Riceviamo e con piacere pubblichiamo la lettera aperta di Antonio Semerari che si interroga sull’esistenza di tre società di psicoterapia cognitivo comportamentale in Italia. Si tratta di uno stimolo appunto aperto e State of Mind sarà lieta di pubblicare risposte e commenti alla lettera di Semerari e anche di descrivere in articoli dedicati il dibattito che potrebbe sorgere in altre sedi, dato che Semerari pubblica la sua lettera anche altrove, comprese i forum di discussione delle tre società in oggetto.
Perché tre società diverse di terapia cognitivo-comportamentale? Lettera aperta ai colleghi della SITCC e della CBT-Italia.
di Antonio Semerari – Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva, Roma
Alcuni mesi fa, quando si venne sapere che diversi autorevoli membri della SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva) erano in procinto di fondare, insieme con altri colleghi provenienti dall’AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento), una nuova società di terapia cognitivo-comportamentale, denominata CBT-Italia, vi fu una breve fiammata di discussione dove i toni polemici, temo, finirono col rendere poco comprensibili le ragioni della scelta.
A questa fiammata di polemica sembra essere succeduta una sorta di bella indifferenza, simile a quella che i classici descrivevano avere i pazienti isterici nei confronti dei loro arti paralizzati.
Ora è passato un po’ di tempo, la CBT-Italia si è costituita e ha tenuto con successo il suo primo congresso mentre la SITCC si appresta a celebrare il suo nuovo congresso finalmente libero dalle restrizioni legate alla pandemia. Forse è il tempo di cercare di capire prima di giudicare.
In fondo, cosa può chiedersi un giovane collega che pensa di accostarsi al cognitivismo se non: perché ci sono in Italia tre società di terapia cognitivo-comportamentale? Non sono più tanto giovane, ma la domanda me la pongo anch’io, accompagnandola con l’altra: cosa ha fatto sì che molti colleghi trovassero insufficiente il grande contenitore della SITCC?
Per carità! Non chiedo le ragioni di questo o di quel malessere personale, altrimenti la discussione rischierebbe di avvitarsi in uno psicodramma senza costrutto dove, dopo che ce le siamo dette di santa ragione, tutto finisce lì. Sono sinceramente curioso e desideroso di conoscere e poter discutere le ragioni scientifiche, teoriche, di indirizzo culturale che renderebbero necessario o anche solo utile stare in società diverse.
Perché in Italia c’erano l’AIAMC e la SITCC è una domanda cui è facile rispondere. Il motivo è nella storica discussione che contrappose comportamentismo e cognitivismo. La questione fu magistralmente riassunta da Skinner quando, in polemica con il cognitivismo, affermò che nulla di quanto avviene “all’interno” dell’individuo può mai spiegare il comportamento. Al contrario per i cognitivisti era proprio quello che succede nella mente dell’individuo, credenze, scopi, schemi, significati personali e così via. quello che veramente contava. Quella storia molti di voi l’hanno vissuta in prima persona e non mi ci dilungo. Tuttavia molta acqua è passata sotto i ponti e il cognitivismo è esploso in una miriade di indirizzi in cui è difficile districare il filo rosso che li lega. Per questo dobbiamo discutere con franchezza e serenità su come si vanno aggregando e disgregando le diverse anime della terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale. Per capire che cosa sta succedendo e dove stiamo andando. Attenzione! Non si tratta di un fenomeno solo italiano che può essere ascritto alla tradizione nazionale di dividersi tra Guelfi e Ghibellini e poi tra sottofazioni di questi. Per quel che ne so in diversi paesi si assiste ad un fenomeno di formazione di nuove società cognitivo-comportamentali. La terapia cognitiva si sta disarticolando definitivamente? Ci sono valide ragioni perché questo debba succedere? Forse è il caso di cominciare a porci queste domande.
Solo una nota finale. Da qualche breve colloquio avuto con i colleghi della CBT-Italia mi è parso di capire che la questione andrebbe inserita, invece, nel “Grande Dibattito” sulla psicoterapia delineato da Bruce Wampold e Zac Imel nel libro “The great psychotherapy debate: The evidence for what makes psychotherapy work (2nd ed.)” pubblicato nel 2015 per Routledge/Taylor & Francis Group, dibattito che oppone un modello contestuale-relazionale a un modello medico-tecnologico degli studi di efficacia controllati e randomizzati. Secondo queste versioni la SITCC sarebbe ormai troppo schiacciata sul modello contestuale-relazionale e i colleghi critici con questo modello sentirebbero il bisogno di riunirsi in una società coerentemente orientata nell’altra direzione. Se fosse così il dibattito potrebbe davvero diventare molto interessante e potrebbe permettere a ciascuno di comprendere come si colloca rispetto a questioni che riguardano non soltanto la psicoterapia cognitiva ma tutto l’ambito della psicoterapia.
Però, dato che io non mi riconosco in nessuno dei due modelli, vorrei avere l’occasione di discutere e anche di spiegare ai colleghi che abbracciano l’uno o l’altro dove, secondo il mio modesto parere, sbagliano. Spero che i colleghi che hanno costituito la CBT-Italia vorranno accettare questa mia amichevole provocazione in modo che possiamo iniziare a prenderci a cervellate.
Un caro saluto a tutti.
Antonio Semerari
Risposta alla lettera aperta di Antonio Semerari
Giovanni M. Ruggiero – State of Mind, Studi Cognitivi, Sigmund Freud University
Dato che sono socio fondatore di CBT-Italia e anche socio didatta della SITCC inizio io a rispondere alla lettera di Antonio Semerari, risposta che ha valore personale e non rappresenta l’eventuale posizione di una delle società di cui faccio parte. La nascita di CBT-Italia è, a mio parere, il frutto di un dibattito ormai pluridecennale che ha ormai esaurito il suo compito storico e che era quello di definire posizioni diverse e apparse ormai incompatibili dopo aver tentato di conciliarle. Per questo temo, a differenza di quel che spera Semerari, che non dirò nulla di nuovo o diverso rispetto a quel che hanno già detto altri meglio di me altrove e che non ne nascerà uno scambio particolarmente innovativo; però credo che ne possa scaturire una utile riproposizione dei risultati.
Ci sono tre società e anzi molte altre di psicoterapia più o meno cognitiva sia in Italia che all’estero perché il dibattito, proprio perché esaurito, ha prodotto la nascita di interessi e direzioni distinte che, dopo essersi confrontate, non sono nemmeno più in conflitto tra loro proprio perché non condividono più linguaggio e interessi. E per questo si esprimono in società diverse. Il silenzio che è seguito la nascita di CBT-Italia non è una bella indifferenza isterica di fronte a un problema che non si vuole affrontare ma la pace che segue la civile presa d’atto di una divergenza reciproca di obiettivi e percorsi. Ritengo che l’esistenza di diverse società consenta di coltivare con più rigore e coerenza percorsi scientifici ed esperienze cliniche che non si escludono a vicenda ma nemmeno riescono a contaminarsi, come dimostra del resto la mia appartenenza sia a CBT-Italia come socio fondatore che alla SITCC come socio didatta. Una doppia appartenenza che si giustifica proprio con l’esigenza di conoscere due tradizioni divergenti senza illudersi di integrarle.
Le ragioni storiche e scientifiche dell’esistenza distinta di CBT-Italia e della SITCC sono molteplici e sono riconducibili all’argomentazione che il cognitivismo clinico, lungi dall’essere omogeneo, è stato in realtà sempre un ombrello fin troppo ampio ed elastico che ha accolto tradizioni cliniche e scientifiche tra loro poco compatibili o forse non compatibili, producendo spesso frizioni più o meno manifeste. Tra queste frizioni storiche e scientifiche una in particolare spiega bene l’esistenza distinta di CBT-Italia e della SITCC. Essa consiste nel fatto che, a mio parere, la SITCC è stata fin dalla sua nascita una società con una identità ben definita che storicamente rappresenta uno dei maggiori sviluppi clinici possibili del cognitivismo clinico. Questa peculiarità, proprio per la sua forza e originalità, non può rendere la SITCC una società generalista atta ad accogliere tutti i tipi possibili di psicoterapia cognitivo comportamentale. Lo sviluppo storico, scientifico e teorico peculiare della SITCC è, a mio parere, quello del costruttivismo fin dai suoi inizi, soprattutto da quell’anno sabbatico che Michael Mahoney trascorse a Roma sul finire degli anni ’70 dove si incontrò e discusse con Vittorio Guidano e Gianni Liotti. Michael Mahoney fu uno studioso e clinico comportamentista oggi in parte dimenticato ma che ebbe un ruolo fondamentale nella nascita della cognitive therapy tagliando i ponti con il comportamentismo dall’interno. Egli però fu anche l’iniziatore di quella forma sofisticata di cognitive therapy detta costruttivismo e che mostrava un interesse verso una definizione della cognizione come significato personale e come evento complesso e irriducibile a ogni descrizione dichiarativa di contenuto. Mahoney come costruttivista fu estraneo a ogni possibilità di delineare procedure terapeutiche ragionevolmente controllabili (i famigerati protocolli) a favore di un intuizionismo della verità clinica che divenne poi così individuale da essere irriproducibile e incomunicabile perché “autopoietico” in Guidano oppure condivisibile e comunicabile solo in una lunga e laboriosa intuizione esperienziale e relazionale di tipo ”cooperativo” in Liotti. Questi modelli clinici di Guidano e Liotti finivano -a mio parere- per svalutare il ruolo della padronanza o mastery agentiva volontaria ed esecutiva sia del terapeuta che del paziente a favore di un paziente lavoro consapevolmente complesso di laboriosa scoperta clinica di un vissuto intensamente influenzato dalla storia personale dell’individuo e dal suo primordiale retaggio evoluzionistico, scoperta sostanzialmente non pianificabile se non molto parzialmente e secondo linee guida estremamente elastiche. Questo modello è -a mio parere- sovrapponibile al paradigma contestuale-relazionale delineato da Wampold e Imel nel libro “The great psychotherapy debate: The evidence for what makes psychotherapy work (2nd ed.)” pubblicato nel 2015.
D’altro canto, la neonata CBT-Italia si ricollega invece a un altro sviluppo, altrettanto peculiare e distinto da quello del costruttivismo di Mahoney, Guidano e Liotti e che porta il famigerato nome di standard cognitive behavioural therapy ovvero standard CBT, ovvero quella forma di psicoterapia cognitiva che ha ricevuto una conferma empirica di maggiore efficacia specifica per alcuni disturbi d’ansia e depressivi e che sostiene di essere eseguibile secondo procedure riproducibili e controllabili. Malgrado il suo significativo successo negli anni ’80 e ’90, la standard CBT non è naturalmente l’unica e possibile forma di psicoterapia cognitiva ma è un altrettanto particolare sviluppo storico e scientifico di quella stessa cognitive therapy che abbiamo già incontrato e che così era stata battezzata dal suo fondatore, quello stesso già citato Michael Mahoney oggi semidimenticato e che qundi è alla radice sia del costruttivismo SITCC che della standard CBT della società CBT-Italia. È curioso apprendere che Mahoney aveva intenzione di fondare quella sua cognitive therapy da una parte su una procedura clinica di provata efficacia grazie a Beck e dall’altra su un sapere clinico che molto sarebbe stato in debito con quelle organizzazioni strutturali di personalità delineate nel libro del 1983 di Guidano e Liotti, quel “Cognitive Processes and Emotional Disorders” che lo stesso Mahoney provvide a far pubblicare in inglese.
Infatti Mahoney, in quegli stessi anni del suo sabbatico a Roma, aveva anche interagito con uno psichiatra e psicoanalista, tale Aaron T. Beck, che per tutti gli anni ‘70 aveva provveduto a definire in termini riproducibili e controllabili una sua procedura clinica di (psico)analisi annafreudiana delle difese dell’Io che traduceva gli strati meno profondi e più coscienti delle difese dell’Io della psicoanalisi in definizioni verbali catastrofiche sul Sé (ecco le credenze sul sé), il Mondo e il Futuro. Queste definizioni (o credenze, beliefs) erano a basso livello di inferenza e quindi ragionevolmente accertabili in base a quanto diceva esplicitamente il paziente e focalizzate su semplici e ovvi stati ansiosi e depressivi e potevano essere trattate con un intervento questo effettivamente (e solo questo) chiamato cognitive (un intervento cognitive in una psicoanalisi? Ebbene si) d’invito alla messa in discussione di quelle credenze sul sé senza passare per l’interpretazione profonda. Il vero punto di svolta fu che questa (psico)analisi semplificata e resa accertabile e riproducibile fosse compatibile con uno studio randomizzato e controllabile di efficacia di una psicoterapia per la depressione e che fu pubblicato nel 1977 sul numero inaugurale di Cognitive Therapy and Research, la rivista fondata da Michael Mahoney che sanciva il distacco del cognitivismo dal comportamentismo. L’articolo era: Rush, A. J., Beck, A. T., Kovacs, M., & Hollon, S. D. (1977). Comparative efficacy of cognitive therapy and pharmacotherapy in the treatment of depressed outpatients. Cognitive Therapy and Research, 1, 7-37.
È curioso notare come il tal modo la cognitive therapy di Mahoney divenne in pochi anni la cognitive therapy di Beck nonostante il fatto che fosse Mahoney e non Beck il fondatore nonché il teorico (con Guidano e Liotti) della complessità cognitiva mentre Beck si limitava a pochi concetti clinici così semplici da essere adattabili a molteplici orientamenti psicoterapeutici: Beck aveva tentato di proporli per la psicoanalisi! Mahoney aveva bisogno di quella conferma empirica di efficacia senza la quale la sua cognitive therapy avrebbe rischiato di essere una sofisticata psicoterapia esistenziale che proclamava di essere scientifica ma che poi non si capiva se davvero funzionasse più delle altre. A che serviva tanta scientificità se poi la contemporanea ricerca del verdetto di Dodo del 1975 (Luborsky, L., Singer, B., & Luborsky, L. (1975). Comparative studies of psychotherapy: Is it true that ‘everyone has won and all must have prizes?’ Archives of General Psychiatry, 32, 995–1008) suggeriva che tutte le terapie erano altrettanto efficaci? Ci pensò Beck a conferire alla cognitive therapy la fama di superiore efficacia che diede credibilità alla proclamata scientificità, credibilità che fu poi definitivamente rassodata in seguito all’adozione della cognitive therapy da parte del gruppo di quei comportamentisti di Oxford capitanati da David Clark e Paul Salkovskis che trasformarono (recuperando un po’ di comportamentismo) la cognitive therapy in standard CBT, ovvero cognitive behavioural therapy.
Questa frizione iniziale non è mai stata davvero discussa e tantomeno risolta, finendo essa sì per essere gestita da sempre con la bella indifferenza più o meno isterica temuta da Antonio Semerari, indifferenza che i freddi e distaccati clinici CBT standard mostravano con continuità quando trascuravano di ammettere che gli aspetti più sofisticati e clinicamente ricchi della tassonomia delle credenze sul sé fossero almeno in parte debitori delle riflessioni cliniche del costruttivismo mentre questa stessa indifferenza nei costruttivisti -un po’ più emotivi- a tratti si rompeva temporaneamente in brevi crisi di eccitazione psicomotoria quando questi, sia in Italia che altrove, criticavano la semplicità operativa della standard CBT tuttavia continuando a godere, un po’ surrettiziamente, della sua fama di superiore efficacia. Vi sono stati anche momenti di incontro, esiste perfino un libro curato nel 1995 da Mahoney denominato “Cognitive and Constructive Psychotherapies: Theory, Research and Practice” in cui, in un tentativo di composizione, Beck ed Ellis si proclamarono costruttivisti mentre Mahoney si gloriava dell’efficacia della cognitive therapy dimostrata da Beck ma la verità è che i due modelli non si sono mai davvero integrati.
A questa frizione moltissime altre se ne potrebbero aggiungere, a cui accennerò rapidamente per non tediare ulteriormente il lettore già provato dalla cavalcata storica. Tra queste cito come seconda frizione la considerazione che -a mio parere- la complessità del comportamentismo non è stata sempre apprezzata in ambiente SITCC. Il comportamentismo non si può ridurre -come fa Semerari- all’argomentazione riduttiva della scatola nera ma va capito nella sua ben più articolata concezione del pensiero come evento non sopraordinato ma parallelo all’azione. In questo senso va interpretata la concezione skinneriana contenuta nel volume “Verbal Behavior” del 1957 che il pensiero non ha significati ma solo effetti, concezione che a mio parere è compatibile con quello di svolta corporeo – esperienziale di Dimaggio (“Corpo, immaginazione e cambiamento. Terapia metacognitiva interpersonale”, 2019) o di conoscenza incarnata di Bara (“Il terapeuta relazionale”, 2018) che -a mio parere- è diventata dominante nella SITCC. Compatibilità che però non è stata elaborata per nulla diventando un ulteriore segnale della scarsa consapevolezza sia interna reciproca che regna nelle e tra le varie forme storiche di cognitivismo clinico e che impedisce un vero confronto. Meglio allora approfondire separatamente le proprie radici piuttosto che inseguire superficiali eccletismi.
La terza frizione è riconducibile alle sottovalutazione che -sempre a mio parere- avviene in ambiente SITCC della svolta processuale o CBT di “terza onda” che ripropone in forma avanzata la concezione comportamentista, sottovalutazione che a mio parere avviene per numerose ragioni molte delle quali culturali e che coinvolgono una crisi significativa del pensiero europeo la cui complessità sarebbe impossibile tratteggiare qui e che -a mio parere- mi pare molto affligga Semerari, forse per questo rendendogli culturalmente poco gradita la “terza onda”. Se è così, è una reazione comprensibile e posso immaginare di condividerla: in fondo, rielaborando una vecchia battuta di Totò, sono in parte europeo e in parte-nopeo. Per altri versi, essendo in parte napoletano mi identifico invece nel pragmatismo poco europeo della svolta processuale di “terza onda”. Vi sono semmai altre ragioni più scientifiche su cui riflettere e tra queste ragioni ne propongo una più semplice che, se corretta (e non do per scontato che lo sia), potrebbe essere rivelatoria nella sua paradossalità: il fatto che il modello del 1983 di Guidano e Liotti, malgrado tutte le sue differenze con quello di Beck, condividesse con la CBT standard la centralità conferita ai contenuti cognitivi, denominati credenze sul sé da Beck e organizzazioni di personalità in Guidano e Liotti. È l’influenza di questa centralità cognitiva del sé che, malgrado tutte le sofisticazioni costruttiviste, perdurando non facilita la comprensione della svolta processuale e del suo superamento dei limiti del cognitivismo dei contenuti e che induce i maggiori teorici della SITCC a rivolgersi altrove per superare questi limiti, un altrove che consiste nella svolta relazionale o nella svolta corporeo-esperienziale che vigoreggiano in SITCC. Con questo non intendo dire che queste svolte siano errate o illegittime, ma osservo che esse sono una direzione divergente rispetto agli interessi che si coltivano in CBT-Italia.
Inoltre, osservo che non solo vi sono incompatibilità di paradigma tra società diverse malgrado la comune etichetta “cognitiva” che le accompagna ma altre ancora già crescono al loro interno. La stessa CBT-Italia accoglie al suo interno almeno due tradizioni in parziale tensione reciproca: la componente CBT standard focalizzata sui contenuti cognitivi e quella processuale e di “terza onda” con i suoi correlati neo-comportamentali. La continuità tra CBT standard e CBT di “terza onda” è più storica che scientifico-teorica. È proprio questa considerazione che suggerisce che al momento, per ottenere un incremento della conoscenza, sia più conveniente perseguire un approfondimento scientifico delle singole direzioni -accettando il rischio di una moltiplicazione del numero di società scientifiche- piuttosto che inseguire un dialogo eclettico tra tradizioni che si stanno allontanando tra loro.
Infine, osservo che la posizione intermedia coltivata da Semerari e dei suoi collaboratori tra modello medico-scientifico e relazionale-contestuale può essere, a mio parere, spesso clinicamente stimolante ma forse alla lunga non facilmente sostenibile in una logica scientifica in cui i paradigmi sono in competizione tra loro e non si fondono. Prima o poi Semerari dovrà decidere qual è l’elemento risolutivo nel suo modello metacognitivo-interpersonale: quello metacognitivo, e quindi processuale e che lo avvicina a CBT-Italia o quello interpersonale che lo avvicina alla SITCC. Decidersi tuttavia non gli impedirà di partecipare ai congressi delle due società e perfino di iscriversi a entrambe, confrontandosi in una con colleghi presumibilmente più in grado di stimolarlo sul versante metacognitivo e processuale e nell’altra con colleghi più interessati al versante relazionale ed esperienziale. Come del resto già faccio io.
Ringrazio chi ha avuto la pazienza di arrivare qui in fondo e lo informo che queste righe, pur prolisse, sono una piccola parte di mie elucubrazioni personali sullo sviluppo del cognitivismo italiano e internazionale ancora più logorroiche nella loro estensione completa. Chi volesse consultarle nella loro interezza può trovarle in due miei libri che segnalo: “La formulazione del caso in terapia cognitivo comportamentale” del 2021 e “La parola, il corpo e la macchina nella letteratura psicoterapeutica” del 2022.
Un caro saluto a tutte e tutti
Giovanni Maria Ruggiero