Messo alle strette da ripetute confessioni e reciproche accuse di ex compagni di squadre e collaboratori, Lance Armstrong ha confessato l’uso di sostanze dopanti per vincere i suoi 7 Tour de France, la più importante corsa di ciclismo su strada, consecutivamente dal 1999 al 2005. La condanna sportiva è già stata in parte pronunciata, con la revoca dei titoli acquisiti sul campo, anche se nessun test effettuato allora ha mai provato la colpevolezza dell’americano: solo analisi successive, infatti, hanno evidenziato possibili anomalie nei campioni ematici. Al di là quindi dell’aspetto giudiziario sulla procedura e sull’esito della sentenza, la confessione di Armstrong ci permette di entrare meglio nelle dinamiche sociologiche e psicologiche di questo dramma sportivo.
Armstrong confessa tutto fin da subito: l’assunzione di farmaci, ormoni ed emotrasfusioni. Poi la domanda della compiacente intervistatrice amplia l’orizzonte:
DOMANDA: “è possibile vincere 7 volte di fila il tour senza doparsi?” RISPOSTA: “Non in questa generazione ciclistica”.
Lo sapevamo, sia noi telespettatori innamorati dello sport sia l’intervistatrice. E forse lo sapevano tutti. Qualche anno fa, Schneider (2007) analizzò scientificamente le sfumature culturali del doping al Tour de France: una sorta di sospensione del giudizio tra la linea proibizionista e la passione culturale, sulla soglia dell’accettabilità di una pratica che forse spesso si dimentica essere dannosa per la salute degli atleti. Senza contare l’uso di sacche di sangue, che potrebbero servire a più meritevoli scopi. Teniamo ben presente tutto questo quando sentiamo proposte di liberizzazione del doping o di una sua visione più relativista (Tamburrini, 2006), alcune addirittura in nome di una competizione scientifica verso la ricerca di una miscela migliore.
Articolo Consigliato: La Terapia Metacognitiva Interpersonale alle Olimpiadi
Dove sta l’uomo Lance Armstrong? Lui si colloca subito nella sua storia perfetta, di uomo che sconfigge il cancro in giovane età, poi diventa campione ed ha una famiglia modello. Molto americano, molto ego-oriented. E poi il suo personale rammarico: “non ho saputo gestirla”.
Perché “è una mia colpa non aver fermato la cultura del doping”– dice – “ma su 200 eroi c’erano 5 che non si dopavano”. Entriamo davvero nella sua psiche quando si definisce come “un prepotente, perché volevo sempre avere la situazione sotto controllo”, aggiungendo che l’arrivo del cancro – improvviso ed incontrollabile – ha esasperato questa sua combattività e desiderio di controllo. Intollerabile vivere con quell’incertezza su ciò che accade, meglio correre sapendo in partenza che la vittoria è sicura grazie al doping – come ha candidamente ammesso.
Lo scacco matto è dovuto al perfezionismo di Lance, autore un meccanismo curato al dettaglio, disumano o forse semplicemente troppo umano. L’unico particolare che è sfuggito gli è costato caro: nel 2009 rientra alle corse, senza doparsi, con modesti risultati. Il suo ritorno crea gelosie nei nuovi compagni, gli toglie visibilità, e spinge alle prime confessioni. Ora di quel ritorno si pente, l’unico vero rammarico personale è contro la voglia di rientrare, di fare sport. Vorrebbe tornare indietro, ma non può. Non può controllare le reazioni degli altri. Non può gestire un sistema che prima lo designa eroe e poi invece, quando lui vuole rientrare, non lo accoglie più.
La storia si è svolta così, nel perfezionismo non è tollerata l’incertezza di non vincere, c’è la volontà di domare gli altri con prepotenza e sentendosi sopra le parti. Quando Armstrong si interroga sulla liceità del comportamento, chiede alla sua coscienza. Ma gli risponde il vocabolario: “dice che una persona imbroglia quando si avvantaggia su un rivale con un metodo scorretto di cui altri non dispongono” afferma il texano “credo fosse una battaglia tra pari”.
Articolo Consigliato: Strategie Cognitive & Mental Training: Il Caso di D.
La diffusione di responsabilità come meccanismo per non eliminare il senso di colpa e continuare nella menzogna, nel meccanismo perfetto: all’interno di un contesto che si lascia leggere in questo modo, come fa notare anche Bette (2011).
Gli atleti stessi riconoscono e sentono il peso di un contesto che li schiaccia, valutando il doping come risposta ad eccessive pressioni ambientali (Mroczkowska, 2010). Lo stesso accadde con Alex Schwazer in estate, reo confesso a causa dell’eccessiva aspettativa sulla ripetizione dei suoi successi.
La linea da seguire appare semplice, promuovendo con forza un approccio allo sport visto come possibilità di migliorare la propria performance (task oriented) più che come mezzo per affermare il proprio io (ego oriented): lezione già teorizzata da Joan Duda (1995). E se forse questo non basta e la letteratura può essere discordante (Petroczi, 2007), la realtà quotidiana ci suggerisce che pratica sport in maniera più soddisfacente chi lo fa per migliorarsi, divertirsi e confrontarsi con se stesso piuttosto che chi lo fa con l’obiettivo prepotente di affermarsi superando gli avversari a tutti i costi.
Dare Significato alle Esperienze: Come si Sviluppa la Metacognizione
di Liria Valenti
La metacognizionepermette all’individuo che la possiede di mentalizzare, cioè vedere e capire se stesso e gli altri in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri), e pensare e compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento.
Attribuendo stati mentali agli altri, il bambino rende significativo e prevedibile il loro comportamento. Inoltre, una volta imparato a comprendere il comportamento altrui, diviene gradualmente capace di attuare il comportamento più appropriato per rispondere in modo adattivo ai singoli scambi interpersonali.
Tale capacità (metacognizione) è caratterizzata da una componente autoriflessiva e da una interpersonale, grazie alle quali l’individuo può distinguere la realtà interna da quella esterna, i processi intrapsichici da quelli relazionali.
Nel bambino, lo sviluppo della metacognizione, conosciuta anche come funzione riflessiva del Sé, ha inizio durante l’infanzia, momento evolutivo in cui avviene gradualmente un passaggio dai modelli mentali teleologici a quelli mentalizzati: tale passaggio dipende principalmente dalla qualità delle relazioni interpersonali tra il bambino e l’adulto che si prende cura di lui.
Articolo Consigliato: Prevenire o Curare? Tipi e Modalità di Intervento in Ambito Clinico.
La mentalizzazione, infatti,fa parte di un processo intersoggettivo tra bambino e adulto di riferimento (generalmente la madre), e avviene attraverso l’esperienza che il bambino fa di quanto i propri stati mentali siano stati capiti e pensati grazie a interazioni affettuose con il genitore; pertanto, l’emergere e il completo sviluppo della funzione riflessiva dipendono dalla capacità delgenitore di percepire più o meno accuratamente le emozioni, i bisogni, le esperienze del bambino.
Pertanto, quando la madre riflette uno stato affettivo del bambino, questa percezione organizza l’esperienza del bimbo che così conosce ciò che sta provando: con il suo comportamento attribuisce uno stato mentale al figlio e lo tratta come un agente mentale. Il rispecchiamento della madre diviene la rappresentazione dell’esperienza del bambino.
Facciamo un esempio concreto. In seguito a un rumore improvviso, il bambino si spaventa, sgrana gli occhi e inizia a piangere. La madre, che collega la reazione del figlio con l’evento accaduto, lo abbraccia, lo consola, lo tranquillizza accompagnando il contatto fisico con parole di rispecchiamento e conforto (“era un rumore, ti sei spaventato”, “non preoccuparti, è passato”); il bambino si calma e smette di piangere. In tal modo, grazie al comportamento di rispecchiamento della madre, egli può comprendere la sua esperienza emotiva (paura) e conoscere lo stimolo che l’ha causata (rumore improvviso).
L’esempio illustrato mostra, dunque, una risposta materna adeguata al disagio sperimentato dal bambino, e presuppone che la madre stessa abbia sviluppato una buona metacognizione: pur non spaventandosi in seguito al rumore improvviso, può immaginare che un’altra persona, nello specifico un bimbo piccolo, possa percepire le cose in modo diverso (sentire paura). Ripetute esperienze di relazione positiva tra madre e figlio creano un contesto favorevole per l’acquisizione e lo sviluppo della metacognizione.
Può succedere, invece, che l’adulto che si prende cura del piccolo fornisca una risposta inadeguata: pensando all’episodio del rumore che genera paura, la madre potrebbe reagire aggredendo il bambino e urlandogli di smetterla.
In questo caso, il bimbo si sentirebbe spaesato, piuttosto che accolto e rassicurato, e l’effetto sul suo comportamento sarebbe molto probabilmente un aumento della paura e del pianto correlato; a lungo andare, crescendo in un contesto relazionale in cui le proprie emozioni ed esperienze vengono frequentemente criticate e bloccate, questo bambino imparerà a ignorare le proprie sensazioni interiori fino a non percepirle neanche.
Un’altra opzione di risposta di fronte al pianto spaventato del bimbo, può essere rappresentata dall’assenza di risposta: semplicemente, l’esperienza del bambino viene ignorata dalla madre. In assenza di un rispecchiamento dell’esperienza, il bambino passerà dallo stimolo (rumore) alla risposta (pianto per paura) reagendo in modo automatico, senza effettuare una valutazione psicologica dell’evento; con molta probabilità diventerà un adulto che sperimenterà emozioni, ma non saprà collegarle a cosa le ha scaturite, e avrà pertanto difficoltà a gestirle e controllarle.
I Circoli Viziosi: Quando il Paziente Continua a Farsi del Male.
Perché alcuni pazienti ripetono gli stessi circoli viziosi e le medesime scelte disfunzionali, pur avendo compreso il proprio funzionamento?
Come possiamo spiegare che per alcuni pazienti il cambiamento appaia irrealizzabile, a causa di pensieri e comportamenti che contrastano apertamente con l’utilità personale e terapeutica? Perché alcuni pazienti, pur sapendo razionalmente quale sia la strada da percorrere per un maggior benessere psicologico e pur avendo esplorato in terapia le diverse alternative fino a comprendere pienamente le ragioni che consigliano una determinata condotta, ripetono gli stessi circoli viziosi e le medesime scelte disfunzionali?
In ambito psicodinamico questo processo viene definito paradosso nevrotico, espressione che descrive l’incongruenza logica tra il bene necessario nonché esplicitato e il danno che il soggetto continua ad infliggersi senza sapersi spiegare quale impulso stia seguendo.
Le analisi proposte in psicologia per chiarire il tema del paradosso vertono sui concetti di coerenza interna, di vantaggio secondario e sulle teorie funzionaliste (Giannatasio, 2010). La coerenza interna, che nei modelli costruttivista e cognitivo post-razionalista assume rilevanza centrale, rappresenta il bisogno dell’individuo di conservare un’identità riconoscibile nel tempo; la continuità del senso di sé richiede che le informazioni in entrata vengano processate secondo modalità cognitive ed emotive che integrino i significati nuovi, talvolta deformandoli, all’interno degli schemi di conoscenza già presenti.
Articolo Consigliato: Psicoterapia: Accertare le credenze centrali
Mancini (2000) osserva però che in alcuni casi i pazienti ricercano intenzionalmente segnali e indizi che contrastino le loro teorie, per esempio quando coinvolgono il terapeuta in valutazioni personali sul problema. Il vantaggio secondario implica che il paziente scelga l’alternativa disfunzionale se le altre appaiono svantaggiose.
La psicoanalisi attribuisce tale meccanismo ad un movimento inconscio e alla funzione protettiva del disturbo mentale, capace di tutelare l’individuo da un’esplorazione di sé e del mondo che lo porrebbe in difficoltà. La tesi che il vantaggio secondario possa essere perseguito intenzionalmente è inverosimile, dal momento che il medesimo stato mentale conterrebbe due elementi opposti e il soggetto dovrebbe imporsi di credere qualcosa di cui conosce la non veridicità.
Mancini e Gangemi (2002) suggeriscono la presenza di un meccanismo automatico davanti al quale il paziente desidera il cambiamento ma non sa come realizzarlo. Le teorie funzionaliste descrivono i circoli viziosi derivanti da comportamenti che dovrebbero essere rivolti verso uno scopo funzionale ma generano in realtà conseguenze diverse che ne mantengono gli aspetti patologici: un esempio è l’evitamento, in cui il paziente credendo di proteggersi da una situazione temuta finisce col rinforzare la propria percezione di pericolo.
Le tre prospettive illustrate presentano però un limite, non chiariscono la ragione per cui il paziente nella validazione delle credenze prenda in esame solo alcune delle informazioni pertinenti.
Mancini e Gangemi (2002) ritengono che questa difficoltà concettuale possa essere superata focalizzandosi sul processo di controllo delle ipotesi; Mancini (2000) sottolinea che i processi diagnostici esaminano con accuratezza l’ipotesi di partenza ma i pazienti non di rado utilizzano processi pseudodiagnostici. Un processo diagnostico si caratterizza per l’incertezza dell’ipotesi iniziale, l’accessibilità cognitiva delle alternative, i costi elevati che scaturiscono dall’omissione di nuove informazioni e quelli, più bassi, legati alla loro acquisizione.
In assenza di queste condizioni, specie quando il tempo e le risorse per la scelta sono limitati, il paziente procede ad una disamina di carattere pseudodiagnostico, che si dimostra più rapida ma tende a confermare la credenza iniziale favorendo il mantenimento della condotta problematica.
Mancini, F. (2000). Persistence of weakly justified beliefs. Relazione all’International Congress “Cognitive Psychotherapy towards a new millennium”, Catania, 20-24 Giugno 2000.
Mancini, F., Gangemi, A. (2002). Il paradosso nevrotico ovvero della resistenza al cambiamento. In: Castelfranchi, C., Mancini, F., Miceli, M. (a cura di), Fondamenti di cognitivismo clinico. Bollati Boringhieri, Torino.
Denise, una paziente virtuale a rischio di suicidio
E’ nata Denise, una paziente virtuale progettata dalla University of Florida Department of Computer and Information Science and Engineering, che può aiutare i futuri medici nella corretta valutazione del rischio di suicidio dei pazienti.
Secondo i ricercatori che hanno sviluppato questo progetto la valutazione del rischio di suicidio da parte dei medici deve diventare un “must”, tanto quanto lo è, per esempio, il saper riconoscere un attacco cardiaco.
Il tasso di suicidi è cresciuto, negli ultimi 50 anni, del 60%, specialmente nei paesi in via di sviluppo ed è attualmente la decima causa di morte nel mondo: si stimano circa un milione di suicidi all’anno, con un tasso globale di 16 suicidi ogni 100.000 persone (uno ogni 40 secondi).
Articolo Consigliato: Cyberbullismo e Suicidio Adolescenziale: Esiste davvero una Relazione?
Lo studio, condotto alla Medical College of Georgia at Georgia Health Sciences University, coinvolge studenti di medicina del secondo anno allo scopo di verificare se l’interazione con Denise – una madre e moglie in cerca di cure psichiatriche per l’insonnia e un disturbo dell’umore – può aiutarli nel processo di apprendimento della valutazione del rischio suicidario.
Un gruppo di 40 studenti interagisce con Denise, mentre un secondo gruppo guarda un video in cui un medico intervista un paziente con un disturbo dell’umore, il colloquio verte sulla valutazione del rischio di suicidio.
In un secondo momento, tutti gli studenti hanno il compito di intervistare un “paziente standardizzato”, cioè un attore addestrato per interpretare e segnalare sintomi associati a una certa condizione psicopatologica.
L’interazione virtuale con Denise permette ai giovani medici di fare domande e di ottenere una risposta “tipica”, ma sopratutto li mette nella condizione di riflettere su quali domande porre e a quale sia il modo migliore per farlo: Denise infatti è in grado di dire quando non capisce una domanda.
I ricercatori hanno ipotizzato che gli studenti che interagiscono con Denise saranno meglio in grado di valutare il rischio di suicidio nei pazienti standardizzati. Se l’ipotesi troverà conferma, Denise verrà condivisa con altri studenti di medicina attraverso Association of American Medical Colleges MedEdPORTAL, uno strumento on-line per l’educazione in medicina.
Un secondo obiettivo sarà quello di valutare l’impatto a lungo termine dell’uso di Denise in quegli studenti che proseguono con una specializzazione in psichiatria.
I ricercatori sperano che questo strumento possa aiutare i futuri medici di base ad affrontare situazioni difficili come il suicidio, la psicosi, l’ansia e la depressione.
I disturbi dell’umore, come la depressione, che comportano un elevato rischio di disabilità e di suicidio, sono infatti i disturbi di salute mentale che più comunemente arrivano all’attenzione dei medici di base.
Tiziano Terzani non assunse mai quelle pillole. Affrontò il proprio malessere “levandosi dal mondo”, per tre mesi in una casa nella foresta.
Nel libro-intervista pubblicato postumo La fine è il mio inizio (2006), il compianto reporter e scrittore Tiziano Terzani (1938-2004) racconta al figlio Folco che, in seguito a un lungo soggiorno in Giappone, sviluppò una brutta depressione reattiva, causata da apparenti motivazioni ambientali.
All’epoca dei fatti era già espertissimo di Asia, dove aveva risieduto in vari Paesi, lavorando come corrispondente, ma questa volta sembrava non tollerare la delusione di assistere alla deriva di una cultura millenaria, naufragata in uno stile di vita tutto improntato a una competitività esasperata con l’Occidente, dove l’umanità era standardizzata e il tasso di suicidi cresceva di pari passo al PIL.
Una depressione da disillusione? Il lamento di un intellettuale (sempre di prima linea, mai da biblioteca) indignato? Lo scontro frontale con la realtà di un idealista?
Nell’intervista racconta “Sentivo che ero diventato come un giapponese, nel senso che non ero più io…mi alzavo la mattina con il peso del mondo sulla schiena…”. Si era persino messo a giocare in Borsa, attività lontanissima dai sui normali interessi, decisamente più umanistici e antropologici.
Articolo consigliato: Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio.
Tornato in Europa, decise di consultare un noto psichiatra pisano che, pur non riconoscendo in Tiziano Terzani una depressione clinicamente grave (“Se è depresso lei, sono depressi tutti. Ce ne sono migliaia come lei…”) gli prescrisse il Prozac, da prendere nel caso in cui la sofferenza psichica fosse divenuta insopportabile. Il giornalista non assunse mai quelle pillole e anzi le somministrò al cane morente, come eutanasia. Scelse invece di affrontare il proprio malessere “levandosi dal mondo”, proprio lui che si descriveva come persona estremamente socievole, andando a vivere come un eremita per tre mesi in una casa nella foresta, ai piedi del monte Fuji.
Questo levarsi dal mondo, per periodi più o meno lunghi, ricorrerà anche successivamente, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, quando Tiziano Terzani si trovò ad affrontare il cancro, raccontato in Un altro giro di giostra (2004).
La mancata compliance di Tiziano Terzani all’antidepressivo e il suo modo di affrontare un momento così difficile mi hanno colpito molto, facendomi riflettere su come l’attuale epidemia depressiva del mondo occidentale, non sia soltanto una questione di neurotrasmettitori e di recettori, bersaglio dei farmaci, né solo di pensieri, emozioni o stati mentali disfunzionali, su cui tentano di incidere le diverse psicoterapie. C’è qualcosa di più profondo.
Viene da chiedersi infatti quali siano i meccanismi sociali e relazionali che portano a questa emorragia di neurotramettitori o allo sviluppo di questi stati mentali disfunzionali. Il solito stress della vita postmoderna? E poi disfunzionali rispetto a cosa, a quale tipo di mondo? Siamo sicuri che il nostro mondo occidentale, al quale si riferisce la funzionalità, sia l’ambiente ideale per la nostra mente?
Rispetto a quadri psichiatrici ben definiti (almeno nosograficamente) più tipici del passato come la schizofrenia, la depressione maggiore, il disturbo bipolare, sempre più spesso, nel mio lavoro di psichiatra, mi trovo di fronte a situazioni di crisi di persone che avevano funzionato bene fino a poco tempo prima. La crisi dell’adolescente (che oggi può avere anche 50 anni) che non riesce a trovare il proprio posto nel mondo, la crisi dell’anziano che ha perso ogni ruolo sociale e si sente solo e inutile, la crisi della coppia, la crisi del disoccupato, la crisi del diverso (omosessuali, immigrati e minoranze varie). Il tutto frequentemente condito con le più svariate forme di dipendenza (alcol, sostanze stupefacenti, farmaci, gioco d’azzardo, internet, etc.), come strategia autoterapeutica di primo livello.
Oggi i cambiamenti, voluti o no, sono all’ordine del giorno e ho l’impressione che una diffusa vulnerabilità non ci permetta di affrontarli, altrimenti non ci spiegheremmo come persone apparentemente sane finiscano al pronto soccorso per un’ingestione incongrua di farmaci a scopo autolesivo dopo una delusione sentimentale, come ci siano adulti completamente incapaci di svolgere un ruolo genitoriale, come ci siano leader dei più svariati ambiti incapaci di sostenere la responsabilità del comando. Tutti questi individui in crisi riempiono le sale d’aspetto degli psichiatri che, spesso con incolpevole approssimazione, se ritengono che il livello di sofferenza sia meritorio, prescrivono il farmaco. Nulla di male per carità, il farmaco viene prodotto come rimedio dalla nostra stessa società che crea il disagio, con la finalità di oliare meglio i meccanismi e riportare il sistema alla massima efficienza.
Come osserva Tiziano Terzani (2004) “Gli psicanalisti (ma il discorso è assolutamente estensibile anche a psichiatri, psicologi e psicoterapeuti in genere n.d.a.) considerano loro compito riadattare i pazienti alla società, invece di cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in genere”.
E’ chiaro che cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in genere non è proprio un compito semplice, e di certo non è esclusivo di chi lavora ogni giorno, secondo le proprie competenze, per alleviare il disagio psichico del pianeta.
Articolo Consigliato: Brian Wilson e un Pericoloso Controtransfert Surf-Rock.
Potrebbe essere utile però, anche con finalità preventive, iniziare a prendere consapevolezza di quanto un sistema sociale basato sull’individualismo e sulla perdita del concetto di comunità incida sulla diffusione e sul decorso dei disturbi psichiatrici, di quanto il fallimento dei sistemi educativi porti inevitabilmente a gravi disagi psicologici e comportamenti antisociali, di come il vuoto interiore causato dall’aderire in modo totalizzante a un sistema di vita consumistico crei solo una ricca e grassa infelicità.
Tiziano Terzani ci mette inoltre in guardia nei confronti del fanatismo scientifico, dell’illusione del progresso e ci invita a ricordarci di come la scienza in quanto tale, che si spinge a vivisezionare la realtà in parti sempre più piccole e disgiunte le une dalle altre, sia solo una delle possibili lenti con cui guardare il mondo. La scienza ha preso il posto della religione nel mondo occidentale, è il nuovo “oppio dei popoli”. Ma quel’ è il prezzo che stiamo pagando per questa progressiva sostituzione? Siamo sicuri che ci troviamo sul sentiero giusto? Ma soprattutto, dove ci porterà?
Alle rappresentazioni parziali e frammentarie, frutto dell’enorme impegno scientifico profuso dalla parte ricca del pianeta, il giornalista contrappone la millenaria sapienza indiana del non dualismo, del sentirsi parte di un tutto, perché è proprio il sentirsi troppo liberi, disgiunti da tutto il resto del mondo, a causare un gran senso di solitudine e tristezza.
Ma come è possibile guardare la realtà con uno sguardo diverso e capire che nel profondo non siamo disgiunti dagli altri e dal mondo che ci circonda?
Tiziano Terzani ci invita a guardare ad Oriente, non alla ricerca dell’ultima moda new-age, ma per renderci conto di come da quelle parti esistano da millenni discipline (come lo yoga, il buddismo, lo zen, il taoismo e il tantrismo) finalizzate al risveglio e alla trasformazione della mente, volte a tacitare quell’io che produce la dualità, permettendo di ascoltare un altro Sé presente dentro di noi (Germani, 2008).
Il principale dualismo occidentale, al quale la nostra medicina è tuttora saldamente ancorata è quello cartesiano, che vede il corpo e la mente come due entità separate, mentre è sempre più evidente, anche secondo rigorosi studi della scienza occidentale (Lutz et al, 2004, Tange et al, 2012), come sia la mente a controllare la materia.
La tecnica esplorativa che accomuna le diverse discipline orientali è la meditazione, che determina un’acquietamento psicosensoriale e lo spostamento dell’attenzione dall’esterno all’interno, permettendo di diventare spettatori distaccati della propria mente.
Lo spettacolo potrebbe essere davvero interessante perché come dice Tiziano Terzani “Quel che è fuori è anche dentro, ciò che non è dentro, non è da nessuna parte”.
Per una volta non si parla di facebook o twitter, ma dei contesti sociali in cui viviamo.
Numerosi studi hanno messo in luce il dato che l’approvazione nei confronti del partner, da parte di parenti e amici è un elemento che guida le nostre scelte amorose (Agnew, Loving, & Drigotas, 2001; Etcheverry, Le, & Charania, 2008; Loving, 2006; MacDonald & Ross, 1999) e che una storia appagante e duratura ha bisogno dell’approvazione di chi sta intorno ( Eggert & Parks,1987; Parks, Stan, & Eggert, 1983; Sprecher& Felmlee, 1992, 2000) e solo in pochi casi (Driscoll et al, 1972), l’interferenza di amici e parenti nella relazione, porta ad un aumento dell’intensità della stessa; il cosiddetto “ Effetto Romeo e Giulietta”.
Nella ricerca condotta da Susan Sprecher, sociologa e antropologa dell’Università Statale dell’Illinois, il punto di vista preso in considerazione è proprio quello degli “altri”, in particolare il contesto amicale, per valutare in che modo le opinioni si formino e influenzino le relazioni d’amore.
Articolo consigliato: Relazioni Tossiche: un Rischio per la Salute come il Junk Food.
Ai partecipanti dello studio, 529 studenti reclutati all’interno dell’università, sono stati somministrati due questionari; in uno le domande riguardavano una relazione che si era cercato di influenzare positivamente, una seconda versione in cui le domande riguardavano una relazione che si era cercato di ostacolare, perchè disapprovata, prendendo in considerazione gli ultimi 5 anni. Le domande indagavano: l’impatto che aveva avuto la relazione, il tipo di reazione esperito, il grado di approvazione e di interferenza dei comportamenti messi in atto, che tipo di relazione era (ad es. se esclusiva o casuale), le credenze sulle relazioni in genere.
I risultati hanno evidenziato che le relazioni più approvate sembrerebbero essere quelle del tipo “appuntamenti casuali”, che i comportamenti influenzati dall’approvazione o disapprovazione sarebbero maggiori quando la relazione diventa più seria. Questi comportamenti erano di tipo comunicativo, ad esempio cercare di persuadere l’amico che avrebbe potuto trovare di meglio, o confermare che il partner era piaciuto e che la coppia era ben assortita. Rispetto alle credenze sulle relazioni, quelle positive erano associate a un numero maggiore di comportamenti “approvanti” e viceversa.
Questi dati confermano che una storia d’amore si svolge anche in un contesto sociale, che manifesta precise opinioni in merito. Le opinioni sono influenzate anche da ciò che si crede rispetto alle storie d’amore in generale e guidano il comportamento con lo scopo di supportare o ostacolare lo sviluppo della relazione.
Due terzi dei partecipanti hanno ammesso di pensare che i loro comportamenti erano stati in grado di influenzare le storie d’amore degli amici, specialemente nel caso di relazioni su cui nutrivano opinioni positive. In misura minore pensavano di avere influenzato negativamente le storie “sbagliate” e solo una piccola parte credeva che la loro disapprovazione avesse avuto come risultato il rafforzamento della storia. Un altro aspetto preso in esame nello studio sono state le differenze sessuali. Dalle risposte ai questionari sembrerebbero essere più attive le donne nel giudicare e nel comportarsi di conseguenza quando si tratta di relazioni che incontrano la loro approvazione e che il giudizio femminile sia più obiettivo rispetto l’esito positivo o negativo di una storia d’amore.
Milan Kundera ne “L’instostenibile leggerezza dell’essere” scriveva che due esseri che si amano, non possono esistere isolati, che hanno bisogno del mondo per potersi parlare. Questo studio, sembra suggerire, che due esseri che si amano hanno bisogno anche dell’approvazione del mondo per continuare a stare insieme.
Eggert, L. L., & Parks, M. R. (1987). Communication network involvement in adolescents’ friendships and romantic relationships. In M. L. McLaughlin (Ed.), Communication yearbook (Vol. 10, pp. 283–322). Newbury Park, CA: Sage.
In letteratura vi sono generalmente tre ipotesi che cercano di spiegare il fenomeno dell’ apprezzamento estetico di una musica.
Articolo Consigliato: Ascoltare la propria Musica preferita migliora la Performance Sportiva
Un primo approccio ipotizza che uno stimolo venga considerato piacevole in quanto si tratta di un suono atteso, conosciuto e familiare; all’opposto altre teorie considerano che una musica venga apprezzato di più quando nel momento in cui non sia né troppo familiare né troppo nuova; infine un’altra corrente ritiene che uno stimolo musicale piaccia quando è in grado di suscitare una reazione emotiva intensa.
Uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology supporta quest’ultima ipotesi.I ricercatori hanno esaminato il livello di gradimento musicale in funzione del fatto che un brano musicale inducesse una reazione emotiva diversa rispetto a un brano precedente.
Nello studio sono stati utilizzati brani di 30 secondi di musica classica al pianoforte che suscitavano emozioni di tristezza o di gioia. I soggetti sperimentali ascoltavano i brani e riferivano sia l’emozione provata ascoltando il brano sia il gradimento musicale.
Mano a mano che aumentava la frequenza di presentazione di brani inducenti la medesima emozione diminuiva il gradimento dei brani di pari passo con la diminuzione dell’intensità dell’emozione provata. Viceversa, nel momento in cui venivano presentate sequenze di brani trigger di emozioni contrastanti, i brani venivano apprezzati in misura proporzionale all’accrescimento dell’intensità emotiva indotta dagli stessi.
In altre parole, l’effetto abituazione emotiva – si tratti di emozioni a valenza positiva e negativa- è nemico del gradimento estetico di una melodia!
In questa puntata della mia monografia per State of Mind sull’ ACT vorrei concentrarmi su un terzo processo, incluso nel macro-processo processi di mindfulness e accettazione: la “Dominanza di passato e futuro concettualizzato”.
1) Che cos’è la Dominanza del passato e del futuro sul momento presente?
Potremmo definire la dominanza passato/futuro come un insieme di difficoltà a dirigere e mantenere l’attenzione sul momento presente e a cambiare il focus dell’attenzione tra le varie dimensioni della propria esistenza. Tutte le energie dell’individuo sono concentrate su un “tema” o una difficoltà e da quell’argomento non riesce ad uscire, limitando così la sua influenza nella propria vita.
Vi sono molti esempi di dominanza del passato o del futuro sul momento presente. Pensiamo ad esempio al rimuginio o alle ruminazioni depressive. Nel momento in cui si rimugina o si rumina sul passato, tale processo richiede molte energie e concentra tutta la nostra attenzione sul processo stesso. In questo modo, viviamo in un tempo diverso da quello presente e lasciamo che i nostri pensieri di rimuginio o di ruminazione ci “ingaggino” e ci trascinino in una dimensione molto diversa, e talvolta anche lontana nel tempo, da ciò che stiamo esperendo nel presente.
Altri segnali della dominanza del passato/futuro sono, ad esempio, l’eccesso di rigidità e la mancanza di consapevolezza rispetto a ciò che succede intorno all’individuo nel momento presente. Oppure alle difficoltà di attenzione o anche a segnali più lievi di “mindlessness” o sbadataggine (di cui abbiamo già parlato in un altro articolo su State of Mind).
Articolo consigliato: Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo.
Un piccolo esperimento di osservazione potrebbe permetterci di farci un’idea di quando noi stessi lasciamo che il passato e il futuro “vivano” al posto nostro la nostra esistenza…
Il seguente elenco, ripreso da un training ACT a cui ho partecipato ci aiuta a capire cosa osservare (in colloquio) gli elementi che potrebbero farci ipotizzare una difficoltà legata alla dominanza passato/futuro sul momento presente.
– Il paziente riesce a mantenere il contatto oculare o è “perso nei propri pensieri”?
– Il paziente cambia in modo significativo il tono di voce?
– Si riscontra la presenza di pensiero ripetitivo?
– Si distrae spesso e facilmente con suoni o rumori anche lievi?
– Alla richiesta di cambiare argomento o di affrontare un aspetto diverso (altro argomento, altro momento temporale di vita, esercizio, etc), ci riesce?
– Come reagisce il paziente quando gli si chiede di spostare e/o di portare la propria attenzione e notare aspetti specifici della propria esperienza?
Questi sono solo alcuni esempi di come notare la dominanza del passato o del futuro. Nell’ottica dell’ ACT i pazienti che passano ore e ore a rimuginare e a preoccuparsi per eventuali catastrofi future o a temere che qualcosa possa succedere mostrano una inflessibilità e una rigidità nella scelta consapevole di spostare l’attenzione su un altro aspetto della propria vita; ciò dirige verso una difficoltà a “depotenziare” o ad “abbassare il volume” e quindi l’influenza di tali processi psicologici disfunzionali.
Che fare, quindi, con i pazienti che mostrano una severa dominanza del passato e del futuro sull’esperienza presente? La proposta dell’ ACT è: Promuovere il contatto con il momento presente
2) Cosa significa essere in contatto con il momento presente?
Essere psicologicamente presenti e disponibili verso ciò che accade nel momento presente. Noi esseri umani, per motivi legati a una sorta di “economia mentale”, tendiamo naturalmente a svolgere moltissime attività quotidiane senza porre attenzione a quello che facciamo. Come se spesso le nostre azioni fossero gestite da un “pilota automatico” che ci permette di svolgere più attività in contemporanea. Sebbene, in molte occasioni, tali automaticità sia utile e funzionale, esistono diverse occasioni in cui agire in automatico e perdere il contatto con ciò che stiamo facendo è dannoso e disfunzionale per la nostra vita. Almeno per due motivi: il primo, è legato al fatto che vivendo in automatico, limitiamo la qualità della nostra esperienza e non siamo consapevoli di ciò che ci sta succedendo, anche quando si tratta di situazioni o episodi gradevoli positivi e appaganti. Il secondo motivo , riguarda appunto la dominanza del passato e del futuro. Infatti, se noi facciamo esperienza guidati (o per meglio dire “oscurati”) dalle lenti dei rimuginii e delle ruminazioni, non faremo altro che confermare ciò che la nostra mente ci racconta, in un processo di “profezia che si autoavvera” in cui, ad esempio, se mi approccio ad un’esperienza dopo averci rimuginato per ore arrivo ad affrontare quella stessa esperienza con un carico emotivo ansiogeno da cui non ho scampo; e l’esito di tale esperienza sarò molto simile a come me lo sono immaginato nelle mie rimuginazioni sul futuro.
Articolo Consigliato: Monografia Acceptance and Commitment Therapy – Introduzione
Entrare in contatto con il momento presente significa anche scegliere consapevolmente di portare la propria attenzione su ciò che sta accedendo dentro di me e nel mondo fisico esterno in quel preciso momento. Detto in altri termini, risvegliarsi all’esperienza ed essere presenti a se stessi e agli altri e aprirsi con disponibilità a ciò che il presente ha da offrire.
Coltivare un atteggiamento di apertura e di disponibilità porta a sviluppare diverse risorse, che contribuisco a promuovere la flessibilità psicologica, faro auspicabile dell’ ACT.
Tra tali risorse, ne ricordiamo brevemente alcune. Mantenere il contatto con il momento presente permette di “apprendere dall’esperienza” e di notare cosa sta accadendo nel momento stesso in cui accade, presenti a noi stessi e all’esperienza nel momento presente. Ciò permette di individuare risposte adeguate e di agire in modo consapevole e adeguato. Un secondo vantaggio del focalizzarsi sul momento presente riguarda la possibilità di spostare l’attenzione (shifting) verso aspetti importanti a fondamentali dell’esperienza. In questo modo, si può riuscire a “muoversi” in modo flessibile con il contesto, mentre l’esperienza stessa si modifica, in un moto evolutivo costante e in perpetuo cambiamento. Aprirsi alla propria esperienza di ansia nel momento presente può aiutare a “accettare” lo stato ansioso e di notare come questo cambia e si modifica con il tempo… rimanere agganciati non solo all’emozione dell’ansia ma anche a tutti i pensieri legati allo stato di ansia (e quindi rimuginare, in un processo di dominanza del futuro, ovvero le preoccupazioni) e non notare la naturale evoluzione dell’ansia, che porterebbe (nela maggior parte dei casi…) a una sua naturale diminuzione.
In Treatment, quarto episodio: Amy e Jake sono una giovane coppia piena di problemi, di incomprensioni e di conflitti sotterranei e non.
Nella quarta puntata Paul affronta una terapia di coppia. La scelta risponde a un bisogno di varietà drammatica: un incontro tra tre attori ci voleva, dopo tre puntate a due. Non si tratta più di una prima visita, ma di nuovo siamo in una terapia già iniziata. La sensazione però è che si tratti di una terapia non cominciata da tantissimo. Amy e Jake sono una giovane coppia piena di problemi, di incomprensioni e di conflitti sotterranei ed espliciti. Subito sappiamo che tra i due le cose non vanno: la puntata inizia con Jake, il marito, solo con Paul mentre nervosamente cerca di rintracciare la moglie ritardataria. Chiama a casa e non la trova. Risponde il figlio, a cui ingiunge di non rimpinzarsi di cibo-spazzatura e poi si lamenta con Paul della moglie che vizia il bambino.
Poi chiama l’ufficio di Amy, e nemmeno lì rintraccia la moglie. Amy, dice amaramente Jake, è una persona importante, la vice-presidente di qualcosa in un ufficio dove tutti si danno delle arie. Poi Jake chiama la suocera, ancora non rintracciando sua moglie. Si lamenta anche della suocera, dicendo che i genitori di Amy sono straricchi, ma si comportano come se non lo fossero. Infine Jake cita in maniera sottile Roland Barthes, sorprendendo Paul e poi compiacendosi di questa sorpresa. Insomma, i messaggi ci dicono che Jake è forse socialmente, economicamente e culturalmente meno “evoluto” di sua moglie e dello stesso terapeuta, che ne è consapevole e irritato e che però, in qualche modo, sa anche difendere la sua dignità e controbattere i pregiudizi classisti degli altri.
Articolo Consigliato: Dalla Famiglia d’origine alla scelta del partner.
Finalmente la moglie arriva, affettuosa e dispiaciuta per il ritardo. Ma l’atmosfera non si rilassa, anzi Jake esprime una serie di dubbi su Amy. Dov’è stata finora? In ufficio non c’era. Lo scambio diventa imbarazzante, con Amy che cerca di giustificarsi e Jake sempre più diffidente e ostile.
Ma è solo l’inizio. Jake continua a interrogare Amy sul suo ritardo, ed effettivamente la sensazione dello spettatore è che Amy abbia qualcosa da nascondere. Paul osserva che in tutte le sedute Amy è in ritardo (per inciso veniamo a sapere che si tratta della terza seduta dall’inizio della terapia).
E infine la bomba esplode. La scusa tentata da Amy –di essere stata a una riunione di lavoro fuori dall’ufficio- non regge. In realtà lei è stata da un medico per decidere di abortire. Il che mette in crisi la terapia, il cui significato sarebbe stato proprio quello di decidere se abortire o meno.
La situazione si fa davvero spinosa. Jake è diffidente e ostile ed Amy si è rivelata bugiarda e ritardataria. Decisamente questi due sono i pazienti più inquietanti incontrati finora. Paul tenta di rendere entrambi consapevoli dei loro modi di agire e pensare: la sospettosità di Jake, la tendenza a manipolare di Amy. Con scarso successo: quel che segue è terribile. Va in scena l’eterno conflitto di proprietà sulla gravidanza tra la donna, che rivendica a sé i suoi diritti di decidere e l’uomo che protesta la sua esclusione. Ed emerge la volontà decisa di Amy di interrompere la gravidanza. E Amy giustifica questa sua volontà raccontando di non stare bene, di sentirsi depressa e in subbuglio ormonale.
Ma non prima di un altro colpo di scena: Amy aveva fortemente voluto questa gravidanza! E ora vuole interromperla. E non è finita: Amy giunge a confessare che la depressione confessata pochi minuti prima è, in realtà, un balla: Amy non è depressa ma, semplicemente, rivendica il suo diritto di decidere di interrompere la gravidanza.
Decisamente gli sceneggiatori hanno inventato un personaggio destinato a scatenare emozioni fortissime negli spettatori, di rifiuto e identificazione al tempo stesso con questa donna. Vediamo cosa succede. La seduta prosegue con Amy e Jake che continuano a scontrarsi con fredda ira reciproca, mentre Paul si inserisce a tratti tentando di chiarire a tratti all’uno e all’altro i loro stati d’animo. La sua impostazione rimane psicodinamica anche in una terapia di coppia. Non sembrano esserci influenze di tipo sistemico-familiare.
E infatti l’intervento successivo di Paul è un altro tentativo di chiarire alla coppia le loro emozioni così violente. Paul ipotizza che in realtà Amy non abbia mentito riguardo ai suoi timori di una depressione e suggerisce a Jake che anche lui potrebbe nutrire delle paure su questo secondo figlio. Ma il tentativo va a vuoto. Amy rivendica il suo diritto a decidere (il che però rende la terapia priva di scopo).
Apprendiamo altre cose che fanno rabbrividire: che Amy da 5 anni si sottopone a cure per restare incinta, che poi aveva rinunciato a questa gravidanza e che prima di Jake c’era un altro marito. E che infine Amy, dopo non essere riuscita a rimanere incinta aveva definitivamente rinunciato per poi rimanere inaspettatamente incinta. E qui Jake lancia un’altra bomba: In realtà Amy non desidera un figlio da Jake, non desidera un figlio da “un cazzone” (in inglese americano Jake dice “shithead”, che è un termine meno bonario dell’italiano “cazzone”: “shithead” una mistura tra stupidità e ristrettezza mentale con un una significativa porzione di crudeltà).
Articolo Consigliato: Brillanti, sexy, indipendenti e orgogliose: ecco Cougar Town!
Esplode quindi il problema suggerito sottotraccia dall’inizio della puntata: il profondo senso di inferiorità sociale, culturale e intellettuale che Jake prova verso Amy. È un problema che non risponde a una precisa diagnosi, almeno per il momento. Tra tutte le terapie di Paul, quella con Amy e Jake sarà quella meno legata a un disturbo determinato.
Arrivati a questo punto di intollerabile tensione, la seduta rapidamente termina con Jake che aggredisce verbalmente Paul e lo induce a esprimere la sua opinione sull’aborto. Messo all’angolo, Paul non riesce a mantenere la sua neutralità e confessa che, secondo lui, la coppia non può tenere quel bambino e quindi conviene abortire. Segue un tentativo non troppo riuscito di recuperare la posizione terapeutica, ma la seduta muore quasi di consunzione.
Il finale è significativo: Paul chiama una certa Gina Toll.
In seguito apprenderemo che Paul, alla fine di una settimana lavorativa piuttosto deprimente (con l’eccezione di Sophie) ha deciso che è arrivato il momento di farsi supervisionare. Da Gina Toll.
C’è trepidante attesa nel mondo scientifico della robotica e della psicologia per l’arrivo di Diego-san, il nuovo robot umanoide in grado di emulare le espressioni facciali di un bambino di un anno.
Articolo consigliato: Cyberpsicologia e Realtà virtuale: joystick e caschetto per il trattamento dell’Anoressia
Il progetto è in corso presso la University of California San Diego (UCSD) coordinato dal ricercatore Javier Movellan direttore del Institute for Neural Computation’s Machine Perception Laboratory.
Il robot potrà essere utilizzato per fini di ricerca in psicologia dello sviluppo nell’ambito dello sviluppo senso-motorio e sociale.
I ricercatori sono al lavoro per sviluppare il software che consentirà a Diego-san di imparare a controllare anche i movimenti del corpo e a interagire con gli altri.
Lo stesso Movellan fa sapere che nel suo laboratorio si sta mettendo a punto un metodo che consentirebbe al software di apprendere i processi di regolazione dell’interazione sociale analizzando reali interazioni madre-bambino, promettendone una pubblicazione scientifica nell’immediato futuro.
Con l’aiuto di telecamere ad alta definizione nei suoi occhi Diego-san guarda le persone, i loro gesti ed espressioni e utilizza algoritmi matematici che modellano le espressioni facciali dei piccoli cuccioli di umano essendo quindi in grado di emulare, ma non ancora di imitare, espressioni emotive, senza in alcun modo esserne consapevole.
Esiste un terzo tipo di colloquio psicologico che verrà presentato brevemente in queste pagine come esempio di un approccio intermedio rispetto ai lavori di Rogers e Carkhuff, un approccio che cerca con successo di raccogliere gli aspetti positivi di entrambi.
Il colloquio di motivazione è definito come un metodo direttivo centrato-sul-cliente, per aumentare la motivazione intrinseca al cambiamento attraverso l’esplorazione e la risoluzione dell’ambivalenza [Miller e Rollnick 1991, 2002; Leoni 2003]. Questa definizione, così com’è, mostra una certa ambiguità dal momento che affianca il concetto di “centrato-sul-cliente” all’idea di un “metodo direttivo”.
Solitamente il colloquio centrato-sul-cliente di Rogers si fondava su un approccio prettamente non-direttivo. Gli autori del colloquio di motivazione ritengono altresì che lo psicologo non possa che essere direttivo in qualsiasi situazione (rifacendosi così alla pragmatica della condizione umana di Pearce).
La neutralità del terapeuta è una pura utopia. Vengono distinti, però, due tipi di direttività.
La prima è la direttività di coercizione, fondata sulle caratteristiche di confronto, di educazione e di autorità. Per confronto si intende l’operazione di controllo delle prospettive disfunzionali del cliente imponendo l’accettazione di un punto di vista che normalmente il soggetto non ammetterebbe. Per educazione si intende il processo di trasmissione delle informazioni opportune perché il cliente possa sviluppare un esperienza di insight e le capacità necessarie al cambiamento, capacità che non possiede all’inizio del colloquio psicologico. Infine per autorità si intende lo sviluppo di un rapporto terapeutico in cui lo psicologo si limita a dire al cliente cosa deve fare.
A questa forma di direttività di coercizione si oppone una direttività che si adegua a ciò che emerge nel colloquio. Quest’ultima oppone la collaborazione al confronto, l’evocazione all’educazione e l’autonomia all’autorità.
Monografia sul Colloquio Psicologico
Attraverso la collaborazione il colloquio psicologico sviluppa un rapporto psicologo-cliente che privilegia la prospettiva di quest’ultimo, lo psicologo conduce ma non costringe al cambiamento. Attraverso l’evocazione si tenta di stimolare la motivazione intrinseca del soggetto al cambiamento, una motivazione che appartiene già al cliente e che viene potenziata agendo sulle sue percezioni, i suoi obiettivi e i suoi valori. Con il concetto di autonomia lo psicologo sostiene il diritto del cliente a prendere le proprie decisioni sostenendo e garantendo la possibilità di una scelta informata.
Il guerriero della luce contempla le due colonne che fiancheggiano la porta che intende aprire. Una si chiama <Paura>, l’altra <Desiderio>. Il guerriero guarda la colonna della Paura sulla quale è scritto:<Entrerai in un mondo sconosciuto e pericoloso, dove tutto ciò che hai appreso finora non servirà a niente.> Poi osserva la colonna del Desiderio, sopra la quale legge: <Uscirai da un mondo conosciuto, dove sono custodite le cose che hai sempre voluto, e per le quali hai lottato duramente.> Il guerriero sorride, perché non esiste nulla che lo spaventi o né lo leghi. Con la sicurezza di chi sa ciò che vuole, apre la porta.
[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.116]
Queste caratteristiche possono essere realizzate se lo psicologo, nel corso del colloquio, pone la dovuta attenzione a quattro principi fondamentali che sono [Miller e Rollnick, 2002]: 1) Espressione empatica: in cui lo psicologo facilita il cambiamento manifestando un’accettazione incondizionata e facendo uso della comunicazione riflessiva dei sentimenti manifestati dal cliente. 2) Amplificazione della contraddizione: che si fonda sull’ipotesi che alla base di ogni problema comportamentale esista un ambivalenza, una contraddizione tra il comportamento e i valori della persona. lo psicologo deve essere in grado di fornire quelle informazioni che permettano al cliente di attuare un processo di esplorazione, che è proprio e non dello psicologo, di tale ambivalenza che porti alla netta demarcazione dei confini dei due percorsi di cui è composta. 3) “Rotolarsi” con la resistenza: è importante che lo psicologo non combatta direttamente la resistenza mostrata dal cliente, deve essere aggirata e, se possibile, sfruttata per comprendere la necessità di provare altre strade, di provare diversi tipi di risposte per mostrare diverse prospettive al cliente, piuttosto che insistere ed imporne una a discrezione del psicologo. 4) Sostenere il senso di autoefficacia: raggiunta la consapevolezza che il responsabile del cambiamento è prima di tutto il cliente e non lo psicologo, è necessario che quest’ultimo sostenga le possibilità di cambiamento che il soggetto ritiene di avere.
Questo senso di autoefficacia già presente deve essere coltivato in quanto può agire come ulteriore elemento motivante e come profezia che si auto-avvera. La realizzazione di questi quattro principi deve attuarsi sin dall’inizio del colloquio psicologico. Per ottenerla Miller e Rolnick [1991] suggeriscono l’uso di particolari strategie di apertura del colloquio. Queste strategie sono: 1) L’uso di domande aperte: domande, cioè, che non elicitino risposte brevi ma che permettano, al contrario, di avere risposte ampie in grado di fornire il maggior numero di informazioni sul problema. 2) Ascolto empatico e riflessivo: che realizza, a livello strategico, il primo principio del colloquio di motivazione attraverso ripetizioni, riformulazioni, parafrasi e riflessione dei sentimenti del cliente. In questo modo permettiamo a quest’ultimo di vedersi riflesso nel psicologo e di cambiare qualcosa nel caso non piaccia. È importante evitare interpretazioni e costruzioni personali del problema del cliente. In questo punto appare quanto mai evidente l’eredità rogersiana che pervade parte della teorizzazione di questo approccio. 3) Affermazioni: ogni affermazione che lo psicologo pone nel corso della terapia deve essere diretta e assertiva. 4) Riassunto: l’uso del riassunto dei progressi e delle riflessioni manifestate fino a quel punto è importante sia per fare chiarezza sui contenuti sia per stimolare la nascita di nuove associazioni tra elementi mai collegati. Queste nuove associazioni possono far emergere nel cliente nuove prospettive e aiutano ad esplorare i diversi percorsi che costituiscono l’ambivalenza. 5) Elicitare il discorso sul cambiamento: esistono anche diverse strategie utili per stimolare ed evocare il problema del cambiamento. Tra queste: usare domande evocative, esplorare i pro e i contro del cambiamento, suggerire l’elaborazione delle informazioni in modo da produrre nuovi punti di vista, fare immaginare al cliente cosa accadrebbe se avvenisse il cambiamento o se non avvenisse, guardare indietro e avanti nel tempo per osservare cosa è cambiato e cosa potrebbe cambiare e valutare quali sono state e sarebbero le conseguenze, esplorare obiettivi e valori del cliente, usare scale di importanza e di priorità.
Attraverso l’attuazione dei principi del colloquio di motivazione attraverso queste strategie il cliente dovrebbe riuscire ad osservare il proprio comportamento ambivalente come somma di due percorsi nettamente separabili ed essere sufficientemente motivato alla realizzazione di un cambiamento.
Miller e Rollnick [2002] riconoscono quattro tipi di conflitti di ambivalenza: approccio-approccio (raggiungere questo o quell’obiettivo), evitamento-evitamento (evitare questa o quella situazione), approccio-evitamento (raggiungere quell’obiettivo o evitare questa situazione), approccio-evitamento doppio.
Articolo Consigliato: Il Colloquio Psicologico: Il Colloquio Tra Rogers & Carkhuff
La scelta verso uno dei due percorsi, che porta all’eliminazione dell’ambivalenza, comporta, di per sé, un cambiamento nelle contingenze di rinforzo che costituiscono l’ambiente in cui vive il soggetto e che indirizzano sempre di più il cambiamento. Questo tipo di cambiamento è del tutto naturale [Miller e Rollnick, 2002], non è una forma unica di evoluzione determinata da particolari tecniche messe in atto dallo psicologo, ma un mutamento naturale influenzato dall’insieme delle interazioni con lo psicologo. Questo avviene nel corso del trattamento e spesso entro le prime sessioni, la quantità del trattamento non sembra determinare una differenza significativa mentre sembra importante sia l’utilizzo di uno stile di colloquio empatico sia le credenze positive dello psicologo sulle probabilità di cambiamento del cliente. Se il cambiamento si interrompe e il cliente ha una ricaduta bisogna affrontare la situazione cercando di capire perché il cambiamento non è stato mantenuto e riprendere ad affrontare il comportamento problematico e ambivalente dall’osservazione delle sue caratteristiche. Nel processo che conduce al cambiamento esistono tuttavia alcuni ostacoli da superare, legati soprattutto alle resistenze mostrate dal soggetto con le quali il terapeuta deve “rotolarsi” evitando il confronto. Miller e Rollnick individuano quattro categorie di resistenze del cliente: 1) Discutere: nella quale il cliente contesta la capacità professionale del psicologo sfidandolo, screditandolo e manifestando aperta ostilità nei suoi confronti. 2) Interrompere: nella quale il cliente cerca di interrompere lo psicologo impedendogli di proseguire le proprie argomentazioni per difendersi da queste. 3) Negare: nella quale il cliente manifesta, in moltissimi modi diversi, la sua intenzione di non accettare i problemi, di non collaborare per un cambiamento e di non ricevere consigli. 4) Ignorare: in cui il cliente manifesta palesemente la sua indifferenza nei confronti del psicologo e delle sue parole rimanendo silente o distratto.
Secondo gli autori [Miller e Rollnick, 2002] esistono modi scorretti e corretti per affrontare queste resistenze. I modi scorretti che devono essere evitati e che possono stimolare le resistenze del cliente anziché eliminarle sono: a) Discutere per il cambiamento: in cui lo psicologo affronta direttamente la resistenza senza “rotolarsi” su di essa dando origine a un contrasto con il cliente e orientandosi ad imporre un cambiamento. b) Assumere il ruolo dell’esperto: in cui lo psicologo assume un atteggiamento tecnicistico mostrandosi come il latore di risposte corrette e di certezze. c) Criticare, Imbarazzare, Incolpare: in cui lo psicologo sembra sfidare il cliente e stimolare emozioni negative, quali il senso di colpa, per ottenere potere su di lui. d) Etichettare: la diagnosi viene effettuata facendo uso di etichette focalizzate più su ciò che il cliente “è” che su ciò che il cliente “fa”. e) Essere in ritardo: in cui lo psicologo, a causa di un senso di urgenza più o meno realistico, si sente in diritto di mettere in atto tattiche chiare e forzate contro le resistenze per poter incedere verso la demolizione della resistenza. f) Pretendere la supremazia: in cui lo psicologo stimola anziché abbattere le resistenze mettendo in rilievo le proprie prospettive e i propri obiettivi come superiori rispetto a quelli del cliente.
“[…] egli non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. Non lo scalfiscono le argomentazioni aggressive dell’avversario, il quale afferma che Dio è superstizione, che i miracoli sono trucchi, che credere negli angeli significa fuggire dalla realtà”.
[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.106]
I modi corretti di affrontare e gestire le resistenze del cliente si realizzano attraverso la riflessione e risposte strategiche quali: spostare il focus del discorso su argomenti che non incentivino la resistenza, manifestare assenso e comprensione verso le resistenze del cliente e introdurre variazioni che introducano nuovi punti di vista, enfatizzare la scelta personale e il controllo (il diritto all’autonomia), favorire ristrutturazione positiva e l’uso del paradosso terapeutico per mostrare nuove prospettive.
Le resistenze del cliente non sono gli unici ostacoli che il terapeuta deve affrontare. Alcune trappole sono sempre in agguato, pronte ad annullare le possibilità di cambiamento del cliente. Queste trappole possono dipendere dal comportamento stesso dello psicologo e possono realizzarsi anche in modo inconsapevole. Da qui la necessità per lo psicologo di porre estrema attenzione non solo all’altro ma anche a sé stesso. Alcuni degli errori descritti da Miller e Rollnick [2002] in cui può incorrere sono: 1) la trappola della domanda-risposta (in cui si instaura un rapporto comunicativo caratterizzato da sequenze di domande chiuse e di risposte brevi), 2) il confronto-negazione, 3) assunzione del ruolo di esperto, 4) etichettamento, 5) il focus prematuro e 6) incolpare il cliente del suo problema.
Come appare evidente, questi errori del psicologo, possono anche essere collegati ad un erroneo trattamento della resistenza del cliente come è stato sottolineato in precedenza. Infine, per chiudere quest’argomento, non può mancare una nota essenziale per descrivere l’approccio di Miller e Rollnick al colloquio psicologico. Il colloquio di motivazione non deve essere considerato come una tecnica ma come un modo di essere e di affrontare le dinamiche interazionali in qualsiasi rapporto comunicativo teso alla risoluzione di un problema. È un modo di essere centrato-sul-cliente ma anche direttivo (poiché non può essere altrimenti) anche se fugge gli estremi dell’imposizione e del confronto in favore di un rapporto collaborativo che mira a stimolare la risoluzione dell’ambivalenza (genesi del problema), una risoluzione che potenzialmente è già in possesso del cliente. Si tratta, quindi, di far emergere la soluzione, già esistente, dal problema stesso così che il cliente possa finalmente distinguere i diversi percorsi che, sovrapposti, davano origine all’ambivalenza. Questa nuova chiarezza aumenta la motivazione intrinseca intesa come aumento della probabilità che si verifichi un cambiamento nel comportamento della persona [Miller e Rollnick, 2002].
La scelta del cambiamento spaccherà così il circuito problematico e ambivalente instauratosi per un processo di apprendimento intervenuto a livello dei tre canali comunicativi (viscerale-autonomico, motorio-volontario e verbale-corticale) interdipendenti e indipendenti tra loro.
Questa scelta, attraverso questa spaccatura, darà origine ad un nuovo circuito di interdipendenza tra i canali comunicativi semplicemente modificando le contingenze di rinforzo dell’ambiente interno ed esterno al soggetto.
More specifically I also reviewed the literature examining resistant attachment style and the development of anxiety disorders. Although there appears to be a link, not all findings have been consistent. While one experimental study did not find a difference between anxiety in children with avoidant and resistant styles, two longitudinal studies found that the avoidant children actually showed more internalizing behavior than resistant children.
Muris, Meesters, Merckelbach and Hülsenbeck (2000) examined the relationship between worry in 159 primary school children and attachment style. Attachment styles were measured by presenting a simplified version of Hazan and Shavers (1987) prototypic description of attachment patterns to children, and children then selected their perceived attachment style. Children also completed the Penn State Worry Questionnaire.
Recommended: Depression, mothers, meta-analysis and attachment.
The results showed that children who classified themselves as having an avoidant or resistant attachment displayed higher levels of worry than children who classified themselves as securely attached. No significant difference was found between children with an avoidant and resistant attachment style.
Goldberg, Gotowiec, and Simmons (1995), in a sample of 145 children, found that compared to anxious/resistant children, those who were anxious/avoidant scored higher on ratings of internalizing symptoms (Child Behavior Check List – CBCL). Similarly, Lyons-Ruth, Easterbrooks and Cibelli (1997) found that anxious/avoidant children reported higher levels of internalizing behavior than anxious/resistant children.
Although the studies yielded inconsistent findings are of some importance, they are also subject to limitations. Thus, Muris et al. (2000) lacked a laboratory assessment of attachment, or a DSM criterion for anxiety diagnosis. The Lyons-Ruth et al. (1997) study was conducted with half the sample of mothers suffering from depression. The Goldberg et al. (1995) study was conducted with chronically ill children. Therefore, the children in both these studies may have been from a particularly high-risk sample. Other studies, as previously mentioned, have used more robust methodologies to display the important association between anxious/resistant attachment and anxiety.
Secondo uno studio apparso su The Journal of Neuroscience gli anziani che parlano due lingue fin da bambini sono più veloci dei monolingue nel passare da un compito ad un altro, mostrando anche un diverso modello di funzionamento neurale rispetto a quello usato dai monolingue.
I risultati di questo studio sottolineano l’importanza di una regolare e stimolante attività mentale durante tutto il corso della vita per prevenire il declino cognitivo legato all’età.La perdita di flessibilità cognitiva – cioè la capacità di adattarsi alle circostanze non familiari o inattese – può essere prevenuta dal bilinguismo che allena gli individui, in modo continuo e permanente, a passare da una lingua all’altra.
Articolo Consigliato: Bilinguismo e funzione esecutiva
I ricercatori della University of Kentucky College of Medicine, hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per confrontare l’attività cerebrale di anziani bilingue con quella di anziani monolingue impegnati in un compito usato per testare la loro flessibilità cognitiva, e hanno scoperto che entrambi i gruppi hanno svolto il compito con precisione. Tuttavia, gli anziani bilingui erano più veloci a completare il compito rispetto ai loro coetanei monolingue, nonostante il minor dispendio di energia nella corteccia frontale – una zona notoriamente coinvolta nello svolgimento di questo tipo di compiti.
I ricercatori hanno anche misurato l’attività cerebrale di giovani adulti monolingue e bilingue, mentre svolgevano lo stesso compito per testarne la flessibilità cognitiva.
Nel complesso, i giovani adulti sono stati più veloci rispetto agli anziani a svolgere il compito, ma il bilinguismo non ha influenzato le prestazioni al compito o l’attività cerebrale nei giovani partecipanti. Al contrario, gli anziani bilingui hanno svolto il compito più velocemente rispetto ai loro coetanei monolingue e speso meno energia nelle parti frontali del loro cervello.
Questo suggerisce, secondo i ricercatori, che gli anziani bilingue usino il cervello in modo più efficiente dei monolingua, inoltre il bilinguismo permanente può avere una forte influenza benefica sul funzionamento delle regioni frontali del cervello durante l’invecchiamento.
L’ipnosi è un fenomeno psicologico la cui storia risale a quella della specie umana. Gli uomini primitivi la utilizzavano già nella pratica dei riti religiosi e medici per accrescere la fede nel misticismo e nella magia. Le peculiari caratteristiche di questa manifestazione psicologica l’hanno circondata di un’aura di soprannaturalità e di irrealtà.
Quando è stata definita l’ipnosi? La storia scientifica dell’ipnosi ha inizio nel 1775 con Mesmer che coniando il termine “mesmerismo” la considerò come una forza di tipo cosmico definita come “magnetismo animale” efficace nella cura di certe tipologie di pazienti. Questa definizione di ipnosi sommata alla diffidenza delle persone per un fenomeno nuovo e difficilmente spiegabile diedero inizio alle superstizioni e alle paure che ancora oggi generano sospetto nel suo utilizzo da parte dei non addetti ai lavori.
Monografia sulla Mindfulness
Seguirono poi, nel 1817, Elliotson e Esdaile che la utilizzarono come strumento terapeutico nella loro attività ospedaliera e privata e infine, nel 1841, Braid ne riconobbe la natura psicologica e lo ridefinì come “ipnotismo”.
Anche Freud insieme a Breuer iniziarono ad utilizzarla come strumento psicologico nella cura dei pazienti psichiatrici, ma ben presto ne abbandonarono l’utilizzo in quanto lo consideravano uno strumento diretto e immediato piuttosto che una tecnica terapeutica.
Oggi, con lo sviluppo della psicologia come scienza dell’uomo si è riusciti a considerare l’ipnosi come materia specifica di psichiatri e psicologi. Da ciò sono così partiti una serie di studi e di ricerche volti a cogliere al meglio la sua possibile utilizzazione in campo terapeutico. Ad esempio Luria nel 1932 e Huston at al. nel 1934 hanno dimostrato il valore dello stato ipnotico nel riprodurre alcuni fenomeni di malattia mentale. Sono stati fatti, inoltre, molti studi approfonditi con raccolta di dati scientifici sull’efficacia di questo tipo di psicoterapia come gli studi di Sears nel 1932 che hanno dimostrato che è possibile ridurre i sintomi di conversione presenti nei disturbi mentali.
Più recentemente negli studi di Shih et al.2009 e di Lazarus et al. 2010 si riconferma l’efficacia di questo metodo terapeutico in relazione ad alcuni disturbi mentali.
Gli stessi medici li hanno riconosciuti ma molti pregiudizi devono ancora essere sfatati. Grazie alla possibilità di informazioni scientifiche oggettive, che vengono pubblicate dalle attuali riviste specialistiche, come ad esempio la Rivista Italiana di Psicoterapia e Ipnosi e l’European Journal of Clinical Hypnosis, che al giorno d’oggi sono accessibili a tutti, i sentimenti di diffidenza e di paura legati ad un concetto errato di ipnosi stanno via via lasciando spazio all’apprezzamento dei suoi pregi scientifici e terapeutici.
Ma passiamo alla terapia: quanto dura e chi può essere ipnotizzato?
La risposta è semplice, la durata della psicoterapia è di solito breve e chiunque può sottoporvisi.
La percentuale di coloro che recepiscono l’ipnosi è altissima anche se le persone non sono motivate. L’ipnosi non altera la coscienza di sè, non ha nulla a che fare con il soprannaturale e, a differenza di ciò che alcuni possono pensare non ha alcun rapporto con il sonno fisiologico.
Articolo Consigliato: Il Training Autogeno, Per Chi e Per Come!
Durante una seduta di psicoterapia in ipnosi non è possibile fare nulla che sia in contrasto con la volontà e le convinzioni della persona o con la sua personalità.
Alcuni spettacoli o film ideati da persone più interessate all’audience che alla scienza, mostrano una versione dell’ipnosi di tipo manipolativo della persona, quindi assolutamente non realistica e fuorviante. Questo ha contribuito a creare molta diffidenza nell’opinione pubblica ed in terapia è necessario chiarire ed eliminare qualunque dubbio del paziente prima di poter iniziare il lavoro.
In che cosa consiste l’ipnosi? In realtà l’ipnosi è uno stato mentale naturale, insito nel nostro essere e nel nostro vivere, per cui la sperimentiamo molto spesso. Quello che la contraddistingue dagli altri stati mentali, per esempio il sonno o la veglia, è che con l’ipnosi si attiva una maggiore attenzione per gli stimoli interni al nostro essere, piuttosto che per quelli esterni. Infatti si possono raggiungere vari stati mentali contraddistinti da diversi livelli di profondità e di completezza nell’introspezione. In ipnosi si può entrare in modo spontaneo o in modo indotto; infatti è uno stato mentale che fa parte della natura di ogni individuo e che viene utilizzato in modo adeguato dallo specialista nell’ambito di un rapporto terapeutico mirato.
Il Trono di Spade è una serie televisiva prodotta e trasmessa da HBO che racconta la trasposizione televisiva delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, collana di romanzi fantasy di George R.R. Martin.
La serie narra le vicende di un vasto regno sull’orlo di molte possibili guerre. Una guerra politica interna, tra le famiglie più influenti del vecchio continente. Una guerra contro il passato, la giovane erede di una dinastia da tempo detronizzata. Una guerra contro un nemico sconosciuto e misterioso: i temibili Estranei del nord.
Il Trono di Spade affascina per una trama complessa, ricca di colpi di scena e con personaggi ben sviluppati dal punto di vista psicologico, anche se a volte schematici e rudi.
Ecco perché nasce la curiosità e il gioco di riflettere su alcuni spunti e provare a condividerli con i lettori di State of Mind.
Tra le scene iniziali una ha colpito la nostra attenzione. Siamo nel terzo episodio della prima stagione e assistiamo a un dialogo tra la regina Cersei e suo figlio adolescente Joffrey, erede al trono. Biondo, fragile, carino, potenzialmente prepotente e violento. Ma prima occorre fare il punto sull’antefatto. Eddard Stark, lord di Grande Inverno, viene incaricato dal suo re (suo vecchio e amatissimo amico) di recarsi presso la capitale del regno per ricoprire la carica di Primo Cavaliere del Re. Durante il viaggio accade un increscioso incidente. Capita che il principe Joffrey, per farsi bello agli occhi della giovane figlia di Stark, minacci la sorella minore di quest’ultima (Arya) e un suo amico. Quando Arya si ribella a questo atteggiamento arrogante del suo principe, Joffrey si sente messo in discussione e alza il tiro impulsivamente: sfodera la spada.
A questo punto la custode di Arya, una metalupa, (i cani/lupo protettori degli uomini) percepisce la minaccia che incombe sulla sua padrona, si avventa sul principe e lo ferisce a un braccio. Joffrey, che è pur sempre un adolescente abituato all’agio e alla riverenza, si spaventa, urla, piagnucola, invoca pietà e fugge umiliato. A questo punto si accende il dramma politico degli adulti, poiché l’onore del principe dev’essere riparato e Cersei è tutt’altro che una madre capace di cogliere le occasioni di dolore, come l’umiliazione, per insegnare qualcosa a suo figlio.
No, per lei educare è insegnare la forza. Anzi di più. Occorre convincersi della propria onnipotenza. In pubblico Cersei entra a difesa del ragazzo, non accetta di lasciare il gesto impunito, sarebbe una debolezza, una incrinatura inaccettabile della sua immagine di futuro re. Quindi pretende un atto riparatorio, la testa di uno dei metalupi degli Stark.
Questo avviene ed è una delle scene più dolorose e ingiuste della serie. Una volta riparato il danno pubblico, Cersei si trova a gestire quello privato. Ha il timore che il figlio possa sentirsi indebolito da questa vicenda. E infatti egli arriva per curarsi, è triste, addolorato e umiliato. Come reagisce Cersei? mentre cura la ferita di Joffrey: “Un re deve avere cicatrici. Hai respinto un metalupo. Sei un guerriero come tuo padre”. Induce un racconto falso. Inizialmente tanto falso che lo stesso principe ha un moto di onestà e di autocritica: “Non sono un guerriero. Non ho fatto niente, il lupo mi ha morso e io ho gridato. Le sorelle Stark hanno visto tutto”.
Hanno visto che non è che un semplice ragazzo spaventato. In quella espressione tutti noi possiamo sentirci un po’ vicini a Joffrey, provare pena e compassione. Lì il principe mostra il dolore umano di un ragazzo che ha sbagliato e può entrare in contatto con la propria debolezza. In quel momento può essere moralmente salvo. Cersei potrebbe cogliere l’occasione per riconoscere la normalità della paura e dell’umiliazione come esperienze di vita tollerabili. Joffrey potrebbe essere indirizzato a conoscere le proprie paure, responsabilità e magari chiedere scusa. Lì poteva cominciare a divenire un uomo saggio e compiuto. Poteva allontanarsi dall’assetto sprezzante della sua famiglia. Dalla loro violenza. Cersei risponde: “Non è vero. Tu hai ucciso la bestia. Hai risparmiato Arya solo per l’affetto che lega tuo padre al suo”.
Questa versione è talmente assurda che il principe prova a protestare ancora. In quel momento chiede aiuto, vuole sentirsi compreso e accudito. Ma la regina considera l’arbitrio nella costruzione del mondo e il disprezzo della verità come segni di forza e potere regale.
Articolo Consigliato: Storie di Terapia #18 – Marino il Ragazzo Prodigio.
Della regalità coglie l’arroganza e mai la saggezza: “quando Aerys Targaryen sedette sul trono tuo padre era un ribelle e un traditore. Un giorno siederai sul trono e sarai tu a decidere la verità”. Cersei lo spinge a credere al falso a credere all’invenzione della storia ad allontanarsi da una visione corretta della realtà, gli impone che la lettura arbitraria sia suo diritto regale e che un re debba disprezzare la verità. La realtà è roba per il popolo non per i re.
Lo tratta come se fosse un onnipotente che ancora non sa di esserlo. Il dolore non esiste, basta che tu muti la verità. Gli altri sono oggetti da usare o gettare e la regola è che nessun dolore è necessario per un re. Così con l’intento di renderlo forte, Cersei rende suo figlio un principe che non sa soffrire, non sa entrare in contatto con il proprio dolore e con quello degli altri. Un principe che dissocia per mantenere vivi i suoi sogni di grandezza e regalità. Mentre lo guardiamo ci fa pena. Noi sappiamo che il doloroso rispetto della forza della realtà è la necessità di ogni principe medioevale ma anche di ogni persona. Sappiamo che proprio nel momento della sua intuizione di onnipotenza futura egli è un uomo finito, un fantoccio di pezza che sarà vittima della sua stessa storia.
L’educazione di Joffrey assomiglia all’educazione di un moderno narcisista che viene educato dai genitori a considerarsi migliore e superiore agli altri.Che non può avere accesso alla paura, alle emozioni di umiliazione o di depressione.
La grandiosità protegge i genitori dai propri problemi psicologici e dai propri timori sulle debolezze del figlio e danneggia il figlio che si sente grande ma non sa avere un contatto compiuto e saggio con la realtà. La grandiosità che dovrebbe divenire forza diviene invece debolezza e fragilità.
Nel momento storico attuale, dove l’incremento di separazioni e divorzi riflette uno scenario frammentato della famiglia, si osserva che nella maggior parte dei casi la rottura coniugale non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza per la ricerca di un nuovo equilibrio in cui ancora rabbia, aggressività, frustrazione, senso di colpa circolano nel contesto relazionale con possibili conseguenze negative sui figli. A volte per i genitori, presi dalle proprie vicende personali, può risultare difficile riconoscere il disorientamento dei figli, aiutarli a elaborare gli eventi, la sofferenza e i cambiamenti. Infatti, è da tempo confermato dalla ricerca e dall’esperienza che il dolore e le difficoltà dei bambini coinvolti in questa difficile transizione permangono anche nel lungo periodo e necessitano di una risorsa ritagliata sui loro bisogni.
In quest’ottica, si inserisce la risorsa dei Gruppi di Parola per figli di genitori separati (Marzotto, 2010), in cui i figli di famiglie divise possono mettere parola sul dolore, prendere le distanze dal conflitto ed avere una nuova consapevolezza dei propri bisogni e delle proprie domande.
Articolo consigliato: 6 Segnali che predicono il Divorzio. 5 Regole per salvare il Matrimonio
In Italia, i Gruppi di Parola sono una realtà piuttosto recente: sono stati introdotti, infatti, per la prima volta nel 2006 dalla professoressa Costanza Marzotto, presso il Servizio di Psicologia clinica per la coppia e la famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il Gruppo di Parola ha una struttura specifica: è composto da un minimo di quattro a un massimo di dieci bambini tra i 6 ei 12 anni e segue un percorso di quattro incontri di due ore ciascuno, condotto da conduttori debitamente formati, preceduti da un incontro di presentazione di gruppo ai genitori. L’organizzazione prevede i primi tre incontri solo per i bambini e nella seconda parte del quarto incontro sono attesi i genitori. Al termine del ciclo di incontri, mamma e papà possono richiedere un incontro di restituzione facoltativo con i conduttori. La partecipazione ai Gruppi di Parola offre un’occasione per accedere ai sentimenti e nominare le difficoltà che i bambini incontrano durante la vicenda separativa, affinché trovino delle soluzioni possibili e allarghino la comunicazione con i genitori.
Nel gruppo, i bambini hanno la possibilità di confrontarsi, di esprimere i loro vissuti e le loro emozioni in uno spazio sicuro, caratterizzato dalla “confidenzialità”. Quest’ultimo aspetto risulta essere molto importante e rassicurante per i bambini: essi devono sentirsi liberi di parlare di quello che stanno vivendo, protetti dal segreto che verrà mantenuto dalle conduttrici e dagli altri membri del gruppo. Attraverso il confronto e il rispecchiamento, i bambini possono trovare soluzioni pratiche ai piccoli e grandi problemi della riorganizzazione familiare (ad esempio, le due case, i nuovi compagni di mamma e papà, la distanza da un genitore, il conflitto coniugale….) e identificarsi gli uni con gli altri per far tesoro delle reciproche esperienze, uscendo da quel sentimento di solitudine che spesso li colpisce.
Un momento significativo del Gruppo di Parola avviene durante l’ultima ora del quarto incontro: in questo momento, i bambini hanno modo di presentare a mamma e papà una letterona congiunta che essi hanno scritto per loro; in un secondo momento i genitori hanno la possibilità di rispondere al gruppo con dei messaggi anonimi, che vengono letti dalle conduttrici di fronte ai bambini e agli altri genitori.
Questo momento, carico di forti ed intense emozioni, permette ai bambini di stare con la loro mamma e il loro papà insieme, che così trasmettono un messaggio importante della loro presenza e del loro amore, nonostante l’interruzione del legame coniugale.
Il Gruppo di Parola può rivelarsi una valida risorsa per aiutare i bambini a riposizionarsi nel corpo familiare e riconoscere ciò che resta di fecondo pur nel dolore che stanno vivendo, senza sentirsi colpevoli della separazione dei genitori; attraverso il gruppo, apprendono e consolidano il messaggio più importante che ogni figlio di genitori separati deve acquisire: nonostante la separazione, mamma e papà continueranno ad amarli e a rimanere per sempre i loro genitori.
Neonati Teledipendenti: Le mamme, in particolare quelle obese, utilizzano frequentemente la TV per intrattenere e calmare i bambini più agitati e attivi.
La scoperta, fatta dai ricercatori della University of North Carolina at Chapel Hill, si aggiunge alla mole di conoscenze che può contribuire a spiegare il tasso crescente di obesità e inattività nei bambini statunitensi, e ha permesso di sviluppare strategie comportamentali ed educative per aiutare le madri a far fronte a questo problema.
Lo studio, condotto dalla nutrizionista Margaret E. Bentley, è il primo a esaminare l’interazione tra i fattori di rischio materni e quelli infantili nel modellare il comportamento dei giovani telespettatori nell’infanzia.
Articolo Consigliato: Prevenire L’uso di Droga: il Ruolo dei Genitori
Il team di ricercatori ha studiato le abitudini di un campione di 217 madri nere e a basso reddito e dei loro figli, per valutare il rischio di obesità nei bambini. I ricercatori hanno osservato le madri e i bambini nelle loro case a 3, 6, 9 12 e 18 mesi di età, raccogliendo informazioni socio-demografiche, sul temperamento infantile e sull’esposizione alla TV; per esempio hanno chiesto quanto spesso la TV era accesa, se c’era un televisore nella camera da letto del bambino, e se la TV era accesa durante i pasti. I ricercatori hanno anche intervistato le madri perché valutassero l’umore dei loro figli e i livelli di attività e agitazione.
I risultati rivelano che le madri obese e senza un diploma di scuola superiore, che passavano molto temo davanti alla TV, e che avevano un bambino agitato, erano più propense a mettere i loro bambini davanti alla TV. In 12 mesi, quasi il 40 % dei bambini sono stati esposti a più di 3 ore di TV al giorno – un terzo delle ore di veglia.
La televisione, se usata come mezzo di intrattenimento d’elezione, può limitare la responsività materna ai comportamenti infantili, per esempio può portare le madri ad ignorare i segnali di sazietà del bambino.
Questo lavoro ha permesso ai ricercatori di progettare strategie di intervento sulla relazione madre/bambino; alle madri di bambini molto agitati, per esempio, è stato insegnato come calmare i figli senza sovralimentarli o metterli continuamente davanti alla televisione.
Muore a 53 anni Susan Nolen-Hoeksema, grande studiosa del legame tra Ruminazione e Depressione
Susan Nolen-Hoeksema , Psicologa, ricercatrice e Capo del Dipartimento di Psicologia all’università di Yale, è morta il 2 gennaio 2013 all’età di 53 anni in seguito a un operazione chirurgica.
Il 2 gennaio a seguito di un intervento cardiaco è morta Susan Nolen-Hoeksema, professoressa di psicologia alla Yale University che ha esplorato per prima la prevalenza degli episodi depressivi tra le donne e l’importanza dello stile di pensiero ruminativo come fattore di mantenimento e di rischio per la depressione (Nolen-Hoeksema, 2000).
Il particolare, l’interesse di Susan Nolen-Hoeksema si è focalizzato negli anni sulle possibili spiegazioni della prevalenza della depressione tra le donne (doppia rispetto agli uomini) e, più recentemente, ha indagato le differenze di genere nei problemi di abuso di alcool, nonché la relazione tra alcolismo e depressione (Nolen-Hoeksema, 2004).
Dalle queste ricerche, la variabile che sembra fare la differenza tra il genere e la tendenza a sviluppare sintomi depressivi è la ruminazione; esisterebbe cioè una maggior tendenza femminile a ragionare sulle cause e le conseguenze di una situazione problematica, contrapposta a una maggiore tendenza ad agire da parte degli uomini.
Articolo consigliato: Intervista con il Prof. Dimaggio – #2 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale: Verso il Cambiamento.
Questi studi focalizzati sulla vulnerabilità femminile hanno portato la ricercatrice a vincere nel 2001 il premio della commissione per le donne in psicologia della Amercan Psychiatric Association e nel 2002 il premio per la carriera di ricercatrice da parte del National Institute of Mental Health.
Per chi si occupa di ricerca, il nome di Nolen-Hoeksema richiama soprattutto gli studi sulla ruminazione, che lei ha definito come “la tendenza a rispondere a un disagio focalizzandosi sulle cause e sulle conseguenze dei propri problemi, senza intraprendere nessuna azione di problem solving concreto”. In questo senso, ha senz’altro contribuito a spostare il focus dell’attenzione rispetto al ruolo delle cognizioni nei disturbi mentali dai fattori automatici come le distorsioni cognitive o i bias ai fattori più “volontari”, che richiedono l’impiego costante di risorse attentive e cognitive e che rappresentano oggi un importante tassello nel trattamento protocollizzato dei disturbi d’ansia e dell’umore.
Negli ultimi anni la ricercatrice si è occupata del ruolo della ruminazione in altri disturbi, come i disturbi di abuso di sostanze e i disturbi alimentari, mostrando come i ruminatori abbiano più probabilità rispetto alle persone che non ruminano di mettere in atto comportamenti impulsivi e disfunzionali, come ubriacarsi e abbuffarsi (Nolen-Hoeksema, Stice, Wade & Bohon, 2007).
Le ultime ricerche di Nolen-Hoeksema si stavano focalizzando sulla componente adattiva e funzionale della riflessione su se stessi, del modo cioè in cui la ruminazione può avere una controparte costruttiva, che porti a una crescita personale e non a un doloroso black-out (Nolen-Hoeksema, Wisco & Lyubomirsky, 2008) In questo senso, i suoi lavori stavano indagando le componenti personali e temperamentali che possono facilitare l’utilizzo di un’auto-riflessione positiva e l’evitamento di una ruminazione negativa e sterile.
Quella che la Professoressa Nolen-Hoeksema lascia è una comunità scientifica che ringrazia per il suo contributo, per l’aiuto che ha apportato a spostare l’attenzione sulle modalità di pensiero e sui training di gestione della ruminazione. Questo serve agli addetti ai lavori, in un mondo in cui, dalle parole di Nolen-Hoeksema “quando abbiamo una pausa dalle nostre attività quotidiane la maggior parte di noi è inondata da preoccupazioni, pensieri e emozioni che scorrono incontrollate, prosciugando le nostre energie sempre di più. Il mondo sta soffrendo di una epidemica eccessività di pensiero”.