro, compreso il romanzo, era l’apologia del contenuto ed una copertina troppo vistosa casomai raccontava del cattivo gusto dell’editore.

Le grandi librerie contemporanee sono organizzate più o meno come gli altri centri commerciali con i loro labirintici percorsi obbligati, con le loro musiche di sottofondo, le loro luci da ambiente, con i loro studiati posizionamenti e dislocazioni della merce sugli scaffali: nell’atrio, appena entrati vicino alle casse, best sellers recenti e non, edizioni economiche, offerte e sconti. Il consumatore di letteratura ad alto consumo non deve perdere tempo: i best sellers in genere sono impilati in alte colonne in bella vista. Anche questa è una metacomunicazione ben precisa come a dire che non si tratta di un libro che devi sfilare da uno scaffale o da una fila, un libro che devi fare la fatica di cercare, ma di un prodotto che va via come il pane e che non occorre nemmeno consultare. Compra e zitto!

Via via proseguendo tutti gli altri settori, in fondo, su altri piani, con i libri più seri che richiedono spesso l’intervento del commesso e della sua sapiente ricerca.

Prendere in mano un best seller oggi e immaginarlo in bella vista nella nostra libreria di casa o sul tavolino del salotto o sul comodino, è diventata un’esperienza sensoriale già molto significativa. Immagini esplicative, copertine a tutta immagine, carta lucida, spesso con colori primari, grafica essenziale, presentazioni in quarta di copertina brevi e catturanti, nelle edizioni speciali immagini e caratteri in rilievo per consentire esperienze tattili e sinestetiche (Fig. 1).

Best seller esperienza narrativa ed emotiva del lettore Fig 1

Fig. 1  Qui alcuni esempi di copertine di best sellers

Jean Baudrillard nel suo primo saggio, “Il sistema degli oggetti”, affrontava esattamente questo piano sensoriale-elementare della fruizione del prodotto indicando la differenza esistente, nella espansiva società dei consumi del dopoguerra, tra valore funzionale, cioè l’uso concreto del prodotto, e il valore segnico, per indicare il valore sociale interno ad un sistema di oggetti che rimanda ad uno status sociale ad esso collegato (oggi diremmo il brand). Il valore segnico è ancora diverso dal valore simbolico che indica invece il valore individuale, affettivo e biografico che ciascuno assegna ad un oggetto.

L’oggetto-di-consumo-culturale-libro, come accaduto con innumerevoli altri oggetti di consumo, nella attuale società dei consumi, tende a con-fondere e far confluire il valore simbolico nel valore segnico. Tale oggetto (meta)comunica che un best seller non è un libro qualunque, di quelli seri o seriosi, che vuole educarti, istruirti, informarti, approfondire, farti pensare o riflettere. No, nulla di tutto questo: già a partire dall’esperienza sensoriale, il best seller si candida ad essere oggetto esclusivo del nostro arredamento domestico (e di quello interiore), come prevalente oggetto ludico, di intrattenimento puro. L’oggetto-best-seller deve intrattenere e catturare divertendo, al limite rapendo il lettore in un flusso di coscienza che già dagli aspetti sensoriali ci racconterà qualcosa di noi, ma senza impegnarci molto, in altre parole deve realizzare la paradossale esperienza di spiazzarci senza metterci in discussione. Deve inoltre diventare ordine del giorno nelle discussioni tra amiche e amici come se si parlasse del proprio partner o del vicino di casa molesto o bizzarro.

Le regole implicite metacomunicative che il marketing editoriale vuole trasmettere, già da questo piano elementare sensoriale, sono quelle dell’omologazione ad altri criteri comunicativi, quelli televisivi in primis e poi quelli multimediali di cui il prodotto-best-seller è semplicemente punto di snodo di una lunga sequenza commerciale, corollario di una lunga catena di eventi mediatici plurimi e interattivi: libro, film, serial tv, talk e trasmissioni tv, forum web, fan fiction, talora graphic novel e videogioco, etc.

Il libro sgargiante troneggiante sul banco della libreria ci dice in buona sostanza che “tutta la città ne parla”, qui trovi, già dall’esperienza sensoriale, il rimando all’esperienza di cui altri milioni di individui stanno godendo in tv sia nelle serie televisive collegate che nelle trasmissioni specchietto per le allodole, al cinema, sul web (nei forum specializzati). Insomma, questo è il testo sacro, il racconto primigenio o l’ennesimo di una sequenza, da cui originano tutte le esperienze ludiche, empatiche e identificatorie che coinvolgono milioni di persone come te. Per essere protagonista del tempo presente e sentirsi parte adeguata di una collettività, seppure solo virtuale e delocalizzata, occorre vivere l’esperienza che questo oggetto ti propone.

Il prodotto empatico: l’esperienza emotiva

Procedendo in un ideale percorso dal “basso” verso l’“alto” delle funzioni psicologiche, l’esperienza sensoriale del best seller avanza verso quella emotiva ed allo stesso tempo ne è preludio e l’esperienza emotiva precede ed integra l’esperienza narrativa. Naturalmente la suddivisione che qui operiamo tra i paragrafi di questo capitolo è meramente descrittiva e occorre quindi dire che dal punto di vista psicologico esiste un continuum/circolarità piuttosto strutturale e coerente tra esperienza sensoriale, emotiva e cognitivo-narrativa, per cui l’esperienza del lettore non è mai scindibile ed isolabile, seppure prevalgano nella fruizione ora un aspetto psicologico, ora un altro, a seconda del contesto in cui esso viene osservato.

Non esiste esperienza cognitiva e narrativa senza un preciso marker emotivo, l’emozione in sostanza colora e fissa la memoria di un’esperienza letteraria. È per questo che sul piano dell’esperienza emotiva troviamo il terreno applicativo elettivo degli sforzi del marketing globale.

Analizziamo ora solo alcuni recenti studi psicologici sull’esperienza emotiva del lettore. In generale, gli studi empirici provano a scoprire le diverse risposte emotive dei lettori rispetto ad un testo e a comprenderne le variazioni durante e dopo la lettura sia sul piano emotivo sia su quello cognitivo.

Mar ed altri in una recente rassegna sulla ricerca empirica sul tema delle emozioni dei lettori di narrativa, del 2010 esaminano dapprima le differenze tra fruizione emotiva della letteratura rispetto ad altri media e altro genere di narrazione. Chi sceglie la finzione narrativa sembrerebbe in grado di gestire le emozioni meglio (con possibilità di differimento, metabolizzazione e controllo) di chi fruisce di altri media più “economici” e passivizzanti come tv o cinema e questo farebbe pensare che la scelta di questo genere di intrattenimento sia legata ad una fruizione più attiva e interessata e non soggetta ad un flusso emotivo semplice.

Mar differenzia i diversi piani del coinvolgimento emotivo del lettore che, pur correlati tra di loro, sono distinti: esistono le emozioni estetiche legate alla fruizione del testo letterario come opera d’arte ed esistono le emozioni “immersive” legate all’ingresso nel mondo immaginario del romanzo. Le emozioni immersive a loro volta si differenziano in: emozioni recenti ed emozioni evocative, queste ultime legate alla rappresentazione sia personale che collettiva delle narrazioni.

Le emozioni recenti si suddividono in: emozioni di simpatia, di identificazione e di empatia. Le emozioni di simpatia sono il correlato di una partecipazione più semplice (rispetto alla identificazione) alla situazione descritta come se il lettore fosse un testimone privilegiato degli accadimenti, cosa che produce emozioni di simpatia rispetto a quanto accade nel bene e nel male ai personaggi. Le emozioni di identificazione sono legate alla situazione soggettiva del lettore e alla sovrapposizione dei piani esistenziali tra lui e il protagonista. Le emozioni di empatia invece implicano la comprensione emotiva e cognitiva dei piani descritti riguardo situazioni e personaggi sotto forma di modelli mentali, teorie della mente, ma le emozioni del lettore sono distinte da quelle dei personaggi.

Ma sono le emozioni evocative quelle che appaiono avere maggiore influenza duratura sulla personalità del lettore anche dopo la fine della lettura, incidendo più profondamente sull’esperienza del lettore.

Mar, infine, cita alcune ricerche nelle quali è risultato evidente come le narrazioni consentano una maggiore possibilità di metabolizzare emozioni mantenute a distanza a causa della loro virulenza o per cause traumatiche personali, dimostrando quella valenza terapeutica della narrazione che l’uomo conosce dalla notte dei tempi.

In un altro studio si evidenzia invece come vi sia complementarietà nella lettura della letteratura tra processi di empatia, qui declinati come esperimenti morali di assorbimento-immersione nelle vicende altrui e come assunzione di ruolo, e processi di auto-riflessione che implicano invece un distacco e un relativo estraniamento, una sorta di alternanza tra un’emotività veloce e una più lenta e riflessiva.

In un’altra rassegna del 2013, Susanne Keen sostiene che l’empatia, da differenziare dai processi di identificazione, sovrasta ogni altro aspetto narrativologico a livello psicologico. L’autrice riferisce che “gli psicologi che studiano l’empatia narrativa in laboratorio hanno identificato le caratteristiche principali dei testi di fiction narrativa tra cui troviamo un uso massiccio di immagini che invitano il lettore alla simulazione mentale e all’esperienza dell’immersione e a rendere i rapporti soggettivi più fluidi come se ‘avessero lasciato il mondo reale alle spalle durante la visita di mondi narrativi'”.

L’autrice inoltre esplora le tecniche narrative utilizzate dagli autori (e, aggiungiamo noi, dal sistema di marketing sottostante) per evocare e approfondire le risposte empatiche dei lettori: “queste tecniche comprendono le manipolazioni di situazioni narrative nella prospettiva di un personaggio della narrazione o di una rappresentazione interiore di personaggi immaginari, l’uso di punti di vista e paratesti. Altri elementi si ritiene siano coinvolti nell’evocazione dell’empatia dei lettori compreso l’utilizzo vivido di sconfinamenti, metalessi, ripetizioni seriali di racconti immersi in un mondo narrativo stabile, lungaggini, l’incoraggiare i lettori ad immergersi o lasciarsi trasportare, l’uso di convenzioni generiche, interiezioni metanarrative, l’uso dei primi piani, il disordine o l’estraniamento indotto dal rallentamento della lettura” (Susanne Keen, ibidem).

Possiamo concludere che gli stili narrativi dei prodotti editoriali a largo consumo, se ci soffermiamo su questo piano emotivo, puntino a evocare nel lettore, specie laddove tali stili narrativi si appiattiscono su quelli delle serie tv e cinematografiche, soprattutto (ma non solo) l’esperienza dello smarrimento empatico, cioè una sorta di esperienza ludica del perdersi nel dedalo delle situazioni narrative di vicende e personaggi puntando più sulla gamma di emozioni recenti, specialmente empatiche che su quelle identificatorie. Come detto, l’empatia ha a che fare con la capacità dell’individuo (e del lettore) di costruire teorie della mente dei suoi interlocutori acquisendo una comprensione emotiva non necessariamente identificatoria o simpatica. Le narrazioni contemporanee con i loro personaggi variegati, talora anonimi, talora antieroi, talora onirici, riescono a immergere il lettore in flussi di vissuti emotivi nei quali è richiesto al lettore il semplice sforzo del lasciarsi trasportare e talora di cambiare prospettiva, ma non quello di cambiare idea.

In tal senso la massimizzazione delle risposte empatiche nel lettore sembrerebbe ottenere un risultato “a-pedagogico” ovverosia il risultato di ampliare il lessico emotivo dei lettori, ma di scoraggiare l’uso di modelli emotivi identificatori.

Questo non significa affatto che le trame e i personaggi dei best sellers contemporanei non seguano modelli e codici, almeno dal punto di vista emotivo, “esemplari”, cioè identificatori. Solo che in questo caso ciò che non viene definito esplicitamente dall’autore, diventato nella postmodernità, laico e antiideologico, viene definito implicitamente.

Il prodotto pervasivo: l’esperienza narrativa

L’ipercodifica che avviene su ogni piano della realizzazione del prodotto-best-seller e su ogni piano della sua fruizione psicologica e culturale, del soggetto-consumatore, coincide in definitiva con una sorta di παιδεία implicita (per i greci antichi, paideia = educazione valoriale e sociale) che avviene laddove esperienza sensoriale ed esperienza emotiva confluiscono coerentemente con il sistema simbolico-valoriale del tempo presente.

Per molti psicologi, specie i cosiddetti post-razionalisti, la mente è narrazione, utilizza esclusivi schemi narrativi come strumenti adattativi alla realtà circostante. Senza dover aderire totalmente a questo costrutto, di sicuro possiamo asserire che la mente utilizza la funzione narrativa ai piani alti della propria funzionalità. Tende cioè a rappresentare il dialogo tra i personaggi del proprio mondo interno attraverso piani anticipatori, trame e intrecci, più o meno brevi/lunghi, che assumono carattere di temi narrativi ricorrenti.

 Le attuali società dell’era neoliberista e iperconsumista hanno prima annullato la dialettica produzione-consumo invitando il consumatore a partecipare attivamente alla produzione della propria felicità, eleggendo il consumatore di fatto a protagonista e co-costruttore di senso del proprio essere al mondo attraverso il proprio consumo. Poi hanno progressivamente esteso ad ogni esperienza psichica tale compartecipazione compiacente attraverso la spinta adoperata dai vecchi e nuovi media. Secondo Byung-Chul Han (op. cit.) questo sviluppo coerente, all’interno dello stesso paradigma economico-sociale, segna il passaggio dall’era della biopolitica a quella della psicopolitica, dove in gioco non è più solo il controllo della vita della popolazione e dei suoi confini e della sua etica, ma la vita loro psichica ormai migrata sui nuovi territori inaugurati dai nuovi media e da internet. Vita psichica caratterizzata, diversamente dal bios, dalla sua intrinseca illimitatezza riguardo il mondo immaginario, le emozioni e i desideri.

In altre parole, la capacità di penetrazione delle regole che presiedono alla formazione dell’individuo passa oggi attraverso dispositivi e canali tecnologici e simbolici particolarmente pervasivi e strutturanti.

Come dimostra l’illuminante testo di Stefano Calabrese, “Anatomia del Best Sellers”, nelle trame dei best seller, come in quelle delle serie tv più popolari, l’immersività delle esperienze nelle vite immaginarie dei protagonisti riproduce, attraverso una nuova fluidità dell’esperienza estetica, analogo annullamento dialettico di cui sopra, questa volta non semplicemente tra produttore e consumatore, ma più specificatamente tra lettore, autore e protagonisti.

Inoltre, sempre secondo Calabrese, la frequente fusione e sovrapposizione, operata dal marketing editoriale tra autore, narratore, protagonista e talora anche lettore, tende a creare dal punto di vista narrativologico una sorta di effetto totalizzante, un mitologema, che risulta fortemente favorevole alla creazione di “casi” letterari, che ben presto si offrono al mercato mediatico globalizzato sottoforma di narrazioni parallele nelle cosiddette fan fiction, serie tv, film, graphic novel, forum, fan art e videogiochi, etc.

L’esperienza narrativa totalizzante di un fan

Massimo (nome fittizio) è un ragazzo di 21 anni, seguito in psicoterapia da circa due anni, in genere in seduta racconta le proprie esperienze personali, familiari e sociali sullo sfondo delle sue difficoltà, originate già nell’infanzia, ma in via di risoluzione. Oggi Massimo lavora felicemente nel negozio di famiglia, ha superato molti suoi problemi iniziali e comincia a sentirsi un ragazzo della sua generazione.

Massimo però è anche un fan assiduo e informatissimo sia delle serie tv più diffuse (“Trono di Spade” su tutte, ma anche “Harry Potter”) che dei best sellers connessi. Solo una volta in ben due anni di incontri, racconterà di questa esperienza di fan e poi mai più.

Nel racconto della sua esperienza narrativa, egli apre nuovi mondi allorquando illustra, facendolo assolutamente dall’interno, il complesso sistema mediatico che presiede una serie di successo.

Seguendo il racconto in seduta di Massimo, possiamo comprendere come un fan come lui abbia la possibilità di seguire storie e personaggi della serie o del best seller preferito nei seguenti spazi:

  • Libro (o serie di libri in sequel)
  • Serie di film al cinema (alcuni best sellers diventano film e produzioni cinematografiche di successo anche in serie: “Harry Potter”, “Il Codice da Vinci”, “Twilight”, “50 Sfumature di grigio”, “Il Signore degli Anelli”, tra gli altri)
  • Serie TV (alcuni best sellers diventano serie TV. Molti autori di best sellers nascono come autori e sceneggiatori per la TV)
  • Fan fiction (spazio dedicato ai fans della serie o del libro che costruiscono storie parallele dette spin off a partire dalle trame principali. Ricordiamo che “50 Sfumature di Grigio” nasce come spin off di “Twilight”)
  • Forum dedicati ai fans (spazi di discussione nei quali i fans discutono nei diversi topic relativi a questo o quell’evento relativo a trame o dettagli di trame della serie tv o del libro. Massimo racconta delle centinaia di pagine di discussione dedicate dai fans alla frase di chiusura dell’ultimo libro di “Trono di Spade”, volutamente ambigua, per la quale non era chiaro se il personaggio accoltellato morisse o sopravvivesse)
  • Fan art (siti web dove vengono disegnati i personaggi delle serie e dei romanzi)
  • Video Recensioni (ogni episodio tv o libro viene ripetutamente recensito su Youtube)
  • Video Tributi (sono tributi e presentazioni dei vari personaggi di serie e libri, sempre su Youtube)
  • Gruppi facebook (sono gruppi dedicati ai fan di questo o quel best seller, serie, autore, film, etc)
  • Graphic Novel (versioni fumettistiche di serie e libri)
  • Cosplay (è la pratica di travestirsi nei personaggi di una serie tv o cinematografica, di un fumetto o di un libro, spesso utilizzata in riunioni e esibizioni pubbliche)
  • Fiere e presentazioni (sono occasioni pubbliche dove i fans di una certa serie o libro si possono – finalmente – incontrare dal vivo per conoscersi e scambiare opinioni)
  • Videogiochi (sono trasposizioni ludiche per consolle di giochi elettronici con gli stessi personaggi, ambientazioni e vicende di serie e libri)

Massimo si limiterà, come detto, solo una volta ad aprirsi in seduta a questi mondi articolati, per il resto del tempo ri-confinerà questa esperienza nel territorio parallelo e nascosto (una sorta di vita virtuale parallela e segreta, condivisa con pochissimi amici) dalla quale era emersa. Non prima però di confessare che il venire in possesso del fatidico e agognato sesto libro della serie “Trono di Spade” (atteso da oltre 6 anni e ancora non uscito) nella sua personale classifica esistenziale avrebbe scalzato addirittura il derby cittadino. Ed è tutto dire!

Assistiamo qui, dunque, in particolare riferendoci alla narrativa con elementi fantasy o similia (ma il discorso è facilmente estendibile a molti altri best sellers anche di genere diverso), all’esplosione di un nuovo epos partecipativo-immersivo dove troviamo alcune ricorsività delle strategie narrative, ne elenchiamo qui le principali tra tante:

  • Enfasi dei processi identificativi con i personaggi (con i correlati emotivi descritti nel paragrafo precedente);
  • Utilizzo di ambientazioni esotiche, immaginifiche, irreali, astoriche;
  • Utilizzo massiccio e ripetuto di colpi di scena emotivamente scuotenti;
  • Utilizzo massiccio e ripetuto di dettagli ambigui e di finali aperti (tali da alimentare le cosiddette “teorie” dei fans sui contenuti del testo e le loro discussioni);
  • Utilizzo di riferimenti esoterici, misteriosi, magici

Queste strategie narrative (accanto a quelle descritte da S. Keen nel precedente paragrafo sull’esperienza emotiva), ed altre ancora, attraverso strumenti di dissonanza e spiazzamento emotivo/cognitivo (specie i colpi di scena e i finali aperti), molto simili a quelli utilizzati in ipnosi per approfondire la trans ipnotica, hanno l’effetto di ingigantire a dismisura l’esperienza immersiva del lettore/spettatore e di incollarlo letteralmente alla storia, creando, attraverso il circuito mediatico, illustrato così dettagliatamente da Massimo, un cerchio chiuso tra narrazione televisiva e narrazione letteraria, che finiscono per alimentarsi e trascinarsi (anche commercialmente) a vicenda e ad assomigliarsi sempre più, ma anche, come sottolineato da Calabrese, tra personaggi immaginari e personaggi reali (gli autori, i fans, i personaggi).

L’immersività, l’enfasi empatica sul piano emotivo, poi quella identificativa su quello narrativo e l’emozionalizzazione dell’esperienza, in generale, rimandano all’uso sfrenato di un’attività immaginifica, spesso con coloriture ludico-grandiose, che molto richiamano la fenomenologia dell’organizzazione di personalità dello spettro narcisistico, per la quale la gran parte del tempo della propria intimità psichica e del proprio dialogo interiore è occupato in fantasie grandiose e di successo. Per comprendere quanto detto basti fare riferimento al personaggio di un noto film, interpretato da Ben Stiller, “Walter Mitty” (“I sogni segreti di Walter Mitty”, 2013), il quale è continuamente immerso in fantasie grandiose di successo e di avventura, in sogni vividi ad occhi aperti molto immanenti, pur avendo nella realtà una vita noiosa e piuttosto mortificata. Fino a quando un evento lavorativo lo dirige verso impreviste avventure reali.

Conclusioni

Chiudere e saldare il cerchio tra realtà ed immaginazione, tra strumenti comunicativi, tra media, tra forme di narrazione, tra lettori-spettatori-autori-editori-personaggi, tra venditori e compratori, serve in sostanza a esaltare ed imporre uno storytelling compartecipativo sulla realtà attuale che investe ogni piano dell’esperienza umana, da quella sensoriale a quella cognitiva, ogni piano della comunicazione mediatica, annullando i confini tra vita e racconto, tra verosimiglianza e verità, tra chi progetta le storie e chi le compra-legge-vede.

L’esito di questa saldatura così minuziosa e articolata tra parti e controparti, tutte partecipanti al medesimo obiettivo e nella medesima sostanza fluida e collosa, è la blindatura dell’immaginazione e dei processi culturali che a loro volta hanno come conseguenza l’omologazione dei processi creativi.

È difficile infatti immaginare un atto creativo, nell’arte come nella letteratura, senza un pensiero divergente, senza un’innovazione, un atto realmente sorprendente e inedito che emerga dall’inquietudine più o meno disciplinata dell’artista che ha dato forma comunicativa alla sua opera. La creatività senza imprevedibilità trasforma l’opera in prodotto in serie, finemente e astutamente confezionato affinché evochi una gamma altrettanto prevedibile di risposte ludiche, emotive, cognitive del consumatore che si fa egli stesso co-autore del fenomeno esperienziale in questione.

Il consumatore di best seller appare, in questa compartecipazione attiva, il prodotto di una mutazione antropologica, una creatura modificata ad arte dal marketing evoluto dei big data, tale da poter godere pienamente delle esperienza immersive, totalizzanti, emotivamente oniriche, dei propri sconfinati mondi immaginari nel rapporto coautorale e circolare costruito dal marketing emozionalizzante.

Non è solo il concetto di creatività che entra in crisi, ma anche quello di libertà, resa condizionata e colonizzata, o sfruttata, come dice Han (op.cit.) in questa epoca neoliberista avanzata. La compartecipazione circolare e pervasiva elimina ogni controparte sfruttante e rende ognuno padrone della propria schiavitù, padrone e schiavo coincidono nel nuovo soggetto detto consumatore, ipnoticamente adattato alle eternamente sovraordinate esigenze del marketing.

 

Sintomi della normalità. Mente e mentalità dell’epoca contemporanea (2021) – Recensione

Nel libro “Sintomi della normalità”, edito dalla casa editrice milanese Mimesis, l’autore Fabio Monguzzi offre, a chi scelga di leggerlo, una descrizione approfondita del mondo contemporaneo e di ciò che lo caratterizza, con una panoramica di quegli stili comunicativi che in maniera implicita e spesso automatica (da troppo tempo) sembrano imporre le azioni che ciascuno di noi si trova a compiere nel quotidiano.

 

 Introducendo un’analisi retrospettiva sotto il profilo sociologico e antropologico, vengono evidenziati quei cambiamenti nevralgici inerenti all’area tecnologica, economica e culturale capaci di offrire al lettore una nuova chiave di lettura rispetto alla quale il tempo inizia ad assumere una fisionomia capace di assorbire le nostre vere predisposizioni, sottoposte al vaglio del giudizio esterno.

L’autore pertanto, pagina dopo pagina, sembra offrire la possibilità di prendere coscienza, ma ancor più consapevolezza, circa quella responsabilità che ognuno di noi non solo dovrebbe riscoprire, ma che di contro rischia di glissarsi a favore di quelle leggi normative emanate da una società alla quale abbiamo delegato il permesso, se non il diritto, di privarci della nostra parola. Soppiantata da regole socio culturali in grado di insinuarsi nella propria sfera intima e privata. Influenzando le nostre relazioni, il proprio modo di stare con noi stessi e ancor più il nostro stile comunicativo. Eliminando quel dialogo interiore che purtroppo rischiamo pian piano di perdere, di dimenticare. Ma che più di ogni altra cosa caratterizza la nostra autenticità.

A ciascuno di noi spetterebbe dunque il gravoso compito di non cedere a quella pigrizia linguistica dove tutto è già stato scelto, bensì di dar vita a quelle creature viventi, dalle quali non dovremmo mai smettere di lasciarci guidare.

Il cambiamento linguistico dunque sembra riflette non solo un mutamento storico e al contempo cognitivo, piuttosto uno stile unilaterale connotato da una scarsa attitudine a saper andare oltre quello che automaticamente viene fornito sotto forma di risposta. Confermando in tal modo la presenza di uno stato mentale privo di quella autenticità in grado di farci scegliere cosa sia realmente idoneo alla nostra persona.

Un grande contributo sembra peraltro provenire da un tempo non troppo lontano dal nostro, rispetto al quale una persistente afasia caratterizza e deteriora sempre più le nostre capacità comunicative che, se un tempo erano adornate di “un gergo ricco di invenzioni quasi poetiche a cui contribuivano tutti giorno per giorno, una parola imprevista era il preludio di una meravigliosità linguistica”, oggi al contrario sembrano dover fare i conti con l’imprevedibilità (Pasolini, P, P., 1975). Secondo l’autore quest’ultima altro non rappresentava se non una chiave in grado di promuovere il giusto equilibrio tra il senso di stupore e la curiosità per il mistero; che seppur non conosciuto rappresentava tuttavia qualcosa verso cui rivolgere uno sguardo privo di schemi prestabiliti. La realtà secondo Pasolini era il frutto di una rappresentazione simbolica ove il concetto di limite sembrava non intaccare la propria economia psichica.

Oggi, al contrario, la predisposizione all’imprevedibilità sembra non trovare una sua collocazione all’interno della normale vita quotidiana, poiché sembra aver ceduto il posto ad un controllo eccessivo in cui le nostre emozioni, le nostre relazioni e ancor più il proprio modo di dar vita alle parole che ci abitano, rischiano di sgretolarsi in funzione di un predominio esterno alla nostra natura autentica.

L’automatismo linguistico rischia così di essere adornato di quella normalità che secondo l’autore può sancirne l’esistenza, legittimando così il suo uso distorto, perverso e privo di quella spinta che oggigiorno si scontra con una censura poco disposta a spendere qualche parola in più!

 Allo stato attuale dunque il linguaggio sembra aver perso quella profondità e quella unicità quali validi promotori di emozioni, sentimenti e vissuti esperienziali in sintonia con quanto di più profondo ci abita. Il linguaggio parlato e scritto sembrano aver vissuto un radicale cambiamento, poiché quello che più ci caratterizza si trova a fare i conti con “i codici di significato automatici socialmente accettati” (Monguzzi, F., 2021). Ciò significa che le modalità espressive si trovano incanalate in quei vettori unilaterali e sempre pronti a tradurre il loro contenuto sulla base delle richieste provenienti dall’esterno; uno spazio (quest’ultimo) che sembra soppiantare le “connotazioni soggettive”. Questa funzione, dunque, sembra essersi tramutata in un fragile mezzo attraverso il quale comunicare non tanto quello che realmente sentiamo di esprimere, quanto piuttosto rispondere automaticamente e in maniera prevedibile dinanzi a quanto ci si aspetti di sentire dal nostro interlocutore. Uniformare il linguaggio a leggi che ne governano l’espressività significherebbe impoverirlo della sua più autentica natura, del suo reale valore a discapito di una “rappresentatività emotiva” soffocata da un limite da seguire, e di fronte al quale la nostra predisposizione non risentirebbe del valore che le compete. Significherebbe dunque cedere ad un atteggiamento socio culturale che sembra racchiudere delle norme comportamentali e comunicative da seguire inderogabilmente (Monguzzi, F., 2021).

Qual è il rischio principale?

Secondo l’autore quello di farsi rappresentare da qualcosa che non ci appartiene, di delegare a qualcuno all’infuori di noi il senso di appartenenza, escludendo a priori la possibilità di entrare a contatto con le nostre emozioni più autentiche. Nondimeno i nostri automatismi linguistici rischiano di innescare una rigidità mentale correlata peraltro ad una scarsa capacità simbolico-rappresentativa, connotata ad una carenza nell’attribuire un significato alle proprie esperienze, soffocate da un vero e proprio “linguaggio di copertura” (Monguzzi, F., 2021).

Un fenomeno sempre crescente e accompagnato da una solitudine della parola attraverso la quale attingere un contenuto immaginifico diviene impossibile. Quest’ultimo infatti non solo rispecchia una risorsa, ma descrive una chiave di lettura in grado di fare del linguaggio stesso un ventaglio di valenze metaforiche e analogiche.

Secondo le figure di Jung ed Hillman, infatti, immaginare vuol dire attivare quell’energia ancestrale capace di allontanarci dalla superficie nella quale siamo soliti sostare (Jung, C, G., 2014; Hillma, J., 2019).

Purtroppo le stesse capacità immaginative che dovrebbero nutrire ciò che più ci caratterizza, risultano ad oggi soppiantate da un insieme di rappresentazioni esterne alle quali ciascuno di noi sembra affidare il proprio valore, facendo dei modelli e delle relazioni culturalmente accettabili una dipendenza di fronte alla quale la propria parola non conta più nulla. Dove il pensiero e la riflessione subiscono un’inversione di rotta a favore di un condizionamento normativo al quale paradossalmente siamo obbligati a rispondere.

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