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Le origini dell’ansia. Dall’ansia che motiva, all’attacco di panico che paralizza

Un’ansia eccessiva comporta molto spesso tutta una serie di sintomi sul piano cognitivo e corporeo-somatico che possono strutturarsi in veri e propri disturbi.

 

 Molto spesso sentiamo parlare di ansia o ci sentiamo sopraffatti da essa. Il termine tuttavia viene talvolta utilizzato in modo non del tutto corretto o comunque in modo generico per indicare stati emotivi analoghi. È importante quindi conoscere bene il significato di questa emozione, quali effetti comporta e quali possono essere i possibili interventi psicologici per imparare a gestirla quando inizia a farci stare male.

Che cos’è l’ansia: differenza tra ansia e paura

L’ansia è un’emozione che si definisce secondaria. Si usa l’aggettivo secondaria per distinguerla dalle emozioni cosiddette primarie, ovvero quelle emozioni che sono presenti in tutte le popolazioni ed in ogni cultura, presenti in ogni essere umano sin dai primi giorni di vita. Le emozioni primarie sono gioia, tristezza, paura, disgusto, rabbia.

Le emozioni secondarie, per contro, non sono insite nell’individuo ma si acquisiscono nel corso della vita attraverso gli eventi che ci capitano e con gli scambi relazionali ai quali siamo esposti. Tra queste emozioni troviamo: invidia, vergogna, colpa, gelosia e ansia. Queste emozioni sono molto più complesse, perché derivano dalle emozioni primarie e sono apprese attraverso la storia personale di ogni persona (Fiore, 2015).

È importante fare una prima distinzione tra paura ed ansia, sua derivata. Molto spesso infatti si tende ad interscambiare i due termini, tuttavia vi è una peculiarità che differenzia le due emozioni. La paura è un’emozione che ci avverte della presenza di un pericolo imminente, come ad esempio qualcuno che ci rincorre con un coltello in mano, intenzionato a farci del male. In questo caso la rappresentazione del pericolo è ben definita nella mente del soggetto che la prova. Nell’ansia invece, la rappresentazione minacciosa non è delineata, è un’emozione che nasce dall’anticipazione di uno scenario catastrofico futuro, non certo. Solitamente l’ansia è mantenuta da pensieri negativi posti in forma di molti “e se…”. Dubbi che generano malessere nell’individuo che se li pone (American Psychiatric Association [APA], 2014).

L’utilità dell’ansia

L’ansia ed i suoi effetti possono essere concepiti come una curva che ne rappresenta la soglia di severità. Un’ansia sana, non patologica, aiuta nelle prestazioni, spinge all’azione. Se non provassimo mai ansia ad esempio prima di un compito in classe o prima di una gara sportiva, probabilmente ne risentirebbe anche la nostra prestazione. Una buona quota di ansia, infatti, è utile per motivarci, spinge all’azione e migliora le prestazioni. Ma se la curva dell’ansia si alza ulteriormente, in modo eccessivo, l’ansia non è più un’emozione adattiva, funzionale alla prestazione, perché compromette l’attività in cui il soggetto deve cimentarsi. L’ansia, diventa disfunzionale per la persona quando reca disagio a chi la prova, in particolare se si presenta in momenti in cui non occorre e si presenta con costanza ed intensità tali da andare a peggiorare la condizione di vita e le attività di della soggetto (Barnhill, 2020).

Un’ansia eccessiva comporta molto spesso tutta una serie di sintomi sul piano cognitivo e corporeo-somatico. Si possono infatti riscontrare vuoti di memoria, difficoltà di concentrazione, dolori addominali, forte tachicardia e sudorazione. Tutti sintomi indicatori che il nostro organismo è in allarme, che si sta preparando ad affrontare l’ipotetico scenario minaccioso (Melli, 2018).

Come mai l’ansia finisce per ostacolarci? La “Teoria degli scopi” come possibile spiegazione alla genesi dei disturbi d’ansia

Secondo questa teoria, gli esseri umani sono mossi da scopi, ovvero ogni azione prodotta da una persona è finalizzata a muovere la stessa da una situazione di partenza ad una più agevole. Gli scopi che una persona si prefigge, sono quindi la forza motrice dell’agire umano e sono la spinta motivazionale che regola i comportamenti. Ogni persona mette in atto quindi determinate azioni poiché mossa da scopi personali. Ogni strategia adottata da un soggetto, entra in relazione con determinate credenze psicologiche che servono a valutare in maniera positiva o meno il raggiungimento di un certo stato desiderato. Ecco quindi che un individuo può trovarsi a credere che è importante avere una buona forma fisica e si impegna a fare jogging costantemente per ottenerla. Lo scopo ultimo sarà quindi quello della forma fisica ottimale. Le emozioni, in questo caso, ci danno indicazioni circa il raggiungimento o meno dello scopo finale (Sassaroli et al., 2006).

L’ansia, in quest’ottica, ci indica se lo scopo del soggetto in questione è minacciato e vi possa essere la possibilità di finire in uno stato non desiderato e poco conosciuto. È il caso tipico della morte, la si teme proprio perché rappresenta la forma dell’ignoto per eccellenza. Se il nostro sistema cognitivo valuta come minacciato uno scopo a noi caro, maggiore sarà il peso dato al nostro scopo, ecco che più intensa sarà l’ansia provata.

L’ansia diventa invalidante per la persona, cristalizzandosi in un disturbo, per esempio dopo che l’attenzione della persona si sposta sull’attivazione fisiologica tipica dell’ansia e sui pensieri negativi ad essa connessi, diventando così essa stessa fonte di minaccia ed andando ad ingigantire la valutazione negativa riguardo alla probabilità che un certo evento negativo si verifichi. Questo circolo inizia così a recare sofferenza alla persona (Sassaroli et al. 2006).

Quando qualcosa viene giudicato da noi come minaccioso, per noi o per i nostri scopi, il nostro organismo si prepara ad agire: il corpo manifesta gli stati tipici legati alle situazioni di attacco o fuga. In una situazione che percepiamo come minacciosa ecco che si manifestano accelerazione del battito cardiaco, che fa aumentare la circolazione sanguigna, possiamo sentire la bocca secca, nausea e dolori addominali, perché il sangue viene incanalato dai visceri verso la muscolatura, si percepiscono inoltre difficoltà respiratoria, sensazione di soffocamento, vertigini perché vi è un aumento della respirazione, la muscolatura è maggiormente tesa e la persona può manifestare tremori (Andrews et al., 2003).

L’ansia invalidante può quindi infine concretizzarsi in un disturbo d’ansia, che per definizione provoca una compromissione in uno o più ambiti della vita del soggetto, come potrebbero essere ad esempio studio, lavoro o relazioni.

L’ansia che ostacola e le sue varie manifestazioni

Le problematiche legate all’ansia risultano avere un’incidenza maggiore rispetto ad altri disturbi psicologici. I dati riportano come l’ansia, nelle sue varie manifestazioni, sia anche una condizione che molto spesso non viene diagnostica e, di conseguenza, non riceve un trattamento adeguato.

Si stima che prima della pandemia da Covid-19 ne fossero affetti 298 milioni di individui, nel periodo successivo alla pandemia i dati riportano invece 374 milioni di persone. I disturbi d’ansia sono risultati essere più comuni tra le donne, probabilmente perché maggiormente esposte per motivi sociali ed economici, alle ripercussioni legate alla pandemia (NBST, 2021).

In riferimento alla Teoria degli scopi, citata poco sopra, possiamo ipotizzare come il lockdown e le restrizioni connesse, siano stati una fonte di frustrazione per gli scopi personali per milioni di persone, andando così ad aumentare la sofferenza connessa a stati ansiosi in chi è predisposto.

L’ansia invalidante e disturbante per il soggetto può manifestarsi in diversi modi, portando ad una compromissione nel funzionamento di vita delle persone. Chi presenta difficoltà legate all’ansia, può avere timori che condizionano l’esistenza, con tematiche molto diverse tra loro. Tra quelli che vengono definiti disturbi-d’ansia, troviamo: ansia generalizzata, ansia sociale e attacchi di panico (APA, 2014).

Nel disturbo d’ansia generalizzata, la persona è costantemente preoccupata. Vengono identificate come fonte di preoccupazione tematiche riguardanti la salute propria e dei propri cari, il percorso di studi, il lavoro, la propria situazione economica, e così via. Fulcro di questo disturbo è proprio la preoccupazione, che viene percepita dal soggetto come qualcosa di incontrollabile e di pericoloso, che può ad esempio portare alla follia.

 L’altro disturbo d’ansia citato è l’ansia sociale. In questa condizione ansiosa la persona teme di fare una brutta figura durante una prestazione che deve essere eseguita in pubblico, come potrebbe essere cantare, parlare al telefono, mangiare. Una volta esposta alla situazione sociale, che viene percepita come minacciosa, la persona mette in atto dei comportamenti protettivi per cercare di nascondere i sintomi tipici dell’ansia agli occhi di chi gli è vicino; spostando però l’attenzione più su di sé che sulla prestazione in atto o sull’ambiente circostante, finisce per andare a confermare i propri timori di apparire come inadeguato agli occhi altrui.

Infine vi è il disturbo di panico. In questo caso la persona che ne soffre sperimenta quella che viene definita “paura della paura”. I sintomi legati all’ansia vengono percepiti come minacciosi, tale percezione sfocia in un’interpretazione catastrofica di questi sintomi, che vengono immaginati come il presagio di una catastrofe imminente come potrebbe essere avere un infarto, svenire, impazzire e così via. Questa interpretazione, erronea, sfocia così nell’attacco di panico. La persona, successivamente, vive con il timore che altri attacchi si ripresentino e inizia così, molto spesso, ad evitare tutte quelle situazioni in cui l’attacco può manifestarsi e non può ricevere aiuto, come ad esempio guidare, entrare in un centro commerciale e altri ancora (Wells, 1999).

La psicoterapia cognitivo-comportamentale come soluzione

La psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale è un metodo di intervento basato su evidenze scientifiche. I trattamenti proposti in questo percorso di cura della sofferenza psicologica sono quindi frutto di studi scientifici, ottenuti dai dati della ricerca. Questo tipo di terapia, dal punto di vista comportamentale sostiene e motiva la persona ad affrontare le situazioni temute e, parallelamente, sul piano cognitivo va a migliorare la qualità dei pensieri che possono insorgere durante le prescrizioni comportamentali e che mantengono la sofferenza psicologica (Montano, 2013).

Le psicoterapie basate su evidenze scientifiche, come lo è la terapia cognitivo-comportamentale, risultano essere al momento le terapie con il maggior tasso di efficacia nell’intervento sui problemi psicologici. Nonostante l’efficacia di questa terapia sia comprovata da diversi studi scientifici, al momento non è ancora molto diffusa in Italia quanto lo è invece nei paesi anglosassoni in cui è stata ideata (Cook et al., 2017).

La letteratura attualmente esistente pone particolare attenzione alla Terapia MetaCognitiva (MCT), una forma di terapia cognitivo-comportamentale di recente ideazione, che si è dimostrata di notevole utilità nel trattamento del disturbo d’ansia generalizzata. La MCT, in fase di intervento pone l’enfasi sulle preoccupazioni che mantengono il disturbo d’ansia generalizzata, come la pericolosità e l’incontrollabilità della preoccupazione stessa. Grazie a questo percorso di cura, la persona viene sostenuta ad accrescere la propria capacità di gestione dei pensieri legati alle preoccupazioni, oltre che a concepire la preoccupazione come qualcosa che non è nocivo per la propria salute (Wells, 1999). La MCT si differenzia da altri interventi classici per il non utilizzo di tecniche di rilassamento per ridurre l’attivazione ansiosa; la persona, viene invece sostenuta nell’apprendere la “consapevolezza distaccata”, ovvero l’abilità di lasciare scorrere i propri pensieri. Secondo questo approccio, tale abilità risulta fondamentale per non ingaggiarsi in quei pensieri negativi che mantengono il disturbo. L’utilizzo di questo intervento è risultato avere una maggiore efficacia sui pazienti, anche nel lungo termine rispetto alle classiche psicoterapie (Nordahl et al., 2018).

Nel caso dell’ansia sociale, la terapia cognitivo-comportamentale (TCC) si è dimostrata la terapia d’elezione. Durante la psicoterapia, in particolare, si interviene sui comportamenti protettivi utilizzati per proteggersi dalla possibile visibilità dei propri sintomi legati all’ansia con l’obiettivo di rendere la persona consapevole di come questi siano una fonte di mantenimento del disturbo. Si utilizza inoltre la tecnica del video-feedback, che consiste nel registrare il paziente durante una prestazione sociale con il fine di fargli notare la discrepanza tra come pensa di apparire e come è realmente. Tali tecniche servono inoltre a far comprendere al paziente che l’attenzione, se posta eccessivamente su di sé e sui propri sintomi ansiosi, ha un ruolo fondamentale nel mantenere il disturbo e nel confermare le proprie previsioni catastrofiche (McManus al., 2009).

Per quanto riguarda l’intervento sul disturbo di panico, i dati in letteratura ritengono che il modello di intervento cognitivo-comportamentale sia quello più indicato. In questo caso, la TCC, in prima battuta, ha come focus di intervento il saper tollerare i sintomi corporei legati all’ansia in modo che non diventino per la persona il presagio di una catastrofe imminente, come potrebbe essere svenire, avere un infarto e così via. Successivamente l’intervento si basa sull’esposizione graduale a situazioni temute in modo da ridurre l’evitamento che la persona mette in atto e che mantiene il disturbo (Clark, 1986).

In conclusione

L’ansia è un’emozione e come tutte le emozioni non possiamo pensare di debellarla completamente, anche se molto spesso tentiamo di sopprimerla non cogliendone la sua funzione adattiva e di attivazione dell’organismo. È anche vero che se questa diventa disadattiva sfociando in una delle sue manifestazioni più aggressive ed invalidanti come quelle descritte in questo articolo, necessita di un intervento da parte di un professionista. La psicoterapia, in particolare ad orientamento cognitivo-comportamentale, ad oggi è considerata il metodo d’elezione per far fronte alle problematiche legate all’ansia. I dati riportano come oltre la metà delle persone che hanno intrapreso un percorso psicoterapico si sia ristabilita, riprendendo così la propria capacità di gestione delle aree importanti della vita come ad esempio lavoro, relazioni e interessi personali (Di Marco, 2021).

Scegliere lo psicoterapeuta (2022) di Andrea Castiello d’Antonio – Recensione del libro

Il libro “Scegliere lo psicoterapeuta” di Andrea Castiello d’Antonio e pubblicato da Hogrefe nel 2022 è una utile guida per l’obiettivo che il suo titolo descrive, appunto scegliere uno psicoterapeuta.

 

 Esso è rivolto ai potenziali pazienti ed è scritto con stile scorrevole e pulito e un linguaggio non tecnicistico ma comprensibile per chi non è del mestiere. Ecco che nei capitoli si susseguono riflessioni, risposte e descrizioni delle domande che si pone chi, soffrendo di un dolore emotivo, si è posto la domanda se sia il caso di chiedere un aiuto psicologico, domanda a cui spesso ne seguono mille altre in caotica processione.

Si analizzano i timori e le perplessità del possibile paziente, le ambivalenze e sfiduce, ma anche le questioni pratiche dei costi, dei tempi e degli sforzi necessari. Si chiariscono i principali tipi di sofferenza psichica, dalla depressione all’ansia, dal disturbo ossessivo al trauma. Si descrivono i tratti comuni alle varie psicoterapie e le fasi che si susseguono in un processo psicoterapeutico. Si raccomandano gli atteggiamenti e le aspettative che permettono una buona terapia e anche le condotte che la danneggiano. Si indicano le principali scuole di psicoterapia, le loro caratteristiche, i loro punti di forza e di debolezza, la loro possibile compatibilità o incompatibilità con i vari tipi di sofferenza emotiva e di personalità del paziente.

 Forse le parti più interessanti per il paziente sono quelle che trattano i possibili dubbi che si possono nutrire per l’efficacia della psicoterapia che si è scelti o per la compatibilità con lo psicoterapeuta che si è incontrati, fino ad arrivare a trattare la delicata tematica della violazione del setting terapeutico. Considerazioni fatte per una volta dalla parte del paziente e non del terapeuta. Altrettanto intrigante il capitolo che tratta invece dei casi in cui potrebbe convenire tener duro e mantenere fiducia nel trattamento, nonostante eventuali dubbi o insoddisfazioni. Un capitolo finale è dedicato anche ai difficili panni che indossa il terapeuta, forse per riequilibrare la bilancia di un libro che è, giustamente, scritto dalla parte del paziente. Insomma, un buon libro che orienta alla psicoterapia chi potrebbe averne bisogno.

 

Le tattiche di auto-presentazione in relazione ai tratti di personalità

La ricerca condotta nel 2019 da Hart e colleghi, si è concentrata sullo studio della relazione tra il modello dei tratti di personalità a cinque fattori (PID-5; Krueger et al., 2012) e l’uso delle tattiche di autopresentazione affermative o difensive.

 

Tratti di personalità e tecniche di autopresentazione

Gli individui con tratti di personalità patologica possono, almeno in parte, presentare alcune combinazioni di tre tendenze di autopresentazione (Fontana et al., 1968; Leary, 1996; Schlenker, 1980):

  • un maggior ricorso a tattiche di autopresentazione che possono trasmettere identità socialmente indesiderabili (ad esempio, presentarsi come una persona debole, vulnerabile, egoista)
  • un maggior ricorso a tattiche di autopresentazione opportunistiche che facilitino il raggiungimento di obiettivi egoistici
  • un minor ricorso a tattiche di autopresentazione che ritraggono il sé come un modello di riferimento o come una persona premurosa.

Il modello dell’autopresentazione analizza il legame tra tratti patologici di personalità e strategie comportamentali funzionali al mantenimento dell’identità (Leary, 1996; Schlenker, 1980, 2012). Questa analisi serve per comprendere il funzionamento intraindividuale del paziente con una patologia della personalità e per evidenziare gli interventi che potrebbero essere attuati in psicoterapia a livello comportamentale.

Gli individui controllano il loro comportamento con il fine di presentare identità che ritengono possano permettergli di ottenere il trattamento desiderato (Schlenker, 1980, 2012). Il controllo si manifesta attraverso comportamenti di mantenimento dell’immagine che possono essere categorizzati in base al loro intento affermativo (comportamenti volti ad assumere un’identità desiderata, guidati dall’auto-affermazione e dall’auto-valorizzazione) o difensivo (comportamenti guidati dall’autoprotezione e dalla difesa di risorse opportunistiche; Lee et al., 1999; Schlenker, 1980).

Oltre alla distinzione tra affermativo e difensivo, alcune tecniche affermative (assertive tactics nel paper originale) possono essere maligne (come comportamenti dirompenti, intimidazioni o suppliche), relativamente benigne (come l’autopromozione) o virtuose (come l’esemplificazione, Bolino & Turnley, 2003).

Alcune tattiche di auto-presentazione, infatti, sono principalmente intese a coltivare o mantenere il valore del sé (es. tattiche “egoistiche”: auto-miglioramento, scuse, giustificazioni, ecc), a promuovere l’acquisizione o la difesa di risorse (ad es. tattiche “opportuniste”: supplica, intimidazione), o a trasmettere qualità morali (ad es. tattiche “virtuose”: esemplificazione, scuse; Hart, Adams, Burton & Tortoriello, 2017, 2019; Jones & Pittmann, 1982; Leary, 1995).

PID-5 e tattiche di autopresentazione

La ricerca condotta nel 2019 da Hart e colleghi, si è concentrata sullo studio della relazione tra il modello dei tratti di personalità a cinque fattori (PID-5; Krueger et al., 2012) e l’uso delle tattiche affermative o difensive. Il PID-5 propone una visione dei tratti di personalità focalizzandosi su cinque dimensioni: effettività negativa, distacco, antagonismo, disinibizione e psicoticismo. L’affettività negativa riflette un orientamento sociale vulnerabile/difensivo; il distacco un orientamento asociale; l’antagonismo un orientamento sociale grandioso/acquisitivo; la disinibizione un orientamento sociale impulsivo/irresponsabile, mentre lo psicoticismo sembra essere meno legato a un orientamento sociale generale.

Nello studio (Hart et al., 2019), i partecipanti (per un totale di 250) sono stati sottoposti alla compilazione del Self-Presentation Tactics Scales per la valutazione delle tattiche di autopresentazione (SPTS; Lee et al., 1999) e al PID-5, per la valutazione dei tratti di personalità (Krueger et al., 2012).

 Dai dati ottenuti, l’antagonismo e l’affettività negativa sono risultati correlare con un maggior uso di tattiche di autopresentazione. Le persone con tratti antagonisti potrebbero utilizzare le tattiche per auto-valorizzarsi e acquisire risorse, mentre quelle con elevata affettività negativa potrebbero usarle come auto-protezione (Hart et al., 2017; Sadler et al., 2010). In particolare, l’antagonismo correla con un maggior uso di tattiche socialmente più audaci che trasmettono malevolenza (come l’intimidazione) e, mentre l’affettività negativa si collega a un maggior utilizzo di giustificazioni e scusanti, l’antagonismo si collega, al contrario, a un minor utilizzo di quest’ultime. Le scuse favoriscono la ricucitura di rapporto con la parte offesa e, infatti, sono coerenti con un’identità più vulnerabile e paurosa, ma non con un’identità antagonista. Il distacco, invece, è correlato a un minor utilizzo di tattiche di autopresentazione. La premessa di queste tattiche è che siano presumibilmente motivate dall’edonismo (ovvero, con il fine di aumentare il piacere) e che riflettano la dipendenza delle persone agli altri per il raggiungimento degli obiettivi (Jones & Pittman, 1982; Leary, 1996; Schlenker, 1980). Poiché il distacco è correlato a una minore pulsione edonica e all’evitamento sociale, i dati risultano coerenti (Krueger et al., 2012).

La disinibizione, invece, è correlata ad una riduzione delle scuse e dell’esemplificazione. Le persone disinibite potrebbero avere un minor controllo sul proprio comportamento e, per questo, potrebbero sentirsi meno responsabili dei risultati negativi; inoltre, essendo viste come più spericolate e irresponsabili (Sleep et al., 2019), potrebbero sentirsi meno in grado di convincere gli altri di essere modelli da emulare. Anche la psicopatia (particolarmente legata alla disinibizione), in effetti, si lega a un minor utilizzo di esemplificazioni e di scusanti (Sleep et al., 2019).

Lo psicoticismo è risultato avere legami, seppur deboli e non significativi, con tutte le tattiche, eccetto per l’intimidazione. Considerando la difficoltà degli individui con alti livelli di psicoticismo nello stabilire legami sociali con gli altri in maniera naturale (ad esempio attraverso la condivisione di somiglianze, che trasmettono simpatia; Byrne, 1969), essi potrebbero voler ricorrere all’utilizzo di tattiche di autopresentazione di “auto-promozione”, per trasmettere il loro valore, la loro simpatia e la loro virtù.

Lo studio condotto da Hart e colleghi (2019) si aggiunge ad altri studi di verifica del modello dimensionale a cinque fattori, evidenziandone ulteriormente la validità in relazione a caratteristiche della psicopatologia di personalità e riscontrando una relazione tra i tratti di personalità e gli stili di autopresentazione, ampiamente coerente con l’orientamento interpersonale generale di ogni tratto.

Il gioco come strumento di capacità inter-relazionale in età prescolare

Mildred Parten stabilì alcune categorie relative allo sviluppo dei giochi infantili. Pertanto, lo sviluppo del gioco sociale passa attraverso sei livelli.

 

 La seconda infanzia, che va dai 2 ai 6 anni, è il periodo del gioco, inteso quale strumento di acquisizione di abilità relazionali, nonché di sviluppo di capacità cognitive ed emotive. L’attività ludica in questa età permette al bambino non solo di prendere coscienza del proprio spazio, ma anche di prendere consapevolezza del punto di vista dell’altro.

Il gioco sociale, che si pone tra il gioco solitario e quello collettivo, è stato affrontato da molti studiosi, tra questi si ricorda Mildred Parten degli anni Trenta del XX secolo, sociologa dell’Università del Minnesota. Nei suoi studi, ancora oggi ritenuti validi, la studiosa osservò piccoli gruppi di bambini in età pre-scolare e si accorse che giocavano prevalentemente da soli, divertendosi con giocattoli lasciati in giro, oppure osservavano il gioco degli altri loro pari senza però parteciparvi.

Le categorie di gioco infantile

Da questi studi, Mildred Parten stabilì alcune categorie relative allo sviluppo dei giochi infantili. Pertanto, lo sviluppo del gioco sociale passa attraverso sei livelli di gioco: il comportamento libero, il gioco solitario, il gioco da spettatore, il gioco parallelo, il gioco associato e il gioco cooperativo.

Secondo la sociologa americana, il comportamento libero è quello in cui il bambino, al di sotto dei due anni, impara a conoscere le proprie abilità in attività libere, ossia esplorando ciò che lo circonda.

Nel gioco solitario, il bambino è impegnato nella manipolazione degli oggetti.

Nel gioco da spettatore, il bambino osserva i suoi pari giocare, senza però interagire con loro per timidezza o per paura, limitandosi a guardarli.

Il gioco parallelo (2-3 anni) è, invece, una sorta di gioco egocentrico che si colloca tra il gioco solitario e quello collettivo. Pertanto, esso si svolge in presenza di altri bambini, ma non vi è interazione con gli altri bambini. Ciò significa che un bambino può smettere di giocare senza che ciò vada ad incidere sul gioco altrui.

Verso i 4 anni il bambino sperimenta quello che Mildred Parten definisce gioco associativo, ossia quando i bambini giocano separatamente ma condividono, comunicano con gli altri riguardo alla propria attività di gioco con la tendenza a giocare con gli stessi giocattoli usati dagli altri.

Il gioco cooperativo, che è quello che si sviluppa dai 4 anni in poi, si caratterizza per la collaborazione tra i bambini che condividono lo stesso obiettivo del gioco, giocando insieme per raggiungerlo.

È così che la presenza di un gruppo di coetanei e/o il costituirsi di rapporti amicali, implica l’esistenza di rapporti sociali.

Gioco e rapporti sociali

 Come si è visto, il gioco parallelo implica già un certo livello di coinvolgimento sociale, perché, seppure giochino in modo indipendente l’uno dall’altro, condividono lo stesso spazio di gioco e lo stesso tipo di giocattoli fino a quando il gioco diventa associativo, ossia quando i bambini conversano tra loro, si scambiano oggetti e prestano attenzione a ciò che fanno gli altri. La cooperazione nel gioco avviene quando si è di fronte a un gioco organizzato in cui i partecipanti rivestono ruoli diversi e svolgono azioni finalizzate al raggiungimento di un obiettivo comune. All’interno di questo tipo di gioco, spesso emergono i leader che stabiliscono il corso del gioco.

Ricerche successive di Howes e Matheson (1992) hanno dimostrato che il gioco sociale non sostituisce del tutto quello solitario e parallelo.

Secondo lo studioso George Herbert Mead, il gioco di finzione o role-taking, permette al bambino di impersonare più ruoli e quindi di identificarsi con persone per lui rilevanti e di conseguenza di sperimentare le azioni e reazioni che si verificano negli scambi interpersonali. La capacità che il bambino ha di rappresentarsi oggetti, situazioni e persone nella propria mente, l’imitare, il fare finta di sostenere una parte (ad esempio, fare finta di fare la mamma che si rapporta col proprio figlio), gli dà l’opportunità di mettersi nei panni degli altri, di anticipare il significato sociale delle proprie azioni e di cogliere le reazioni dell’altro come conseguenza dei propri comportamenti. La valenza sociale del gioco simbolico è già presente nella prima infanzia, prima come immagine o rappresentazione mentale di una situazione, in seguito come attività concreta condivisa con altri bambini e/o adulti. Pertanto, attraverso il gioco simbolico e lo sviluppo cognitivo il bambino apprende il modo di interrelazionarsi con i pari e acquisisce competenze sociali sempre più organizzate e complesse.

Apnea notturna associata ad Ansia e Depressione

L’Apnea Ostruttiva del Sonno è una condizione clinica cronica che causa delle interruzioni respiratorie durante la fase di sonno, risvegli frequenti, sonno non ristoratore ed eccessiva sensazione di sonnolenza diurna. Nei pazienti che ne soffrono è stata osservata la presenza di disturbi ansiosi e depressivi.

 

Apnea Notturna e Apnea Ostruttiva del Sonno

 L’Apnea Notturna è stata da sempre argomento di forte interesse nel mondo della psicologia; questo articolo ha lo scopo di esplorare l’associazione tra Apnea Ostruttiva del Sonno (OSA) e Depressione e Ansia in individui di età adulta, osservando i risultati emersi dallo studio condotto da Aloia e colleghi (2005).

L’Apnea Ostruttiva del Sonno è una condizione clinica cronica che causa delle interruzioni respiratorie durante la fase di sonno, risvegli frequenti, sonno non ristoratore ed eccessiva sensazione di sonnolenza diurna (Young et al., 2002).

Lo studio di Aloia e colleghi (2005) indaga la presenza di disturbi ansiosi e depressivi in pazienti con diagnosi di Apnea Ostruttiva del Sonno.

L’Apnea Ostruttiva del Sonno viene considerata un rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari, tra cui ipertensione, coronaropatia, ictus e malattie cerebrovascolari, sindrome metabolica (Gottlieb et al., 2010; Peppard et al., 2000) e diabete (Botros et al., 2009; Trayhurn et al., 2008). Le cause di queste ripercussioni risiedono nella ripetuta frammentazione del sonno, nella ipossiemia notturna, nella ipossia e nella ipercapnia; questi fattori innescano stress e attivano a livello simpatico il Sistema Nervoso Centrale (Gozal et al., 2008; Lavie et al., 2009).

Le variabili associate ad apnea notturna

 Nello studio (Aloia et al., 2005) si evidenzia come la depressione e l’ansia sono risultate essere più presenti nei pazienti con Apnea Ostruttiva del Sonno di genere femminile rispetto ai soggetti di genere maschile (Ashagary et al, 2012). Inoltre, in molti studi l’influenza di un BMI superiore a un valore normopeso, influisce e risulta essere un fattore che associa il sonno alla depressione (Aloia et al., 2005).

Un’altra variabile clinica che è emersa in questo studio (Aloia et al., 2005) è che l’Eccessiva Sonnolenza Diurna (EDS), autovalutata con la scala Epworth Sleepiness Scale, risulta essere associata ai sintomi depressivi.

Sono state evidenziate delle differenze significative riguardo alla prevalenza di sintomi ansiosi e depressivi negli studi selezionati, tra i casi in cui la valutazione è stata effettuata con un questionario e quelli in cui è stata effettuata una visita clinica.

Un risultato indiretto dello studio è l’osservazione che la depressione e l’ansia sono associate all’Apnea Ostruttiva del Sonno, ma sono trascurati nella pratica comune per quanto riguarda il trattamento della sintomatologia.

La diagnosi e il trattamento di depressione e ansia nei pazienti affetti da Apnea Ostruttiva del Sonno possono essere approfonditi, migliorati e integrati a livello multidisciplinare.

Effetti dell’uso dei social media sulle abilità sociali degli adolescenti di oggi

I social media sembrerebbero avere effetti, sia positivi che negativi, sulle abilità sociali degli adolescenti.

 

Social media e adolescenti

 Con il termine social media si intende qualsiasi piattaforma online, inclusi i siti di social networking, utilizzata per costruire reti o relazioni sociali con altre persone che condividono interessi, attività, background o legami reali (O’Keeffe et al., 2011). Questi siti sono cresciuti in modo esponenziale negli ultimi anni e vengono ampiamente utilizzati dai giovani di oggi, cresciuti nella “Net Generation” (Akram & Kumar, 2017). Nella società odierna, infatti, l’uso dei social media è una delle attività più comuni tra gli adolescenti, tanto da diventare parte integrante della loro vita e contesto chiave in cui esprimono le principali sfide legate all’età (O’Reilly, 2020).

In adolescenza la relazione tra pari è fondamentale per lo sviluppo sociale e l’adattamento psicosociale e oggi una parte significativa delle interazioni interpersonali avviene online (Tsitsika et al., 2014): negli ultimi dieci anni, i social network sono diventati uno dei mezzi di comunicazione più comune tra i ragazzi (Rathakrishnan et al., 2019). Di conseguenza, le relazioni interpersonali hanno subito un impatto e sono avvenuti grandi cambiamenti nel modo di comunicare degli adolescenti (Gallardo et al., 2020): i social network stanno trasformando il comportamento con cui i giovani si relazionano con genitori e coetanei (Akram & Kumar, 2017). La tradizionale socializzazione faccia a faccia è sempre più sostituita dai social network, che consentono l’interazione con l’altro senza la necessità della presenza fisica degli interlocutori (Gallardo et al., 2020).

Perché è importante interrogarsi sull’impatto che l’uso dei social media in adolescenza ha sulle abilità sociali dell’adolescente?

Considerando le trasformazioni soprariportate, e considerando che per una buona socializzazione con i coetanei in adolescenza le abilità sociali hanno un ruolo essenziale, è importante valutare l’impatto che l’uso dei social media in adolescenza può avere su queste abilità degli adolescenti (Gallardo et al., 2020; Zegarra Zamalloa & Cuba Fuentes, 2017). Per abilità sociali si intende generalmente un insieme di comportamenti appresi, utilizzati dagli individui per relazionarsi con gli altri e affrontare le difficoltà (come ascoltare e prestare attenzione a un’altra persona, chiedere aiuto, leggere i segnali sociali, esprimere le emozioni in modo appropriato; Betancourth et al., 2017). Queste abilità fanno, inoltre, parte dello sviluppo quotidiano di una persona e le permettono di adattarsi al suo ambiente sociale e di mantenere la salute psicofisica (Estrada Rodríguez et al., 2016). Un elemento da considerare qui è che i giovani di oggi trascorrono mediamente tre ore al giorno sui social network e, anche se lo sviluppo delle abilità sociali non sembra legato al tempo trascorso su questi siti, il fatto che gli adolescenti siano connessi quotidianamente può portare a importanti conseguenze. I social media, infatti, sembrerebbero avere effetti, sia positivi che negativi, sulle abilità sociali degli adolescenti (Gallardo et al., 2020).

Effetti Positivi dei social media sulle abilità sociali degli adolescenti

La possibilità di comunicare online è particolarmente adatta alle esigenze di sviluppo degli adolescenti: l’opportunità di sviluppare e mettere in pratica le competenze sociali sui social media può portare a effetti positivi (Tsitsika et al., 2014). L’utilizzo dei social media, infatti, sembrerebbe essere vantaggioso per gli adolescenti per diventare socialmente più capaci (Akram & Kumar, 2017), migliorando la comunicazione e le connessioni sociali (O’Keeffe et al., 2011). Inoltre, è stato dimostrato che un moderato investimento di tempo sui social media è adattivo per gli adolescenti di oggi (Tsitsika et al., 2014): i social media sembrerebbero diversificare le abilità sociali degli adolescenti, aiutandoli di conseguenza a navigare con successo nella società moderna in cui sono inseriti (Akram & Kumar, 2017).

 È importante evidenziare che questi effetti positivi sembrerebbero essere più presenti in adolescenti più grandi rispetto a quelli più giovani: emerge, infatti, una maggiore competenza sociale (offline) grazie a un uso più intenso di social media. Questo è coerente con la capacità degli adolescenti più grandi di autoregolare meglio l’uso di questi siti senza rinunciare alle attività offline (Tsitsika et al., 2014).

Effetti Negativi dei social media sulle abilità sociali degli adolescenti

I social media sembrerebbero avere anche effetti negativi sulle abilità sociali degli adolescenti: il loro utilizzo inibisce lo sviluppo delle abilità sociali, tanto che l’interazione sociale può essere compromessa dalla tecnologia (Gallardo et al., 2020). Infatti, la nuova forma di comunicazione che avviene attraverso i social media è superficiale e incompleta (mancando di linguaggio del corpo e contatto visivo) e tende a far sbiadire la relazione sociale: le relazioni che si sviluppano in questo modo non forniscono agli adolescenti il livello emotivo che sperimenterebbero con l’interazione faccia a faccia, perché le emoticon sembrerebbero sostituire le emozioni, impedendo di conseguenza le esperienze interpersonali (Del Barrio Fernández & Ruiz Fernández, 2016). Di fatto gli adolescenti, così facendo, perdono interesse nelle conversazioni faccia a faccia (Gallardo et al., 2020) e sperimentano difficoltà a mostrare le abilità sociali necessarie per l’interazione offline, limitando il loro corretto sviluppo sociale. Le ripercussioni associate a questa inibizione delle abilità sociali includono: barriere affettive a livello fisico, ridotta capacità empatica dovuta all’incapacità di riconoscere l’espressione di emozioni e sentimenti, difficoltà cognitive a esprimere le proprie opinioni, problemi a comprendere il significato degli altri e, infine, difficoltà a mantenere una conversazione fluida (Arab & Díaz, 2015).

Inoltre, dato che gli adolescenti dedicano la maggior parte del loro tempo online, spesso dimenticano le altre attività quotidiane come trascorrere il tempo libero con gli amici (Gallardo et al., 2020): i social media hanno, infatti, anche effetti negativi sulle attività, sottraendo tempo a quest’ultime (Tsitsika et al., 2014).

Conclusioni

In definitiva, i social media fanno parte della vita quotidiana degli adolescenti e hanno, sulle loro abilità sociali, sia effetti positivi che negativi, dove quelli negativi sono generalmente sopravvalutati mentre quelli benefici sottovalutati (O’Reilly, 2020). I social media dovrebbero integrare le relazioni sociali faccia a faccia e non sostituirle, offrendo una vera connessione interpersonale con gli altri a livello cognitivo e affettivo. È dunque importante che il tempo trascorso su questi siti e il loro uso appropriato siano controllati, così che questi possano essere risorse, e non ostacoli, che contribuiscono al consolidamento delle abilità sociali necessarie per l’interazione sociale (Gallardo et al., 2020).

Sul senso della vita (2022) di Viktor E. Frankl – Recensione

Nel marzo 1946, a soli undici mesi dalla sua liberazione dai lager, Frankl tenne una serie di importanti conferenze presso l’università popolare di Ottakring (Vienna); le sue parole e i suoi preziosi insegnamenti vennero raccolti in un breve volume intitolato “Sul senso della vita”.

 

Parlare oggi del significato e del valore della vita appare più necessario e allo stesso tempo difficile che mai. Gettarsi alle spalle con un ottimismo a buon mercato ciò che l’epoca più recente ha portato con sé non è più un’ipotesi comunemente contemplata: siamo diventati pessimisti e sappiamo bene che non è più possibile fare affidamento su un tranquillo avanzamento dell’umanità in grado di imporsi da sé. Ogni impulso ad agire procede oggi nello scetticismo e nella consapevolezza che ciò che progredisce – e fino a che punto – dipende solo e soltanto da noi.

Ma è proprio in questi presupposti di pessimismo, nichilismo e disinganno che Viktor E. Frankl (Vienna, 1905-1997), neurologo e psichiatra viennese, coglie la preziosa possibilità di farci strada verso una nuova umanità incardinata sulla resilienza e sul valore del significato esistenziale.

Frankl, uomo di ascendenza ebraica, dopo un dottorato in medicina e uno in filosofia ottenuti presso l’Università di Vienna, durante la Seconda Guerra Mondiale venne internato per tre anni nei campi di concentramento nazisti di Auschwitz e Dachau. Grazie a una serie di incredibili intuizioni e coincidenze sopravvisse miracolosamente all’inferno dell’Olocausto e, dopo la guerra e la sua liberazione, viaggiò instancabilmente in tutto il mondo presiedendo conferenze e lezioni che sono rimaste nella storia per il profondo messaggio che portano con sé sul senso della vita.

Proprio per via dei suoi insegnamenti è ricordato a livello internazionale come uno dei principali fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia, un approccio psicoterapeutico che si pone come primario obiettivo la riscoperta del significato della vita e dell’esistenza umana.

Nel marzo 1946, a soli undici mesi dalla sua liberazione dai lager, Frankl tenne una serie di importanti conferenze presso l’università popolare di Ottakring (Vienna); le sue parole e i suoi preziosi insegnamenti vennero raccolti in un breve volume intitolato “Sul senso della vita”.

Dopo “Uno psicologo nei lager”, il suo libro più famoso (1996), anche “Sul senso della vita” (2022) riesce a rivelarsi un viaggio intenso e incredibilmente prezioso, capace di cambiare la visione della vita di ognuno di noi insegnandoci l’importanza di trovare, celato anche nelle più drammatiche circostanze, un senso al nostro esistere.

In seguito a una bellissima introduzione di Daniel Goleman, noto psicologo statunitense, Frankl offre una testimonianza cruda e diretta di una sopravvivenza contro ogni previsione, indubbiamente arricchita e impreziosita dal suo essere medico psichiatra e neurologo, dunque vero professionista della salute mentale.

Frankl racconta nelle sue pagine cosa voglia dire cercare la libertà –di resistere, di attribuire un significato e un senso alla propria vita– anche in situazioni che hanno lo scopo preciso di privarcene, determinato a “dire sì alla vita” nonostante tutto. Perché la felicità e i piaceri in sé non bastano e non possono costituire un obiettivo né dare significatività alla vita: è invece nei momenti tristi e bui della nostra esistenza e nel modo in cui li affrontiamo che, cogliendone un senso spesso non immediatamente comprensibile, dimostriamo davvero chi siamo e maturiamo interiormente.

Frankl ci invita a un cambio di prospettiva spiegandoci che non siamo noi a poter fare domande sul senso della vita, ma è la vita stessa che ci interroga incessantemente sul suo significato e, momento per momento, attraverso le nostre stesse reazioni a essa, rispondiamo a tali interrogativi in un’etica del quotidiano.

Le domande che la vita ci pone, tuttavia, non solo cambiano di ora in ora, ma anche di individuo in individuo: in questo senso il presente è la chiave di tutto, poiché racchiude in tutta la concretezza del qui ed ora l’interrogativo eternamente nuovo e rinnovato che la vita ci rivolge.

 A tal proposito, una digressione interessante dell’autore riguarda la nostra mortalità. Frankl sostiene che proprio la consapevolezza di essere mortali e di sapere che la nostra vita ha un tempo finito e le nostre possibilità sono limitate, costituisce già di per sé un aspetto che dona significatività all’esistenza. Se fossimo immortali potremmo rimandare qualsiasi cosa, perché su di noi non incomberebbe nessuna fine e nessun limite alle possibilità, e di conseguenza non vedremmo la necessità di compiere un’azione prima di una presunta “data di scadenza”.

La morte costringe invece a intraprendere qualcosa, a sfruttare il tempo e a realizzare un’opportunità, conferendo un carico di significatività alla vita, creando lo sfondo sul quale il nostro essere si responsabilizza e fondando l’irripetibilità della nostra esistenza e del nostro esserci.

Dedicando poi un intero capitolo alla più autentica e diretta testimonianza del suo vissuto nei lager nazisti, Frankl studia e descrive i vari stadi dell’atteggiamento del prigioniero, che iniziano con un traumatico e inevitabile senso di shock, per poi lasciare il passo a una lenta “morte interiore”, caratterizzata da un’apatia pervasiva rispetto alle proprie emozioni e dal disgustoso deterioramento fisico del corpo, e arrivare –se fortunati– all’ultima fase del “prigioniero liberato”, il quale –paradossalmente– necessita di parecchio tempo per reimparare a rallegrarsi della sua liberazione.

Tuttavia, malgrado la crudeltà, le torture, la violenza e la costante minaccia di morte, l’autore spiega che nella prigionia degli internati c’era una parte di vita che restava libera: la mente, la più grande rappresentazione dell’autentica libertà umana. Le speranze, i sogni e l’immaginazione dei prigionieri appartenevano infatti solo e soltanto a loro, nonostante le terribili circostanze. Qualsiasi agente esterno poteva esercitare un’influenza, è vero, ma non il totale controllo.

Ecco allora perché Frankl sottolinea che la nostra prospettiva sugli eventi della vita conta tanto quanto ciò che realmente ci accade, perché se il destino è ciò che succede a prescindere dal nostro controllo, la reazione ad esso e i pensieri che elaboriamo sono ciò di cui ognuno di noi è davvero responsabile.

Con la sua penna intensa, sincera e a tratti cruda, Frankl trascende i tragici eventi di cui è stato testimone e si focalizza sull’esplorazione della natura umana e delle sue potenzialità di resilienza, conferendo il più autentico valore al concetto della filosofia giapponese di Ikigai (“ragione di vita”, “ragione d’essere”) e alle massime di Friedrich Nietzsche “Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come” e “Se vivere è soffrire, sopravvivere è trovare un senso nella sofferenza”.

Quel che Frankl racconta –e insegna– non vale solo per l’esperienza della detenzione nazista, ma anche per tutte le altre situazioni-limite e gli urti che la vita ci presenta, dalla sofferenza, alla malattia, al lutto.

Ecco allora che “Sul senso della vita”, senza mai sminuire la drammaticità degli orrori di uno dei periodi più tristi della storia mondiale, si rivela un documento umano di straordinario valore, custode di un profondo e prezioso messaggio: la vita vale la pena di essere vissuta in qualsiasi situazione e l’essere umano può riuscire, anche nelle peggiori condizioni, a “mutare una tragedia personale in trionfo”. Perché per Frankl vivere vuol dire questo: inseguire un significato, interrogare sempre il senso delle cose e creare dentro di sé il tempo fertile dell’attesa e della risposta. Saper aspettare per saper costruire.

L’utilizzo della realtà virtuale nella cura dell’Anoressia Nervosa

Il Dottor Porras-Garcia e colleghi hanno condotto tre studi differenti (2020a; 2020b; 2021) sul potenziale coinvolgimento della realtà virtuale nel trattamento dell’anoressia nervosa.

 

Il trattamento dell’anoressia nervosa

 Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013) definisce i disturbi alimentari come un’alterazione del benessere legato alla nutrizione oppure come comportamenti legati all’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo, il che porta ad una compromissione significativa della salute fisica o del funzionamento psicosociale. Tra essi, il più antico è l’anoressia nervosa, ovvero il primo disturbo alimentare ad essere annoverato nella prima versione del DSM (1952).

Secondo le normative NICE (2020), il trattamento dell’anoressia nervosa deve includere la psicoeducazione, il monitoraggio del peso, della salute fisica e mentale, tenere in considerazione tutti i possibili fattori di rischio del disturbo, attuare un intervento multidisciplinare e coordinato e integrare in esso la famiglia del cliente in maniera appropriata.

Il trattamento maggiormente utilizzato è la CBT-ED (Eating Disorder focused Cognitive Behavioural Therapy). Tuttavia, con il progredire degli strumenti tecnologici, ha iniziato a crescere l’interesse verso interventi di esposizione attraverso la realtà virtuale. Nell’anoressia nervosa è stato osservato come le terapie basate sull’esposizione, come l’utilizzo di specchi, possano contribuire a migliorare i risultati della CBT. In quest’ottica, le procedure basate sulla realtà virtuale offrono numerose novità per fronteggiare le problematiche legate al corpo (Porras-Garcia et al., 2020). Infatti, negli ultimi 25 anni, la realtà virtuale ha offerto soluzioni innovative per trattare numerosi dei principali sintomi dei disturbi della nutrizione, tra cui il craving, i bias attenzionali e l’insoddisfazione corporea. A tal proposito, uno studio condotto da Riva e colleghi (2021) ha suggerito che alcune delle tecniche di realtà virtuale (come l’esposizione diretta e la reference frame shifting) forniscano un possibile vantaggio rispetto alla tradizionale CBT per la bulimia e il disturbo da alimentazione incontrollata. I risultati ottenuti dagli autori per i pazienti affetti da anoressia nervosa sull’utilizzo di tali tecniche, ne hanno anche confermato la natura trasversale.

Applicazione della realtà virtuale sulla sintomatologia dell’Anoressia Nervosa

Nonostante il riscontro positivo degli interventi con realtà virtuale e i numerosi studi condotti sul suo impiego, nella pratica clinica di routine non hanno ancora raggiunto un livello di utilizzo significativo, specialmente per il trattamento dei disturbi alimentari.

Ad ogni modo, il Dottor Porras-Garcia e colleghi hanno condotto tre studi differenti (2020a; 2020b; 2021) sul potenziale coinvolgimento di essa nel trattamento dell’anoressia nervosa.

Il primo studio, pubblicato nel 2020a, si è concentrato sulla validità della realtà virtuale nell’elicitare la paura di ingrassare, l’ansia per il proprio corpo e sui bias attenzionali legati a quest’ultimo. Lo studio ha coinvolto 43 donne sane in età universitaria, 30 pazienti donne affette da anoressia, 25 donne con bassa insoddisfazione corporea e 18 con alta insoddisfazione corporea. I soggetti sono stati sottoposti all’esposizione al proprio corpo e all’indice di massa corporea attraverso una silhouette virtuale. Secondariamente, è stata introdotta un’illusione corporea sulla silhouette virtuale utilizzando una stimolazione visuo-motoria e visuo-tattile. Successivamente sono state valutate le variabili elencate precedentemente. Gli autori hanno riscontrato che le pazienti affette da anoressia mostravano una paura di ingrassare, un’ansia per il proprio corpo e bias attenzionali più elevati rispetto ai controlli sani a seguito della stimolazione. I risultati ottenuti hanno permesso di ipotizzare che attraverso la realtà virtuale la gravità dei sintomi sopra elencati potrebbe diminuire, e ciò ha posto le basi per i successivi due studi.

 L’obiettivo del secondo studio, ovvero un case-report pubblicato nel 2020 (Porras-Garcia et al, 2020b), era quello di fornire delle evidenze preliminari sui potenziali benefici dell’esposizione corporea in realtà virtuale in una paziente con diagnosi di anoressia. Gli autori hanno valutato la paura di ingrassare, l’ansia per il proprio corpo, il desiderio di magrezza, i disturbi dell’immagine corporea, l’indice di massa corporea e i bias attenzionali legati al corpo in tre momenti differenti, ovvero prima e dopo l’intervento, e infine a distanza di cinque mesi (follow-up). Il trattamento è stato suddiviso in cinque sessioni di terapia di esposizione, le quali sono state integrate alla CBT; esse prevedevano un’esposizione sistematica e gerarchica della paziente ad una rappresentazione virtuale del proprio corpo, con l’indice di massa corporea dell’avatar che aumentava progressivamente nelle sessioni successive. Gli autori hanno evidenziato che a seguito dell’intervento la sintomatologia del disturbo aveva subito una considerevole riduzione; inoltre, è stato osservato un significativo mutamento dei bias attenzionali disfunzionali legati al corpo. Dopo cinque mesi, tutti i miglioramenti sono stati confermati ad eccezione della paura di ingrassare.

Infine, Porras-Garcia e colleghi hanno condotto un trial controllato randomizzato per osservare i benefici della realtà virtuale nella riduzione della paura di ingrassare e altri sintomi legati all’anoressia nervosa (2021). A differenza del secondo studio, sono stati reclutati 35 pazienti affetti dal disturbo, di cui 16 appartenenti al gruppo sperimentale e 19 al gruppo di controllo. Sono state valutate principalmente la paura di ingrassare e i disturbi legati all’immagine corporea prima e dopo l’intervento e tre mesi dopo. Come nello studio precedente, i partecipanti sono stati sottoposti a cinque sessioni di trattamento: il gruppo di controllo ha beneficiato esclusivamente della terapia da loro svolta abitualmente, mentre quello sperimentale ha integrato ad esso l’esposizione in realtà virtuale. A seguito dell’intervento e al follow-up sono state riscontrate considerevoli differenze tra i due gruppi: il gruppo sperimentale ha mostrato livelli significativamente più bassi sia nella paura di ingrassare che nei disturbi legati all’immagine corporea rispetto al gruppo di controllo.

Quali conclusioni si possono trarre

In conclusione, gli autori affermano come i presenti studi possano fornire nuovi spunti e risultati incoraggianti nell’ambito delle terapie basate sull’esposizione nel trattamento dell’Anoressia Nervosa. In particolare, la realtà virtuale potrebbe portare ad un avanzamento sia nella ricerca che nella pratica clinica per il trattamento del disturbo, fornendo strumenti innovativi nel supporto dei pazienti, di modo da migliorare attraverso il confronto con i propri timori, le proprie risposte emotive, cognitive e comportamentali.

 

A lezione dai longevi (2022) di Patrizia Del Verme – Recensione

Il Cilento è un territorio speciale e, proprio per questo, è il vero co-protagonista dell’originale libro “A lezione dai longevi” che ha voluto indagare, nel modo più completo e integrato possibile, le cause dell’estrema longevità dei suoi abitanti.

 

 Questo territorio salernitano è un luogo speciale perché, oltre alla sua nota bellezza paesaggistica famosa in tutto il mondo, possiede anche almeno altre tre caratteristiche particolari, se non uniche.

Una caratteristica è relativa al fatto che questo territorio ha ospitato la celebre scuola medica salernitana, la prima e più importante istituzione medica d’Europa, che ha anticipato di secoli le moderne università.

L’approccio eclettico di questa scuola focalizzata sull’integrazione, all’epoca assolutamente originale, di conoscenze provenienti da culture differenti come i greci, gli arabi e gli ebrei, la rendono la prima vera antesignana della medicina moderna occidentale, sia per aver introdotto per la prima volta il concetto di prevenzione sia per aver gettato le basi del metodo d’indagine empirico.

Sempre in questo territorio, il biologo, fisiologo e nutrizionista statunitense Ancel Keys, inviato al seguito delle truppe durante la seconda guerra mondiale, rimase letteralmente affascinato sia dalla bellezza del posto che dalla particolarmente bassa incidenza di patologie cardiovascolari e di disturbi gastrointestinali dei suoi abitanti, a tal punto che decise di trasferirsi definitivamente in questo territorio e di studiare le cause di questo fenomeno favorente la longevità, che condussero a quella che attualmente viene definita “dieta mediterranea”.

Risulta interessante notare che lo stesso Dr. Keys, amante della cucina locale e dello stile di vita di questo territorio, visse fino a cento anni nella sua casa di Pioppi, un paesino del Cilento, dove soggiornò e condusse le proprie ricerche per più di quarant’anni.

Nel 2010 questa bella località cilentana, che ospita L’Ecomuseo della Dieta Mediterranea dedicato alla memoria dello scienziato americano, ha ottenuto dall’Unesco il riconoscimento di Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.

Terza –ma non per importanza– caratteristica che rende il Cilento un territorio speciale è che, anche attualmente, ci sono trenta centenari ogni centomila abitanti, una percentuale che risulta essere più del doppio rispetto il resto d’Italia e d’Europa.

Questo territorio potrebbe essere quindi candidato a entrare nelle cosiddette “blue zone”, come ad esempio il territorio dell’Ogliastra in Sardegna o dell’isola di Okinawa in Giappone, dove si vive molto più a lungo e soprattutto con una buona/ottima salute, rispetto alla media.

 Da quest’area geografica così ricca di bellezza e stratificazioni storiche così interessanti, la psicologa Patrizia del Verme, responsabile del Servizio di Psicologia Clinica e della Salute presso l’ASL di Salerno, ha voluto approfondire il tema della longevità nella maniera più completa e trasversale possibile.

Nel suo libro, la psicologa ha condotto una ricerca che ha coinvolto 20 persone di età compresa tra i 90 e i 106 anni al fine di indagare non la causa, ma le molteplici cause dell’eccezionale longevità dei cilentani.

In questa ricerca è stata adottata una metodologia complessa, che ha voluto analizzare molti fattori che vanno dalle dimensioni psicologiche a quelle sociali, dagli aspetti motori a quelli alimentari, dal rapporto con il tempo (anche nel senso circadiano del termine) a quello relativo la ritualità e il rispetto della natura e il territorio.

L’originalità di questo testo sta proprio nel fatto di aver adottato una visione olistica e integrata che rispecchia la complessità bio-psico-sociale della persona in un contesto territoriale particolare.

La metodologia utilizzata per raccogliere i preziosi dati sui centenari studiati nel libro riflette questo paradigma olistico che correttamente va nella direzione opposta di un riduzionismo, tuttora purtroppo molto diffuso anche a livello scientifico, che cercherebbe nell’elisir di lunga vita o nella mitologica fontana della giovinezza, la risposta per ottenere una lunga e soprattutto sana, longevità.

Il testo offre dati molto preziosi soprattutto per chi condivide una visione complessa della persona umana nelle sue sfaccettature biologiche, psicologiche e socioculturali; in questo senso il libro è veramente molto ricco di informazioni interessanti relative le scelte e lo stile di vita adottato dai centenari.

“A lezioni dai longevi” è un libro scritto molto bene, risulta chiaro e fluido, quindi è accessibile anche ai non addetti ai lavori, per questo è consigliato sia ai professionisti, sia a coloro che vogliono approfondire con serietà il tema del benessere e della longevità con il rigore scientifico.

 

Insoddisfazione per il proprio corpo, controllo del peso e ADHD nei bambini

Uno studio di Bisset e colleghi (2019) ha indagato il rapporto tra ADHD e comportamenti che conducono a disturbi alimentari nei bambini, con lo scopo di provare a identificare i fattori di rischio.

 

ADHD e disturbi alimentari

 Recentemente la letteratura ha evidenziato come l’ADHD aumenti le probabilità di sviluppare un disturbo alimentare (Bleck et al., 2016). In questo contesto, la mancata identificazione di questo risvolto psicopatologico potrebbe aggravare le condizioni di coloro che ne soffrono, proprio per la mancanza di un adeguato trattamento mirato a entrambe le patologie.

Con body dissatisfaction si intende l’autovalutazione negativa della propria forma fisica (Stice & Shaw, 2002) e in letteratura è considerato uno dei più potenti fattori di rischio e mantenimento dei disturbi alimentari (Stice, 2002; Polovy & Herman, 2002; Davison et al., 2003).

Poiché l’insoddisfazione per la propria forma fisica e comportamenti di controllo alimentare sono stati identificati come maggiori fattori di rischio nello sviluppo di un disturbo alimentare, è importante che vengano analizzate la prevalenza e l’età tipiche d’esordio di questa sintomatologia in bambini affetti da ADHD.

È importante sottolineare che alcuni dei farmaci usati per curare l’ADHD, come per esempio metilfenidato, dexamfetamina e atomoxetina, hanno come effetti collaterali ridotto appetito e perdita di peso (Davis et al., 2012) ma, allo stesso tempo, sembra che, una volta scemati questi effetti collaterali, si possa incorrere in episodi di binge eating (Reinblatt et al., 2015). Purtroppo molti studi che miravano a indagare il rapporto tra ADHD e disturbi alimentari, hanno incluso nel loro campione un range molto ampio di popolazione, rendendo così impossibile determinare a quale età, nello specifico, iniziano a presentarsi i sintomi tipici di un disturbo alimentare, come la body dissatisfaction o il controllo del peso (Cortese & Vincenzi, 2012; Gowey et al.,2017).

Uno studio su ADHD e disturbi alimentari nei bambini

 Uno studio di Bisset e colleghi (2019) ha indagato il rapporto tra ADHD e comportamenti che conducono a disturbi alimentari nei bambini, con lo scopo di provare a identificare i fattori di rischio. Gli autori hanno messo a confronto i diversi livelli di insoddisfazione per il proprio corpo e comportamenti mirati al controllo del peso in bambini aventi diagnosi di ADHD, confrontandoli con coetanei privi di diagnosi. I 2972 bambini partecipanti allo studio sono stati sottoposti a test in 3 periodi di vita distinti, ovvero 8-9 anni, 10-11 anni e 12-13 anni. Il campione di bambini partecipanti allo studio è stato reclutato tramite il Longitudinal Study of Australian Children (LSAC), iniziato nel 2004, il quale aveva lo scopo di seguire lo sviluppo della popolazione australiana.

È importante sottolineare che tutti i bambini con diagnosi di ADHD erano sotto trattamento farmacologico per attenuare i sintomi del disturbo. Lo studio ha evidenziato che, a 12-13 anni, i bambini aventi diagnosi di ADHD avevano maggiori probabilità di perdere o aumentare di peso, indipendentemente dal proprio indice di massa corporea. Tendenzialmente i farmaci somministrati per l’ADHD comportano un lieve aumento di peso e lo sviluppo di una comorbilità con un disturbo alimentare implica appunto il forte desiderio di dimagrire e l’insoddisfazione per la propria forma fisica. Secondo questo studio, l’ADHD potrebbe aumentare moderatamente la possibilità di sviluppare insoddisfazione per il proprio corpo in due fasce d’età su tre tenute in considerazione in questo studio (8-9 anni e 12-13 anni). Inoltre, indipendentemente dal tipo di terapia farmacologica somministrata, i bambini con ADHD partecipanti a questo studio, se paragonati a quelli privi di diagnosi, sono risultati avere una probabilità 3 volte maggiore di sviluppare body dissatisfaction, per tutte le fasce d’età considerate.

Il Training Autogeno Strategico: un approccio per affrontare l’ansia

Il training autogeno strategico è un connubio tra il Training Autogeno di J.H. Schultz e alcune strategie e tecniche appartenenti all’approccio psicoterapeutico breve strategico che si dimostrano essere efficaci ed efficienti nei disturbi d’ansia.

 

Il Training Autogeneo

 Il Training Autogeno (TA) è un strumento che permette alla persona una autodistensione da concentrazione psichica con relative e successive modificazioni psichiche e somatiche. J.H. Schultz indicava come principio fondamentale del metodo una deconnessione globale dell’organismo che, in parte simile al metodo eteroipnotico, consente di realizzare degli stati suggestivi propri. Lo psichiatra tedesco faceva riferimento in parte agli studi di Oskar Vogt che considerava le “pause profilattiche” quotidiane necessarie alla persona soggetta ad un continuo stress o stato di ansia per evitare di avere conseguenze ben più gravi qualora non fossero state utilizzate. Lo stesso Vogt insegnava alle persone ad entrare nello stato ipnotico da sole dopo alcune sedute rifiutando modalità di fascinazione o manipolative su questi processi che considerava essere parte attiva e di autoapprendimento della persona stessa. Mentre nel Training Autogeno si inizia da un cambiamento che ha origine nel corpo per ottenere poi dei benefici e una commutazione a livello psichico, nell’ipnosi al contrario si parte da una modificazione psichica per ottenere delle modificazioni fisiologiche.

Il concetto di ideoplasia è un concetto cardine per comprendere i cambiamenti che avvengono nel Training Autogeno. Essa è la capacità ideativa (e quindi di pensare e poi immaginare) di poter generare dei cambiamenti (in particolare a livello fisiologico) attraverso il verificarsi di una fenomenologia spontanea (cioè senza intenzionalità) lasciando che tutto accada in modo spontaneo e naturale. Se la mente umana quindi è in grado di generare una fenomenologia fisica attraverso il solo uso dell’immaginazione, allora lo stesso si potrà ottenere per uno stato di rilassamento muscolare profondo con una rappresentazione mentale di quiete.

Il Training sarà allora un allenamento costante, il cui apprendimento ha una durata di tre mesi circa, così da acquisire lo strumento e farlo proprio. Il suo utilizzo sarà poi personalizzato e mirato alle situazioni stressanti o per raggiungere un obiettivo specifico (riabilitativo, di performance, anti-stress, per sintomi d’ansia, ecc…). La perseveranza e la costanza nello sperimentare quotidianamente il Training Autogeno sono elementi imprescindibili per poter raggiungere tali obiettivi, altrimenti il rischio è quello di sperimentare dei parziali insuccessi.

 Attraverso il Training Autogeno avviene un vero e proprio auto condizionamento in cui la persona si sente libera, aumentando fiducia, stima in se stessa, maggiore benessere psicofisico, con un pensiero costantemente positivo e propositivo. Il meccanismo di autogenicità che poi si genera da solo entra nella consapevolezza della persona per ottenere ciò che desidera. Il Training Autogeno è sempre stato un ottimo strumento per gestire particolari quote di ansia che possono presentarsi in presenza di conflittualità emotiva, attuando una forma di normalizzazione della sua natura con una gestione e controllo che devono avvenire in modo spontaneo e naturale. Persone ben allenate con il Training Autogeno possiedono una salute migliore, riescono a sopportare carichi emotivi e fisici maggiori, sono capaci di regolare il loro tono energetico alternando gli stati tensivi e distensivi in un miglior equilibrio.

Se l’origine di tali disagi d’ansia ha invece una eventuale radice traumatica si suggerisce di affiancare il Training Autogeno a modalità di immaginazioni guidate affiancate da un professionista della salute mentale. Le tecniche immaginative ottengono cambiamenti terapeutici spesso meravigliosi, tuttavia alcuni di questi avvengono solo dopo una esposizione reale o comunque una messa in pratica di un compito che permetta una esperienza emozionale correttiva, come già diceva Franz Alexander per un intervento terapeutico efficace ed efficiente.

Il Training Autogeno Strategico

Moltissime tecniche e strategie derivanti dalla terapia breve strategica permettono di fare queste esperienze con una grande capacità di ridurre o far scomparire la sintomatologia in tempi brevi mantenendo i benefici a lungo termine. Esse quindi nel tempo hanno determinato la teoria all’interno del modello di intervento strategico breve e sono alla base di qualsiasi fondamento teorico dell’approccio teorico di psicoterapia breve strategica. Sperimentare alcune tecniche e strategie di questo approccio affiancandole ai tre mesi di apprendimento del Training Autogeno permette di affrontare ed acquisire degli strumenti che, pur appartenendo ad assunti teorici e metodologici differenti, nel loro incontro si attraggono e si respingono in un perfetto equilibrio volto all’efficacia della terapia. Il Training Autogeno Strategico si focalizza quindi in particolar modo sui disagi derivanti dall’ansia e dalle paure. Molti possono essere i volti dell’ansia, alcuni più visibili, altri più nascosti.

Spesso nel Training Autogeno Strategico si chiede alla persona di trasformare le domande sull’ansia in qualcosa di utile per la terapia stessa. Successivamente, nello sperimentare il primo esercizio della calma si affianca un diario di bordo specifico sulla sintomatologia espressa dell’ansia o delle paure (diario delle 7 piccole rilevazioni) nel quale verrà indicata l’ora e il giorno, dove si trova la persona, quali altre persone sono presenti, cosa sta provando a livello fisiologico e mentale (i pensieri), cosa sta facendo e cosa sta facendo eventualmente per eliminare questo disagio. La sperimentazione dei sei parametri del Training Autogeno saranno poi integrati con una scheda e un loro monitoraggio quotidiano dove la persona potrà descrivere, similmente a prima, la data, le sensazioni fisiche, i pensieri, le emozioni prima e dopo l’esercizio. Inoltre nel Training Autogeno Strategico vengono autoprescritti degli esercizi da fare durante i 14 giorni di autoapprendimento del parametro del Training Autogeno.

Passando attraverso l’acquisizione dei parametri (pesantezza, calore, respiro, cuore, plesso solare e fronte fresca) solo dopo aver interiorizzato quello della calma, la persona potrà esercitarsi con compiti propri e distinti (meglio se in questi si è seguiti da uno psicoterapeuta formato a riguardo, così da ottenere il massimo dei benefici nel minor tempo possibile e il minor rischio di insuccesso). Il tema del potere dell’immaginazione sarà quotidiano e verranno affrontati i temi riguardanti un nuovo possibile scenario futuro (se non avessi più l’ansia), le incertezze e le paure associate a possibili vantaggi secondari (rilettura positiva del problema), le strategie disfunzionali dell’evitamento, del controllo e della rassicurazione da sostituire con esercizi guidati e specifici in base al problema riportato (pensieri disturbanti e intrusivi, ricordi spiacevoli, paure di perdere il controllo e fantasie che aumentano l’ansia, immagini spaventevoli e incubi notturni, disagi sociali in pubblico come l’ansia sociale e quello di parlare in pubblico, percezione di sentirsi rifiutati, ansie e paure indirizzate a specifiche persone o situazioni).

Infine il Training Autogeno Strategico si avvale anche degli esercizi superiori del Training Autogeno di Schultz, quindi la formulazione di proponimenti terapeutici volti al cambiamento. Le formule aggiuntive vengono utilizzate prima degli esercizi di ripresa con modalità ripetitiva, ritmata, lenta e soprattutto autosuggestiva evitando le formulazioni che possono contenere al loro interno delle negazioni. Indispensabili per una crescita ed una evoluzione della personalità che permetta un sano approccio comunicativo verso il mondo, gli altri e se stessi con un atteggiamento positivo ma soprattutto assertivo. Come si ripeteva nel testo sacro dei Talmud “Bada ai tuoi pensieri perché diventano parole. Bada alle tue parole perché diventano azioni. Bada alle tue azioni perché diventano abitudini. Bada alle tue abitudini perché diventano il tuo carattere. Bada al tuo carattere perché diventa il tuo destino“ così anche con il Training Autogeno Strategico badiamo ai nostri pensieri che si trasformano in immagini per poi diventare azioni concrete che realizzano alla fine la nostra realtà.

 

“Come leggere: carta, schermo o audio?” – La lettura quale abitudine da riscoprire – Recensione

In questo affascinante saggio, “Come leggere: carta, schermo o audio?”, Naomi S. Baron accompagna chiunque desideri leggerla, in un mondo fatto di carta, di suoni, immagini ma soprattutto di scelte circoscritte al supporto multimediale e/o cartaceo, con il quale ciascuno di noi decide di interagire. 

 

 Si avrà l’occasione, pagina per pagina, di sondare gli effettivi benefici della lettura su carta a confronto con quella eseguita su uno schermo, quale ad esempio un tablet oppure ancora sul nostro smartphone, rispetto ai quali, secondo l’autrice, sia il grado di apprendimento che di coinvolgimento possono aumentare o viceversa decrescere.

Mentre leggiamo, infatti, non solo si avverte un abbassamento dei livelli di cortisolo ma, a seconda di quello che si sceglie di leggere, il grado di piacere e il coinvolgimento possono determinare da un lato un incremento a livello sinaptico e dall’altro una plasticità nell’elaborare informazioni, che sin dalla prima infanzia possono gettare le basi per una buona memoria.

Secondo le neuroscienze infatti la lettura risulta un’attività in grado di prevenire a livello psicosomatico quei quadri neurodegenerativi e/o cardiaci rispetto ai quali l’interazione con quanto leggiamo assume un carattere fisico e/o sensoriale (Kempermann, G., 2011).

Se più in profondità infatti risultano maggiormente coinvolti il sistema neuroendocrino e cardiocircolatorio, viceversa la vista, l’olfatto e il tatto risultano quegli elementi guida collocati più in superficie, capaci oltremodo di guidarci pagina dopo pagina.

Sotto il profilo visivo la ricerca ha focalizzato l’attenzione su una metodologia definita eye-tracking al fine di evidenziare potenziali differenze tra la lettura su carta e la lettura eseguita su uno schermo.

Nello specifico pertanto i movimenti oculari in azione durante la lettura, definiti saccadi, delineano sostanziali differenze correlate anche al nostro grado di apprendimento e di conoscenza circa un argomento.

 I nostri movimenti possono quindi essere progressivi, regressivi e successivi e nel loro insieme riflettono quanto una persona sia allenata o meno a leggere. Più quello che leggiamo è difficile e più sarà il numero di saccadi regressive, correlato nondimeno sia alle nostre conoscenze pregresse sia al nostro background esperienziale e/o culturale.

Sotto il profilo tattile e olfattivo invece si ha l’opportunità di creare un’interazione più coinvolgente e duratura con quanto è contenuto nelle parole riportate pagina dopo pagina.

Il supporto cartaceo, infatti, non solo consente una maggiore intimità, ma permette un maggior consolidamento di quanto scritto a livello mnemonico. Secondo l’autrice il mondo del libro cartaceo da sempre sembra riscontrare una percentuale di successo maggiore rispetto al formato digitale. Quest’ultimo, per quanto ultimamente stia riscontrando successo su larga scala, deve tuttavia tener conto degli aspetti interpersonali e cognitivi ad esso correlati, in quanto quello del digitale sin dalla prima infanzia risulta una dimensione tanto affascinante quanto a volte capace di incrementare la distraibilità a discapito delle nostre capacità di concentrazione.

Secondo quanto riportato dalla linguista, il libro digitale e cartaceo valorizzano l’incremento o meno del coinvolgimento sociale, interpersonale e intrapsichico, attraverso i quali è inoltre possibile valutare il grado di interazione che già a partire dall’infanzia innesca modelli relazionali adattivi o al contrario disfunzionali.

La lettura viene pertanto presentata a ciascuno di noi quale vera e propria abitudine da coltivare, approfondire e arricchire col passare del tempo, in quanto vera e propria compagna di viaggio in grado di sviluppare al nostro interno stili relazionali capaci di farci scoprire nuovi modi di stare con noi stessi e con gli altri.

L’alessitimia nei genitori di pazienti con anoressia nervosa

Lo studio di Chinello et al., 2020 indaga la competenza emotiva dei genitori di pazienti con anoressia nervosa, con l’obiettivo di verificare se, come suggerito dall’ipotesi della Normative Male Alexithymia, vi siano delle differenze di genere nei livelli di alessitimia tra madri e padri.

 

 Lo studio descritto si propone di indagare il riconoscimento delle emozioni e i tratti alessitimici nei genitori di pazienti con Anoressia Nervosa (AN; APA, 2014) utilizzando due diversi strumenti, un questionario autosomministrato (TAS-20 – Toronto Alexithymia Scale; Bagby et al., 1994; Bressi et al., 1996) e un test comportamentale (RME – Reading the Mind in the Eyes Test; Baron-Cohen et al., 2001; Vellante et al., 2013), testando l’ipotesi della “Normative Male Alexithymia” (NMA; Levant et al., 2006, 2009) in questa specifica popolazione.

Anoressia nervosa e alessitimia

Negli ultimi decenni, il ruolo dell’elaborazione delle emozioni sullo sviluppo dei Disturbi Alimentari (DA), e in particolare sull’Anoressia Nervosa, è stato preso in considerazione in diversi studi (Bruch, 1962, 1973, 1982; Cochrane et al., 1993; Corcos et al., 2000).

La letteratura scientifica su anoressia nervosa e disturbi alimentari sottolinea come lo sviluppo e il mantenimento di tutti i disturbi alimentari siano influenzati dalla competenza emotiva (Oldershaw et al., 2011). In questo quadro, l’alessitimia implica la difficoltà di identificare e descrivere le emozioni, sottovalutando le esperienze emotive con un pensiero orientato all’esterno (Bagby et al., 1994; Balottin et al., 2014; Cochrane et al., 1993). Infatti, i tratti alessitimici costituiscono i principali obiettivi dei trattamenti dell’anoressia nervosa e degli interventi basati sulla famiglia (Nowakowski et al., 2013; Robinson et al., 2015), considerando la famiglia come un sistema autocorrettivo (Selvini Palazzoli, 2006).

Alcuni decenni fa, Onnis e De Gennaro (1987) hanno proposto l’alessitimia come sintomo dell’intera famiglia con l’obiettivo di ridurre o evitare i conflitti familiari. I genitori di figlie affette da un disturbo alimentare mostrano punteggi più elevati di alessitimia rispetto ai controlli, associati a tratti di nevroticismo, ansia e depressione (Espina, 2003). Più specificamente, con il loro studio, Balottin e colleghi (2014) mettono in luce livelli più elevati di alessitimia nei genitori di pazienti con anoressia nervosa (Balottin et al., 2014). In modo analogo, Guttman e Laporte (2002) hanno trovato un’associazione tra i livelli di alessitimia e le difficoltà di identificazione delle emozioni nei genitori di figlie con anoressia (Guttman & Laporte, 2002).

È interessante notare che questo costrutto mostra differenze significative dipendenti dal sesso. In effetti, una meta-analisi su studi clinici e di controllo ha evidenziato un livello più elevato di alessitimia nei maschi rispetto alle femmine (Levant et al., 2006, 2009), confermando una “Normative Male Alexithymia” (NMA) nei contesti culturali occidentali, suggerendo un marker alessitimico della popolazione maschile (Berger et al., 2005; Grynberg et al., 2010; Larsen et al., 2006; Mattila et al., 2006; van ’t Wout et al., 2007). Al contrario, in altri studi, i tratti alessitimici sembrano più diffusi nelle madri di pazienti con anoressia nervosa rispetto alle madri di pazienti senza anoressia nervosa (Dahlman, 1996). In alternativa, un recente studio ha mostrato livelli omogenei di alessitimia confrontando madri di pazienti con disturbi alimentari e controlli (Pace et al., 2015).

A supporto di questo risultato, una recente ricerca (Colesso et al., 2018) su madri e padri di pazienti con anoressia nervosa ha sottolineato l’assenza di una differenza tipica nei livelli di alessitimia tra maschi e femmine, come descritto da Levant (2006).

Nel complesso, gli studi sui genitori di pazienti con anoressia in merito all’alessitimia sono limitati in letteratura e mostrano risultati contrastanti (Balottin, 2014; Pace et al., 2015). Tutti questi dati sperimentali, però, suggeriscono una competenza emotiva disfunzionale come fattore rilevante ricorrente nelle famiglie con anoressia, con risultati poco chiari sugli effetti dipendenti dal sesso.

Anoressia e alessitimia genitoriale: differenze di genere

Il presente studio (Chinello et al., 2020), quindi, indaga la competenza emotiva dei genitori di pazienti con anoressia nervosa utilizzando due modalità diverse: un test comportamentale basato sul riconoscimento delle emozioni dei volti (RME) e un questionario autosomministrato che misura l’alessitimia (TAS-20), con l’obiettivo di esplorare le differenze nei livelli di alessitimia nei genitori di pazienti con anoressia (come suggerito dall’ipotesi della Normative Male Alexithymia) che possono differenziare gli interventi psicoeducativi dedicati alle madri o ai padri di chi soffe di anoressia nervosa.

 I genitori sono stati reclutati dai servizi psicoeducativi dedicati al sostegno delle famiglie con disturbi alimentari organizzati dalla Fondazione Maria Bianca Corno. I criteri di inclusione considerano solo i genitori senza una attuale diagnosi psichiatrica con una figlia affetta da anoressia (secondo i criteri del DSM-5, 2014), diagnosticata nei servizi regionali (Lombardia, Italia) di disturbi alimentari e all’inizio del trattamento dell’anoressia. Il campione è composto da 43 genitori, 20 padri e 23 madri (20 coppie e 3 madri), tutti hanno completato l’RME e la TAS-20 nello studio dello psicologo.

Dai risultati ottenuti non si registrano differenze significative in base al sesso per i fattori demografici e per i punteggi RME e TAS. Complessivamente, non emergono correlazioni significative tra RME e TAS-20, anche separatamente per madri o padri.

Curiosamente, infatti, nel campione con anoressia nervosa, emergono livelli alessitimici omogenei nelle performance di madri e padri ai due test, escludendo una discrepanza nella competenza emotiva dipendente dal sesso. Questo dato conferma quanto osservato in una recente ricerca di Colesso e colleghi (Colesso et al., 2018) su madri e padri di pazienti con anoressia, sottolineando l’assenza di una tipica differenza nei livelli alessitimici tra maschi e femmine, come descritto da Levant (2006). È interessante notare che questi risultati supportano l’ipotesi della mancanza di una discrepanza emotiva tradizionale (Normative Male Alexithymia) tra madri e padri nelle famiglie con anoressia, suggerendo probabilmente – come sostiene Colesso (Colesso et al., 2018) – un effetto normalizzante dell’anoressia sulla competenza emotiva di entrambi i genitori.

In conclusione, i risultati preliminari mostrano punteggi simili di alessitimia e di riconoscimento delle emozioni tra madri e padri di persone con anoressia. Questa visione è coerente con l’ipotesi di Selvini Palazzoli (1981) che considerava la famiglia come un sistema autocorrettivo. Inoltre, nei genitori di figli con anoressia, l’assenza di una discrepanza emotiva tra madri e padri è in contrasto con l’ipotesi della Normative Male Alexithymia. Questi risultati costituiscono un primo sostegno all’ipotesi di Colesso (effetto normalizzante dell’anoressia nervosa sull’elaborazione emotiva dei genitori), ma sono necessarie ulteriori ricerche visti i limiti dello studio.

La paura di cambiare

Se la paura si trasforma nel dolore di qualcosa che si è già verificato o nel timore di ciò che accadrà, diventa motivo di ostacolo per un cambiamento sano.

 

Come affrontare le difficoltà

 Davanti ad un malessere, ad una condizione di disagio, a quel qualcosa che ogni giorno si insinua nella nostra vita modificando la percezione che noi abbiamo di questa e condizionando totalmente la nostra esistenza, come dobbiamo comportarci?

Dobbiamo eliminare il problema alla radice? Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere e percepire questa condizione nella realtà attuale? Oppure basta non ascoltare, fare finta di nulla e continuare la nostra vita normalmente?

Nella realtà di oggi, sempre più persone adottano questa modalità. Molti hanno paura di affrontare il proprio dolore e malessere, quindi di conseguenza si allontanano da una prospettiva di cambiamento.

Questo timore può essere però molto dannoso, in quanto condiziona e blocca lo sviluppo delle proprie capacità e la riscoperta del proprio sé, limitando le possibilità di cambiamento e di sviluppo, trasformando così l’individuo in schiavo del suo stesso malessere, privo di ogni possibilità di scelta e vincolato e ancorato al proprio male.

Tale paura può guidare la persona e definire la propria condizione un’entità a sé, diversa, a lui indipendente. Egli può cercare di governarla scacciando le proprie emozioni, facendo finta, non sentendo. Il tutto attraverso l’attivazione di meccanismi di difesa.

Promuovere il cambiamento

In condizioni normali, la paura può essere funzionale in quanto preserva da un’ulteriore situazione dolorosa, ma quando si trasforma nel dolore di qualcosa che si è già verificato o nel timore di ciò che accadrà, essa diventa motivo di ostacolo per un cambiamento sano, sviluppando così una sensazione di panico, capace di incrementare ulteriori sentimenti di inferiorità e inadeguatezza. Tutte modalità autodistruttive che fomentano la nostra condizione di malessere e, di conseguenza, il sintomo patologico.

 Ma perchè non voler andare oltre? Perché non abbandonare quella situazione che fino ad ora è solo stata fonte di sofferenza? Perché non provare a cambiare, invece di valutare e cercare di prevedere solo le conseguenze negative di un certo evento, aspettando passivamente il loro arrivo? (Gamberini, 2002).

Il cambiamento ha un prezzo. Cambiare non significa nascondere, far finta che quella sofferenza e l’evento che ne è stato la causa non siano mai esistiti, tutt’altro, cambiare significa affrontare in modo diretto il proprio dolore, significa valutare, analizzare, comprendere, chiedersi il perché, per poi perdonarsi, accettare ciò che è stato ed orientarsi così al futuro.

Quel blocco che impedisce alle persone di affrontarsi, quella paura che impedisce loro di cambiare, si verifica quando non ci si percepisce più come individui liberi in grado di guidare se stessi verso un processo di crescita e sviluppo personale (Cervone & Pervin, 2009).

L’unica vera resistenza siamo quindi noi stessi.

Da piccoli ci imponevano delle regole perché non eravamo capaci di scegliere con giudizio, in modo adeguato e consono. Ma oggi, da adulti, abbiamo questa possibilità e responsabilità.

Oggi possiamo scegliere, in quanto solo noi abbiamo l’unico vero potere di cambiamento, e spetta a noi decidere come usarlo (Gamberini, 2002).

La cura del paziente oncoematologico (2022) di Flora Gigli – Recensione

Il libro “La cura del paziente oncoematologico” offre una panoramica dettagliata dell’attuale situazione della oncoematologia italiana.

 

 È rivolto, nelle intenzioni degli autori, prevalentemente ai giovani ematologi in formazione, ma la lettura risulta molto utile a chiunque voglia approfondire la complessa realtà emotiva che vivono pazienti, familiari e operatori sanitari nell’ambito delle malattie oncologiche. Il volume è scritto da medici e psicologi che operano nel settore specifico da molti anni e che mettono a disposizione non solo le proprie competenze ma anche il racconto del proprio vissuto personale. Non manca uno spazio dedicato alle riflessioni dei pazienti.

La curatrice del testo è Flora Gigli, psicologa, psicoterapeuta, psiconcologa attiva da molti anni presso l’AOU Policlinico Umberto I di Roma, attualmente responsabile dell’Ambulatorio di Psiconcologia Ematologica dell’AIL di Roma.

Nel primo capitolo, la vicenda personale di Marco Vignetti serve anche a ripercorrere tutta la storia dell’oncoematologia italiana, che ormai vanta circa mezzo secolo di vita, dove occupa un ruolo preminente la figura di Franco Mandelli, da tutti riconosciuto come capostipite indiscusso. Il racconto autobiografico, con le emozioni che accompagnano la vita in reparto e in ambulatorio del medico, serve molto bene a illustrare la storia scientifica di questa disciplina. Dopo Franco Mandelli, è stato Sergio Amadori a seguirlo nel complesso compito di riferimento scientifico e organizzativo della disciplina. Spazio viene dedicato anche all’AIL, l’Associazione nata circa 50 anni fa per combattere leucemie, linfomi e mieloma, promuovendo la ricerca e organizzando cure domiciliari, e al GIMEMA, gruppo di coordinamento scientifico degli ematologi italiani. Particolarmente toccante, e non poteva essere diversamente, è il terzo capitolo scritto da Momcilo Jankovic, dedicato alla cura in ambito pediatrico, dove inevitabilmente alla competenza tecnica va unita quella relazionale, senza sottacere l’importanza del carico emotivo che investe anche l’operatore sanitario. Adeguato spazio viene dedicato a chiarire come, nel suo modello operativo, avviene la comunicazione della diagnosi, in un dialogo riservato esclusivamente al bambino, utilizzando un gruppo di immagini e la metafora del giardino fiorito. Di particolare interesse anche il capitolo dedicato alle riflessioni dei pazienti, che costituisce la parte centrale del volume, almeno per quel che riguarda le risonanze emotive. Come dice uno di loro, la loro voce fornisce un punto di vista diverso da quello degli specialisti ma prezioso e, in fondo, il più importante.

 Venendo invece ai capitoli che riguardano più da vicino gli psicologi, è ben delineato il complesso percorso della psiconcologia, e in generale dell’importanza della presa in carico della dimensione emotiva, psicologica e relazionale nelle malattie organiche, fatto negli anni sia di riconoscimenti che di illusioni. Gigli fa propria la definizione proposta da Pontalti secondo cui uno psicoterapeuta è innanzitutto un “cercatore di senso” e dunque di significato, che richiama alla responsabilità di stare al fianco del paziente, nel suo contesto, lavorando sulla reciprocità, sulle relazioni e sulla possibilità di operare con lui per espanderne la vivibilità. La ricerca di senso non va intesa solo come una strategia difensiva finalizzata a proteggersi dalle angosce e dal dolore, ma è soprattutto una modalità più alta per dare valore alla vita.

Un intervento psicologico che corrisponda a una realtà così complessa si attua offrendo sostegno diretto al paziente, ma deve operare anche collaborando con gli operatori sanitari, cercando di trovare senso agli eventi e contribuendo alla comprensione del paziente nelle varie fasi della sua cura, affinché le scelte operative possano essere il più possibile individualizzate. E –aggiungo– è fondamentale il lavoro con le istituzioni, a partire dai loro vertici direttivi, per un pieno riconoscimento e comprensione del ruolo della psicologia. È ben chiarito quanto lavorare in un setting così delicato quale quello della oncoematologia comporta necessariamente, anche per lo psicoterapeuta più esperto, un faticoso lavoro di ridefinizione che coinvolge non solo le competenze professionali, ma anche sfida la nostra dimensione personale. Si tratta di un ambito della medicina dove probabilmente, ancor più che in altri, è necessaria la componente multi-specialistica.

Forse il capitolo meno interessante –almeno per il mio modesto giudizio soggettivo– è l’ultimo, dedicato all’alimentazione, che mi è parso un po’ scollegato al resto. Rimane il fatto che si tratta di un ottimo libro, scritto molto bene, di lettura scorrevole e coinvolgente per coloro che desiderano approfondire un tema così delicato.

La trascendenza orizzontale della psichiatria fenomenologica

Per ‘allinearsi al modello delle scienze naturali’ la psichiatria organicista ha rischiato (e nelle sue avanguardie contemporanee rischia ancora) di perdere la ‘specificità dell’umano e quindi ciò a cui essa è naturalmente ordinata’.

 

 È nel dialogo intitolato “Fedone” (96 A – 102 A) che Platone, per bocca di Socrate, ci racconta come, deluso dalla ricerca dei “fisici” scoprì, mediante la ‘seconda navigazione’ (δεύτερος πλοῦς), il mondo soprasensibile, cioè il mondo delle Vere Cause delle cose di ‘quaggiù’. Tutto cambiò: ogni cosa che prima risultava contraddittoria, inspiegabile ed enigmatica ebbe un senso da questa scoperta che stravolse per sempre la fisionomia spirituale dell’Occidente. La ‘seconda navigazione’ platonica fu verticale: il grande filosofo ateniese scoprì il Fondamento del Tutto, non la ragione di qualche ente in particolare.

C’è un senso in cui è possibile intendere, analogicamente, la ‘fondazione fenomenologica della psichiatria’ come una seconda navigazione delle scienze umane. La prima navigazione, quella naturalistica e positivistica, era sfociata in una concezione organicista dell’uomo per cui l’universo della sua vita psichica era concepito come il prodotto dell’attività cerebrale e i disturbi mentali come la conseguenza, naturale, di disturbi del cervello.

Per comprendere pienamente la necessità di un superamento di questo modo d’intendere l’uomo che maturò nelle menti di alcuni importantissimi psichiatri del secolo scorso, è possibile fare riferimento a tre episodi estremamente significativi che C. Trabucchi racconta in “Curare la psiche elevando lo spirito”. Nei primi anni della sua direzione ospedaliera a Verona (diresse l’Ospedale Psichiatrico di Verona dall’estate del 1947 fino al 1972) ricorda di aver condotto una paziente da uno psichiatra ‘di grido’ il quale, sorridendo, affermò: ‘cosa importa a me, come psichiatra, sapere se una è sposata o no…’ (ivi, p. 28).

Il secondo episodio si verificò in occasione di un Convegno quando Trabucchi ascoltò due cattedratici affermare: ‘ne abbiamo già abbastanza di studiare la psichiatria…mancherebbe altro che ci dovessimo anche curare delle situazioni ambientali dei nostri malati …’ (ibidem).  Il terzo, emblematico, episodio raccontato dallo psichiatra riguarda lo stupore (misto a scherno) con cui un collega accolse questa ‘diagnosi’ di una sua paziente: ‘mancanza di senso morale con gravi disordini della condotta’ (ibidem). Sembrava strano al collega che Trabucchi, in una diagnosi psichiatrica, avesse usato il termine ‘morale’: troppa soggettività in un settore in cui tutte le attenzioni dovevano essere scientificamente concentrate sul cervello, in quanto organo fisico oggettivabile.

Per salvaguardare l’infinita ricchezza dell’umano, la psicologia non può costituirsi né epistemologicamente né metodicamente sul modello delle scienze naturali. Giustamente U. Galimberti ha spiegato che ‘[…] la scienza non ha rapporti con la “verità”, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni esatte, cioè “ottenute da [ex actu]” le premesse che sono state anticipate, per cui accostare lo psichico “scientificamente” non significa trovare la verità dello psichico, ma semplicemente il risultato che un certo metodo ha prodotto’ (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 106).

È ancora Galimberti a ricordare quel monito di Binswanger che suona come un gong nelle coscienze degli psicologi, psicopatologi e psicoterapeuti: ‘si tenga ben fermo che cosa significa essere un uomo’ (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 222). Ma è impossibile cogliere la verità dell’uomo dopo averlo oggettivato, sezionato e spogliato di quella coscienza intenzionale che lo lega indissolubilmente e intenzionalmente ad un mondo ricco di sfumature e significati esistenziali inintelligibili per un metodo finalizzato alla mera classificazione diagnostica e alla fredda e sterile misura degli episodi sintomatologici.

A questo proposito è giusto ricordare che nella seconda navigazione in campo psicologico un momento fondamentale è costituito dalla pubblicazione della “Psicopatologia Generale” (Allgemeine Psychopathologie) di K. Jaspers che, in un passo davvero memorabile, ha scritto: ‘il nostro lavoro di ricerca infine deve mantenere quale orizzonte ultimo la coscienza dell’omnicomprensivo dell’umano in cui tutto quanto si può ricercare empiricamente rimane sempre una parte, un aspetto, una relatività e ciò anche se fosse la totalità empiricamente più completa. Al limite di ogni conoscenza umana rimane il grande problema che cosa sia propriamente l’uomo [neretto e corsivo miei]’ (K. Jaspers, Psicopatologia Generale, p. 33).

È sulla strada aperta da questo tipo di considerazioni che s’incontra, nella Psicopatologia Generale, quella fondamentale distinzione tra spiegare (erklären) e comprendere (verstehen) che mette a fuoco due precise modalità di approccio all’umano: ‘[…] la spiegazione può essere chiamata riduzione, perché, a differenza della “comprensione” che si accosta all’oggetto da comprendere nei suoi stessi termini, allo scopo di vedere in esso le strutture che emergono dal suo versante e non dal versante di chi indaga, la “spiegazione”, invece di parteciparsi all’oggetto affinché esso ceda la propria essenza (Wesen) a noi che la comprendiamo, riduce ciò che appare a ciò che essa considera le leggi ultime o la realtà ultima dei fenomeni che appaiono. In questo senso, precisa Jaspers: “è possibile spiegare pienamente qualcosa senza comprenderlo”’ (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 178).

Per ‘allinearsi al modello delle scienze naturali’ la psichiatria organicista ha rischiato (e nelle sue avanguardie contemporanee rischia ancora) di perdere la ‘specificità dell’umano e quindi ciò a cui essa è naturalmente ordinata’ (cfr. U. Galimberti, La casa di psiche, p. 228). L’analogia con il Fedone di Platone è perfetta ed emblematica. In 99 A-B, il grande filosofo ateniese, sempre per bocca di Socrate, scrive: ‘Se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza’.

In questo passo cosa ha tentato di dirci Platone? La risposta è solo superficialmente semplice, ma in realtà è rivoluzionaria e abissale: restando nella dimensione delle dinamiche causali materiali ed efficienti, per usare note espressioni aristoteliche, niente di quello che ci sta intorno risulterebbe fino in fondo intelligibile. È esattamente questa considerazione che ha spinto Platone alla seconda navigazione. Trasposta analogicamente sul terreno della psichiatria e della psicoterapia, questa critica radicale vecchia di due millenni è ricalcata fedelmente dalla distinzione jaspersiana tra spiegazione e comprensione ed è alla base di quel rivoluzionario approccio ‘comprensivo’ all’uomo peculiare ‘delle scienze umane fenomenologicamente fondate’ (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 15). Così come Platone è approdato al regno delle Idee, cioè a quel luogo metafisico che è causa Formale e Finale del mondo di ‘quaggiù’, la seconda navigazione fenomenologica è approdata ad una concezione dell’uomo nella quale a) l’inesauribilità delle sue dimensioni interiori irriducibili ad una mera struttura neurobiologica e b) l’imprescindibile relazione con il ‘suo mondo’ appaiono come i pilastri fondamentali.

Sul primo pilastro resta insuperabile, per chiarezza e profondità, un’immagine utilizzata da Jaspers nella sua “Psicopatologia Generale”: ‘il problema di come si costruisce, si ordina, si articola tutto questo sapere, diventa l’esigenza di sintesi di tutta la conoscenza. Noi ripetiamo che questo è possibile solo metodologicamente, e non come teoria dell’essere umano. La sintesi non è come la carta di un continente, ma come la carta delle possibilità di viaggio in esso. Ma a differenza del continente geografico, l’uomo non può essere tutto oggetto della nostra conoscenza. È questo appunto che lo distingue dall’esistenza di un oggetto anche grandissimo, e cioè che in tutta la natura egli ha la posizione eccezionale di essere libero [neretti e corsivi miei]» (p. 797).

La comprensione dell’umano non si esaurisce nell’oggettivante pratica diagnostica che intrappola il paziente riducendolo ai suoi sintomi, ma si realizza, senza mai concludersi definitivamente, nelle indeterminate possibilità di viaggio all’interno di quel misterioso e labirintico mondo della soggettività umana. Solo a questa condizione è possibile il riscatto della ‘psicologia dalla psicofisiologia’ (U. Galimberti, La casa di psiche, p. 238) nel pieno rispetto della multiforme e a tratti inaccessibile natura umana.

Sul secondo pilastro, invece, è opportuno considerare quanto L. Binswanger ha detto nella famosa conferenza dedicata a La psichiatria come scienza dell’uomo: ‘vorrei accennare preliminarmente solo al fatto che non si può adempiere il compito psichiatrico di comprendere e descrivere disturbi psichici in primo luogo nella loro essenza propria, cioè come modificazioni della struttura dell’essere-nel-mondo, limitandosi a fornire un rigido schema o una determinata ricetta. Di regola, lo scopo sarà quanto prima raggiunto, sottoponendo all’indagine innanzi tutto il modo della “mondità”, sia come modo di spazializzazione, di temporalizzazione o, come la psichiatria doveva ancora imparare nel suo campo, nella sua materialità o consistenza (solidità, durezza, mollezza, ariosità, focosità, ecc.), nella sua apertura-illuminata [Belichtung], luminosità, colorazione, nella sua “altezza” e nella sua “profondità”, pesantezza e leggerezza, calorisità o freddezza, nella pienezza e nella vacuità, nell’ascendere e nel cadere, ecc.’ (L. Binswanger, La psichiatria come scienza dell’uomo, p. 45).

Se ‘la psicologia non ha a che fare con un soggetto privo del suo mondo [weltloses Subjekt] perché un simile soggetto non sarebbe altro che un oggetto’ (L. Binswanger, La concezione eraclitea dell’uomo, p. 101) allora è vero che la seconda navigazione fenomenologica è anch’essa approdata, come quella platonica, alla Trascendenza, ma non quella “verticale” che spiega tutta la realtà, ma quella “orizzontale”, cioè quella che determina lo spazio esistenziale dell’altro che si pone di fronte al terapeuta e/o allo psichiatra. È a partire da queste considerazioni che può essere compreso il principio metodologico della psichiatria fenomenologica che raccomanda allo specialista, come direbbe C. Rogers, di ‘raggiungere lo schema di riferimento del cliente, per arrivare al centro del suo stesso campo percettivo […]’ (C. Rogers, Terapia centrata sul cliente, p. 29) e di cercare ‘il criterio di comprensione dell’esistenza nell’esistenza stessa, che nel suo modo di vedere (Umsicht) e di indicare il significato (Bedeutung) delle cose, offre da sé la chiave interpretativa del proprio modo di essere-nel-mondo’ (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 225).

Insoddisfazione corporea e social media

Le giovani donne risultano essere più sensibili agli ideali di magrezza proposti sui social network e mostrano un rischio più elevato di sviluppare insoddisfazione corporea e disturbi alimentari.

 

 L’immagine corporea è definita da tre dimensioni: la percezione, i pensieri e le emozioni che ruotano intorno al proprio corpo. È la rappresentazione che un soggetto ha del proprio corpo, compreso il suo riflesso allo specchio; risente e riflette i costrutti sociali che dipendono dalla cultura di appartenenza e dalle norme del contesto sociale in cui il soggetto è inserito. Questa concezione di sé stessi si crea sulla base di ideali corporei, comunicati sostanzialmente dall’ambiente attraverso i media, la famiglia e i coetanei (Jiotsa et al., 2021).

Negli ultimi 30 anni i media hanno sovraesposto le persone a ideali di magrezza, a partire dalla giovane età (Blowers et al., 2003), trasformando questo ideale in un nuovo standard di riferimento (Anschutz et al., 2016). È emerso da recenti studi (per esempio, Laure et al., 2005) che soprattutto le giovani donne risultano essere più sensibili agli ideali di magrezza e hanno la tendenza ad associarli alla bellezza e al successo.

 Il modo in cui interiorizziamo questo ideale di magrezza influisce sull’insorgenza di un disturbo alimentare e può essere un buon predittore per prevenire il rischio di sviluppare una problematica relativa all’alimentazione (Gorwood et al., 2016). L’interiorizzazione degli standard di magrezza può portare a un’alterazione dell’immagine corporea, con conseguente insoddisfazione corporea e preoccupazioni esagerate per il corpo e il peso (Stice et al., 2002). L’insoddisfazione corporea è caratterizzata da un’incongruenza tra il proprio corpo reale e quello idealizzato (Jacobi et al., 2004).

I soggetti con anoressia nervosa e bulimia nervosa condividono lo stesso pensiero radicale per l’immagine corporea, con la paura pervasiva di ingrassare (Stice at al., 2002).

Il recente studio condotto da Jiotsa e colleghi (2021) ha trovato un’associazione tra la frequenza con cui si confronta il proprio aspetto fisico con quello delle persone seguite sui social media e l’insoddisfazione corporea e il desiderio di magrezza.

In conclusione, si potrebbe dire che l’uso diffuso dei social media negli adolescenti e nei giovani adulti potrebbe aumentare l’insoddisfazione corporea e il desiderio di magrezza, rendendo la popolazione di giovani adulti più vulnerabili ai disturbi alimentari.

Il ruolo del tempo speso in attività di gaming online nel predire l’uso problematico di Internet  

Lo studio cerca di approfondire la relazione tra affettività negativa, metacognizioni riguardo al gaming online, frequenza dell’online gaming e uso problematico di Internet

 

Negli ultimi anni in ambito clinico e di ricerca vi è stata sempre maggiore attenzione riguardo alla tematica e alla potenziale pericolosità in termini di salute mentale di un uso disfunzionale e problematico di Internet. 

Con il termine inglese Problematic Internet Use (PIU) (Young 1998; Spada 2014) si intende un utilizzo disregolato di Internet che dà origine a deficit nel funzionamento sociale, lavorativo/scolastico o in altre aree importanti nella vita dell’individuo ( Beard and Wolf 2001; Moreno et al. 2019).

L’uso problematico di Internet è caratterizzato attività su Internet che: 1) perdurano più del previsto, portando a trascurare compiti importanti della quotidianità; 2) impattano negativamente sulle relazioni interpersonali e sulla performance lavorativa/scolastica; 3) portano a sintomi da astinenza qualora è impedito l’accesso a Internet (Cole and Grifths 2007; Peters and Malesky 2008).

Uso problematico di internet e online gaming

Tra molte attività che si possono svolgere online, il tempo speso in attività di online gaming sembra essere uno dei fattori maggiormente associati a un uso probelmatico di Internet (PIU) (Van Rooij et al. 2010).

Relativamente all’online gaming, recentemente l’Organizzazione Mondale della Sanità (OMS) ha incluso il “gaming disorder” all’interno dell’undicesima revisione del International Classifcation of Diseases (ICD-11) come specifico disturbo allineato alle dipendenze. 

L’ICD-11 definisce il “gaming disorder” come un’attività di videogaming digitale (sia online che offline) persistente e/o ricorrente, caratterizzata da: 1) difficoltà nel controllo dei comportamenti di gaming incluso il tempo impiegato in tale attività, la durata e la frequenza;  2) aumento dell’importanza e priorità che il gaming ha per la persona rispetto ad altre attività significative; 3) significativa compromissione della funzionalità nella vita quotidiana (famiglia, scuola, lavoro, etc) e della salute, e continuazione dei comportamenti di gaming nonostante le conseguenze negative dello stesso.

Per effettuare la diagnosi è necessario che i sintomi sopra descritti siano presenti per almeno 12 mesi.

Pertanto, tra le altre indicazioni riportate dalla OMS si ritrova l’importanza di monitorare il tempo speso dai gamers nell’attività di gaming cosi come approfondire le difficoltà nella regolazione di tali comportamenti per prevenire e identificare precocemente pattern di utilizzo problematico dei giochi digitali e di Internet. 

A fronte di tali premesse, sorgono interrogativi riguardo i meccanismi di autoregolazione e i processi metacognitivi-motivazionali che possono essere implicati in una eccessiva frequenza del gaming online e in un uso problematico di Internet. 

Metacognizione e credenze metacognitive nell’uso problematico di internet

Con il termine metacognizione ci si riferisce alla conoscenza stabile del proprio sistema cognitivo; alla conoscenza dei fattori che influenzano il funzionamento di questo sistema; alla regolazione e alla consapevolezza dello stato attuale della cognizione e alla valutazione del significato dei pensieri e ricordi (Wells, 1995). Le credenze metacognitive o metacredenze si possono definire come delle informazioni soggettive relative al proprio funzionamento cognitivo e alle strategie di coping generalmente utilizzate.

Secondo Wells e Matthews (1994): i disturbi psicologici insorgono e vengono mantenuti a causa di modalità cognitive ed emotive che interessano il pensiero, il monitoraggio delle minacce, comportamenti di prevenzione ed evitamenti. Queste modalità dipendono strettamente dalle credenze metacognitive sottostanti. A volte capita che queste metacredenze, sia che abbiano natura positiva che negativa, portino gli individui a mettere in atto strategie di coping disfunzionali.

Alcune metacredenze sembrano essere dannose poiché possono attivare e mantenere strategie autoregolatorie disfunzionali nell’ambito del gaming e nell’uso di internet (Spada and Caselli 2017; Marino and Spada 2017). Vi possono essere metacredenze positive e negative. Le credenze metacognitive positive che riguardano il gaming online esprimono i benefici percepiti dal soggetto nell’utilizzo del gioco online come strategia di coping per regolare stati cognitivo-affettivi, come ad esempio “Giocare non mi fa pensare alle mie preoccupazioni”, “Giocare mi distrae dai miei problemi”. Le credenze metacognitive negative riguardano l’incontrollabilità e la pericolosità dei pensieri riguardo il gaming online, come ad esempio “Non riesco a smettere di giocare anche se penso che sarebbe meglio farlo” oppure “I pensieri relativi al gaming interferiscono con il mio funzionamento

Le metacredenze positive giocano un ruolo centrale nel motivare il soggetto nel perpetrare un ipercoinvolgimento nell’online gaming, mentre le metacredenze negative possono favorire nel soggetto la tendenza a evitare sforzi e sensazioni negative legate al terminare e limitare l’attività di gaming e quindi aumentando il rischio di sviluppare comportamenti di dipendenza dal gioco (Marino and Spada 2017; Spada et al. 2015).

Metacognizione, frequenza del gaming online e uso problematico di internet

  Lo scopo dello studio di Caselli, Marino e Spada (2021) è quello di verificare un modello metacognitivo che intende approfondire la relazione tra affettività negativa, metacognizioni riguardo al gaming online, la frequenza dell’online gaming e l’uso problematico di Internet (PIU).

Secondo questo modello, dapprima sarebbero le metacredenze positive e la presenza di emozioni negative a spingere verso un coinvolgimento nel gaming online, come modalità di gestione delle emozioni negative. Una volta iniziata, l’attività di gaming può portare a fenomeni attentitivi di “assorbimento” nel gioco sostenuti dalle metacredenze negative riguardo l’incontrollabilità dell’online gaming. Tali metacredenze non consentirebbero l’accesso ai processi di monitoraggio e di autoregolazione della quantità di tempo speso giocando. Al termine dell’episodio di gaming, le metacredenze negative relative al gaming online possono favorire una valutazione dell’attività di gaming e dei relativi pensieri come incontrollabili e pericolosi, attivando un’escalation di emozioni negative che a loro volta attiverebbero nuovi episodi di gaming utilizzati come strategia di regolazione disfunzionale delle stesse emozioni negative. La perseverazione di questi episodi di gaming porterebbe quindi a un utilizzo problematico di Internet (PIU).

Le relazioni tra le variabili descritte nel modello sono state esaminate attraverso una path analisi e coinvolgendo un campione costituito da 326 gamers di nazionalità italiana, con un’età media di 27 anni (età media=27 anni, SD=5.65 anni) e per il 93.3% maschi.

I soggetti del campione hanno compilato i seguenti questionari: a)  Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS) per valutare l’affettività negativa; b) il Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS) per la rilevazione delle metacredenze positive e negative riguardo l’online gaming; c) l’Internet Addiction Test (IAT) per l’asssment del livello di utilizzo problematico di Internet; d) ai partecipanti è stato richiesto di riportare le ore di gioco settimanali.

I risultati delle analisi statistiche hanno dimostrato che nei gamers l’affettività negativa è direttamente correlata alle altre variabili rilevate, e in particolare si è riscontrata una correlazione positiva statisticamente significativa tra il livello di affettività negativa e i punteggi relativi alle metacredenze positive e negative sull’online gaming.

Inoltre, un altro risultato interessante è che il livello di metacognizioni negative riguardo al gaming online è fortemente associato a un utilizzo problematico di Internet (PIU).

In generale, quindi il modello teorico ipotizzato è stato confermato dai dati rilevati evidenziando che le metacognizioni sul gaming online possono giocare un ruolo significativo nell’associazione tra il tempo speso online giocando e un pattern più ampio di disfunzionalità nell’utilizzo di Internet.

Nonostante la loro natura preliminare, questi risultati di ricerca hanno una serie di implicazioni a livello di assessment, concettualizzazione e trattamento di pattern di utilizzo problematico di Internet (PIU), ad esempio relativamente all’ assessment, potrebbe essere utile rilevare le metacredenze positive e negative riguardo il gaming online sia a scopo preventivo che di concettualizzazione dei casi clinici. In secondo luogo, sul piano del trattamento, questi dati preliminari costituiscono la base iniziale per lo sviluppo di un modello di terapia metacognitiva per l’utilizzo problematico di Internet, ipotizzando target di trattamento specifici ad esempio in riferimento alle metacredenze positive e negative sul gaming online e alla loro relazione con le emozioni negative, favorendo quindi strategie di autoregolazione più flessibili e adattive (Caselli et al. 2016, 2018).

Tra i limiti dello studio vanno riconosciuti l’assenza di un disegno di ricerca longitudinale che possa consentire di testare la causalità tra le variabili rilevate, la natura non clinica del campione e infine l’assenza della rilevazione di eventuali casi di Internet Gaming Disorder (IGD) nei soggetti inclusi nello studio.

 

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