expand_lessAPRI WIDGET

I volti della timidezza: le differenze fra il narcisismo covert e la personalità evitante

Secondo lo studio di Weiss e Huppert (2022), gli evitanti e i narcisisti covert differirebbero nella risposta ai feedback sociali positivi: se i primi ne trarrebbero beneficio, i secondi maturerebbero una visione ancor più negativa di se stessi.

Il narcisismo: la tipologia “covert”

 Kerneberg (1998) associò il “narcisismo patologico” a un disturbo dell’autostima in cui gli individui, bisognosi di costante ammirazione e attenzione da parte degli altri (Morf, 2006), utilizzerebbero le relazioni come mezzo per confermare il proprio valore personale (Morf e Rhodewalt, 2001). La letteratura distingue due principali manifestazioni di narcisismo (Besser e Priel; 2010): overt (grandiosa) e covert (vulnerabile) (Gabbard, 2009; Levy, 2012; Miller et al., 2011; Pincus et al., 2014). Il narcisismo overt si presenterebbe in modo arrogante e aggressivo (Levy et al., 2009) e si servirebbe di strategie di coping che svalutano la fonte della critica per compensare la ferita narcisistica del soggetto (Ronningstam, 2014). Il narcisismo covert, invece, si presenterebbe in maniera timida e modesta (Levy, 2012), rispondendo alla minaccia egoica con sentimenti di depressione e disgusto di sé (Kernberg, 1992). Queste persone risulterebbero molto sensibili al rifiuto interpersonale, per cui tenderebbero ad evitare le situazioni sociali (Ronningstam, 2005). Alla luce di questa strategia di coping ritirata, alcuni studiosi hanno suggerito una similitudine fra il narcisismo covert e la personalità evitante (Dickinson e Pincus, 2003), riportando ricerche che testimoniano valide relazioni fra i due costrutti (Fossati et al., 2009; Weiss et al., 2020).

La personalità evitante

Come descritto nel DSM-5 (APA, 2013, p.672), il disturbo evitante di personalità è quel “pattern pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo” che fa sentire socialmente inadatto, poco attraente e inferiore agli altri chi ne è affetto. Nonostante questi individui desiderino instaurare delle relazioni interpersonali, evitano il contatto con gli altri per paura di essere criticati, rifiutati o ridicolizzati (Beck et al., 2004). In alcuni casi, preferirebbero non ricevere neanche segnali di approvazione sociale per paura di creare aspettative positive negli altri che potrebbero non soddisfare in futuro (Taylor et al., 2004).

Similitudini e differenze

Il narcisismo covert e la personalità evitante condividerebbero diverse caratteristiche: la timidezza, la vergogna, la sofferenza psicologica, l’ipervigilanza nei confronti dell’ambiente e la sensibilità alle critiche e al rifiuto interpersonale, che porterebbero all’evitamento sociale. Su questi punti comuni, Weiss e Huppert (2002) si sono chiesti se sia lecito domandarsi se i due disturbi di personalità si riferiscano a costrutti distinti o sovrapponibili.

Dal punto di vista teorico sembra che, sebbene i due disturbi si presentino in modo simile, la grandiosità sia una caratteristica associata solo al narcisismo covert e, per questo, un aspetto importante nel differenziare i meccanismi strutturali alla base delle presentazioni delle due personalità. Di preciso, il narcisista covert nutrirebbe delle fantasie grandiose di bellezza e popolarità che verrebbero nascoste dietro una presentazione modesta per paura di ricevere una ferita al valore personale, se tali desideri non venissero soddisfatti (Gabbard, 1989; Pincus et al., 2009). Anche la personalità evitante sarebbe associata a sentimenti di bassa autostima, ma questo sembrerebbe essere legato a sentimenti di inadeguatezza sociale, sulla base delle esperienze passate in cui questi individui non hanno raggiunto intimità relazionale per il ritiro sociale (Lynum et al., 2008). Inoltre, se le persone con disturbo evitante sarebbero in realtà molto interessate alle relazioni sociali, quelle con narcisismo covert spesso non sarebbero neanche genuinamente desiderose di instaurare relazioni profonde; essendo utili al solo scopo di ottenere ammirazione, queste finiscono per essere evitate per paura che le pretese di idealizzazione non vengano rispettate (Levy et al., 2013; Zeigler-Hill et al., 2010).

Lo studio di Weiss e Huppert

L’obiettivo dello studio di Weiss e Huppert (2022) è stato quello di esaminare le similitudini e le differenze sopra descritte usando il feedback sociale e l’autovalutazione nel contesto sociale, assumendo che queste strutture possano riflettere le sfumature fra gli spettri del narcisismo covert e del disturbo evitante.

 Dal momento in cui sia i narcisisti covert sia gli evitanti si presentano come timidi, timorosi degli eventi sociali e con bassa autostima, l’ipotesi di partenza è che, in assenza di giudizio sociale, entrambe le personalità siano associate ad autovalutazioni negative.

Ricordando la premessa secondo cui il riscontro positivo da parte degli altri costituisce un rinforzo grandioso desiderato solo dai narcisisti covert e non dagli evitanti, gli autori ipotizzano che, in risposta all’approvazione sociale, solo l’autovaluzione dei narcisisti covert subirebbe un miglioramento.

Dai risultati emerge che, in condizioni neutrali, gli individui evitanti e i narcisisti covert si presenterebbero in modo simile, e cioè negativamente. Nella condizione sperimentale, invece, gli esiti hanno disatteso le aspettative: la personalità evitante sarebbe correlata ad un’autovalutazione positiva, mentre il narcisismo covert ad un’autovalutazione negativa. Ciò in cui differiscono i due disturbi, quindi, riguarderebbe la risposta che questi forniscono ai feedback positivi: gli evitanti ne beneficerebbero, mentre i narcisisti incrementerebbero la visione negativa che hanno di sé. Questo accadrebbe in ragione del fatto che, in assenza di una chiara gratificazione grandiosa, l’approvazione sociale potrebbe impattare negativamente sull’immagine di sé del narcisista, non interessato alle relazioni come una via in cui essere semplicemente apprezzati o uguali agli altri, ma solo glorificati (Morf e Rhodewalt, 2001).

Conclusioni

Le implicazioni dello studio circa le differenze fra i due disturbi di personalità riguardano l’importanza di operare un’affinata diagnosi differenziale: il narcisismo covert sarebbe caratterizzato da un disordine strutturale dell’autostima, più profondamente disturbata, mentre il disturbo evitante sarebbe più legato alla competenza sociale percepita, con maggiori probabilità di rispondere positivamente ai feedback sociali. L’obiettivo ultimo, allora, dovrebbe essere quello di comprendere meglio i piani di sovrapposizione fra i due costrutti per evitare diagnosi errate e applicare i protocolli migliori per la patologia di personalità individuata (Weiss e Huppert, 2022).

 

La costruzione della propria identità attraverso la memoria

Nell’elaborare la nostra identità, co-costruiamo la storia della nostra vita, ignari, probabilmente, che i ricordi non sono delle fotografie fedeli di ciò che ci è accaduto, ma frutto di una ri-elaborazione che, spesso, associa la realtà degli eventi con sensazioni ed interpretazioni personali frutto del momento della narrazione.

 

…L’esistenza precede l’essenza…
(Sartre, J.P., 1945).

Auto-narrazione e memoria di sé

 Il processo di costruzione della narrativa del sé viene definito da Bruner (2004) “self-telling”, ovvero ”auto-narrazione”; questo processo permette ad ognuno di noi di acquisire consapevolezza delle proprie scelte personali.

La letteratura, in tal senso, evidenzia come la ripetizione dei ricordi autobiografici e le aspirazioni per il futuro siano le basi attraverso le quali l’essere umano costruisce e ricostruisce il proprio sé e la propria identità attraverso la narrazione, che diventa quindi un fattore principale nella definizione di se stessi (Fivush & Nelson, 2004).

Costruire la propria identità, intesa come trama di sé stessi, diventa, in questo modo, una vera e propria arte narrativa alla stessa stregua della crescita. L’esigenza di adattarsi alle diverse situazioni socio-ambientali indurrebbe l’individuo a produrre storie di sé stesso e a modificarle, qualora per esempio, queste ultime non corrispondano più all’Ideale dell’IO, che ognuno di noi costruisce attraverso l’amalgamarsi al sociale (Bruner, 2002).

Identità e realtà esterna

Secondo l’autore, quindi, proprio tornando all’Ideale dell’Io –per dirla con le parole di Freud– la costruzione di se stessi è condizionata o vincolata da modelli culturali impliciti che plasmano le rappresentazioni che noi raccontiamo di noi stessi.

In questo modo il senso di unicità di ciascuno di noi dipenderebbe dal confronto, spesso impari, tra il mondo interno fatto di ricordi e di sentimenti personali e dalle aspettative culturalmente connotate della realtà sociale in cui viviamo (Bruner, 2004).

A questo punto si potrebbe fare una riflessione: “Quanto il racconto interno di se stessi, degli episodi della propria vita, e delle aspettative sociali contribuiscono a creare il proprio personaggio?” “Quanto il marchio che sentiamo di portare è frutto della nostra costruzione e quanto, invece è inciso dagli altri?”

“Quanto ciò che sappiamo di noi, attraverso ciò che gli altri ci hanno raccontato, corrisponde a quello che siamo?”

McAdams sottolinea: “il sé è molte cose, ma l’identità è la storia di vita; l’identità assume la forma di una storia, con setting, scene, personaggi e trame”. (McAdams, 1985)

Parafrasando queste parole si può scorgere un trait d’union tra rappresentazioni passate e attuali che vanno a costruire il senso del sé che potrebbe proiettarsi nel futuro.

Durante l’adolescenza e nella prima fase della età adulta inizia a svilupparsi il concetto di identità personale, concetto che non può essere slegato dall’ambiente sociale, culturale e famigliare, nel quale l’individuo inizia a muovere i primi passi.

Durante la narrazione di un ricordo autobiografico bisogna tener conto dell’importanza che assume il “pubblico di ascoltatori”, quindi, il ruolo del narrarsi come atto connotato da un’importante componente sociale che nel bene o nel male influenza la trama della nostra storia personale; nel raccontarci co-costruiamo la storia della nostra vita, ignari, probabilmente, che i ricordi non sono delle fotografie fedeli di ciò che ci è accaduto, ma frutto di una ri-elaborazione che, spesso, associa la realtà degli eventi con sensazioni ed interpretazioni personali frutto del momento della narrazione.

Diventa, inoltre, importante sottolineare il ruolo della componente sociale nella narrazione di un ricordo autobiografico, in quanto comportamento sociale, che va ad influenzare la “life story” nel momento stesso in cui viene narrata.

Costruzione dell’identità e acquisizione del linguaggio

L’approccio evolutivo e socio-interazionista è collegato con il processo di apprendimento e l’acquisizione del linguaggio.

Lo stretto legame tra memoria autobiografica e linguaggio è sottolineato da Nelson (2003), il quale evidenzia come il bambino, intorno ai 3-4 anni, acquisisca la capacità di rappresentare la realtà e quindi, un “sé rappresentazionale”.

La letteratura (Angus et al., 1999), invece, segnala come la memoria autobiografica si sviluppi intorno ai 4-6 anni quando il bambino inizia a raccontarsi attraverso anche il racconto di eventi passati: in questo modo va a stratificarsi quello che è  il “sé narrativo”.

 Il modello di Nelson (2003) segnala un’ultima tappa della costruzione narrativa del sé: il “sé culturale” (5-7 anni). In questa fase il bambino integra i contenuti della propria storia personale con quelli che sono i ruoli, le regole e le rappresentazioni sociali dell’ambiente culturale e famigliare nel quale lo stesso è inserito.

Alla luce di quanto appena detto sembra lecito chiedersi: ma visto che, ciò che viene selezionato e narrato come memoria del sé deve potersi adattare all’idea che abbiamo di noi stessi in quel momento, esiste il vero Io?.

Joyce (1984) direbbe: “noi siamo un libro, un libro scritto dagli altri”. Offuscando in qualche modo la capacità di costruirci o co-costruirci all’interno di un ambiente che sembra aver scritto già la nostra storia.

Identità e disturbi di memoria

La stessa amnesia, anche nel caso di quella psicogena come per esempio fuga dal trauma, evidenzia come in quel momento l’individuo perde il sé costituente la propria identità, una sorta di identità senza significato che oscilla nella ricerca di un senso.

Un esempio è quello proposto dal neurologo Oliver Sacks (1986) quando ci racconta del caso del quarantanovenne Jimmie G., il “marinaio perduto”, che lotta per rispondere alla domanda “chi sono?” in quanto non riesce a ricordare nulla di ciò che è successo dopo la sua tarda adolescenza. Questo esempio mostra che nel creare narrazioni personali, facciamo affidamento ad un meccanismo di screening psicologico, detto sistema di monitoraggio, che contrassegna certi concetti mentali (ma non altri) come ricordi (Mazzoni, 2018).

Le false memorie, le amnesie permanenti o temporanee, organiche o psicogene, confluiscono in quella che è la nostra struttura identitaria. D’altronde per dirla con le parole di Umberto Galimberti (2009) “Non ci sarebbe “Io” se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosco come “miei” azioni, vissuti, pensieri e sentimenti. Non ci sarebbe “Mondo” se la memoria non cucisse la successione delle visioni, che altrimenti si offrirebbero come spettacoli sempre nuovi, apparizioni tra loro irrelate”.

 

Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione (2022) di Maurizio Pompili – Recensione

Nelle note introduttive del volume “Il rischio di suicidio” l’autore chiarisce come il testo offra una visione completa delle problematiche connesse ai principali aspetti del rischio suicidario e della sua prevenzione, ma correttamente mette in guardia da considerarlo una sorta di linea-guida applicabile in tutte le situazioni cliniche che richiamano il suicidio.

 

 Il tema è troppo delicato e la casistica inevitabilmente troppo varia per potersi concedere delle semplificazioni. Piuttosto, esso si propone di favorire anche con il supporto di una documentazione clinica, un dibattito multidisciplinare tra esperti, al fine di scongiurare valutazioni inappropriate e riduzionistiche. Il libro, comunque, grazie ad un adeguato approfondimento storico e teorico, fornisce un’indispensabile bussola d’orientamento al clinico che deve fronteggiare eventuali situazioni di tale complessità. Esso offre anche una panoramica su tecniche di base con cui condurre un colloquio o produrre una valutazione più attenta del rischio di suicidio. Si tratta di un tema che merita grande approfondimento in quanto il comportamento suicidario pone diversi interrogativi al clinico, così come è anche innegabile che talvolta di fronte ad esso si produca un atteggiamento evitante, anche da parte degli specialisti.

L’autore del volume è Maurizio Pompili, professore ordinario di Psichiatria presso l’Università Sapienza di Roma e direttore UOC di Psichiatria presso l’A.O.U. Sant’Andrea di Roma. Ha già pubblicato diversi altri testi sullo stesso tema ed è considerato uno dei maggiori esperti italiani in tale ambito di ricerca. Difatti, è componente dell’Executive Committee dell’I.A.S.P. (International Association for Suicide Prevention).

Riguardo alle vicende storiche, colpisce apprendere che prima del 1630 la parola “suicidio” non era in uso e l’atto di togliersi la vita era equiparato ad un assassinio. Fino al 1800, il reo veniva definito autore di un crimine contro se stesso e i suoi beni potevano essere confiscati o subire altro genere di sanzioni. La valutazione, nel tempo divenuta sempre più condivisa, di considerare “folle” tale gesto è servita anche a mitigare gli effetti sanzionatori, con una miscela di misericordia o severità, che si è alternata nella trattazione dei diversi casi. Questo atteggiamento sociale spiega perché lo psichiatra sia diventato lo specialista di riferimento e si sia creata un’associazione logica tra suicidio e disturbo mentale che, come le ricerche statistiche più recenti mostrano, è effettivamente pertinente, ma solo in una percentuale relativa di situazioni.

Nel primo capitolo sono riassunti in cornice i diversi approcci utilizzati nel corso dei secoli nel tentativo di dare un senso al suicidio. Si parte dall’approccio filosofico e teologico, con il pensiero di S. Agostino; l’approccio letterario, con le descrizioni proposte da poeti e scrittori; si passa all’approccio demografico, sociologico e socioculturale, per comprendere l’entità del fenomeno nelle varie epoche e nei diversi contesti, oltre che nelle sue possibili determinanti sociali, vedi il contributo di Durkheim; l’approccio biologico per giungere all’approccio interpersonale e più propriamente psicologico. Freud sviluppò solo negli anni 1915-17 una propria ipotesi sul suicidio, a partire dal presupposto che la sofferenza di fronte alla perdita di un oggetto amato o di una persona alla quale si era legati si può rivelare impossibile da accettare da parte dell’Io, al punto che l’individuo  può giungere a introiettare l’oggetto perso. In seguito, per punire l’oggetto perso ma introiettato, l’aggressività può rivolgersi a se stesso, sino alle conseguenze estreme.

 L’approccio di Shneidman (1993), fondatore della suicidologia, ha posto finalmente il dolore mentale in primo piano, ponendo le basi per una concettualizzazione secondo cui i soggetti non desiderano la morte, bensì ricercano l’allontanamento da un dolore vissuto come insopportabile e da una vita percepita come non degna di essere vissuta. Con questa prospettiva, si mette in primo piano anche la ricerca che l’individuo compie sempre delle opzioni potenzialmente capaci di ridurre la sofferenza, in quanto è proprio la loro drammatica assenza a far assumere come risolutiva la tragica opzione del suicidio. Dal punto di vista del clinico, quindi, diventa essenziale enfatizzare proprio l’importanza di tali opzioni alternative, senza banalizzare l’entità del dolore mentale, ma invitando la persona ad una ricerca più approfondita delle alternative esistenziali che possano scongiurare il rischio suicidario. In questa ricerca si dovrebbe sempre tentare di mobilizzare i legami di appartenenza e le risorse affettive presenti in ambito familiare. In un altro articolo, anche Vannotti e Gennart (2022) sottolineano come il rischio suicidario sia fortemente connesso alla riduzione del senso di appartenenza dell’individuo al proprio contesto relazionale e confermano l’opportunità di coinvolgere la famiglia nel percorso psicoterapico.

Inoltre, un intero capitolo è dedicato all’autopsia psicologica, ovvero il metodo, nato in ambito medico-legale negli Stati Uniti, finalizzato alla comprensione della mente suicida, per chiarire nei casi di morti ambigue, se si sia trattato effettivamente di suicidio. Essa comporta una serie di interviste a persone che avevano relazioni significative con il defunto e l’analisi di documenti rilevanti per la valutazione psicologica. Shneidman metteva in guardia dal rischio di confondere tale procedura psicologica con un’indagine investigativa che, per quanto complessa, si sofferma su tutt’altro genere di fattori. Essa dovrebbe essere obiettiva, proprio come l’autopsia medica, e costituire uno strumento di supporto al magistrato e non un contributo di parte.

 

La relazione tra incubi ed esperienze psicotiche nei giovani adulti

Lo studio di Kammerer e colleghi (2021) analizza i legami tra gli incubi e le diverse esperienze psicotiche nei giovani adulti, con lo scopo di far progredire la comprensione di tale relazione.

 

Cosa sono gli incubi?

 Gli incubi sono esperienze mentali durante il sonno REM (Rapid Eye Movement) con contenuti ben ricordati che procurano emozioni altamente disforiche e inducono risvegli notturni (Levin & Nielsen, 2007). A volte, gli incubi sono considerati normali e molto probabilmente servono a scopi emotivi e di adattamento (Levin & Nielsen, 2007; Nielsen & Carr, 2017). Tuttavia, una percentuale tra il 2 e il 6% della popolazione generale sperimenta incubi su base settimanale (Li et al., 2010), spesso accompagnati da livelli più elevati di ansia diurna, angoscia e problemi del sonno (Nielsen & Carr, 2017). Circa il 55% dei pazienti con disturbi psicotici riferisce incubi frequenti e ricorrenti (Sheaves et al., 2015). Inoltre, i disturbi del sonno e gli incubi sono risultati correlati e predittivi di una maggiore gravità dei deliri (Kammerer, Mehl, et al., 2021; Sheaves et al., 2015) e delle allucinazioni (Reeve et al., 2018; Rek et al., 2017).

È così che lo studio di Kammerer e colleghi (2021) analizza i legami tra gli incubi e le diverse esperienze psicotiche nei giovani adulti, con lo scopo di far progredire la comprensione di tale relazione. È stato condotto uno studio trasversale online su un campione comunitario di 486 giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 27 anni. Una grande porzione del campione è di sesso femminile (80%, N=389) e il 74,9% di questo è formato da studentesse, soprattutto di psicologia.

Il legame tra incubi ed esperienze psicotiche

Come previsto dagli autori, il carico emotivo degli incubi è risultato associato alle esperienze psicotiche, e tale associazione si mostra più forte rispetto a quella tra frequenza degli incubi ed esperienze psicotiche. Inoltre, la sofferenza provocata dall’incubo è risultata significativamente associata alle allucinazioni e ai pensieri paranoici. In più, è stato riscontrato che lo stress percepito durante il giorno e la depressione mediano parzialmente le associazioni tra lo stress notturno e i sintomi psicotici positivi. Ciò suggerisce che, sebbene lo stress percepito durante il giorno e i sintomi depressivi siano associati sia agli incubi che alle esperienze psicotiche (si veda anche: [Hartley et al., 2013; Roberts et al., 2009]), essi non spiegano completamente il legame tra di essi. La constatazione che l’angoscia degli incubi ha mostrato un’associazione più forte con le esperienze psicotiche rispetto alla frequenza degli incubi concorda con gli studi precedenti (Sheaves et al., 2015). Va detto, tuttavia, che le relazioni tra incubi, affetti negativi ed esperienze psicotiche sono molto probabilmente bidirezionali: da un lato, sembra probabile che l’angoscia da incubo promuova un aumento dello stress percepito e dell’umore depressivo il giorno successivo, che a sua volta potrebbe favorire un maggior numero di esperienze psicotiche (Jeppesen et al., 2015). Dall’altro lato, è altrettanto ipotizzabile che l’aumento dell’angoscia da incubo si verifichi a causa del fallimento della regolazione cognitivo-emotiva (Levin & Nielsen, 2009; Sateia, 2014) di fronte allo stress o all’umore depressivo durante il giorno, che poi aumentano congiuntamente la probabilità di esperienze psicotiche. In entrambi i casi, potrebbe emergere un circolo vizioso.

 Non sono state trovate associazioni significative con i sintomi negativi, il che avvalora l’interpretazione degli autori che esiste una relazione specifica tra incubi e sintomi positivi piuttosto che negativi. Gli autori dello studio hanno riscontrato anche che alcuni contenuti degli incubi sono associati esclusivamente alle allucinazioni e altri esclusivamente ai pensieri paranoici.

Nel seguente studio, tra i soggetti sperimentali si è verificato un maggior numero di pensieri paranoici associati esclusivamente a contenuti di incubi che riguardavano l’incapacità di portare a termine un compito, un esame, il bullismo sul posto di lavoro e la perdita del lavoro. Studi precedenti hanno dimostrato una stretta relazione tra pensieri paranoici subclinici e inflessibilità sociale (Wellstein et al., 2020), ansia sociale (Tone et al., 2011) e avversità sociali (Jaya et al., 2016).

Considerazioni conclusive

Alla luce di questi risultati, sembra utile indagare più in dettaglio la relazione tra particolari contenuti degli incubi e specifici tipi di deliri e allucinazioni, per comprendere meglio se e come le esperienze psicotiche siano incorporate nei sogni o viceversa. Inoltre, sarebbe interessante esaminare se gli individui con esperienze psicotiche subcliniche differiscono da quelli con disturbi psicotici veri e propri per quanto riguarda i contenuti degli incubi vissuti.

 

I sogni nella prospettiva freudiana

Il sogno è un compromesso tra un desiderio istintuale che preme e spinge per arrivare alla coscienza e la forza di censura/rimozione che cerca di respingere questo desiderio nell’inconscio. 

I sogni nella prospettiva freudiana

 Durante le loro associazioni libere, spesso i pazienti di Freud riportavano anche i loro sogni.

Come qualsiasi altro ricordo, pensiero o atto, anche i sogni sono dotati di significato: una delle concezioni fondamentali del funzionamento della mente e della teoria psicoanalitica classica è il determinismo psichico, secondo cui ogni azione mentale (anche quelle inconsce) ha una causa (motivazione) o più cause (determinazione multipla) e un obiettivo o più obiettivi (funzione multipla), quindi niente accade per caso.

Nel sonno, le nostre difese sono indebolite, come in uno stato di trance ipnotico, per questo è più facile che le forze istintuali presenti nell’inconscio cerchino di arrivare alla coscienza. I sogni sono dunque espressione del materiale Inconscio rimosso e per questo per Freud rappresentano la via regia per la conoscenza dell’inconscio, lo strumento privilegiato tramite cui è possibile conoscere l’inconscio dei pazienti (per Melanie Klein, invece, il gioco è l’equivalente del sogno, nella pratica clinica proposta da Sigmund Freud, come via d’accesso al materiale inconscio del paziente).

Il materiale Inconscio tuttavia non appare alla coscienza così com’è: il sonno sarebbe disturbato se i pensieri derivati dagli istinti fossero rappresentati nel sogno senza censura. Il sogno per Freud è guardiano del sonno: consente al materiale inconscio di sfogarsi, di riapparire alla coscienza, ma in maniera camuffata, in modo che il lavoro del sogno non debba allarmare l’individuo svegliandolo, e al contempo permette all’individuo di poter continuare a dormire.

Quindi, per Freud il contenuto originale del sogno è latente (il contenuto latente del sogno rappresenta sempre un desiderio sessuale infantile rimosso) il che vuol dire che il contenuto originale (contenuto latente) del materiale inconscio viene camuffato da un lavoro onirico in contenuti accettabili (contenuto manifesto, quel che ricordiamo del sogno).

L’interpretazione dei sogni

Secondo la teoria freudiana il significato del sogno va interpretato: esso nasconde pensieri nascosti e collegamenti con esperienze precedenti. Difatti, spesso quanto riportato dai pazienti ha bisogno di interpretazione, perché:

  • l’inconscio cerca di arrivare alla coscienza ma in forma camuffata affinché sia accettabile
  • quel che emerge alla coscienza sono i derivati mascherati di desideri e fantasie rimosse

L’interpretazione dell’analista è il veicolo primario dell’azione terapeutica in quanto porta alla presa di coscienza.

Secondo Freud, dal momento che i sogni avvengono sempre in uno stato di coscienza allentato, rappresentano la manifestazione di desideri sessuali infantili conflittuali rimossi. Il sogno è soddisfacimento allucinatorio e camuffato di desideri conflittuali. I desideri rimossi sono i desideri sessuali infantili.

Sogni, lapsus, atti mancati e sbadataggini sono tipiche formazioni di compromesso del funzionamento psichico: la formazione di compromesso è un meccanismo di difesa in cui il contenuto psichico rimosso riesce ad arrivare alla coscienza ma in maniera camuffata, irriconoscibile, ad esempio attraverso i sogni.

Il sogno, in particolar modo, è un compromesso tra un desiderio istintuale che preme e spinge per arrivare alla coscienza e la forza di censura/rimozione che cerca di respingere questo desiderio nell’inconscio.

Questo compromesso avviene attraverso il lavoro onirico.

 Difatti, il sogno ha un contenuto latente, che rappresenta sempre un desiderio sessuale infantile rimosso. Per poter essere sfogato durante il sonno si trasforma in sogno dal contenuto manifesto, perché tutte le volte che i contenuti latenti del sogno sono troppo espliciti, cioè troppo simili al contenuto originale latente del desiderio rimosso, attraverso un sensore l’individuo si sveglia.

Il sogno come compromesso

Affinché l’individuo possa continuare a dormire è necessario che il lavoro onirico funzioni in maniera adeguata: deve trasformare il contenuto latente del sogno in contenuto manifesto e questo avviene attraverso quattro azioni fondamentali:

  • condensazione: una serie di pensieri viene riassunta in un’unica immagine (determinismo multiplo)
  • spostamento: i contenuti più importanti del contenuto latente si trasformano in dettagli minimi nel contenuto manifesto
  • trasformazione del pensiero in immagini: il sogno utilizza immagini e simboli
  • elaborazione secondaria, che rappresenta il tentativo di dare coerenza al sogno al risveglio. Essa aiuta a nascondere il contenuto latente, perché per raccontare un sogno cerchiamo di dare coerenza al sogno stesso, di costruire una storia coerente e coesa, e in questo modo distorciamo le informazioni connesse al contenuto latente del sogno, al desiderio rimosso

Il successo della Psicoanalisi si basa sull’abilità della cura di far riemergere i ricordi legati ai desideri sessuali infantili.

Il sogno è fondamentale nella Psicoanalisi perché nel sogno la memoria funziona in maniera diversa rispetto alla veglia: durante il sogno, per quanto in forma camuffata, i ricordi legati alla prima infanzia diventano accessibili. Niente di tutto ciò di cui facciamo esperienza viene perduto secondo Freud, solo che viene immagazzinato in strutture diverse, o nell’inconscio descrittivo (esistenza di processi psichici inconsci) o nell’inconscio dinamico (un inconscio formato da desideri e pulsioni che premono per la scarica e l’accesso alla rappresentazione cosciente e vengono bloccati da forze contrarie). I contenuti dell’inconscio dinamico sono integralmente formati e una volta portati alla coscienza risultano immutati rispetto alla loro forma originaria.

Il sogno per Freud è talmente importante che nel 1900 pubblicò “L’interpretazione dei sogni” e per tutta la vita ha sostenuto che questa è stata la sua scoperta più importante. Con Freud, dunque, il sonno non è più inteso come lo era all’inizio del diciannovesimo secolo come un processo passivo, uno stato passivo di assoluto riposo del cervello, uno stato fisiologico periodicamente necessario, con una ciclicità relativamente indipendente dalle condizioni esterne, caratterizzato da un’interruzione dei complessi rapporti sensoriali e motori che collegano il soggetto col suo ambiente, bensì un processo attivo.

Lacrime cancellate (2022) di Emanuela Castello – Recensione

Emanuela Castello nel suo libro “Lacrime cancellate” ricostruisce le vite di una quindicina di donne, per trattare un tema assolutamente meritevole di attenzione: la depressione perinatale.

 

 Il pregiudizio è un atteggiamento che, come tale, è costituito da una componente affettiva, caratterizzata dal tipo di emozione correlata, da una componente cognitiva che ingloba credenze o pensieri (stereotipi) e da una comportamentale, correlata alle azioni di un soggetto.

L’intero globo terrestre è intriso da stereotipi definiti dal giornalista Walter Lippmann come “le  piccole immagini che ci portiamo dentro la nostra mente”. Se analizziamo i dati all’interno di una determinata cultura, ci accorgiamo che queste immagini tendono ad essere straordinariamente simili, in quanto sopraggiunge l’elemento normativo a fare da guida ai nostri pensieri. Questo comporta una radicalizzazione delle stesse che, come conseguenza, accompagna gli stessi stereotipi a resistere fortemente al cambiamento. Di per sé non rappresentano elementi negativi, ma un modo per semplificare la visione del mondo e permettere alla nostra mente di ottimizzare l’energia cognitiva, per preservarla in caso di necessità impellenti; a questo proposito Allport (1954) parla della “legge del minimo sforzo”.

Purtroppo, come ogni radicalizzazione, si rischia di generalizzare in eccesso laddove, invece, servirebbe una maggiore accuratezza e soprattutto delicatezza.

Pensiamo alla donna durante la gravidanza: è opinione comune che dovrebbe essere uno dei momenti più felici dell’esistenza, perché accoglie prima dentro di sé e poi all’esterno una nuova vita, un nuovo battito, un nuovo respiro.

Ma non è sempre così! Qualcuno potrebbe stupirsi di quanto scritto, ma questo è sempre ricollegato al concetto appena dispiegato, accentuato dal fatto che ancora oggi, nemmeno media e mass media se ne occupano con la dovuta competenza e dedizione. Dunque l’informazione riguardo la salute mentale durante il periodo perinatale tende ad essere ancora troppo sporadica ed incompleta.

Emanuela Castello, giornalista e scrittrice, ne parla invece accuratamente nel suo libro “Lacrime cancellate”, ricostruendo tassello dopo tassello, in maniera esemplare nella sua semplicità, ma anche profondità, le vite di una quindicina di donne, per trattare un tema assolutamente meritevole di attenzione: la depressione perinatale. Ne parla non attraverso ricerche lette da testi, ma direttamente attraverso le esperienze uniche, ma allo stesso tempo straordinariamente simili di donne che hanno avuto il coraggio di raccontare la loro verità, alcune con un soffio di voce, altre in maniera più sostenuta, e finalmente andare contro questa immagine radicata nella cultura della donna “assolutamente e necessariamente felice” durante la gravidanza.

L’autrice immortala su pagine bianche le voci di queste donne, testimonianza anche per tutte le altre donne in difficoltà e non lo fa certo con la presunzione di dare risposte specialistiche, ma per parlarne, per diffondere i contenuti e per provare a delineare una strada attraverso la quale poter uscire da quel sentiero di solitudine e di sconforto, attraverso l’aiuto di un esperto. E di esperti, poi, ne intervista, anche per evidenziare che tipo di servizio viene offerto a riguardo dalle aziende sanitarie regionali. Purtroppo si tratta ancora di una gestione a macchia di leopardo, parcellizzata. Le attività non sono omogenee sul nostro territorio, con la conseguenza che in talune Regioni e in taluni reparti la donna in gravidanza viene seguita a livello psicologico fin dalle sue prime visite, viene monitorata con la possibilità di fare un ottimo lavoro di prevenzione o di diagnosi precoce. In altre, invece, la donna è lasciata sola, spesso incapace di dare una forma a quello che prova, con il rischio di non riuscire a risalire da un vortice tanto impetuoso.

Perché lo stereotipo esiste, a volte incastra una futura o neo mamma in un limbo in cui palpitano sentimenti contrastanti, in cui tutto appare buio come un tunnel senza uscita.

E cosa può succedere?

Le donne intervistate dall’autrice sono una testimonianza preziosa nella loro veridicità e, a volte, crudità di quanto possa accadere in un momento così delicato come quello gestazionale o post partum. E non sono certo situazioni sporadiche: secondo il Piano di Azione europeo 2019 per la salute mentale in Europa disturbi di tipo emotivo, psicologico o psichiatrico investono un terzo della popolazione e tra questi i maggiormente diffusi sono depressione e disturbi d’ansia. Entrambe colpiscono maggiormente il genere femminile tra i 15 e i 44 anni, con una forte incidenza  tra i 20 e i 30 anni, arrivando a triplicare nei primi mesi dopo la nascita di un figlio. Di conseguenza, le donne colpite da questi sintomi sono in numero decisamente maggiore rispetto a quanto si possa immaginare. Purtroppo la prevenzione non ha un forte sostegno e condivisione, nemmeno nella stessa azienda sanitaria e, spesso, si arriva ad avere consapevolezza del problema quando questo ormai è insostenibile.

Cosa fare?

È necessario dare un nome a quanto si vive, una forma, perché tutto questo dà una possibilità, indice di potenzialità e di speranza.

Il limbo in cui ci si può trovare si delinea ben chiaro attraverso le confessioni delle donne intervistate: senso di smarrimento, di mancanza di forze, a volte incrementate dall’incapacità altrui di comprendere. Può succedere, infatti, che non ci sia sostegno dai familiari, non certo per insensibilità, ma proprio per quel pensiero culturale radicato che ogni mamma che porta il proprio figlio in grembo debba essere felice. Da qui la difficoltà ad ammettere di stare male, anche alla propria madre che, in alcuni casi, non riesce a sintonizzarsi con questo dolore e arriva a giudicarlo. Ne scaturisce quell’ombra invasiva ed invadente, accompagnata dal senso di colpa di non sentirsi adeguate e all’altezza. Si pensa di essere delle cattive persone, di essere le uniche a non volere più un figlio e a quel punto, ecco, arriva un’onda che travolge e cerca di distruggere. Le autoaccuse si alimentano in maniera assolutamente repentina e tutto sembra degenerare. Tra gli esperti intervistati dall’autrice c’è la Dott.ssa Alessandra Bramante, referente scientifica di un progetto che riguarda l’analisi del rischio di depressione post-partum: “l’istinto materno non esiste”, parole che risuonano nella loro nudità autentica. In effetti, le relazioni si costruiscono nel tempo, a volte hanno bisogno anche di più tentativi, perché questo non dovrebbe valere anche per la mamma che porta in grembo suo figlio? Parole semplici e chiare che hanno un importante obiettivo: far cadere e frantumare lo stereotipo che la donna nasce già madre e che tutto andrà sempre bene fin da subito.

 Può esserci una predisposizione genetica, ma da sola non può spiegare una diagnosi così complessa. Nemmeno le variazioni ormonali. Ogni singolo individuo è fatto di sostanza, ma anche di esperienze vissute, a volte non elaborate adeguatamente. Inoltre c’è sicuramente una necessità di riorganizzazione dell’identità personale che può essere la promotrice stessa dell’onda imprevedibile. Ne deriva l’importanza, in tali casi, del supporto e della competenza di un professionista, ma non solo: della possibilità di rilevare fin dalle prime visite fattori di rischio e permettere un intervento repentino, capace di anticipare forme conclamate di depressione. Tutto questo aiuta, anche a posteriori, nelle relazioni, non solo tra la madre e il bambino, ma anche nella coppia e nella famiglia nella sua totalità. La ricerca a riguardo è preziosa, l’autrice cita, ad esempio, quella condotta fra il 2004 e il 2007 dalla Dott.ssa Banti, psichiatra, ricercatrice in Neuropsicofarmacologia Clinica all’Università di Pisa, che svolge un importante studio per rilevare i fattori di rischio della depressione perinatale. Un lavoro certosino in collaborazione con altre Università statunitensi su 1600 donne, utilizzando anche scale di valutazione come La Scala di Edimburgo, il questionario più diffuso per quantificare il rischio depressivo. Ad alti punteggi della scala viene somministrata un’intervista semi-strutturata tratta dalla sezione relativa ai disturbi dell’umore della SCID, strumento accurato di valutazione e diagnosi di disturbi mentali. Esemplare ricerca che permette di cogliere non solamente una sintomatologia depressiva, ma anche eventuali altre problematiche che la circondano. Quello che può colpire una futura mamma nasce da un dilemma esistenziale correlato non certo alla razionalità, ma alla sfera emotiva.

L’io narrante della scrittrice è davvero molto partecipe e coinvolto, non si tratta di uno stile giornalistico piatto e senza sfumature; al contrario, risulta immerso nelle storie di ogni singola donna, cerca di dare ad ognuna di esse l’attenzione che merita, lascia spazio nella storia. Ogni singola voce è accompagnata dalla voce dell’autrice Emanuela Castello per non essere persa in nessuna sfaccettatura, ma accolta e seguita in toto. C’è il rispetto di ogni paura, anche di quella che può scaturire dalla responsabilità di una nuova vita. Emerge il bisogno di costruire una mappa e una rete più omogenea sul territorio, il bisogno di professionisti, ma anche di un forte investimento di empatia, di una forma di accoglienza più ampia di tutti i vissuti a partire dalla società, dai giornali, dalla televisione, che ne dovrebbero parlare in maniera più accurata e delicata.

Dalla depressione perinatale se ne può uscire e se ne esce, “come da un cappotto nero sotto i portici nella notte di gennaio; perché solo questo permette di ricominciare a camminare, di sorridere e di gustare fino in fondo il cielo terso dopo la tramontana”.

Ma è necessaria una rete, come ben dice la Dott.ssa Linda Confalonieri, psicologa e psicoterapeuta dell’Ambulatorio per la Salute mentale perinatale dell’Ospedale Niguarda che opera ogni giorno in collaborazione con i consultori familiari, a stretto contatto, in costante comunicazione. “Ascoltare Linda e Anna Cassano è una carezza, la carezza di cui avrebbe bisogno, in una notte di tramontana a gennaio, la ragazza dal cappotto nero”.

Si lavora e si deve lavorare in squadra per tutte coloro che navigano in acque sconosciute, per tutte coloro che non trovano la strada, per tutte coloro che madri non sono e non sanno se mai lo vorranno essere. E si lavora attraverso loro, attraverso ogni singola e preziosa esperienza vissuta nel corpo, nello spazio e nel tempo. E, dunque, si lavora anche attraverso te, Emanuela, perché tu sei una di loro, donna coraggiosa, capace di colmare un vuoto e ricominciare. Donna coraggiosa che promuove “la cura che riempie solitudini. La cura che costruisce ponti”.

 

Stress Traumatico Indotto dalla Perpetrazione (PITS): le conseguenze psicologiche nei lavoratori dei mattatoi 

Nel 2002 MacNair introduce il concetto di Perpetration-Induced Traumatic Stress (PITS), ovvero Stress Traumatico Indotto dalla Perpetrazione, del quale, fino ad oggi, è stato ben poco studiato.

 

Introduzione

 Nel corso degli anni, la letteratura si è focalizzata principalmente sulle conseguenze psicologiche dell’aver subìto un trauma o violenza, piuttosto che sull’averla inflitta (MacNair, 2002).

Ad oggi, esistono diversi tipi di lavoro che richiedono l’uccisione autorizzata di esseri viventi. Data la natura inevitabilmente traumatica di questi lavori, alcune ricerche nel corso degli anni hanno indagato le conseguenze psicologiche di queste professioni sugli stessi lavoratori che le esercitano ma, come accennato poco fa, solo in ristrette categorie, come per esempio i veterani di guerra e i ricercatori che eseguono esperimenti su animali in laboratorio (MacNair, 2002; Bennett & Rohlf, 2005). Tuttavia, si conosce ben poco riguardo al lavoro svolto nei mattatoi.

Il lavoro nei mattatoi

I lavoratori dei mattatoi, definiti come individui che lavorano in strutture adibite all’uccisione e lavorazione di animali da allevamento per il consumo di carne, hanno a che fare con la morte di oltre 70 miliardi di animali ogni anno in tutto il mondo (Sanders, 2018). Per stare al passo con l’ingente richiesta di mercato, l’industria della carne impiega circa 75 mila lavoratori in 250 mattatoi sia in Usa che in UK (Department for Environment Food & Rural Affairs, 2019; United States Department of Agriculture, 2020).

Il disturbo da stress traumatico indotto dalla perpetrazione (PITS)

 La letteratura ha evidenziato come prendere parte o osservare pratiche di uccisione, mutilazione di animali, coscienti o incoscienti è ovviamente causa di distress psicologico per gli individui impiegati nei mattatoi (Hendrix & Brooks Dollar, 2017). Infatti, secondo alcuni studi coloro che lavorano nei macelli possono presentare una sintomatologia riconducibile al disturbo da stress port traumatico (PTSD) (Beirne, 2004); nello specifico si può parlare di disturbo da stress traumatico indotto dalla perpetrazione (PITS), proprio perché questi lavoratori sono coinvolti nella creazione di situazioni traumatiche ai danni degli animali adibiti al macello (MacNair, 2002). Alcuni autori hanno ipotizzato che lo stress dovuto a questi ambienti di lavoro deumanizzanti possa esporre maggiormente al rischio di perpetrare agiti aggressivi eterodiretti (Emhan et al. 2012).

Inoltre, bisogna considerare che spesso questi lavoratori sono vittime di disapprovazione a livello sociale, in quanto la mansione comporta l’atto di uccisione. La disapprovazione sociale può indurre in questi lavoratori emozioni di vergogna e colpa, percependosi come socialmente rifiutati; questi sentimenti possono a loro volta innescare una reazione di ritiro emotivo dalle relazioni o la messa in atto di comportamenti aggressivi e violenti, nonché distacco e isolamento sociale (Fitzgerald et al., 2009).

La letteratura sull’argomento

Una revisione sistematica di Slade e Alleyne (2021) ha raccolto le evidenze scientifiche degli ultimi anni inerenti a questo fenomeno. I risultati estrapolati dagli studi tenuti in considerazione hanno evidenziato l’impiego, da parte dei lavoratori nei macelli, di una serie di strategie disadattive, anche eteroaggressive, per far fronte all’ambiente di lavoro e ai fattori di stress associati. Le autrici suggeriscono la necessità di ulteriori studi riguardanti l’argomento proprio a causa della scarsa ricerca a riguardo, presente ad oggi in letteratura.

 

La relazione terapeutica. Storia, teoria e problemi (2022) di Antonio Semerari – Recensione

Come testo storico e teorico, il libro espone con completezza l’intera evoluzione del concetto di relazione terapeutica nelle sue varie incarnazioni temporali e tutte le domande cliniche a cui questa nozione ha risposto.

 

Il libro “La relazione terapeutica. Storia, teoria e problemi” di Antonio Semerari e pubblicato da Laterza nel 2022 è al tempo stesso una esauriente disanima di questo concetto chiave del processo terapeutico e una discussione critica effettuata dal peculiare punto di vista dell’autore, che è uno dei maggiori esponenti di quel cognitivismo clinico italiano che ha sviluppato con forza gli aspetti costruttivisti, evolutivi e evoluzionisti presenti nella psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Come testo storico e teorico, il libro espone con completezza l’intera evoluzione del concetto nelle sue varie incarnazioni temporali e tutte le domande cliniche a cui questa nozione ha risposto. La relazione, ci insegna Semerari, è uno strumento utile per esplorare cosa accade nella relazione tra paziente e psicoterapeuta in termini concreti e non teorici; stimola a trovare quali siano i concetti operativi che possano descrivere adeguatamente gli eventi interpersonali che si sviluppano nella stanza della psicoterapia; costringe a valutare in che misura e attraverso quali processi la relazione contribuisce alla cura e alla guarigione; incoraggia a indagare cosa deve fare il terapeuta per far sì che la relazione contribuisca alla cura e non diventi un ostacolo al trattamento o un fattore dannoso per il paziente; e così via. Dal punto di vista storico, il libro espone le diverse risposte che sono state date a queste domande dai mesmeristi a Janet nei casi più antichi, da Freud, Ferenczi e Sullivan fino a Mitchell nella psicoanalisi, da Beck al costruttivismo fino al processualismo nell’ambito cognitivo-comportamentale, senza dimenticare il contributo della psicoterapia umanistica tra i quali si possono individuare gli indagatori più specializzati sulla relazione terapeutica, in particolare Carl Rogers.

Il punto di vista specifico di Semerari lo troviamo nella sua personale riflessione su quel tipo particolare di relazione terapeutica considerata “difficile” con le persone che rientrano nel grande calderone dei disturbi di personalità border e antisociali. Si tratta di un tema specifico del cognitivismo italiano di ispirazione costruttivista, evolutiva ed evoluzionista e che risale al lavoro di Guidano e Liotti e che Semerari ha proseguito. La riflessione di Semerari è importante perché esemplifica con chiarezza perché i maggiori esponenti di questa linea di sviluppo clinico e scientifico, ovvero Gianni Liotti e Bruno Bara e anche, sia pure in misura minore, lo stesso Semerari, pur definendosi ancora cognitivisti, hanno finito -con modalità diverse- per far assumere alla relazione terapeutica il ruolo di concetto esplicativo centrale nel modello teorico e di strumento clinico risolutivo nella pratica terapeutica. Ad esempio, nel modello di Antonio Semerari i comportamenti di fronteggiamento semi-adattivi diventano manifestazioni sintomatologiche per un deficit di lettura della mente dell’altro che avviene in relazioni interpersonali disfunzionali. In maniera ancora più accentuata che in Semerari, in Liotti è la relazione traumatica che genera, in maniera ancora più diretta, la disregolazione emotiva che è alla base della psicopatologia. E così via. Di qui il valore curante di una relazione terapeutica ben gestita che riattiva la funzionalità.

Questo aspetto critico aggiunge ulteriore valore alla parte per così dire generalista del libro, libro che così riesce ad essere sia istruttivo per chi voglia semplicemente imparare cosa sia e come si è evoluta la nozione di relazione terapeutica sia ad offrire una definitiva esposizione del peculiare punto di vista sviluppato su questo tema dalla corrente di pensiero clinico a cui appartiene l’autore.

Un ulteriore merito di Semerari è quello di aver definito due modalità principali di concepire e usare la relazione in psicoterapia, modalità che, come ammette lo stesso Semerari, purtroppo non riescono a interagire e anzi sostanzialmente si ignorano. Da una parte c’è un modello medico-scientifico che, per vari motivi, ha finito per sovrapporsi alla pratica clinica della psicoterapia cognitivo comportamentale cosiddetta standard, quella che fa capo a Aaron Beck e David Clark. Questo modello considera la relazione una good practice che fa da cornice al processo terapeutico ma non ne fa parte, una serie di abilità professionali che il terapeuta deve saper padroneggiare per coinvolgere e motivare il paziente ma che non costituiscono il trattamento vero e proprio. Dall’altra parte vi è un modello relazionale-contestuale che invece considera la relazione come un processo chiave della terapia, anzi come il processo risolutivo e decisivo del trattamento.

La posizione di Semerari tra le due parti è quella di una sostanziale equidistanza, tuttavia temperata da vari sbilanciamenti ma verso entrambe le parti: dapprima una approvazione espressa con la ragione, ma anche con un certo calore, per il modello medico-scientifico, approvazione però bilanciata da una finale propensione del cuore per il modello contestuale-relazionale; propensione trattenuta eppure percepibile non solo nel dettaglio che la terminologia del modello medico-scientifico contrapposto a quello relazionale-contestuale non è neutra ma appartiene al campo relazionale-contestuale ed è stata resa popolare da Bruce Wampold, ma soprattutto per altri ben più sostanziosi motivi.

Il primo consiste nel fenomeno, ancora parziale e controverso ma a mio avviso sempre più significativo e crescente nella sua gradualità, dell’adesione di parte del cognitivismo clinico, in particolare quello cosiddetto costruttivista ed evoluzionista, alla posizione contestuale-relazionale, tra i quali soprattutto i modelli di Liotti e Bara. Con questi modelli Semerari condivide alcune affinità (con Bara) e ne ha ricevuto alcune influenze (da Liotti). Nonostante questo, il modello di Semerari non ha propriamente slittato nel campo contestuale-relazionale e tuttavia inevitabilmente subisce -a mio parere- l’influenza di questo crescente spostamento di alcuni modelli cognitivisti nel campo relazionale-contestuale.

Il secondo e principale motivo che inavvertitamente sospinge Semerari nel campo relazionale-contestuale è la parziale carenza -non particolarmente sua, beninteso, ma generale ed estesa in vari ambienti perfino tra i più fedeli a Beck in paesi anglofoni- di esperienza concreta con quella pratica cognitivo-comportamentale standard che così tanto si sovrappone col modello medico-scientifico e che consiste in una particolare disciplina, non solo interiore ma anche e giustamente esteriore, nella conduzione della tecnica terapeutica standard. Per prevenire eventuali comprensibili obiezioni sottolineo che questa carenza è un fatto storico che non dipende affatto da una negligenza ma da una deriva avvenuta un po’ dappertutto, perfino -lo ribadisco- in quell’area anglofona dove è nata la psicoterapia cognitivo-comportamentale standard. Questa carenza è talvolta tradita da alcune nozioni diffuse nell’ambiente clinico, cognitivo e non solo, come ad esempio la convinzione che molti pazienti non collaborano (ad esempio non fanno i compiti a casa, gli homework) e a essa si è iniziato a rimediare curando sempre più la correttezza delle procedure cliniche in maniera concreta, ovvero moltiplicando le pratiche di controllo reciproco come le supervisioni, le valutazioni di aderenza, le riunioni cliniche di revisione del lavoro e varie pratiche di consapevolezza e di incremento della disciplina, interiore ed esteriore. A questo proposito il lavoro di Bennet-Levy è cruciale. Insomma, ci si è resi conto che l’adesione alle linee guida o protocolli non dipende solo dalla lettura di un manuale ma da ben più rigorose pratiche di controllo professionale reciproco.

A questa deriva delle tecniche e delle buone pratiche, ben documentata da uno storico articolo di Glenn Waller, il cognitivismo clinico evoluzionista e relazionale ha reagito con strumenti diversi, in un certa misura teorica analoghi a quelli del cognitivismo standard ma per altri versi differenti negli esiti: gli strumenti appunto della relazione terapeutica che inizialmente, e come spesso accade nell’ambiente costruttivista ed evoluzionista clinico, è stata declinata in termini puramente teorici con alcuni eccessi, come la passione impetuosa per Darwin che ha sostituito quella precedente per Popper e che, come quella per Popper, rischia di rivelarsi almeno a volte intellettualmente affascinante ma clinicamente meno feconda. Più recentemente, soprattutto con l’adesione del cognitivismo clinico evoluzionista e relazionale alle procedure del metodo di gestione delle rotture e riparazioni di Safran e Muran, questa adesione alla centralità della relazione terapeutica ha iniziato ad assumere un carattere più rigoroso, più concreto, più disciplinato non solo interiormente (che è bene ma non basta) ma anche esteriormente: per effettuare correttamente un intervento di gestione delle rotture e riparazioni occorre formarsi e farsi valutare, insomma disciplinarsi anche esteriormente.

 Proseguendo per questa strada il cognitivismo clinico evoluzionista e relazionale potrebbe arrivare a incontrarsi con il modello medico-scientifico anglofono, che sta affrontando un analogo sforzo di rigore disciplinare interiore ed esteriore. A questo incrocio spero ci incontreremo tutti, compreso Semerari che, anzi, probabilmente è già li che ci aspetta da tempo, dato che, malgrado la sua volontà di schierarsi finisce spesso, sbilanciandosi ma continuando a bilanciare ogni suo sbilanciamento, per rimanere equidistante tra modello contestuale-relazionale e modello medico-scientifico. Non si tratta affatto di cerchiobottismo come lo stesso Semerari teme. In fondo questo è ancora una volta il merito che rende questo libro così prezioso.

A questa mia lettura Semerari risponde che essa manca di aver colto un aspetto a cui lo stesso Semerari tiene molto. Nelle sue stesse parole:

Entrambi (ndr.: i due modelli, ovvero il relazionale/contestuale e il modello medico) assumono che una psicoterapia sia sostanzialmente definita dalle sue tecniche. Sarebbe come se in medicina ci si dividesse tra sostenitori degli antibiotici e sostenitori degli antinfiammatori. Quello su cui dovremmo dividerci e discutere sono i modelli dei vari disturbi. Se si è capito un disturbo le tecniche razionali ed efficaci con cui curarlo possono essere molteplici (così avviene in medicina, dove per molte malattie esistono diverse classi di farmaci, ad esempio l’ipertensione). Gli attuali sostenitori del modello medico sostengono che esistono tecniche buone in senso universale e perdono la grande lezione del primo cognitivismo di fare non generici manuali di terapia cognitivi ma manuali su depressione, ansia ecc. In questo senso si torna alla tradizione comportamentista che attribuiva alle tecniche comportamentali lo stesso valore universale che Mesmer attribuiva al magnetismo. Da parte sua il modello relazionale ha uno strabismo simile assumendo che la relazione sia un fattore “aspecifico”. Aspecifico per niente! Il tipo di psicopatologia influenza tremendamente l’assetto della relazione e questo richiede un approccio tecnicamente orientato alla relazione stessa. Sostanzialmente e per riassumere sono le idee intorno a ciò che è specifico o aspecifico che trovo sbagliate nei diversi approcci. Le tecniche sono o dovrebbero essere zappe, picconi, farmaci, martelli, cioè strumenti neutri che uso sulla base di come concettualizzo il disturbo, non il punto identitario di una psicoterapia. La relazione non ha niente di aspecifico ma dipende largamente dalla natura di questi disturbi (Semerari, comunicazione personale del 25 gen 2023, 10:07).

Insomma, riassumendo mi pare che Semerari sottolinei la necessità di concepire l’applicazione sia delle tecniche che della relazione in termini specifici per i singoli disturbi e non nelle modalità aspecifiche che ora, a suo parere, prevalgono, per cui esisterebbero delle tecniche sempre valide e un tipo di relazione universalmente efficace, come ad esempio (ma questo è solo un mio esempio) la relazione cooperativa descritta da Liotti.

A questa osservazione rispondo che questa obiezione ha la sua efficacia, che per ora mi era sfuggita questa proposta originale di Semerari che effettivamente lo porrebbe in parte al di fuori della dicotomia tra modello relazionale/contestuale e modello medico e che di conseguenza approfondirò -avendolo a quanto pare trascurato finora- il modo in cui Semerari nel suo modello propone modalità specifiche di applicazione delle tecniche e della relazione per i singoli disturbi. La mia risposta è, per ora, che al di fuori del modello di Semerari questa specificità vada cercata nella formulazione del caso e più precisamente su quell’aspetto della formulazione che fornisce al trattamento il suo razionale. Un razionale del trattamento basato su una formulazione specifica sul paziente (quindi ancora più specifica di un modello di un disturbo) rende la proposta terapeutica, tecnica e relazionale, davvero specifica e non rigidamente universalistica. Ad esempio, si potrebbe raccomandare che in alcuni casi le tecniche debbano essere applicate in termini redazionalmente direttivi. Mi vengono in mente certi casi di disturbo ossessivo compulsivo in cui non è il caso di essere sempre cooperativi, come forse -semplificando, me ne rendo conto- pensa Liotti; d’altro canto, qualificare la relazione col paziente affetto da disturbo ossessivo compulsivo come inevitabilmente direttiva nelle sue prime fasi non significa negare che comunque ci sia una relazione. Perché quando si parla di relazione si finisce sempre per concepirla come accogliente o cooperativa, dimenticando i casi in cui si deve essere confrontativi (come nel disputing cognitivo in stile Albert Ellis o in certi interventi psicodinamici sul transfert) o direttivi e didattici? In tal modo si finisce per contrapporre semplicisticamente una relazione sempre cooperativa a un intervento sempre didattico o confrontativo. Oppure, si potrebbe raccomandare che la relazione accogliente vada riempita di tecniche specifiche come la riattivazione comportamentale in un depresso ma non in un disturbo di personalità evitante ma larvatamente oppositivo. Partendo da queste considerazioni si potrebbe tornare all’argomentazione iniziale di Semerari e rilanciargli l’obiezione facendogli notare che, una volta compresa la specificità del caso clinico, va compresa, studiata e appresa anche la specificità delle tecniche e degli stili relazionali. Così come un antinfiammatorio e un antibiotico non sono sovrapponibili e non sono quindi aspecifici, ma hanno al contrario uno specifico meccanismo d’azione che li rende adatti a certi disturbi e non ad altri, così tecniche e stili relazionali vanno accordati a formulazioni specifiche dei casi e dei disturbi non neutralmente ma partendo dalla loro specificità d’azione. Non possono essere ridotti a strumenti neutri. Il rischio che Semerari corre è che -a mio parere- partendo dalla giusta raccomandazione che i farmaci, le tecniche e gli stili relazionali vanno adattati al caso e al disturbo ci si dimentichi che anch’essi, farmaci, tecniche e stili relazionali, hanno la loro specificità d’azione che va studiata e capita e non sottovalutata.

Tuttavia, non dispero che alla fine del percorso ci si possa incontrare. Il nostro gruppo sta lavorando da tempo a un modello di formulazione del caso e quindi si può dire che in questo sentiero lavoriamo in parallelo con Semerari. Vedremo se alla fine del percorso ci incontreremo tutti al Roxy bar oppure non ci incontreremo mai, ognuno a ricorrere i suoi guai.

 

Il lutto materno e l’impatto psicologico della Sudden Infant Death Syndrome (SIDS) 

Il fatto che nel caso di Sudden Infant Death Syndrome (SIDS) la morte incorra entro l’anno di età sembra essere un fattore che complica l’adattamento nei genitori, sia in termini di tempo che di difficoltà.

 

 Abstract: La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS), detta anche “morte bianca” oppure “morte in culla”, è una morte che incorre entro i 12 mesi di vita e che non trova spiegazione nemmeno dopo attento esame ambientale, medico e autoptico. È un evento molto doloroso e potenzialmente traumatico che ha, soprattutto sulla madre, un forte impatto psicologico e talvolta psicopatologico. La letteratura evidenzia alcuni fattori di rischio e di protezione che possono agevolare oppure ostacolare la risoluzione del lutto.

La Sudden Infant Death Syndrome (SIDS)

Il lutto da SIDS irrompe come un fulmine a ciel sereno nella vita delle famiglie colpite e, nonostante in tutto il mondo vi sia un forte impegno per le campagne preventive, non è ancora stata data un’eziologia chiara alla morte improvvisa del lattante. Gli studi presenti in letteratura sono principalmente incentrati sul vissuto materno.

Il forte distress psicologico nel periodo immediatamente successivo alla perdita è connotato da intensa tristezza, mancanza di concentrazione, rabbia, irrequietezza, disturbi del sonno, senso di colpa, difficoltà lavorative, spossatezza, disagio nei confronti delle donne incinte, con un maggior rischio per le donne single e quelle che non hanno ritrovato personalmente il corpo senza vita del bambino (Ostfeld, Ryan, Hiatt & Hegyi, 1993; Price, Carter, Shelton & Bendell 1985). I pattern di sintomi più stabili, presenti oltre i sei mesi successivi alla perdita comprendono la persistente tristezza, rabbia, senso di colpa, sfiducia, confusione di ruolo, con un tasso di disturbo da lutto persistente e complicato del 57,1 % dopo un anno dalla perdita e del 41,3 % dopo tre anni (Goldstein et al., 2018).

Il fatto che la morte incorra entro l’anno di età sembra essere un fattore che complica l’adattamento, sia in termini di tempo che di difficoltà (Goldstein, 2018; Price, Carter, Shelton & Bendell, 1985). Inoltre, sebbene spesso sia presente il desiderio di un altro figlio, queste donne sentono il bisogno di sottoporre i figli successivi a studi sul sonno per individuare eventuali apnee o anomalie, segno di una preoccupazione maggiore per future perdite (ibidem).

Considerando l’alto impatto emotivo della perdita e le circostanze in cui avviene, sono stati indagati i fattori di vulnerabilità pre-perdita in relazione allo sviluppo della sintomatologia da disturbo da lutto persistente e complicato e ne sono emerse interessanti correlazioni: età materna superiore a 26 anni, presenza di sintomi depressivi, presenza di ulteriori figli viventi e consumo di alcol almeno due volte alla settimana predicevano in maniera significativa la comparsa del disturbo e la sua persistenza anche a lungo termine, soprattutto se questi fattori erano in concomitanza fra loro (Goldstein et al., 2019).

L’accettazione del lutto da SIDS

Per adattarsi alla perdita, alcuni studi mettono in evidenza il bisogno di queste madri di portare avanti un’attività che preveda la “presenza” del bambino deceduto, come la creazione di siti web commemorativi o l’utilizzo di oggetti transizionali del lutto. All’interno dei siti web commemorativi, fotografie, poesie, ricordi e spazi di autoespressione sono condivisi in modo non professionale, senza particolari canoni estetici: la loro potenzialità risiede proprio nella loro costante accessibilità, non determinata da orari di apertura e chiusura o da limiti di permanenza (Finlay & Krueger, 2011). Sono inoltre l’espressione del lavoro che le madri in lutto svolgono su due fronti, quello del lutto e quello del recupero, in un processo dinamico di oscillazione molto affine a quello descritto da Stroebe e Schut nel “Dual process model of coping” (1999).

 Analogamente all’oggetto transizionale di Winnicott (1951), il quale compare in un determinato periodo di sviluppo del bambino per placare la frustrazione generata dalla temporanea assenza della madre, è stata ipotizzata la presenza di oggetti dal forte potenziale adattivo anche per le madri coinvolte nella perdita da SIDS. Vestiti, peluche, ciucci, impronte di mani o piedi, possono essere considerati dei veri e propri oggetti transizionali del lutto, ma, nonostante le grandi potenzialità, sono utili solo nella misura in cui il loro utilizzo non arrechi angoscia aggravando il rischio di lutto complicato nel tempo; sembra che alcune madri non solo abbiano capacità limitate nel godere delle potenzialità adattive di questi oggetti, ma sperimentino addirittura la complicazione del loro naturale adattamento alla perdita, che mancherebbe dell’oscillazione necessaria per avere esito favorevole (Goldstein et al., 2020).

All’interno della coppia, le donne risultano essere maggiormente travolte dalle emozioni intense scatenate dalla perdita, che manifestano principalmente con episodi di pianto sia da sole che in presenza di amici e familiari, del cui supporto, a differenza del partner, facilmente si avvalgono (Williams & Nikolaisen, 1982; Carroll & Shaefer, 1993; Irizarry & Willard, 1999). Inoltre, nelle donne è spesso presente il desiderio precoce di una successiva gravidanza, tanto da sovrastimare quello del partner, il quale invece per lo più accompagna un più contenuto desiderio di paternità al timore di avere un altro figlio; tendenza inversa invece riguarda il bisogno di intimità sessuale, accresciuto dopo la perdita nei padri e ridotto per la maggior parte delle madri (Irizarry e Willard, 1999).

A fare da sfondo al lutto da SIDS è infine il senso di colpa, enfatizzato dalla mancanza di una chiara spiegazione medica, che alimenta nella famiglia la costante ricerca di una causa (Raphael, 1983). Le madri riportano frequentemente il tema dell’autocolpevolizzazione, che però non è risultata correlata alla causa della morte, né a fattori di rischio modificabili, né alla loro comprensione da parte dei genitori; l’ipotesi avanzata è che possa trattarsi di una caratteristica normale del lutto dopo una morte infantile, che in tal modo smetterebbe di essere un evento casuale e risulterebbe per la persona più facile da controllare e da affrontare (Garstang, Griffiths & Sidebotham, 2016).

La quantità di studi principalmente incentrati sul vissuto femminile consente di osservare una notevole sproporzione, che rende necessaria la conduzione di studi incentrati anche sulle esperienze paterne, che legittimi maggiormente il dolore conseguente a questa perdita e fornisca le basi per un supporto sintonizzato anche sulle specifiche esigenze maschili.

 

Disturbo antisociale: che ruolo hanno l’empatia e la teoria della mente?

Il disturbo antisociale di personalità (ASPD) fa parte del cluster B dei disturbi di personalità; gli individui con questo disturbo manifestano impulsività, violazioni continue delle leggi e mancanza di rimorso nei confronti degli altri e delle relazioni interpersonali (American Psychiatric Association, 2013). 

 

 La prevalenza del disturbo antisociale va dallo 0.2% al 3%, con una maggioranza di individui con questo disturbo di genere maschile (American Psychiatric Association, 2013).

Gli individui con questo disturbo possono manifestare comportamenti manipolativi con il fine di sfruttare e strumentalizzare gli altri; infatti, posseggono una consapevolezza ed un controllo emotivo scarsamente sviluppati, con ridotte capacità relazionali ed empatiche (Mehmet E. Sardoğan, 2006).

La teoria della mente

L’empatia si riferisce alle capacità emozionali ed alle abilità cognitive che permettono di capire i sentimenti e le prospettive altrui; la prima componente riflette la capacità di sentire le emozioni degli altri e di reagire appropriatamente ad esse, mentre la componente cognitiva dell’empatia permette agli individui di capire le emozioni degli altri; infatti il primo step dell’empatia cognitiva riguarda l’abilità di comprendere lo stato emotivo degli altri semplicemente basandosi sulle espressioni facciali (Hall & Schwartz, 2019). Il meccanismo neurale più rilevante, sottostante a questa capacità, vede come protagonista l’attività svolta dall’amigdala ed il suo collegamento con gli occhi, che svolgono il ruolo più importante nel riconoscimento delle espressioni facciali emotive (Buchanan et al., 2000). Uno degli strumenti maggiormente utilizzati per testare l’abilità di riconoscimento delle espressioni facciali è la “Reading the Mind in the Eyes” (RMET) nel contesto della teoria della mente. La teoria della mente comprende una componente di cognizione sociale per il riconoscimento delle emozioni e dell’empatia ed è definita come l’abilità cognitiva di interpretare gli stati mentali degli altri (Yildirim et al., 2011).

Vari studi hanno riportato una carenza nelle abilità empatiche dovuta ad uno sviluppo immaturo o inadeguato della teoria della mente, negli individui con disturbo antisociale di personalità nonché negli individui con un disturbo psicopatico di personalità (Blair et al., 1996).

Inoltre è stata riportata, per entrambi i disturbi, una difficoltà nel riconoscimento delle espressioni facciali che riguardano la paura e la tristezza (Contreras-Rodríguez et al., 2014; Meffert et al., 2013).

L’alessitimia è caratterizzata da una difficoltà per l’individuo a nominare, riconoscere e regolare le sue emozioni. Inoltre, limita le abilità di comprensione dei sentimenti altrui e le abilità di sviluppare delle relazioni interpersonali; per questo si presume esista una relazione tra basse abilità empatiche ed alessitimia. E’ interessante notare che gli individui con un disturbo antisociale sono risultati avere anche alti livelli di alessitimia (Grynberg et al., 2010).

Disturbo antisociale, empatia e alessitimia

Uno studio condotto recentemente (Kılıçaslan et al., 2022) ha indagato le differenze in alessitimia, empatia e teoria della mente, tra 43 pazienti con una diagnosi di disturbo antisociale di personalità e 43 individui senza diagnosi di disturbi psichiatrici.

Dallo studio è emerso che gli individui con un disturbo antisociale risultano avere ridotte capacità nella teoria della mente, posseggono basse abilità empatiche, esprimono più sintomi depressivi ed inoltre, riportano alti livelli di alessitimia e di impulsività (Kılıçaslan et al., 2022).

Studi precedenti hanno confermato la relazione tra disturbo antisociale di personalità e difficoltà nell’ambito del riconoscimento delle espressioni facciali di paura e tristezza (Contreras-Rodríguez et al., 2014; Meffert et al., 2013).

 Lo studio in questione (Kılıçaslan et al., 2022) ha mostrato nei pazienti con diagnosi di disturbo antisociale, sia una ridotta capacità empatica, sia una difficoltà nel riconoscimento e nel rispetto di sentimenti e problemi altrui. Inoltre, abilità maggiori nella teoria della mente sembrano essere associate a maggiori livelli di empatia, confermando le ricerche che già precedentemente avevano riscontrato un’associazione tra alti livelli di empatia e facilità nell’interpretazione delle espressioni facciali e dei movimenti corporei altrui (Yildirim et al., 2011).

Inoltre, dallo studio (Kılıçaslan et al., 2022) è emerso anche che i pazienti con diagnosi di disturbo antisociale manifestavano alti livelli di alessitimia rispetto al gruppo di controllo sano. In realtà, gli alti livelli di alessitimia sono stati associati in generale ai disturbi di personalità (Coolidge et al., 2013) e già un precedente studio aveva riportato l’associazione tra alessitimia e disturbo antisociale (De Rick & Vanheule, 2007). Inoltre, la correlazione tra impulsività ed alessitimia riscontrata nello studio è a sostegno degli studi precedenti (De Rick & Vanheule, 2007). Infatti, la difficoltà nell’esprimere e nell’elaborare verbalmente le emozioni, gioca un ruolo importante nell’espressione dei comportamenti aggressivi inappropriati, soprattutto in caso di disturbo di personalità (De Rick & Vanheule, 2007).

Dallo studio è emerso anche che al diminuire dei livelli di empatia aumentavano sia i livelli di alessitimia che quelli dell’impulsività; questo dato suggerisce che l’empatia sia collegata sia alle capacità di espressione/riconoscimento delle emozioni sia ai comportamenti di impulsività che includono gesti aggressivi o antisociali (Kılıçaslan et al., 2022).

In conclusione, programmi terapeutici mirati ad aumentare le capacità di teoria della mente, l’empatia e la verbalizzazione delle emozioni, potrebbero portare a dei miglioramenti nelle abilità interpersonali e nella gestione dell’impulsività nei pazienti con disturbo antisociale.

 

Le conversazioni tra caregiver e bambino: l’influenza sulla memoria autobiografica

La memoria autobiografica viene appresa attraverso le interazioni con gli adulti e quindi nella relazione bambino-caregiver.

Lo sviluppo della memoria autobiografica

 Numerose ricerche sono state condotte nell’ambito sia della prospettiva dell’attaccamento sia degli studi sulla memoria e hanno indagato lo sviluppo del linguaggio all’interno della diade bambino-caregiver.

Durante l’infanzia lo sviluppo della memoria autobiografica avviene attraverso una sorta di “collaborazione sociale” tra gli adulti e il bambino, il linguaggio consente al bambino di mettere in parole le proprie esperienze, di narrarle a se stesso e agli altri.

La rappresentazione mnemonica del bambino è influenzata dalla capacità dello stesso di discutere un evento quando esso accade e dalla modalità con cui ne discute con il caregiver: tali caratteristiche influenzano la modalità con cui tale evento viene rappresentato.

Il bambino internalizzerebbe la struttura narrativa delle conversazioni condivise e le utilizzerebbe per guidare il proprio richiamo delle esperienze significative precedenti.

Tali conversazioni tra bambino e genitori vengono considerate cruciali per il processo di sviluppo della memoria autobiografica, conversazioni dette “memory talk” (Farrar et al., 1997).

La teoria dell’attaccamento può quindi costituire una cornice per un esame più dettagliato del legame tra la relazione bambino-genitore e lo sviluppo della memoria autobiografica.

I Modelli Operativi Interni (MOI) sono regole che guidano non solo i comportamenti e le intenzioni, ma anche l’attenzione (Marschark et al., 1987).

Numerose ricerche hanno ipotizzato che la natura delle memorie autobiografiche da una parte possa differire in funzione dei modelli operativi che riflettono la relazione di attaccamento, dall’altra sia un agente attivo nella costruzione di tali modelli (Main et al., 1985).

La comunicazione all’interno della diade bambino–caregiver, quindi, svolge il ruolo fondamentale non solo di scambio di informazione e di mantenimento della relazione, ma anche di creazione di una realtà condivisa; quindi le interazioni genitore-bambino, in generale, e le conversazioni diadiche tra essi, in modo più specifico, costituiscono un importante contesto di sviluppo (Laible, 2004).

Le conversazioni riguardanti gli stati interni come, ad esempio, emozioni, desideri e valutazioni rivestono un ruolo importante nello sviluppo di competenze socio-cognitive, tra cui la teoria della mente (Adriàn et al., 2007), la competenza emotiva (Taumoepeau et al., 2006), i comportamenti pro-sociali e le relazioni positive, oltre ad una maggior comprensione di sé (Reese et al., 2007).

Raccontare ricordi ed esperienze vissute assieme, pratica chiamata reminiscing, migliora nel bambino la memoria autobiografica e la competenza emotiva.

È importante notare come le conversazioni siano favorite dallo sviluppo della competenza linguistica e narrativa del bambino che gli permettono di narrare e organizzare le proprie memorie, imparando forme adeguate per raccontare la propria esperienza e per rappresentarla a se stesso.

Il linguaggio, quindi, nel bambino è utile per la costruzione delle proprie relazioni interpersonali e ha un’altra funzione essenziale: nel caso in cui i processi di deformazione e di esclusione difensiva divengano pervasivi, “il linguaggio serve a distorcere la comunicazione e a creare discordanze e confusioni” (Bretherton, 1993).

Memoria autobiografica e stile di attaccamento

Guardando alla relazione tra attaccamento e memoria autobiografica possiamo vedere come questa sia bidirezionale, se per un lato l’attaccamento influenza i tipi di conversazioni che genitori e bambino hanno rispetto al passato, dall’altro queste conversazioni e altri pattern interattivi e comunicativi possono a loro volta contribuire allo stabilizzarsi della relazione di attaccamento (Farrar et al., 1997).

 Tra le numerose ricerche sul legame tra stile di attaccamento e memoria autobiografica, una in particolare ha messo in luce come persone con stili di attaccamento differenti ricordino in maniera più specifica episodi conformi alle proprie relazioni con i caregiver rispetto ad episodi divergenti (Koh-rangarajoo et al., 1991).

I modelli operativi, quindi, oltre a selezionare le informazioni, influenzano l’accesso all’informazione da richiamare.

Questa ricerca, inoltre, evidenzia come la memoria autobiografica sia una capacità appresa attraverso le interazioni con gli adulti, e quindi, anche le strategie della memoria siano acquisite in tal modo e soggette a tali variazioni.

La ricchezza della conoscenza di sé e le narrative autobiografiche sembrano quindi essere mediate dai dialoghi interpersonali con cui vengono co-costruite le narrative sugli eventi esterni e sull’esperienza soggettiva interna (Siegel, 1999).

Ricerche nell’ambito dell’attaccamento hanno mostrato che il modo con cui i genitori raccontano le proprie esperienze infantili è predittivo del modello di attaccamento che il figlio mostrerà intorno al secondo anno di età.

La struttura della narrazione permette di prevedere la capacità di un adulto di sviluppare un sano legame di attaccamento con il proprio figlio.

Le memorie autobiografiche, quindi, si esprimono attraverso le conversazioni e sono forgiate dalle stesse (Hirst e Manier et al., 1995).

Guardando a queste ricerche, emerge come i dialoghi e le esperienze con i caregiver abbiano un ruolo cardine nella co-costruzione delle narrative sugli eventi autobiografici; inoltre, le stesse esperienze di attaccamento influenzano la propria storia autobiografica.

L’evento che poi diventa ricordo dell’evento è filtrato dalla memoria, dalla fantasia, da fattori emotivi e cognitivi che determinano la loro elaborazione e utilizzazione nella vita.

Non si può non tener conto che la sfumatura emotiva di un ricordo muta nel tempo e quindi, le emozioni del momento vanno poi a guidare la ricostruzione del ricordo.

Memoria autobiografica ed esperienze traumatiche

Appare doveroso chiedersi come le esperienze infantili di maltrattamento e abuso influiscono sulla memoria autobiografica e quali sono i possibili esiti del processamento di eventi traumatici.

Lo studio condotto da Brewin, Dalgleish e Joseph nel 1996 propone una teoria della rappresentazione duale di un evento traumatico: memorie accessibili verbalmente, narrative e richiamabili volontariamente, e memorie accessibili contestualmente, evocate automaticamente da stimoli ambientali. Secondo gli autori vi sono tre possibili esiti del processamento di un evento traumatico: un’integrazione completa, un cronico processamento del trauma oppure una prematura inibizione del processamento.

Nel processamento cronico la persona è permanentemente preoccupata per le conseguenze del trauma e per le memorie intrusive, presentando ciò che è definibile un cronico disturbo da stress post-traumatico.

L’inibizione cronica del processamento, invece, riguarda l’utilizzo, che col tempo diviene automatico, di strategie di evitamento di pensieri ed emozioni riguardanti il trauma: l’utilizzo di tali “schemi evitanti” può portare la persona a mostrare anche un evitamento fobico delle situazioni connesse al trauma e ad un danneggiamento della memoria (Brewin et al., 1996).

Traumi estremi possono, quindi, comportare deficit nella capacità di simbolizzare (trasformazione di materiale “rozzo” in simboli mentali a differenti livelli) e di mentalizzare (processo sottostante all’organizzazione della mente, riguarda la possibilità del soggetto di discernere i propri e altrui stati mentali identificandoli come rappresentazioni che sono distinte dalla realtà esterna e che influenzano in modo determinante il comportamento) (Fonagy e Target, 1997).

Questa ricerca mostra come il trauma costituisca una sorta di rottura temporale all’interno della soggettività della persona.

Le numerose ricerche tra il ruolo del trauma, soprattutto, in età infantile e la memoria autobiografica rimandano ad altrettante numerose domande che potrebbero essere affrontate partendo dall’interrogativo che Gabriele Garcia Marquez si pone nella sua biografia, ovvero: “…Non è forse vero che la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla?” (Garcia Marquez, 2002).

 

DBT skills nelle scuole (2019) – Recensione

Il libro “DBT skills nelle scuole – Skills training per la regolazione emotiva negli adolescenti” è rivolto ai professionisti della salute mentale, in quanto fornisce delle istruzioni specifiche per adattare il modello d’intervento della Dialectical Behavior Therapy (DBT) al contesto scolastico e promuovere un’educazione socio-emotiva negli adolescenti.

 

 L’adolescenza rappresenta una fase di vita in cui il ragazzo può sentire il bisogno di ricercare nuove sensazioni in modo estremo (sensation seeking). La sensation seeking muove l’adolescente a sperimentare e mettere in atto nuovi comportamenti, seppur a volte molto rischiosi, come: guidare non rispettando i limiti di velocità, abuso di alcool e droghe, uso problematico di smartphone, comportamenti sessuali a rischio e sexting. Inoltre, il passaggio all’adolescenza è associato a un aumento di sintomi internalizzanti, come depressione e ansia, ed esternalizzanti, come disturbi della condotta e abuso di sostanze, che hanno un impatto sulla salute fisica e mentale in età adulta.

Alla luce di ciò, un intervento utilizzato al fine di ridurre comportamenti a rischio è la DBT. La DBT è un trattamento cognitivo-comportamentale adatto a molteplici difficoltà che un individuo può riscontrare nel corso della sua vita, per esempio difficoltà legate alla regolazione emotiva, alle relazioni sociali, alla percezione di sé e agli atteggiamenti impulsivi. Questo programma di intervento viene utilizzato in ambito clinico con pazienti che presentano svariate problematiche psichiche, quali ad esempio: Disturbo Borderline di Personalità, Disturbo Bipolare, Disturbi dell’umore, Disturbo da Stress Post Traumatico, Disturbi Alimentari, Dipendenza da sostanze e comportamenti suicidari.

L’applicazione della DBT nelle scuole, su cui si basa il manuale, ha lo scopo di istruire gli insegnanti a riconoscere e gestire la disregolazione emotiva, identificare condotte disfunzionali e ridurre l’impulsività ai fini di prevenire comportamenti a rischio futuri. L’attenzione agli insegnanti è stata posta in quanto sono considerati figure di riferimento per via dell’abbondante numero di ore passate con gli alunni.

 Il libro viene suddiviso in tre parti. La prima parte presenta una panoramica della DBT SPETS-A, includendo aspetti pratici come la definizione degli esercizi, questionari inerenti alla riservatezza e norme relative alla frequenza (il programma si compone di 30 lezioni a cadenza settimanale). Inoltre, vi è anche un approfondimento sull’insegnamento di queste tecniche rivolto a studenti difficili. La seconda parte riporta 30 lezioni in cui vengono presentate le diverse abilità della DBT, includendo tutti i test e le relative soluzioni. Infine, nella terza parte sono presenti una serie di schede che possono essere svolte sia a casa sia in classe. Questo programma (DBT STEPS-A) è rivolto a studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, l’obiettivo è insegnare abilità pratiche per la gestione delle emozioni, riducendo i comportamenti impulsivi e mantenendo relazioni sociali soddisfacenti. Inoltre, questa tipologia di trattamento ha avuto risultati positivi in termini preventivi, soprattutto nel ridurre il numero di studenti con difficoltà emotive diagnosticate.

Poiché la salute mentale e quella psichica influenzano le capacità di apprendimento e il rendimento scolastico dei ragazzi è opportuno strutturare degli interventi in un’ottica preventiva. A tale scopo, questo manuale è utile perché prevede un coinvolgimento degli studenti a 360 gradi, i quali possono applicare quanto appreso in diversi contesti di vita. Inoltre, tali abilità possono rivelarsi utili non solo a breve, ma anche a lungo termine.

In conclusione, questo libro risulta essere uno strumento valido per gli insegnanti in quanto fornisce delle linee guida precise per l’applicazione del programma DBT STEPS-A.

Si ritiene, infine, che insegnanti con un’adeguata formazione saranno in grado di segnalare i casi più gravi che necessitano di un supporto psicoterapico individuale.

Euristiche e comportamento politico di massa

Nel corso degli anni le euristiche sono diventate un concetto centrale nello studio del comportamento politico.

Introduzione

 Il termine euristica deriva dal greco antico heuriskein, che significa “scoprire”. Tuttavia, nella maggior parte dei contesti una descrizione più appropriata sarebbe “scoperta per mezzo di scorciatoie” (Steenbergen e Colombo, 2018). Le euristiche sono, quindi, scorciatoie (cognitive) che permettono agli individui di eludere una grande quantità di informazioni producendo un risultato sotto forma di giudizio o scelta.

La rassegna della letteratura operata da Steenbergen e Colombo (2018) amplia la nostra comprensione del modo in cui le euristiche influiscono nel processo decisionale e fornisce nuovi spunti di riflessione sulle distorsioni nell’elaborazione delle informazioni in ambito politico.

Le euristiche nella democrazia elettorale

Nelle democrazie, ai cittadini viene chiesto abitualmente di prendere decisioni complesse. Nelle elezioni, sono chiamati a scegliere tra un ventaglio di candidati/partiti, ognuno dei quali presenta il proprio curriculum. L’elenco delle euristiche nella ricerca elettorale è lungo e coinvolge il sesso, l’occupazione del candidato, la classe, i consensi, i tratti somatici, l’ideologia, la partigianeria, i dati dei sondaggi, i principi politici, la religione e le reti sociali. L’idea generale è che tutte queste euristiche contengano informazioni rilevanti che aiutano gli elettori a decidere quale partito o candidato riceverà il loro voto. Possono farlo direttamente o indirettamente, facilitando le inferenze sui candidati e sui partiti che, a loro volta, informano la scelta di voto.

Probabilmente l’euristica più ampiamente studiata è la partigianeria. Conoscere l’affiliazione ad un partito di un candidato agisce come uno stereotipo che fornisce agli elettori tutte le informazioni necessarie per votare senza la necessità di conoscere altre posizioni o caratteristiche politiche del candidato. L’uso di tali indicazioni può quindi semplificare un ambiente sociale complesso come quello delle elezioni, i cui costi informativi in termini di tempo e sforzo degli elettori sono elevati e talora vi è una grande incertezza sulla reale posizione dei candidati e dei partiti (Nicholson, 2012).

Una seconda euristica ampiamente studiata è l’ideologia. Invece di dover conoscere le posizioni dei partiti su questioni che vanno dall’aborto al virus Zika, è sufficiente conoscere le etichette ideologiche dei partiti. Conover e Feldman (1989) hanno rilevato che gli elettori deducono dall’ideologia le posizioni specifiche sui temi, mentre Lau e Redlawsk (2006) hanno osservato l’uso dell’ideologia di un candidato (liberale o conservatore) come scorciatoia per la scelta di voto. Come per la partigianeria, il ruolo dell’ideologia come euristica non è puramente cognitivo. I partiti e le ideologie definiscono le identità sociali e come tali comportano anche elementi affettivi (Devine 2015). Pertanto, la semplice esperienza di un affetto positivo per il gruppo partitico o ideologico può essere sufficiente a ridurre la necessità di reperire ulteriori informazioni.

La classe e la religione possono essere considerate altre euristiche elettoralmente rilevanti, almeno in certi ambienti. In Gran Bretagna, c’è stato un tempo in cui il voto di partito si allineava alla classe sociale (Butler e Stokes, 1971) ed è logico che la religione giochi un ruolo ancora più importante in luoghi con partiti religiosi, come la Turchia per esempio. Oltre a questi aspetti, esistono altre euristiche che possono aiutare gli elettori a trarre inferenze e a prendere decisioni. In precedenza, Todorov e colleghi (2005) avevano dimostrato che le persone deducono automaticamente la competenza di un candidato dal suo volto. Anche gli endorsement di persone o gruppi politici importanti possono servire da spunto (Arceneaux e Kolodny, 2009). Gruppi o personalità fidate, che condividono i valori e gli interessi politici dell’elettore, possono inviare segnali credibili che permettono di decidere sui candidati senza considerare nel dettaglio le loro posizioni politiche. L’elettore deve sapere solo due cose: quale candidato appoggia un particolare gruppo o personalità e il proprio atteggiamento nei confronti di quella fonte (Lau e Redlawsk, 2001).

Le euristiche nella democrazia diretta

 Se la democrazia elettorale è impegnativa, sembra che la democrazia diretta lo sia ancora di più. Dopo tutto, richiede ai cittadini di decidere su politiche specifiche e spesso piuttosto complesse, che poi diventano legge. In generale, diverse caratteristiche del processo democratico diretto aiutano a strutturare la scelta e a fornire scorciatoie essenziali (Boudreau e MacKenzie, 2014). In primo luogo, il compito decisionale viene solitamente semplificato presentando agli elettori domande binarie “sì” e “no” su proposte specifiche (Kriesi, 2005). In secondo luogo, gli elettori ricevono tipicamente una serie di materiali informativi dalle autorità competenti. Infine, durante le campagne di democrazia diretta, gli stakeholder presentano le loro posizioni e argomentazioni. In tal modo, forniscono agli elettori informazioni politiche dettagliate e spunti euristici.

Una delle strategie più semplici a disposizione degli elettori è l’euristica dello status quo, cioè la preferenza per lo stato attuale delle cose (Samuelson e Zeckhauser, 1988). Nelle campagne democratiche dirette, ciò significa votare contro le proposte di riforma e le nuove politiche. Il fenomeno ampiamente osservato che il fronte del “no” tende a guadagnare terreno nel corso delle campagne referendarie è almeno in parte attribuibile al pregiudizio dello status quo. Come per le elezioni, i partiti politici inviano spunti che possono aiutare gli elettori a decidere. In questo contesto, gli spunti da parte dei partiti significano affidarsi ai consigli di voto del partito a cui ci si sente più vicini (Boudreau e MacKenzie, 2014).

Conclusioni

Da quanto emerso nella rassegna, si potrebbe affermare che le euristiche riflettono una certa routine. Gli elettori si affidano alla loro appartenenza partitica, ad esempio, perché in genere è utile. Non c’è motivo di interrompere la routine finché questa produce risultati soddisfacenti. La routinizzazione può essere così avanzata che l’euristica è diventata parte della memoria procedurale, senza richiedere alcuno sforzo alla memoria di lavoro. In questo caso, abbiamo a che fare con risposte automatiche situate al di sotto del radar della consapevolezza cosciente (Lodge e Taber, 2013) e che potrebbero persino essere cablate nel nostro cervello come parte dell’evoluzione umana.

 

Il “marinaio perduto”: la sindrome di Wernicke-Korsakoff

La sintomatologia clinica della Sindrome di Wernicke-Korsakoff riguarda innanzitutto le funzioni mnestiche: quadri di amnesia di tipo anterograda e retrograda, a cui si associa anosognosia, ovvero l’assenza di consapevolezza del problema.

Luca Oppo – OPEN SCHOOL 

 

Egli è, per così dire, scrissi nei miei appunti, isolato in un singolo momento dell’esistenza, con tutt’intorno un fossato, o lacuna di smemoratezza…è un uomo senza passato (e senza futuro), bloccato in un attimo sempre diverso e privo di senso (Sacks, 1986).

 Così Oliver Sacks, nella sua famigerata opera “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” del 1986, descrive ai lettori l’affascinante quanto drammatica figura di Jimmie, ex marinaio 49enne affetto da una particolare malattia che lo costringe a vivere un presente di 30 anni prima: la Sindrome di Wernicke-Korsakoff (WKS).

Introduzione

Scoperta nel ’87 dall’omonimo neuropsichiatra russo, Sergei Sergeivich Korsakoff, la Sindrome di Wernicke-Korsakoff è una malattia neurodegenerativa del Sistema Nervoso, composita e multifattoriale, caratterizzata dalla contemporanea presenza di due disturbi tra loro correlati: l’Encefalopatia di Wernicke (EW) e la Sindrome di Korsakoff (SK), definita anche come sindrome alcolica cronica o stato amnesico confusionale di Korsakoff (Simonetti, Gavazzi; 2006).

L’Encefalopatia di Wernicke è caratterizzata da sintomi primari come uno stato confusionale acuto, perdita di coordinazione muscolare (atassia) e di deambulazione, nistagmo e oftalmoplegia (movimenti ritmici involontari degli occhi e paralisi muscolare del bulbo oculare) (Wernicke, 1881; Thomson, 2008).

La sindrome alcolica di Korsakoff è invece caratterizzata da gravi disturbi delle funzioni mnestiche, instabilità emotiva e apatia, modifiche della personalità e confabulazione (Arts et al; 2017).

Entrambi i quadri, a livello organico, presentano come fattore causale portante una carenza di Vitamina B1 (o Tiamina, Aneurina), nutriente contenuto in differenti alimenti di origine animale e vegetale (legumi, cereali, fegato, lievito di birra). La Tiamina costituisce un elemento importante nell’attività dei neutrotrasmettitori (tra cui il GABA, inibitore sul nostro Sistema Nervoso), dell’apparato digerente e cardio-circolatorio (Kopelman et al; 2009), e di conseguenza la presenza di un deficit di tale sostanza porta a compromissioni importanti a livello funzionale ed esecutivo (Cabanyes; 2004).

Sebbene nei primissimi studi a riguardo, Korsakoff non mise in relazione le due condizioni, gli studi effettuati nella prima metà del ‘900 su un campione animale e gli studi effettuati da De Wardener e Lennox sui prigionieri bellici in condizione di denutrizione prolungata (Ibidem; 1947), permisero di metterle in correlazione, e per questo motivo ad oggi i due quadri vengono rappresentati lungo un continuum sintomatologico. L’80-85% dei pazienti affetti da Encefalopatia di Wernicke nel tempo sviluppa la Sindrome di Korsakoff, mentre il 100% dei pazienti affetti dalla suddetta psicosi presentano Encefalopatia. Tale condizione è frequentemente correlata all’alcolismo cronico (Harper et al; 1989), sebbene l’abuso di sostanze alcoliche non sia l’unico fattore di rischio (Scalzo; 2015).

Infine, a livello neuronale, implica una lesione a livello delle strutture centrali, quali nucleo medio dorsale del talamo, corpi mammillari (ipotalamo) e ippocampo; tali aree sono legate alle funzioni mnestiche, di regolazione emotiva e comportamentale (Cabanyes; 2004).

Fattori di rischio e incidenza della Sindrome di Wernicke-Korsakoff

La Sindrome di Wernicke-Korsakoff, come riporta la letteratura scientifica internazionale, presenta una maggiore incidenza nei paesi ad oggi in via di sviluppo: i fattori di rischio sono nello specifico legati alla dieta alimentare locale di tali paesi, caratterizzata da carenza di apporto di Tiamina, consumo di alimenti ricchi di Tiaminasi, utilizzo di riso brillato (Maurice et al; 1989). All’interno dei paesi industrializzati viene segnalata invece un’incidenza minore rispetto ai sopracitati; tuttavia sono stati svolti numerosi studi a riguardo, che hanno individuato una condizione causale di una rilevante incidenza di Sindrome di Wernicke-Korsakoff: l’alcolismo cronico (Kopelman, 2009; Zuburban, 1997; Martin, 2003).

In tali pazienti, la carenza si sviluppa a causa dell’influenza negativa della sostanza alcolica sull’assorbimento del nutriente, di cui impedisce la conversione nella forma utile all’organismo; i motivi possono essere molteplici, in quanto il consumo di alcol influenza e interferisce con la Tiamina in diversi modi: in primis inibisce e altera la sensazione di fame e sazietà, portando un alimentazione irregolare e priva di possibili nutrienti essenziali, come la Vitamina B1. Infine, l’alcol produce come conseguenza l’infiammazione delle pareti dello stomaco, scatenando effetti collaterali come il vomito, che a sua volta ostacola l’assorbimento da parte dell’intestino tenue (Simonetti et al, 2006; Ijaz et al, 2018). Alcuni studi evidenziano che il 12-14% degli alcolisti svilupperebbe questa patologia (Harper et al; 1989).

Quadro sintomatologico e diagnosi della Sindrome di Wernicke-Korsakoff

La sintomatologia clinica della Sindrome di Wernicke-Korsakoff riguarda innanzitutto le funzioni mnestiche: il paziente Korsakoviano presenta quadri di amnesia di tipo anterograda e retrograda, che si esplicano rispettivamente nella difficoltà ad immagazzinare e apprendere nuove informazioni, al fine di formare nuovi ricordi, e nel recuperare ricordi precedenti all’esordio di malattia (Harper et al; 1989). A fianco di questo, i soggetti presentano anosognosia, ovvero l’assenza di consapevolezza del problema (Cabanyes; 2004).

 In secondo luogo, si presenta il fenomeno della confabulazione, che consiste nella creazione di ricordi non autentici; tali pazienti trasformano non consapevolmente i contenuti della memoria, fino a sostituire l’assenza di informazioni/ricordi con informazioni confuse e irreali, fino ad una produttività fantastica di stampo psicotico. A tal ragione, la Sindrome di Wernicke-Korsakoff è stata descritta a volte come psicosi di Korsakoff (Zubaran et al, 1997). Lo stesso neuropsichiatra osservò che in pazienti alcolisti, in stato di amnesia, venivano prodotti dei falsi ricordi, pseudo reminiscenze mnestiche estremamente dettagliate legate a fatti mai accaduti (Thomson; 2008). Viene però specificato in letteratura che non tutti i pazienti amnesici confabulano, per cui la gravità dell’amnesia e della confabulazione non correlano positivamente; la spiegazione sarebbe nella motivazione, che solo alcuni presentano, di colmare i vuoti mnestici e mascherare l’incapacità a rispondere in maniera pertinente e aderente alla realtà dei fatti (Kopelman, 2009).

Questi pazienti sono caratterizzati da un forte stato di confusione mentale, poiché vivono quotidianamente il conflitto di dover accettare come vere due serie di informazioni contemporaneamente sul medesimo episodio (episodio passato reale e episodio immaginario di copertura), vivendo conseguentemente uno stato di disorientamento (Arts et al; 2017).

Sono presenti infine correlati sintomatologici, quali instabilità emotiva, cambiamenti repentini di personalità e apatia (Arts et al; 2017). Viene segnalata, inoltre, la perdita di alcune competenze legate alla teoria della mente: il riconoscimento e la lettura dello stato emotivo e del pensiero altrui sembra scomparire (Brion, 2017).

Il trattamento della Sindrome di Wernicke-Korsakoff

Al fine di poter compiere una diagnosi precisa ed accurata, è necessario effettuare una valutazione sia a livello fisiologico, cognitivo e psichiatrico.

Il trattamento può essere suddiviso su più livelli. Il trattamento principale riferito all’Encefalopatia di Wernicke consiste nella somministrazione di Tiamina; questo permette un beneficio, sebbene la guarigione sia spesso incompleta se il trattamento non viene iniziato tempestivamente (Day et al;2004). Nonostante questa tipologia di trattamento infatti, solo il 25% dei pazienti Korsakoviani presenta una remissione dei sintomi, mentre il 50% mostra un miglioramento graduale e il 25% rimane invariato (Kopelman, 2009).

Ad esso possono essere affiancati strategie ed esercizi cognitivi e appositi training, volti ad allenare le competenze mnestiche e minimizzare gli effetti negativi sul cervello (Oudman et al, 2015; Svanberg et al,2013), oltre ad un’apposita terapia farmacologica (Gerridzen et al; 2014).

 

La relazione tra stili di pensiero negativi e disfunzioni sessuali – PARTECIPA ALLA RICERCA

Quando si parla di disfunzioni sessuali ci si riferisce a diverse anomalie nel processo che sottende il ciclo di risposta sessuale o al dolore associato al rapporto.

 

 Tali disfunzioni possono interessare sia gli uomini sia le donne ed in alcuni casi possono avere un’origine organica, ma molto più spesso hanno origine di natura psicologica.

La letteratura scientifica negli ultimi anni ha messo in luce una stretta relazione tra le disfunzioni sessuali e i disturbi d’ansia e dell’umore.

Il DSM 5 ha suddiviso le disfunzioni sessuali in varie categorie a seconda della fase del ciclo di risposta sessuale nella quale si manifestano, tenendo conto però del fatto che non si tratta di fasi così rigidamente scansionabili, ma più fluide e interconnesse.

Le disfunzioni sessuali femminili

Per quanto riguarda le disfunzioni sessuali femminili la letteratura ha messo in risalto i seguenti disturbi:

  • Disturbo del desiderio e dell’eccitazione femminile;
  • Disturbo dell’orgasmo femminile;
  • Disturbo da dolore genito-pelvico e della penetrazione.

Tali disturbi si caratterizzano per alterazioni del desiderio, dell’eccitazione sessuale e del raggiungimento dell’orgasmo e possono variare sulla base di numerosi fattori quali l’età, la salute, lo stato ormonale della donna e le sue esperienze sessuali. Perché si possa diagnosticare il disturbo, il DSM-5 definisce la necessità che le condizioni suddette siano presenti da almeno 6 mesi.

All’interno del disturbo da dolore genito pelvico e della penetrazione, rientrano disturbi specifici come la vulvodinia, una sindrome complessa e multifattoriale che colpisce circa il 16% della popolazione femminile (Harlow et al., 2014), caratterizzata da disagio vulvare spesso descritto come bruciore/dolore, che si verifica in assenza di rilevanti cause osservabili.

Rispetto agli schemi cognitivi, ossia l’insieme delle credenze, aspettative e convinzioni che si possiedono sulla sessualità, la letteratura ha messo in luce che nelle donne con disfunzioni da dolore sessuale vi è un’attivazione significativamente maggiore di schemi cognitivi negativi con un minor coinvolgimento affettivo, evitamento dell’intimità e livelli più elevati di ansia anticipatoria rispetto all’intimità (Oliveira et al., 2013).

Le disfunzioni sessuali maschili

Per quanto riguarda le disfunzioni sessuali maschili il DSM-5 descrive i seguenti disturbi:

  • Disturbi dell’eiaculazione, ulteriormente suddivisi in eiaculazione precoce, eiaculazione ritardata e aneiaculazione;
  • Disturbo erettile;
  • Disturbo del desiderio sessuale ipoattivo maschile.

Tali disturbi, diagnosticabili se presenti da almeno 6 mesi, si caratterizzano per problematiche di vario genere relative ad alterazioni del normale processo eiaculatorio o al raggiungimento e al mantenimento dell’erezione.

L’ incidenza di tali disturbi aumenta con l’età e può manifestarsi in comorbilità con altre disfunzioni o problematiche psicologiche.

Da un’analisi della letteratura si evince come stress eccessivo, ansia e depressione incidano sulle disfunzioni sessuali maschili. L’ansia, tra queste, sembra essere la componente intrapsichica più comune nella disfunzione sessuale maschile.

Disfunzioni sessuali e metacognizione

Lo studio del collegamento tra l’ansia e gli aspetti metacognitivi ha permesso di sottolineare come la metacognizione giochi un ruolo rilevante nei pazienti con disfunzioni sessuali, sia rispetto alle metacredenze positive che negative (Bagcioglu et al., 2012).

 Modelli cognitivi di tipo rimuginativo peggiorerebbero gli stati interni, riducendo l’eccitazione sessuale, spingendoli a distaccarsi dalle sensazioni corporee ed ostacolando di conseguenza il normale funzionamento sessuale. Sembrerebbe dunque il che pensiero perseverante, le strategie di controllo del pensiero e le convinzioni metacognitive possano svolgere un ruolo chiave nell’insorgenza e nel mantenimento della disfunzione sessuale maschile (Caselli G. et al., 2016).

Lo studio condotto da Studi Cognitivi si pone l’obiettivo di indagare in modo specifico la correlazione tra stile di pensiero negativo e disfunzioni sessuali maschili e femminili secondo la classificazione del DSM 5, con lo scopo di arricchire la letteratura scientifica sull’argomento e apportare un miglioramento nel trattamento di chi soffre di questa condizione. La partecipazione alla ricerca comporta la compilazione di alcuni questionari che non dovrebbe richiedere più di 10 minuti.

Tutti i dati saranno trattati in forma anonima e riservata. Se in qualsiasi momento desidera ritirarsi dalla partecipazione, può semplicemente chiudere il browser e i dati non verranno raccolti.

Le saremmo grati se potesse aiutarci con il nostro progetto e se inoltrasse questo link a colleghi, amici e/o familiari per raggiungere quante più persone possibile.

La ringraziamo anticipatamente per il suo tempo.

PER PARTECIPARE ALLA RICERCA:

CLICCA QUI none

 

 

Il fenomeno della co-ruminazione nei bambini e negli adolescenti

Secondo un circolo vizioso, parlare in modo perseverativo dei propri problemi produrrebbe maggiori sintomi internalizzanti e rapporti interpersonali più intimi, che a loro volta porterebbero a maggiore co-ruminazione.

Cos’è la co-ruminazione

 Una credenza diffusa nell’immaginario comune è che parlare dei problemi personali faccia sentire meglio; in effetti, cercare supporto sociale aumenta il nostro benessere psico-fisico (Schwartz-Mette et al., 2020; Taylor, 2011). Se portato all’estremo, però, condividere le difficoltà in maniera ripetitiva con l’altro può diventare problematico (Rose, 2021). In psicologia, questo stile di comunicazione viene detto “co-ruminazione” e configura il discutere eccessivamente dei propri problemi con un interlocutore, con il quale ripetere più volte le stesse questioni, incoraggiarsi a vicenda ad approfondirle e soffermarsi su sentimenti negativi (Rose, 2002).

La maggior parte della letteratura sull’argomento è basata sugli studi sulla ruminazione, definita come uno stile di pensiero ripetitivo in cui l’individuo, con lo sguardo rivolto al passato, si sofferma sugli stati negativi interni e sulle loro conseguenze negative. Fra gli adulti, essa è spesso legata alla depressione o ad altri sintomi internalizzanti (Nolen-Hoeksema, 1991), dal momento in cui le persone che ruminano hanno difficoltà a lasciare andare i propri pensieri (Koster et al., 2011). Pochi studi, tuttavia, si sono spinti a indagare questo costrutto nella popolazione infantile e adolescenziale, ed è da questa lacuna nella letteratura che ha preso le mosse la revisione di Rose (2021). Partendo dalla premessa che la ruminazione spesso non basta a se stessa, perché cercare supporto nella condivisione con l’altro delle proprie turbe aumenta la sensazione di benessere, la domanda di ricerca è stata pensata come segue: anche fra bambini e adolescenti si verifica un modo di parlare dei propri problemi che risulta perseverativo e maladattivo?

Costi e benefici del circolo vizioso della co-ruminazione

Come la ruminazione, la co-ruminazione nelle relazioni amicali è legata allo sviluppo di sintomi internalizzanti (Hankin et al., 2010; Rose et al., 2014); entrambi i processi cognitivi condividono lo stesso focus perseverativo e negativo. Tuttavia, diversamente dalla prima, la seconda presenterebbe anche una componente di tipo sociale. Si parte dal presupposto che la rivelazione di sé è una caratteristica centrale nelle amicizie infantili e, ancor di più, in quelle adolescenziali (Rose e Rudolph, 2006), dove i pari diventano le principali risorse di supporto sociale (Rose, 2021). Confidarsi e aprirsi all’altro a proposito di questioni personali veicola fiducia e permette all’amico di offrire sostegno, promuovendo relazioni interpersonali di maggior qualità e vicinanza (Rose et al., 2016). Ma se la co-ruminazione comporta la rivelazione all’altro di parti di sé, allora essa è legata alla formazione di relazioni amicali inevitabilmente più intime (Felton et al., 2019; Rose et al., 2007).

 Per questi motivi, la co-ruminazione porterebbe con sé sia dei benefici sociali sia dei costi emotivi dati dalle simultanee associazioni con un positivo adattamento sociale, da una parte, e una negativa regolazione emotiva, dall’altra. (Rose, 2021). Alla luce di queste correlazioni, si può ipotizzare che la co-ruminazione predica l’incremento dei sintomi internalizzanti e una maggior vicinanza e qualità amicale che insieme, a loro volta, porterebbero a maggiore necessità di co-ruminazione. In questo circolo vizioso, quindi, sarebbe la stessa natura auto-rinforzante della co-ruminazione a spiegare perché, nonostante le implicazioni negative, bambini e adolescenti continuano a co-ruminare. Di preciso:

  • I benefici sociali della co-ruminazione, primo fra tutti una positiva qualità relazionale con i pari, sarebbero un rinforzo positivo a continuare a co-ruminare. In uno studio di Rose e colleghi (2014) è stato riscontrato che gli amici che co-ruminano rispondono ai problemi dell’altro in un modo positivo e coinvolto, che fa aggiungere ulteriori dichiarazioni in merito ai propri problemi e, così, ricominciare il ciclo dialogico. In questo senso, gli amici che co-ruminano si confiderebbero in un modo che rinforza ed estende la conversazione e che fa sentire l’uno emotivamente vicino all’altro (Rose et al., 2016).
  • I costi emotivi della co-ruminazione non sono sufficienti a scoraggiare la co-ruminazione stessa. Come gli individui che ruminano (Koster et al., 2011), quelli che co-ruminano presentano difficoltà nel distaccarsi dai pensieri negativi e per sé rilevanti. Nonostante questo modo di comunicare porterebbe a vedere i problemi come più grandi e difficili da risolvere, sviluppando così sintomi internalizzanti, i co-ruminatori tenderebbero a ignorare questa connessione e a gratificarsi solo dei più immediati sentimenti positivi esperiti nella relazione amicale (Rose, 2021).
  • Nonostante la co-ruminazione si potrebbe focalizzare su qualsiasi tipo di problema, i co-ruminatori, specie adolescenti, speculerebbero più su problematiche di tipo interpersonale (ad esempio, famiglia o pari; Rose et al., 2021). Esse, per la loro natura intrinsecamente ambigua, darebbero ai giovani materiale su cui speculare a lungo: conoscere la causa di tali tematiche potrebbe essere complesso, specie se l’altra parte nega il problema o non lo desidera affrontare; inoltre, contemplare la reazione dell’altro non è mai un’operazione facile.

Conclusioni

Nell’enuclearne i benefici a livello sociale e i costi a livello emotivo, la revisione di Rose (2021) considera il ruolo evolutivo della co-ruminazione utile a sviluppare capacità di relazione nella fase infantile e adolescenziale; al contempo, stimola l’approfondimento della questione per suggerire linee di ricerca future. In particolare, sarebbe interessante indagare perché alcuni giovani, più di altri, sviluppano uno stile comunicativo co-ruminativo e se questa tendenza sia correlata allo stesso stile co-ruminativo genitoriale (Waller e Rose, 2013). Inoltre, potrebbe essere utile capire come le diverse modalità di comunicazione dei bambini e degli adolescenti moderni, sempre meno abituati all’interazione faccia a faccia e più agli strumenti virtuali (videochiamate, messaggistica elettronica), impattino sulla co-ruminazione. Infine, l’autrice sottolinea l’importanza di suggerire strategie di soluzione ai costi emotivi analizzati. Fra queste, la psico-educazione ai genitori potrebbe essere ottimale per informare sulle derive negative di un’eccessiva co-ruminazione nei rapporti amicali dei loro figli; anche la promozione di strategie di coping alternative, come il problem solving o una sana distrazione, potrebbe essere un tentativo ugualmente efficace.

 

La psicologia del musicista e la pandemia da Covid

Lo studio in questione ha lo scopo di indagare ed approfondire le rappresentazioni interne, le caratteristiche comuni e i vissuti connessi all’essere musicisti di professione in Italia, in un contesto sia pre- che post- pandemico.

 

Riassunto

 I musicisti sono una categoria professionale poco studiata in generale, ma in particolare in Italia. Le ricerche presenti su questi professionisti sono molto scarse, e si concentrano soprattutto sull’ansia da prestazione e sulle problematiche fisiche che possono essere causate dallo svolgere questo tipo di lavoro. Inoltre, il periodo di pandemia da COVID-19 appena vissuto ha fatto sì che le categorie professionali artistiche si siano trovate in grosse difficoltà lavorative, e ciò ha causato pesanti ripercussioni psicologiche.

Lo studio in questione è nato come progetto di tesi di laurea magistrale in Psicologia Clinica di due studentesse dell’Università di Torino. Esso ha lo scopo di indagare ed approfondire le rappresentazioni interne, le caratteristiche comuni e i vissuti connessi all’essere un musicista di professione in Italia, in un contesto sia pre- che post- pandemico. La ricerca è di carattere qualitativo e ha previsto la somministrazione di brevi questionari e interviste semi-strutturate a un campione di 25 musicisti professionisti con almeno dieci anni di attività professionale continuativa e operanti nel contesto delle principali città italiane. Non c’è stata una distinzione tra le categorie professionali musicali da includere, così il campione è composto da cantanti, musicisti turnisti, orchestrali, liberi professionisti, compositori, produttori e insegnanti. Da essa sono derivate quattro categorie principali di analisi che trattano degli ambiti lavorativi che presuppongono l’utilizzo dello strumento (esibizione, studio, composizione, improvvisazione), degli ambiti lavorativi esterni all’uso dello strumento (soft skills del musicista, criticità della professione e del contesto), della didattica in ambito musicale e, infine, dell’identità professionale.

I principali risultati emersi mostrano una grossa fragilità nella definizione identitaria dei musicisti per il mancato riconoscimento sociale e istituzionale di questa categoria professionale. Sono stati trovati tratti di personalità in comune di flessibilità/adattabilità e di forte proiezione verso futuro. Inoltre, la pandemia è stata vissuta in maniera molto eterogenea a seconda dei fattori di protezione e di rischio interni ed esterni posseduti, come il supporto sociale, il sostegno economico e la motivazione intrinseca o estrinseca verso il proprio lavoro. I risultati della ricerca forniscono, quindi, degli spunti per una maggiore comprensione di che cosa voglia dire essere un musicista professionista in un contesto lavorativo e psicosociale instabile come quello attuale italiano. Inoltre, essi aprono a potenziali ricerche future per approfondire ulteriormente l’argomento ed operare un cambiamento concreto sul territorio.

Introduzione

L’essere umano vive costantemente immerso nella musica e la pandemia da COVID-19 ci ha messo di fronte al ruolo fondamentale che la musica ha nell’accompagnarci tutti i giorni e nel creare legami sociali. Pensiamo ai concerti dai balconi o a quelli organizzati in diretta tv o streaming.

In questo drammatico contesto, è apparsa ancora una volta, e in tutta la sua evidenza e gravità, la trascuratezza politica nei confronti dei musicisti (e degli artisti nel loro insieme), cioè coloro che ci permettono di avere a disposizione quel patrimonio irrinunciabile culturalmente, socialmente e individualmente. Inoltre, questi professionisti sono una categoria di lavoratori poco studiati all’interno della letteratura scientifica generale, ma soprattutto in Italia.

Questi sono i principali motivi che hanno spinto un gruppo di ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino a realizzare uno studio, nato per una tesi di laurea magistrale, ma attualmente in prosecuzione, per comprendere meglio che cosa vuol dire essere musicisti in Italia, aprendo così un nuovo filone di ricerca all’interno di questo campo di studi.

La ricerca

Nella fase pilota dello studio, condotta tra febbraio e luglio 2022, sono stati intervistati circa 25 professionisti con almeno dieci anni di esperienza e che lavorano principalmente nel territorio italiano.

 I musicisti reclutati hanno un’età compresa tra i 29 e i 75 anni; di questi, 7 su 25 sono musiciste donne (28% del campione totale). Il 56% dei musicisti (14 su 25) risiede in Piemonte, il 16% in Lombardia (4 su 25) e il rimanente 28% in altre regioni del centro e sud d’Italia (2 in Veneto, 2 in Liguria, 2 in Lazio e 1 in Umbria). Per quanto riguarda il titolo di studio, il 72% ha la laurea al conservatorio, che può appartenere al vecchio ordinamento o al nuovo ordinamento (triennio, biennio o entrambi). I musicisti che lavorano all’interno dell’ambiente classico (orchestre, musica da camera, conservatori) ricoprono il 28% del campione; il rimanente 72% lavora per generi e contesti diversi (pop, rock, jazz, blues, elettronica). Tutti i musicisti coinvolti suonano più di uno strumento, in particolare 4 su 25 sono cantanti e 2 musicisti sono anche produttori. Spesso le professioni svolte in ambito musicale sono molteplici: l’84% del campione lavora come insegnante di musica (21 su 25) nei conservatori, in scuole private o nella scuola pubblica, il 60% è un musicista turnista (15 su 25), mentre il 24% dichiara di svolgere anche una seconda professione oltre a quella del musicista (6 su 25), in particolare a seguito del periodo di pandemia da COVID-19.

Le interviste sono di tipo semi-strutturato della durata di circa 60-90 minuti, e la loro analisi è stata effettuata secondo il metodo della Grounded Theory, il quale consente una visione più approfondita di come, e a partire da cosa, il partecipante interpreta ciò che vive.

Dalla fase pilota appena descritta si è deciso di proseguire, per cui la ricerca è ancora in corso con la finalità di ampliare il campione e di tendere ad una saturazione delle categorie, come previsto dal metodo di analisi scelto. Dall’analisi qualitativa delle interviste della fase iniziale sono emerse quattro categorie tematiche principali.

Lo strumento

Per il musicista la propria professione ruota attorno al proprio strumento non soltanto dal punto vista pratico ma anche dal punto di vista psicologico. L’identità professionale e personale dei soggetti, così come i livelli di autostima, sono strettamente connessi al proprio strumento, che diventa un mezzo essenziale per esprimere sé stessi. Il musicista insegue la voglia di “dire la sua”, di sentire di aver qualcosa da dire e di aver bisogno di metterlo a fuoco, e tutto questo processo di ricerca espressiva è mediato dal proprio strumento.

In questa categoria tematica, gli aspetti che più hanno risentito dell’influenza della pandemia sono lo studio personale dello strumento (sia nel senso che per alcuni è stato un ancoraggio di grande aiuto, sia che per altri è stato penalizzato a causa di scoraggiamento e anedonia), i livelli di ansia da prestazione e, infine, i processi creativi.

Oltre il suonare

Si è rappresentato con chiarezza il problema degli aspetti organizzativi e manageriali molto articolati connessi con il mondo della musica. Essi sarebbero oggetto di professioni specifiche ma, di fatto, per gran parte dei musicisti, deve essere assunto come impegno in prima persona, senza aver ricevuto formazione o aiuto per imparare queste competenze.

Questo aspetto della professione musicale richiede moltissime energie e tempo e può spesso sfociare in rabbia e ansia. Esse sono comprensibili soprattutto se pensiamo a quanto tutto ciò che attiene lo “stare vicini al proprio strumento” permetta l’espressione e la realizzazione di sé, mentre ciò che allontana dal proprio strumento e dalla propria dimensione musicale naturale venga esperito come una minaccia alienante alla propria stessa identità professionale ma che, invece, diventa parte cruciale della propria professione.

Inoltre, al di là delle differenze individuali nel fare bene questa parte manageriale, permangono forti sentimenti d’insoddisfazione generati dall’instabilità oggettiva, data dalla mancanza di continuità d’impiego e di un compenso economico adeguato.

La didattica

La didattica risulta essere fondamentale sia nel percorso di sviluppo di un musicista, sia nella carriera professionale come elemento di stabilità economica. È stata riconosciuta una certa frammentazione metodologica e una mancanza di formazione ad essere buoni insegnanti che, ancora una volta, è distinto dall’avere una buona tecnica con il proprio strumento. Come per altre discipline, la mancanza di un metodo didattico condiviso porta i musicisti a dover scoprire da sé il proprio metodo, che può partire dall’emulazione della modalità di insegnamento più o meno efficace che avevano adottato i propri insegnanti.

L’identità

La quarta categoria tematica individuata è lo stretto legame tra l’identità professionale e quella personale. Come descritto in precedenza, fare il musicista è una ricerca espressiva continua, un modo per comunicare e trasmettere quello che si è. Si sono evidenziati in particolare due aspetti caratterizzanti l’identità dei musicisti: la flessibilità/adattabilità alle situazioni esterne e la forte proiezione verso il futuro, da intendere come la continua ricerca della propria identità e la volontà di non fermarsi mai con lo studio.

C’è da sottolineare, però, che la quasi totalità del campione ha riportato una grande sofferenza rispetto allo scarso riconoscimento della loro identità (professionale e, quindi, personale) da parte della società, delle istituzioni e della politica. Tutto ciò si concretizza in una professione molto a rischio di insoddisfazioni e insicurezze sul piano sociale ed economico, così come sofferenze psicologiche che possono sfociare in sfiducia verso di sé, angosce, depressioni e crisi identitarie. Il periodo pandemico ha aumentato notevolmente tali caratteristiche della professione musicale, portandole all’estremo e provocando, in molti casi, forti sofferenze.

Il blocco dell’attività concertistica e la poca tutela verso questa categoria professionale hanno fatto sì che aumentasse il sentimento di incertezza verso il futuro e di insicurezza lavorativa.

Sono, però, emerse delle differenze nei modi in cui è stata vissuta la pandemia a seconda dei fattori di protezione e di rischio interni (psicologici, come la motivazione intrinseca o estrinseca verso il proprio lavoro) o esterni (come il supporto sociale, il sostegno economico).

Conclusioni

I risultati della ricerca forniscono degli spunti per una maggiore comprensione di che cosa voglia dire essere un musicista professionista, e dei problemi concreti emergenti in un contesto lavorativo e psicosociale instabile come quello attuale italiano. È importante studiare e individuare le necessità e i bisogni dei musicisti con ricerche scientifiche a loro dedicate se si vuole proteggere un bene estremamente prezioso per la salute e il benessere di tutti, quale è la musica. Dal presente studio emerge la necessità di maggiori tutele per questa categoria professionale, sia dal punto di vista economico-istituzionale, sia per quanto riguarda sostegno e ascolto psicologico e sociale.

 

Il conflitto interno secondo la prospettiva freudiana

Secondo Freud il problema non è l’esistenza del conflitto interno tra l’affetto incapsulato che cerca di fuoriuscire dall’inconscio e il sistema conscio che cerca di respingere sempre più in fondo all’inconscio il materiale che non si vuole che torni alla coscienza, quanto piuttosto il fatto che in qualche modo questo conflitto fallisca.

 

La teoria della sessualità infantile di Freud

 Con la teoria della sessualità infantile proposta da Sigmund Freud, la causa dei sintomi nevrotici non è più, come lo era nella teoria della seduzione, un trauma reale a carattere sessuale vissuto in età infantile, ma le pulsioni sessuali e aggressive derivate da conflitti irrisolti nell’età infantile.

Secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud, lo sviluppo della pulsione sessuale richiede il passaggio della libido (energia associata alla pulsione sessuale) attraverso cinque stadi biologicamente determinati e procede per superamento di conflitto: ogni fase è caratterizzata da un conflitto da superare e il successo determina il passaggio alla fase successiva. Il conflitto si crea perché la soddisfazione della pulsione sessuale associata alle fasi pre genitali è non conforme o adatta alla realtà.

Lo sviluppo della pulsione sessuale può essere impedito da arresti detti fissazioni, che bloccano parte della libido in una fase e privano quella successiva della quantità di energia necessaria ad attraversarla. La fissazione ad una fase dello sviluppo psicosessuale non è di per sé patologica (può influenzare il carattere di una persona ma non essere associata ad una nevrosi) ma si associa ad una nevrosi quando i desideri infantili correlati sono radicati in un conflitto interno.

Per comprendere meglio il concetto di “conflitto interno” proposto da Sigmund Freud è importante sottolineare una caratteristica in particolare dell’inconscio, cioè la sua atemporalità: i contenuti psichici inconsci, cioè i desideri sessuali infantili rimossi, sono atemporali, cioè non subiscono effetti dovuti al passar del tempo, nonostante il passar del tempo continuano ad essere rappresentati nella vita psichica in modo relativamente immodificato (immutati nel contenuto e nell’intensità).

Cosa vuol dire esattamente conflitto interno per Sigmund Freud?

I desideri sessuali infantili perturbanti, poiché inaccettabili e in contrasto col resto delle idee, dei sentimenti e della personalità dell’individuo, vengono rimossi; tuttavia, essendo l’inconscio caratterizzato da atemporalità, continuano a fare pressione per emergere alla coscienza.

Secondo Freud, un’esperienza, un ricordo e un pensiero che viene spedito nell’inconscio viene confinato assieme al carico affettivo ad esso associato, cioè l’affetto incapsulato; difatti uno dei concetti introdotti nella teoria di Freud è proprio il fatto che le idee inconsce, cioè i contenuti psichici isolati dalla coscienza e non integrati nella personalità, siano accompagnati da un ammontare affettivo (affetto incapsulato) che con esse rimane isolato.

Dal momento che secondo Freud ogni esperienza porta ad un aumento di eccitamento e la principale funzione della mente è la scarica dell’ammontare affettivo, cioè ricreare dopo uno stato di eccitamento lo stato iniziale di quiete e riportare l’organismo ai livelli di base necessari per un buon funzionamento, per un buono stato di salute mentale (principio di costanza), questo carico affettivo esercita una continuativa pressione per emergere alla coscienza ed essere scaricato attraverso il processo di correzione associativa (la scarica dell’ammontare affettivo avviene attraverso idee associative che collegano un’esperienza ad altri contenuti mentali, cioè l’associazione ideativa).

La rimozione

La pressione esercitata dal carico affettivo viene riconosciuta dal sistema conscio attraverso l’angoscia segnale, un segnale di angoscia che porta il sistema inconscio a rafforzare le difese, per cui la rimozione si riattiva per limitare la potenza dell’angoscia (le teorie basate sulla psicologia dinamica infatti sostengono che la mente è caratterizzata da forze in continua in continua alterazione). Quindi, un contenuto psichico inconscio, soprattutto per via del carico affettivo che lo accompagna, preme per emergere alla coscienza e al tempo stesso il sistema conscio preme sul sistema inconscio affinché lo tenga confinato lontano dalla coscienza.

Qui si può assistere ad un cambiamento importante nella teoria di Freud, che inizialmente concepiva la rimozione e i contenuti psichici isolati dalla coscienza come patologici e in seguito riconosce questi processi come fondamentali del funzionamento umano: secondo Freud non è tanto il problema che ci sia questo conflitto interno tra l’affetto incapsulato che cerca di fuoriuscire dall’inconscio e il sistema conscio con le relative resistenze e difese che cerca di respingere sempre più in fondo all’inconscio il materiale che non si vuole che torni alla coscienza, quanto piuttosto il fatto che in qualche modo questo conflitto fallisca e in particolar modo la parte delle difese fallisca; nello specifico ciò che fallisce è la rimozione (Freud inizia a parlare di fallimento della rimozione) e quindi il sistema conscio non riesce a trattenere tutto il materiale inconscio, e soprattutto tutto l’affetto incapsulato: il carico affettivo, l’affetto incapsulato, connesso al desiderio perturbante è talmente forte e intenso che in qualche modo arriva alla coscienza, ma in forma camuffata affinché sia accettabile, attraverso ad esempio i sintomi nevrotici (la formazione di compromesso è una difesa in cui il materiale rimosso arriva alla coscienza in forma mascherata).

 La rimozione è dunque un processo inconscio (il soggetto non è consapevole di inviare nell’inconscio il materiale che non vuole che arrivi alla coscienza e di operare una continua resistenza affinché resti confinato lontano dalla coscienza) e adattivo (la rimozione salva l’individuo da sé stesso consentendogli di vivere in società, in quanto consente di organizzare il materiale in modo da tenere alla coscienza solo il materiale adattivo). Se l’individuo riesce a tenere lontano dalla coscienza i contenuti perturbanti e l’affetto associato e non avere effetti conseguenti vuol dire che ha raggiunto un equilibrio e che il suo funzionamento è sano e non disturbato; al contrario esso è disturbato quando in qualche modo l’affetto incapsulato arriva alla coscienza in forma camuffata). È il fallimento della rimozione ad essere associato con la psicopatologia.

Il conflitto interno

Il conflitto interno tra pulsioni e difese, quindi, presuppone che entrambe siano inconsce, di conseguenza il modello topico della mente (caratterizzato da un sistema conscio, un sistema preconscio e un sistema inconscio in cui le difese sono concepite come processi attivi volontari e consci) non funziona più e Freud concepisce una nuova concezione della mente, cioè il modello strutturale, caratterizzato da tre istanze psichiche che interagiscono dinamicamente, cioè Es, Io (istanza psichica che protegge dall’angoscia nonché contenitore delle difese), e Super Io: nel modello strutturale le difese sono concepite come processi adattivi e inconsci.

Il conflitto interno tra pulsioni e difese è inoltre la causa e il fattore di mantenimento delle psiconevrosi, composte da anomalie del carattere (che oggi chiameremmo disturbi della personalità), isterie, nevrosi ossessive e fobia, a cui è rivolta la cura Psicoanalitica di Sigmund Freud. Il trattamento Psicoanalitico non è rivolto a tutti i tipi di disturbi mentali (ad esempio secondo Freud le psicosi non sono curabili attraverso il trattamento Psicoanalitico) ma unicamente alle psiconevrosi.

La teoria di Freud è una teoria in evoluzione: Freud ha apportato numerosi cambiamenti alla sua teoria (come il passaggio da una teoria del funzionamento dell’isteria e delle nevrosi ad una teoria del funzionamento psichico normale e psicopatologico) che lo hanno portato a concepire l’esistenza di un continuum tra normalità e psicopatologia. Freud riconosce che non soltanto i pazienti con disturbo nevrotico hanno un inconscio, delle resistenze e delle difese, ma essi sono processi comuni a tutti gli esseri umani. Freud, dunque, passa dal ritenere l’inconscio, all’inizio come Charcot e Janet, come qualcosa che esiste solo nella psicopatologia a fondamento della mente umana. Nell’individuo sano le difese funzionano, nella psicopatologia la rimozione fallisce e si crea il conflitto psichico.

Quindi tutto ciò che può accadere nei disturbi nevrotici accade anche nelle persone sane, come le formazioni di compromesso. Sogni, lapsus, atti mancati e sbadataggini sono tipiche formazioni di compromesso nel funzionamento psichico sano. Questa idea che ogni comportamento, esperienza ed evento bizzarro nella vita delle persone sane sia una formazione di compromesso è radicata nel Determinismo Psichico, secondo cui ogni azione mentale (anche quelle inconsce) ha una causa (o motivazione) o più cause (determinazione multipla) e un obiettivo o più obiettivi (funzione multipla).

Il conflitto interno è stato ripreso per spiegare cosa intendesse Stern, esponente della Psicoanalisi Contemporanea, per difendersi da ciò che non è formulato. Una modalità primaria di difendersi dai contenuti psichici minacciosi è astenersi dal formularli, evitando di catalizzare su di essi l’attenzione e lasciando che restino vaghi e indeterminati. Per potersi difendere da qualcosa bisogna aver attribuito a questo qualcosa un contenuto definito. La teoria del conflitto interno aveva postulato che alcuni segnali che appaiono alla coscienza per via della pressione esercitata dai contenuti psichici inconsci portano all’angoscia, segnale che spaventa l’Io e attiva le difese. Il concetto di angoscia segnale è stato ripreso da Stern per spiegare il concetto di difesa come non formulazione: questi segnali, o indizi esperienziali fugaci, possono riferirsi ad una categoria dell’esperienza, ad esempio qualcosa che ci è familiare, di conseguenza non è necessario codificare completamente un contenuto per difendersi da esso, ma è sufficiente codificare quel tanto che basta per poterlo classificare in una categoria dell’esperienza già formulata che ci porti a far scattare la difesa “non codificare oltre”, “non prestare ulteriore attenzione”, e a lasciare quel contenuto non completamente formulato e quell’esperienza non completamente interpretata. Difatti, Stern ha riconcettualizzato l’inconscio in termini di esperienza non formulata, cioè esperienza grezza e inespressa, che precede la rappresentazione e la traduzione in parole: un contenuto Psichico è inconscio se non è ancora stato formulato, per renderlo conscio è necessario formularlo attraverso il linguaggio.

 

cancel