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L’anoressia come stile di vita: il movimento Pro-Ana

Negli ultimi decenni, è sorto un nuovo preoccupante fenomeno che ha  visto come protagonisti i disturbi alimentari e le persone da essi affette: il movimento Pro-Ana.

Anoressia e movimento Pro-Ana

 Il movimento Pro-Ana, promosso esclusivamente in uno spazio virtuale, ha come obiettivo l’assidua ricerca di raggiungere un target di peso molto basso. Questa aspirazione è percepita come l’unica modalità di conseguimento della perfezione e dell’eccellenza, sia dal punto di vista corporeo che spirituale. Dunque l’anoressia è percepita dai partecipanti del movimento come un vero e proprio stile di vita piuttosto che come un disturbo; essa è una dimostrazione di forza e non la manifestazione di una problematica di salute mentale e fisica. Secondo uno studio condotto da Hoffmann nel 2018, la prima ondata relativa al movimento si sarebbe sviluppata intorno al 2001, quando sono nati i primi portali “pro-life” (specialmente in lingua inglese), il cui obiettivo primario era quello di permettere alle persone affette da anoressia nervosa di comunicare con altri pazienti e fronteggiare la solitudine.

Secondo uno studio pubblicato nel 2012 da Peebles e colleghi, internet sarebbe stato lo spazio che avrebbe maggiormente favorito lo sviluppo del movimento, infatti è stato osservato come il suo radicarsi sia stato possibile anche grazie all’utilizzo di social media, blog e forum online. Inoltre, la possibilità di poter condividere la problematica con altre pazienti e la glorificazione del disturbo non hanno fatto altro che intensificare le manifestazioni di esso e renderne complicato il trattamento. Infatti, come osservato da Bates nel 2015, queste pagine contengono consigli per perdere peso, per la cura del corpo e su come nascondere il proprio digiuno, il che non ha fatto altro che intensificare l’associazione che i pazienti fanno tra anoressia nervosa e stile di vita, piuttosto che tra anoressia nervosa e patologia.

Contrastare il movimento Pro-Ana

Per contrastare la ancora più estesa ascesa di questo movimento, le organizzazioni che promuovono la lotta contro i disturbi alimentari, iniziarono a richiedere la chiusura dei siti pro-ana; tuttavia, questa azione ebbe l’effetto opposto ed essi acquistarono notorietà. È stato stimato come tra il 2005 e il 2010 fossero quasi undici milioni i visitatori regolari di questi siti, di cui il 99% donne di età compresa tra i 12 e i 40 anni (con un picco tra i 13 e i 25). Secondo quanto riportato da uno studio di Csipke e Horne, pubblicato nel 2007, dando uno sguardo a questi portali, è possibile osservare come il mondo di internet rappresenti una vera e propria opportunità per le pazienti per scambiarsi consigli e strategie: infatti, all’interno di questi siti è possibile trovare delle sezioni, ognuna dedicata ad un’area specifica, tra cui come trovare un compagno di dieta oppure partecipare ad un contest per mettersi alla prova o trovare dei veri e propri “tips and tricks”. Sono inoltre presenti numerose sezioni contenenti fotografie di modelle e attrici estremamente magre, con l’obiettivo di stimolare e incoraggiare le partecipanti ad intraprendere una dieta estrema.

Perché vengono utilizzati i siti Pro-Ana?

 Il crescente interesse per questi siti da parte delle giovani donne, anche non affette da un disturbo alimentare, ha portato ad interrogarsi su quali fossero i fattori concorrenti all’utilizzo di essi. Nel 2016, grazie ad uno studio condotto da Yom-Tov e colleghi, sono stati evidenziati i tratti più marcati di alcuni utenti del sito myproana.com, ovvero quello maggiormente utilizzato in tutto il mondo, che si sono prestati a partecipare ad una ricerca volta all’individuazione di differenze tra stato fisico e mentale e comportamento online delle persone coinvolte nelle comunità pro-anoressia. Il campione finale dello studio comprendeva 761 soggetti e dai risultati è stato possibile osservare che il più del 45% degli utenti aveva ricevuto una diagnosi di disturbo depressivo, più del 77% aveva messo in atto comportamenti volontari autolesivi, il 46% aveva tentato il suicidio almeno una volta; solo poco più del 7% riportava di essere sottoposto a trattamento per almeno un disturbo. Studi comparativi con altri siti web, hanno tuttavia mostrato che gli utenti di myproana.com rappresentano il campione meno a rischio, con un buon interesse per una possibile terapia. Altri studi si sono concentrati sull’auto-percezione dell’utilizzo di questi portali da parte degli utenti e oltre che una marcata self-consciousness per quanto riguarda la propria malattia e l’impatto che l’uso di questi siti hanno avuto su di essa (“the problem is the user, not the site”), sono emersi 4 temi principali in risposta alla domanda “In che modo i siti pro-ana contribuiscono ai disturbi alimentari?”.

  • I siti pro-Ana e i disturbi alimentari non riguardano solo la volontà di essere magri
  • I disturbi alimentari si sviluppano indipendentemente dai siti pro-Ana
  • I siti pro-Ana non causano i disturbi alimentari ma possono fungere da trigger o incoraggiamento
  • I siti pro-Ana forniscono supporto (Hilton, 2018).

Conclusioni

Gli utenti intervistati tendono dunque a fare una distinzione tra l’utilizzo dei siti Pro-Ana e lo sviluppo di un disturbo alimentare, affermando che la frequentazione di questi portali non è la causa dell’esordio del disturbo. Tuttavia, gli stessi utenti riconoscono che l’accesso può innescare o incoraggiare la predisposizione a un’alimentazione disordinata.

Frequentemente gli utenti riportano di aver ricevuto supporto all’interno di queste community anziché pericolosi incoraggiamenti. La necessità di un senso di comunità, di un ambiente “sicuro” e di supporto che altrimenti manca nelle loro vite, porta alla negazione dei rischi di questi siti in favore di un utilizzo più frequente.

Questi dati potrebbero aiutare i professionisti a implementare ed affinare gli interventi terapeutici con chi soffre di disturbi alimentari o è a rischio di svilupparli. Sebbene le linee guida citino alcuni approcci di comprovata efficacia quali la CBT-ED, la ricerca può comunque aiutare a sviluppare trattamenti più mirati. In questo caso, ad esempio, l’aver raccolto informazioni sul movimento pro-ana dal punto di vista degli utenti, può aiutare i professionisti a focalizzarsi su ulteriori aree di approfondimento e lavoro terapeutico quali la tendenza a vedere il problema come qualcosa di diverso dal bisogno di utilizzare i siti pro-ana e l’importanza di trovare supporto e comprensione non sentiti invece nella vita off-line (Hilton, 2018).

 


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L’arte di amare, di Erich Fromm – Recensione

Il quesito di partenza di Fromm nel volume “L’arte di amare” è: “è l’amore un’arte?”. La risposta –spoiler– è affermativa.

 

 La nostra società è una società liquida, ha detto Zygmunt Bauman alla fine degli anni ’90, e con essa sono diventate liquide anche le nostre vite, i nostri sentimenti e l’amore, il quale sembra ormai essere un qualcosa di inconciliabile con i dettami del vivere quotidiano, dove la stabilità e la sicurezza sembrano aver ceduto il passo a un ineluttabile cambiamento continuo, spesso confuso con un illusorio desiderio di libertà privo di legami.

Erich Fromm –psicologo, filosofo e accademico tedesco– con una certa dose di lungimiranza pubblicò nel 1957 “L’arte di amare”, uno dei saggi più significativi della sua produzione accademica. Nel saggio si scagliava e condannava già allora la concezione moderna di amore e le attuali forme di pseudo-amore, smascherando l’errore della percezione comune che lo confonde con un sentimento limitato alla transitorietà dell’esperienza dell’innamoramento e della sensazione di essere desiderati e presentando, al contrario, la sua personale idea di amore come una vera e propria forma d’arte da apprendere e coltivare con impegno, pazienza e dedizione.

Per approcciarsi a questa lettura è utile fare una premessa sulla necessità di contestualizzare un’opera che è indubbiamente “figlia del suo tempo”. Sebbene il contenuto sia valido e comprensibile, Fromm –uomo bianco, appartenente alla classe media, privilegiato e conservatore– può rappresentare alcuni clichés del Novecento. Grandi opere della storia possono oggi essere considerate discutibili per la morale e le tematiche che toccano, ma ciò non toglie che esse costituiscano una parte fondamentale e totalmente naturale dell’evoluzione accademico-letteraria. Pertanto, onde evitare di abbandonare anticipatamente una lettura o di trasportarci dentro le visioni odierne, è necessario tenere conto del periodo in cui è stata scritta e contestualizzarla nella maniera più completa e informata possibile così da poterne apprezzare meglio il valore.

Il quesito di partenza di Fromm è: “è l’amore un’arte?”. La risposta –spoiler– è affermativa, nella prospettiva in cui amare non è un’attitudine innata o una semplice predisposizione personale, ma è un qualcosa da apprendere attraverso un’attenta analisi e assimilazione della “teoria” e un esercizio pratico continuo e consapevole.

“L’arte di amare” non è un romanzo né una storia d’amore, bensì un manuale e una guida in cui l’autore, piuttosto che soffermarsi su come farci amare o come diventare attraenti nei confronti di qualcuno, ci spiega come amare partendo da noi stessi e dai nostri valori più radicati.

Apparentemente, Fromm sembra dunque spogliare l’amore della sua tipica irrazionalità. Ma in realtà egli mostra una visione dell’amore che rappresenta la modalità più alta e pura cui l’individuo può tendere per esprimere pienamente la propria potenza interiore e affettiva.

Punto iniziale dell’esposizione teorica dell’autore è l’idea che l’amore sia una modalità di riparazione a un senso di solitudine insito e immanente nell’essere umano. Con la nascita, infatti, l’individuo sperimenta la separazione dal corpo materno e si ritrova catapultato in un destino di incertezze. L’amore, in quanto fusione con un’altra persona, risulta essere la migliore soluzione a questa condizione, purché consista in un’unione non-simbiotica, in cui ogni essere riesce a conservare la propria integra individualità.

 Di tutte le forme in cui tale unione può svilupparsi e manifestarsi, Fromm sottolinea che l’amore non è una forma di passività ma prima di tutto di attività: amare è dare. Ma non ci si ferma qui, altrimenti saremmo tutti dispensatori d’amore. Per ognuno che dona deve necessariamente esserci qualcuno che riceve e che, allo stesso modo, dà, generando un ciclo reciproco di premura, responsabilità, rispetto e conoscenza. Si tratta di un percorso che passa imprescindibilmente attraverso l’amore per sé stessi, ma che allo stesso tempo è lontano dall’egoismo: chi ama solo sé stesso o chi ama solo gli altri, infatti, non può amare pienamente.

Fromm esamina e passa in rassegna diversi tipi di legame, da quello materno, a quello fraterno, a quello erotico, a quello sentimentale, a quello religioso e spirituale, e dedica poi una ricca digressione anche alla condizione di alienazione cui l’uomo contemporaneo in Occidente è soggetto. Sostiene che dalle personalità alienate dei secoli odierni l’amore scaturisca come soddisfazione reciproca e come cooperazione di intenti e interessi contro l’ostilità del mondo e il rischio dell’isolamento, concorrendo a una delle peggiori forme di disgregazione dell’amore autentico, maturo e sano.

Nonostante ciò, Fromm conclude il trattato in maniera positiva sostenendo che, se è vero che nella società occidentale contemporanea l’amore perde la sua vera essenza, è anche vero che – considerandolo come un’arte che si può imparare – c’è ancora speranza per invertire la rotta.

Il modo migliore per affinare un’arte è indubbiamente quello di praticarla in prima persona. Con questa lucida consapevolezza, sapendo di non poter fornire specifiche istruzioni per un’esperienza così personale, l’autore si limita allora a considerare l’importanza della disciplina, della pazienza e della concentrazione come fattori basilari da praticare in ogni fase della vita. Essi esigono un lavoro di meditazione e riflessione esplorativa non-egoistica sul proprio “io” per scoprirsi come centro del mondo, imparare ad ascoltarsi e avere fede in sé stessi, perché solo così si può riuscire a sviluppare una relazione matura, sana ed equilibrata, che sappia rompere i vincoli del proprio narcisismo per incardinarsi sull’autenticità, l’ascolto e la vera fiducia reciproca.

Il trattamento cognitivo comportamentale per la Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS)

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS) è un disturbo psicosomatico gastrointestinale basato sulla connessione diretta fra cervello e intestino. In che modo la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) si è rivelata efficace?

 

 Una recente revisione della letteratura (Sugaya et al., 2021) ha sistematizzato i meccanismi e le procedure specifiche attraverso cui la terapia cognitivo comportamentale (CBT) otterrebbe un effetto positivo sul trattamento della sindrome dell’intestino irritabile (IBS).

Che cos’è la Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS)

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS) è uno dei disturbi funzionali gastrointestinali più comuni, al punto che le ricerche ne stimano la prevalenza al 5-10% nella popolazione generale (Palsson et al., 2016). Per darne una definizione diagnostica (Drossman, 2016), si tratta di un ricorrente dolore addominale che, in media, si verifica per almeno un giorno a settimana nel corso degli ultimi tre mesi e che, in associazione, presenta almeno due delle seguenti tre anomalie:

  • Legate alla defecazione;
  • Cambiamento nella frequenza della defecazione;
  • Cambiamento nell’aspetto delle feci.

A livello patogenetico e fisiopatologico, i fattori alla base dell’origine e del processo di questo disturbo sono molteplici e di varia natura:

  • Anomalie nella motilità gastrointestinale;
  • Abbassamento della soglia sensoriale gastrointestinale;
  • Alterazioni psicologiche, come ansia o depressione.

Ognuno di essi costituisce un’alterazione nella funzionale relazione tra cervello e intestino. Poiché la sindrome dell’intestino irritabile è un disturbo psicosomatico gastrointestinale che spesso si sviluppa con lo stress, è importante trattarlo sia dal punto di vista fisico che mentale (Fukudo et al., 2021). Le linee guida, infatti, suggeriscono l’utilizzo di terapie psicologiche per i pazienti che non rispondono alla terapia farmacologica standard (Hookway et al., 2015). Anche se molteplici sono gli interventi psicologici rivelatisi efficaci nella cura dell’IBS (esercizi di rilassamento, ipnosi, psicoterapia psicodinamica; Ford et al., 2019), quello cognitivo-comportamentale (CBT) è stato quello più studiato per il trattamento di questa patologia (Sugaya et al., 2021).

Il protocollo cognitivo-comportamentale

Dal momento in cui gli studi riportano che i pensieri e i comportamenti associati ai sintomi dell’IBS sono legati a emozioni negative, prime fra tutte ansia e depressione (Sugaya et al., 2012; Windgassen et al., 2019), la CBT è stata più volte testata rispetto alla capacità duplice di accertare i target comportamentali e di ristrutturare le basi cognitive associate ai sintomi. Come enucleato da Toner (et al., 1998), il principale obiettivo della CBT nel trattamento dell’IBS è quello di intervenire sul modo in cui il paziente vede il suo disturbo attraverso un processo a tre fasi:

  • Riformulare la sua visione dell’IBS da una prospettiva impotente e senza speranza ad una fiduciosa e agente, dove il paziente sente di avere il controllo sui sintomi;
  • Identificare la relazione tra pensieri, sentimenti, comportamenti e sintomi, al fine di comprendere come le cognizioni abbiano un ruolo determinante nel causare le reazioni emotive e comportamentali tipiche dell’IBS;
  • Individuare e implementare strategie di coping più efficaci per migliorare la qualità di vita.

 A giustificare l’utilità clinica di queste procedure è il fatto che, come evidenziato da una recente meta-analisi (Sarter et al., 2021), le caratteristiche cognitivo-emotive dei pazienti con IBS prima del trattamento (come comorbidità con disturbi dell’umore o disturbi d’ansia, catastrofizzazione dei sintomi, rimuginio, tendenza ad amplificare le percezioni somato-sensoriali, scarsa accettazione dei sintomi e basso senso di autoefficacia) sono in grado di predire gli esiti terapeutici negativi dei pazienti con IBS. Pertanto, accertare e riformulare il funzionamento psicologico che fa da fattore di vulnerabilità e di mantenimento alla cronicità della sintomatologia IBS è fondamentale. Per far ciò, la CBT utilizza un ampio armamentario di tecniche terapeutiche (Lackner et al., 2019).

Tecniche cognitive

La psicoeducazione informerebbe il paziente circa i meccanismi di interazione cervello-intestino e le strategie per la prevenzione delle ricadute. Parallelamente, il controllo della preoccupazione e del rimuginio sarebbero utili a sfidare e confutare i modelli di pensiero distorti che li sorreggono

Esposizione

Le tecniche di esposizione si sono rivelate particolarmente adatte ai pazienti che presentano alti livelli di evitamento comportamentale associato ai sintomi IBS (Hesser et al., 2021). L’esposizione enterocettiva consiste nell’invitare il paziente a esporsi ai fastidiosi sintomi addominali che lui stesso ha indotto (ad esempio, stringendo i muscoli addominali o assumendo cibi che andrebbero evitati). Questa tecnica sembra si sia dimostrata efficace nel ridurre l’ansia in risposta al disagio addominale comune nell’IBS (Craske et al., 2011; Kawanishi et al., 2017). Attraverso questa procedura, infatti, il paziente da un lato scoprirebbe di avere il controllo sui sintomi temuti, perché può crearli da solo, dall’altro comprenderebbe che tali sintomi non portano per forza alle conseguenze catastrofiche immaginate.

Gestione dello stress

La CBT utilizza strategie di problem solving flessibile che aiutano il paziente a sviluppare modalità più efficaci per gestire i fattori di stress in modo realistico e non catastrofizzante. In questa direzione, l’auto-monitoraggio gastrointestinale può essere utile nella fase iniziale per accertare razionalmente i sintomi, i loro antecedenti (triggers) e le loro conseguenze emotive e comportamentali.

Mindfulness

Praticare esercizi di mindfulness insegnerebbe al paziente ad accettare le emozioni negative che conseguono l’insorgenza dei sintomi gastrointestinali, senza cercare di eliminarle in maniera evitante e controproducente (Billones e Saligan, 2020).

Conclusioni

Le considerazioni formulate rinnovano la comprovata efficacia della CBT nel trattamento dell’IBS. Recenti studi, affermando che la CBT avrebbe un effetto diretto sui sintomi gastrointestinali dell’IBS, in modo indipendente dall’effetto sortito sul disagio psicologico del paziente, suggeriscono che è la riduzione della sintomatologia IBS a migliorare il malessere psicologico, piuttosto che viceversa (Lackner et al., 2007). Allo stesso modo, i risultati di una recente meta-analisi a proposito degli effetti della CBT sul trattamento IBS hanno ugualmente riportato una maggiore efficacia della psicoterapia sui sintomi addominali rispetto a quelli psicologici (Radu et al., 2018). In questo senso, è interessante notare come l’intervento cognitivo e comportamentale nel funzionamento della patologia IBS promosso dalla CBT possa contribuire al miglioramento dei sintomi addominali attraverso il coinvolgimento diretto nel processo di correlazione cervello-intestino alla base dell’IBS, alleviando così il disagio psicologico ansioso e depressivo (Sugaya et al., 2021).

TikTok fra creatività e psicopatologia

Tik Tok, quanta energia, quanta velocità, persino la politica ne approfitta, eppure in fretta scopri quanto è fragile il mondo.

 

Tik Tok e gli altri social network

 Osservando i social network, in un attimo balza agli occhi quanto siamo intrappolati in una bolla illusoria di felicità che si finge evoluta. Grandi risorse che ci agevolano e ci accompagnano, offrendoci anche enormi vantaggi, spesso le piattaforme social non solo segnalano, ma soprattutto stimolano vulnerabilità̀ psicologiche. Si osserva una dilatata vulnerabilità̀ narcisistica.

Osservando i contenuti proposti dai tiktokers, spiccano sicuramente profili creativi e talentuosi, ma al contempo si evidenziano caratteristiche di egocentrismo e problematiche legate alla propria immagine, disagi di tipo psicopatologico e/o difficoltà relative all’identità̀ con fenomeni di dismorfismo, vuoto, chiusura a causa di evidenti difficoltà relazionali e interpersonali, meritevoli di attenzione (Zenone & Barbic, 2021).

Nell’ambiente virtuale si tenta di supplire alle frustrazioni della vita quotidiana e alle palesi crisi esistenziali con personaggi virtuali dissociati dal mondo. Tali profili vengono poi rinforzati dagli utenti e da coloro che, anche solo in un circolo di curiosità̀ e noia, rafforzano la credenza di specialità̀ del creator mantenendone alta la popolarità̀, creando così modelli di indubbia vulnerabilità̀ psicologica. Un fenomeno, questo, già̀ osservato nello showbiz televisivo, ma qui fortemente condizionato da un habitat virtuale che sembra aggravarne l’intensità̀ e legittimare la presenza di comportamenti e performance di dubbio valore, sostenute da un atteggiamento collettivo di tipo disfunzionale (Nesi, 2020). Attraverso i social l’influenza di alcuni atteggiamenti si mostra più̀ virale, colpisce, appassiona, distorce, e talvolta stordisce!

Appare certamente interessante osservare il fenomeno attraverso una chiave di lettura socio-psicologica profonda, ma anche la più̀ semplice delle osservazioni rileva la presenza di un riverbero di grande sofferenza collettiva, una crisi globale che riflette un generale collasso valoriale, una ricerca spasmodica di approvazione (Meno & Leung, 2021) e stati depressivi in risposta (Sia & Dong, 2021).

Si osserva inoltre il potere quasi ipnotico di video e immagini che sembrano innescare stati dissociativi della coscienza, di fuga dalla realtà, rappresentando un rischio per i più giovani che tendono a riconoscersi in una vetrina virtuale, caratterizzata da apparente competenza e illusorio successo, che stimola alternativamente emulazione o sentimenti di esclusione e inadeguatezza (Zanon et al., 2002). Il fenomeno dominante sembra essere una continua affermazione personale legata a doppio filo alla ricerca del consenso da parte degli altri, ma non di altri che siano significativi per il soggetto che fa uso dei social, bensì di una massa indistinta, che rinforzi la dilagante fantasia di potere e riconoscimento universale (Kristinsdottir et al., 2021). Nell’affannosa ricerca di riconoscersi in quanto degni di attenzione e stima, i social catalizzano dunque un massiccio investimento sul tema del valore personale: per essere qualcuno devi essere riconosciuto, speciale, grandioso, a discapito della semplicità e autenticità dei rapporti affettivi. Una forte sociotropia secondo cui l’autostima e la propria identità necessitano costantemente di essere validate dagli altri, in modo indifferenziato (Casale e Banchi, 2020). Quasi non importa più l’essenza di chi sei ma ciò che lo sguardo degli altri riflette su di te, fino al punto in cui tutto si riduce a un “basta che funzioni e che i follower approvino”! (McNamee et al., 2021). Nella smaniosa ricerca del consenso e dell’autoaffermazione, dunque, diventa importante che ci si riconosca senza etichette, senza riferimenti o canoni standard da indossare, con la conseguenza di generare l’effetto opposto, che si traduce in una creazione di modelli pericolosi e molto meno inclusivi di quello che, di primo acchito, appare.

Social network e influencer

 In questo complesso panorama si inserisce il tanto osannato concetto di influencer, che conferma il bisogno di riconoscimento e sancisce la saldatura fra auto-affermazione e consenso come presupposto per riconoscersi, in una modalità̀ che rende il soggetto succube dell’opinione pubblica. Credenze quali “Se gli altri mi riconoscono un certo valore, allora valgo qualcosa!”, oppure “Se lei così riconosciuta si comporta così, allora vuol dire che funziona e lo faccio anche io”, e ancora “se gli altri mi vedono, allora esisto” riflettono senza ambiguità̀ tale saldatura. La visione qui delineata a proposito dei comportamenti socio-psicologici potrebbe essere valutata come troppo critica: sembra demonizzare e svalutare un’idea di progresso, mentre molti risultano essere i vantaggi connessi ai social media come la velocità comunicativa, la condivisione, il potere educativo, altruistico e di solidarietà. In molti casi, si incontrano profili interessanti e attenti alle diverse sensibilità e/o di evidente talento artistico/comunicativo, con un fine collettivo molto potente che solo attraverso questi strumenti può arrivare a toccare fasce di comunicazione importanti, come vertici politici altrimenti inarrivabili. Si riscontra un sempre più̀ largo uso di tali mezzi comunicativi che difatti vengono utilizzati da tutte le categorie, dalla psicologia, all’economia e, ultima tra tutti, dalla politica. Proprio poco tempo fa, in piena campagna elettorale, uno dei più importanti esponenti politici decide di aprire un account su Tik Tok: cambia dunque il modo di fare propaganda per cercare di creare un punto di contatto con un elettorato più giovane, entrando così a far parte di un mondo che sembra ormai invalicabile con i tradizionali mezzi comunicativi.

Tuttavia, osservando i vari profili connessi a Tik Tok non si può non registrare una generale tendenza verso condotte talvolta di cattivo gusto, noiose, irrispettose, vuote. Si osserva prontamente la presenza di fenomeni psicopatologici che meritano attenzione clinica e segnalano un rischio in termini educativi e psicologici (Montag et al., 2021). Molti ragazzi infatti passano gran parte del loro tempo assorti a seguire personaggi labili e fragili che esibiscono condotte egocentriche e prive di senso; si perdono e si chiudono in questo mondo virtuale, che simula il contatto sociale, senza investire in attività sane e produttive, alimentando di conseguenza quella che è la noia e il disinteresse per ciò che è reale (James et al., 2017).

Inoltre, aspetto questo più preoccupante, tale fenomeno ha luogo anche presso la popolazione adulta (Perlis et al., 2021) e nei genitori che, confusi e attoniti, cercano di partecipare per ristabilire un canale comunicativo con i propri figli e per capire il senso di queste evoluzioni virtuali, ma che alla fine, quasi senza accorgersene, entrano a far parte del gioco rimanendone stupefatti e vittime.

Conclusioni

I molteplici studi in corso (per esempio, Kong et al., 2021) aprono dunque all’idea che strumenti come Tik Tok possono rivelarsi polimorfi, perché permettono una duplice analisi della realtà: da un lato si evidenzia il loro indubbio impatto sull’evoluzione sociale, che sta via via determinando un differente approccio dei giovani alle relazioni con se stessi e con gli altri, e dall’altra parte, si osserva quanto e come tale cambiamento comunicativo stia contribuendo ad aprire uno scorcio sulla realtà personale degli utenti, fungendo così da lente d’ingrandimento su paradossi psico-sociali, evoluzioni e cambiamenti.

Da queste osservazioni preliminari potrebbe essere contemplata l’idea di sfruttare la piattaforma social anche a scopi clinici di osservazione e studio: grazie ai contributi degli utenti sotto forma di video e visual è infatti possibile tratteggiare gli aspetti della personalità in relazione ai cambiamenti e ai canoni sociali di riferimento, valutando aspetti profondi della persona che spesso, e paradossalmente, si tende a nascondere nella vita quotidiana.

Il complesso edipico secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale di Freud

Attraverso la rinuncia alle ambizioni edipiche e l’interiorizzazione dei valori genitoriali, il bambino impara a dirigere la libido dai genitori all’esterno (nella fase fallica il bambino si avvicina alla maturità sessuale della fase genitale, cioè dell’età adulta) superando il complesso edipico

 

Lo sviluppo psicosessuale nella teoria freudiana

 Secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud, lo sviluppo della pulsione sessuale richiede il passaggio della libido (energia associata alla pulsione) attraverso cinque fasi biologicamente determinate. Gli organi la cui stimolazione produce piacere e la cui attività permette di alleviare la tensione definiscono le tappe dello sviluppo psicosessuale. 

Il complesso edipico rappresenta il conflitto che caratterizza la fase fallica (compresa tra i 2 anni e mezzo circa e i 5/6 anni di età) che ha come zona erogena l’area genitale. Difatti, ogni fase è caratterizzata da un conflitto da superare e il conflitto determina il passaggio alla fase successiva: il conflitto si crea perché la soddisfazione della pulsione sessuale associata alle fasi pregenitali è non conforme o adatta alle leggi e alle convenzioni della società civile (la sessualità infantile ha le caratteristiche delle perversioni). 

Il complesso edipico

Nel complesso edipico, le fantasie del bambino esprimono il desiderio sessuale verso il genitore di sesso opposto e sentimenti di rivalità aggressiva e antagonismo nei confronti del genitore dello stesso sesso (vissuto come un rivale). Il bambino vuole eliminare la minaccia rappresentata dal rivale (il genitore dello stesso sesso) attraverso la castrazione e formula l’ipotesi che il padre voglia punirlo nello stesso mondo. Ciò provoca nel bambino l’angoscia da castrazione. 

L’angoscia da castrazione porta il bambino alla rinuncia delle sue ambizioni edipiche e all’interiorizzazione dei valori genitoriali.

Attraverso la rinuncia alle ambizioni edipiche e l’interiorizzazione dei valori genitoriali, il bambino impara a dirigere la libido dai genitori all’esterno (nella fase fallica il bambino si avvicina alla maturità sessuale della fase genitale, cioè dell’età adulta). 

Possiamo osservare che, nella concettualizzazione del complesso edipico, Freud abbia pensato ad un bambino di sesso maschile, perché è più complesso spiegare l’angoscia da castrazione nelle bambine, cosa che costituisce un punto di debolezza di questa teoria. Presupponiamo però che l’angoscia derivata dalla paura della punizione del genitore dello stesso sesso sia esperienza di tutti i bambini. 

Nella teoria freudiana la fase del complesso edipico rappresenta la tappa più importante all’interno dello sviluppo psicosessuale nel formarsi della personalità, della salute mentale o delle nevrosi. 

La risoluzione del conflitto edipico

 Secondo Freud, la risoluzione del complesso edipico porta alla formazione dell’Io e del Super Io, cioè di strutture stabili e coerenti che costituiscono la mente e che consentono all’essere umano una vita adatta ad una vita civilizzata. Nasciamo secondo Freud con una capacità di pensiero primario basata sul principio di piacere e solo con lo sviluppo attraverso il principio di realtà sviluppiamo un processo secondario, un pensiero logico, razionale, su cui si basano le strutture solide e coerenti dell’Io e del Super Io. 

In particolare, l’io è un’istanza psichica che opera secondo il principio di realtà e che consente di organizzare e rendere accettabili gli aspetti dell’Es. Trasforma in realistici gli obiettivi, gli oggetti e le direzioni dell’Es. Si può definire come un insieme di funzioni regolatrici e armonizzatrici che tengono sotto controllo gli impulsi e le spinte pulsionali dell’Es. Quando queste funzionano bene

  • consentono all’individuo di non agire impulsi e desideri che potrebbero nuocere al benessere dell’individuo e della società
  • permettono di contenere i desideri perturbanti e l’affetto associato

Il Super Io è l’internalizzazione individuale di principi, regole, convenzioni della società. Questi principi sono assimilati in primo luogo attraverso i genitori. L’interiorizzazione di una serie di rappresentazioni cognitive emotive (credenze valori proibizioni atteggiamenti norme) legate ai rapporti precoci con le figure genitoriali. È un sistema di valori e ideali appresi e si divide in due sottosistemi:

  • coscienza (deriva dalle punizioni genitoriali)
  • Io ideale (deriva dalle gratificazioni e dai rinforzi genitoriali)

La funzione principale del Super Io è inibire gli istinti pulsionali dell’Es e convincere l’Io a sostituire obiettivi morali e perseguire la perfezione (standard elevati).

Tutto lo sviluppo psicosessuale di cui parla Freud protende alla socializzazione, cioè lo spostamento della libido da sé stessi agli altri. Il compito dello sviluppo evolutivo è trasformare il bambino con impulsi animaleschi in un adulto sano con un apparato psichico complesso e un sistema di controllo dei propri impulsi strutturato e funzionale, trasformare quindi la sessualità immatura in sessualità matura, passare da una libido narcisistica ad una libido oggettuale, spostare la libido da sé agli altri. 

Il metodo biografico come formazione, cura e filosofia (2022) di Romano Màdera – Recensione

Facente parte della collana Saggi di Raffaello Cortina Editore, il volume di Màdera “Il metodo biografico” spiega cosa intende l’autore parlando di metodo biografico e del caos esistenziale che prende forma partendo dall’esistenza stessa con sfumature personali ed emotive.

 

 Dedicato al grande pubblico che si interessa di riflessioni filosofiche, caratterizzato da un linguaggio specifico e concetti alle volte complessi in una narrazione biografica che aiuta il lettore a disegnare il filo conduttore.

Il volume “Il metodo biografico” è composto da cinque capitoli che raccontano la riflessione attorno al concetto di esistenza personale, biografica, che assume significato partendo dal soggetto stesso ma che in esso non si conclude.

Il linguaggio è quello proprio dei mondi della filosofia e della psicologia di cui Màdera fa parte a pieno titolo. Terminologia e concetti dunque astratti e che richiedono uno sforzo cognitivo ma che racchiudono la grandezza di cui tali temi sono portatori.

Il primo capitolo è dedicato unicamente a comprendere che cosa significhi biografica e cosa il metodo riferito ad essa possa rappresentare all’interno di una riflessione societaria e comunitaria inserita in un “caos” personale e individuale da cui si deve necessariamente partire. L’antitesi continua è tra la ricerca di un significato e la sua assenza, che deve essere colta e vista per giungere ad un metodo critico, ponderato e cosciente. All’interno del capitolo sono presenti diversi estratti e citazioni di autori quali Jung, Montale e Nietzsche.

I capitoli successivi sono rappresentati da racconti, ricordi, parole intrecciate nel passato dell’autore che conducono il lettore all’interno di storie di vita. Qui il registro diventa maggiormente fruibile, si leggono pensieri liberi che si rincorrono in un racconto dalle sfumature personali che narra, come in un film, il susseguirsi delle scene di vita dell’autore. Meritevoli le righe in cui l’autore racconta la prima età adulta e il personale rapporto con le vicende della primavera degli anni 70.

 Il capitolo dedicato all’incontro con il libro intitolato Mitobiografia acquisisce una dualità nel registro utilizzato, una sorta di unione tra quelli presentati nei capitoli precedenti; tuttavia la descrizione è resa in maniera molto funzionale e la lettura avviene in modo scorrevole. Si riconferma anche in queste pagine il trasporto emotivo e narrativo già emerso nel capitolo precedente, il pathos emotivo giunge ad un livello elevato nella sezione dedicata all’”intermezzo in galera”.

La doppia natura dell’autore si fonde nel capitolo conclusivo del volume che si apre con la spiegazione del concetto psicologico per eccellenza ovvero quello di “terapia”. La riflessione in chiave analitica pone l’attenzione sui concetti di espressione e riconoscimento come elementi fondamentali del lavoro terapeutico. Interessanti le riflessioni presenti in questa parte del libro rispetto alla psicopatologia, alle maschere sociali e al Sè e la strada tratteggiata verso quella che l’autore chiama “terapeutica filosofica”.

La conclusione del libro è un regalo in forma scritta che l’autore offre al lettore che pazientemente e con particolare sforzo, giunge nelle pagine conclusive.

“Tu sei il lettore impossibile che spero dentro ogni possibile lettore. Conosco questa magia dissimulata dalla sua occorrenza quotidiana: il lettore ignaro apre la porta a sconosciuti mondi e si precipita ingolosito in altre vite, finalmente dimentico di sé”.

Disturbi alimentari ed epigenetica

Numerosi studi hanno analizzato le alterazioni epigenetiche in relazione ai disturbi dell’alimentazione studiando, nello specifico, il ruolo della metilazione del DNA.

 

I disturbi alimentari

 La sintomatologia principale associata ai disturbi alimentari è caratterizzata dalla presenza di un’intensa preoccupazione per l’alimentazione, per il peso, per la forma del corpo, e più in generale per l’immagine corporea. La sintomatologia specifica presenta pratiche alimentari dannose e disadattive tra cui l’eccessiva restrizione calorica, l’alimentazione disregolata che sfocia in abbuffate e vari meccanismi di compenso, tra cui il vomito autoindotto e l’utilizzo di lassativi (Bulik et al., 2006)

I disturbi alimentari maggiormente osservati si possono racchiudere in tre grandi classi: l’anoressia nervosa (AN), il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e infine la bulimia nervosa (BN).

L’epigenetica

L’epigenetica è una scienza che indaga l’associazione tra i fattori ambientali, che riguardano il mondo esterno in cui è inserito il paziente, e le predisposizioni genetiche. Parlando di epigenetica è opportuno spiegare brevemente cosa sono e come funzionano i meccanismi epigenetici: tali meccanismi risultano essere responsabili e potrebbero influenzare l’espressione genica in seguito a esposizioni ambientali che lasciano un segno sul genoma. Determinate esposizioni ambientali possono influenzare, motivare e modellare cambiamenti specifici relativi ad una successiva espressione genica, fornendo i substrati fisici che influenzano e modificano le interazioni tra gene e ambiente (Ferron et al., 2006)

 Nella letteratura sono stati pubblicati numerosi studi che analizzano le alterazioni epigenetiche in relazione ai disturbi dell’alimentazione. Nello specifico si è studiato il ruolo della metilazione del DNA (Farrel et al., 2015), durante la quale si verifica una riduzione dell’espressione genica.

È scientificamente dimostrato che la metilazione del DNA viene influenzata da determinate esposizioni ambientali; i maggiori fattori di influenza possono essere lo stress relativo alle prime fasi della vita, i fattori legati all’alimentazione e alla dieta, e una sofferenza fetale acuta (Dauncey et al.,2013; Crider et al., 2012).

Disturbi alimentari ed epigenetica

In un articolo di Thaler e Steiger (2017) viene analizzato come diversi geni possono influenzare la regolazione dell’organismo. Un gene sottoposto ad analisi è POMC, che è partecipe della regolazione dell’appetito. Sono state messe a confronto donne con anoressia nervosa in fase acuta e, donne che non presentano più sintomi significativi dall’anoressia nervosa ed è emerso che l’mRNA della POMC lungo è ampiamente rilevante dal punto di vista funzionale e risulta essere significativa la correlazione con i livelli di leptina, che è più alta nell’anoressia nervosa acuta rispetto all’anoressia nervosa non acuta e ai gruppi di controllo (Thaler et al., 2017).

Lo studio approfondito dell’epigenetica può fornire grandi spunti di riflessione e può garantire nuovi possibili trattamenti futuri dei disturbi dell’alimentazione.

 

Metodo Montessori: è efficace con bambini che presentano difficoltà di apprendimento?

Nel metodo Montessori l’insegnante guida il bambino all’interno di un’aula in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione attiva, la scelta e l’apprendimento indipendente, perciò esplorando l’ambiente, sceglie autonomamente l’attività da fare e svolgendola da solo impara.

 

Che cos’è il metodo Montessori?

 L’educazione montessoriana è un metodo di istruzione centenario, utilizzato per la prima volta all’inizio del ‘900 con bambini con esigenze speciali e che continua a crescere in popolarità (Lillard & Else-Quest, 2006). Maria Montessori (1870-1952), una delle principali figure dell’educazione del XX secolo e pioniera dell’educazione speciale, creò inizialmente questo metodo per aiutare bambini con disabilità multiple ad apprendere concetti e abilità attraverso materiali pratici (Danner & Fowler, 2015): solo successivamente, infatti, estese il suo lavoro a bambini con intelligenza nella norma (Pickering, 1992).

Diversamente dai sistemi educativi odierni, dove l’attenzione è posta sui risultati in materie accademiche, l’obiettivo dell’educazione montessoriana è consentire al bambino di svilupparsi in modo ottimale (Marshall, 2017), attraverso un approccio sequenziale e strutturato all’apprendimento, che porti dal concreto all’astratto (Pickering, 1992). In particolare, secondo la Montessori, i bambini attraversano periodi sensibili per l’apprendimento e quest’ultimo avviene attraverso attività autogestite in un ambiente appositamente preparato con i vari materiali montessoriani (per esempio materiali sensoriali come la Torre Rosa e materiali didattici come quelli aritmetici). Al centro del metodo montessoriano c’è la triade dinamica tra bambino, insegnante e ambiente: l’insegnante guida il bambino all’interno di un’aula in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione attiva, la scelta e l’apprendimento indipendente, perciò esplorando l’ambiente, sceglie autonomamente l’attività da fare e svolgendola da solo impara (Marshall, 2017). In questo senso il ruolo dell’adulto è quello di accompagnare e facilitare lo sviluppo naturale del bambino.

Visione montessoriana del bambino con difficoltà di apprendimento

La Montessori riteneva che gli standard utilizzati per valutare lo sviluppo normale fossero fuorvianti e subnormali, motivo per il quale non descrisse o definì mai con precisione i disturbi dell’apprendimento. Lei, infatti, sosteneva che attraverso un’educazione personalizzata in un ambiente preparato scientificamente, i bambini avrebbero rivelato nuovi standard di sviluppo e di gratificazione personale (Orem, 1969). Partendo poi dalla constatazione che gli educatori sembravano più interessati alla classificazione delle anomalie umane piuttosto che alla scoperta di modi per prevenirle, iniziò a sviluppare approcci educativi che catturassero l’interesse dei bambini con difficoltà di apprendimento (Brendtro, 1999).

La Montessori dunque iniziò a utilizzare delle linee guida che indicavano ritardi nello sviluppo (linguistici, motori, comportamentali, percettivi, organici o di funzionamento indipendente), deducendo la possibilità che, in presenza di tali ritardi, potessero insorgere delle difficoltà di apprendimento (Orem & Coburn, 1978). In particolare dunque, secondo la visione montessoriana, bambini predisposti o che presentano difficoltà di apprendimento possono avere problemi di attenzione, ordine e organizzazione, abilità motorie e percettive che portano a una scarsa formazione dei concetti. Questi problemi inducono a difficoltà nello sviluppo e nell’elaborazione del linguaggio orale, nell’apprendimento della letto-scrittura e nella comprensione delle astrazioni della matematica (Pickering, 2004).

Benefici del metodo Montessori su bambini con difficoltà di apprendimento

Il sistema montessoriano può aiutare bambini che presentano difficoltà di apprendimento in diversi modi: 1) fornendo l’ordine e la struttura necessari; 2) migliorando il comportamento motorio, la coordinazione e l’immagine corporea; 3) migliorando il funzionamento percettivo; 4) aumentando l’indipendenza attraverso l’acquisizione di abilità di autoaiuto; 5) sviluppando la concentrazione e l’attenzione; 6) sviluppando le abilità sociali e l’autodisciplina; 7) migliorando il linguaggio ricettivo ed espressivo (Orem, 1969). In particolare, aspetti del metodo Montessori che risultano cruciali affinché questi benefici si presentino, sono l’ambiente preparato, i materiali didattici e le lezioni individualizzate.

 L’ambiente preparato, favorisce l’individuazione di problemi evolutivi nelle loro fasi iniziali, diventando così anche un ambiente diagnostico. Infatti, l’approccio montessoriano prevede che l’insegnante assista i bambini per adeguare il lavoro al loro specifico livello di sviluppo (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004). L’ambiente preparato dalla Montessori offre ai bambini la possibilità di vivere e imparare seguendo il loro ritmo: le regole di base, i materiali didattici e le altre caratteristiche dell’ambiente preparato offrono la cornice per la libera attività e forniscono un equilibrio dinamico tra spontaneità e struttura, elementi necessari per i bambini con difficoltà di apprendimento (Orem & Coburn, 1978).

Inoltre, i bambini che presentano queste difficoltà necessitano, ma in genere non ricevono, l’esposizione ordinata agli stimoli sensoriali offerta dai materiali didattici montessoriani. Permettere ai bambini con difficoltà di apprendimento di imparare attraverso il contatto diretto con il materiale ha un duplice vantaggio: da un lato esercizi e materiali di autoapprendimento sfruttano, durante gli anni della formazione, gli interessi e le capacità dei bambini, dall’altro consentono all’insegnante di avere molto tempo per osservare come e cosa i bambini stanno imparando (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Altro aspetto centrale è l’individualizzazione: le lezioni sono individualizzate alla luce delle capacità e dei livelli di apprendimento dei bambini. Questo è fondamentale per i bambini con difficoltà dell’apprendimento, avendo di solito capacità di apprendimento non omogenee e livelli di rendimento diversi. L’insegnante, dunque, pianifica lezioni individuali presentando materiali con difficoltà di apprendimento adatte al singolo bambino e, solo quando il bambino è pronto, vengono insegnate nuove materie (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Ad oggi quindi, il metodo Montessori risulta essere una risorsa di intervento efficace per la formazione di bambini con difficoltà di apprendimento, soprattutto in caso di bambini con Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (Drigas & Gkeka, 2017; Gkeka et al., 2018). Inoltre, si è visto che la combinazione dei sistemi e dei materiali montessoriani con il supporto delle nuove tecnologie e la loro implementazione su vari tipi di tecnologie hanno portato a grandi risultati per quanto riguarda il supporto alla disabilità e il miglioramento dei processi di apprendimento (Drigas & Gkeka, 2017).

Conclusione

In definitiva, per chi si occupa di bambini che apprendono in modo diverso, il metodo Montessori offre molte possibilità, soddisfacendo le esigenze dei disturbi dell’apprendimento nel linguaggio, nella matematica, nella letto-scrittura, nella memoria, nell’attenzione e nella motricità (Drigas & Gkeka, 2017). Tuttavia, questo metodo non può essere considerato una risposta completa (Orem, 1969): per utilizzarlo con bambini con difficoltà di apprendimento è necessario, infatti, che il materiale venga integrato con altri materiali progettati specificatamente per bambini con queste difficoltà (Orem, 1969; Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Il narcisismo comunitario: quando l’impegno verso gli altri soddisfa il bisogno personale di sentirsi speciali

Gli individui con narcisismo comunitario considerano se stessi come le persone più disponibili che conoscono, il migliore amico che si possa avere, ma anche come professatori di libertà, felicità e pace.

 

 Secondo l’articolo pubblicato nel 2012 da Gebauer et al., le ricerche precedenti avrebbero descritto solo un tipo di narcisismo grandioso, quello agentic. Gli individui con narcisismo agentic sarebbero caratterizzati da tematiche di grandiosità, diritto e potere, che cercherebbero di soddisfare attraverso autovalutazioni irrealistiche positive riferite all’agency (senso soggettivo di competenza e controllo).

Ma il tratto narcisistico si può manifestare anche in ambito “comunitario”? Sebbene possa sembrare un ossimoro, Gebauer, Sedikides, Verplanken e Maio (2012) suggeriscono che la risposta potrebbe essere affermativa, soprattutto se l’impegno verso la comunità serve più a soddisfare il bisogno personale di grandiosità, autostima e potere, che ovviamente sono tratti tipici di una personalità narcisistica (Morf & Rhodewalt, 2001).

Quindi nel 2012 Gebauer et al. elaborano una distinzione tra agency (intesa come concentrazione su di sé e sugli obiettivi personali) e communion (intesa come concentrazione verso gli altri e le relazioni interpersonali). Applicando il modello agency-communion al tratto narcisistico, proposero la descrizione di un’ulteriore tipologia di narcisismo grandioso, il narcisismo comunitario, che condividerebbe le stesse tematiche del narcisismo agentic, ma si differenzierebbe per la modalità adottata per soddisfarle, ovvero mostrando una maggiore attenzione verso gli altri (non motivati dal reale interesse verso le altre persone, ma dal fine ultimo di sentirsi speciali e grandiosi).

Il narcisismo comunitario

In base agli studi condotti, attraverso il “Communal Narcissism Inventory“ (CNI; Gebauer et al., 2012), si è riscontrato infatti che gli individui con narcisismo comunitario considerano se stessi come le persone più disponibili che conoscono, il migliore amico che si possa avere, ma anche come professatori di libertà, felicità e pace (Gebauer et al., 2012; Luo et al., 2014; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016). Sebbene questi esempi si riferiscano al dominio comunitario, la ricerca empirica ha riportato l’esistenza di una relazione anche tra narcisismo comunitario e tratti che riflettono alti livelli di agency (sensazione soggettiva di controllare le proprie azioni), come senso di potere, sicurezza di sé e superiorità (Gebauer et al., 2012; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016).

Il narcisismo comunitario patologico attualmente non è ancora interpretato come una forma alternativa del narcisismo patologico, bensì come una delle sue facce (Wright et al., 2010). In base al modello di Gebauer si possono riscontrare, nel narcisismo comunitario patologico, delle caratteristiche specifiche come l’importanza data dall’individuo ai comportamenti empatici e prosociali, ma anche outcomes simili a quelli del narcisismo patologico tra cui la ricerca di attenzione, l’inganno, il dominio e la manipolazione (Schoenleber et al., 2015; Wright et al., 2013).

Il narcisismo comunitario patologico e non patologico

Avere dei tratti narcisistici non significa avere un disturbo di personalità narcisistico. Anche nel caso del narcisismo comunitario si può distinguere una forma patologica da una forma non patologica: entrambe condividono gli stessi mezzi per il raggiungimento dei loro obiettivi, ma si diversificano rispetto alle caratteristiche cliniche (Pincus et al., 2009). Questo suggerisce che le due forme di narcisismo comunitario si trovino su un unico continuum, che va dal funzionamento non patologico a quello compromesso/patologico (Pincus & Lukowitsky, 2010). Infatti, sebbene quello non patologico sia associato a risultati adattivi quali maggior autostima e benessere soggettivo (Żemojtel-Piotrowska et al., 2014), quello patologico è collegato ad esiti maladattivi come paura dell’abbandono, sottomissione, labilità emotiva (Wright et al., 2013), propensione alla colpa ed alla vergogna, (Schoenleber et al., 2015b) e perfezionismo (Stoeber et al., 2015).

Come riconoscere il narcisismo patologico

Lo studio pubblicato nel 2018 da Rogoza e Fatfouta, ha avuto come primo scopo quello di analizzare le differenze esistenti tra narcisismo comunitario patologico e non patologico.

In letteratura esistono due modelli per distinguere il narcisismo patologico da quello non patologico; la prima, categoriale, propone la concettualizzazione in due costrutti differenti, mentre la seconda, dimensionale, propone l’esistenza di un continuum, che vede all’estremità il costrutto patologico (Pincus & Lukowitsky, 2010).

I risultati dello studio si sono visti a favore del modello dimensionale, riscontrando la condivisione da parte del narcisismo comunitario patologico e non degli stessi fondamentali criteri teorici (obiettivi di superiorità e potere raggiunti attraverso azioni comunitarie/altruistiche).

Miller et al. (2017) hanno proposto la dicitura di “patologico” solo nei casi in cui il narcisismo risulta correlato a disagio e compromissione funzionale; seguendo questa ipotesi, lo studio condotto nel 2018 ha avuto come secondo scopo quello di confrontare le due forme di narcisismo comunitario con i tratti personalità, misurati attraverso il Big Five Inventory-15 (BFI-15; Lang et al., 2011). L’unica differenza riscontrata risulta essere con il tratto del nevroticismo, un tratto di personalità collegato principalmente al disagio psicologico (McCrae & Costa, 1997; Ploubidis & Frangou, 2011) supportando l’ipotesi per cui il narcisismo comunitario patologico è collegato ad alti livello di nevroticismo e suggerendo un’associazione anche ad alti livelli di malessere psicologico.

L’ultimo obiettivo dello studio è stato quello di indagare i valori del narcisismo comunitario patologico e non patologico. I risultati, rispetto a questi dati non hanno riportato differenze: entrambe le tipologie erano motivate sia dall’auto-valorizzazione e che dall’auto-trascendenza (cioè, l’aspirazione ad essere affidabili, degni di fiducia, premurosi, equi e tolleranti).

In generale, i risultati di questo studio supportano l’idea di una concettualizzazione dimensionale del narcisismo comunitario, ai cui estremi si trova la patologia, che si distingue per la presenza di disagio psicologico e compromissioni nel funzionamento (Rogoza & Fatfouta, 2018).

 

Tutto chiede salvezza – Recensione

Non ci sono dubbi che “Tutto chiede salvezza” abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.

 

Attraverso ogni atomo di materia, tutto mi chiede salvezza. Ecco la parola che cercavo, salvezza. Per i vivi e per i morti, salvezza (…) per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.

 A questi versi di una poesia di Daniele Mencarelli è ispirato il titolo di un suo romanzo autobiografico, che ora è diventata una serie di grande richiamo su Netflix, “Tutto chiede salvezza”.

La vicenda è quella che il poeta e scrittore ha realmente vissuto quando aveva vent’anni e a seguito di un crollo psichico subì un TSO, ovvero il trattamento sanitario obbligatorio, che ancora oggi rappresenta la soluzione di contenimento di un’emergenza psichiatrica caratterizzata da assente consapevolezza di disagio e pericolosità per sé e/o la società. Lo sceneggiatore Francesco Bruni ha realizzato una fiction che ha raggiunto, quasi inaspettatamente, un successo straordinario presso il grande pubblico. Gradimento altissimo per un argomento ostico e delicato, lodi della critica oltre che di una larga fascia di spettatori.

Cosa aggiunge una prospettiva in cui l’occhio che guarda riflessivo è un occhio clinico?

Non ci sono dubbi che la serie abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.

Inoltre la serie descrive bene la storia dei protagonisti, le vulnerabilità dei personaggi, l’esordio dei disturbi trattati, le debolezze del sistema familiare di riferimento, ma emerge anche come la serie sembra trascurare alcuni aspetti di sofferenza e di criticità del sistema psichiatrico attuale che spesso rinforzano dolore e confermano credenze di inaiutabilitá e fallimento.

Emergono bene i temi di condivisione, solidarietà, amicizia e amore che spesso si osservano nella realtà fra i pazienti che si autosostengono e decidono di essere alleati. Emerge passione e interesse attivo verso temi sociali e politici e la fiction assolve diversi obiettivi: raccontare, rappresentare e creare interesse rispetto ad un tema delicato –il disagio psichico– di norma distanziato o ignorato.

In generale, la rappresentazione fornita dalla fiction è potente, cattura l’attenzione e sensibilizza rispetto ai temi trattati. Nonostante l’amarezza delle storie narrate, si mostra gradevole, riesce a normalizzare e stimolare empatia verso situazioni esistenziali che ci lasciano indifferenti, che ignoriamo, o che evitiamo di conoscere e approfondire, talvolta per paura, per disgusto, o per non sperimentare tristezza, impotenza e sofferenza emotiva. Forse però, normalizzando troppo rischia di trascurare il vissuto traumatico che spesso si osserva nella pratica clinica, in associazione proprio al TSO, ancora oggi.

I fatti che hanno ispirato il libro di Mencarelli, e quindi la serie tv, sono accaduti infatti nel 1997, e l’aver trasferito lo scenario della storia negli anni ’20 del 2000 non deve far pensare che la situazione ora, in un ospedale psichiatrico in cui si “contiene temporaneamente” una situazione di grave disagio psicologico, sia un idillio rispetto a prima e rispetto alla difficile realtà dei reparti di psichiatria. La serie TV rischia di legittimare poco il vissuto di coloro che hanno avuto un’esperienza diretta o hanno osservato la realtà dolorosa del trattamento sanitario obbligatorio e della sua gestione che spesso in Italia si vive.

La rappresentazione fornita racconta –e non racconta– alcuni aspetti della realtà psichiatrica: atteggiamenti, comportamenti, vissuti emotivi che sono invece ben descritti nel libro e purtroppo oggi a volte ancora presenti e problematici.

Chiaramente la serie Tv avvicina il pubblico, lo porta a riflettere e conoscere questa realtà, a non dimenticare e vivere con meno stigma alcuni scenari.

 Tuttavia, ci si chiede se questa rappresentazione (intrinsecamente alterata in quanto fiction) non si discosti troppo dalla sofferenza e dal reale caos di solito legati al TSO, e quanto il grado di partecipazione che sollecita nel pubblico sia plausibile rispetto al reale ambiente psichiatrico e al disagio amaro a cui spesso si assiste.

Obiettivo del regista: avvicinare con strategia? Eppure si rischia di mantenere una vicinanza apparente verso la sofferenza e la malattia mentale?

Il racconto televisivo fornito tratta infatti solo parzialmente il tema del TSO, ricostruendone solo in parte l’aspetto traumatico che molte volte si associa a questo tipo di esperienza e si addiziona al disagio che già si sta vivendo.

Si osservano solamente a sprazzi le criticità spesso presenti nel sistema di cura, la brevità programmatica del trattamento, l’inadeguatezza delle strutture: queste componenti presenti nel libro, e ad oggi ancora attuali, vengono poco rappresentate.

Forse questa serie offre l’opportunità di parlare di come sia fondamentale rivedere il TSO e il suo proseguire. L’inidoneità, l’insufficienza, la risposta spesso deludente dell’istituzione: elementi questi che fanno parte del nucleo della storia e della realtà, che negli episodi televisivi vengono poco approfonditi, ma che meriterebbero progresso e discussione.

Una chiave di lettura critica potrebbe richiedere dunque un riflessione circa la disorganizzazione della realtà psichiatrica e su come poter migliorare la gestione dei ricoveri e dei programmi di intervento, rispettando la dignità del malato senza pregiudizio, con la responsabilità di disegnare un piano di intervento che tenga conto del post TSO e di come le cure fornite segnano il vissuto e hanno il potere di promuovere il cambiamento o il trauma nel trauma.

L’insieme fornito dalla serie TV risulta troppo edulcorato allo sguardo di un clinico che, osservando, oltre ad apprezzare quanto sia ben curata la parte tecnica e come sia ben descritto il funzionamento del vissuto depressivo e dei profili psicopatologici proposti, si preoccupa che possa passare un messaggio sbagliato o per meglio dire omissivo, ovvero che tralascia aspetti di disagio e sofferenza emotiva che non sembrano avere il coraggio di essere abbastanza drammatici per essere credibili.

In buona sostanza, forse, la rappresentazione fornita, nonostante gli innumerevoli pregi e vantaggi circa la rappresentazione della malattia mentale, trascura il messaggio di denuncia rispetto al sistema di cure proposte da alcuni istituti di psichiatria e del TSO nello specifico, così come gestito nella realtà: ovvero, spesso, senza un programma di intervento adeguato che preveda fasi successive a quelle di emergenza e contenimento, fino alla riabilitazione e al reinserimento.

Lo spettatore si sente emotivamente vicino ai protagonisti, ma l’empatia che sente potrebbe essere parziale in quanto non contempla la dimensione soverchiante e spaventosa del trattamento sanitario obbligatorio e del post ricovero spesso più doloroso e abbandonico.

Il tema, per chi ha visto la serie, oggi è più vicino di ieri, ma il rischio è che la forte risonanza emotiva che la serie TV sollecita sia in qualche misura poco autentica, in quanto miope di talune attuali realtà.

“Tutto chiede salvezza”, in conclusione, accorcia le distanze tra chi è malato e chi del malato diffida, ma pratica –in quanto fiction, seppure in modo legittimo– quasi un diniego dei deficit e della sofferenza che si associano all’emergenza psichiatrica e alla malattia mentale.

 

TUTTO CHIEDE SALVEZZA – Guarda il trailer della serie Netflix:

 

Realtà Virtuale e Dismorfismo corporeo: indagine sui bias cognitivi

L’American Psychiatric Association (APA, 2013) definisce il disturbo di dismorfismo corporeo come una preoccupazione per il proprio aspetto fisico, in particolare per difetti o imperfezioni, spesso lievi o inosservabili dall’esterno.

 

 Questa preoccupazione è significativamente invalidante e comporta una compromissione di diverse aree del funzionamento, come quella sociale e lavorativa. Perché possa essere fatta diagnosi, l’individuo deve aver mostrato comportamenti ripetitivi o azioni mentali conseguentemente ad essa. All’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013), il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è collocato nello spettro dei Disturbi Ossessivi. Se non trattato precocemente, può comportare problematiche nella vita quotidiana nonché l’esacerbazione di disturbi concomitanti come la depressione maggiore, il disturbo ossessivo compulsivo, la fobia sociale e disturbi alimentari, come l’Anoressia Nervosa. La terapia più utilizzata comprende un intervento sia farmacologico che psicoterapico, finalizzato alla desensibilizzazione allo stimolo trigger mediante l’esposizione; inoltre, con il progredire degli strumenti tecnologici, ha iniziato a crescere l’interesse verso l’utilizzo della realtà virtuale, la quale offre interessanti novità per fronteggiare le problematiche legate al corpo.

L’utilizzo della Realtà Virtuale (VR)

Secondo quanto riportato in letteratura, gli individui affetti da dismorfismo corporeo interpretano negativamente e in modo minaccioso le informazioni sociali ambigue. Queste inferenze mantengono la sintomatologia e la compromissione a livello psicologico e sociale, rafforzando l’immagine distorta di sé. Conseguentemente, questi bias interpretativi maladattivi costituiscono un target del trattamento terapeutico; ciononostante, secondo Summers e colleghi (2021), i protocolli di intervento che li coinvolgono sono limitati.

Per quanto riguarda l’utilizzo della realtà virtuale, secondo gli studi condotti da Porras-Garcia e colleghi (per esempio, Porras-Garcia et al., 2020), le procedure basate su di essa potrebbero offrire numerose novità per fronteggiare diverse problematiche legate al corpo. Infatti, questa tecnologia è considerata promettente come approccio esperienziale sia alla valutazione che alla comprensione e al trattamento di numerosi disturbi psichiatrici. La letteratura esistente sull’utilizzo della realtà virtuale afferma che i trattamenti svolti in questo setting artificiale si traducono in cambiamenti considerevoli in situazioni reali (Morina et al., 2015), perciò è ipotizzabile che essa possa essere uno strumento di intervento utile anche per pazienti affetti da dismorfismo corporeo e che possa facilitare in vivo la correzione delle disfunzioni cognitive alla base di questo disturbo.

Uno studio su dismorfismo corporeo e realtà virtuale

 Tuttavia, nonostante i risultati positivi, non è ancora stata particolarmente utilizzata con pazienti affetti da questo disturbo; perciò, Summers e colleghi (2020), hanno svolto uno studio con l’ausilio della realtà virtuale avente tre obiettivi: il primo era comprendere se i partecipanti affetti da dismorfismo corporeo mostrassero maggiore approvazione delle interpretazioni di minaccia legate all’aspetto e minore approvazione delle interpretazioni benigne rispetto ai controlli sani, attraverso misure consolidate e nuove scene esperite in realtà virtuale; il secondo era quello di osservare se vi fossero distinzioni per quanto concerne il disagio negli ambienti simulati tra i due gruppi, ipotizzando che i soggetti affetti dal disturbo esperissero maggiore minaccia, angoscia, propensione a cercare di controllare gli stimoli trigger o evitamento; il terzo obiettivo era quello di verificare la fattibilità, accettabilità e utilizzabilità della realtà virtuale all’interno della popolazione affetta dal disturbo.

I risultati ottenuti dagli autori hanno mostrato come rispetto ai controlli non psichiatrici i partecipanti mostrassero maggiori bias di minaccia legati all’aspetto fisico. Inoltre, grazie a questo studio, è stato possibile ampliare le conoscenze sui bias cognitivi, mostrando che quelli maladattivi di interpretazione della minaccia, caratteristici del disturbo da dismorfismo corporeo, possono essere stimolati e valutati in modo efficace e in vivo attraverso la realtà virtuale. I partecipanti hanno valutato l’esperienza con la realtà virtuale come accettabile, coinvolgente, realistica e simile ad esperienze pregresse; inoltre, hanno riportato di percepire un senso di presenza nell’ambiente di simulazione virtuale.

Considerazioni conclusive

Secondo gli autori, nonostante la ricerca sul presente argomento necessiti un ampliamento, sembra che la realtà virtuale possa rappresentare un mezzo con maggior validità ecologica per misurare gli stili interpretativi maladattivi rispetto alle valutazioni tradizionali. Sebbene gli obiettivi della Dott.ssa Summers e colleghi (2021) fossero primariamente focalizzati sulla valutazione dei bias interpretativi, il loro studio potrebbe portare anche a valutazioni più ampie per nuove implicazioni terapeutiche.

In conclusione, sarebbero necessari studi di approfondimento sul possibile utilizzo della realtà virtuale nel trattamento del dismorfismo corporeo, ponendo particolare attenzione ai bias cognitivi che ne sostengono la sintomatologia.

Trauma Sensitive Yoga: portare il corpo nel trattamento (2022) – Recensione

Il modello del Trauma Sensitive Yoga si basa sulla conoscenza delle conseguenze del trauma e non attribuisce una connotazione patologica alla sintomatologia, bensì si focalizza sul positivo, riducendo lo stigma e il disagio psicologico. 

 

 Il Trauma Sensitive Yoga (TSY) è stato sviluppato dal Trauma Center del Justice Resource Institute (JRI) di Boston e continua ancora a evolversi all’interno del Center For Trauma and Embodiment (CFTE). I fondatori di questo modello di intervento sono David Emerson e Jennifer Turner che, grazie alle loro differenti professionalità e alla loro coesione, permettono al TSY di farsi strada nel panorama dei trattamenti per il trauma. Emerson e Turner si impegnano costantemente ad offrire un modello con una base scientifica solida, che contempli la verifica dei progressi e benefici ottenuti.

Il Trauma Sensitive Yoga (TSY) è un modello di intervento che si focalizza sulle molteplici sfumature del trauma, tant’è che può essere considerato un intervento di tipo sistemico-integrato.

Data l’efficacia dimostrata, negli Stati Uniti il Trauma Sensitive Yoga è stato riconosciuto come trattamento aggiuntivo di eccellenza per trattare il PTSD, al pari di altri trattamenti, in particolare per il disturbo post traumatico complesso che, seppur non sia ancora una diagnosi ampiamente condivisa e accettata, fa riferimento a una varietà di sintomi che si riscontrano in molte delle difficoltà psicologiche come ad esempio: ansia, disturbi dell’alimentazione, difficoltà a regolare le emozioni, deficit di enterocezione, depressione, difficoltà relazionali, etc (Emerson, 2022).

Difatti, proprio in questa specifica caratterizzazione del trauma, l’elemento fondamentale è costituito dalla presenza di eventi che risalgono alle prime fasi dello sviluppo e che si caratterizzano per la loro natura relazionale e di attaccamento.

Il modello

Il modello del Trauma Sensitive Yoga è per definizione trauma informed, ovvero si basa sulla conoscenza delle conseguenze del trauma e non attribuisce una connotazione patologica alla sintomatologia, ma bensì si focalizza sul positivo, riducendo lo stigma e il disagio psicologico.

Nel libro, dopo una parte iniziale dedicata agli assunti teorici che stanno alla base del Trauma Sensitive Yoga (ad esempio teoria del trauma, teoria dell’attaccamento e neuroscienze), alla definizione delle molteplici tipologie di trauma e alle differenze tra Trauma Sensitive Yoga e altre tipologie di modelli somatici (ad esempio, Hakomi, Sensomotoria e Somatic Experiencing), Emerson passa poi a elencare dettagliatamente gli elementi centrali –i pilastri– del Trauma Sensitive Yoga, che sono:

  • il linguaggio invitazionale,
  • il fare delle scelte,
  • l’enterocezione,
  • l’esperienza autentica e condivisa dall’essere nel presente,
  • la non violenza.

L’importanza della scelta

Come è noto, i sopravvissuti al trauma spesso sperimentano un senso di impotenza, costante e pervasiva –nessuno sceglie il trauma– dove la persona è per definizione costretta a subirlo (Emerson, 2022). Perciò, nel Trauma Sensitive Yoga risulta centrale restituire la possibilità di scegliere; infatti i pazienti vengono invitati a svolgere degli esercizi senza alcun tipo di obbligo, assumendo una posizione di non giudizio e di non violenza. Restituendo così un senso di piena responsabilità e scelta sul proprio corpo e di conseguenza sulla propria vita.

Embodiment

Un altro dei concetti fondamentali nel Trauma Sensitive Yoga è quello di embodiment –essere incarnato– ovvero la possibilità di sentire il proprio corpo qui e ora, aprendosi alla capacità di scegliere in maniera consapevole. Attraverso le pratiche del Trauma Sensitive Yoga la persona impara a entrare nuovamente in contatto con il proprio corpo, ampliando le abilità enterocettive, cioè le abilità di riconoscere le sensazioni interne al proprio corpo.

 Perdipiù, l’intervento sembra essere incentrato sull’apprendimento di alcune abilità e modalità di approcciarsi all’esperienza, proponendo alcune pratiche di tipo esperienziale che consentono al soggetto di fare un’esperienza autentica –a partire dal proprio corpo–, nonché riappropriarsi delle sensazioni somatiche e riconnettersi con il proprio corpo, permettendo la libera scelta in un contesto protetto. Difatti il Trauma Sensitive Yoga ha come intento quello di creare uno spazio in cui nessuno viene manipolato ed è per questo che non è presente alcun tipo di supporto fisico o verbale poiché, in tale ottica comporterebbe una prescrizione, ovvero comunicare un’aspettativa.

La pratica dello Yoga e l’integrazione in terapia

Spesso i pazienti traumatizzati sono completamente disconnessi dalle loro esperienze interiori, pertanto, il Trauma Sensitive Yoga si propone, attraverso la pratica dello Yoga –concettualizzata in questo modello come combinazione di forme fisiche, respirazione e attenzione focalizzata–,  di intervenire sia sui sintomi somatici di iperattivazione, sia sui sintomi dissociativi del trauma. Favorendo un approccio di tipo bottom-up, con una conseguente ripresa della connessione con le sensazioni somatiche mente-corpo, maggiore consapevolezza, tolleranza e accettazione, sospensione del giudizio e uno sviluppo di capacità autoregolative, nonché di uno stato compassionevole verso sé stessi.

Pertanto, con tali motivazioni lo yoga, può essere considerato un buon candidato all’integrazione nella pratica psicoterapica che tipicamente agisce attraverso modalità top-down, aumentando così l’efficacia del trattamento di specifici sintomi da trauma, come quelli somatici, emotivi e di disconnessione.

Riflessioni e conclusione

Questo libro, inoltre, offre vari spunti di riflessione per introdurre questo modello nella pratica terapeutica, per esempio suggerisce, attraverso varie illustrazioni, un adattamento delle pratiche yogiche nel contesto dello studio del terapeuta, facilitando l’applicazione e aprendo a una maggiore versatilità di utilizzo in diversi setting e contesti, permettendo così di sperimentare tali pratiche anche semplicemente seduti su una sedia in studio.

In conclusione, da quanto riportato dai dati presentati nel libro, si può sostenere che lo svolgimento di tali pratiche somatico-esperienziali –in un contesto protetto– permette ai pazienti di “riappropriarsi del proprio corpo” e, con rinnovata fiducia, prendere in mano la propria vita.

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle…” – I benefici psicofisiologici dei paesaggi naturali

Diversi studi nell’ambito dalla psicologia ambientale hanno approfondito gli effetti della visione dei paesaggi naturali sull’organismo e sui livelli di stress.

 

Introduzione

 I benefici derivati dalla visione di paesaggi naturali sono stati oggetto di grande interesse sia teorico sia empirico. In particolare, molti studi sperimentali nel campo della psicologia ambientale hanno dimostrato il potenziale ristoratore degli ambienti naturali utilizzando video, fotografie e stimoli di paesaggi naturali di montagne, campi, acqua e foreste. Dalla letteratura emerge che la visione di immagini di paesaggi naturali, sia presentate come fotografie, sia come scene di realtà virtuale, produce effetti benefici tra cui l’alleviamento dello stress (Grinde, 2009).

La revisione sistematica di Jo et al. (2019) ha preso in considerazione alcuni studi i cui risultati hanno rilevato miglioramenti nel recupero dallo stress ed effetti di rilassamento provocati dalla visione di ambienti naturali, utilizzando una serie di indicatori psicofisiologici oggettivi.

Gli studi sui benefici associati ai paesaggi naturali

Uno studio si è avvalso della risonanza magnetica funzionale per valutare l’attività cerebrale di 30 studenti universitari durante la visione di esperienze di vita rurale e urbana (Kim et al., 2010). Le scene rurali comprendevano foreste, giardini, parchi e colline, mentre le scene urbane includevano appartamenti, edifici, cavi elettrici e fabbriche. Durante la visione delle scene rurali e urbane si sono attivate aree cerebrali diverse. Il giro parietale superiore, il giro cingolato anteriore, il giro postcentrale, il globo pallido, il putamen e il nucleo caudato erano principalmente coinvolti durante la visione delle scene rurali. Al contrario, l’ippocampo, il giro paraippocampale, l’amigdala e la lingula erano principalmente coinvolti durante la visione delle scene urbane.

Nel 2012, Gladwell et al. hanno esplorato l’attivazione del sistema nervoso autonomo durante la visione di scene naturali e urbane. Hanno misurato la frequenza cardiaca, la variabilità della frequenza cardiaca e la pressione sanguigna. Le diapositive di scene naturali e urbane sono state proiettate su uno schermo mentre i partecipanti erano sdraiati in posizione semisupina. L’attività nervosa parasimpatica è aumentata significativamente durante la visione di immagini della natura rispetto alla visione di scene di ambienti urbani, il che suggerisce un aumento dell’attività vagale.

Duncan et al. (2014) hanno invece confrontato gli effetti dell’esercizio fisico nel verde e quelli del solo esercizio fisico sulla pressione sanguigna e sulla frequenza cardiaca. A quattordici bambini della scuola primaria è stato chiesto di pedalare per 15 minuti mentre guardavano video di ambientazioni forestali o uno schermo vuoto. Rispetto ai partecipanti del gruppo di controllo, quelli che hanno effettuato l’esercizio fisico con lo stimolo naturale hanno mostrato una significativa riduzione della pressione arteriosa sistolica.

In uno studio risalente al 1998, sono stati valutati gli effetti di recupero dallo stress di un ambiente stradale con l’uso di video di guida in panorami naturali e urbani (Parsons et al., 1998). Dopo aver svolto un compito stressante, 160 studenti universitari hanno guardato video di guida per 10 minuti. Rispetto all’esposizione a panorami urbani, l’esposizione a panorami naturali, come foreste e campi, ha ridotto significativamente l’attività elettrodermica e la pressione arteriosa sistolica e diastolica.

 Attingendo all’idea di questa ricerca, Brown et al. (2013) hanno esaminato gli effetti della visione di ambienti naturali sul recupero dell’attività autonomica dopo l’introduzione di un fattore di stress. La frequenza cardiaca, la variabilità della frequenza cardiaca e la pressione arteriosa sistolica e diastolica sono stati utilizzati come marcatori del cambiamento della funzione autonomica e sono stati raccolti i dati fisiologici di 23 adulti. Lo studio consisteva nel mostrare ai partecipanti 20 fotografie di ambienti naturali e urbani nello stesso ordine per 10 minuti (ogni fotografia per 30 secondi) in una presentazione di Microsoft PowerPoint. Prima di vedere le fotografie, i partecipanti hanno eseguito un test di Digit Span al fine di provocare uno stress cardiovascolare. La variabilità della frequenza cardiaca è risultata significativamente maggiore durante la visione di ambienti naturali rispetto a quelli urbani. Questo risultato dimostra che la visione di immagini della natura migliora il processo di recupero dopo un evento stressante.

Conclusioni e prospettive future

Benché gli studi di questa rassegna abbiano incluso adulti sani appartenenti alla popolazione generale, sarebbero utili ulteriori ricerche su campioni diversi, volgendo l’attenzione su individui che mostrano livelli di stress più elevati, come i pazienti affetti da disturbi dell’umore, da disturbi d’ansia o pazienti in riabilitazione. Il contatto con la natura può essere una strategia preventiva e ricostituente per la salute pubblica, in particolare per gli individui a maggior rischio di malattia.

 

Le caratteristiche del paziente e del terapeuta che influiscono sull’alleanza terapeutica

L’alleanza terapeutica affonda le proprie radici nella psicodinamica ed è un elemento presente e fondamentale in tutti gli approcci terapeutici.

Le origini dell’alleanza terapeutica

 Il legame tra il clinico e il paziente, l’alleanza delle due figure verso un obiettivo, il sentimento di protezione e fiducia nei confronti del clinico, sono temi trattati nelle prime opere di Sigmund Freud (1917). Infatti, il concetto di “alleanza terapeutica” nasce in ambito psicoanalitico con Freud, il quale afferma nelle sue teorie che i rapporti terapeutici sono basati sul transfert, ovvero un fenomeno inconsapevole di trasferimento delle emozioni dal cliente all’analista. Freud sostiene che l’alleanza terapeutica sia quel legame di stima e fiducia che permette al paziente di affidarsi alle cure del medico e collaborare con lui (Gazzillo & Ortu, 2013).

Bowlby, studioso dell’attaccamento, ha concettualizzato il costrutto come una guida per la pratica clinica: infatti, sosteneva, non solo che il terapeuta può diventare una figura di attaccamento con cui creare un legame indissolubile, ma anche che è molto importante che il terapeuta diventi un compagno affidabile per il paziente, che lo accompagni lungo tutto il percorso terapeutico, rimanendo al suo fianco e guidandolo verso il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Lo psicoterapeuta, secondo Bowlby, deve fornire al paziente una base sicura da cui l’individuo può sentirsi libero di riflettere sul proprio vissuto e sperimentare aspetti della propria vita affrontando anche esperienze dolorose. Il clinico, dunque, rappresenta una sorta di specchio per il paziente, attraverso il quale andare alla scoperta di sé (Bowlby, 1988). Secondo lo studioso dell’attaccamento i pazienti si rivolgono al terapeuta come rifugio sicuro nei momenti di difficoltà per avere conforto e sostegno (Gazzillo & Ortu, 2013).

La definizione di alleanza terapeutica proposta da Bordin (1979) si colloca in una visione pan-teorica dell’alleanza, presente in ogni psicoterapia indipendentemente dal loro modello teorico e operativo e capace di trascendere il modello psicoanalitico da cui ha avuto origine. Secondo Bordin (cit. in Safran & Muran, 2019) l’alleanza è basata su tre componenti: l’accordo sugli obiettivi della terapia, il consenso sui compiti della terapia e il legame affettivo tra cliente e terapeuta. L’autore fornisce una delle definizioni più recenti dell’alleanza terapeutica ponendo l’accento sulla collaborazione attiva e su quanto sia fondamentale la partecipazione del paziente nel raggiungimento degli obiettivi.

L’alleanza, come si è visto precedentemente, affonda le proprie radici nella psicodinamica e oggi è un elemento presente e fondamentale in tutti gli approcci terapeutici, poiché considerata l’essenza stessa della terapia. L’alleanza terapeutica è dunque in ottica comportamentale un legame di fiducia, mentre in ambito psicoanalitico una forma di complicità basata sul raggiungimento di uno o più obiettivi di benessere, ed è importante capire quali sono le caratteristiche comportamentali ed emotive delle due figure protagoniste che possono influire sull’alleanza terapeutica agevolando, quindi, l’intero percorso di cambiamento.

Le caratteristiche del terapeuta

 Gli studiosi Ackerman e Hilsenroth (2003) hanno rilevato e analizzato alcune caratteristiche che ogni terapeuta dovrebbe avere per una buona predisposizione alla creazione del legame. Il primo obiettivo del clinico è quello di creare un dialogo con il proprio paziente e di rendere il luogo e il tempo a lui dedicato il più confortevole possibile, dunque il terapeuta deve mostrarsi flessibile, poiché non conosce le caratteristiche del paziente e un atteggiamento aperto e rispettoso agevolerà la conoscenza. L’onestà e il rispetto sono due caratteristiche fondamentali per una buona alleanza poiché alla base del rapporto deve esserci il sincero desiderio di aiutare e di essere aiutati. È importante mostrarsi interessati, calorosi e affidabili in modo da creare il sentimento di fiducia sul quale si potrà costruire un buon rapporto. Il paziente deve sentirsi accolto, compreso e ascoltato, senza sentirsi giudicato o ignorato, solo così potrà affidarsi completamente all’altro rendendo l’intero percorso terapeutico valido. Il paziente riporta la sua vita, i suoi sentimenti e tutti i suoi stati interni, il compito del terapeuta è quello di saper accoglierli e averne cura. Al contrario, una scarsa alleanza terapeutica è data da caratteristiche negative del terapeuta che portano il paziente a distaccarsi e chiudersi. L’essere distante, poco interessato, critico o stanco non crea la sintonia che dovrebbe esserci tra paziente e clinico poiché, mentre il paziente si racconta, sarà molto attento alle reazioni del terapeuta che non deve mostrarsi disattento o giudicante perché potrebbe creare delle rotture nell’alleanza difficili da riparare.

Le caratteristiche del paziente

Norcross (2011) individua anche dei fattori legati a caratteristiche dei pazienti che influenzano l’alleanza terapeutica: il funzionamento interpersonale, il funzionamento difensivo e le aspettative di miglioramento. Il funzionamento interpersonale è un fattore molto importante per ogni relazione, soprattutto in quella d’aiuto, poiché la capacità di mantenere il legame agevola la relazione stessa, il sentimento di fiducia e il raggiungimento degli obiettivi (Muran & Barber, 2010). Se il funzionamento interpersonale predice una buona alleanza, al contrario un funzionamento difensivo, potrebbe creare un legame debole e instabile (Gatson et al., 1988). Il paziente deve essere mosso da un desiderio di cambiamento e miglioramento per intraprendere un percorso terapeutico ma, alcune volte, potrebbe iniziare la terapia senza essere completamente consenziente e mostrarsi distaccato, poco collaborativo e critico, non essendo quindi d’aiuto alla relazione con il clinico e alla terapia stessa. È importante che i pazienti capiscano che la terapia è per loro un aiuto, un momento di ascolto sincero e privo di giudizi, che l’unico fine del clinico è l’aiuto e che quindi una collaborazione può giovare solamente. Un ultimo fattore individuato che predice una buona alleanza è l’aspettativa al miglioramento: Joyce e Piper (1998) suggeriscono che il desiderio da parte del paziente di migliorare aiuta la creazione del rapporto con il terapeuta, poiché il paziente sarà più collaborativo e determinato.

Conclusioni

A sostegno della tesi di Bordin (1979) che aveva definito l’alleanza terapeutica “panteorica”, è interessante notare che nel corso degli anni non siano state individuate caratteristiche differenti per il paziente e il clinico a seconda dell’approccio psicoterapeutico e della scuola di pensiero, poiché l’alleanza terapeutica è un fattore comune e insito in tutte le terapie senza il quale viene meno la terapia stessa (Muran & Barber, 2010).

 

Senza respiro (2022) di David Quammen – Recensione

Il libro “Senza respiro”, edito da Adelphi poche settimane prima delle festività natalizie con perfetta scelta di tempo editoriale, è fortemente raccomandato a chi desidera approfondire le proprie conoscenze in tema di Covid, per comprendere come funziona l’evoluzione della produzione scientifica.

 

 Il volume è consigliato a scettici, perplessi, critici e increduli, purché siano disposti a sgombrare la mente dai pregiudizi che, come diceva Luciano Bianciardi, sono solo “bugie travestite”.

L’autore è il giornalista americano David Quammen, già artefice di alcuni successi editoriali, molto apprezzato sia per il suo stile di scrittura, chiaro ed avvincente, sia per la serietà e l’approfondimento con cui affronta gli argomenti a cui sceglie di dedicarsi. Infatti, alcune delle sue opere precedenti sono state tra i libri di saggistica degli ultimi decenni più venduti in diversi continenti. In “Spillover” (nella nostra lingua: “Salto di specie”), ha descritto la nascita e la diffusione dell’Aids, il cui virus sarebbe comparso nell’uomo in Camerun nel 1908 e, sia in questo che in altri volumi precedenti, aveva messo in guardia in merito ad una possibile pandemia, come poi è drammaticamente avvenuto. Quammen, tuttavia, non è un predittore di catastrofi ma uno studioso attento, a cui va riconosciuto il merito di andare a ricercare le opinioni degli scienziati più bravi, che talvolta non sono necessariamente i più noti o i più importanti dal punto di vista accademico. Non a caso, negli anni, ha condotto ricerche in loco e affiancato scienziati in Congo, in Australia e, infine, nei mercati alimentari presenti nei grandi agglomerati urbani in Cina. Come lasciava intuire il titolo dell’opera, la sua tesi era che il pericolo sarebbe potuto giungere da virus già presenti da molto tempo tra gli animali e che, con un possibile salto di specie, avrebbero potuto prima o poi colpire tutta l’umanità. Ammoniva che era sbagliato ricercarne l’origine come extraterrestre o, ancor peggio, nel nulla.

Il volume recente “Senza respiro” è dedicato al Covid-19 e alla susseguente febbrile ricerca scientifica avvenuta in questi ultimi due anni. Il primo capitolo inizia dalla ormai fatidica data del 19 dicembre 2019 allorquando dalla città di Wuhan (la settima più grande della Cina, con circa 11 milioni di abitanti) un giovane oftalmologo comunica mediante scambi via chat con alcuni colleghi del suo stesso ospedale di aver notato i primi casi sospetti. La lettura prosegue seguendo la diffusione della notizia, inizialmente in un ambito ristretto della comunità scientifica, e racconta come immediatamente alcuni infettivologi in diverse parti del mondo abbiano compreso i rischi che potevano coinvolgere tutto il pianeta e abbiano incrementato i loro sforzi di ricerca. Il saggio offre la chiave di lettura per comprendere in che modo si siano potuti avere a disposizione vaccini in un lasso di tempo sostanzialmente molto breve, ovvero in virtù del fatto che già da anni alcuni scienziati avevano concentrato i loro studi esclusivamente sui “coronavirus”. Infatti, sebbene fossero ignorati da molti, Quammen ci presenta la vicenda di alcuni studiosi che, a partire dalla comparsa della Sars avvenuta nel 2002 sempre in Cina, e quindi ben 17 anni prima del Covid-19, compivano ricerche accurate su questa famiglia di ceppi virali, mettendo in guardia sull’elevata probabilità di una loro comparsa repentina. Proseguendo nella lettura, emerge la figura di Marjorie Pollack, sostanzialmente ignota alla maggioranza del grosso pubblico, siano essi vaccinati o meno, e l’impegno di alcuni altri scienziati, le cui conoscenze si sono rivelate fondamentali. Uno dei compiti della newyorchese Pollack era quello di pubblicare e aggiornare le notizie nel sito dedicato al monitoraggio delle patologie infettive emergenti nel mondo, curato da un team multidisciplinare dell’International Society for Infectious Diseases (ISID) e capace di raggiungere almeno ottantamila medici specializzati in malattie infettive. Si giunge poi alla data dell’11 gennaio 2020, in cui da Edimburgo viene resa nota via internet per la prima volta una sequenza del genoma del virus. Essa era stata individuata dal virologo cinese Yong-Zhen Zhang. È citata la sua collaborazione scientifica con un eccellente biologo evoluzionista australiano, Eddy Holmes, in quanto questi svolse un ruolo importante nel convincere Zhang a condividere quei dati, nonostante un ordine governativo cinese in quel momento proibiva ai laboratori di pubblicare informazioni sul virus. Zhang affermò di non essere a conoscenza del divieto e non ha mai ricevuto alcuna sanzione per aver divulgato le sue scoperte. Holmes, appena ottenne la sequenza impiegò pochi minuti per renderla nota alla comunità scientifica mondiale e per questo insieme hanno ricevuto il premio General Symbiont 2021, come esempio nella pratica della condivisione dei dati ai Research Parasite Awards. Da quel momento partì in diverse parti del mondo la ricerca per la produzione di un vaccino.

 Da psicologo, posso affermare questo. L’intero insieme delle nostre conoscenze e convinzioni si fonda su due fattori, di cui uno è ovvio mentre il secondo non è immediatamente percepito. Il nostro sapere da un lato è costituito dalla somma delle nozioni che abbiamo acquisito, vuoi per averle apprese direttamente, mediante le informazioni ricevute dalle esperienze personali precedentemente vissute, vuoi per averle studiate nei libri o comunque ottenute in modo indiretto. Ma il secondo fattore, costitutivo del nostro sapere, è quello più subdolo, ed è rappresentato dalla totalità delle nozioni che ignoriamo. Infatti, quando alle nostre conoscenze pervengono nuove informazioni (che ad esempio possono riguardare un negoziante o un personaggio pubblico) è intuitivo comprendere come sia elevata la probabilità che si modifichi anche la nostra opinione. Ma tendiamo a trascurare l’importanza di tutto quanto ignoriamo, proprio in virtù del fatto che ci è sconosciuto, e che, quale che sia il nostro grado di cultura e l’intensità delle esperienze vissute, è sempre molto di più di ciò che conosciamo. Siamo, invece, propensi, ed è comprensibile e persino logico, a dare ragione a noi stessi, sottovalutando l’importanza di ciò che ci è ignoto.

Questo per dire che la lettura di questo libro per me avvincente è consigliata a chi con umiltà riconosce di conoscere poco di questo argomento scientifico specifico, nonostante l’infinità degli articoli di giornale o di programmi televisivi a esso dedicati, e desidera saperne di più, anche per confutare legittimi dubbi.

Il volume è ponderoso in quanto consta di oltre 500 pagine, ma rappresenta una lettura scorrevole, in quanto scritto con un linguaggio non tecnico. Esso narra, in alcune pagine con uno stile romanzato, l’evoluzione del sapere scientifico, soffermandosi sulle vicende suggestive di alcuni degli studiosi che hanno giocato un ruolo decisivo contro un avversario che comunque ha prodotto sei milioni di morti nel mondo. Nella premessa, Quammen afferma che il lavoro è dedicato proprio ai familiari di queste vittime. In conclusione del testo, sono citate le imponenti fonti bibliografiche e l’elenco degli incontri personali avuti con numerosi protagonisti del libro, a testimonianza dell’impegno e della serietà con cui è stato redatto il testo.

Infine, molto indovinato il titolo: “Senza respiro”. Tale è stata la manifestazione più angosciosa della sintomatologia della malattia nei pazienti nel primo periodo della sua comparsa, tale è stato lo studio senza sosta di molti scienziati, tale risulta, finanche, la lettura di alcuni brani del testo.

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) come intervento terapeutico promettente per i disturbi alimentari e l’obesità

L’applicazione clinica della rTMS ai disturbi alimentari si basa sull’ipotesi che le caratteristiche disadattive fondamentali di queste condizioni possano essere spiegate da un alterato equilibrio tra i meccanismi neurali legati ai sistemi di ricompensa e di controllo cognitivo/inibitorio.

I disturbi alimentari

 Diversi studi hanno dimostrato che i disturbi alimentari (EDs; Eating Disorders), in particolare l’anoressia nervosa (AN) e la bulimia nervosa (BN), sono responsabili di disabilità e mortalità (Erskine et al., 2016; Smink et al., 2012). La prevalenza mondiale dei disturbi alimentari varia significativamente tra i Paesi e in base alla tipologia di disturbo alimentare. Gli studi epidemiologici hanno evidenziato tassi di prevalenza modesti di anoressia nella popolazione generale (.10% – 1.05%) e tassi di prevalenza significativamente più elevati di bulimia (0.87% – 2.98%), disturbo da alimentazione incontrollata (BED; Binge Eating Disorders) e disturbi alimentari non altrimenti specificati (NOS) (1.98% – 4.45%) (Hoek, 2016). In base a queste evidenze, in letteratura si sono sviluppati diversi approcci terapeutici per far fronte a queste condizioni cliniche, sia farmacologici (Evans & American Psychological Association, 2019) che psicologici (Abbate-Daga et al., 2016; Pisetsky et al., 2019). Tuttavia, è ben noto che una percentuale significativa di persone affette da disturbi alimentari che ricevono diversi trattamenti non riescono a guarire completamente ed in modo duraturo (Kim & Kim, 2019).

La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS)

Per quanto riguarda i disturbi psichiatrici resistenti al trattamento e recidivanti (ad esempio, disturbi dell’umore, disturbi da dipendenza, disturbo da stress post-traumatico), esiste un crescente numero di ricerche empiriche che hanno studiato l’efficacia delle tecniche di neuromodulazione per il trattamento di tali condizioni (Kim & Kim, 2019). Tra gli approcci di neuromodulazione disponibili, la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS; repetitive transcranial magnetic stimulation) è non invasiva e uno degli interventi più utilizzati per diversi disturbi mentali (Lefaucheur et al., 2020). La rTMS utilizza un campo magnetico pulsato per alterare l’attività di specifici circuiti neurali attraverso l’induzione locale di una corrente elettrica nella corteccia cerebrale, inducendo una depolarizzazione neuronale (Barker, 1999).

 L’applicazione della rTMS per il trattamento di patologie psichiatriche ha mostrato risultati promettenti, soprattutto per i disturbi dell’umore e per i disturbi da uso di sostanze (SUD; Substance Use Disorder). Diverse meta-analisi hanno riscontrato ampi e consistenti miglioramenti dei sintomi depressivi tra i pazienti con disturbo depressivo maggiore e disturbo bipolare (Berlim et al., 2014; Brunoni et al., 2017; Couturier, 2005; McGirr et al., 2016). Allo stesso modo, un numero crescente di evidenze empiriche ha dimostrato l’efficacia della rTMS nel ridurre il craving e i comportamenti legati all’uso di sostanze tra i soggetti affetti da disturbi da uso di sostanze (Zhang et al., 2019). Partendo da queste evidenze, la rTMS è stata introdotta come trattamento alternativo per lo spettro dei disturbi alimentari. L’applicazione clinica di queste procedure tra i disturbi alimentari si basa sull’ipotesi che le caratteristiche disadattive fondamentali di queste condizioni possano essere spiegate da un alterato equilibrio tra i meccanismi neurali legati ai sistemi di ricompensa e di controllo cognitivo/inibitorio (O’Hara et al., 2015; Wierenga et al., 2014).

Lo studio descritto ha cercato quindi di approfondire le ricerche presenti sull’efficacia della rTMS per il trattamento dei disturbi alimentari utilizzando un approccio meta-analitico.

Stimolazione magnetica transcranica ripetitiva e disturbi alimentari

Coerentemente con le ipotesi dello studio, le procedure meta-analitiche hanno mostrato che la rTMS aveva grandi effetti terapeutici nella riduzione del BMI (Body Mass Index) tra i soggetti affetti da obesità. Al contrario, la rTMS ha mostrato un impatto nullo sui miglioramenti del BMI tra i soggetti con anoressia.

Questi risultati potrebbero supportare provvisoriamente l’affermazione che la rTMS dovrebbe essere effettuata specificamente per il trattamento dei pazienti con obesità, piuttosto che per gli altri disturbi alimentari. In particolare, è possibile che le abbuffate e altri comportamenti compensatori tra queste condizioni riflettano altre caratteristiche fondamentali dei disturbi, come l’ipercontrollo cognitivo (King et al., 2019) e l’inflessibilità cognitiva (Roberts et al., 2007), che potrebbero essere insensibili alle procedure di rTMS. Contrariamente ai risultati primari, la rTMS sembra mostrare effetti terapeutici significativi e moderati nella riduzione dell’affettività negativa. Questo risultato è parzialmente coerente con i risultati di precedenti meta-analisi che hanno dimostrato impatti clinicamente significativi della rTMS nel trattamento dei sintomi depressivi (Berlim et al., 2014; Gross et al., 2007; Teng et al., 2017). Pertanto, le procedure di rTMS dovrebbero essere considerate un intervento accessorio per il trattamento di anoressia, bulimia e disturbi alimentari non altrimenti specificati, con effetti modesti sul miglioramento del funzionamento affettivo. Al contrario, la rTMS sembra migliorare ampiamente l’affettività negativa dei soggetti affetti da obesità, anche se questa considerazione si basa su un solo studio (Alvarado-Reynoso & Ambriz-Tututi, 2019). Considerando questo dato e i risultati legati agli effetti della rTMS sulla riduzione del BMI, è possibile concludere provvisoriamente che queste procedure sono promettenti per il trattamento dell’obesità e, probabilmente, anche per i pazienti con binge eating disorder, come riportato da un singolo caso di studio (Baczynski et al., 2014). Tuttavia, sono necessari futuri studi randomizzati e controllati per supportare ulteriormente questa ipotesi, soprattutto per quanto riguarda i soggetti affetti da binge eating disorder.

La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale – Presentazione del Libro”.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri online gratuiti di divulgazione rivolti al pubblico.

La formulazione condivisa del caso è un intervento classico del repertorio psicoterapeutico cognitivo comportamentale. Sebbene sempre considerata importante, il suo approfondimento teorico è stato tuttavia sottovalutato rischiando di ridurla ad accorgimento tecnico. La condivisione della formulazione del caso è strettamente innestata ai principi teorici dell’analisi funzionale dei comportamenti disadattivi e alla possibilità di intervenire ristrutturando in collaborazione consapevole con il paziente gli stati mentali disfunzionali. Il libro approfondisce le implicazioni teoriche e cliniche della formulazione condivisa del caso nelle terapie cognitivo comportamentali (cognitive behavioural therapy, CBT), definendola come il principale strumento operativo degli approcci CBT con cui il terapeuta gestisce l’intero processo psicoterapeutico.

Nell’episodio è illustrato il rapporto tra formulazione condivisa del caso, interventi specifici del trattamento cognitivo comportamentale e fattori aspecifici, tra cui alleanza e relazione terapeutica.

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

Utilizzo della Dialectical Behavior Therapy nel trattamento del disturbo borderline di personalità

La terapia dialettico comportamentale ha l’obiettivo di aiutare i pazienti borderline a sviluppare skills fondamentali per far fronte a difficoltà e cambiamenti della vita quotidiana.

 

Il disturbo borderline di personalità

 Il disturbo borderline di personalità (BPD) è definito dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali come “Un pattern pervasivo di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore, e una marcata impulsività, che inizia entro la prima età adulta ed è presente in svariati contesti”. Frequentemente, le persone aventi questo disturbo, mostrano alti livelli di impulsività, che può degenerare fino alla messa in atto di comportamenti violenti, autolesivi e suicidari (Shaikh et al., 2017).

Inoltre, il disturbo borderline si presenta spesso in comorbilità con altri disturbi, come i disturbi d’ansia e dell’umore, e purtroppo la compresenza di queste condizioni aggrava la probabilità di rischio suicidario (Tomko et al., 2014). Infatti, tra le persone con disturbo borderline di personalità, la prevalenza di tentato suicidio stimata nell’arco della vita è del 60%-70% e dell’8%-10% per i suicidi portati a termine (Basheer, 2018). È proprio questa tendenza all’autolesionismo e al suicidio, a portare le persone con questo disturbo a frequente contatto con il sistema sanitario, a causa della frequenza con cui vengono ospedalizzati in condizioni di emergenza; proprio questo fattore rischia di diventare, di per sé, un meccanismo di coping che va a mantenere e rinforzare i comportamenti suicidari (Mehlum, 2009).

Trattare il disturbo borderline di personalità

Molteplici trattamenti sono risultati efficaci nel trattamento del disturbo borderline di personalità, come per esempio la terapia dialettico comportamentale (DBT), la terapia basata sulla mentalizzazione, la psicoterapia focalizzata sul transfert e la schema therapy; tra i trattamenti appena citati, la terapia dialettico comportamentale è quella con maggiori evidenze scientifiche che ne supportano l’efficacia per quanto riguarda il trattamento del disturbo borderline di personalità (Basheer, 2018).

 La terapia dialettico comportamentale è un trattamento di stampo cognitivo comportamentale, sviluppato da Marsha Linehan, specifico per pazienti borderline (Linehan, 1993). All’interno della concettualizzazione della Linehan i sintomi del disturbo borderline di personalità si correlano a una carenza di skills necessarie per fronteggiare e gestire l’instabilità emotiva, comportamentale, cognitiva e relazionale, dovuta a predisposizioni sia genetiche che a fattori ambientali. Proprio per questo, la terapia dialettico comportamentale ha l’obiettivo di aiutare i pazienti borderline a sviluppare skills fondamentali per far fronte a difficoltà e cambiamenti della vita quotidiana. Nello specifico la dialectical behavior therapy skills training (DBT-ST) si articola in quattro moduli: abilità di mindfulness nucleari, regolazione emotiva, tolleranza alla frustrazione ed efficacia interpersonale (Linehan, 2015).

Lo skills training della terapia dialettico comportamentale

Uno studio del 2021 di Heerebrand e colleghe ha valutato l’efficacia della terapia dialettico comportamentale, nello specifico quella ideata per lo Skills Training di gruppo, definita DBT-ST, in un campione composto da 114 persone (105 donne e 9 uomini), di età compresa tra i 19 e i 63 anni, le quali erano state reclutate per partecipare a un training di gruppo DBT-ST, attraverso la Eastern Community Mental Health Service (ECMHS) per la durata di 18-20 settimane. È importante sottolineare che, oltre alla partecipazione al gruppo di skills training, i partecipanti hanno proseguito in concomitanza la cura farmacologica prescritta loro in precedenza. L’intento dello studio in questione era quello di valutare la presenza e gravità dei sintomi del disturbo borderline di personalità, tra cui distress psicologico, depressione, tasso di ricoveri di emergenza in strutture sanitarie e giorni di ospedalizzazione in psichiatria. I risultati di questo studio hanno evidenziato che, al completamento della DBT-ST, i partecipanti hanno mostrato una riduzione dei sintomi del disturbo borderline di personalità, del distress psicologico e dei sintomi depressivi; inoltre, anche il tasso di ricoveri di emergenza è risultato notevolmente ridotto. In conclusione, le autrici hanno comprovato l’efficacia della terapia dialettico comportamentale con focus sullo skills training, per pazienti affetti da disturbo borderline di personalità.

 

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