expand_lessAPRI WIDGET

Obesità, disturbo da alimentazione incontrollata e disregolazione emotiva

È ormai noto in letteratura l’associazione tra Obesità, disturbo da Binge Eating, o Alimentazione Incontrollata, e disregolazione emotiva.  

 

Introduzione

 Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) l’obesità si caratterizza per essere una patologia cronica dovuta ad un eccesso di peso tale da compromettere significativamente lo stato di salute e la qualità di vita. Si tratta di patologia ad elevata prevalenza nella popolazione generale ed eziologia multifattoriale.

Il concetto di Disregolazione emozionale è nato a partire da Marsha Linehan (1993), che delineava tale componente assoggettabile ad una eccessiva vulnerabilità agli stimoli emotigeni.

Obesità e disturbo da alimentazione incontrollata

Secondo il National Institutes of Health l’indice di massa corporea o BMI fornisce indicazioni relative allo stato attuale della massa del soggetto, nonché la sua posizione rispetto alla curva normale della popolazione generale di riferimento. Tale dato è riassunto nella seguente tabella.

Obesità, Binge Eating Disorder e disregolazione emotiva Fig. 1

L’obesità e il sovrappeso quindi sono da considerarsi patologie croniche con forte impatto sulla salute pubblica. Il loro impatto sociale deriva dal fatto che l’obesità è spesso correlata a molteplici patologie secondarie che possono comportare una riduzione significativa sia quantitativa che qualitativa della vita, oltre a costi sanitari elevati. Secondo la Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle Malattie Metaboliche (S.I.C.OB), da stime effettuate negli Stati Uniti, si è calcolato che negli obesi i costi dei servizi sanitari e farmaceutici sono più alti, rispettivamente, del 36% e del 77% rispetto ai normopeso.

Agrawal e colleghi, nel 2016, concettualizzano l’eziopatogenesi dell’obesità legata a un’interazione multifattoriale circolare composta da fattori genetici, ambientali, di tipo relazionale e lavorativo; a ciò si assocerebbero abitudini alimentari scorrette che, in parte, sono ascrivibili all’interno di un quadro di disturbo dell’alimentazione, disturbi dell’umore e di personalità.

Il Binge Eating Disorder – o Alimentazione Incontrollata – è definito dal mangiare, in un periodo di tempo circoscritto (per esempio nell’arco di due ore), grandi quantità di cibo che un’altra persona non riuscirebbe a consumare nello stesso tempo. A ciò si assocerebbe anche una sensazione di perdita di controllo descritta come “avere la sensazione di non poter smettere di mangiare o di non controllare cosa e quanto si sta consumando”.

Secondo l’American Psychiatric Association (2013) tali comportamenti sono caratteristici e ascrivibili in episodi di abbuffata con sensazione di perdita di controllo, consumo di grandi quantità di cibo, spiacevole sensazione di pienezza e marcato disagio associato a sensazione di disgusto verso se stessi. Per la diagnosi di Binge Eating è necessario una frequenza di almeno un episodio a settimana per un periodo non inferiore a 3 mesi.

Definizione di dirsegolazione emotiva

La definizione per eccellenza della disregolazione emotiva, come precedentemente enunciato, è nata a partire da Marsha Linehan (1993) che delineava tale componente assoggettabile in grande misura all’interno del disturbo borderline di personalità; indica una eccessiva vulnerabilità agli stimoli emotigeni composta da tre aspetti:

  • Maggiore reattività agli stimoli
  • Maggiore suscettibilità agli stimoli
  • Maggiore latenza di permanenza della risposta emozionale e lento ritorno ad uno stato base

Associazione tra binge eating disorder, obesità e disregolazione emotiva

 È noto come spesso sia presente un’associazione tra Obesità e Disturbo da Binge Eating (BED), tuttavia non tutti i pazienti obesi sono affetti da tale patologia psichiatrica. Secondo quanto riportato da Sanders e colleghi nel 2021, il paziente obeso con BED si distingue dall’obeso non BED, per un nucleo patologico che interessa una maggiore preoccupazione per il peso e la forma del corpo, per una maggiore sensibilità e vulnerabilità emotiva che ne determina una ridotta tolleranza, e una comorbilità maggiore con patologie d’ansia e dell’umore. Per il paziente che soffre di Binge Eating Disorder non è infrequente l’innescarsi di un circolo vizioso tale per cui il cibo da una parte funge da componente regolativa per intensi stati emotivi, e dall’altra scatena forti sensazioni di colpa e di vergogna. A differenza delle altre patologie all’interno del cluster dei disturbi dell’alimentazione, i pazienti BED mostrano una maggiore rassegnazione e pensiero di impotenza rispetto al cambiamento alimentare e/o fisico.

Per tale ragione non è infrequente l’associazione tra obesità e disturbi alimentari. Il BED presenta specifici correlati genetici (Bulik et al., 2003), una peculiare distribuzione socio-demografica tra i sessi (Spitzer et al., 1992) e una elevata comorbilità con disturbi emotivi e di gestione degli impulsi (Claes et al., 2006). Mussel e collaboratori nel 1995, evidenziarono che l’esordio del BED precede l’insorgenza dell’obesità come pure l’inizio delle diete. È stata dimostrata una correlazione positiva tra BMI e frequenza e gravità delle abbuffate (Timmerman e Stevenson 1996).

Alla luce di quanto illustrato, allora, il trattamento di elezione, e meno invasivo, potrebbe essere ascrivibile all’interno dell’aderenza a regimi alimentari, medico-prescritti, ipocalorici. Tuttavia, numerosi studi hanno dimostrato come il tasso di weight-regain (ovvero recupero di peso perso) si aggira intorno al 70-75% dei soggetti interessati, con un fallimento nel lungo termine e un recupero di peso prima di un anno dalla conclusione del trattamento (McGuire et al., 1999; Wing & Phelan, 2005).

La spiegazione del dato potrebbe provenire dal fatto che è frequente la connessione tra obesità e disturbi alimentari e che tra i soggetti che presentano comportamenti di BED è solita la manifestazione psicopatologica di sintomi ascrivibili all’interno di quadri di disturbi dell’umore e di ansia (Marcus et al., 1990; Bulik et al., 2002). Allo stesso tempo, tali sintomatologie si configurano come fattori di rischio del weight regain e difficoltà di aderenza al regime dietetico ipocalorico prescritto (Pagoto et al., 2007).

A tal proposito, Wegner e collaboratori (2002), in un campione di 27 pazienti di BED subclinici, hanno riscontrato che nei giorni delle abbuffate l’umore era peggiore rispetto al solito; allo stesso modo Stice e colleghi (2000) hanno evidenziato come le emozioni negative abbiano una relazione con l’abbuffata in particolare con tristezza, disperazione, noia e rabbia. Il paziente BED si sente tendenzialmente incapace di intervenire sulla situazione che provoca disagio e che muta in condizioni inaccettabili con spiccati sensi di colpa e sentimenti di incomunicabilità.

I comportamenti alimentari disfunzionali, come le abbuffate, parrebbero anche essere correlate a una difficoltà di gestione emozionale e di controllo degli impulsi (Claes et al.,2006; Dingemans et al., 2013; Rosval et al., 2006). Secondo Waller (2002) le abbuffate rappresentano una fuga o un blocco delle emozioni e del pensiero di fronte a uno stato emotivo ritenuto intollerabile, analogamente ad altri comportamenti impulsivi quali l’abuso di alcol o sostanze, autolesionismo e promiscuità sessuale.

La disregolazione emotiva è stata documentata e analizzata come fattore di mantenimento dei disturbi alimentari e in particolare del BED dallo studio di Whitesid e colleghi nel 2007. Lo scopo del lavoro era:

  • Valutare se i pazienti con modalità disfunzionali di abbuffata hanno anche maggiore difficoltà nella regolazione emotiva nella vita quotidiana;
  • Quanto la varianza dei comportamenti di abbuffata è spiegata da aspetti di disregolazione emozionale;
  • Quali aspetti e declinazioni della disregolazione emotiva giocano un ruolo nel mantenimento dei comportamenti di perdita di controllo.

Gli autori hanno quindi confermato le ipotesi iniziali secondo cui i soggetti che ricorrono alle abbuffate, principalmente soggetti BED, utilizzano tale strategia di regolazione in quanto meno provvisti di ulteriori modalità funzionali anche per una maggiore intensità e durata esperita nelle emozioni rispetto alla popolazione generale.

Tale componente porterebbe anche a una maggiore vulnerabilità al vissuto emotivo e alla necessità e urgenza di gestione immediata della situazione tramite strategie disfunzionali più brevi e veloci nell’abbassamento dell’arousal rispetto a modalità maggiormente funzionali, ma con più lenta discesa della curva emotiva. Inoltre, un ruolo chiave gioca anche la difficoltà nel riconoscimento della qualità (con incapacità di riconoscere le differenze per esempio tra rabbia, ansia e tristezza) del vissuto esperito e bassa alfabetizzazione emotiva che porterebbe a una maggiore difficoltà nell’individuazione di quale strategia funzionale mettere in atto.

Ci sono, inoltre, evidenze relative al fatto che la disregolazione emotiva nei BED sia ascrivibile all’interno di un quadro relazionale disfunzionale sviluppatosi nel corso dell’infanzia che successivamente genererebbe deficit di funzionamento e comprensione emotiva.

Disregolazione emotiva e BED

In quest’ottica, Buckholdt e colleghi nel 2010 hanno proposto un interessante modello in cui la disregolazione emotiva potrebbe essere concettualizzata come fattore modulatore nella genesi ed eziopatologia del BED. L’articolazione del lavoro si fonda sul fatto che un primo fattore di genesi potrebbe derivare dalla risposta genitoriale alle emozioni che creerebbe le basi per lo sviluppo della competenza emotiva, inclusa l’abilità di modificare l’esperienza emotiva e l’espressione di emozioni con comportamenti adatti al raggiungimento dello scopo e delle capacità empatiche di riconoscimento dello stato emotivo dell’altro.

Avrebbero quindi dimostrato come l’invalidazione delle emozioni da parte dei genitori correla con la diagnosi di disturbo alimentare (Haslam et al., 2008). Il comportamento alimentare disregolato, quindi, si ripercuoterebbe anche sull’incapacità nello sviluppo di strategie maggiormente funzionali dando il via a una marcata incapacità di sviluppo di regolazione emotiva (Waller e coll., 2007). Il tal senso, allora, la disregolazione emotiva potrebbe essere riletta come la risultante di un mancato tentativo regolatorio, in risposta all’invalidazione genitoriale, e con l’utilizzo di strategie disfunzionali nell’ordine di perdita di controllo sul cibo (Buckholdt et al., 2010).

Gli autori concludono che il mancato riconoscimento delle emozioni da parte dei genitori, in particolare della tristezza, porti i soggetti a non sviluppare strategie di coping funzionali (o perché considerate intense/sbagliate o per evitare di sconvolgere l’equilibrio familiare) con conseguente necessità di soppressione delle stesse. Ciò genera disregolazione emotiva a seguito di emozioni negative con conseguente utilizzo del cibo come autoconsolazione e/o allontanamento dalla situazione.

È stato inoltre condotto uno studio in cui viene valutato l’aspetto di disregolazione all’interno di un inquadramento diagnostico e a fronte di idoneità per interventi di chirurgia bariatrica. Lo scopo dello studio di Micanti e colleghi (2015), è di mostrare che le differenze tra i comportamenti alimentari sono legate alla disregolazione emotiva e che questa sia a sua volta connessa alle dimensioni mentali della psicopatologia obesa. I comportamenti alimentari possono essere considerati una caratteristica diagnostica di screening per la determinazione del trattamento dell’obesità di natura nutrizionale o di chirurgia bariatrica.

Conclusioni

I risultati suggeriscono che i comportamenti alimentari sono collegati all’equilibrio del sistema di regolazione emotiva. Tale dato potrebbe fornire informazioni cliniche significative e quindi essere parte dei criteri diagnostici e terapeutici dell’obesità. Nello specifico, un’analisi complessiva dei dati che evidenzi le differenze nei comportamenti alimentari, potrebbe fornire delle indicazioni specifiche e contribuire al successo o al fallimento del trattamento dell’obesità. Il tutto è coerente con i dati della letteratura che sottolineano la necessità di modelli flessibili per il trattamento dell’obesità. Il trattamento nutrizionale o l’esito della chirurgia bariatrica possono essere migliorati concentrandosi sulla regolazione emotiva intervenendo con la psicoterapia, il cambiamento dello stile di vita e/o anche un trattamento psicofarmacologico.

 

La Flash Technique: da intervento integrativo a nuovo paradigma nel trattamento del trauma psicologico

La Flash Technique è una tecnica inizialmente pensata e proposta come intervento integrativo nella fase di Preparazione del Protocollo standard EMDR e che sta suscitando sempre maggiore interesse.

 

EMDR e Flash Technique

 Negli ultimi vent’anni sono state proposte diverse forme di psicoterapia basate sull’evidenza scientifica per il trattamento del trauma psicologico: infatti, da diversi anni, fonti autorevoli tra cui l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) hanno indicato che “la Psicoterapia Cognitivo Comportamentale individuale o di gruppo (CBT) focalizzata sul trauma oppure la Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i Movimenti Oculari (EMDR) dovrebbero essere indicate per bambini, adolescenti e adulti con disturbo post-traumatico da stress” (OMS, 2013).

Altre tecniche di effettiva efficacia stanno suscitando un interesse sempre maggiore e un crescente impiego al fine di ridurre la sofferenza psicoemotiva. Tra di esse spicca la Flash Technique, messa a punto negli ultimi 5 anni dal Dott. Phil Manfield, supervisore e docente EMDR, tecnica che è stata inizialmente pensata e proposta proprio come intervento integrativo nella fase di Preparazione del Protocollo standard EMDR.

Nell’esperienza clinica, dopo anni di studio e applicazione, la Flash Tecnique si sta rivelando un intervento completo, in grado di favorire una piena risoluzione di PTSD semplici e complessi e una riparazione efficace delle conseguenze delle esperienze traumatiche sul funzionamento psichico e relazionale dei pazienti.

Non è raro – nell’esperienza di tanti terapeuti anche senior – che alcuni pazienti con trauma complesso manifestino forti resistenze sia ad accedere sia a nominare l’evento traumatico poiché sentono di poterne essere emotivamente travolti, compromettendo così la possibilità di rielaborazione dello stesso. In queste situazioni delicate, in cui il rivivere l’esperienza traumatica non è sostenibile per il paziente, è giusto che i terapeuti che hanno quotidianamente a che fare con il trauma e le sue conseguenze, inizino ad utilizzare una serie di strumenti che rendano possibile rielaborare in sicurezza le esperienze traumatiche che i pazienti portano. Infatti, tale elaborazione in sicurezza al tempo dell’esperienza traumatica non è stata possibile, a causa della forza soverchiante del trauma o di un ambiente che non ha potuto/saputo fornire adeguato sostegno.

La Flash Technique facilita l’elaborazione di quei ricordi traumatici che per il paziente sono difficili da tollerare emotivamente. Infatti, dalle recenti ricerche scientifiche, emerge che il paziente trattato con la Flash Technique riesce a elaborare il ricordo traumatico senza dover necessariamente focalizzare l’attenzione sul materiale traumatico, evitando in tal modo abreazioni inutili e eventuali sintomi dissociativi. Con la Flash Technique il paziente può rielaborare un ricordo altamente disturbante senza accedervi in maniera diretta e vivida, evitando quindi utilmente il contatto con la parte peggiore del ricordo e le emozioni ad essa associate. Tale processo risulta in tal modo molto sostenibile e breve e non crea ulteriori effetti disturbanti secondari, né al paziente né al terapeuta, anche quando si tratti di eventi particolarmente traumatici.

La procedura della Flash Technique

La procedura richiede ai pazienti di identificare il ricordo (che sia un’immagine, una sensazione, una esperienza, un incubo, una metafora..) che devono elaborare e successivamente di tenere l’attenzione su una esperienza positiva (focus emozionale positivo).

Al paziente, mentre è coinvolto nel ricordo dell’esperienza positiva, viene chiesto di fare stimolazione bilaterale attraverso il tapping (divenuta familiare ai terapeuti soprattutto attraverso EMDR) e di chiudere e aprire velocemente gli occhi.

La stimolazione bilaterale, la focalizzazione su un focus positivo, l’interruzione proposta con il veloce aprire-chiudere gli occhi sono ingredienti fondamentali operativi utili a riavviare un processo che aiuta la persona a guadagnare in breve tempo la prospettiva più aggiornata e sostanzialmente adulta sugli eventi e sulle conseguenze delle esperienze difficili, senza che si debba rivivere l’esperienza traumatica.

Si riducono in tal modo i rischi di una ritraumatizzazione per il paziente e di una esposizione alla traumatizzazione vicaria per il terapeuta.

Il terapeuta chiede, in un bel match tra protocollo e creatività clinica, mentre il paziente è coinvolto nel ricordo dell’esperienza positiva, di aprire e chiudere velocemente gli occhi (eye blinking).

 La tecnica è in piena e vivace evoluzione: se originariamente veniva chiesto di richiamare il ricordo traumatico in modo molto veloce, in modo che le persone non entrassero a lungo in contatto consapevole con i contenuti del ricordo e le emozioni associate (“come passare rapidamente il dito su una fiamma”), in una delle versioni più recenti non si chiede nemmeno più al paziente di rievocare il ricordo e si procede semplicemente agendo l’interruzione attraverso la parola “Flash” e lo sbattere delle palpebre. Ricerche e riflessioni e ottimizzazione del processo implicito ed esplicito della Flash Technique sono in corso, supportati dalle esperienze dei terapeuti che si avvicinano all’utilizzo di questo approccio e del paradigma teorico pratico sottostante (Manfield & Engel, 2018).

Ma quali sono le ipotesi sui meccanismi di azione della FT?

Funziona. Perché funziona?

Come funziona la Flash Technique

La ricerca ha già dato le prime risposte. Le ipotesi più accreditate sembrerebbero indicare che il ricordo viene fatto transitare dalla memoria a lungo termine alla memoria di lavoro dove arriva e rimane in maniera conscia per poco, per poi permanere in maniera inconscia mentre il paziente focalizza su un focus emozionale positivo e procede con una stimolazione bilaterale. Questo sembrerebbe permettere di aggirare le difese dei pazienti. Infatti, esistono diversi studi che supportano il principio secondo il quale l’esposizione subliminale o l’esposizione inconscia a stimoli temuti può portare ad una significativa diminuzione della reattività nei soggetti nei confronti degli stessi stimoli.

Ad esempio Paul Siegel (2009), in un rigoroso studio ha lavorato su un’esposizione a immagini di ragni di durata così breve a tal punto che i soggetti fobici erano inconsapevoli di aver visto tali immagini. I risultati hanno mostrato che un’esposizione breve non verbalizzabile è più efficace nel ridurre la fobia verso i ragni rispetto alla visione di una durata meno breve che consente al nostro cervello di diventarne conscio. Nello studio citato gli effetti sono a lungo termine e si mantengono ancora dopo un anno. L’operazione compiuta dalle aree del cervello deputate all’elaborazione del trauma è infatti impedita dal disturbo correlato all’esperienza traumatica e riattualizzato dal ricordo. L’accesso alle informazioni disfunzionali è “protetto” dai meccanismi difensivi dei pazienti, che in tal modo trovano una sorta di adattamento all’evento. Le aree deputate all’elaborazione quindi sono vivamente attivate durante l’esposizione molto breve, quando il paziente non è consciamente consapevole dell’esposizione e non sente alcun disturbo. Ciò suggerisce che le aree del cervello che elaborano il trauma possono essere estremamente attivate durante la Flash Technique, mentre la persona non sta percependo alcun disturbo e quindi è meno probabile che si attivino anche meccanismi difensivi.

Questo rappresenterebbe un nuovo modo -per il cervello e per la mente- di (ri)consolidare quei particolari ricordi nella memoria. La consapevolezza conscia sembra quindi non necessaria ai processi di elaborazione e al riconsolidamento nella memoria. Altri studi hanno permesso di cambiare le conoscenze sulla memoria di lavoro. Fino a poco tempo fa la memoria di lavoro era pensata essere esclusivamente conscia. Recentemente è stato scoperto che, una volta identificato, un ricordo può essere mantenuto in forma non verbalizzabile e tale ricordo può essere utilizzato o modificato anche al di fuori della consapevolezza (Wong, 2021).

La procedura della Flash Technique permette lo sviluppo della cosiddetta prospettiva adulta adattiva. Le persone non sono più troppo coinvolte e “osservano” cosa sta accadendo piuttosto che “sentire” e rivivere cosa (non) sta (più) accadendo. Dagli studi che usano la risonanza magnetica funzionale (Wong,2021) sappiamo che il cervello elabora meglio il trauma quando non è in modalità attacco o fuga. Quindi, questa è una tecnica che può far sì che la persona non si spaventi e possa elaborare meglio. Il trauma crea una interruzione nella vita psichica di una persona e diventa nel cervello un nodo traumatico attorno al quale si possono creare modalità di adattamento che possono poi irrigidirsi e creare ulteriori problemi nella vita della persona.

Il “Flash” e il focus positivo sono utilizzati con il fine di interrompere la riattivazione traumatica. Il battito degli occhi (eye blinking) è una breve interruzione del focus emozionale positivo e sembra permettere al cervello di accedere brevemente e in modo spontaneo alla memoria traumatica attraverso le connessioni tra Sostanza Grigia Periacqueduttale- Amigdala-Ippocampo, ma senza la cosapevolezza della persona (Wong, 2021). Il focus metodologico della Flash Technique è sulla possibilità di interrompere la ricorsività dell’esperienza non risolta, facilitando lo spostamento e il guadagnare un’altra prospettiva. Molto interessanti sono anche i punti di condivisione e contatto con i meccanismi di azione e gli esiti di rapido sollievo del sistema di Neurofeedback Dinamico Non Lineare Neuroptimal. Tale Sistema di allenamento cerebrale basa il suo funzionamento proprio sull’uso di una interruzione per permettere la riorganizzazione spontanea e adattiva del cervello in una modalità di interazione dinamica con il Sistema.

Flash Technique e Neuroptimal si situano e incoraggiano la collocazione della terapia del trauma e dei disturbi in cui esitano le esperienze traumatiche dentro un paradigma teorico nuovo e antico, che rinnova e rilegge molte delle teorie del trauma e della cura alla luce di scoperte e riflessioni ed esplorazioni cliniche.

 

Psicoterapia con l’emisfero destro (2022) di Allan N. Schore – Recensione

“Psicoterapia con l’emisfero destro” propone una disamina approfondita di quello che Schore (2022) definisce il ruolo delle regressioni reciproche, quali fattori in grado di promuovere una crescita nel setting psicoterapico, rispetto al quale l’emisfero destro sembra giocare un ruolo davvero importante.

La co-costruzione di nuove strade da percorrere

 Attraverso quest’opera ricca di spunti e di nuovi contributi delle neuroscienze, l’autore propone una visione della psicoterapia del tutto rinnovata, caratterizzata da nuovi spunti di riflessione, connotata da quei fattori infinitesimali e spesso invisibili, rispetto ai quali far fiorire una nuova consapevolezza. Nondimeno, il noto psicologo americano consegna a ciascun operatore della salute mentale un valido strumento, grazie al quale vedere gli attori della relazione terapeutica quali co-costruttori di un processo sempre in trasformazione e per questo ricco di quegli imprevisti, che altro non fanno se non restituire un valore aggiunto all’importanza della relazione stessa.

Attraverso le pagine di questo libro viene infatti proposta una disamina approfondita di quello che Schore (2022) definisce il ruolo delle regressioni reciproche, quali fattori in grado di promuovere una crescita nel setting psicoterapico, rispetto al quale l’emisfero destro sembra giocare un ruolo davvero importante. Se quest’ultimo, infatti, nel corso dell’opera viene descritto come chiave di lettura aggiuntiva alla comprensione di quei cambiamenti intrapsichici ed interpersonali, esso nondimeno si accompagna alla dimensione psicosomatica, ove il binomio mente-corpo non può non risultare indissolubile. Riflettendo così il pensiero promosso dall’autore: ossia l’invito a vedere e a comprendere come ciascuno di noi sia abitato da quei distretti cerebrali e somatici, che spesso in terapia si traducono in un linguaggio da scoprire, conoscere e simbolizzare nel tempo. La creatività riflette quel fattore nevralgico, attraverso il quale le nuove esperienze sia interne che esterne, favoriscono, già a partire dalle prime fasi di vita, quello scambio e quell’arricchimento che nel campo clinico-psicoterapico promuovono di contro la fioritura le mappe somatiche e psichiche provenienti dalla danza infinita e spesso invisibile promossa dalle nostre regioni cerebrali.

Il valore della dimensione temporale

 Se vi è una traccia proveniente dal passato, essa non per forza rimarrà identica nel futuro, poiché è proprio attraverso il presente che le funzioni autoregolatrici possono trovare un nuovo spazio e una nuova modalità di espressione, valorizzando quella autenticità che in psicoterapia il noto psicologo invita a conoscere, riscoprire e creare, senza smettere di farsi guidare dall’amore per la curiosità e dalla ricerca di nuove strade da percorrere.

La neurobiologia e la psicologia del profondo

Grazie a questo indissolubile binomio, quello che più risalta è proprio una nuova chiave di lettura attraverso la quale guardare la diade paziente-terapeuta, quali veri e propri portatori di un vissuto e di un background neurobiologico ed esperienziale, che non sempre risultano lineari, ma che, al contrario, grazie proprio alla complessità che li contraddistingue, sono promotori di un arricchimento reciproco e di uno scambio in grado di delineare nuove lenti attraverso le quali orientarsi con sé stessi e con gli altri.

 

Sintomi da somatizzazione e abuso sessuale: una scoping review

Iloson e colleghi (2021) hanno condotto una scoping review sul tema, con l’obiettivo di indagare (1) la portata e la natura della ricerca attuale sui sintomi della somatizzazione nelle donne che hanno subito abusi sessuali e (2) l’esistenza di sintomi specifici di somatizzazione che possono essere collegati all’abuso sessuale.

 

Il disturbo da sintomi somatici

 Il disturbo da sintomi somatici appartiene a una categoria di disturbi psichiatrici in cui il paziente presenta vari sintomi fisici che suggeriscono una condizione medica (Iloson et al., 2021). Questi, però, non possono essere completamente spiegati da una condizione medica nota o da una malattia organica (Iloson et al., 2021). Il disturbo da somatizzazione è stato infatti definito come “una tendenza a sperimentare e comunicare angoscia e sintomi somatici non spiegati da esami patologici, non attribuibili a una malattia fisica che spingono però a cercare aiuto medico per essi” (Lipowski, 1988). Lo sviluppo e la persistenza di questi sintomi inspiegabili vengono comunemente definiti come somatizzazione (Iloson et al., 2021). È importante precisare che, il termine “malattia psicosomatica”, viene talvolta confuso o usato come sinonimo di somatizzazione. Tuttavia, il concetto di malattia psicosomatica implica una malattia organica, in cui i fattori mentali giocano un ruolo importante nello sviluppo della stessa (Malmquist, 2001). I sintomi della somatizzazione variano in un’ampia gamma di tipologie, come dolori provenienti da diverse parti del corpo, sintomi gastrointestinali, sessuali e pseudo-neurologici (Mai, 2004). Possono causare una significativa compromissione del funzionamento sociale, lavorativo e di altre aree importanti (Harris et al., 2009). I sintomi spesso variano nel tempo e la sofferenza da somatizzazione può indurre una persona a ricorrere ripetutamente a cure mediche (Barsky et al., 2006). Il paziente può consultare diversi operatori sanitari, sottoporsi a numerosi accertamenti con costi elevati e soffrire a lungo prima di ricevere la diagnosi (Orzechowska et al., 2021). Inoltre, il paziente vive i sintomi come reali. Non si tratta quindi di una simulazione (Iloson et al., 2021).

La somatizzazione dell’adulto è stata collegata a traumi infantili e dell’età adulta, compresi quelli sessuali, sia negli uomini che nelle donne (Paras et al., 2009; Waldinger et al., 2006). L’abuso fisico, psicologico o sessuale subìto nell’infanzia può causare sintomi mentali e fisici a lungo termine. Nelle donne, uno studio di Granot e colleghi (2018) ha dimostrato che il trauma sessuale influisce sul livello di somatizzazione in misura maggiore rispetto ai traumi non sessuali. Anche diversi studi precedenti hanno riportato associazioni tra sintomi somatici e abuso sessuale (Mcnutt et al., 2002; Morse, 1997).

Come affermato in precedenza, i pazienti adulti con disturbo da somatizzazione si rivolgono a molti specialisti e hanno più visite di emergenza rispetto ai pazienti non affetti da somatizzazione (Barsky et al., 2006). Tra le donne dei Paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Islanda, Novergia e Svezia) che si rivolgono a un ginecologo, il 38%-66% ha riferito di aver subito un abuso fisico, il 19%-37% un abuso emotivo e il 17%-33% un abuso sessuale (Wijma et al., 2003). La maggior parte delle donne, tra il 92%-98%, non aveva espresso la propria esperienza al ginecologo durante l’ultima visita (Iloson et al., 2021).

La scoping review di Iloson e colleghi

Iloson e colleghi (2021) hanno quindi condotto una scoping review sul tema, con l’obiettivo di indagare (1) la portata e la natura della ricerca attuale sui sintomi della somatizzazione nelle donne che hanno subito abusi sessuali e (2) l’esistenza di sintomi specifici di somatizzazione che possono essere collegati all’abuso sessuale (Iloson et al., 2021). A differenza di una revisione sistematica, una scoping review non ha l’obiettivo di valutare la qualità delle evidenze (Arksey & O’Malley, 2005), bensì è tipicamente utilizzata per “mappare” la letteratura rilevante nel campo di interesse. Pertanto, un limite della scoping review è che non è stata effettuata alcuna valutazione della qualità metodologica (Iloson et al., 2021).

 In generale, questa scoping review (Iloson et al., 2021) ha incluso un totale di 7 articoli. Quattro dei sette studi inclusi in questa revisione hanno valutato il dolore dopo un abuso sessuale, in particolare il dolore muscoloscheletrico cronico (Ulirsch et al., 2014), il dolore intestinale (Grinsvall et al., 2018), il dolore acuto (Fishbain et al., 2014) e il dolore cronico (Fishbain et al., 2014; Symes et al., 2014). Due studi (Grinsvall et al., 2018; Ulirsch et al., 2014) non sono stati in grado di dimostrare una significativa associazione, tuttavia uno dei due studi (Ulirsch et al., 2014) ha riportato una soglia del dolore più bassa, l’altro (Grinsvall et al., 2018) invece ha mostrato un aumento della gravità del dolore nel tempo dopo un abuso sessuale. In due studi (Gerber et al., 2008; Pallotta et al., 2014) è stata evidenziata un’associazione tra abuso sessuale e aumento dei sintomi somatici. Uno studio (Bradford et al., 2012) ha mostrato che le donne con sintomi della sindrome dell’intestino irritabile hanno riferito una storia di abuso sessuale più spesso dei controlli sani. I seguenti risultati sul legame tra dolore e abuso sessuale sono in parte in contraddizione con le ricerche precedenti (Iloson et al., 2021). Per esempio, una revisione di Nelson e colleghi (2012), comprendente 108 studi, ha esaminato i sintomi fisici medicalmente inspiegabili in adulti sopravvissuti ad abusi sessuali infantili e ha trovato un’associazione con diversi sintomi, ad esempio gastrointestinali, ginecologici, respiratori superiori, dolore pelvico cronico, cefalea e fibromialgia (Nelson et al., 2012). Una revisione di Barker e colleghi (2019) ha invece rilevato che la violenza sessuale da parte di un partner è associata a un rischio maggiore di dolore e altri sintomi somatici.

Il fatto che questa revisione (Iloson et al., 2021) non sia riuscita a identificare un legame tra l’abuso sessuale e il dolore come sintomo specifico come hanno fatto gli studi citati, può essere dovuto alle diverse strategie di ricerca utilizzate, che hanno portato all’inclusione di studi diversi. Il dolore come sintomo singolo infatti non è stato incluso nella strategia di ricerca di Iloson e colleghi (2021), a meno che non facesse parte della somatizzazione. Per quanto riguarda gli altri sintomi somatici, i risultati della revisione sono più coerenti con le ricerche precedenti, in cui è stata identificata un’associazione tra sintomi somatici e abuso sessuale (Mcnutt et al., 2002; Morse, 1997).

In conclusione quindi, non è stato possibile individuare alcun sintomo somatico specifico di somatizzazione dopo un abuso sessuale. Sei dei sette studi suggeriscono però un legame tra il trauma sessuale e l’aumento della presenza di diverse forme di sintomi somatici aspecifici, come il dolore e la sindrome dell’intestino irritabile (Iloson et al., 2021). L’associazione tra abuso sessuale e dolore è risultata incoerente (Iloson et al., 2021). Sono necessari quindi ulteriori studi prospettici sui sintomi che i pazienti presentano in relazione alla somatizzazione indotta da un precedente trauma sessuale.

Strategie di regolazione emotiva e traumi infantili: il ruolo dell’autostima nella gestione di rabbia e ruminazione

Persone con un passato di abusi e traumi riportano frequentemente bassa autostima, alti livelli di rabbia e strategie di regolazione emotiva disadattive.

 

Gli effetti di esperienze traumatiche infantili

Di frequente persone che in infanzia e/o adolescenza sono state sottoposte al sistema affidatario riportano di aver subìto diversi tipi di maltrattamenti, quali maltrattamenti fisici, sessuali, emotivi e/o neglect (Lueger-Schuster et al., 2014). La violenza fisica o psicologica subita e l’assenza di un ambiente sicuro durante l’infanzia hanno come conseguenza gravi problemi psicologici ed emozionali in età adulta (Carr et al., 2018). Frequentemente, infatti, si va incontro a problemi di gestione della rabbia, bassa autostima e strategie di regolazione emotiva inefficaci (Ford et al., 2012; Stevens et al., 2013; Stein, 2006).

Nello specifico, la rabbia è un fattore di mantenimento centrale nello sviluppo del disagio psicologico (Cassiello-Robbins & Barlow, 2016), soprattutto in adulti con un passato di maltrattamenti subiti nel sistema di affido, i quali presentano frequentemente problemi di rabbia e ruminazione rabbiosa. La ruminazione è una strategia di regolazione emotiva disfunzionale (Kaplan et al., 2018), definita come uno stile di pensiero ripetitivo che focalizza l’attenzione dell’individuo sui propri sentimenti e pensieri negativi, le cause, i significati e le conseguenze (Nolen-Hoeksema & Morrow, 1991); tendenzialmente la ruminazione ha come tematica centrale la perdita ed è indirizzata al passato (Olatunji et al., 2013). La tendenza a sperimentare sentimenti di rabbia e l’utilizzo della ruminazione impedisce una corretta regolazione emotiva in risposta a esperienze di vita avverse (Weindl et al., 2020).

Per quanto riguarda l’autostima invece, esperienze di vita traumatiche in giovane età, periodo in cui si è più vulnerabili e ancora in fase di sviluppo, possono condurre a una scarsa autostima (Stein, 2006).

La letteratura ha evidenziato la presenza di una forte componente rabbiosa e di una ridotta autostima in adulti con traumi infantili (Asgeirdottir et al., 2010).

Lo studio di Weindl e colleghi (2020)

 Uno studio del 2020 di Weindl e colleghi ha indagato il ruolo dell’autostima nella regolazione delle emozioni negli adulti che avevano subito abusi infantili in case di affido. Gli autori hanno ipotizzato che la rabbia e la ruminazione rabbiosa fossero forme di regolazione emotiva disadattive, influenzate da scarsa autostima. Infatti, la rabbia è un fattore che accresce il disagio psicologico e i problemi di salute mentale in persone traumatizzate. La ridotta capacità di sviluppare strategie di regolazione emotiva adeguata gioca un ruolo fondamentale in questo contesto; infatti, persone con un passato di abusi e traumi riportano frequentemente bassa autostima, alti livelli di rabbia e strategie di regolazione emotiva disadattive. Gli autori hanno deciso di focalizzarsi su questa relazione proprio perché ad oggi, la letteratura riguardante il rapporto tra questi fattori è ancora poco chiara.

Gli autori hanno analizzato modelli di mediazione tra i seguenti fattori: strategie di regolazione emotiva, rabbia, ruminazione rabbiosa e autostima.

I risultati hanno mostrato l’esistenza di un legame significativo nel rapporto di mediazione tra questi fattori, come ipotizzato inizialmente. Infatti, il costrutto dell’autostima è risultato mediare il 26% del rapporto tra regolazione emotiva e rabbia e il 57.5% del rapporto tra regolazione emotiva e ruminazione rabbiosa.

In conclusione, l’autostima potrebbe essere un elemento mediatore chiave nella regolazione emotiva proprio grazie ai suoi effetti positivi sul distress psicologico ed emotivo. A livello pratico, nel trattamento di pazienti con un passato di traumi o abusi, un percorso terapeutico incentrato sul miglioramento e lo sviluppo di autostima e strategie di gestione funzionale delle emozioni, può avere effetti positivi sulla gestione della rabbia e della ruminazione rabbiosa.

 

Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione (2022) di Maurizio Pompili – Recensione

Il testo “Il rischio di suicidio. Valutazione e gestione” offre una panoramica dettagliata di concetti e problematiche inerenti al tema del rischio suicidio e della possibilità di prevenzione, tenendo conto dei riferimenti presenti nella letteratura internazionale e clinica.

 

 Si evince che, per la complessità dei temi trattati, il manuale risulta essere una motivazione per operatori e per professionisti a fornire il loro contributo continuo e la condivisione di esperienze e riflessioni che possano arricchire di informazioni preziose, per evitare di cadere in visioni pericolosamente riduzionistiche ed inesatte. Si aggiunga l’importante consapevolezza che i concetti riportati non possano mai essere completamente esaustivi, data la moltitudine di fattori presenti e l’interazione di variabili anche inattese, che possono scatenare una risposta così lontana da quel principio di sopravvivenza della specie che caratterizza l’essere umano e non solo. Un dato è sicuramente certo: colui che tenta un gesto così estremo si ritrova a considerare che esso stesso sia l’unica scelta rimasta, per contrastare un dolore insormontabile ed insopportabile. Il tempo vissuto sembra arrestarsi in un qui ed ora che contraria ogni elan vital, incastrato in pensieri negativi e in una condizione di sofferenza tale da far perdere il controllo. Condizione che va rispettata e affrontata con delicatezza, cercando di non rimanerne né impigliati, né condizionati da subdoli pregiudizi, spesso inconsapevoli, che possono condizionare l’intervento di ogni operatore che ha a che fare con tali dinamiche.

Nel primo capitolo il Prof. Pompili mette in evidenza il carattere multidisciplinare del tema del suicidio, in tutta la sua cruda tragicità, con una costante attenzione all’aspetto emotivo intrinseco, la guida per ogni esperienza mentale e fisica. In effetti l’emozione, dal latino ex movere, risulta correlarsi ad una spinta, ad un movimento che permette ad ogni singolo soggetto di posizionarsi nel mondo secondo le sue priorità, secondo quanto c’è di rilevante nella sua esperienza; la tonalità emotiva risulta la bussola individuale per direzionarsi nella propria esistenza, causa, essa stessa, in condizioni di sofferenza estrema, di gesti altrettanto estremi. Gli approcci sono sicuramente molteplici, da quello filosofico-esistenziale, a quello teologico, letterario, demografico, sociologico e socioculturale, fino a quello interpersonale, biologico e psicologico, più propriamente definito dal Prof. Pompili Mentalistico. In effetti, l’individuo si ritrova in uno stato perturbante che può degenerare in disperazione, intesa non solo come mancanza di speranza, ma anche e soprattutto di presenza di un dubbio, di quella incapacità decisionale che può innescare la convinzione che non ci possa essere una via di uscita. Kierkegaard parla di scheggia nelle carni, un’incapacità di ridurre la vita ad una scelta, che, in casi di fragilità estrema, può provocare quello strappo all’esistenza, come tentativo di placare un dolore incarnato, testimonianza di un rifiuto della propria essenza. E, non ultimo, l’approccio medico psichiatrico che, se da un lato ha permesso un’indagine accurata di terapie farmacologiche appropriate, dall’altro, però, rischia di concentrarsi sulla rilevanza di un disturbo o di una diagnosi e di considerare il gesto suicidario come una conseguenza. Nel corso della storia il suicidio è stato oggetto di stigma: in passato il suicida veniva considerato come colpevole e “condannato” a non avere un rito funebre e alla confisca di tutto il suo patrimonio. Tra il 1600 e il 1800 si parlava di non compost mentis, ossia di folle e di felo de se, ossia di autore di un crimine contro sé stesso. Nonostante l’importante processo di cambiamento avvenuto negli anni, sembra che tale impostazione abbia condizionato fortemente il pensiero moderno, in cui ancora risultano presenti, in alcuni contesti, precomprensioni che, a loro volta, condizionano l’approccio al fenomeno suicidario. In ogni caso, oggi il tema è osservato più da un punto di vista quantitativo che qualitativo, ossia il disturbo mentale, non ha un’importanza esclusiva; da qui ne deriva la necessità di comprendere lo stato di sofferenza, più che il tentativo di spiegarlo. Un approccio fenomenologico che porta ad interrogarsi non tanto o non solo sul cosa ha un soggetto, ma soprattutto sul come vive il proprio disagio. Il suicidio non è direttamente correlato al vizio di mente, ma alla difficoltà della stessa di “svolgere il suo ruolo auto organizzativo ed emergente”.

Nel secondo capitolo si mette in evidenza il tentativo di dispiegare le variabili maggiormente significative per delineare, almeno in teoria, coloro che sono maggiormente a rischio. Variabili importanti, ma non sufficienti, soprattutto se non inserite in un preciso modello di riferimento. Si respira smarrimento ed impotenza, in quanto tali fattori risultano dalla ricerca scientifica spesso imprecisi e limitanti; dunque debolmente predittori del comportamento suicidario. Tutto si complica se si pensa che l’ideazione suicidaria non necessariamente si correla alla morte del soggetto, nemmeno in termini di stati ad alto rischio. Pertanto, il clinico può essere invaso da senso di smarrimento e responsabilità, soprattutto in quanto permea l’idea subdola che gli operatori della salute mentale abbiano gli strumenti per prevedere e prevenire sicuramente il suicidio. L’impostazione di causa-effetto tra malattia mentale e suicidio rischia poi di caratterizzare come banale un fenomeno altamente complesso, che ancora dispone di poche evidenze empiriche e di molteplici approcci. Una metafora significativa, per rendere più evidente questa complessità, è quella di correlare le previsioni metereologiche alla valutazione del rischio di suicidio: in effetti, tale valutazione può riferirsi al momento esatto in cui viene effettuata e, dunque, la sua accuratezza può, come le previsioni del tempo a breve termine, modificarsi inaspettatamente e improvvisamente. Il rischio suicidio oscilla e può essere determinante un fattore di impulsività. Come in un oceano smisurato, dove la persona rimane aggrappata all’ultimo pezzo di una barca naufragata, con la possibilità sempre più incalzante di scivolare negli abissi dell’oscurità. Il terapeuta oscilla lui stesso in un mare pronto presumibilmente ad una tempesta, schiacciato anche dalla paura, non certo insignificante, di poter essere trascinato in contenziosi legali che possano additargli incapacità e superficialità.

E allora che fare? Sicuramente importante risulta l’indagine di aree di interesse come la storia personale, l’approfondimento dell’intenzione suicidaria, l’esame di realtà e, come già detto precedentemente, l’esperienza affettiva e la capacità di tolleranza allo stress. Ogni curante ha il dovere di indagare su ogni singolo aspetto, tenendo, però, sempre presente il fatto di non avere una sfera magica per prevedere qualcosa che accadrà all’improvviso, come una lite in famiglia o un problema al lavoro. Deve tenerlo presente per non sprofondare nella credenza di non essere in grado di, di ritenersi responsabile o di essere schiacciato da sensi di colpa. Viene sottolineata l’importanza di una buona comunicazione, spoglia di precomprensioni e autenticamente empatica, che valuti i possibili segnali di allarme, sempre nella loro totalità e non singolarità. Il clinico deva perlustrare non solo una dimensione di disperazione, ma anche e soprattutto quella possibilità di hopelessness, ossia di aspettative future che incagliano i processi di pensiero negativi in uno stato perturbato e perturbante di rigidità e di impossibilità. Necessaria risulta, pertanto, quell’alleanza terapeutica che permetta un processo di co-costruzione, incentivato dal potere narrativo e dalla sensazione per il paziente di non essere solo in mezzo al mare; una sintonizzazione con il desiderio di morte, per una maggiore comprensione, ma sempre un’attenzione dedicata a quello che può scaturire dal controtransfert.

Nel terzo capitolo si evidenzia l’importanza di una buona valutazione del rischio suicidario che comprenda un piano terapeutico ben delineato in cartella, eventuali modifiche, una buona preparazione del clinico in modo tale che, in caso di accertamenti, si possa dimostrare di avere fornito al paziente un’idonea assistenza. In effetti, oltre alle questioni primarie di ordine deontologico, non vanno sottovalutate le potenziali implicazioni legali che possono insorgere in caso di suicidio di un paziente. Sebbene la letteratura internazionale evidenzi l’impossibilità di stabilire un metodo di valutazione clinico scientifico e l’impossibilità di misure che, in assoluto, possano evitare il suicidio, esistono delle azioni che mai dovrebbero essere escluse da parte del terapeuta, come un’attenta valutazione anamnestica, un esame psichico adeguato, una diagnosi e la possibilità di valutare eventuali figure esterne (per esempio famigliari) che possano supportare in caso di crisi o che possano rilevare eventuali cambiamenti o sintomi alert, preziosi per il clinico. Si evidenzia la necessità di non prendere mai decisioni affrettate o superficiali, tenendo a mente la possibilità che una lunga degenza non sempre è la migliore soluzione, in quanto, in alcuni casi, può, invece, aumentare il rischio  suicidario.

Nel quarto capitolo viene fatta una preziosa ed interessante analisi sull’autopsia psicologica, termine introdotto per la prima volta da Shneidman nel 1951: si tratta di un’indagine accurata di ordine retrospettivo, utile in caso di chiarimenti su una morte ambigua, che permetta una ricostruzione il più dettagliata possibile sulla morte. Vengono utilizzati dati emersi da interviste a persone vicine al defunto, cercando di utilizzare domande specifiche che possano soffermarsi sui motivi del gesto suicidario. Non è assolutamente da confondere con un’indagine di ordine investigativo che, invece, cerca di delineare le dinamiche di un evento. Tale inchiesta va sempre considerata in termini probabilistici e mai come certezza assoluta, ma è sicuramente utile per chiarire il ruolo avuto dal soggetto in merito alla sua morte e per mettere in risalto il valore preventivo e clinico rispetto ai famigliari delle vittime di suicidio. Lo stesso Shneidman conia il termine di postvention per sottolineare l’assoluta necessità di non trascurare le possibili conseguenze sui famigliari e amici della vittima, sia in termini di trauma per i sopravvissuti sia anche di stigma sociale che ne potrebbe scaturire da una morte così drammatica e improvvisa.

 Sebbene in tutto il testo sia evidenziata la possibile necessità di tutela legale in caso di gesto suicidario, il capitolo cinque ne rappresenta una descrizione dettagliata, a partire proprio dal complesso significato che può essere attribuito al concetto di morte. Significato ricercato in ogni ambito, da quello filosofico-esistenziale, a quello religioso fino a quello medico, ma che ben si riconosce essere un’impresa ardua, oggetto di complicanze in caso di suicidio. La stessa storia evidenzia inizialmente l’incapacità di giustificare un gesto così estremo, tanto da essere considerato per lungo tempo un vero crimine commesso dalla persona contro sé stessa e dunque stigmatizzato. Successivamente si è cercato un capro espiatorio tra i medici ritenuti responsabili di un’azione tanto violenta e cruenta. Oggi, fortunatamente, grazie alle evidenze empiriche, l’operatore rappresenta  sempre più una fonte di salvezza per la persona a rischio suicidio e non un colpevole, in quanto i fattori scatenanti sono effettivamente molteplici e complessi. Nonostante questo, il capitolo evidenzia la possibilità per clinici e operatori di finire nel mirino della giustizia, accusati da famigliari o parenti stretti che, in alcuni casi, hanno bisogno di proiettare la colpa verso qualcuno di esterno, non riuscendo a farsene una ragione, anche dal punto di vista più strettamente umano. E allora che fare? Il Prof. Pompili, citando Black, (1979) spiega che ci si può riferire ad uno standard of care inteso come “quel grado di cura che uno staff e un professionista ragionevolmente prudenti dovrebbero esercitare in circostanze uguali o simili”. Pertanto l’intero staff dovrebbe adoperarsi sempre per garantire azioni, interventi, decisioni valutate accuratamente, ma comunque mai additabili, come causa diretta dello stesso comportamento suicidario. Ritorna l’importanza dell’alleanza terapeutica con il paziente, ma anche del continuo confronto con i famigliari, in modo tale da farli sentire sempre coinvolti e motivati a supportare la persona a rischio. In ambito legale le possibili denunce possono essere per negligenza, imprudenza o imperizia.

Nel sesto capitolo si affronta un tema importante relativo ai sentimenti del terapeuta che, se pur un professionista, dotato di conoscenze e strumenti utili ad affrontare ogni situazione, rimane sempre una persona che ha a che fare quotidianamente con tematiche e dinamiche universali, che potrebbero investirlo direttamente. Prendere in carico un paziente a rischio suicidio può innescare un senso di responsabilità enorme, oltre che a dei “rimbalzi emotivi” non indifferenti; alcuni terapeuti, proprio  per questi motivi, evitano certe tipologie di pazienti, chiudendo il problema agli albori. Ma per chi affronta invece queste dinamiche la strada non è certo facile, tenendo anche conto che la tonalità emotiva stessa è ben colta dal paziente sensibile a tali contenuti, anzi a volte è lo stesso paziente a voler mettere alla prova il professionista, non accontentandosi di poche risposte positive. Una sorta di test sempre più richiedente, sempre più intriso di rabbia e di frustrazione crescenti, che può investire come una tempesta anche il professionista più preparato e più attento. Tematiche esistenziali, come la morte, che turbano da sempre le menti di filosofi e non solo, si scontrano anche con i più esperti, con la possibilità di risposte difensive inconsapevoli altamente pericolose. Il controtransfert può innescare meccanismi di repressione dell’odio, o noia o addirittura dubbi rispetto alle proprie capacità  e, dunque, odio rivolto verso sé stessi, disperazione o, al contrario, innescare un meccanismo difensivo come la formazione reattiva che tramuta l’odio nel suo opposto, ossia lo zelo eccessivo o l’iperprotezione. Si aggiunga la possibilità di distorsione e negazione della realtà che potrebbero inquinare il lavoro terapeutico. Ne consegue la necessità di focalizzare l’attenzione anche sulle reazioni emotive del clinico, che, se trascurate, possono essere altamente pericolose. Un lavoro importante di consapevolezza delle proprie emozioni e di come le stesse possano essere modellate è centrale, per poter riconoscere i meccanismi difensivi sottesi e lavorare su sé stessi continuamente, anche in caso di morte del paziente. Il ruolo di un eventuale senso di colpa scaturito da una negligenza di questo lavoro introspettivo e di consapevolezza emotiva può essere determinante nell’instaurare senso di inutilità o incapacità, incastrando il professionista in un conflitto reale/ideale da cui può emergere anche senso di vergogna e bisogno di allontanarsi dalla propria attività.

Come poter rendere più accessibile un tema così impervio come il suicidio? Fondamentale è riuscire a ricondurlo ad un vero e proprio comportamento, ossia valutarlo dal punto di vista di ciò che accade e di ciò che può condizionare la condotta dell’individuo, incapace di trovare una via di uscita alternativa all’interruzione della propria vita. Ecco che ne deriva, come ben evidenziato nel settimo  capitolo, il fondamentale richiamo al concetto di comprensione del soggetto in quanto persona  depressa, umiliata, invasa da un sentimento di impotenza e di sconfitta e non di un richiamo ossessivo alla nosografia psichiatrica. Da qui la necessità di ragionamenti in termini di aree di criticità e di lavoro in una visione prospettica di intervento terapeutico che non dimentichi certo la diagnosi, ma che si concentri anche sul rischio di suicidio, spesso complementari nell’individuo. Pertanto, fondamentale è un’integrazione tra nozioni di farmacoterapia e psicoterapia che necessitano  sicuramente di ulteriori approfondimenti.

Se non si considera il suicidio solo come desiderio di farla finita, ma come volontà di interrompere quel flusso insostenibile di pensieri negativi, di ossessioni, di bisogno di una “completa cessazione del proprio stato di coscienza, e dunque, come risoluzione del dolore mentale insopportabile”; allora si avrà maggiore possibilità di offrire un valido supporto al paziente. Ne consegue il bisogno di un approccio alla persona che tenga conto delle sue caratteristiche, del suo essere unico e delle sue  modalità di risposta mai generalizzabili, una fenomenologia del suicidio che cerchi, con rispetto, di rendere “un pochino più tollerabili” aspetti ritenuti “intollerabili”, una fenomenologia del suicidio che valuti tanti micro cambiamenti come importanti conquiste, senza la pretesa, utopica, di risolvere ogni cosa in poco tempo. Un paziente a rischio suicidio mette a dura prova chiunque, anche il più esperto, toglie energie, spesso incastra in sensazioni di impotenza ed incapacità, ma la stessa  consapevolezza di tali dinamiche può essere un’utile risorsa per ogni operatore della salute mentale.

Non posso negare la difficoltà ad intraprendere la lettura di un testo come questo, dovuta al fatto che è incentrata su una tematica esistenziale altamente complessa, che insinua dubbi, perplessità e anche senso di impossibilità. Ma poi durante la lettura, oltre all’importante contributo scientifico e alle evidenze empiriche a livello internazionale raccolte dal Prof. Pompili e riportate nella modalità narrativa puntuale, chiara e semplice che lo contraddistingue, quello che emerge e domina è la sua  profonda umanità, il suo coraggio, il suo importante supporto ad ogni singolo operatore, la sua motivazione a non mollare, a continuare a rinvigorire i dati della ricerca. Il Prof. Pompili è in grado di mettere in pratica quanto enuncia nel suo testo, ossia la necessità di rispetto per ogni singolo paziente, la sua deontologia, ma, anche e soprattutto, il suo autentico sentimento di solidarietà umana. La lettura incentiva ad una continua ed incessante conoscenza e preparazione, mettendo in primo piano il senso del nostro lavoro clinico: operare secondo epochè, avvicinarsi ad una sempre maggiore comprensione del dolore e della sofferenza, capaci di trascinare in un profondo baratro, privo di vie di uscita. A tal punto da portare l’essere umano, in situazioni per lui estreme, (Shneidman parla di  psychache, tormento nella psiche) ad andare perfino contro quel principio di autoconservazione che spesso, errore più grande, si dà per scontato.

Grazie di cuore Prof. per la condivisione di questo importante bagaglio di conoscenze, motivo, per ogni singolo operatore, di costruzione di un lavoro di squadra e mai di un percorso in solitudine.

L’anoressia come stile di vita: il movimento Pro-Ana

Negli ultimi decenni, è sorto un nuovo preoccupante fenomeno che ha  visto come protagonisti i disturbi alimentari e le persone da essi affette: il movimento Pro-Ana.

Anoressia e movimento Pro-Ana

 Il movimento Pro-Ana, promosso esclusivamente in uno spazio virtuale, ha come obiettivo l’assidua ricerca di raggiungere un target di peso molto basso. Questa aspirazione è percepita come l’unica modalità di conseguimento della perfezione e dell’eccellenza, sia dal punto di vista corporeo che spirituale. Dunque l’anoressia è percepita dai partecipanti del movimento come un vero e proprio stile di vita piuttosto che come un disturbo; essa è una dimostrazione di forza e non la manifestazione di una problematica di salute mentale e fisica. Secondo uno studio condotto da Hoffmann nel 2018, la prima ondata relativa al movimento si sarebbe sviluppata intorno al 2001, quando sono nati i primi portali “pro-life” (specialmente in lingua inglese), il cui obiettivo primario era quello di permettere alle persone affette da anoressia nervosa di comunicare con altri pazienti e fronteggiare la solitudine.

Secondo uno studio pubblicato nel 2012 da Peebles e colleghi, internet sarebbe stato lo spazio che avrebbe maggiormente favorito lo sviluppo del movimento, infatti è stato osservato come il suo radicarsi sia stato possibile anche grazie all’utilizzo di social media, blog e forum online. Inoltre, la possibilità di poter condividere la problematica con altre pazienti e la glorificazione del disturbo non hanno fatto altro che intensificare le manifestazioni di esso e renderne complicato il trattamento. Infatti, come osservato da Bates nel 2015, queste pagine contengono consigli per perdere peso, per la cura del corpo e su come nascondere il proprio digiuno, il che non ha fatto altro che intensificare l’associazione che i pazienti fanno tra anoressia nervosa e stile di vita, piuttosto che tra anoressia nervosa e patologia.

Contrastare il movimento Pro-Ana

Per contrastare la ancora più estesa ascesa di questo movimento, le organizzazioni che promuovono la lotta contro i disturbi alimentari, iniziarono a richiedere la chiusura dei siti pro-ana; tuttavia, questa azione ebbe l’effetto opposto ed essi acquistarono notorietà. È stato stimato come tra il 2005 e il 2010 fossero quasi undici milioni i visitatori regolari di questi siti, di cui il 99% donne di età compresa tra i 12 e i 40 anni (con un picco tra i 13 e i 25). Secondo quanto riportato da uno studio di Csipke e Horne, pubblicato nel 2007, dando uno sguardo a questi portali, è possibile osservare come il mondo di internet rappresenti una vera e propria opportunità per le pazienti per scambiarsi consigli e strategie: infatti, all’interno di questi siti è possibile trovare delle sezioni, ognuna dedicata ad un’area specifica, tra cui come trovare un compagno di dieta oppure partecipare ad un contest per mettersi alla prova o trovare dei veri e propri “tips and tricks”. Sono inoltre presenti numerose sezioni contenenti fotografie di modelle e attrici estremamente magre, con l’obiettivo di stimolare e incoraggiare le partecipanti ad intraprendere una dieta estrema.

Perché vengono utilizzati i siti Pro-Ana?

 Il crescente interesse per questi siti da parte delle giovani donne, anche non affette da un disturbo alimentare, ha portato ad interrogarsi su quali fossero i fattori concorrenti all’utilizzo di essi. Nel 2016, grazie ad uno studio condotto da Yom-Tov e colleghi, sono stati evidenziati i tratti più marcati di alcuni utenti del sito myproana.com, ovvero quello maggiormente utilizzato in tutto il mondo, che si sono prestati a partecipare ad una ricerca volta all’individuazione di differenze tra stato fisico e mentale e comportamento online delle persone coinvolte nelle comunità pro-anoressia. Il campione finale dello studio comprendeva 761 soggetti e dai risultati è stato possibile osservare che il più del 45% degli utenti aveva ricevuto una diagnosi di disturbo depressivo, più del 77% aveva messo in atto comportamenti volontari autolesivi, il 46% aveva tentato il suicidio almeno una volta; solo poco più del 7% riportava di essere sottoposto a trattamento per almeno un disturbo. Studi comparativi con altri siti web, hanno tuttavia mostrato che gli utenti di myproana.com rappresentano il campione meno a rischio, con un buon interesse per una possibile terapia. Altri studi si sono concentrati sull’auto-percezione dell’utilizzo di questi portali da parte degli utenti e oltre che una marcata self-consciousness per quanto riguarda la propria malattia e l’impatto che l’uso di questi siti hanno avuto su di essa (“the problem is the user, not the site”), sono emersi 4 temi principali in risposta alla domanda “In che modo i siti pro-ana contribuiscono ai disturbi alimentari?”.

  • I siti pro-Ana e i disturbi alimentari non riguardano solo la volontà di essere magri
  • I disturbi alimentari si sviluppano indipendentemente dai siti pro-Ana
  • I siti pro-Ana non causano i disturbi alimentari ma possono fungere da trigger o incoraggiamento
  • I siti pro-Ana forniscono supporto (Hilton, 2018).

Conclusioni

Gli utenti intervistati tendono dunque a fare una distinzione tra l’utilizzo dei siti Pro-Ana e lo sviluppo di un disturbo alimentare, affermando che la frequentazione di questi portali non è la causa dell’esordio del disturbo. Tuttavia, gli stessi utenti riconoscono che l’accesso può innescare o incoraggiare la predisposizione a un’alimentazione disordinata.

Frequentemente gli utenti riportano di aver ricevuto supporto all’interno di queste community anziché pericolosi incoraggiamenti. La necessità di un senso di comunità, di un ambiente “sicuro” e di supporto che altrimenti manca nelle loro vite, porta alla negazione dei rischi di questi siti in favore di un utilizzo più frequente.

Questi dati potrebbero aiutare i professionisti a implementare ed affinare gli interventi terapeutici con chi soffre di disturbi alimentari o è a rischio di svilupparli. Sebbene le linee guida citino alcuni approcci di comprovata efficacia quali la CBT-ED, la ricerca può comunque aiutare a sviluppare trattamenti più mirati. In questo caso, ad esempio, l’aver raccolto informazioni sul movimento pro-ana dal punto di vista degli utenti, può aiutare i professionisti a focalizzarsi su ulteriori aree di approfondimento e lavoro terapeutico quali la tendenza a vedere il problema come qualcosa di diverso dal bisogno di utilizzare i siti pro-ana e l’importanza di trovare supporto e comprensione non sentiti invece nella vita off-line (Hilton, 2018).

 


SOFFRI DI UN DISTURBO ALIMENTARE?
RIPRENDI IL CONTROLLO DELLA TUA VITA. 

CONTATTA LA CLINICA DISTURBI ALIMENTARI MILANO none

L’arte di amare, di Erich Fromm – Recensione

Il quesito di partenza di Fromm nel volume “L’arte di amare” è: “è l’amore un’arte?”. La risposta –spoiler– è affermativa.

 

 La nostra società è una società liquida, ha detto Zygmunt Bauman alla fine degli anni ’90, e con essa sono diventate liquide anche le nostre vite, i nostri sentimenti e l’amore, il quale sembra ormai essere un qualcosa di inconciliabile con i dettami del vivere quotidiano, dove la stabilità e la sicurezza sembrano aver ceduto il passo a un ineluttabile cambiamento continuo, spesso confuso con un illusorio desiderio di libertà privo di legami.

Erich Fromm –psicologo, filosofo e accademico tedesco– con una certa dose di lungimiranza pubblicò nel 1957 “L’arte di amare”, uno dei saggi più significativi della sua produzione accademica. Nel saggio si scagliava e condannava già allora la concezione moderna di amore e le attuali forme di pseudo-amore, smascherando l’errore della percezione comune che lo confonde con un sentimento limitato alla transitorietà dell’esperienza dell’innamoramento e della sensazione di essere desiderati e presentando, al contrario, la sua personale idea di amore come una vera e propria forma d’arte da apprendere e coltivare con impegno, pazienza e dedizione.

Per approcciarsi a questa lettura è utile fare una premessa sulla necessità di contestualizzare un’opera che è indubbiamente “figlia del suo tempo”. Sebbene il contenuto sia valido e comprensibile, Fromm –uomo bianco, appartenente alla classe media, privilegiato e conservatore– può rappresentare alcuni clichés del Novecento. Grandi opere della storia possono oggi essere considerate discutibili per la morale e le tematiche che toccano, ma ciò non toglie che esse costituiscano una parte fondamentale e totalmente naturale dell’evoluzione accademico-letteraria. Pertanto, onde evitare di abbandonare anticipatamente una lettura o di trasportarci dentro le visioni odierne, è necessario tenere conto del periodo in cui è stata scritta e contestualizzarla nella maniera più completa e informata possibile così da poterne apprezzare meglio il valore.

Il quesito di partenza di Fromm è: “è l’amore un’arte?”. La risposta –spoiler– è affermativa, nella prospettiva in cui amare non è un’attitudine innata o una semplice predisposizione personale, ma è un qualcosa da apprendere attraverso un’attenta analisi e assimilazione della “teoria” e un esercizio pratico continuo e consapevole.

“L’arte di amare” non è un romanzo né una storia d’amore, bensì un manuale e una guida in cui l’autore, piuttosto che soffermarsi su come farci amare o come diventare attraenti nei confronti di qualcuno, ci spiega come amare partendo da noi stessi e dai nostri valori più radicati.

Apparentemente, Fromm sembra dunque spogliare l’amore della sua tipica irrazionalità. Ma in realtà egli mostra una visione dell’amore che rappresenta la modalità più alta e pura cui l’individuo può tendere per esprimere pienamente la propria potenza interiore e affettiva.

Punto iniziale dell’esposizione teorica dell’autore è l’idea che l’amore sia una modalità di riparazione a un senso di solitudine insito e immanente nell’essere umano. Con la nascita, infatti, l’individuo sperimenta la separazione dal corpo materno e si ritrova catapultato in un destino di incertezze. L’amore, in quanto fusione con un’altra persona, risulta essere la migliore soluzione a questa condizione, purché consista in un’unione non-simbiotica, in cui ogni essere riesce a conservare la propria integra individualità.

 Di tutte le forme in cui tale unione può svilupparsi e manifestarsi, Fromm sottolinea che l’amore non è una forma di passività ma prima di tutto di attività: amare è dare. Ma non ci si ferma qui, altrimenti saremmo tutti dispensatori d’amore. Per ognuno che dona deve necessariamente esserci qualcuno che riceve e che, allo stesso modo, dà, generando un ciclo reciproco di premura, responsabilità, rispetto e conoscenza. Si tratta di un percorso che passa imprescindibilmente attraverso l’amore per sé stessi, ma che allo stesso tempo è lontano dall’egoismo: chi ama solo sé stesso o chi ama solo gli altri, infatti, non può amare pienamente.

Fromm esamina e passa in rassegna diversi tipi di legame, da quello materno, a quello fraterno, a quello erotico, a quello sentimentale, a quello religioso e spirituale, e dedica poi una ricca digressione anche alla condizione di alienazione cui l’uomo contemporaneo in Occidente è soggetto. Sostiene che dalle personalità alienate dei secoli odierni l’amore scaturisca come soddisfazione reciproca e come cooperazione di intenti e interessi contro l’ostilità del mondo e il rischio dell’isolamento, concorrendo a una delle peggiori forme di disgregazione dell’amore autentico, maturo e sano.

Nonostante ciò, Fromm conclude il trattato in maniera positiva sostenendo che, se è vero che nella società occidentale contemporanea l’amore perde la sua vera essenza, è anche vero che – considerandolo come un’arte che si può imparare – c’è ancora speranza per invertire la rotta.

Il modo migliore per affinare un’arte è indubbiamente quello di praticarla in prima persona. Con questa lucida consapevolezza, sapendo di non poter fornire specifiche istruzioni per un’esperienza così personale, l’autore si limita allora a considerare l’importanza della disciplina, della pazienza e della concentrazione come fattori basilari da praticare in ogni fase della vita. Essi esigono un lavoro di meditazione e riflessione esplorativa non-egoistica sul proprio “io” per scoprirsi come centro del mondo, imparare ad ascoltarsi e avere fede in sé stessi, perché solo così si può riuscire a sviluppare una relazione matura, sana ed equilibrata, che sappia rompere i vincoli del proprio narcisismo per incardinarsi sull’autenticità, l’ascolto e la vera fiducia reciproca.

Il trattamento cognitivo comportamentale per la Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS)

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS) è un disturbo psicosomatico gastrointestinale basato sulla connessione diretta fra cervello e intestino. In che modo la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) si è rivelata efficace?

 

 Una recente revisione della letteratura (Sugaya et al., 2021) ha sistematizzato i meccanismi e le procedure specifiche attraverso cui la terapia cognitivo comportamentale (CBT) otterrebbe un effetto positivo sul trattamento della sindrome dell’intestino irritabile (IBS).

Che cos’è la Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS)

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS) è uno dei disturbi funzionali gastrointestinali più comuni, al punto che le ricerche ne stimano la prevalenza al 5-10% nella popolazione generale (Palsson et al., 2016). Per darne una definizione diagnostica (Drossman, 2016), si tratta di un ricorrente dolore addominale che, in media, si verifica per almeno un giorno a settimana nel corso degli ultimi tre mesi e che, in associazione, presenta almeno due delle seguenti tre anomalie:

  • Legate alla defecazione;
  • Cambiamento nella frequenza della defecazione;
  • Cambiamento nell’aspetto delle feci.

A livello patogenetico e fisiopatologico, i fattori alla base dell’origine e del processo di questo disturbo sono molteplici e di varia natura:

  • Anomalie nella motilità gastrointestinale;
  • Abbassamento della soglia sensoriale gastrointestinale;
  • Alterazioni psicologiche, come ansia o depressione.

Ognuno di essi costituisce un’alterazione nella funzionale relazione tra cervello e intestino. Poiché la sindrome dell’intestino irritabile è un disturbo psicosomatico gastrointestinale che spesso si sviluppa con lo stress, è importante trattarlo sia dal punto di vista fisico che mentale (Fukudo et al., 2021). Le linee guida, infatti, suggeriscono l’utilizzo di terapie psicologiche per i pazienti che non rispondono alla terapia farmacologica standard (Hookway et al., 2015). Anche se molteplici sono gli interventi psicologici rivelatisi efficaci nella cura dell’IBS (esercizi di rilassamento, ipnosi, psicoterapia psicodinamica; Ford et al., 2019), quello cognitivo-comportamentale (CBT) è stato quello più studiato per il trattamento di questa patologia (Sugaya et al., 2021).

Il protocollo cognitivo-comportamentale

Dal momento in cui gli studi riportano che i pensieri e i comportamenti associati ai sintomi dell’IBS sono legati a emozioni negative, prime fra tutte ansia e depressione (Sugaya et al., 2012; Windgassen et al., 2019), la CBT è stata più volte testata rispetto alla capacità duplice di accertare i target comportamentali e di ristrutturare le basi cognitive associate ai sintomi. Come enucleato da Toner (et al., 1998), il principale obiettivo della CBT nel trattamento dell’IBS è quello di intervenire sul modo in cui il paziente vede il suo disturbo attraverso un processo a tre fasi:

  • Riformulare la sua visione dell’IBS da una prospettiva impotente e senza speranza ad una fiduciosa e agente, dove il paziente sente di avere il controllo sui sintomi;
  • Identificare la relazione tra pensieri, sentimenti, comportamenti e sintomi, al fine di comprendere come le cognizioni abbiano un ruolo determinante nel causare le reazioni emotive e comportamentali tipiche dell’IBS;
  • Individuare e implementare strategie di coping più efficaci per migliorare la qualità di vita.

 A giustificare l’utilità clinica di queste procedure è il fatto che, come evidenziato da una recente meta-analisi (Sarter et al., 2021), le caratteristiche cognitivo-emotive dei pazienti con IBS prima del trattamento (come comorbidità con disturbi dell’umore o disturbi d’ansia, catastrofizzazione dei sintomi, rimuginio, tendenza ad amplificare le percezioni somato-sensoriali, scarsa accettazione dei sintomi e basso senso di autoefficacia) sono in grado di predire gli esiti terapeutici negativi dei pazienti con IBS. Pertanto, accertare e riformulare il funzionamento psicologico che fa da fattore di vulnerabilità e di mantenimento alla cronicità della sintomatologia IBS è fondamentale. Per far ciò, la CBT utilizza un ampio armamentario di tecniche terapeutiche (Lackner et al., 2019).

Tecniche cognitive

La psicoeducazione informerebbe il paziente circa i meccanismi di interazione cervello-intestino e le strategie per la prevenzione delle ricadute. Parallelamente, il controllo della preoccupazione e del rimuginio sarebbero utili a sfidare e confutare i modelli di pensiero distorti che li sorreggono

Esposizione

Le tecniche di esposizione si sono rivelate particolarmente adatte ai pazienti che presentano alti livelli di evitamento comportamentale associato ai sintomi IBS (Hesser et al., 2021). L’esposizione enterocettiva consiste nell’invitare il paziente a esporsi ai fastidiosi sintomi addominali che lui stesso ha indotto (ad esempio, stringendo i muscoli addominali o assumendo cibi che andrebbero evitati). Questa tecnica sembra si sia dimostrata efficace nel ridurre l’ansia in risposta al disagio addominale comune nell’IBS (Craske et al., 2011; Kawanishi et al., 2017). Attraverso questa procedura, infatti, il paziente da un lato scoprirebbe di avere il controllo sui sintomi temuti, perché può crearli da solo, dall’altro comprenderebbe che tali sintomi non portano per forza alle conseguenze catastrofiche immaginate.

Gestione dello stress

La CBT utilizza strategie di problem solving flessibile che aiutano il paziente a sviluppare modalità più efficaci per gestire i fattori di stress in modo realistico e non catastrofizzante. In questa direzione, l’auto-monitoraggio gastrointestinale può essere utile nella fase iniziale per accertare razionalmente i sintomi, i loro antecedenti (triggers) e le loro conseguenze emotive e comportamentali.

Mindfulness

Praticare esercizi di mindfulness insegnerebbe al paziente ad accettare le emozioni negative che conseguono l’insorgenza dei sintomi gastrointestinali, senza cercare di eliminarle in maniera evitante e controproducente (Billones e Saligan, 2020).

Conclusioni

Le considerazioni formulate rinnovano la comprovata efficacia della CBT nel trattamento dell’IBS. Recenti studi, affermando che la CBT avrebbe un effetto diretto sui sintomi gastrointestinali dell’IBS, in modo indipendente dall’effetto sortito sul disagio psicologico del paziente, suggeriscono che è la riduzione della sintomatologia IBS a migliorare il malessere psicologico, piuttosto che viceversa (Lackner et al., 2007). Allo stesso modo, i risultati di una recente meta-analisi a proposito degli effetti della CBT sul trattamento IBS hanno ugualmente riportato una maggiore efficacia della psicoterapia sui sintomi addominali rispetto a quelli psicologici (Radu et al., 2018). In questo senso, è interessante notare come l’intervento cognitivo e comportamentale nel funzionamento della patologia IBS promosso dalla CBT possa contribuire al miglioramento dei sintomi addominali attraverso il coinvolgimento diretto nel processo di correlazione cervello-intestino alla base dell’IBS, alleviando così il disagio psicologico ansioso e depressivo (Sugaya et al., 2021).

TikTok fra creatività e psicopatologia

Tik Tok, quanta energia, quanta velocità, persino la politica ne approfitta, eppure in fretta scopri quanto è fragile il mondo.

 

Tik Tok e gli altri social network

 Osservando i social network, in un attimo balza agli occhi quanto siamo intrappolati in una bolla illusoria di felicità che si finge evoluta. Grandi risorse che ci agevolano e ci accompagnano, offrendoci anche enormi vantaggi, spesso le piattaforme social non solo segnalano, ma soprattutto stimolano vulnerabilità̀ psicologiche. Si osserva una dilatata vulnerabilità̀ narcisistica.

Osservando i contenuti proposti dai tiktokers, spiccano sicuramente profili creativi e talentuosi, ma al contempo si evidenziano caratteristiche di egocentrismo e problematiche legate alla propria immagine, disagi di tipo psicopatologico e/o difficoltà relative all’identità̀ con fenomeni di dismorfismo, vuoto, chiusura a causa di evidenti difficoltà relazionali e interpersonali, meritevoli di attenzione (Zenone & Barbic, 2021).

Nell’ambiente virtuale si tenta di supplire alle frustrazioni della vita quotidiana e alle palesi crisi esistenziali con personaggi virtuali dissociati dal mondo. Tali profili vengono poi rinforzati dagli utenti e da coloro che, anche solo in un circolo di curiosità̀ e noia, rafforzano la credenza di specialità̀ del creator mantenendone alta la popolarità̀, creando così modelli di indubbia vulnerabilità̀ psicologica. Un fenomeno, questo, già̀ osservato nello showbiz televisivo, ma qui fortemente condizionato da un habitat virtuale che sembra aggravarne l’intensità̀ e legittimare la presenza di comportamenti e performance di dubbio valore, sostenute da un atteggiamento collettivo di tipo disfunzionale (Nesi, 2020). Attraverso i social l’influenza di alcuni atteggiamenti si mostra più̀ virale, colpisce, appassiona, distorce, e talvolta stordisce!

Appare certamente interessante osservare il fenomeno attraverso una chiave di lettura socio-psicologica profonda, ma anche la più̀ semplice delle osservazioni rileva la presenza di un riverbero di grande sofferenza collettiva, una crisi globale che riflette un generale collasso valoriale, una ricerca spasmodica di approvazione (Meno & Leung, 2021) e stati depressivi in risposta (Sia & Dong, 2021).

Si osserva inoltre il potere quasi ipnotico di video e immagini che sembrano innescare stati dissociativi della coscienza, di fuga dalla realtà, rappresentando un rischio per i più giovani che tendono a riconoscersi in una vetrina virtuale, caratterizzata da apparente competenza e illusorio successo, che stimola alternativamente emulazione o sentimenti di esclusione e inadeguatezza (Zanon et al., 2002). Il fenomeno dominante sembra essere una continua affermazione personale legata a doppio filo alla ricerca del consenso da parte degli altri, ma non di altri che siano significativi per il soggetto che fa uso dei social, bensì di una massa indistinta, che rinforzi la dilagante fantasia di potere e riconoscimento universale (Kristinsdottir et al., 2021). Nell’affannosa ricerca di riconoscersi in quanto degni di attenzione e stima, i social catalizzano dunque un massiccio investimento sul tema del valore personale: per essere qualcuno devi essere riconosciuto, speciale, grandioso, a discapito della semplicità e autenticità dei rapporti affettivi. Una forte sociotropia secondo cui l’autostima e la propria identità necessitano costantemente di essere validate dagli altri, in modo indifferenziato (Casale e Banchi, 2020). Quasi non importa più l’essenza di chi sei ma ciò che lo sguardo degli altri riflette su di te, fino al punto in cui tutto si riduce a un “basta che funzioni e che i follower approvino”! (McNamee et al., 2021). Nella smaniosa ricerca del consenso e dell’autoaffermazione, dunque, diventa importante che ci si riconosca senza etichette, senza riferimenti o canoni standard da indossare, con la conseguenza di generare l’effetto opposto, che si traduce in una creazione di modelli pericolosi e molto meno inclusivi di quello che, di primo acchito, appare.

Social network e influencer

 In questo complesso panorama si inserisce il tanto osannato concetto di influencer, che conferma il bisogno di riconoscimento e sancisce la saldatura fra auto-affermazione e consenso come presupposto per riconoscersi, in una modalità̀ che rende il soggetto succube dell’opinione pubblica. Credenze quali “Se gli altri mi riconoscono un certo valore, allora valgo qualcosa!”, oppure “Se lei così riconosciuta si comporta così, allora vuol dire che funziona e lo faccio anche io”, e ancora “se gli altri mi vedono, allora esisto” riflettono senza ambiguità̀ tale saldatura. La visione qui delineata a proposito dei comportamenti socio-psicologici potrebbe essere valutata come troppo critica: sembra demonizzare e svalutare un’idea di progresso, mentre molti risultano essere i vantaggi connessi ai social media come la velocità comunicativa, la condivisione, il potere educativo, altruistico e di solidarietà. In molti casi, si incontrano profili interessanti e attenti alle diverse sensibilità e/o di evidente talento artistico/comunicativo, con un fine collettivo molto potente che solo attraverso questi strumenti può arrivare a toccare fasce di comunicazione importanti, come vertici politici altrimenti inarrivabili. Si riscontra un sempre più̀ largo uso di tali mezzi comunicativi che difatti vengono utilizzati da tutte le categorie, dalla psicologia, all’economia e, ultima tra tutti, dalla politica. Proprio poco tempo fa, in piena campagna elettorale, uno dei più importanti esponenti politici decide di aprire un account su Tik Tok: cambia dunque il modo di fare propaganda per cercare di creare un punto di contatto con un elettorato più giovane, entrando così a far parte di un mondo che sembra ormai invalicabile con i tradizionali mezzi comunicativi.

Tuttavia, osservando i vari profili connessi a Tik Tok non si può non registrare una generale tendenza verso condotte talvolta di cattivo gusto, noiose, irrispettose, vuote. Si osserva prontamente la presenza di fenomeni psicopatologici che meritano attenzione clinica e segnalano un rischio in termini educativi e psicologici (Montag et al., 2021). Molti ragazzi infatti passano gran parte del loro tempo assorti a seguire personaggi labili e fragili che esibiscono condotte egocentriche e prive di senso; si perdono e si chiudono in questo mondo virtuale, che simula il contatto sociale, senza investire in attività sane e produttive, alimentando di conseguenza quella che è la noia e il disinteresse per ciò che è reale (James et al., 2017).

Inoltre, aspetto questo più preoccupante, tale fenomeno ha luogo anche presso la popolazione adulta (Perlis et al., 2021) e nei genitori che, confusi e attoniti, cercano di partecipare per ristabilire un canale comunicativo con i propri figli e per capire il senso di queste evoluzioni virtuali, ma che alla fine, quasi senza accorgersene, entrano a far parte del gioco rimanendone stupefatti e vittime.

Conclusioni

I molteplici studi in corso (per esempio, Kong et al., 2021) aprono dunque all’idea che strumenti come Tik Tok possono rivelarsi polimorfi, perché permettono una duplice analisi della realtà: da un lato si evidenzia il loro indubbio impatto sull’evoluzione sociale, che sta via via determinando un differente approccio dei giovani alle relazioni con se stessi e con gli altri, e dall’altra parte, si osserva quanto e come tale cambiamento comunicativo stia contribuendo ad aprire uno scorcio sulla realtà personale degli utenti, fungendo così da lente d’ingrandimento su paradossi psico-sociali, evoluzioni e cambiamenti.

Da queste osservazioni preliminari potrebbe essere contemplata l’idea di sfruttare la piattaforma social anche a scopi clinici di osservazione e studio: grazie ai contributi degli utenti sotto forma di video e visual è infatti possibile tratteggiare gli aspetti della personalità in relazione ai cambiamenti e ai canoni sociali di riferimento, valutando aspetti profondi della persona che spesso, e paradossalmente, si tende a nascondere nella vita quotidiana.

Il complesso edipico secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale di Freud

Attraverso la rinuncia alle ambizioni edipiche e l’interiorizzazione dei valori genitoriali, il bambino impara a dirigere la libido dai genitori all’esterno (nella fase fallica il bambino si avvicina alla maturità sessuale della fase genitale, cioè dell’età adulta) superando il complesso edipico

 

Lo sviluppo psicosessuale nella teoria freudiana

 Secondo la teoria dello sviluppo psicosessuale proposta da Freud, lo sviluppo della pulsione sessuale richiede il passaggio della libido (energia associata alla pulsione) attraverso cinque fasi biologicamente determinate. Gli organi la cui stimolazione produce piacere e la cui attività permette di alleviare la tensione definiscono le tappe dello sviluppo psicosessuale. 

Il complesso edipico rappresenta il conflitto che caratterizza la fase fallica (compresa tra i 2 anni e mezzo circa e i 5/6 anni di età) che ha come zona erogena l’area genitale. Difatti, ogni fase è caratterizzata da un conflitto da superare e il conflitto determina il passaggio alla fase successiva: il conflitto si crea perché la soddisfazione della pulsione sessuale associata alle fasi pregenitali è non conforme o adatta alle leggi e alle convenzioni della società civile (la sessualità infantile ha le caratteristiche delle perversioni). 

Il complesso edipico

Nel complesso edipico, le fantasie del bambino esprimono il desiderio sessuale verso il genitore di sesso opposto e sentimenti di rivalità aggressiva e antagonismo nei confronti del genitore dello stesso sesso (vissuto come un rivale). Il bambino vuole eliminare la minaccia rappresentata dal rivale (il genitore dello stesso sesso) attraverso la castrazione e formula l’ipotesi che il padre voglia punirlo nello stesso mondo. Ciò provoca nel bambino l’angoscia da castrazione. 

L’angoscia da castrazione porta il bambino alla rinuncia delle sue ambizioni edipiche e all’interiorizzazione dei valori genitoriali.

Attraverso la rinuncia alle ambizioni edipiche e l’interiorizzazione dei valori genitoriali, il bambino impara a dirigere la libido dai genitori all’esterno (nella fase fallica il bambino si avvicina alla maturità sessuale della fase genitale, cioè dell’età adulta). 

Possiamo osservare che, nella concettualizzazione del complesso edipico, Freud abbia pensato ad un bambino di sesso maschile, perché è più complesso spiegare l’angoscia da castrazione nelle bambine, cosa che costituisce un punto di debolezza di questa teoria. Presupponiamo però che l’angoscia derivata dalla paura della punizione del genitore dello stesso sesso sia esperienza di tutti i bambini. 

Nella teoria freudiana la fase del complesso edipico rappresenta la tappa più importante all’interno dello sviluppo psicosessuale nel formarsi della personalità, della salute mentale o delle nevrosi. 

La risoluzione del conflitto edipico

 Secondo Freud, la risoluzione del complesso edipico porta alla formazione dell’Io e del Super Io, cioè di strutture stabili e coerenti che costituiscono la mente e che consentono all’essere umano una vita adatta ad una vita civilizzata. Nasciamo secondo Freud con una capacità di pensiero primario basata sul principio di piacere e solo con lo sviluppo attraverso il principio di realtà sviluppiamo un processo secondario, un pensiero logico, razionale, su cui si basano le strutture solide e coerenti dell’Io e del Super Io. 

In particolare, l’io è un’istanza psichica che opera secondo il principio di realtà e che consente di organizzare e rendere accettabili gli aspetti dell’Es. Trasforma in realistici gli obiettivi, gli oggetti e le direzioni dell’Es. Si può definire come un insieme di funzioni regolatrici e armonizzatrici che tengono sotto controllo gli impulsi e le spinte pulsionali dell’Es. Quando queste funzionano bene

  • consentono all’individuo di non agire impulsi e desideri che potrebbero nuocere al benessere dell’individuo e della società
  • permettono di contenere i desideri perturbanti e l’affetto associato

Il Super Io è l’internalizzazione individuale di principi, regole, convenzioni della società. Questi principi sono assimilati in primo luogo attraverso i genitori. L’interiorizzazione di una serie di rappresentazioni cognitive emotive (credenze valori proibizioni atteggiamenti norme) legate ai rapporti precoci con le figure genitoriali. È un sistema di valori e ideali appresi e si divide in due sottosistemi:

  • coscienza (deriva dalle punizioni genitoriali)
  • Io ideale (deriva dalle gratificazioni e dai rinforzi genitoriali)

La funzione principale del Super Io è inibire gli istinti pulsionali dell’Es e convincere l’Io a sostituire obiettivi morali e perseguire la perfezione (standard elevati).

Tutto lo sviluppo psicosessuale di cui parla Freud protende alla socializzazione, cioè lo spostamento della libido da sé stessi agli altri. Il compito dello sviluppo evolutivo è trasformare il bambino con impulsi animaleschi in un adulto sano con un apparato psichico complesso e un sistema di controllo dei propri impulsi strutturato e funzionale, trasformare quindi la sessualità immatura in sessualità matura, passare da una libido narcisistica ad una libido oggettuale, spostare la libido da sé agli altri. 

Il metodo biografico come formazione, cura e filosofia (2022) di Romano Màdera – Recensione

Facente parte della collana Saggi di Raffaello Cortina Editore, il volume di Màdera “Il metodo biografico” spiega cosa intende l’autore parlando di metodo biografico e del caos esistenziale che prende forma partendo dall’esistenza stessa con sfumature personali ed emotive.

 

 Dedicato al grande pubblico che si interessa di riflessioni filosofiche, caratterizzato da un linguaggio specifico e concetti alle volte complessi in una narrazione biografica che aiuta il lettore a disegnare il filo conduttore.

Il volume “Il metodo biografico” è composto da cinque capitoli che raccontano la riflessione attorno al concetto di esistenza personale, biografica, che assume significato partendo dal soggetto stesso ma che in esso non si conclude.

Il linguaggio è quello proprio dei mondi della filosofia e della psicologia di cui Màdera fa parte a pieno titolo. Terminologia e concetti dunque astratti e che richiedono uno sforzo cognitivo ma che racchiudono la grandezza di cui tali temi sono portatori.

Il primo capitolo è dedicato unicamente a comprendere che cosa significhi biografica e cosa il metodo riferito ad essa possa rappresentare all’interno di una riflessione societaria e comunitaria inserita in un “caos” personale e individuale da cui si deve necessariamente partire. L’antitesi continua è tra la ricerca di un significato e la sua assenza, che deve essere colta e vista per giungere ad un metodo critico, ponderato e cosciente. All’interno del capitolo sono presenti diversi estratti e citazioni di autori quali Jung, Montale e Nietzsche.

I capitoli successivi sono rappresentati da racconti, ricordi, parole intrecciate nel passato dell’autore che conducono il lettore all’interno di storie di vita. Qui il registro diventa maggiormente fruibile, si leggono pensieri liberi che si rincorrono in un racconto dalle sfumature personali che narra, come in un film, il susseguirsi delle scene di vita dell’autore. Meritevoli le righe in cui l’autore racconta la prima età adulta e il personale rapporto con le vicende della primavera degli anni 70.

 Il capitolo dedicato all’incontro con il libro intitolato Mitobiografia acquisisce una dualità nel registro utilizzato, una sorta di unione tra quelli presentati nei capitoli precedenti; tuttavia la descrizione è resa in maniera molto funzionale e la lettura avviene in modo scorrevole. Si riconferma anche in queste pagine il trasporto emotivo e narrativo già emerso nel capitolo precedente, il pathos emotivo giunge ad un livello elevato nella sezione dedicata all’”intermezzo in galera”.

La doppia natura dell’autore si fonde nel capitolo conclusivo del volume che si apre con la spiegazione del concetto psicologico per eccellenza ovvero quello di “terapia”. La riflessione in chiave analitica pone l’attenzione sui concetti di espressione e riconoscimento come elementi fondamentali del lavoro terapeutico. Interessanti le riflessioni presenti in questa parte del libro rispetto alla psicopatologia, alle maschere sociali e al Sè e la strada tratteggiata verso quella che l’autore chiama “terapeutica filosofica”.

La conclusione del libro è un regalo in forma scritta che l’autore offre al lettore che pazientemente e con particolare sforzo, giunge nelle pagine conclusive.

“Tu sei il lettore impossibile che spero dentro ogni possibile lettore. Conosco questa magia dissimulata dalla sua occorrenza quotidiana: il lettore ignaro apre la porta a sconosciuti mondi e si precipita ingolosito in altre vite, finalmente dimentico di sé”.

Disturbi alimentari ed epigenetica

Numerosi studi hanno analizzato le alterazioni epigenetiche in relazione ai disturbi dell’alimentazione studiando, nello specifico, il ruolo della metilazione del DNA.

 

I disturbi alimentari

 La sintomatologia principale associata ai disturbi alimentari è caratterizzata dalla presenza di un’intensa preoccupazione per l’alimentazione, per il peso, per la forma del corpo, e più in generale per l’immagine corporea. La sintomatologia specifica presenta pratiche alimentari dannose e disadattive tra cui l’eccessiva restrizione calorica, l’alimentazione disregolata che sfocia in abbuffate e vari meccanismi di compenso, tra cui il vomito autoindotto e l’utilizzo di lassativi (Bulik et al., 2006)

I disturbi alimentari maggiormente osservati si possono racchiudere in tre grandi classi: l’anoressia nervosa (AN), il disturbo da alimentazione incontrollata (BED) e infine la bulimia nervosa (BN).

L’epigenetica

L’epigenetica è una scienza che indaga l’associazione tra i fattori ambientali, che riguardano il mondo esterno in cui è inserito il paziente, e le predisposizioni genetiche. Parlando di epigenetica è opportuno spiegare brevemente cosa sono e come funzionano i meccanismi epigenetici: tali meccanismi risultano essere responsabili e potrebbero influenzare l’espressione genica in seguito a esposizioni ambientali che lasciano un segno sul genoma. Determinate esposizioni ambientali possono influenzare, motivare e modellare cambiamenti specifici relativi ad una successiva espressione genica, fornendo i substrati fisici che influenzano e modificano le interazioni tra gene e ambiente (Ferron et al., 2006)

 Nella letteratura sono stati pubblicati numerosi studi che analizzano le alterazioni epigenetiche in relazione ai disturbi dell’alimentazione. Nello specifico si è studiato il ruolo della metilazione del DNA (Farrel et al., 2015), durante la quale si verifica una riduzione dell’espressione genica.

È scientificamente dimostrato che la metilazione del DNA viene influenzata da determinate esposizioni ambientali; i maggiori fattori di influenza possono essere lo stress relativo alle prime fasi della vita, i fattori legati all’alimentazione e alla dieta, e una sofferenza fetale acuta (Dauncey et al.,2013; Crider et al., 2012).

Disturbi alimentari ed epigenetica

In un articolo di Thaler e Steiger (2017) viene analizzato come diversi geni possono influenzare la regolazione dell’organismo. Un gene sottoposto ad analisi è POMC, che è partecipe della regolazione dell’appetito. Sono state messe a confronto donne con anoressia nervosa in fase acuta e, donne che non presentano più sintomi significativi dall’anoressia nervosa ed è emerso che l’mRNA della POMC lungo è ampiamente rilevante dal punto di vista funzionale e risulta essere significativa la correlazione con i livelli di leptina, che è più alta nell’anoressia nervosa acuta rispetto all’anoressia nervosa non acuta e ai gruppi di controllo (Thaler et al., 2017).

Lo studio approfondito dell’epigenetica può fornire grandi spunti di riflessione e può garantire nuovi possibili trattamenti futuri dei disturbi dell’alimentazione.

 

Metodo Montessori: è efficace con bambini che presentano difficoltà di apprendimento?

Nel metodo Montessori l’insegnante guida il bambino all’interno di un’aula in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione attiva, la scelta e l’apprendimento indipendente, perciò esplorando l’ambiente, sceglie autonomamente l’attività da fare e svolgendola da solo impara.

 

Che cos’è il metodo Montessori?

 L’educazione montessoriana è un metodo di istruzione centenario, utilizzato per la prima volta all’inizio del ‘900 con bambini con esigenze speciali e che continua a crescere in popolarità (Lillard & Else-Quest, 2006). Maria Montessori (1870-1952), una delle principali figure dell’educazione del XX secolo e pioniera dell’educazione speciale, creò inizialmente questo metodo per aiutare bambini con disabilità multiple ad apprendere concetti e abilità attraverso materiali pratici (Danner & Fowler, 2015): solo successivamente, infatti, estese il suo lavoro a bambini con intelligenza nella norma (Pickering, 1992).

Diversamente dai sistemi educativi odierni, dove l’attenzione è posta sui risultati in materie accademiche, l’obiettivo dell’educazione montessoriana è consentire al bambino di svilupparsi in modo ottimale (Marshall, 2017), attraverso un approccio sequenziale e strutturato all’apprendimento, che porti dal concreto all’astratto (Pickering, 1992). In particolare, secondo la Montessori, i bambini attraversano periodi sensibili per l’apprendimento e quest’ultimo avviene attraverso attività autogestite in un ambiente appositamente preparato con i vari materiali montessoriani (per esempio materiali sensoriali come la Torre Rosa e materiali didattici come quelli aritmetici). Al centro del metodo montessoriano c’è la triade dinamica tra bambino, insegnante e ambiente: l’insegnante guida il bambino all’interno di un’aula in cui l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione attiva, la scelta e l’apprendimento indipendente, perciò esplorando l’ambiente, sceglie autonomamente l’attività da fare e svolgendola da solo impara (Marshall, 2017). In questo senso il ruolo dell’adulto è quello di accompagnare e facilitare lo sviluppo naturale del bambino.

Visione montessoriana del bambino con difficoltà di apprendimento

La Montessori riteneva che gli standard utilizzati per valutare lo sviluppo normale fossero fuorvianti e subnormali, motivo per il quale non descrisse o definì mai con precisione i disturbi dell’apprendimento. Lei, infatti, sosteneva che attraverso un’educazione personalizzata in un ambiente preparato scientificamente, i bambini avrebbero rivelato nuovi standard di sviluppo e di gratificazione personale (Orem, 1969). Partendo poi dalla constatazione che gli educatori sembravano più interessati alla classificazione delle anomalie umane piuttosto che alla scoperta di modi per prevenirle, iniziò a sviluppare approcci educativi che catturassero l’interesse dei bambini con difficoltà di apprendimento (Brendtro, 1999).

La Montessori dunque iniziò a utilizzare delle linee guida che indicavano ritardi nello sviluppo (linguistici, motori, comportamentali, percettivi, organici o di funzionamento indipendente), deducendo la possibilità che, in presenza di tali ritardi, potessero insorgere delle difficoltà di apprendimento (Orem & Coburn, 1978). In particolare dunque, secondo la visione montessoriana, bambini predisposti o che presentano difficoltà di apprendimento possono avere problemi di attenzione, ordine e organizzazione, abilità motorie e percettive che portano a una scarsa formazione dei concetti. Questi problemi inducono a difficoltà nello sviluppo e nell’elaborazione del linguaggio orale, nell’apprendimento della letto-scrittura e nella comprensione delle astrazioni della matematica (Pickering, 2004).

Benefici del metodo Montessori su bambini con difficoltà di apprendimento

Il sistema montessoriano può aiutare bambini che presentano difficoltà di apprendimento in diversi modi: 1) fornendo l’ordine e la struttura necessari; 2) migliorando il comportamento motorio, la coordinazione e l’immagine corporea; 3) migliorando il funzionamento percettivo; 4) aumentando l’indipendenza attraverso l’acquisizione di abilità di autoaiuto; 5) sviluppando la concentrazione e l’attenzione; 6) sviluppando le abilità sociali e l’autodisciplina; 7) migliorando il linguaggio ricettivo ed espressivo (Orem, 1969). In particolare, aspetti del metodo Montessori che risultano cruciali affinché questi benefici si presentino, sono l’ambiente preparato, i materiali didattici e le lezioni individualizzate.

 L’ambiente preparato, favorisce l’individuazione di problemi evolutivi nelle loro fasi iniziali, diventando così anche un ambiente diagnostico. Infatti, l’approccio montessoriano prevede che l’insegnante assista i bambini per adeguare il lavoro al loro specifico livello di sviluppo (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004). L’ambiente preparato dalla Montessori offre ai bambini la possibilità di vivere e imparare seguendo il loro ritmo: le regole di base, i materiali didattici e le altre caratteristiche dell’ambiente preparato offrono la cornice per la libera attività e forniscono un equilibrio dinamico tra spontaneità e struttura, elementi necessari per i bambini con difficoltà di apprendimento (Orem & Coburn, 1978).

Inoltre, i bambini che presentano queste difficoltà necessitano, ma in genere non ricevono, l’esposizione ordinata agli stimoli sensoriali offerta dai materiali didattici montessoriani. Permettere ai bambini con difficoltà di apprendimento di imparare attraverso il contatto diretto con il materiale ha un duplice vantaggio: da un lato esercizi e materiali di autoapprendimento sfruttano, durante gli anni della formazione, gli interessi e le capacità dei bambini, dall’altro consentono all’insegnante di avere molto tempo per osservare come e cosa i bambini stanno imparando (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Altro aspetto centrale è l’individualizzazione: le lezioni sono individualizzate alla luce delle capacità e dei livelli di apprendimento dei bambini. Questo è fondamentale per i bambini con difficoltà dell’apprendimento, avendo di solito capacità di apprendimento non omogenee e livelli di rendimento diversi. L’insegnante, dunque, pianifica lezioni individuali presentando materiali con difficoltà di apprendimento adatte al singolo bambino e, solo quando il bambino è pronto, vengono insegnate nuove materie (Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Ad oggi quindi, il metodo Montessori risulta essere una risorsa di intervento efficace per la formazione di bambini con difficoltà di apprendimento, soprattutto in caso di bambini con Disturbi Specifici dell’Apprendimento e/o Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (Drigas & Gkeka, 2017; Gkeka et al., 2018). Inoltre, si è visto che la combinazione dei sistemi e dei materiali montessoriani con il supporto delle nuove tecnologie e la loro implementazione su vari tipi di tecnologie hanno portato a grandi risultati per quanto riguarda il supporto alla disabilità e il miglioramento dei processi di apprendimento (Drigas & Gkeka, 2017).

Conclusione

In definitiva, per chi si occupa di bambini che apprendono in modo diverso, il metodo Montessori offre molte possibilità, soddisfacendo le esigenze dei disturbi dell’apprendimento nel linguaggio, nella matematica, nella letto-scrittura, nella memoria, nell’attenzione e nella motricità (Drigas & Gkeka, 2017). Tuttavia, questo metodo non può essere considerato una risposta completa (Orem, 1969): per utilizzarlo con bambini con difficoltà di apprendimento è necessario, infatti, che il materiale venga integrato con altri materiali progettati specificatamente per bambini con queste difficoltà (Orem, 1969; Orem & Coburn, 1978; Pickering, 2004).

Il narcisismo comunitario: quando l’impegno verso gli altri soddisfa il bisogno personale di sentirsi speciali

Gli individui con narcisismo comunitario considerano se stessi come le persone più disponibili che conoscono, il migliore amico che si possa avere, ma anche come professatori di libertà, felicità e pace.

 

 Secondo l’articolo pubblicato nel 2012 da Gebauer et al., le ricerche precedenti avrebbero descritto solo un tipo di narcisismo grandioso, quello agentic. Gli individui con narcisismo agentic sarebbero caratterizzati da tematiche di grandiosità, diritto e potere, che cercherebbero di soddisfare attraverso autovalutazioni irrealistiche positive riferite all’agency (senso soggettivo di competenza e controllo).

Ma il tratto narcisistico si può manifestare anche in ambito “comunitario”? Sebbene possa sembrare un ossimoro, Gebauer, Sedikides, Verplanken e Maio (2012) suggeriscono che la risposta potrebbe essere affermativa, soprattutto se l’impegno verso la comunità serve più a soddisfare il bisogno personale di grandiosità, autostima e potere, che ovviamente sono tratti tipici di una personalità narcisistica (Morf & Rhodewalt, 2001).

Quindi nel 2012 Gebauer et al. elaborano una distinzione tra agency (intesa come concentrazione su di sé e sugli obiettivi personali) e communion (intesa come concentrazione verso gli altri e le relazioni interpersonali). Applicando il modello agency-communion al tratto narcisistico, proposero la descrizione di un’ulteriore tipologia di narcisismo grandioso, il narcisismo comunitario, che condividerebbe le stesse tematiche del narcisismo agentic, ma si differenzierebbe per la modalità adottata per soddisfarle, ovvero mostrando una maggiore attenzione verso gli altri (non motivati dal reale interesse verso le altre persone, ma dal fine ultimo di sentirsi speciali e grandiosi).

Il narcisismo comunitario

In base agli studi condotti, attraverso il “Communal Narcissism Inventory“ (CNI; Gebauer et al., 2012), si è riscontrato infatti che gli individui con narcisismo comunitario considerano se stessi come le persone più disponibili che conoscono, il migliore amico che si possa avere, ma anche come professatori di libertà, felicità e pace (Gebauer et al., 2012; Luo et al., 2014; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016). Sebbene questi esempi si riferiscano al dominio comunitario, la ricerca empirica ha riportato l’esistenza di una relazione anche tra narcisismo comunitario e tratti che riflettono alti livelli di agency (sensazione soggettiva di controllare le proprie azioni), come senso di potere, sicurezza di sé e superiorità (Gebauer et al., 2012; Żemojtel-Piotrowska et al., 2016).

Il narcisismo comunitario patologico attualmente non è ancora interpretato come una forma alternativa del narcisismo patologico, bensì come una delle sue facce (Wright et al., 2010). In base al modello di Gebauer si possono riscontrare, nel narcisismo comunitario patologico, delle caratteristiche specifiche come l’importanza data dall’individuo ai comportamenti empatici e prosociali, ma anche outcomes simili a quelli del narcisismo patologico tra cui la ricerca di attenzione, l’inganno, il dominio e la manipolazione (Schoenleber et al., 2015; Wright et al., 2013).

Il narcisismo comunitario patologico e non patologico

Avere dei tratti narcisistici non significa avere un disturbo di personalità narcisistico. Anche nel caso del narcisismo comunitario si può distinguere una forma patologica da una forma non patologica: entrambe condividono gli stessi mezzi per il raggiungimento dei loro obiettivi, ma si diversificano rispetto alle caratteristiche cliniche (Pincus et al., 2009). Questo suggerisce che le due forme di narcisismo comunitario si trovino su un unico continuum, che va dal funzionamento non patologico a quello compromesso/patologico (Pincus & Lukowitsky, 2010). Infatti, sebbene quello non patologico sia associato a risultati adattivi quali maggior autostima e benessere soggettivo (Żemojtel-Piotrowska et al., 2014), quello patologico è collegato ad esiti maladattivi come paura dell’abbandono, sottomissione, labilità emotiva (Wright et al., 2013), propensione alla colpa ed alla vergogna, (Schoenleber et al., 2015b) e perfezionismo (Stoeber et al., 2015).

Come riconoscere il narcisismo patologico

Lo studio pubblicato nel 2018 da Rogoza e Fatfouta, ha avuto come primo scopo quello di analizzare le differenze esistenti tra narcisismo comunitario patologico e non patologico.

In letteratura esistono due modelli per distinguere il narcisismo patologico da quello non patologico; la prima, categoriale, propone la concettualizzazione in due costrutti differenti, mentre la seconda, dimensionale, propone l’esistenza di un continuum, che vede all’estremità il costrutto patologico (Pincus & Lukowitsky, 2010).

I risultati dello studio si sono visti a favore del modello dimensionale, riscontrando la condivisione da parte del narcisismo comunitario patologico e non degli stessi fondamentali criteri teorici (obiettivi di superiorità e potere raggiunti attraverso azioni comunitarie/altruistiche).

Miller et al. (2017) hanno proposto la dicitura di “patologico” solo nei casi in cui il narcisismo risulta correlato a disagio e compromissione funzionale; seguendo questa ipotesi, lo studio condotto nel 2018 ha avuto come secondo scopo quello di confrontare le due forme di narcisismo comunitario con i tratti personalità, misurati attraverso il Big Five Inventory-15 (BFI-15; Lang et al., 2011). L’unica differenza riscontrata risulta essere con il tratto del nevroticismo, un tratto di personalità collegato principalmente al disagio psicologico (McCrae & Costa, 1997; Ploubidis & Frangou, 2011) supportando l’ipotesi per cui il narcisismo comunitario patologico è collegato ad alti livello di nevroticismo e suggerendo un’associazione anche ad alti livelli di malessere psicologico.

L’ultimo obiettivo dello studio è stato quello di indagare i valori del narcisismo comunitario patologico e non patologico. I risultati, rispetto a questi dati non hanno riportato differenze: entrambe le tipologie erano motivate sia dall’auto-valorizzazione e che dall’auto-trascendenza (cioè, l’aspirazione ad essere affidabili, degni di fiducia, premurosi, equi e tolleranti).

In generale, i risultati di questo studio supportano l’idea di una concettualizzazione dimensionale del narcisismo comunitario, ai cui estremi si trova la patologia, che si distingue per la presenza di disagio psicologico e compromissioni nel funzionamento (Rogoza & Fatfouta, 2018).

 

Tutto chiede salvezza – Recensione

Non ci sono dubbi che “Tutto chiede salvezza” abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.

 

Attraverso ogni atomo di materia, tutto mi chiede salvezza. Ecco la parola che cercavo, salvezza. Per i vivi e per i morti, salvezza (…) per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.

 A questi versi di una poesia di Daniele Mencarelli è ispirato il titolo di un suo romanzo autobiografico, che ora è diventata una serie di grande richiamo su Netflix, “Tutto chiede salvezza”.

La vicenda è quella che il poeta e scrittore ha realmente vissuto quando aveva vent’anni e a seguito di un crollo psichico subì un TSO, ovvero il trattamento sanitario obbligatorio, che ancora oggi rappresenta la soluzione di contenimento di un’emergenza psichiatrica caratterizzata da assente consapevolezza di disagio e pericolosità per sé e/o la società. Lo sceneggiatore Francesco Bruni ha realizzato una fiction che ha raggiunto, quasi inaspettatamente, un successo straordinario presso il grande pubblico. Gradimento altissimo per un argomento ostico e delicato, lodi della critica oltre che di una larga fascia di spettatori.

Cosa aggiunge una prospettiva in cui l’occhio che guarda riflessivo è un occhio clinico?

Non ci sono dubbi che la serie abbia un grande merito: quello di avvicinare il pubblico al tema del disagio psicologico; cerca di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale e al malato psichiatrico.

Inoltre la serie descrive bene la storia dei protagonisti, le vulnerabilità dei personaggi, l’esordio dei disturbi trattati, le debolezze del sistema familiare di riferimento, ma emerge anche come la serie sembra trascurare alcuni aspetti di sofferenza e di criticità del sistema psichiatrico attuale che spesso rinforzano dolore e confermano credenze di inaiutabilitá e fallimento.

Emergono bene i temi di condivisione, solidarietà, amicizia e amore che spesso si osservano nella realtà fra i pazienti che si autosostengono e decidono di essere alleati. Emerge passione e interesse attivo verso temi sociali e politici e la fiction assolve diversi obiettivi: raccontare, rappresentare e creare interesse rispetto ad un tema delicato –il disagio psichico– di norma distanziato o ignorato.

In generale, la rappresentazione fornita dalla fiction è potente, cattura l’attenzione e sensibilizza rispetto ai temi trattati. Nonostante l’amarezza delle storie narrate, si mostra gradevole, riesce a normalizzare e stimolare empatia verso situazioni esistenziali che ci lasciano indifferenti, che ignoriamo, o che evitiamo di conoscere e approfondire, talvolta per paura, per disgusto, o per non sperimentare tristezza, impotenza e sofferenza emotiva. Forse però, normalizzando troppo rischia di trascurare il vissuto traumatico che spesso si osserva nella pratica clinica, in associazione proprio al TSO, ancora oggi.

I fatti che hanno ispirato il libro di Mencarelli, e quindi la serie tv, sono accaduti infatti nel 1997, e l’aver trasferito lo scenario della storia negli anni ’20 del 2000 non deve far pensare che la situazione ora, in un ospedale psichiatrico in cui si “contiene temporaneamente” una situazione di grave disagio psicologico, sia un idillio rispetto a prima e rispetto alla difficile realtà dei reparti di psichiatria. La serie TV rischia di legittimare poco il vissuto di coloro che hanno avuto un’esperienza diretta o hanno osservato la realtà dolorosa del trattamento sanitario obbligatorio e della sua gestione che spesso in Italia si vive.

La rappresentazione fornita racconta –e non racconta– alcuni aspetti della realtà psichiatrica: atteggiamenti, comportamenti, vissuti emotivi che sono invece ben descritti nel libro e purtroppo oggi a volte ancora presenti e problematici.

Chiaramente la serie Tv avvicina il pubblico, lo porta a riflettere e conoscere questa realtà, a non dimenticare e vivere con meno stigma alcuni scenari.

 Tuttavia, ci si chiede se questa rappresentazione (intrinsecamente alterata in quanto fiction) non si discosti troppo dalla sofferenza e dal reale caos di solito legati al TSO, e quanto il grado di partecipazione che sollecita nel pubblico sia plausibile rispetto al reale ambiente psichiatrico e al disagio amaro a cui spesso si assiste.

Obiettivo del regista: avvicinare con strategia? Eppure si rischia di mantenere una vicinanza apparente verso la sofferenza e la malattia mentale?

Il racconto televisivo fornito tratta infatti solo parzialmente il tema del TSO, ricostruendone solo in parte l’aspetto traumatico che molte volte si associa a questo tipo di esperienza e si addiziona al disagio che già si sta vivendo.

Si osservano solamente a sprazzi le criticità spesso presenti nel sistema di cura, la brevità programmatica del trattamento, l’inadeguatezza delle strutture: queste componenti presenti nel libro, e ad oggi ancora attuali, vengono poco rappresentate.

Forse questa serie offre l’opportunità di parlare di come sia fondamentale rivedere il TSO e il suo proseguire. L’inidoneità, l’insufficienza, la risposta spesso deludente dell’istituzione: elementi questi che fanno parte del nucleo della storia e della realtà, che negli episodi televisivi vengono poco approfonditi, ma che meriterebbero progresso e discussione.

Una chiave di lettura critica potrebbe richiedere dunque un riflessione circa la disorganizzazione della realtà psichiatrica e su come poter migliorare la gestione dei ricoveri e dei programmi di intervento, rispettando la dignità del malato senza pregiudizio, con la responsabilità di disegnare un piano di intervento che tenga conto del post TSO e di come le cure fornite segnano il vissuto e hanno il potere di promuovere il cambiamento o il trauma nel trauma.

L’insieme fornito dalla serie TV risulta troppo edulcorato allo sguardo di un clinico che, osservando, oltre ad apprezzare quanto sia ben curata la parte tecnica e come sia ben descritto il funzionamento del vissuto depressivo e dei profili psicopatologici proposti, si preoccupa che possa passare un messaggio sbagliato o per meglio dire omissivo, ovvero che tralascia aspetti di disagio e sofferenza emotiva che non sembrano avere il coraggio di essere abbastanza drammatici per essere credibili.

In buona sostanza, forse, la rappresentazione fornita, nonostante gli innumerevoli pregi e vantaggi circa la rappresentazione della malattia mentale, trascura il messaggio di denuncia rispetto al sistema di cure proposte da alcuni istituti di psichiatria e del TSO nello specifico, così come gestito nella realtà: ovvero, spesso, senza un programma di intervento adeguato che preveda fasi successive a quelle di emergenza e contenimento, fino alla riabilitazione e al reinserimento.

Lo spettatore si sente emotivamente vicino ai protagonisti, ma l’empatia che sente potrebbe essere parziale in quanto non contempla la dimensione soverchiante e spaventosa del trattamento sanitario obbligatorio e del post ricovero spesso più doloroso e abbandonico.

Il tema, per chi ha visto la serie, oggi è più vicino di ieri, ma il rischio è che la forte risonanza emotiva che la serie TV sollecita sia in qualche misura poco autentica, in quanto miope di talune attuali realtà.

“Tutto chiede salvezza”, in conclusione, accorcia le distanze tra chi è malato e chi del malato diffida, ma pratica –in quanto fiction, seppure in modo legittimo– quasi un diniego dei deficit e della sofferenza che si associano all’emergenza psichiatrica e alla malattia mentale.

 

TUTTO CHIEDE SALVEZZA – Guarda il trailer della serie Netflix:

 

Realtà Virtuale e Dismorfismo corporeo: indagine sui bias cognitivi

L’American Psychiatric Association (APA, 2013) definisce il disturbo di dismorfismo corporeo come una preoccupazione per il proprio aspetto fisico, in particolare per difetti o imperfezioni, spesso lievi o inosservabili dall’esterno.

 

 Questa preoccupazione è significativamente invalidante e comporta una compromissione di diverse aree del funzionamento, come quella sociale e lavorativa. Perché possa essere fatta diagnosi, l’individuo deve aver mostrato comportamenti ripetitivi o azioni mentali conseguentemente ad essa. All’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; APA, 2013), il Disturbo di Dismorfismo Corporeo è collocato nello spettro dei Disturbi Ossessivi. Se non trattato precocemente, può comportare problematiche nella vita quotidiana nonché l’esacerbazione di disturbi concomitanti come la depressione maggiore, il disturbo ossessivo compulsivo, la fobia sociale e disturbi alimentari, come l’Anoressia Nervosa. La terapia più utilizzata comprende un intervento sia farmacologico che psicoterapico, finalizzato alla desensibilizzazione allo stimolo trigger mediante l’esposizione; inoltre, con il progredire degli strumenti tecnologici, ha iniziato a crescere l’interesse verso l’utilizzo della realtà virtuale, la quale offre interessanti novità per fronteggiare le problematiche legate al corpo.

L’utilizzo della Realtà Virtuale (VR)

Secondo quanto riportato in letteratura, gli individui affetti da dismorfismo corporeo interpretano negativamente e in modo minaccioso le informazioni sociali ambigue. Queste inferenze mantengono la sintomatologia e la compromissione a livello psicologico e sociale, rafforzando l’immagine distorta di sé. Conseguentemente, questi bias interpretativi maladattivi costituiscono un target del trattamento terapeutico; ciononostante, secondo Summers e colleghi (2021), i protocolli di intervento che li coinvolgono sono limitati.

Per quanto riguarda l’utilizzo della realtà virtuale, secondo gli studi condotti da Porras-Garcia e colleghi (per esempio, Porras-Garcia et al., 2020), le procedure basate su di essa potrebbero offrire numerose novità per fronteggiare diverse problematiche legate al corpo. Infatti, questa tecnologia è considerata promettente come approccio esperienziale sia alla valutazione che alla comprensione e al trattamento di numerosi disturbi psichiatrici. La letteratura esistente sull’utilizzo della realtà virtuale afferma che i trattamenti svolti in questo setting artificiale si traducono in cambiamenti considerevoli in situazioni reali (Morina et al., 2015), perciò è ipotizzabile che essa possa essere uno strumento di intervento utile anche per pazienti affetti da dismorfismo corporeo e che possa facilitare in vivo la correzione delle disfunzioni cognitive alla base di questo disturbo.

Uno studio su dismorfismo corporeo e realtà virtuale

 Tuttavia, nonostante i risultati positivi, non è ancora stata particolarmente utilizzata con pazienti affetti da questo disturbo; perciò, Summers e colleghi (2020), hanno svolto uno studio con l’ausilio della realtà virtuale avente tre obiettivi: il primo era comprendere se i partecipanti affetti da dismorfismo corporeo mostrassero maggiore approvazione delle interpretazioni di minaccia legate all’aspetto e minore approvazione delle interpretazioni benigne rispetto ai controlli sani, attraverso misure consolidate e nuove scene esperite in realtà virtuale; il secondo era quello di osservare se vi fossero distinzioni per quanto concerne il disagio negli ambienti simulati tra i due gruppi, ipotizzando che i soggetti affetti dal disturbo esperissero maggiore minaccia, angoscia, propensione a cercare di controllare gli stimoli trigger o evitamento; il terzo obiettivo era quello di verificare la fattibilità, accettabilità e utilizzabilità della realtà virtuale all’interno della popolazione affetta dal disturbo.

I risultati ottenuti dagli autori hanno mostrato come rispetto ai controlli non psichiatrici i partecipanti mostrassero maggiori bias di minaccia legati all’aspetto fisico. Inoltre, grazie a questo studio, è stato possibile ampliare le conoscenze sui bias cognitivi, mostrando che quelli maladattivi di interpretazione della minaccia, caratteristici del disturbo da dismorfismo corporeo, possono essere stimolati e valutati in modo efficace e in vivo attraverso la realtà virtuale. I partecipanti hanno valutato l’esperienza con la realtà virtuale come accettabile, coinvolgente, realistica e simile ad esperienze pregresse; inoltre, hanno riportato di percepire un senso di presenza nell’ambiente di simulazione virtuale.

Considerazioni conclusive

Secondo gli autori, nonostante la ricerca sul presente argomento necessiti un ampliamento, sembra che la realtà virtuale possa rappresentare un mezzo con maggior validità ecologica per misurare gli stili interpretativi maladattivi rispetto alle valutazioni tradizionali. Sebbene gli obiettivi della Dott.ssa Summers e colleghi (2021) fossero primariamente focalizzati sulla valutazione dei bias interpretativi, il loro studio potrebbe portare anche a valutazioni più ampie per nuove implicazioni terapeutiche.

In conclusione, sarebbero necessari studi di approfondimento sul possibile utilizzo della realtà virtuale nel trattamento del dismorfismo corporeo, ponendo particolare attenzione ai bias cognitivi che ne sostengono la sintomatologia.

Trauma Sensitive Yoga: portare il corpo nel trattamento (2022) – Recensione

Il modello del Trauma Sensitive Yoga si basa sulla conoscenza delle conseguenze del trauma e non attribuisce una connotazione patologica alla sintomatologia, bensì si focalizza sul positivo, riducendo lo stigma e il disagio psicologico. 

 

 Il Trauma Sensitive Yoga (TSY) è stato sviluppato dal Trauma Center del Justice Resource Institute (JRI) di Boston e continua ancora a evolversi all’interno del Center For Trauma and Embodiment (CFTE). I fondatori di questo modello di intervento sono David Emerson e Jennifer Turner che, grazie alle loro differenti professionalità e alla loro coesione, permettono al TSY di farsi strada nel panorama dei trattamenti per il trauma. Emerson e Turner si impegnano costantemente ad offrire un modello con una base scientifica solida, che contempli la verifica dei progressi e benefici ottenuti.

Il Trauma Sensitive Yoga (TSY) è un modello di intervento che si focalizza sulle molteplici sfumature del trauma, tant’è che può essere considerato un intervento di tipo sistemico-integrato.

Data l’efficacia dimostrata, negli Stati Uniti il Trauma Sensitive Yoga è stato riconosciuto come trattamento aggiuntivo di eccellenza per trattare il PTSD, al pari di altri trattamenti, in particolare per il disturbo post traumatico complesso che, seppur non sia ancora una diagnosi ampiamente condivisa e accettata, fa riferimento a una varietà di sintomi che si riscontrano in molte delle difficoltà psicologiche come ad esempio: ansia, disturbi dell’alimentazione, difficoltà a regolare le emozioni, deficit di enterocezione, depressione, difficoltà relazionali, etc (Emerson, 2022).

Difatti, proprio in questa specifica caratterizzazione del trauma, l’elemento fondamentale è costituito dalla presenza di eventi che risalgono alle prime fasi dello sviluppo e che si caratterizzano per la loro natura relazionale e di attaccamento.

Il modello

Il modello del Trauma Sensitive Yoga è per definizione trauma informed, ovvero si basa sulla conoscenza delle conseguenze del trauma e non attribuisce una connotazione patologica alla sintomatologia, ma bensì si focalizza sul positivo, riducendo lo stigma e il disagio psicologico.

Nel libro, dopo una parte iniziale dedicata agli assunti teorici che stanno alla base del Trauma Sensitive Yoga (ad esempio teoria del trauma, teoria dell’attaccamento e neuroscienze), alla definizione delle molteplici tipologie di trauma e alle differenze tra Trauma Sensitive Yoga e altre tipologie di modelli somatici (ad esempio, Hakomi, Sensomotoria e Somatic Experiencing), Emerson passa poi a elencare dettagliatamente gli elementi centrali –i pilastri– del Trauma Sensitive Yoga, che sono:

  • il linguaggio invitazionale,
  • il fare delle scelte,
  • l’enterocezione,
  • l’esperienza autentica e condivisa dall’essere nel presente,
  • la non violenza.

L’importanza della scelta

Come è noto, i sopravvissuti al trauma spesso sperimentano un senso di impotenza, costante e pervasiva –nessuno sceglie il trauma– dove la persona è per definizione costretta a subirlo (Emerson, 2022). Perciò, nel Trauma Sensitive Yoga risulta centrale restituire la possibilità di scegliere; infatti i pazienti vengono invitati a svolgere degli esercizi senza alcun tipo di obbligo, assumendo una posizione di non giudizio e di non violenza. Restituendo così un senso di piena responsabilità e scelta sul proprio corpo e di conseguenza sulla propria vita.

Embodiment

Un altro dei concetti fondamentali nel Trauma Sensitive Yoga è quello di embodiment –essere incarnato– ovvero la possibilità di sentire il proprio corpo qui e ora, aprendosi alla capacità di scegliere in maniera consapevole. Attraverso le pratiche del Trauma Sensitive Yoga la persona impara a entrare nuovamente in contatto con il proprio corpo, ampliando le abilità enterocettive, cioè le abilità di riconoscere le sensazioni interne al proprio corpo.

 Perdipiù, l’intervento sembra essere incentrato sull’apprendimento di alcune abilità e modalità di approcciarsi all’esperienza, proponendo alcune pratiche di tipo esperienziale che consentono al soggetto di fare un’esperienza autentica –a partire dal proprio corpo–, nonché riappropriarsi delle sensazioni somatiche e riconnettersi con il proprio corpo, permettendo la libera scelta in un contesto protetto. Difatti il Trauma Sensitive Yoga ha come intento quello di creare uno spazio in cui nessuno viene manipolato ed è per questo che non è presente alcun tipo di supporto fisico o verbale poiché, in tale ottica comporterebbe una prescrizione, ovvero comunicare un’aspettativa.

La pratica dello Yoga e l’integrazione in terapia

Spesso i pazienti traumatizzati sono completamente disconnessi dalle loro esperienze interiori, pertanto, il Trauma Sensitive Yoga si propone, attraverso la pratica dello Yoga –concettualizzata in questo modello come combinazione di forme fisiche, respirazione e attenzione focalizzata–,  di intervenire sia sui sintomi somatici di iperattivazione, sia sui sintomi dissociativi del trauma. Favorendo un approccio di tipo bottom-up, con una conseguente ripresa della connessione con le sensazioni somatiche mente-corpo, maggiore consapevolezza, tolleranza e accettazione, sospensione del giudizio e uno sviluppo di capacità autoregolative, nonché di uno stato compassionevole verso sé stessi.

Pertanto, con tali motivazioni lo yoga, può essere considerato un buon candidato all’integrazione nella pratica psicoterapica che tipicamente agisce attraverso modalità top-down, aumentando così l’efficacia del trattamento di specifici sintomi da trauma, come quelli somatici, emotivi e di disconnessione.

Riflessioni e conclusione

Questo libro, inoltre, offre vari spunti di riflessione per introdurre questo modello nella pratica terapeutica, per esempio suggerisce, attraverso varie illustrazioni, un adattamento delle pratiche yogiche nel contesto dello studio del terapeuta, facilitando l’applicazione e aprendo a una maggiore versatilità di utilizzo in diversi setting e contesti, permettendo così di sperimentare tali pratiche anche semplicemente seduti su una sedia in studio.

In conclusione, da quanto riportato dai dati presentati nel libro, si può sostenere che lo svolgimento di tali pratiche somatico-esperienziali –in un contesto protetto– permette ai pazienti di “riappropriarsi del proprio corpo” e, con rinnovata fiducia, prendere in mano la propria vita.

cancel