expand_lessAPRI WIDGET

Tatuaggi e piercing: un modo per rielaborare le avversità del passato?

Le modificazioni corporee intenzionali, come i tatuaggi e i piercing, hanno una lunga tradizione storico-culturale e si basano su tecniche simili in tutto il mondo. Da sempre sono state utilizzate come forma di espressione, ad esempio, dei valori culturali, della maturità sessuale o dello status sociale e della ricchezza di chi li indossa (Perper et al., 2017). 

 

 In molti Paesi occidentali stanno diventando sempre più popolari (Kluger, 2019; Laumann & Kluger, 2018): mentre un tempo i tatuaggi e i piercing servivano come caratteristiche identificative di gruppi e/o di diverse culture (Stirn, 2003), oggi sono un fenomeno di massa e riflettono un atteggiamento mutato nei confronti del proprio corpo. In tempi di stili di vita più individualisti, il corpo diventa un oggetto estetico che può essere attivamente modificato, in accordo con gli ideali contemporanei di auto-espressione e bellezza (Borkenhagen et al., 2016; Widdows, 2018).

Motivazioni psicologiche di tatuaggi e piercing

Le motivazioni psicologiche alla base dei tatuaggi e dei piercing sono state oggetto di studi relativamente piccoli, molti dei quali hanno utilizzato metodi qualitativi. È importante notare che i tatuaggi e i piercing servono come mezzi di comunicazione (Atkinson, 2003). Nella loro revisione, Wohlrab e colleghi (2007) hanno riassunto le principali motivazioni per fare modifiche corporee. Queste rientrano in dieci categorie, che comprendono sia motivazioni come la bellezza e la moda, sia espressioni di un profondo significato personale (narrazione personale, affiliazione e impegno in un gruppo, resistenza; Wohlrab et al., 2007). Gli individui tatuati e con piercing hanno anche riferito un maggiore bisogno di unicità (Weiler et al., 2021) e una minore autostima (Kertzman et al., 2019), rispetto a quelli che non attuano modifiche corporee. Le modifiche corporee sono state correlate a comportamenti rischiosi (Armstrong & Murphy, 1997; Schlösser et al., 2020) e a individui che ricercano sensazioni forti (Roberti et al., 2004). Sono risultate più comuni tra gli individui con disturbi della personalità (Dhossche et al., 2000) e comportamenti patologici come autolesionismo non suicidario (NSSI; Non Suicidal Self-lnjury).

Numerosi studi hanno fatto riferimento all’importanza delle precedenti esperienze di danni fisici inflitti da altri: in particolare, coloro che hanno subito abusi sessuali hanno riferito il desiderio di elaborare le esperienze passate attraverso la modifica del corpo (Stirn, 2003). È così che alcuni ricercatori hanno suggerito che un piercing potrebbe essere l’espressione del desiderio di guarire le “ferite del passato” (DeMello, 2000), oppure come qualcosa che possa consentire la riconciliazione con parti del corpo precedentemente rifiutate o dissociate (Stirn, 2003).

 Tuttavia, mancano indagini complete e sistematiche sulle associazioni tra abusi infantili, trascuratezza, tatuaggi e piercing nella popolazione generale. Questo rappresenta una lacuna nella ricerca, poiché le esperienze infantili avverse sono un fenomeno diffuso (Witt et al., 2019), con conseguenze durature sulla salute e sul benessere, sull’identità e sul comportamento nell’arco della vita. Sulla base di questo sfondo, i tatuaggi e i piercing potrebbero essere utilizzati specificamente per creare esperienze soggettive più piacevoli. Tra queste, la sensazione di avere il controllo, che contrasta con l’esperienza iniziale di essere stati vittimizzati e/o trascurati (Bolger & Patterson, 2001). Lo studio di Ernst e colleghi (2022) si inserisce in questa area di ricerca e raccoglie 1060 partecipanti di nazionalità tedesca, con un’età compresa tra i 14 e i 44 anni, di cui 53% donne, per approfondire questa lacuna presente in letteratura.

Uno studio su avversità infantili, tatuaggi e piercing

Dalle analisi eseguite, gli autori (Ernst et al., 2022) hanno riscontrato associazioni tra l’abuso infantile, l’abbandono e la presenza di modifiche corporee. Complessivamente, il 48% di coloro che hanno riferito di aver subito almeno un tipo di abuso o trascuratezza ha dichiarato di avere anche almeno un tatuaggio o un piercing, rispetto al 35% di coloro che non hanno riferito di aver subito abusi o trascuratezza nell’infanzia (Ernst et al., 2022). Non solo i tatuaggi e i piercing erano più comuni tra coloro che riferivano di aver subito qualsiasi tipo di avversità infantile, ma i loro tassi di prevalenza aumentavano anche con la maggiore gravità di tutti i tipi di abuso e trascuratezza (Ernst et al., 2022).

In generale quindi, per alcuni individui che adoperano modificazioni corporee, queste potrebbero rappresentare un mezzo per far fronte a precedenti avversità ed essere un’espressione di autonomia (Ernst et al., 2022). Questi risultati aprono nuove strade per le offerte di supporto (coinvolgendo tatuatori e piercer) e lo screening (ad esempio, nelle cure primarie). I tatuaggi e i piercing potrebbero anche fornire uno stimolo per conversazioni terapeutiche sul significato delle esperienze passate e su temi attualmente importanti (Ernst et al., 2022).

Psicoterapia delle psicosi (2021) di Michael Garrett – Recensione

Attraverso il manuale “Psicoterapia delle psicosi”, edito da Raffaello Cortina (2021), Michael Garrett propone una visione delle psicosi e delle metodologie di intervento non solo pienamente rinnovate, ma al contempo lontane da quelle descrizioni che facevano di questi disturbi delle semplici etichette, alle quali attenersi categoricamente e in maniera unidirezionale.

Il libro

 L’autore, pagina per pagina, offre un’ampia panoramica del significato che le psicosi assumono all’interno sia del singolo individuo sia del contesto entro il quale egli vive questa condizione.

L’integrazione della dimensione cognitiva e di quella dinamica fanno di questo libro un manuale attraverso il quale l’operatore della salute mentale può trovare non solo dei nuovi spunti di riflessione, ma anche nuove metodologie con le quali rapportarsi all’idea stessa di psicosi.

A differenza dei precedenti manuali sul tema, le parole dell’autore desiderano restituire dignità al paziente e ai suoi familiari, che assieme a lui si trovano ad affrontare quotidianamente una condizione di difficoltà e sofferenza che non sempre viene ascoltata ed esplorata e che andrebbe sostenuta.

Oltrepassare le etichette diagnostiche

 Un aspetto oltremodo interessante sembra provenire dal contributo di James Hillman (2019), rispetto ai concetti di “nominalismo e categorizzazione del sintomo”. Il noto psicoanalista infatti definiva ambo i termini quali fattori limitanti la cura della persona nella sua totalità. Nondimeno, fermarsi o, peggio ancora, focalizzarsi esclusivamente sul sintomo rischierebbe di innescare quella cecità da parte dell’operatore della salute mentale, che altro non comporterebbe se non l’impossibilità di percepire la simbologia di cui il sintomo stesso è portavoce. In quest’ottica, il linguaggio assume la fisionomia di quel canale in grado di dar voce a quello che spesso il corpo non riesce ad esprimere, e che nelle psicosi spesso risulta ancor più enigmatico, ma non per questo privo di quella logica invisibile e lontana nel tempo che il terapeuta non dovrebbe stancarsi mai di tenere in considerazione.

Se da un lato la dimensione cognitiva offre la possibilità di esplorare pensieri, percezioni e stili di coping, al contempo quella dinamica consente di ricollegarsi a quella dimensione temporale che, per quanto lontana, non cessa mai di riflettersi sul setting terapeutico. Le tecniche presentate non possono non accompagnarsi a quella consapevolezza attraverso la quale ciascun operatore della salute mentale, come ricordato da Eugenio Borgna, deve tener conto della sensibilità e della fragilità di chi abbiamo davanti (Borgna, 2018). E che dietro alla sua fragilità altro non chiede se non di rinascere.

 

Parlare in pubblico che vergogna! Dalla paura del giudizio alla fobia sociale – Podcast State of Mind

È online l’episodio del Podcast di State of Mind dal titolo “Parlare in pubblico che vergogna! Dalla paura del giudizio alla fobia sociale”.

 

State of Mind, in collaborazione con Centro Clinico Studi Cognitivi Rimini, ha realizzato “I giovedì dell’approfondimento”, un ciclo di incontri online gratuiti di divulgazione rivolti al pubblico.

Nell’episodio “Parlare in pubblico che vergogna!” vi aiuteremo a comprendere i processi che portano all’insorgenza della Fobia Sociale e cosa la differenzia dal timore del giudizio altrui. Un approfondimento sulla vergogna come emozione alla base della difficoltà nell’esposizione dell’immagine di sé e del confronto interpersonale.

Ascolta ora:

Disponibile anche sulle principali piattaforme:

 

 

ADHD e abuso di sostanze

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) è un disturbo cronico caratterizzato da sintomi di disattenzione, iperattività e impulsività che non corrispondono al normale livello di sviluppo del bambino.

 

ADHD e dipendenze

 La diagnosi di ADHD si basa sulla presenza di sintomi prima dei 12 anni e in almeno due contesti, tra i seguenti: scolastico, professionale, sociale (DSM-5; APA, 2013). Inoltre, l’ ADHD è uno dei disturbi del neurosviluppo più comuni nella popolazione infantile, infatti, secondo l’American Psychiatric Association, la prevalenza di ADHD tra i bambini americani è del 3-5% (APA, 2013). Secondo uno studio condotto in 10 Paesi, il 50% dell’ADHD riscontrata in infanzia persiste in età adulta (Lara et al., 2009). La prevalenza globale dell’ADHD nell’età adulta è stimata tra l’1,2% e il 7,3% (Fayyad et al., 2007).

I disturbi correlati a sostanze si riferiscono a uno schema comportamentale patologico la cui caratteristica è costituita dall’uso continuato di una sostanza o la messa in atto di un comportamento, nonostante i significativi problemi che vi si associano (DSM-5; APA, 2013). Nel DSM-5 è stato introdotto in questa categoria anche il gioco d’azzardo (DSM-5; APA, 2013).

Uno studio di Romo e colleghi (2018) ha indagato i possibili legami tra il disturbo da deficit di attenzione e iperattività e la presenza di dipendenze concomitanti, in un campione di 1.517 studenti universitari francesi. L’età media dei soggetti partecipanti allo studio era di 20 anni e il 32% del campione era composto da maschi. In fase di valutazione sono stati somministrati una serie di questionari allo scopo di misurare: caratteristiche socio-economiche, curriculum accademico, ADHD, consumo di sostanze (alcol, tabacco e cannabis), disturbi alimentari, dipendenza da Internet e da cibo, acquisto compulsivo, gioco d’azzardo problematico e attività fisica.

La prevalenza di ADHD tra gli studenti (ADHD attuale con una storia di ADHD nell’infanzia) era circa del 7%. Un quarto (26%) degli studenti aveva avuto difficoltà nel proprio percorso universitario, rispetto al 42% degli studenti con ADHD che riportava tali difficoltà.

Studenti con e senza ADHD

 Sono state riscontrate differenze significative in quanto gli studenti con ADHD avevano meno probabilità di successo negli studi (ripetevano le lezioni più spesso) rispetto agli studenti senza ADHD e consideravano il loro livello accademico più basso. Inoltre, gli studenti con diagnosi di ADHD hanno ottenuto punteggi significativamente più alti per quanto riguarda le dipendenze da sostanze (alcol, cannabis e tabacco) e le dipendenze comportamentali (gioco d’azzardo, disturbo da acquisto compulsivo, disturbi alimentari e dipendenza da Internet), rispetto agli studenti senza ADHD. In sintesi, studenti con ADHD sono risultati significativamente più propensi a utilizzare cannabis, sia occasionalmente che regolarmente; inoltre, si ingaggiavano più frequentemente in comportamenti disfunzionali quali binge drinking, binge eating, acquisto compulsivo e gioco d’azzardo.

Questi risultati confermano studi precedenti (Theule et al., 2016) che legavano l’ADHD e polidipendenza, ovvero la dipendenza da più sostanze insieme. Gli autori sottolineano il fatto che i risultati sarebbero in linea con le caratteristiche tipiche dell’ADHD rispetto all’agire comportamenti ad alto rischio in maniera impulsiva e deficit di decision-making (Waluk et al., 2016).

In conclusione, risulta essenziale determinare le difficoltà degli studenti aventi maggiori problematiche a livello psicologico per proporre interventi adeguati alle loro esigenze, così da ridurre l’impatto negativo sui loro futuri successi accademici e globali.

 

A proposito della relazione terapeutica – Platone e Ludwig Binswanger

L’analisi dell’azione e dello stato della psichiatria del nostro tempo non può certo prescindere da considerazioni più vaste (filosofiche, antropologiche e sociologiche) anche, quindi, per quanto riguarda la relazione terapeutica.

 

In effetti la psichiatria ad oggi – nonostante alcune spinte notevoli in direzioni più umane – risente nuovamente di una mentalità oggettivante e alienante, sempre più in linea con il generale indirizzo del nostro tempo definito da molte autorevoli voci come età della tecnica.

La relazione terapeutica secondo Binswanger

Già Ludwig Binswanger, tuttavia, aveva osservato acutamente che “[…] la considerazione clinica e la descrizione di un uomo malato di “nervi” è possibile soltanto sulla base di un processo di selezione e di riduzione orientate da ben determinati scopi conoscitivi e terapeutici, un processo attraverso cui le forme d’esistenza umana in questione vengono tradotte nelle forme cliniche di determinate malattie, nelle sindromi e nei sintomi” diventando “costituzionalmente incapace di comprendere i veri e propri problemi umani” (L. Binswanger, “La concezione eraclitea dell’uomo”, p. 97). In uno scenario organicista in cui la psichiatria è ridotta a “encefalo-iatria” (E. Borgna, “Le intermittenze del cuore”, versione digitale, p. 23) “non c’è più bisogno di dialogo e di colloquio, di comunicazione” (ibidem), perché “ogni condizione depressiva, o ansiosa, deve solo essere cancellata farmacologicamente” (ivi, p. 24):

Nel modello biologistico di conoscenza si giunge, certo, alla esclusione della soggettività, della immedesimazione e della commozione del colloquio clinico. Non si devono provare sentimenti nell’incontro con i pazienti che si trasformano, così, in un oggetto di conoscenza: senza che sia utile alcuna partecipazione emozionale al loro destino (ivi, p. 22).

Molto spesso però anche il cliente sembra accomodarsi senza troppi fastidi all’interno di questo scenario oggettivante e organicista, quasi richiedendo – implicitamente, attraverso il suo comportamento – di essere considerato un paziente e non un uomo con un disagio esistenziale. Su quest’ultimo punto si è espresso magistralmente Jaspers in un saggio intitolato “L’idea di medico” (che insieme ad altri quattro saggi scritti fra il 1950 e il 1955 sono stati curati da U. Galimberti e pubblicati nel volume “Il medico nell’età della tecnica”):

Per alcuni malati il presupposto della ragione non vale. Si tratta del malato che va dal medico perché vuole essere curato a tutti i costi. In base alle sue aspettative il consulto termina in ogni caso con delle prescrizioni. La spinta a essere curati sempre, l’angoscia di quanti vogliono essere guariti da qualche cosa, la sollecitazione esercitata nei confronti del medico attraverso richieste che non possono essere soddisfatte provocano lo sviluppo di metodi terapeutici che non sono razionalmente efficaci. Circa trent’anni fa, durante il suo discorso inaugurale a Heidelberg, un celebre farmacologo disse, più o meno, con una punta di esagerazione: “Disponiamo di una dozzina di farmaci efficaci; il resto è il prodotto dell’angoscia dei malati e degli interessi dell’industria farmaceutica”. A questo si aggiunga che il malato non vuole veramente sapere, bensì ubbidire. L’autorità del medico è un gradito punto fermo che lo dispensa dalla riflessione e dalla responsabilità proprie. “Me lo ha prescritto il medico” è la forma più comoda di liberazione. (K. Jaspers, L’idea di medico, p. 5).

Coerentemente a queste considerazioni B. Bara ha scritto che, solitamente, per il paziente “il riferimento è quello del rapporto fra un abile chirurgo e il suo fiducioso paziente: questi si addormenta, e al risveglio l’operazione è terminata, il male estirpato” (B. Bara (a cura di), “Manuale di psicoterapia cognitiva”, p. 41). L’onnipotenza dell’encefalo-iatra (non psichiatra) e la passiva accettazione del paziente, che crede di non avere un ruolo attivo nel processo di guarigione e realizzazione di sé, frantumano quella “comunità di destino” che E. Borgna ha giustamente definito come la cifra emblematica di ogni percorso (psico)terapeutico (E. Borgna, “Le emozioni ferite”, versione digitale, p. 31).

È ancora Borgna a spiegare che “quello che collega medico e paziente non è (così) nulla di analogo al “contatto” fra due batterie elettriche, non è un “contatto” psichico, ma è un “incontro”: inteso come un essere-insieme nelle diverse modalità consentite dal destino all’uno e all’altro” (ivi, p. 26). Nella famosa conferenza “La psichiatria come scienza dell’uomo” L. Binswanger ha sostenuto che lo psichiatra fenomenologo dovrà considerare i suoi “pazienti” (ammesso che questa espressione abbia ancora un senso) come suoi “compagni dell’esistenza (Daseinspartner)” e non come “organismi e cervelli semplicemente-presenti [vorhandene]” (L. Binswanger, La psichiatria come scienza dell’uomo, p. 40).

In “Sulla psicoterapia. Possibilità ed effetti dell’azione psicoterapeutica” ancora L. Binswanger è sceso molto in profondità sul tema della relazione terapeutica, sulle sue degenerazioni e sulle contromisure da adottare per renderla davvero curativa ed esistenzialmente importante. Di una relazione terapeutica ‘malata’ bisogna considerare tre cose, ha spiegato l’illustre psichiatra:

  • […] al posto di un vero partner, cioè l’uomo ammalato, viene chiamata in causa una mera astrazione scientifica: la “psiche”, mentre l’altro partner, il medico, svanisce dietro la sua funzione di terapeuta, dietro la θεραπεία;
  • […] poi, perché non si esplicita che una sola direzione di rapporto, quella che va dal medico come soggetto di funzione terapeutica alla psiche dell’ammalato, e non viceversa; 
  • […] infine perché il confronto tra medico e malato non si esprime come un vero rapporto interumano, ma soltanto come una prestazione, un servizio rivolto a qualche cosa (ivi, p. 138). 

In questo scenario lo psichiatra giustamente rileva che la psicoterapia assume il significato di “servizio medico rivolto alla psiche di un altro uomo (intendendosi per psiche la globalità delle funzioni vitali di ordine psichico)” (ibidem).

La visione della relazione terapeutica dalle opere di Platone

 Nel “Simposio” Platone, sempre per bocca di Socrate, ci regala una definizione straordinaria di quella che oggi potremmo chiamare relazione (psico)terapeutica. Tralasciando il contesto, la storia e la complessa trama del dialogo (considerazioni superflue in questa sede) consideriamo dapprima le parole che Agatone rivolse a Socrate non appena questi si decise ad entrare in casa dove si celebrava il simposio: “Vieni qua, Socrate! Distenditi vicino a me, in modo che, stando a contatto con te, possa godere anch’io di quella sapienza che si è presentata a te mentre stavi nel vestibolo. È chiaro, infatti, che tu l’hai trovata e che la possiedi. Altrimenti prima non ti saresti mosso” (175 C-D). Socrate, udite queste parole, rispose: “Sarebbe davvero bello, Agatone, se la sapienza fosse in grado di scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, quando ci accostiamo l’uno all’altro, come l’acqua che scorre nelle coppe attraverso un filo di lana da quella più piena a quella più vuota” (175 D-E).

Cosa ha voluto dirci Platone con questa bellissima immagine? È stato molto opportunamente rilevato “che per Agatone la sapienza non è altro che una serie di informazioni trasferibili da un individuo all’altro […]. Ben diversa la posizione di Socrate: non che per lui alcuni saperi non possano essere insegnati al modo delle prescrizioni, istruzioni e procedure. Si apprende così il sapere tecnico. Ma la sapienza”, continua Zanatta, “il cui possesso causa la condotta virtuosa, appartiene ad un altro genere di sapere che non può essere appreso attraverso un trasferimento di informazioni, poiché esso si radica ed in germe è già presente nella stessa natura dell’uomo e ne costituisce il carattere specifico” (Platone, “Simposio”, Bur, a cura di F. Zanatta e con un saggio introduttivo di U. Galimberti, nota 20, p. 148).

Se l’uomo è riduttivamente considerato come un organismo da riparare (encefalo-iatria) allora la psichiatria diventa davvero un dispositivo tecnico psicofarmacologico unidirezionale a disposizione dello psichiatra-tecnico che agisce sul paziente (punto b della riflessione di Binswanger). Anche in uno scenario psicoterapeutico, nel quale l’elemento psicofarmacologico non è certo la prima scelta, lo specialista potrebbe limitarsi a rivestire il ruolo di ‘insegnante’, ritenendo che una sterile trasmissione di dati possa bastare per causare nel soggetto adagiato sulla poltrona uno sblocco esistenziale e una solida realizzazione di sé.

Il malato “deve sapere ch’egli, il medico, in ogni caso e sotto ogni riguardo ciò che fa “lo fa per il suo bene” e ch’egli non vuole soltanto “ripararlo”, con il suo sapere e la sua capacità, come se fosse un oggetto, bensì ch’egli lo vuole aiutare, grazie alla fiducia che gli porta, come persona” (L. Binswanger, “Sulla psicoterapia”, p. 144) e il paziente deve essere umanamente rivalutato e considerato nella sua dignità di persona sofferente (prima che di organismo malato e difettoso): solo a queste condizioni lo scenario può cambiare radicalmente e la “prestazione terapeutica” può diventare relazione umana, cioè “un autentico essere-insieme [Miteinander]” (ivi, p. 149).

Dal passo platonico del “Simposio”, inoltre, emerge anche un altro – fondamentale – aspetto della relazione terapeutica: il ruolo attivo nel processo di guarigione del soggetto sofferente. Difficile che, a questo punto dell’analisi, il pensiero non corra ad un passo memorabile del “Teeteto” in cui Socrate afferma: “[…] il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vieta di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscono, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto; come vedono essi medesimi e gli altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi hanno trovato e generato molte cose e belle; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me” (150 C-E).

In altri termini, certamente non meno efficaci, Bara ha scritto che il modello della relazione terapeutica non può che essere quello fornito dalla collaborazione tra un maestro di ginnastica e il suo allievo: “può mostrare un esercizio e motivare l’allievo a ripeterlo, ma non eseguirlo in sua vece”. Questa analogia, pur nella sua semplicità, è carica di un significato esistenziale immenso: è l’allievo colui che, sotto lo sguardo vigile del maestro, agisce attivamente su se stesso ed è sempre lui che, alla fine del percorso, avrà consapevolmente guadagnato la liberazione dalla sua schiavitù.

Il ruolo del pensiero desiderante e del craving nell’uso problematico della pornografia su Internet

Un recente studio di Marino e colleghi (2023) ha voluto verificare il ruolo del pensiero desiderante e del craving in comportamenti legati all’utilizzo problematico e disfunzionale della pornografia online in uomini e donne adulte.

 

Con il termine cyberporn o pornografia su Internet si fa riferimento all’utilizzo di Internet per qualsiasi attività (testo, audio, video, etc) che implichi la sessualità (Cooper, Morahan-Martin, Mathy, & Maheu, 2002).

La disponibilità di un ampio accesso pubblico al World Wide Web ha portato all’immediatezza nell’accesso della pornografia online. La pornografia online è un fenomeno estremamente diffuso, secondo alcuni studi con la prevalenza del 96.6 % degli uomini e del 77.7 % delle donne (Li & Zheng, 2017). Tuttavia, in letteratura sono presenti contributi che evidenziano alcune preoccupazioni riguardo alle conseguenze negative di un uso eccessivo, patologico e disfunzionale del cyberporn (Duffy, Dawson, & Das Nair, 2016; Keane, 2016)

Cyberporn: si può parlare di dipendenza dalla pornografia online?

Tra le diverse concettualizzazioni, alcuni ricercatori definiscono l’“uso problematico della pornografia online” come una forma di dipendenza comportamentale ( Meerkerk, Van Den Eijnden, & Garretsen, 2006). In linea con tale definizione, un’ampia varietà di studi ha evidenziato una serie di similarità tra l’utilizzo problematico della pornografia online e i disturbi legati alle varie forme di dipendenza e all’abuso di sostanze, in termini di meccanismi neurobiologici, cognitivi e comportamentali. Ad esempio, tra questi meccanismi si possono annoverare la compulsione a raggiungere un obiettivo/stato fortemente desiderato, la percezione della perdita di controllo, la ripetizione reiterata di comportamenti disfunzionali nonostante la consapevolezza delle conseguenze negative, il craving. 

Prendendo in considerazione il modello I-PACE (Brandtner et al., 2021), è quindi plausibile ipotizzare che variabili quali il pensiero desiderante (Caselli & Spada, 2010) e il craving possano essere strettamente correlate al fenomeno dell’uso problematico della pornografia online.

Pensiero desiderante e craving

Cos’è il pensiero desiderante?

Il pensiero desiderante è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti (Caselli & Spada, 2010):

  • Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)
  • Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).

Gli studi non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che certe modalità di usare il pensiero rispetto ai desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità degli impulsi e sulle capacità di autocontrollo.

Il pensiero desiderante quindi sembra essere un processo transdiagnostico implicato in diversi contesti esperienziali e svariati target (Caselli & Spada, 2010). Come dimostrato anche da recenti metanalisi e review sistematiche, si evidenzia infatti l’associazione tra pensiero desiderante e diverse tipologie di dipendenze (alcol, nicotina, uso probelmatico di internet e gambling) (Mansueto et al., 2019).

Inoltre, secondo il modello I-Pace (Brandtner et al., 2021) vi sarebbe una relazione bidirezionale tra alcune metacredenze e il pensiero desiderante. In particolare, uno studio già pubblicato (Allen, Kannis-Dymand, & Katsikitis, 2017) sull’uso problematico della pornografia online, oltre a confermare il ruolo centrale del craving e del pensiero desiderante, ha dimostrato che specifiche metacredenze positive sul pensiero desiderante (ad esempio, l’utilità del pensiero desiderante come distrattore da stati emotivi negativi) attivate da trigger ambientali, influenzerebbero il pensiero desiderante, determinando quindi un’escalation del craving.

Cosa si intende per craving?

Il craving è descritto come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere certi effetti (Marlatt, 1987). Per molti autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche e il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento.

Quale rapporto tra craving e pensiero desiderante?

Secondo gli assunti alla base del modello I-PACE (Brandtner et al., 2021), il pensiero desiderante e il craving sarebbero due costrutti distinti ma interconnessi implicati nello sviluppo di risposte affettivo-cognitivo-comportamentali attivate di fronte alla percezione di stimoli trigger interni o esterni. In tal senso, quando un individuo si ritrova ingaggiato nel pensiero desiderante come meccanismo di coping disfunzionale associato a un aumento del craving e a un discontrollo comportamentale, è probabile che insorgano pattern comportamentali legati a un utilizzo problematico della pornografia online. Sempre uno studio di Brandtner and Brand (2021) ha dimostrato che maggiori livelli di reattività emotiva negativa erano significativamente correlati a un aumento del pensiero desiderante, che a suo volta prediceva un aumento del craving per il cyberporn.

Pensiero desiderante e craving nel cyberporn

Un recente studio di Marino e colleghi (2023) ha voluto verificare il ruolo del pensiero desiderante e del craving in comportamenti legati all’utilizzo problematico e disfunzionale della pornografia su Internet in uomini e donne adulte. In particolare, lo studio ha esaminato il ruolo di due componenti del pensiero desiderante (imaginal prefiguration e verbal perseveration) e del craving nell’utilizzo problematico del cyberporn. Inoltre, lo studio ha avuto l’obiettivo di verificare le differenze di genere nel meccanismo sottostante la relazione tra il pensiero desiderante e l’uso problematico della pornografia online.

Per la realizzazione della ricerca sono stati reclutati 414 soggetti italiani adulti (età media = 27.55 anni, d.s.= 6.13; range di età = 18–58), di cui il 53.6 % erano uomini. I partecipanti hanno compilato una survey online finalizzata all’ assesment di diverse variabili:

  • l’utilizzo problematico della pornografia online,
  • il craving per la pornografia,
  • il pensiero desiderante,
  • l’utilizzo problematico di Internet.

In particolare, sono stati utilizzati i seguenti strumenti self-report: la versione italiana del Cyber Pornography Addiction Test (CYPAT), il Pornography Craving Questionnaire (PCQ-12), il Desire Thinking Questionnaire e il Generalized Problematic Internet Use Scale-2.

I risultati dello studio hanno evidenziato che una delle componenti del pensiero desiderante, e in particolare la componente immaginativa (“Imaginal prefiguration”) era correlata al craving per la fruizione della pornografia online, che a sua volta era associato alla perseverazione verbale come antecedente prossimale dell’uso problematico della pornografia online. Tale associazione si è dimostrata significativa indipendentemente dall’età, dallo status relazionale e dall’uso problematico di internet.

Sembrerebbe quindi che la componente immaginativa agisca nell’innescare l’anticipazione delle sensazioni che la persona proverebbe fruendo la pornografia online e che possa quindi contribuire all’escalation del craving per l’accesso ai contenuti di cyberporn. Tale impulso, accanto alla prefigurazione immaginativa sopra descritta, con elevate probabilità porta a sua volta all’ingaggio nella perseverazione ripetitiva verbale (la seconda componente del pensiero desiderante) riguardo all’impellente necessità di fruire di contenuti pornografici online. Di conseguenza vi sarebbe un aumentato rischio di utilizzo problematico della pornografia online, con la percezione di discontrollo e conseguenze negative nelle quotidianità.

Un secondo e interessante obiettivo dello studio era verificare se esistessero differenze di genere in merito al ruolo del pensiero desiderante e del craving nell’uso problematico della pornografia online. Dai risultati è emersa una differenza significativa nell’associazione tra la componente di reiterazione verbale del pensiero desiderante e l’uso problematico della pornografia online: tale correlazione appare non significava statisticamente e minore nel campione delle donne se confrontato con il campione degli uomini. Inoltre, solo tra gli uomini è stata riscontrata una correlazione positiva tra uso problematico di Internet e uso problematico della pornografia.

In generale, dai dati dello studio è emerso che le donne hanno mostrato minori livelli di uso problematico della pornografia online rispetto agli uomini. Il fatto che la relazione tra la componente Verbal perseveration del pensiero desiderante e uso problematico della pornografia online sia significativo solo per gli uomini del campione considerato riflette la dinamica per cui generalmente tale componente verbale del desire thinking tende ad aumentare in presenza di pattern disfunzionali patologici nell’attività desiderata, mentre la componente immaginativa del pensiero desiderante è attiva anche in soggetti con bassi livelli di problematicità d’uso (Caselli & Spada, 2015). Inoltre, una ulteriore possibile spiegazione può essere legata agli stereotipi di genere e a una maggiore desiderabilità sociale nel sottocampione femminile che tenderebbe quindi a sottostimare l’esposizione e il consumo di pornografia online per rispondere alle aspettative sociali.

In conclusione, i dati dello studio forniscono supporto empirico al ruolo specifico del pensiero desiderante, nelle sue differenti componenti, nell’uso problematico della pornografia online evidenziando anche risultati interessanti in termini di differenze di genere.

 

Siccità (2022). Un film di Paolo Virzì – Recensione

“Siccità” si rivela essere una pellicola dagli obiettivi ambiziosi: la ricostruzione di un momento traumatico segnato da dolore e stress, che punta i fari sulle vulnerabilità più intime muovendosi fra ricchezza, fallimento narcisistico, amori fantasmatici, nevrosi e dilemmi familiari. 

 

 Manca l’acqua nella capitale e un virus dall’animale arriva all’uomo procurandogli torpore, morte, allucinazioni e stati dissociativi. Come un fulmine a ciel sereno ci si ritrova a fare i conti con ciò che si tralasciava da tempo. Camminiamo in una Roma borderline segnata da vuoto, solitudine, impulso, frenesia, amori altalenanti; dall’esistente stallo in cui si vive, scuote un evento imprevedibile che prepotente irrompe.

Amaro e ironico, questo film tocca temi attuali: dalla pandemia appena vissuta sino al rapporto fra uomo e pianeta, passando per l’osservazione della politica polemica e sterile e al ruolo centrale ricoperto dagli specialisti che rincorrono solo la gloria del momento, per finire offrendo uno scorcio sul mondo dei social connesso al tema del riconoscimento del sé a tutti i costi.

Una commedia che incentra l’attenzione sulla persona che intreccia debolezze e risorse, desideri e conflitti. Mentre tutti vivono un disagio comune, ognuno combatte con i propri mostri interiori e relazionali: nonostante il disagio universale ognuno rimane bloccato nella propria nevrosi, immutabile e resistente. Eppure all’improvviso qualcosa scuote e genera movimento, riflessione e cambiamento psicologico nei diversi personaggi proposti: una madre che in piena siccità annaffia una povera pianta che rappresenta qualcosa di prezioso, un padre che cerca approvazione sui social in modo ridicolo, il loro figlio adolescente che vive distanza e conflitto, una dottoressa in carriera che non riesce a seguire i propri affetti più cari, una ragazza che ama la musica e tenta di recuperare un padre sommerso da una strana angoscia esistenziale. Una carrellata di personaggi che cercano felicità, affannati e contorti.

Non si può non associare il vissuto della pandemia, la morte, l’angoscia della malattia, la condivisione del disagio che genera altruismo, solidarietà e, al contempo, distacco.

 Il film reclama il traumatico recente vissuto, triggera il nostro bagaglio emotivo legato alla vicenda pandemica che ancora stiamo elaborando. Si riavvolge il nastro di un’esperienza che ci ha da poco segnati. La pellicola ha il sapore della solitudine, l’odore di quella psicologia adrenalinica che tanto ci ha scosso negli ultimi due anni. I personaggi sono tutti scossi da ansia, fallimento, rotture e vita affettiva che si muovono come temi sommersi che fotografano una realtà verosimile, una realtà prossima in cui specchiandosi ci si riconosce.

Intenso e aspro, spinge su temi complessi: il lutto amoroso interrotto da una marcata ambivalenza che lega i genitori alla figlia adolescente, il papà vulnerabile con temi di narcisismo immaturo che non vede la sofferenza del figlio e che, di fronte a un disagio collettivo, persevera nel suo egocentrismo, le fantasie amorose come antidoto alla tristezza, il tradimento come pillola antidepressiva, il padre potente che svaluta e schiaccia, la donna fragile passivo-aggressiva con tratti di dipendenza e ostilità, l’antisociale che ruba, una serie di personaggi indeboliti e resilienti al contempo.

Una società metaforicamente assetata di valori, affetto, motivazione. Questa pellicola, a tratti confusa nella sua organizzazione, sembra invece descrivere bene la crisi e il malessere che abbiamo vissuto a causa della pandemia.

Un’analisi, quella prodotta dal regista, in cui si osserva l’impatto di un evento simil traumatico che espone la collettività a una restrizione che similmente a quella appena vissuta, induce tutta la città di Roma a cambiare abitudini, a innumerevoli costrizioni e restringimenti che inducono sofferenza e difficoltà di diverso ordine. Sottotraccia la storia di un padre omicida che uscito per sbaglio dalle carceri, disorientato, cerca la figlia per espiare il senso di colpa che lo attanaglia, ha bisogno di essere assolto!

Questa fotografia cinematografica certamente assolve al suo compito: riattiva il recente vissuto traumatico sollecitando lo spettatore all’elaborazione psichica: una lente d’ingrandimento che dà la possibilità di osservare la propria esperienza da un punto di vista neutro che mediante il decentramento stimola la capacità riflessiva del fruitore.

 

SICCITÀ – Guarda il trailer del film:

La paura dell’imperfezione. Dipendenza da Instagram, perfezionismo e soddisfazione corporea

Il “Tripartite Influence Model”, ha valutato tre variabili primarie socioculturali, ovvero genitori, coetanei e social network, che possono contribuire all’insoddisfazione corporea e ai disturbi alimentari.

 

Social network e immagine corporea

 Nonostante i social media non siano dannosi di per sé, ci sono molte probabilità che l’aumento dell’esposizione continua ai social network possa portare all’insorgenza di un comportamento di dipendenza (Sholeh & Rusdi, 2019). Ciò che contraddistingue Instagram da tutti gli altri social network, è la pratica comune di utilizzare dei filtri nelle foto per migliorare l’immagine di sé stessi e per promuovere standard di bellezza irraggiungibili e idealizzabili (Gilbert, 2001).

Uno studio ha dimostrato che coloro che si impegnano nel confronto sociale hanno una paura costante di come vengono valutati dagli altri (Antony et al., 2005). La soddisfazione corporea (body esteem nel paper originale – ndr) degli utenti dipendenti da Instagram può quindi essere influenzata negativamente da una maggiore consapevolezza dei propri difetti fisici, causata dalla continua esposizione a immagini di corpi idealizzati che si susseguono nel loro feed.

L’utilizzo sempre maggiore di Instagram, dal 2010, ha portato allo sviluppo di una scala per la misurazione dei comportamenti di dipendenza dei suoi utenti, la Instagram Addiction Scale (Sholeh & Rusdi, 2019). Si presume che la dipendenza da Instagram sia correlata alla soddisfazione corporea, per via delle pressioni socio-culturali esercitate dall’esposizione ad immagini corporee idealizzabili.

La maggior esposizione, insieme all’inclinazione biologica dell’essere umano a confrontare le proprie capacità (Festinger, 1954) con quelle degli altri, può portare ad una interiorizzazione delle immagini corporee idealizzabili e conseguentemente avere un effetto sul modo in cui gli individui tendono a vedere loro stessi. L’insoddisfazione corporea che può derivare da una percezione di sé come non all’altezza delle aspettative sociali (Rodgers et al., 2011) si è rivelata essere correlata a conseguenze negative come ansia, depressione, dismorfismo corporeo, perfezionismo sull’aspetto fisico e disturbi alimentari. La soddisfazione corporea è associata al peso, agli atteggiamenti, alle valutazioni e ai sentimenti che un individuo prova nei confronti del proprio aspetto (Williams et al., 2012; You & Shin, 2019); le pressioni sociali e psicologiche, insieme, possono impattare sulla soddisfazione corporea.

Le variabili associate all’insoddisfazione corporea

Il “Tripartite Influence Model”, ha valutato tre variabili primarie socioculturali (ovvero genitori, coetanei e social media) che possono contribuire all’insoddisfazione corporea e all’insorgenza di disturbi alimentari (Hardit & Hannum, 2012). Tra i tre, i social media si sono rivelati essere il predittore più forte per l’insoddisfazione corporea nelle donne, con “l’interiorizzazione dell’ideale di magrezza” come variabile mediatrice di questa relazione. Questo risultato può essere spiegato dalla tendenza umana di utilizzare le idee diffuse dai social media, interiorizzandole e usandole come standard per auto-valutarsi. Questi standard irrealistici creano una discrepanza tra ciò che è il corpo attualmente ed il corpo ideale, causando una diminuzione della soddisfazione corporea.

Le evidenze riguardo all’associazione tra frequenza dell’uso di Instagram e minore soddisfazione corporea sono state riportate da uno studio condotto nel 2020 da Jiang & Ngien. Le foto curate alla perfezione ed i video condivisi su Instagram, infatti, aumenterebbero la comparazione corporea che tende ad incrementare l’ansia verso la propria immaginare corporea e a diminuire l’autostima (Cory & Burns, 2007). In quest’ottica, il perfezionismo è la ricerca dell’impeccabilità, accompagnata da standard e aspettative estremamente elevati nei confronti di sé stessi, per la paura di essere valutati negativamente (Frost et al., 1990; Hewitt & Flett, 1991).

 I risultati suggeriscono che gli individui possono potenzialmente mostrarsi perfezionistici sia in ambiti accademici che in ambiti sportivi, in base all’area che è più in linea con la loro preferenza e identità. Avere standard estremamente alti riguardo a sé stessi in uno specifico dominio, però, può aumentare lo stress percepito per quella specifica area. Anche per lo studio del perfezionismo rispetto all’aspetto fisico è stato creato un questionario, il Physical Appearance Perfectionism Scale (PAPS; Yang & Stoeber, 2012), che studia due fattori: la preoccupazione per l’imperfezione e la speranza di essere perfetti. Tra questi due fattori, la preoccupazione per la propria imperfezione è risultata essere un fattore significativo per il malessere ed in particolare per l’insoddisfazione corporea (Yang et al., 2017).

Dipendenza da Instagram e perfezionismo

Per questo, lo studio condotto nel 2022 da Simon e colleghi ha proposto l’indagine della dipendenza da Instagram e della conseguente internalizzazione cognitiva degli standard di attrattività fisica, come causa dell’incremento del perfezionismo riferito all’aspetto fisico e come causa della diminuzione della soddisfazione corporea, in un campione di soggetti adulti (18-24 anni).

I risultati dello studio hanno confermato l’ipotesi per cui la dipendenza da Instagram è associata ad una diminuzione della soddisfazione corporea, ma solo nelle femmine. Questo potrebbe essere spiegato parzialmente dai punteggi ottenuti nel questionario per la misurazione della dipendenza da Instagram dalle femmine, più alti rispetto a quelli degli uomini.

Inoltre, uno studio precedente (Ormsby et al., 2019) ha rivelato che il genere femminile, rispetto agli uomini, ha solitamente una stima del proprio corpo inferiore.

Questi risultati suggeriscono una maggior suscettibilità delle donne agli ideali socioculturali. Anche per il perfezionismo riferito all’aspetto fisico, la correlazione con una minor soddisfazione corporea è risultata avere punteggi maggiori per le femmine; in particolare il fattore della paura dell’imperfezione, e non la speranza di raggiungere la perfezione, media significativamente l’effetto della dipendenza da Instagram sulla soddisfazione corporea. In letteratura infatti, le preoccupazioni perfezionistiche, in particolare quelle riguardo all’aspetto fisico (Yang et al., 2017), sono considerate maggiormente disadattive rispetto agli sforzi per il raggiungimento del perfezionismo. Sebbene le donne abbiano ottenuto risultati maggiori, questi indicano che l’influenza dei fattori socioculturali esercitata dai social media potrebbe avere un effetto anche sugli uomini, se si tiene conto della disposizione al perfezionismo dell’aspetto fisico.

Nel complesso, i risultati indicano che la dipendenza da una piattaforma come Instagram può avere diversi effetti, in parte anche dannosi; infatti, l’utilizzo costante di Instagram è stato collegato, oltre che allo sviluppo di una dipendenza, ad una maggior insoddisfazione corporea, a livelli di oggettificazione del corpo e a tratti di personalità maladattivi come il perfezionismo riferito alla propria apparenza fisica (Cohen et al., 2017; Prichard et al., 2020).

Ricerche ulteriori, sulla dipendenza da Instagram, il perfezionismo e la soddisfazione corporea, potrebbero essere svolte su un campione di adolescenti o di adulti con diverso range di età.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo: dall’intollerabilità della colpa alla rabbia verso se stessi

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo riguarda circa il 2% della popolazione, ed è una condizione psichiatrica molto invalidante, tanto da compromettere diverse aree di vita dell’individuo.

 

Il disturbo ossessivo compulsivo

 Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) viene definito dal DSM-5 come un disturbo psichiatrico caratterizzato da ossessioni e compulsioni (American Psychiatric Association [APA], 2013).

Le ossessioni sono definite come pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti, vissuti dall’individuo come indesiderati e intrusivi, tanto da causare ansia o disagio marcati. L’individuo cerca di sopprimere o ignorare questi pensieri, oppure tenta di neutralizzarli attraverso la messa in atto di alcuni comportamenti, definiti compulsioni (APA, 2013).

Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il soggetto si sente costretto a mettere in atto per controllare le ossessioni; solitamente questi vengono messi in atto con regole che devono essere seguite rigidamente. Le compulsioni sono volte a prevenire o ridurre l’ansia (APA, 2013).

Le ossessioni e le compulsioni fanno perdere molto tempo all’individuo, ma soprattutto causano un disagio clinicamente significativo e una compromissione del suo funzionamento in diversi ambiti della vita, quali quello familiare, lavorativo, sociale ed emotivo (Michnevich et al., 2021).

Questi sintomi evidenziano una caratteristica fondamentale, ovvero quella della fusione pensiero-realtà, la quale sottolinea il fatto che gli individui che soffrono di DOC considerano la vita mentale come dotata di significato e potere. Ne deriva che, se di fronte a un pensiero intrusivo (ossessione) l’individuo non mette in atto un comportamento in grado di prevenire l’avvenimento da lui temuto, si ritiene in qualche modo responsabile di tale avvenimento (APA, 2013).

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo riguarda circa il 2% della popolazione, ed è classificato tra le 10 condizioni psichiatriche più invalidanti a livello mondiale (Nagy et al., 2020).

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo comprende quindi due aspetti:

  • un funzionamento ossessivo orientato alla ricerca di certezza assoluta (che sarebbe impossibile e pertanto, di contro, scatena una cascata di dubbi infinita)
  • un tentativo disperato di evitare la colpa (ad esempio catastrofi o fare del male a sé o agli altri), emozione che, sin dall’infanzia, nei pazienti con DOC è giudicata intollerabile.

Dalla colpa alla rabbia: due teorie a confronto

La teoria psicodinamica di Freud (1976) interpreta la causa del DOC come un conflitto edipico tra impulsi sessuali ambivalenti e aggressivi verso i genitori del soggetto. Come meccanismo di coping disfunzionale, i pazienti sviluppano le compulsioni caratterizzate da perfezionismo e coscienziosità per meglio controllare quella rabbia e quell’aggressività latente che, secondo Freud, i pazienti temerebbero.

Una seconda teoria è quella sviluppata da Rachman (1993), il quale identifica alcuni fattori cognitivi alla radice del disturbo; più nello specifico, Rachman parla di responsabilità gonfiata, intesa come una sensazione di avere maggior controllo sul mondo di quanto ne si ha effettivamente.

Rachman sostiene che il senso di responsabilità gonfiato che sente il paziente con DOC, lo possa indurre a ritenersi in grado di prevenire la manifestazione dei propri pensieri ossessivi. Il tentativo di diminuire l’ansia derivante dalle ossessioni attraverso la messa in atto di compulsioni è tipicamente inutile (soprattutto a lungo termine); dunque, questo induce il paziente con DOC a sentirsi frustrato e arrabbiato. Infine, è possibile sostenere che questo meccanismo di responsabilità gonfiata sia in grado di indurre il paziente a dirigere la sua rabbia verso l’interno piuttosto che verso l’esterno (Michnevich et al., 2021).

Quando il paziente con DOC prova rabbia, la responsabilità gonfiata lo porta a ritenersi colpevole fino ad aumentare la rabbia che prova verso sé stesso. In entrambe le teorie si avanza dunque l’ipotesi della presenza della rabbia e di quella che Freud definisce “aggressività latente”, che viene esperita e temuta dal paziente con DOC, che spesso la ritiene inaccettabile e intollerabile.

 Le due teorie si completano a vicenda: mentre Freud intende l’aggressività latente come causa e promotrice del disturbo, Rachman sottolinea come le cognizioni ossessive possano innescare emozioni di rabbia nel paziente (Michnevich et al., 2021).

La rabbia verso se stessi nei pazienti con DOC: cosa dicono gli studi

Secondo le teorie precedentemente citate del Disturbo Ossessivo Compulsivo, la rabbia e il concetto freudiano di aggressività latente giocano un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento del disturbo (Cludius et al., 2021).

Diversi studi hanno sottolineato il fatto che campioni clinici con DOC riportano una maggiore tendenza alla rabbia e alla soppressione di questa, rispetto alla popolazione generale. Secondo i risultati dello studio di Cludius e colleghi (2021) l’elevata rabbia di tratto (disposizione a percepire le azioni come fastidiose o frustranti, rispondendo ad esse con forte aumento di rabbia) e la soppressione della rabbia nei pazienti con DOC potrebbero essere spiegate da credenze disfunzionali o da strategie di regolazione delle emozioni disadattive.

Sono stati condotti diversi studi a sostegno dell’ipotesi secondo la quale i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo mostrano una maggiore presenza di rabbia verso se stessi. In questi studi (Cludius et al., 2021; Michnevich et al., 2021, Nagy et al., 2020) è stato riscontrato che individui con Disturbo Ossessivo Compulsivo mostrano punteggi più alti nello State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI-2; Spielberger, 1999) per quanto riguarda la rabbia di tratto e le espressioni di rabbia interne. Uno studio condotto da Moritz e collaboratori (2011) mostra come ci siano livelli elevati di aggressività latente nei pazienti con DOC legati alla gravità dei sintomi. Lo studio condotto da Michnevich e colleghi (2021) ha indagato il costrutto dell’auto-concetto di aggressività nei pazienti DOC rispetto a individui della popolazione generale; da questo studio si è riscontrato che i pazienti DOC riferiscono di sperimentare più rabbia ed esternalizzazione di sentimenti aggressivi rispetto ad individui della popolazione generale. Nello studio di Michenvich et al. (2021), inoltre, è stata evidenziata l’influenza dei sentimenti di depressione nei pazienti DOC nel mantenimento dei sentimenti di rabbia; infatti, i livelli elevati di rabbia e ruminazione rabbiosa tendono a scomparire dopo che sentimenti di rabbia e depressione vengono controllati e autogestiti, attraverso forme funzionali di coping.

Alla luce di quanto è stato detto, è possibile affermare che pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo potrebbero presentare livelli più alti di rabbia e aggressività latente, generalmente rivolti verso sé stessi, rispetto alla popolazione generale.

Avendo ben chiaro l’eccessivo timore di procurare un danno a sé e agli altri, tipico di chi soffre di DOC, e immaginando come i vissuti di rabbia verso se stessi e verso gli altri possano preoccupare i pazienti, sarebbe bene implementare strumenti di assessment che possano valutare i livelli di rabbia nei pazienti e far ricorso ad approcci terapeutici che prendano in considerazione anche il lavoro sull’emozione di rabbia, sulla sua legittimazione e sulla sua accettazione e regolazione funzionale.

 

Tolkien: la Bibbia senza sangue e senza sesso

L’opera di Tolkien affascina, ma dopo la lettura qualcosa sfugge sempre. Forse è una sensazione che colpisce di più chi non è ancora abituato allo stile scattante dei best-seller moderni, sia fantasy che non.

 

 Il lettore cresciuto sul ritmo più lento del romanzo classico rimane in parte spaesato leggendo Tolkien. Solo Lo Hobbit lo lascia del tutto convinto, con il suo ritmo favolistico e meraviglioso che richiama lo stile dei fratelli Grimm. Dalla sequenza iniziale dei nani che uno alla volta bussano alla porta di Bilbo alle scene del mutaforma uomo e orso, dall’apparizione arcana di Gollum e dei suoi indovinelli nelle grotte fino alle sequenze finali del drago, tutto suona perfettamente coinvolgente e perfettamente “letterario”. Qualunque cosa significhi questo termine.

Con Il Signore degli Anelli già le cose si complicano per il lettore che nutre aspirazioni letterarie. Apprezza, ma non comprende tutto fino in fondo. Intendiamoci: è possibilissimo che sia colpa di questo tipo di lettore, un po’ troppo ossessionato da una classicità da indossare come un vestito a festa. Un tipo del genere è rimasto attardato in aspettative superate, da romanzo ottocentesco. Fatto sta che a volte nel Signore degli Anelli lo stile già più sbrigativo, moderno e d’azione sembra fare a pugni con l’ambientazione magica e meravigliosa. Vero è che, nell’universo immaginario di Tolkien, l’epoca del Signore degli Anelli è un’epoca di trasformazione. Un’epoca di scomparsa della magia e di scomparsa degli elfi. Un’epoca di modernizzazione, insomma. Forse la spiegazione è lì: Tolkien esprime la fine di un mondo adottando uno stile meno favolistico. Però rimane qualcosa d’incompreso.

Sarà la scelta di Tolkien di costruire una mitologia tutta sua, che accenna a universi mitici passati ma che non si ricollega direttamente a nulla. Questo sforzo di tagliare tutti i richiami diretti al passato, l’assenza completa di una radice riconoscibile, questo è molto moderno. Ma ancora una volta tutta questa modernità si esprime in un’atmosfera arcana e favolistica, tanto da far chiedere al lettore: qual è il senso di questa operazione? Perché non ha adottato i personaggi della mitologia norrena?

Il disorientamento arriva al massimo livello leggendo Il Silmarillion. Come Esiodo e come Wagner, qui Tolkien aspira a costruire una teogonia e una cosmologia mitiche e unitarie. Anzi più di Esiodo e più di Wagner, poiché Tolkien non utilizza nemmeno un personaggio mitico già pronto, ma li fabbrica tutti da sé. Certo, ci sono accenni a materiali passati. C’è una strana commistione di materiali ebraici e indo-europei che richiama un po’ l’ossessione inglese, da Matthew Arnold in poi, di mescolare classicismo, cristianesimo ed ebraismo: la famigerata radice greco-giudaico-cristiana che poi ben poco ha convinto gli europei. C’è un dio creatore supremo al modo ebraico che si chiama Eru Iluvatar, o semplicemente Iluvatar. Iluvatar nella etimologia immaginaria di Tolkien significa “creatore di tutto”, ma io ci vedo piuttosto una commistione della radice semitica “El”, che indica il Dio unico comune a tutti i semiti e della radice indo-europea “Vatar”, padre, il padre degli dei, Zeus per i greci, Jupiter/Jovis per i latini e così via, padre ma non dio unico.

Insomma, Tolkien come San Paolo? Un meticcio mezzo ebreo e mezzo greco che mischia in Dio l’attributo semitico dell’unicità e l’attributo indo-europeo della paternità? È possibile. Tolkien era un cattolico in terra protestante, quindi un meticcio portato a mescolare. E leggendo Il Silmarillion vediamo che egli continua a mescolare. Il dio supremo, infatti, crea non solo gli uomini, ma gli dei. Dei che sono una trasposizione nell’universo di Tolkien delle divinità della mitologia classica. C’è un dio del mare, Ulmo, che richiama Poseidone greco e Nettuno latino. C’è un dio del cielo supremo ma non creatore, Manwe, che richiama Zeus e Thor. C’è un dio fabbro e artigiano, Aule, che richiama Efesto e Vulcano. E c’è un dio degli inferi e delle tenebre, Melkor, in seguito chiamato Morgoth, che però è anche un angelo caduto e quindi un Lucifero cristiano o ebraico o non lo è per nulla cristiano o ebraico perchè Lucifero non si trova da nessuna parte, né nella Torah/Tanakh/Antico Testamento o come volete chiamarli -anche se i cristiani pensano sia lì, ma non c’è-, né nei Vangeli -anche se gli ebrei pensano sia lì, ma non c’è- insomma Lucifero non c’è nelle scritture sacre ufficiali. Forse negli apocrifi. Semmai c’è Satana nel libro di Giobbe ma Satana non è Lucifero e non è un angelo caduto, è un angelo che rimane al suo posto in cielo ma ha l’intrigante incarico di far venire dei dubbi a Dio/D-o sulla effettiva bontà degli uomini. Missione compiuta: non sono buoni. Insomma, Satana la pensa come Machiavelli e forse anche Cristo era d’accordo su questo, come pensava Prezzolini nel suo pamphlet “Cristo e/o Machiavelli” (1971, 2004, Sellerio). Sto divagando: torniamo a Tolkien.

 Il Silmarillion è quindi un oggetto un po’ strano. Non è più letteratura per ragazzi, ma vuole essere una cosmogonia omnicomprensiva. Richiama un po’ la Bibbia, ma è una Bibbia per ragazzi, ovvero una Bibbia senza sesso. L’atmosfera rimane un po’ favolistica, e non c’è posto per un Davide che spia Betsabea nuda al bagno o, peggio, spia Saul mentre caca (ebbene si) o per due vecchioni che costringono Susanna a uno strip-tease. Non c’è nemmeno Gesù che manda a quel paese sua madre che vuole metterlo a far miracoli durante un matrimonio di amici (le nozze di Cana). La manda a quel paese e poi obbedisce. Queste arditezze popolari o borghesi sono troppo adulte per il mondo di Tolkien, che rimane un inglese poco interessato al sesso e un po’ in imbarazzo davanti a prostitute bibliche più o meno occasionali come Tamar (e forse anche Raab, ma non si è mai capito) o evangeliche come la Maddalena. E per i giovani lettori del Silmarillion una scena di sesso esplicito e a pagamento come quella tra Tamar e Giuda (non il traditore di Cristo, è un altro traditore ma un po’ più buono che riesce a redimersi) stonerebbe.

Non a caso, in questa commistione tra ebraismo, classicità e cristianesimo, rimane fuori la figura più inquietante, il dio che nasce, muore e risorge in un’orgia di sangue, ovvero Dioniso / Zagreo. Quel Dioniso che, come diceva Nietzsche, lungi da essere un dio spensierato e allegro, è un dio assetato di sangue e muore in una festa di massacro e di morte, lo sparagmòs (in greco antico: σπαραγμός) in cui il dio attira su di sé la violenza reciproca che regna tra gli uomini e per un attimo li mette tutti d’accordo dando loro sollievo, offrendo loro la possibilità di non odiarsi unendosi in un rito di gruppo in cui la violenza sanguinaria si concentra su una vittima, che è il dio stesso, Dioniso / Zagreo massacrato dai suoi seguaci. È chiaro che San Paolo ha l’idea balzana e divina di innestare questo rito pagano in una religione monoteista focalizzata sull’etica come quella ebraica e rendendo ancora più chiaro il ruolo del dio massacrato che assume su di sé i peccati del mondo, il Cristo. Questa idea è presente in varie religioni antiche con il rito del capro espiatorio che però storna su un animale e non sul dio e ancor meno su un uomo la violenza massacratrice degli uomini, il loro odio reciproco che rischia di distruggere la convivenza reciproca e che quindi va concentrato su un oggetto singolo. Il cristianesimo tornò indietro al dionisismo con l’idea -forse illusoria e forse meravigliosa- di rendere gli uomini definitivamente consapevoli della loro tendenza alla violenza e al sangue e così liberarsene. Un’idea che forse chiese troppo alle capacità umane. San Paolo e/o Gesù chiesero troppo agli uomini, come pensava il Grande Inquisitore di Dostoevskij, l’uomo non è capace di accettare la sua violenza interiore per poi liberarsene. L’umanità, ben lungi dal riconoscere in sé la sua ipocrita volontà di giustificare le proprie colpe dando la colpa a un capro espiatorio, tende invece a imboccare la direzione opposta: attribuire la violenza a qualcuno che sia esterno alla società, un animale (il capro espiatorio), un uomo (Dioniso/Zagreo/Cristo), un gruppo di persone (gli ebrei) e dopo averlo massacrato prendono ad adorarlo trasformandolo in un dio (ancora una volta Dioniso/Zagreo/Cristo) oppure -se il massacro non è stato completato- a continuare a odiarlo (ancora gli ebrei, colpevoli di non essersi fatti far fuori tutti ma ancora vivi e quindi impossibilitati a diventare da morti oggetto di culto: per questo la Shoah non è un Olocausto). L’idea del cristianesimo sarebbe, secondo gli antropologi Renè Girard (Il Capro Espiatorio, 1999, Adelphi) e Giuseppe Fornari (Da Dioniso a Cristo, 2006, Marietti) quella di rendere il meccanismo manifesto e così superarlo, rendendo gli uomini consapevoli che vittima e dio sono la stessa persona (come accade col Cristo) e non due entità differenti (come accade con Dioniso, che noi dimentichiamo di avere ucciso riducendolo a essere un simpatico ubriacone). Nemmeno Euripide nelle Baccanti arriva al fondo dell’orrore: lì è Dioniso che uccide un uomo che non è innocente, Penteo, e non gli uomini che uccidono un innocente per poi divinizzarlo, come accade nei Vangeli. Il passaggio dal massacro all’adorazione è mancato.

Questo messaggio era ed è troppo sottile ed è facilmente equivocato, come è appunto avvenuto nel cristianesimo, religione che finisce per rinnovare la violenza sacrificale generando, malgrado le buone intenzioni, l’antisemitismo invece di liberare l’uomo dalla violenza sacrificale. Di tutto questo non trovo traccia nelle opere di Tolkien ma forse esso agisce sottotraccia creando quel senso di straniamento che rende le opere di Tolkien indecifrabili: un dionisismo senza Dioniso, un cristianesimo senza Cristo. Forse per questo Tolkien preferì costruire tutto dal nulla. Perché non fece come Omero, Esiodo o Wagner che usarono personaggi di mitologie già date? Forse intese evitare certi aspetti troppo sanguinari delle antiche leggende? Forse si rese conto che il cristianesimo aveva sbagliato a rendere troppo esplicite quelle leggende? Forse questa è la modernità di Tolkien: l’aver voluto creare un mondo dal nulla nascondendo certe radici troppo imbrattate di sangue. Possiamo accontentarci.

L’autismo a scuola. Quattro parole chiave per l’integrazione – Recensione del libro di L. Cottini

“L’autismo a scuola: quattro parole chiave per l’integrazione” è un libro edito da Carocci e scritto da Lucio Cottini, professore ordinario di didattica e pedagogia speciale all’università di Udine.

 

 Il lavoro è il risultato di una continua condivisione tra molteplici insegnanti, educatori e clinici che quotidianamente interagiscono con allievi affetti da disturbo dello spettro dell’autismo.

Questo volume adotta un approccio pragmatico e operativo per cercare di comprendere come un allievo con bisogni speciali e particolari, come quelli che può avere un bambino con autismo, possa trovare nel contesto scolastico un ambiente idoneo per il suo sviluppo e la sua integrazione sociale. In particolare, si sofferma sul senso che può avere perseguire obiettivi di inclusione per un bambino con autismo che, a causa dei suoi deficit di interazione e comunicazione sociale e dei suoi interessi ristretti e ripetitivi, presenta difficoltà nel vivere con gli altri.

All’interno delle trattazioni iniziali, viene evidenziato che ad oggi il percorso verso una buona inclusione degli allievi con autismo è appena iniziato, grazie alle molteplici esperienze positive di integrazione scolastica che possono favorire generalizzazioni anche nel contesto sociale. Una maggiore attenzione viene posta a una differenziazione tra concetti di “integrazione” e “inclusione”, in quanto si sta assistendo a una ridefinizione che amplifica la valenza del concetto di inclusione sia dei diversi contesti che delle persone interessate. A questo proposito, la scuola dovrebbe riuscire a mettere in discussione la propria organizzazione tradizionale, stabilendo le essenziali alleanze con le famiglie e i servizi specialistici: verrà così data la possibilità ad allievi con autismo di non essere isolati in contesti separati, ma di essere inclusi avendo la possibilità di esprimersi. Infatti, l’integrazione scolastica di questi bambini e adolescenti è un obiettivo complesso, ma irrinunciabile e di grande valenza adattiva.

Per perseguire questi obiettivi di integrazione scolastica e inclusione sociale, il libro propone, dopo una sezione introduttiva che inquadra l’autismo, quattro parti articolate in vari capitoli, che analizzano in modo concreto ed esemplificativo le linee strategiche di lavoro: progettazione, organizzazione, didattica speciale e compagni.

La prima parte si concentra sulla progettazione in termini di programmazione rigorosa di attività didattiche, che si concretizza principalmente con la predisposizione nelle scuole del Piano dell’Offerta Formativa (POF). Data la complessità del disturbo dello spettro dell’autismo, questa progettualità deve garantire una flessibilità organizzativa e didattica, un adeguato impiego di risorse e una costante riflessione autovalutativa.

 Nella seconda parte viene trattato il concetto di organizzazione in termini di tempo, ambiente di lavoro, materiale e personale, che consente di rispondere adeguatamente ai bisogni speciali degli allievi con autismo. Infatti, Cottini evidenzia che a causa dei loro deficit di comunicazione, cecità sociale e della loro mente caotica, questi allievi necessitano di un ambiente strutturato e ordinato per rassicurarsi.

Nelle parti successive vengono indagate la didattica speciale di qualità e il coinvolgimento attivo dei compagni. La didattica speciale di qualità può essere sia di tipo cognitivo che sociale e si fonda sulle conoscenze di modelli di intervento efficaci, senza limitarsi a essi. Il coinvolgimento attivo dei compagni è un altro aspetto importante durante l’integrazione scolastica dell’alunno con autismo: il compagno deve anche essere visto come un amico perché non basta semplicemente fare parte della stessa classe, ma bisogna promuovere iniziative di assertività e prosocialità. Per favorire tutto questo gli insegnanti devono mettere in atto specifiche procedure didattiche in grado di creare un clima inclusivo all’interno della classe.

In definitiva, questo libro è uno strumento utile per coloro che sono interessati e/o in contatto con bambini e adolescenti con autismo, per poter acquisire conoscenze circa le diverse problematiche di tipo didattico che questi individui possono incontrare e competenze circa metodologie di lavoro più affinate in quest’ambito. In particolare, poiché operazionalizza in modo dettagliato come far avvenire l’inclusione a scuola di bambini con autismo, può essere particolarmente adatto per specialisti che operano in questo contesto. Tuttavia, potrebbe non essere indirizzato solo a professionisti del settore in quanto, nonostante utilizzi un linguaggio talvolta specifico, risulta sempre puntuale e chiaro nel definire la terminologia utilizzata. Si propone, quindi, come un passo in avanti verso una difficile, ma possibile inclusione degli allievi con autismo nell’istituzione scolastica.

Adolescenti e abuso di sostanze: fattori di rischio e fattori protettivi

Quali sono gli attuali fattori di rischio e i fattori protettivi per gli adolescenti relativi all’abuso di sostanze? Nawi e colleghi (2021) li hanno classificati in tre domini principali: fattori individuali, fattori familiari e fattori comunitari.

 

 L’adolescenza, periodo dedito alla sperimentazione, alla curiosità, alla suscettibilità alla pressione dei pari, alla ribellione contro l’autorità e alla scarsa autostima, rende i suoi protagonisti il gruppo di persone più a rischio di sviluppare una tossicodipendenza (Luikinga et al., 2018). Ma quali sono gli attuali fattori di rischio e protettivi tra gli adolescenti per quanto riguarda il coinvolgimento nell’abuso di sostanze? La revisione della letteratura operata da Nawi e colleghi (2021) li ha classificati in tre domini principali: fattori individuali, fattori familiari e fattori comunitari.

Fattori individuali

Chuang e colleghi (2017) hanno riscontrato che gli adolescenti con alti tratti di impulsività presentano un’associazione positiva con la tossicodipendenza: è stato osservato che l’impulsività può essere un fattore di rischio indipendente che aumenta le probabilità da due a quattro volte di fare uso di qualsiasi droga.

In un altro studio longitudinale (Guttmannova et al., 2019) è emerso che la ribellione è associata positivamente all’abuso di marijuana. In particolare, lo studio ha esaminato 2002 adolescenti e ha rilevato che la percezione della droga come innocua può essere un fattore di rischio che può predire un futuro abuso di marijuana. Tale risultato è in linea con il gruppo di El Kazdouh e colleghi (2018), secondo cui gli individui contrari all’uso di sostanze e con un forte desiderio di preservare la propria salute avevano maggiori probabilità di essere protetti dal coinvolgimento nell’abuso di droga.

È stato inoltre stabilito che alcuni tratti individuali fungono da fattori protettivi per la tossicodipendenza.

Wilson e colleghi (2017), in uno studio che ha coinvolto 112 giovani sottoposti a trattamento di disintossicazione per abuso di oppioidi, hanno rilevato che la maggior parte degli intervistati aveva difficoltà a regolare le proprie emozioni. Al contrario, è emerso che alti livelli di tratti mindful portano a una progressione più lenta verso l’abuso di droghe iniettabili.

Uno altro studio (Dorard et al., 2017) condotto su giovani in trattamento ambulatoriale ha rilevato che gli adolescenti coinvolti nell’abuso di cannabis presentavano tratti significativi di alessitima; mentre Marin e colleghi (2019) hanno osservato che i giovani con un tratto di ottimismo avevano meno probabilità di fare uso di sostanze.

Infine, le caratteristiche associabili a fobia sociale hanno presentato un’associazione negativa con il consumo di marijuana (Khoddam et al., 2016).

Fattori familiari

Gli studi epigenetici sono considerati importanti, in quanto possono fornire un buon quadro dei potenziali fattori prenatali che possono essere coinvolti in una fase più precoce. Il consumo di tabacco e alcol da parte di madri in gravidanza risulta avere un legame con l’abuso di sostanze da parte degli adolescenti (Osborne et al., 2020).

Una storia di maltrattamento ha mostrato avere un’associazione positiva con la tossicodipendenza, e una spiegazione plausibile di questo legame potrebbe risiedere negli effetti indiretti dello stress post-traumatico che porta all’uso di sostanze. Infatti, nello studio di Longman-Mills et al. (2015) sono state trovate variabili latenti significative che spiegavano l’abuso di droghe, ovvero il maltrattamento fisico cronico e il maltrattamento psicologico cronico.

 Luk e colleghi (2017) hanno esaminato gli effetti mediatori dello stile genitoriale sull’abuso di sostanze e hanno osservato che il controllo psicologico materno è una variabile significativa. Ma laddove i fattori materni si sono dimostrati fattori di rischio, è emerso che i padri con una buona consapevolezza avevano maggiori probabilità di proteggere i figli adolescenti dall’abuso di droghe.

Un ulteriore fattore di rischio indiretto verso l’uso di droghe da parte dei giovani è stato rilevato nello studio di Ogunsola (2016) in cui il basso livello di istruzione dei genitori ha predetto un rischio maggiore di abuso da parte dei figli, riducendo la percezione del danno da parte dei giovani. Anche la negligenza dei genitori potrebbe contribuire a questo problema.

Fattori comunitari

Lo studio di Li et al. (2017) ha mostrato un’associazione positiva tra l’abuso di sostanze da parte degli adolescenti e i coetanei che ne fanno uso. Anche l’impatto della disponibilità e l’impegno in attività strutturate e non strutturate giocano un ruolo nel consumo di sostanze, tanto che gli adolescenti che percepivano un’elevata disponibilità di droghe nel loro quartiere avevano maggiori probabilità di aumentare il consumo di marijuana nel tempo (Schleimer, 2019). Poiché sempre più persone fanno uso di sostanze, i giovani possono inevitabilmente percepire questo atto come una norma accettabile, scevra da conseguenze dannose (Cioffredi et al., 2021).

Per quanto concerne i fattori protettivi, forti credenze religiose integrate nella società rappresentano un elemento cruciale che può impedire agli adolescenti di fare uso di sostanze. Inoltre, anche il legame con la scuola e il sostegno degli adulti giocano un ruolo importante nel consumo di droga (Dash et al., 2020).

I risultati di questa revisione suggeriscono una complessa interazione tra una moltitudine di fattori che influenzano il comportamento da abuso di sostanze da parte degli adolescenti. Pertanto, il successo rispetto ai programmi di prevenzione da parte degli adolescenti richiederà un ampio lavoro su tutti i livelli.

 

Obesità, disturbo da alimentazione incontrollata e disregolazione emotiva

È ormai noto in letteratura l’associazione tra Obesità, disturbo da Binge Eating, o Alimentazione Incontrollata, e disregolazione emotiva.  

 

Introduzione

 Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’obesità si caratterizza per essere una patologia cronica dovuta ad un eccesso di peso tale da compromettere significativamente lo stato di salute e la qualità di vita. Si tratta di patologia ad elevata prevalenza nella popolazione generale ed eziologia multifattoriale.

Il concetto di Disregolazione emozionale è nato a partire da Marsha Linehan (1993), che delineava tale componente assoggettabile ad una eccessiva vulnerabilità agli stimoli emotigeni.

Obesità e disturbo da alimentazione incontrollata

Secondo il National Institutes of Health l’indice di massa corporea o BMI fornisce indicazioni relative allo stato attuale della massa del soggetto, nonché la sua posizione rispetto alla curva normale della popolazione generale di riferimento. Tale dato è riassunto nella seguente tabella.

Obesità, Binge Eating Disorder e disregolazione emotiva Fig. 1

L’obesità e il sovrappeso quindi sono da considerarsi patologie croniche con forte impatto sulla salute pubblica. Il loro impatto sociale deriva dal fatto che l’obesità è spesso correlata a molteplici patologie secondarie che possono comportare una riduzione significativa sia quantitativa che qualitativa della vita, oltre a costi sanitari elevati. Secondo la Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche (S.I.C.OB), da stime effettuate negli Stati Uniti, si è calcolato che negli obesi i costi dei servizi sanitari e farmaceutici sono più alti, rispettivamente, del 36% e del 77% rispetto ai normopeso.

Agrawal e colleghi, nel 2016, concettualizzano l’eziopatogenesi dell’obesità legata a un’interazione multifattoriale circolare composta da fattori genetici, ambientali, di tipo relazionale e lavorativo; a ciò si assocerebbero abitudini alimentari scorrette che, in parte, sono ascrivibili all’interno di un quadro di disturbo dell’alimentazione, disturbi dell’umore e di personalità.

Il Binge Eating Disorder – o Alimentazione Incontrollata – è definito dal mangiare, in un periodo di tempo circoscritto (per esempio nell’arco di due ore), grandi quantità di cibo che un’altra persona non riuscirebbe a consumare nello stesso tempo. A ciò si assocerebbe anche una sensazione di perdita di controllo descritta come “avere la sensazione di non poter smettere di mangiare o di non controllare cosa e quanto si sta consumando”.

Secondo l’American Psychiatric Association (2013) tali comportamenti sono caratteristici e ascrivibili in episodi di abbuffata con sensazione di perdita di controllo, consumo di grandi quantità di cibo, spiacevole sensazione di pienezza e marcato disagio associato a sensazione di disgusto verso se stessi. Per la diagnosi di Binge Eating è necessario una frequenza di almeno un episodio a settimana per un periodo non inferiore a 3 mesi.

Definizione di dirsegolazione emotiva

La definizione per eccellenza della disregolazione emotiva, come precedentemente enunciato, è nata a partire da Marsha Linehan (1993) che delineava tale componente assoggettabile in grande misura all’interno del disturbo borderline di personalità; indica una eccessiva vulnerabilità agli stimoli emotigeni composta da tre aspetti:

  • Maggiore reattività agli stimoli
  • Maggiore suscettibilità agli stimoli
  • Maggiore latenza di permanenza della risposta emozionale e lento ritorno ad uno stato base

Associazione tra binge eating disorder, obesità e disregolazione emotiva

 È noto come spesso sia presente un’associazione tra Obesità e Disturbo da Binge Eating (BED), tuttavia non tutti i pazienti obesi sono affetti da tale patologia psichiatrica. Secondo quanto riportato da Sanders e colleghi nel 2021, il paziente obeso con BED si distingue dall’obeso non BED, per un nucleo patologico che interessa una maggiore preoccupazione per il peso e la forma del corpo, per una maggiore sensibilità e vulnerabilità emotiva che ne determina una ridotta tolleranza, e una comorbilità maggiore con patologie d’ansia e dell’umore. Per il paziente che soffre di Binge Eating Disorder non è infrequente l’innescarsi di un circolo vizioso tale per cui il cibo da una parte funge da componente regolativa per intensi stati emotivi, e dall’altra scatena forti sensazioni di colpa e di vergogna. A differenza delle altre patologie all’interno del cluster dei disturbi dell’alimentazione, i pazienti BED mostrano una maggiore rassegnazione e pensiero di impotenza rispetto al cambiamento alimentare e/o fisico.

Per tale ragione non è infrequente l’associazione tra obesità e disturbi alimentari. Il BED presenta specifici correlati genetici (Bulik et al., 2003), una peculiare distribuzione socio-demografica tra i sessi (Spitzer et al., 1992) e una elevata comorbilità con disturbi emotivi e di gestione degli impulsi (Claes et al., 2006). Mussel e collaboratori nel 1995, evidenziarono che l’esordio del BED precede l’insorgenza dell’obesità come pure l’inizio delle diete. È stata dimostrata una correlazione positiva tra BMI e frequenza e gravità delle abbuffate (Timmerman e Stevenson 1996).

Alla luce di quanto illustrato, allora, il trattamento di elezione, e meno invasivo, potrebbe essere ascrivibile all’interno dell’aderenza a regimi alimentari, medico-prescritti, ipocalorici. Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato come il tasso di weight-regain (ovvero recupero di peso perso) si aggira intorno al 70-75% dei soggetti interessati, con un fallimento nel lungo termine e un recupero di peso prima di un anno dalla conclusione del trattamento (McGuire et al., 1999; Wing & Phelan, 2005).

La spiegazione del dato potrebbe provenire dal fatto che è frequente la connessione tra obesità e disturbi alimentari e che tra i soggetti che presentano comportamenti di BED è solita la manifestazione psicopatologica di sintomi ascrivibili all’interno di quadri di disturbi dell’umore e di ansia (Marcus et al., 1990; Bulik et al., 2002). Allo stesso tempo, tali sintomatologie si configurano come fattori di rischio del weight regain e difficoltà di aderenza al regime dietetico ipocalorico prescritto (Pagoto et al., 2007).

A tal proposito, Wegner e collaboratori (2002), in un campione di 27 pazienti di BED subclinici, hanno riscontrato che nei giorni delle abbuffate l’umore era peggiore rispetto al solito; allo stesso modo Stice e colleghi (2000) hanno evidenziato come le emozioni negative abbiano una relazione con l’abbuffata in particolare con tristezza, disperazione, noia e rabbia. Il paziente BED si sente tendenzialmente incapace di intervenire sulla situazione che provoca disagio e che muta in condizioni inaccettabili con spiccati sensi di colpa e sentimenti di incomunicabilità.

I comportamenti alimentari disfunzionali, come le abbuffate, parrebbero anche essere correlate a una difficoltà di gestione emozionale e di controllo degli impulsi (Claes et al.,2006; Dingemans et al., 2013; Rosval et al., 2006). Secondo Waller (2002) le abbuffate rappresentano una fuga o un blocco delle emozioni e del pensiero di fronte a uno stato emotivo ritenuto intollerabile, analogamente ad altri comportamenti impulsivi quali l’abuso di alcol o sostanze, autolesionismo e promiscuità sessuale.

La disregolazione emotiva è stata documentata e analizzata come fattore di mantenimento dei disturbi alimentari e in particolare del BED dallo studio di Whitesid e colleghi nel 2007. Lo scopo del lavoro era:

  • Valutare se i pazienti con modalità disfunzionali di abbuffata hanno anche maggiore difficoltà nella regolazione emotiva nella vita quotidiana;
  • Quanto la varianza dei comportamenti di abbuffata è spiegata da aspetti di disregolazione emozionale;
  • Quali aspetti e declinazioni della disregolazione emotiva giocano un ruolo nel mantenimento dei comportamenti di perdita di controllo.

Gli autori hanno quindi confermato le ipotesi iniziali secondo cui i soggetti che ricorrono alle abbuffate, principalmente soggetti BED, utilizzano tale strategia di regolazione in quanto meno provvisti di ulteriori modalità funzionali anche per una maggiore intensità e durata esperita nelle emozioni rispetto alla popolazione generale.

Tale componente porterebbe anche a una maggiore vulnerabilità al vissuto emotivo e alla necessità e urgenza di gestione immediata della situazione tramite strategie disfunzionali più brevi e veloci nell’abbassamento dell’arousal rispetto a modalità maggiormente funzionali, ma con più lenta discesa della curva emotiva. Inoltre, un ruolo chiave gioca anche la difficoltà nel riconoscimento della qualità (con incapacità di riconoscere le differenze per esempio tra rabbia, ansia e tristezza) del vissuto esperito e bassa alfabetizzazione emotiva che porterebbe a una maggiore difficoltà nell’individuazione di quale strategia funzionale mettere in atto.

Ci sono, inoltre, evidenze relative al fatto che la disregolazione emotiva nei BED sia ascrivibile all’interno di un quadro relazionale disfunzionale sviluppatosi nel corso dell’infanzia che successivamente genererebbe deficit di funzionamento e comprensione emotiva.

Disregolazione emotiva e BED

In quest’ottica, Buckholdt e colleghi nel 2010 hanno proposto un interessante modello in cui la disregolazione emotiva potrebbe essere concettualizzata come fattore modulatore nella genesi ed eziopatologia del BED. L’articolazione del lavoro si fonda sul fatto che un primo fattore di genesi potrebbe derivare dalla risposta genitoriale alle emozioni che creerebbe le basi per lo sviluppo della competenza emotiva, inclusa l’abilità di modificare l’esperienza emotiva e l’espressione di emozioni con comportamenti adatti al raggiungimento dello scopo e delle capacità empatiche di riconoscimento dello stato emotivo dell’altro.

Avrebbero quindi dimostrato come l’invalidazione delle emozioni da parte dei genitori correla con la diagnosi di disturbo alimentare (Haslam et al., 2008). Il comportamento alimentare disregolato, quindi, si ripercuoterebbe anche sull’incapacità nello sviluppo di strategie maggiormente funzionali dando il via a una marcata incapacità di sviluppo di regolazione emotiva (Waller e coll., 2007). Il tal senso, allora, la disregolazione emotiva potrebbe essere riletta come la risultante di un mancato tentativo regolatorio, in risposta all’invalidazione genitoriale, e con l’utilizzo di strategie disfunzionali nell’ordine di perdita di controllo sul cibo (Buckholdt et al., 2010).

Gli autori concludono che il mancato riconoscimento delle emozioni da parte dei genitori, in particolare della tristezza, porti i soggetti a non sviluppare strategie di coping funzionali (o perché considerate intense/sbagliate o per evitare di sconvolgere l’equilibrio familiare) con conseguente necessità di soppressione delle stesse. Ciò genera disregolazione emotiva a seguito di emozioni negative con conseguente utilizzo del cibo come autoconsolazione e/o allontanamento dalla situazione.

È stato inoltre condotto uno studio in cui viene valutato l’aspetto di disregolazione all’interno di un inquadramento diagnostico e a fronte di idoneità per interventi di chirurgia bariatrica. Lo scopo dello studio di Micanti e colleghi (2015), è di mostrare che le differenze tra i comportamenti alimentari sono legate alla disregolazione emotiva e che questa sia a sua volta connessa alle dimensioni mentali della psicopatologia obesa. I comportamenti alimentari possono essere considerati una caratteristica diagnostica di screening per la determinazione del trattamento dell’obesità di natura nutrizionale o di chirurgia bariatrica.

Conclusioni

I risultati suggeriscono che i comportamenti alimentari sono collegati all’equilibrio del sistema di regolazione emotiva. Tale dato potrebbe fornire informazioni cliniche significative e quindi essere parte dei criteri diagnostici e terapeutici dell’obesità. Nello specifico, un’analisi complessiva dei dati che evidenzi le differenze nei comportamenti alimentari, potrebbe fornire delle indicazioni specifiche e contribuire al successo o al fallimento del trattamento dell’obesità. Il tutto è coerente con i dati della letteratura che sottolineano la necessità di modelli flessibili per il trattamento dell’obesità. Il trattamento nutrizionale o l’esito della chirurgia bariatrica possono essere migliorati concentrandosi sulla regolazione emotiva intervenendo con la psicoterapia, il cambiamento dello stile di vita e/o anche un trattamento psicofarmacologico.

 

La Flash Technique: da intervento integrativo a nuovo paradigma nel trattamento del trauma psicologico

La Flash Technique è una tecnica inizialmente pensata e proposta come intervento integrativo nella fase di Preparazione del Protocollo standard EMDR e che sta suscitando sempre maggiore interesse.

 

EMDR e Flash Technique

 Negli ultimi vent’anni sono state proposte diverse forme di psicoterapia basate sull’evidenza scientifica per il trattamento del trauma psicologico: infatti, da diversi anni, fonti autorevoli tra cui l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno indicato che “la Psicoterapia Cognitivo Comportamentale individuale o di gruppo (CBT) focalizzata sul trauma oppure la Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari (EMDR) dovrebbero essere indicate per bambini, adolescenti e adulti con disturbo post-traumatico da stress” (OMS, 2013).

Altre tecniche di effettiva efficacia stanno suscitando un interesse sempre maggiore e un crescente impiego al fine di ridurre la sofferenza psicoemotiva. Tra di esse spicca la Flash Technique, messa a punto negli ultimi 5 anni dal Dott. Phil Manfield, supervisore e docente EMDR, tecnica che è stata inizialmente pensata e proposta proprio come intervento integrativo nella fase di Preparazione del Protocollo standard EMDR.

Nell’esperienza clinica, dopo anni di studio e applicazione, la Flash Tecnique si sta rivelando un intervento completo, in grado di favorire una piena risoluzione di PTSD semplici e complessi e una riparazione efficace delle conseguenze delle esperienze traumatiche sul funzionamento psichico e relazionale dei pazienti.

Non è raro – nell’esperienza di tanti terapeuti anche senior – che alcuni pazienti con trauma complesso manifestino forti resistenze sia ad accedere sia a nominare l’evento traumatico poiché sentono di poterne essere emotivamente travolti, compromettendo così la possibilità di rielaborazione dello stesso. In queste situazioni delicate, in cui il rivivere l’esperienza traumatica non è sostenibile per il paziente, è giusto che i terapeuti che hanno quotidianamente a che fare con il trauma e le sue conseguenze, inizino ad utilizzare una serie di strumenti che rendano possibile rielaborare in sicurezza le esperienze traumatiche che i pazienti portano. Infatti, tale elaborazione in sicurezza al tempo dell’esperienza traumatica non è stata possibile, a causa della forza soverchiante del trauma o di un ambiente che non ha potuto/saputo fornire adeguato sostegno.

La Flash Technique facilita l’elaborazione di quei ricordi traumatici che per il paziente sono difficili da tollerare emotivamente. Infatti, dalle recenti ricerche scientifiche, emerge che il paziente trattato con la Flash Technique riesce a elaborare il ricordo traumatico senza dover necessariamente focalizzare l’attenzione sul materiale traumatico, evitando in tal modo abreazioni inutili e eventuali sintomi dissociativi. Con la Flash Technique il paziente può rielaborare un ricordo altamente disturbante senza accedervi in maniera diretta e vivida, evitando quindi utilmente il contatto con la parte peggiore del ricordo e le emozioni ad essa associate. Tale processo risulta in tal modo molto sostenibile e breve e non crea ulteriori effetti disturbanti secondari, né al paziente né al terapeuta, anche quando si tratti di eventi particolarmente traumatici.

La procedura della Flash Technique

La procedura richiede ai pazienti di identificare il ricordo (che sia un’immagine, una sensazione, una esperienza, un incubo, una metafora..) che devono elaborare e successivamente di tenere l’attenzione su una esperienza positiva (focus emozionale positivo).

Al paziente, mentre è coinvolto nel ricordo dell’esperienza positiva, viene chiesto di fare stimolazione bilaterale attraverso il tapping (divenuta familiare ai terapeuti soprattutto attraverso EMDR) e di chiudere e aprire velocemente gli occhi.

La stimolazione bilaterale, la focalizzazione su un focus positivo, l’interruzione proposta con il veloce aprire-chiudere gli occhi sono ingredienti fondamentali operativi utili a riavviare un processo che aiuta la persona a guadagnare in breve tempo la prospettiva più aggiornata e sostanzialmente adulta sugli eventi e sulle conseguenze delle esperienze difficili, senza che si debba rivivere l’esperienza traumatica.

Si riducono in tal modo i rischi di una ritraumatizzazione per il paziente e di una esposizione alla traumatizzazione vicaria per il terapeuta.

Il terapeuta chiede, in un bel match tra protocollo e creatività clinica, mentre il paziente è coinvolto nel ricordo dell’esperienza positiva, di aprire e chiudere velocemente gli occhi (eye blinking).

 La tecnica è in piena e vivace evoluzione: se originariamente veniva chiesto di richiamare il ricordo traumatico in modo molto veloce, in modo che le persone non entrassero a lungo in contatto consapevole con i contenuti del ricordo e le emozioni associate (“come passare rapidamente il dito su una fiamma”), in una delle versioni più recenti non si chiede nemmeno più al paziente di rievocare il ricordo e si procede semplicemente agendo l’interruzione attraverso la parola “Flash” e lo sbattere delle palpebre. Ricerche e riflessioni e ottimizzazione del processo implicito ed esplicito della Flash Technique sono in corso, supportati dalle esperienze dei terapeuti che si avvicinano all’utilizzo di questo approccio e del paradigma teorico pratico sottostante (Manfield & Engel, 2018).

Ma quali sono le ipotesi sui meccanismi di azione della FT?

Funziona. Perché funziona?

Come funziona la Flash Technique

La ricerca ha già dato le prime risposte. Le ipotesi più accreditate sembrerebbero indicare che il ricordo viene fatto transitare dalla memoria a lungo termine alla memoria di lavoro dove arriva e rimane in maniera conscia per poco, per poi permanere in maniera inconscia mentre il paziente focalizza su un focus emozionale positivo e procede con una stimolazione bilaterale. Questo sembrerebbe permettere di aggirare le difese dei pazienti. Infatti, esistono diversi studi che supportano il principio secondo il quale l’esposizione subliminale o l’esposizione inconscia a stimoli temuti può portare ad una significativa diminuzione della reattività nei soggetti nei confronti degli stessi stimoli.

Ad esempio Paul Siegel (2009), in un rigoroso studio ha lavorato su un’esposizione a immagini di ragni di durata così breve a tal punto che i soggetti fobici erano inconsapevoli di aver visto tali immagini. I risultati hanno mostrato che un’esposizione breve non verbalizzabile è più efficace nel ridurre la fobia verso i ragni rispetto alla visione di una durata meno breve che consente al nostro cervello di diventarne conscio. Nello studio citato gli effetti sono a lungo termine e si mantengono ancora dopo un anno. L’operazione compiuta dalle aree del cervello deputate all’elaborazione del trauma è infatti impedita dal disturbo correlato all’esperienza traumatica e riattualizzato dal ricordo. L’accesso alle informazioni disfunzionali è “protetto” dai meccanismi difensivi dei pazienti, che in tal modo trovano una sorta di adattamento all’evento. Le aree deputate all’elaborazione quindi sono vivamente attivate durante l’esposizione molto breve, quando il paziente non è consciamente consapevole dell’esposizione e non sente alcun disturbo. Ciò suggerisce che le aree del cervello che elaborano il trauma possono essere estremamente attivate durante la Flash Technique, mentre la persona non sta percependo alcun disturbo e quindi è meno probabile che si attivino anche meccanismi difensivi.

Questo rappresenterebbe un nuovo modo -per il cervello e per la mente- di (ri)consolidare quei particolari ricordi nella memoria. La consapevolezza conscia sembra quindi non necessaria ai processi di elaborazione e al riconsolidamento nella memoria. Altri studi hanno permesso di cambiare le conoscenze sulla memoria di lavoro. Fino a poco tempo fa la memoria di lavoro era pensata essere esclusivamente conscia. Recentemente è stato scoperto che, una volta identificato, un ricordo può essere mantenuto in forma non verbalizzabile e tale ricordo può essere utilizzato o modificato anche al di fuori della consapevolezza (Wong, 2021).

La procedura della Flash Technique permette lo sviluppo della cosiddetta prospettiva adulta adattiva. Le persone non sono più troppo coinvolte e “osservano” cosa sta accadendo piuttosto che “sentire” e rivivere cosa (non) sta (più) accadendo. Dagli studi che usano la risonanza magnetica funzionale (Wong,2021) sappiamo che il cervello elabora meglio il trauma quando non è in modalità attacco o fuga. Quindi, questa è una tecnica che può far sì che la persona non si spaventi e possa elaborare meglio. Il trauma crea una interruzione nella vita psichica di una persona e diventa nel cervello un nodo traumatico attorno al quale si possono creare modalità di adattamento che possono poi irrigidirsi e creare ulteriori problemi nella vita della persona.

Il “Flash” e il focus positivo sono utilizzati con il fine di interrompere la riattivazione traumatica. Il battito degli occhi (eye blinking) è una breve interruzione del focus emozionale positivo e sembra permettere al cervello di accedere brevemente e in modo spontaneo alla memoria traumatica attraverso le connessioni tra Sostanza Grigia Periacqueduttale- Amigdala-Ippocampo, ma senza la cosapevolezza della persona (Wong, 2021). Il focus metodologico della Flash Technique è sulla possibilità di interrompere la ricorsività dell’esperienza non risolta, facilitando lo spostamento e il guadagnare un’altra prospettiva. Molto interessanti sono anche i punti di condivisione e contatto con i meccanismi di azione e gli esiti di rapido sollievo del sistema di Neurofeedback Dinamico Non Lineare Neuroptimal. Tale Sistema di allenamento cerebrale basa il suo funzionamento proprio sull’uso di una interruzione per permettere la riorganizzazione spontanea e adattiva del cervello in una modalità di interazione dinamica con il Sistema.

Flash Technique e Neuroptimal si situano e incoraggiano la collocazione della terapia del trauma e dei disturbi in cui esitano le esperienze traumatiche dentro un paradigma teorico nuovo e antico, che rinnova e rilegge molte delle teorie del trauma e della cura alla luce di scoperte e riflessioni ed esplorazioni cliniche.

 

Psicoterapia con l’emisfero destro (2022) di Allan N. Schore – Recensione

“Psicoterapia con l’emisfero destro” propone una disamina approfondita di quello che Schore (2022) definisce il ruolo delle regressioni reciproche, quali fattori in grado di promuovere una crescita nel setting psicoterapico, rispetto al quale l’emisfero destro sembra giocare un ruolo davvero importante.

La co-costruzione di nuove strade da percorrere

 Attraverso quest’opera ricca di spunti e di nuovi contributi delle neuroscienze, l’autore propone una visione della psicoterapia del tutto rinnovata, caratterizzata da nuovi spunti di riflessione, connotata da quei fattori infinitesimali e spesso invisibili, rispetto ai quali far fiorire una nuova consapevolezza. Nondimeno, il noto psicologo americano consegna a ciascun operatore della salute mentale un valido strumento, grazie al quale vedere gli attori della relazione terapeutica quali co-costruttori di un processo sempre in trasformazione e per questo ricco di quegli imprevisti, che altro non fanno se non restituire un valore aggiunto all’importanza della relazione stessa.

Attraverso le pagine di questo libro viene infatti proposta una disamina approfondita di quello che Schore (2022) definisce il ruolo delle regressioni reciproche, quali fattori in grado di promuovere una crescita nel setting psicoterapico, rispetto al quale l’emisfero destro sembra giocare un ruolo davvero importante. Se quest’ultimo, infatti, nel corso dell’opera viene descritto come chiave di lettura aggiuntiva alla comprensione di quei cambiamenti intrapsichici ed interpersonali, esso nondimeno si accompagna alla dimensione psicosomatica, ove il binomio mente-corpo non può non risultare indissolubile. Riflettendo così il pensiero promosso dall’autore: ossia l’invito a vedere e a comprendere come ciascuno di noi sia abitato da quei distretti cerebrali e somatici, che spesso in terapia si traducono in un linguaggio da scoprire, conoscere e simbolizzare nel tempo. La creatività riflette quel fattore nevralgico, attraverso il quale le nuove esperienze sia interne che esterne, favoriscono, già a partire dalle prime fasi di vita, quello scambio e quell’arricchimento che nel campo clinico-psicoterapico promuovono di contro la fioritura le mappe somatiche e psichiche provenienti dalla danza infinita e spesso invisibile promossa dalle nostre regioni cerebrali.

Il valore della dimensione temporale

 Se vi è una traccia proveniente dal passato, essa non per forza rimarrà identica nel futuro, poiché è proprio attraverso il presente che le funzioni autoregolatrici possono trovare un nuovo spazio e una nuova modalità di espressione, valorizzando quella autenticità che in psicoterapia il noto psicologo invita a conoscere, riscoprire e creare, senza smettere di farsi guidare dall’amore per la curiosità e dalla ricerca di nuove strade da percorrere.

La neurobiologia e la psicologia del profondo

Grazie a questo indissolubile binomio, quello che più risalta è proprio una nuova chiave di lettura attraverso la quale guardare la diade paziente-terapeuta, quali veri e propri portatori di un vissuto e di un background neurobiologico ed esperienziale, che non sempre risultano lineari, ma che, al contrario, grazie proprio alla complessità che li contraddistingue, sono promotori di un arricchimento reciproco e di uno scambio in grado di delineare nuove lenti attraverso le quali orientarsi con sé stessi e con gli altri.

 

Sintomi da somatizzazione e abuso sessuale: una scoping review

Iloson e colleghi (2021) hanno condotto una scoping review sul tema, con l’obiettivo di indagare (1) la portata e la natura della ricerca attuale sui sintomi della somatizzazione nelle donne che hanno subito abusi sessuali e (2) l’esistenza di sintomi specifici di somatizzazione che possono essere collegati all’abuso sessuale.

 

Il disturbo da sintomi somatici

 Il disturbo da sintomi somatici appartiene a una categoria di disturbi psichiatrici in cui il paziente presenta vari sintomi fisici che suggeriscono una condizione medica (Iloson et al., 2021). Questi, però, non possono essere completamente spiegati da una condizione medica nota o da una malattia organica (Iloson et al., 2021). Il disturbo da somatizzazione è stato infatti definito come “una tendenza a sperimentare e comunicare angoscia e sintomi somatici non spiegati da esami patologici, non attribuibili a una malattia fisica che spingono però a cercare aiuto medico per essi” (Lipowski, 1988). Lo sviluppo e la persistenza di questi sintomi inspiegabili vengono comunemente definiti come somatizzazione (Iloson et al., 2021). È importante precisare che, il termine “malattia psicosomatica”, viene talvolta confuso o usato come sinonimo di somatizzazione. Tuttavia, il concetto di malattia psicosomatica implica una malattia organica, in cui i fattori mentali giocano un ruolo importante nello sviluppo della stessa (Malmquist, 2001). I sintomi della somatizzazione variano in un’ampia gamma di tipologie, come dolori provenienti da diverse parti del corpo, sintomi gastrointestinali, sessuali e pseudo-neurologici (Mai, 2004). Possono causare una significativa compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti (Harris et al., 2009). I sintomi spesso variano nel tempo e la sofferenza da somatizzazione può indurre una persona a ricorrere ripetutamente a cure mediche (Barsky et al., 2006). Il paziente può consultare diversi operatori sanitari, sottoporsi a numerosi accertamenti con costi elevati e soffrire a lungo prima di ricevere la diagnosi (Orzechowska et al., 2021). Inoltre, il paziente vive i sintomi come reali. Non si tratta quindi di una simulazione (Iloson et al., 2021).

La somatizzazione dell’adulto è stata collegata a traumi infantili e dell’età adulta, compresi quelli sessuali, sia negli uomini che nelle donne (Paras et al., 2009; Waldinger et al., 2006). L’abuso fisico, psicologico o sessuale subìto nell’infanzia può causare sintomi mentali e fisici a lungo termine. Nelle donne, uno studio di Granot e colleghi (2018) ha dimostrato che il trauma sessuale influisce sul livello di somatizzazione in misura maggiore rispetto ai traumi non sessuali. Anche diversi studi precedenti hanno riportato associazioni tra sintomi somatici e abuso sessuale (Mcnutt et al., 2002; Morse, 1997).

Come affermato in precedenza, i pazienti adulti con disturbo da somatizzazione si rivolgono a molti specialisti e hanno più visite di emergenza rispetto ai pazienti non affetti da somatizzazione (Barsky et al., 2006). Tra le donne dei Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Islanda, Novergia e Svezia) che si rivolgono a un ginecologo, il 38%-66% ha riferito di aver subito un abuso fisico, il 19%-37% un abuso emotivo e il 17%-33% un abuso sessuale (Wijma et al., 2003). La maggior parte delle donne, tra il 92%-98%, non aveva espresso la propria esperienza al ginecologo durante l’ultima visita (Iloson et al., 2021).

La scoping review di Iloson e colleghi

Iloson e colleghi (2021) hanno quindi condotto una scoping review sul tema, con l’obiettivo di indagare (1) la portata e la natura della ricerca attuale sui sintomi della somatizzazione nelle donne che hanno subito abusi sessuali e (2) l’esistenza di sintomi specifici di somatizzazione che possono essere collegati all’abuso sessuale (Iloson et al., 2021). A differenza di una revisione sistematica, una scoping review non ha l’obiettivo di valutare la qualità delle evidenze (Arksey & O’Malley, 2005), bensì è tipicamente utilizzata per “mappare” la letteratura rilevante nel campo di interesse. Pertanto, un limite della scoping review è che non è stata effettuata alcuna valutazione della qualità metodologica (Iloson et al., 2021).

 In generale, questa scoping review (Iloson et al., 2021) ha incluso un totale di 7 articoli. Quattro dei sette studi inclusi in questa revisione hanno valutato il dolore dopo un abuso sessuale, in particolare il dolore muscoloscheletrico cronico (Ulirsch et al., 2014), il dolore intestinale (Grinsvall et al., 2018), il dolore acuto (Fishbain et al., 2014) e il dolore cronico (Fishbain et al., 2014; Symes et al., 2014). Due studi (Grinsvall et al., 2018; Ulirsch et al., 2014) non sono stati in grado di dimostrare una significativa associazione, tuttavia uno dei due studi (Ulirsch et al., 2014) ha riportato una soglia del dolore più bassa, l’altro (Grinsvall et al., 2018) invece ha mostrato un aumento della gravità del dolore nel tempo dopo un abuso sessuale. In due studi (Gerber et al., 2008; Pallotta et al., 2014) è stata evidenziata un’associazione tra abuso sessuale e aumento dei sintomi somatici. Uno studio (Bradford et al., 2012) ha mostrato che le donne con sintomi della sindrome dell’intestino irritabile hanno riferito una storia di abuso sessuale più spesso dei controlli sani. I seguenti risultati sul legame tra dolore e abuso sessuale sono in parte in contraddizione con le ricerche precedenti (Iloson et al., 2021). Per esempio, una revisione di Nelson e colleghi (2012), comprendente 108 studi, ha esaminato i sintomi fisici medicalmente inspiegabili in adulti sopravvissuti ad abusi sessuali infantili e ha trovato un’associazione con diversi sintomi, ad esempio gastrointestinali, ginecologici, respiratori superiori, dolore pelvico cronico, cefalea e fibromialgia (Nelson et al., 2012). Una revisione di Barker e colleghi (2019) ha invece rilevato che la violenza sessuale da parte di un partner è associata a un rischio maggiore di dolore e altri sintomi somatici.

Il fatto che questa revisione (Iloson et al., 2021) non sia riuscita a identificare un legame tra l’abuso sessuale e il dolore come sintomo specifico come hanno fatto gli studi citati, può essere dovuto alle diverse strategie di ricerca utilizzate, che hanno portato all’inclusione di studi diversi. Il dolore come sintomo singolo infatti non è stato incluso nella strategia di ricerca di Iloson e colleghi (2021), a meno che non facesse parte della somatizzazione. Per quanto riguarda gli altri sintomi somatici, i risultati della revisione sono più coerenti con le ricerche precedenti, in cui è stata identificata un’associazione tra sintomi somatici e abuso sessuale (Mcnutt et al., 2002; Morse, 1997).

In conclusione quindi, non è stato possibile individuare alcun sintomo somatico specifico di somatizzazione dopo un abuso sessuale. Sei dei sette studi suggeriscono però un legame tra il trauma sessuale e l’aumento della presenza di diverse forme di sintomi somatici aspecifici, come il dolore e la sindrome dell’intestino irritabile (Iloson et al., 2021). L’associazione tra abuso sessuale e dolore è risultata incoerente (Iloson et al., 2021). Sono necessari quindi ulteriori studi prospettici sui sintomi che i pazienti presentano in relazione alla somatizzazione indotta da un precedente trauma sessuale.

Strategie di regolazione emotiva e traumi infantili: il ruolo dell’autostima nella gestione di rabbia e ruminazione

Persone con un passato di abusi e traumi riportano frequentemente bassa autostima, alti livelli di rabbia e strategie di regolazione emotiva disadattive.

 

Gli effetti di esperienze traumatiche infantili

Di frequente persone che in infanzia e/o adolescenza sono state sottoposte al sistema affidatario riportano di aver subìto diversi tipi di maltrattamenti, quali maltrattamenti fisici, sessuali, emotivi e/o neglect (Lueger-Schuster et al., 2014). La violenza fisica o psicologica subita e l’assenza di un ambiente sicuro durante l’infanzia hanno come conseguenza gravi problemi psicologici ed emozionali in età adulta (Carr et al., 2018). Frequentemente, infatti, si va incontro a problemi di gestione della rabbia, bassa autostima e strategie di regolazione emotiva inefficaci (Ford et al., 2012; Stevens et al., 2013; Stein, 2006).

Nello specifico, la rabbia è un fattore di mantenimento centrale nello sviluppo del disagio psicologico (Cassiello-Robbins & Barlow, 2016), soprattutto in adulti con un passato di maltrattamenti subiti nel sistema di affido, i quali presentano frequentemente problemi di rabbia e ruminazione rabbiosa. La ruminazione è una strategia di regolazione emotiva disfunzionale (Kaplan et al., 2018), definita come uno stile di pensiero ripetitivo che focalizza l’attenzione dell’individuo sui propri sentimenti e pensieri negativi, le cause, i significati e le conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991); tendenzialmente la ruminazione ha come tematica centrale la perdita ed è indirizzata al passato (Olatunji et al., 2013). La tendenza a sperimentare sentimenti di rabbia e l’utilizzo della ruminazione impedisce una corretta regolazione emotiva in risposta a esperienze di vita avverse (Weindl et al., 2020).

Per quanto riguarda l’autostima invece, esperienze di vita traumatiche in giovane età, periodo in cui si è più vulnerabili e ancora in fase di sviluppo, possono condurre a una scarsa autostima (Stein, 2006).

La letteratura ha evidenziato la presenza di una forte componente rabbiosa e di una ridotta autostima in adulti con traumi infantili (Asgeirdottir et al., 2010).

Lo studio di Weindl e colleghi (2020)

 Uno studio del 2020 di Weindl e colleghi ha indagato il ruolo dell’autostima nella regolazione delle emozioni negli adulti che avevano subito abusi infantili in case di affido. Gli autori hanno ipotizzato che la rabbia e la ruminazione rabbiosa fossero forme di regolazione emotiva disadattive, influenzate da scarsa autostima. Infatti, la rabbia è un fattore che accresce il disagio psicologico e i problemi di salute mentale in persone traumatizzate. La ridotta capacità di sviluppare strategie di regolazione emotiva adeguata gioca un ruolo fondamentale in questo contesto; infatti, persone con un passato di abusi e traumi riportano frequentemente bassa autostima, alti livelli di rabbia e strategie di regolazione emotiva disadattive. Gli autori hanno deciso di focalizzarsi su questa relazione proprio perché ad oggi, la letteratura riguardante il rapporto tra questi fattori è ancora poco chiara.

Gli autori hanno analizzato modelli di mediazione tra i seguenti fattori: strategie di regolazione emotiva, rabbia, ruminazione rabbiosa e autostima.

I risultati hanno mostrato l’esistenza di un legame significativo nel rapporto di mediazione tra questi fattori, come ipotizzato inizialmente. Infatti, il costrutto dell’autostima è risultato mediare il 26% del rapporto tra regolazione emotiva e rabbia e il 57.5% del rapporto tra regolazione emotiva e ruminazione rabbiosa.

In conclusione, l’autostima potrebbe essere un elemento mediatore chiave nella regolazione emotiva proprio grazie ai suoi effetti positivi sul distress psicologico ed emotivo. A livello pratico, nel trattamento di pazienti con un passato di traumi o abusi, un percorso terapeutico incentrato sul miglioramento e lo sviluppo di autostima e strategie di gestione funzionale delle emozioni, può avere effetti positivi sulla gestione della rabbia e della ruminazione rabbiosa.

 

Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione (2022) di Maurizio Pompili – Recensione

Il testo “Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione” offre una panoramica dettagliata di concetti e problematiche inerenti al tema del rischio suicidio e della possibilità di prevenzione, tenendo conto dei riferimenti presenti nella letteratura internazionale e clinica.

 

 Si evince che, per la complessità dei temi trattati, il manuale risulta essere una motivazione per operatori e per professionisti a fornire il loro contributo continuo e la condivisione di esperienze e riflessioni che possano arricchire di informazioni preziose, per evitare di cadere in visioni pericolosamente riduzionistiche ed inesatte. Si aggiunga l’importante consapevolezza che i concetti riportati non possano mai essere completamente esaustivi, data la moltitudine di fattori presenti e l’interazione di variabili anche inattese, che possono scatenare una risposta così lontana da quel principio di sopravvivenza della specie che caratterizza l’essere umano e non solo. Un dato è sicuramente certo: colui che tenta un gesto così estremo si ritrova a considerare che esso stesso sia l’unica scelta rimasta, per contrastare un dolore insormontabile ed insopportabile. Il tempo vissuto sembra arrestarsi in un qui ed ora che contraria ogni elan vital, incastrato in pensieri negativi e in una condizione di sofferenza tale da far perdere il controllo. Condizione che va rispettata e affrontata con delicatezza, cercando di non rimanerne né impigliati, né condizionati da subdoli pregiudizi, spesso inconsapevoli, che possono condizionare l’intervento di ogni operatore che ha a che fare con tali dinamiche.

Nel primo capitolo il Prof. Pompili mette in evidenza il carattere multidisciplinare del tema del suicidio, in tutta la sua cruda tragicità, con una costante attenzione all’aspetto emotivo intrinseco, la guida per ogni esperienza mentale e fisica. In effetti l’emozione, dal latino ex movere, risulta correlarsi ad una spinta, ad un movimento che permette ad ogni singolo soggetto di posizionarsi nel mondo secondo le sue priorità, secondo quanto c’è di rilevante nella sua esperienza; la tonalità emotiva risulta la bussola individuale per direzionarsi nella propria esistenza, causa, essa stessa, in condizioni di sofferenza estrema, di gesti altrettanto estremi. Gli approcci sono sicuramente molteplici, da quello filosofico-esistenziale, a quello teologico, letterario, demografico, sociologico e socioculturale, fino a quello interpersonale, biologico e psicologico, più propriamente definito dal Prof. Pompili Mentalistico. In effetti, l’individuo si ritrova in uno stato perturbante che può degenerare in disperazione, intesa non solo come mancanza di speranza, ma anche e soprattutto di presenza di un dubbio, di quella incapacità decisionale che può innescare la convinzione che non ci possa essere una via di uscita. Kierkegaard parla di scheggia nelle carni, un’incapacità di ridurre la vita ad una scelta, che, in casi di fragilità estrema, può provocare quello strappo all’esistenza, come tentativo di placare un dolore incarnato, testimonianza di un rifiuto della propria essenza. E, non ultimo, l’approccio medico psichiatrico che, se da un lato ha permesso un’indagine accurata di terapie farmacologiche appropriate, dall’altro, però, rischia di concentrarsi sulla rilevanza di un disturbo o di una diagnosi e di considerare il gesto suicidario come una conseguenza. Nel corso della storia il suicidio è stato oggetto di stigma: in passato il suicida veniva considerato come colpevole e “condannato” a non avere un rito funebre e alla confisca di tutto il suo patrimonio. Tra il 1600 e il 1800 si parlava di non compost mentis, ossia di folle e di felo de se, ossia di autore di un crimine contro sé stesso. Nonostante l’importante processo di cambiamento avvenuto negli anni, sembra che tale impostazione abbia condizionato fortemente il pensiero moderno, in cui ancora risultano presenti, in alcuni contesti, precomprensioni che, a loro volta, condizionano l’approccio al fenomeno suicidario. In ogni caso, oggi il tema è osservato più da un punto di vista quantitativo che qualitativo, ossia il disturbo mentale, non ha un’importanza esclusiva; da qui ne deriva la necessità di comprendere lo stato di sofferenza, più che il tentativo di spiegarlo. Un approccio fenomenologico che porta ad interrogarsi non tanto o non solo sul cosa ha un soggetto, ma soprattutto sul come vive il proprio disagio. Il suicidio non è direttamente correlato al vizio di mente, ma alla difficoltà della stessa di “svolgere il suo ruolo auto organizzativo ed emergente”.

Nel secondo capitolo si mette in evidenza il tentativo di dispiegare le variabili maggiormente significative per delineare, almeno in teoria, coloro che sono maggiormente a rischio. Variabili importanti, ma non sufficienti, soprattutto se non inserite in un preciso modello di riferimento. Si respira smarrimento ed impotenza, in quanto tali fattori risultano dalla ricerca scientifica spesso imprecisi e limitanti; dunque debolmente predittori del comportamento suicidario. Tutto si complica se si pensa che l’ideazione suicidaria non necessariamente si correla alla morte del soggetto, nemmeno in termini di stati ad alto rischio. Pertanto, il clinico può essere invaso da senso di smarrimento e responsabilità, soprattutto in quanto permea l’idea subdola che gli operatori della salute mentale abbiano gli strumenti per prevedere e prevenire sicuramente il suicidio. L’impostazione di causa-effetto tra malattia mentale e suicidio rischia poi di caratterizzare come banale un fenomeno altamente complesso, che ancora dispone di poche evidenze empiriche e di molteplici approcci. Una metafora significativa, per rendere più evidente questa complessità, è quella di correlare le previsioni metereologiche alla valutazione del rischio di suicidio: in effetti, tale valutazione può riferirsi al momento esatto in cui viene effettuata e, dunque, la sua accuratezza può, come le previsioni del tempo a breve termine, modificarsi inaspettatamente e improvvisamente. Il rischio suicidio oscilla e può essere determinante un fattore di impulsività. Come in un oceano smisurato, dove la persona rimane aggrappata all’ultimo pezzo di una barca naufragata, con la possibilità sempre più incalzante di scivolare negli abissi dell’oscurità. Il terapeuta oscilla lui stesso in un mare pronto presumibilmente ad una tempesta, schiacciato anche dalla paura, non certo insignificante, di poter essere trascinato in contenziosi legali che possano additargli incapacità e superficialità.

E allora che fare? Sicuramente importante risulta l’indagine di aree di interesse come la storia personale, l’approfondimento dell’intenzione suicidaria, l’esame di realtà e, come già detto precedentemente, l’esperienza affettiva e la capacità di tolleranza allo stress. Ogni curante ha il dovere di indagare su ogni singolo aspetto, tenendo, però, sempre presente il fatto di non avere una sfera magica per prevedere qualcosa che accadrà all’improvviso, come una lite in famiglia o un problema al lavoro. Deve tenerlo presente per non sprofondare nella credenza di non essere in grado di, di ritenersi responsabile o di essere schiacciato da sensi di colpa. Viene sottolineata l’importanza di una buona comunicazione, spoglia di precomprensioni e autenticamente empatica, che valuti i possibili segnali di allarme, sempre nella loro totalità e non singolarità. Il clinico deva perlustrare non solo una dimensione di disperazione, ma anche e soprattutto quella possibilità di hopelessness, ossia di aspettative future che incagliano i processi di pensiero negativi in uno stato perturbato e perturbante di rigidità e di impossibilità. Necessaria risulta, pertanto, quell’alleanza terapeutica che permetta un processo di co-costruzione, incentivato dal potere narrativo e dalla sensazione per il paziente di non essere solo in mezzo al mare; una sintonizzazione con il desiderio di morte, per una maggiore comprensione, ma sempre un’attenzione dedicata a quello che può scaturire dal controtransfert.

Nel terzo capitolo si evidenzia l’importanza di una buona valutazione del rischio suicidario che comprenda un piano terapeutico ben delineato in cartella, eventuali modifiche, una buona preparazione del clinico in modo tale che, in caso di accertamenti, si possa dimostrare di avere fornito al paziente un’idonea assistenza. In effetti, oltre alle questioni primarie di ordine deontologico, non vanno sottovalutate le potenziali implicazioni legali che possono insorgere in caso di suicidio di un paziente. Sebbene la letteratura internazionale evidenzi l’impossibilità di stabilire un metodo di valutazione clinico scientifico e l’impossibilità di misure che, in assoluto, possano evitare il suicidio, esistono delle azioni che mai dovrebbero essere escluse da parte del terapeuta, come un’attenta valutazione anamnestica, un esame psichico adeguato, una diagnosi e la possibilità di valutare eventuali figure esterne (per esempio famigliari) che possano supportare in caso di crisi o che possano rilevare eventuali cambiamenti o sintomi alert, preziosi per il clinico. Si evidenzia la necessità di non prendere mai decisioni affrettate o superficiali, tenendo a mente la possibilità che una lunga degenza non sempre è la migliore soluzione, in quanto, in alcuni casi, può, invece, aumentare il rischio  suicidario.

Nel quarto capitolo viene fatta una preziosa ed interessante analisi sull’autopsia psicologica, termine introdotto per la prima volta da Shneidman nel 1951: si tratta di un’indagine accurata di ordine retrospettivo, utile in caso di chiarimenti su una morte ambigua, che permetta una ricostruzione il più dettagliata possibile sulla morte. Vengono utilizzati dati emersi da interviste a persone vicine al defunto, cercando di utilizzare domande specifiche che possano soffermarsi sui motivi del gesto suicidario. Non è assolutamente da confondere con un’indagine di ordine investigativo che, invece, cerca di delineare le dinamiche di un evento. Tale inchiesta va sempre considerata in termini probabilistici e mai come certezza assoluta, ma è sicuramente utile per chiarire il ruolo avuto dal soggetto in merito alla sua morte e per mettere in risalto il valore preventivo e clinico rispetto ai famigliari delle vittime di suicidio. Lo stesso Shneidman conia il termine di postvention per sottolineare l’assoluta necessità di non trascurare le possibili conseguenze sui famigliari e amici della vittima, sia in termini di trauma per i sopravvissuti sia anche di stigma sociale che ne potrebbe scaturire da una morte così drammatica e improvvisa.

 Sebbene in tutto il testo sia evidenziata la possibile necessità di tutela legale in caso di gesto suicidario, il capitolo cinque ne rappresenta una descrizione dettagliata, a partire proprio dal complesso significato che può essere attribuito al concetto di morte. Significato ricercato in ogni ambito, da quello filosofico-esistenziale, a quello religioso fino a quello medico, ma che ben si riconosce essere un’impresa ardua, oggetto di complicanze in caso di suicidio. La stessa storia evidenzia inizialmente l’incapacità di giustificare un gesto così estremo, tanto da essere considerato per lungo tempo un vero crimine commesso dalla persona contro sé stessa e dunque stigmatizzato. Successivamente si è cercato un capro espiatorio tra i medici ritenuti responsabili di un’azione tanto violenta e cruenta. Oggi, fortunatamente, grazie alle evidenze empiriche, l’operatore rappresenta  sempre più una fonte di salvezza per la persona a rischio suicidio e non un colpevole, in quanto i fattori scatenanti sono effettivamente molteplici e complessi. Nonostante questo, il capitolo evidenzia la possibilità per clinici e operatori di finire nel mirino della giustizia, accusati da famigliari o parenti stretti che, in alcuni casi, hanno bisogno di proiettare la colpa verso qualcuno di esterno, non riuscendo a farsene una ragione, anche dal punto di vista più strettamente umano. E allora che fare? Il Prof. Pompili, citando Black, (1979) spiega che ci si può riferire ad uno standard of care inteso come “quel grado di cura che uno staff e un professionista ragionevolmente prudenti dovrebbero esercitare in circostanze uguali o simili”. Pertanto l’intero staff dovrebbe adoperarsi sempre per garantire azioni, interventi, decisioni valutate accuratamente, ma comunque mai additabili, come causa diretta dello stesso comportamento suicidario. Ritorna l’importanza dell’alleanza terapeutica con il paziente, ma anche del continuo confronto con i famigliari, in modo tale da farli sentire sempre coinvolti e motivati a supportare la persona a rischio. In ambito legale le possibili denunce possono essere per negligenza, imprudenza o imperizia.

Nel sesto capitolo si affronta un tema importante relativo ai sentimenti del terapeuta che, se pur un professionista, dotato di conoscenze e strumenti utili ad affrontare ogni situazione, rimane sempre una persona che ha a che fare quotidianamente con tematiche e dinamiche universali, che potrebbero investirlo direttamente. Prendere in carico un paziente a rischio suicidio può innescare un senso di responsabilità enorme, oltre che a dei “rimbalzi emotivi” non indifferenti; alcuni terapeuti, proprio  per questi motivi, evitano certe tipologie di pazienti, chiudendo il problema agli albori. Ma per chi affronta invece queste dinamiche la strada non è certo facile, tenendo anche conto che la tonalità emotiva stessa è ben colta dal paziente sensibile a tali contenuti, anzi a volte è lo stesso paziente a voler mettere alla prova il professionista, non accontentandosi di poche risposte positive. Una sorta di test sempre più richiedente, sempre più intriso di rabbia e di frustrazione crescenti, che può investire come una tempesta anche il professionista più preparato e più attento. Tematiche esistenziali, come la morte, che turbano da sempre le menti di filosofi e non solo, si scontrano anche con i più esperti, con la possibilità di risposte difensive inconsapevoli altamente pericolose. Il controtransfert può innescare meccanismi di repressione dell’odio, o noia o addirittura dubbi rispetto alle proprie capacità  e, dunque, odio rivolto verso sé stessi, disperazione o, al contrario, innescare un meccanismo difensivo come la formazione reattiva che tramuta l’odio nel suo opposto, ossia lo zelo eccessivo o l’iperprotezione. Si aggiunga la possibilità di distorsione e negazione della realtà che potrebbero inquinare il lavoro terapeutico. Ne consegue la necessità di focalizzare l’attenzione anche sulle reazioni emotive del clinico, che, se trascurate, possono essere altamente pericolose. Un lavoro importante di consapevolezza delle proprie emozioni e di come le stesse possano essere modellate è centrale, per poter riconoscere i meccanismi difensivi sottesi e lavorare su sé stessi continuamente, anche in caso di morte del paziente. Il ruolo di un eventuale senso di colpa scaturito da una negligenza di questo lavoro introspettivo e di consapevolezza emotiva può essere determinante nell’instaurare senso di inutilità o incapacità, incastrando il professionista in un conflitto reale/ideale da cui può emergere anche senso di vergogna e bisogno di allontanarsi dalla propria attività.

Come poter rendere più accessibile un tema così impervio come il suicidio? Fondamentale è riuscire a ricondurlo ad un vero e proprio comportamento, ossia valutarlo dal punto di vista di ciò che accade e di ciò che può condizionare la condotta dell’individuo, incapace di trovare una via di uscita alternativa all’interruzione della propria vita. Ecco che ne deriva, come ben evidenziato nel settimo  capitolo, il fondamentale richiamo al concetto di comprensione del soggetto in quanto persona  depressa, umiliata, invasa da un sentimento di impotenza e di sconfitta e non di un richiamo ossessivo alla nosografia psichiatrica. Da qui la necessità di ragionamenti in termini di aree di criticità e di lavoro in una visione prospettica di intervento terapeutico che non dimentichi certo la diagnosi, ma che si concentri anche sul rischio di suicidio, spesso complementari nell’individuo. Pertanto, fondamentale è un’integrazione tra nozioni di farmacoterapia e psicoterapia che necessitano  sicuramente di ulteriori approfondimenti.

Se non si considera il suicidio solo come desiderio di farla finita, ma come volontà di interrompere quel flusso insostenibile di pensieri negativi, di ossessioni, di bisogno di una “completa cessazione del proprio stato di coscienza, e dunque, come risoluzione del dolore mentale insopportabile”; allora si avrà maggiore possibilità di offrire un valido supporto al paziente. Ne consegue il bisogno di un approccio alla persona che tenga conto delle sue caratteristiche, del suo essere unico e delle sue  modalità di risposta mai generalizzabili, una fenomenologia del suicidio che cerchi, con rispetto, di rendere “un pochino più tollerabili” aspetti ritenuti “intollerabili”, una fenomenologia del suicidio che valuti tanti micro cambiamenti come importanti conquiste, senza la pretesa, utopica, di risolvere ogni cosa in poco tempo. Un paziente a rischio suicidio mette a dura prova chiunque, anche il più esperto, toglie energie, spesso incastra in sensazioni di impotenza ed incapacità, ma la stessa  consapevolezza di tali dinamiche può essere un’utile risorsa per ogni operatore della salute mentale.

Non posso negare la difficoltà ad intraprendere la lettura di un testo come questo, dovuta al fatto che è incentrata su una tematica esistenziale altamente complessa, che insinua dubbi, perplessità e anche senso di impossibilità. Ma poi durante la lettura, oltre all’importante contributo scientifico e alle evidenze empiriche a livello internazionale raccolte dal Prof. Pompili e riportate nella modalità narrativa puntuale, chiara e semplice che lo contraddistingue, quello che emerge e domina è la sua  profonda umanità, il suo coraggio, il suo importante supporto ad ogni singolo operatore, la sua motivazione a non mollare, a continuare a rinvigorire i dati della ricerca. Il Prof. Pompili è in grado di mettere in pratica quanto enuncia nel suo testo, ossia la necessità di rispetto per ogni singolo paziente, la sua deontologia, ma, anche e soprattutto, il suo autentico sentimento di solidarietà umana. La lettura incentiva ad una continua ed incessante conoscenza e preparazione, mettendo in primo piano il senso del nostro lavoro clinico: operare secondo epochè, avvicinarsi ad una sempre maggiore comprensione del dolore e della sofferenza, capaci di trascinare in un profondo baratro, privo di vie di uscita. A tal punto da portare l’essere umano, in situazioni per lui estreme, (Shneidman parla di  psychache, tormento nella psiche) ad andare perfino contro quel principio di autoconservazione che spesso, errore più grande, si dà per scontato.

Grazie di cuore Prof. per la condivisione di questo importante bagaglio di conoscenze, motivo, per ogni singolo operatore, di costruzione di un lavoro di squadra e mai di un percorso in solitudine.

cancel