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In Treatment – Psicoterapia in TV. Recensione e Analisi del secondo episodio: S01E02 Alex

In Treatment – Psicoterapia in TV

SECONDA PUNTATA

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In Treatment - Psicoterapia in TV. Recensione di S01E02 Alex. - Immagine: © HBOAlex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico.

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Secondo episodio, secondo paziente di In Treatment. È martedì, e Paul Weston nel suo studio riceve una prima visita. Situazione terapeuticamente intrigante: vediamo come se la cava Paul nell’incontro con un paziente mai visto. Mi rendo conto che in me lo spettatore e il terapeuta fanno a pugni. Il primo si accontenta di essere coinvolto, il secondo pensa: “vediamo come Paul fa un accertamento in prima visita”. Lo spettatore per fortuna prevale, anche perché se Paul tirasse fuori un’intervista diagnostica strutturata spegnerei il televisore.

Il paziente è Alex, un atletico pilota d’aerei militari, caccia top gun. È anche uno statuario afro-americano, sicuro di sé, quasi sprezzante eppure simpatico (o, almeno, è simpatico a me, gusti soggettivi). Paul si è ripreso dopo la seduta con Laura e controlla la seduta. E fa bene a farlo, perché Alex è uno che vuole sempre il meglio in tutto, e per ottenerlo si documenta, si informa. E per questo si è informato su Paul ed è giunto alla conclusione che questo terapeuta è “the best”. Vuole il meglio perché si ritiene il meglio. Questo pilota nero fa parte di un’elite che ha ricevuto da Dio (o da chi per lui, precisa Alex) il pacchetto completo: bellezza e talento tutto assieme. È una teoria che Alex dichiara apertamente a Paul.

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Ma qual è il problema di Alex? In queste prime battute sembra un narcisista. Però non proprio un narcisista maligno. È sicuramente fiero della sua bellezza statuaria, del suo talento e del suo essere un pilota d’aerei. Si sente al centro, ma al tempo stesso non sembra insopportabilmente sprezzante, almeno finora.

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In questo mondo di classicità eroica, in cui –come nell’antica Grecia- bellezza, intelligenza e forza coincidono impeccabilmente, però si è intrufolato il suo opposto: la colpa e il senso del male. Alex è un pilota militare che compie missioni di guerra in Iraq, durante una delle guerre del golfo. Missioni che prevedono bombardamenti. Alex ha qui un ultimo sussulto narcisistico e compiaciuto: racconta egli sia capace di rispettare infallibilmente il tempo di ogni azione senza mai uscire dalla massima variazione tollerabile, che è  di non più di 2 (due) secondi. Ma è l’ultimo sussulto eroico. Dopo il quale Alex racconta che, nell’ultima missione, ha bombardato una scuola coranica uccidendo dei bambini.

Alex ci tiene a chiarire subito che non è tormentato dalla colpa e, per dimostrarlo, dichiara che dorme bene di notte, come un bambino. Però ha preso un periodo di riposo dal suo lavoro di pilota. Perché? Perché, parole sue, è morto. E qui inizia un secondo racconto, mentre la storia della scuola coranica e dei bambini uccisi rimane lì, misteriosa e minacciosa.

In che senso Alex è morto? Nel senso che, tornato dalla missione, è uscito a fare jogging con un amico. E ha corso così tanto da procurarsi un infarto. Infarto così grave che, dice Alex, in quella situazione si ha solo il 3% o meno di probabilità di sopravvivere. E Alex è sopravvissuto e, ancora una volta, si compiace di questa ulteriore prova delle sue qualità fisiche, ormai superumane. Per salvarlo, infatti, i medici lo avevano infilato in una tuta termica che lo ha in qualche modo congelato (confesso una mia ignoranza: non so se un simile attrezzo esista davvero, su internet non ho trovato nulla). Alex ci è rimasto dentro 48 ore e –come sottolinea lui stesso- anche questo è un record.

Salvatosi da questo strano episodio, arriva il terzo colpo di scena, che è poi il motivo per cui Alex si è presentato dal dott. Weston (o almeno, lui se la racconta così). Alex non cerca una terapia, vuole solo un parere professionale. Ha deciso di tornare a Baghdad in incognito per visitare le macerie della scuola bombardata e vuole sapere da Paul che ne pensa.

Che dire? Paul non gli risponde direttamente, e fa bene. La richiesta di Alex è estremamente confusa. Nega ogni sentimento di colpa proclamando che lui ha solo eseguito degli ordini, nega di voler tornare a Baghdad sul luogo del disastro per espiare il suo tormento, nega anche di essersi procurato l’infarto quasi volontariamente correndo come un matto per chilometri e nega anche che quasi tentativo di farsi fuori sia stato un modo per punirsi. Insomma, nega tutto, nasconde tutto sotto il compiacimento delle sue qualità superumane e desidera solo un parere. Un parere psicologico su un’azione, ma negando ogni significato psicologico a questa azione.

Insomma, siamo di fronte a una grande difficoltà di concordare un contratto terapeutico chiaro con questo paziente.

Alex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico. In particolare sembra frequentemente sfuggirgli la regola che la terapia è trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali. Sembra una banalità, ma per molti pazienti non è così chiaro. Per molti pazienti l’esplorazione delle convinzioni distorte e dei propri stati mentali (o dei propri fantasmi inconsci, direbbe Paul Weston) significa rinunciare a una serie di altre convinzioni sul proprio malessere, ovvero teorie naif sulla propria sofferenza, che spiegano i problemi psicologici in termini di responsabilità del mondo o degli altri.

Insomma, alcuni pazienti si presentano al clinico come se non fossero disposti a un’alleanza curativa. È fondamentale che ci si renda conto che non sempre la presenza del paziente in studio, seduto davanti allo psicoterapista, vuol dire che egli abbia la volontà o la capacità di costruire un’alleanza di tipo clinico con il terapista. In altre parole alcuni pazienti portano in terapia domande di terapia non formulate in termini psicologici:

  • Ce l’hanno tutti con me (perché non va da un avvocato?)
  • Ho sempre mal di testa (perché non va dal neurologo?)
  • Mi si è ristretto lo stomaco (perché non va dal gastroenterologo?)
  • Sono tutti stupidi (perché non fonda un movimento culturale?)
  • Sono tutti cattivi (perché non fonda un movimento sociale, politico, religioso?)
  • È tutto sbagliato (perché non fa tutte le cose menzionate insieme?)
Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
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Il problema del contratto un tempo era meno sentito in psicoterapia. Per gli analisti ogni accordo esplicito era sempre una difesa, essendo il paziente del tutto preda inconsapevole delle sue pulsioni e delle sue difese. Per i cognitivisti la situazioni era opposta: il paziente è tendenzialmente ragionevole e razionale e viene in terapia per ragionare sui suoi stati d’animo e ristrutturarli. Per un cognitivista classico era inimmaginabile pensare che il paziente voglia sottrarsi alla terapia: puzzava di inconscio.

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Oggi invece si riconosce che per molti pazienti è bene chiarire e concordare le regole. La tecnica terapeutica descritta da Clarkin, Yeomans e Kernberg (1999) è tutta incentrata sulle regole del contratto e sulla analisi di tutti gli “sgarri” del paziente (o del terapeuta stesso). Ogni violazione è interpretata come manifestazione di quelle stesse difficoltà relazionali che sono oggetto del trattamento.

In questo Paul Weston sembra un analista vecchio stampo: inizia ad ascoltare il racconto di Alex senza dare alcuna direttiva. Alla fine dell’episodio Alex si congeda e va incontro al suo destino.

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BIBLIOGRAFIA:

Violenza Domestica & Disturbi Mentali

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La violenza causa l’esordio di disturbi mentali e, viceversa, persone con disturbi mentali sono coinvolte in episodi di violenza.

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Oggigiorno, il problema della violenza domestica affligge centinaia di migliaia di persone nel Mondo e ogni anno la percentuale di donne che subiscono violenze e sevizie all’interno delle mura domestiche aumenta considerevolmente. In Italia, solo nel 2012, il 72% delle donne dichiara di essere stata vittima di violenza psicologica e il 44% di aver subito violenza fisica. Nell’85% dei casi, queste violenze vengono perpetrate dal partner. Le ripetute violenze fisiche e sessuali, talvolta, possono causare l’esordio e la persistenza di disturbi di natura mentale e, viceversa, uomini e donne con disturbi mentali possono essere più frequentemente coinvolti in episodi di violenza domestica: la relazione tra violenza e malattia mentale sarebbe, dunque, bidirezionale.

A questo proposito, è stata condotta una metanalisi presso il King’s College London’s Institute of Psychiatry per verificare se le persone affette da disturbi mentali avessero maggiori probabilità di andare incontro a episodi di violenza domestica.

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Precedenti studi avevano già indagato sulla relazione tra violenza domestica e problemi di salute mentale, ma si erano focalizzati esclusivamente sulla depressione. Questo, invece, è il primo studio che prende in considerazione un’ampia gamma di problemi mentali sia nelle donne che negli uomini che risultano vittime di violenze domestiche. Sono stati utilizzati 18 database delle scienze biomediche e sociali (tra cui MEDLINE, EMBASE, PsycINFO), ricerche e articoli pubblicati e riguardanti la vittimizzazione e i disturbi mentali. Sono stati inclusi nella ricerca studi osservazionali e sperimentali che si sono occupati della violenza domestica su soggetti di età superiore ai 16 anni e dell’eventuale relazione con i disturbi mentali rilevati attraverso strumenti diagnostici scientificamente validati. Per quanto riguarda il tipo di violenza subita, sono stati considerati studi che si sono occupati di violenze fisiche, sessuali e psicologiche. Complessivamente, sono stati inclusi nella matanalisi 41 studi.

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Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Dai risultati è emerso che esiste un più alto rischio di esperire violenze da parte del partner per le donne con disturbi depressivi, ansiosi e post-traumatici rispetto alle donne senza alcun disturbo mentale. In particolare, le donne depresse hanno una probabilità due volte e mezzo superiore di essere vittime di violenze domestiche, rispetto alle donne senza disordini mentali.

La probabilità è ancora più alta se si considerano i disturbi ansiosi (3 volte  e mezzo) e i disturbi post-traumatici (7 volte). Anche donne con disturbo bipolare o disturbo ossessivo compulsivo o con disturbi alimentari sembrerebbero essere più frequentemente vittime di violenze rispetto a coloro che non presentano alcun disturbo psichico. E’, inoltre, emerso che anche gli uomini con patologie psichiche hanno un rischio maggiore di essere coinvolti in violenze domestiche, ma le stime emerse indicano una incidenza minore e una probabilità inferiore rispetto alle donne.

Gli studi hanno, inoltre, confermato la bidirezionalità della relazione tra violenza domestica e disturbi mentali, nonostante non sia possibile indicarne la causalità.

Gli Autori, infine, aggiungono che successivi studi longitudinali potrebbero verificare se eventuali ricoveri per coloro che presentano gravi patologie psichiche possano essere utili per prevenire episodi di violenza domestica.

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 VIOLENZAABUSI & MALTRATTAMENTIRAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le ricerche Scientifiche Più Interessanti del 2012 – Individuo e Relazioni

Individuo e Relazioni

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

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Segnali chimici e sintonizzazione emotiva

La comunicazione tra gli esseri umani avviene, anche, grazie alla trasmissione di segnali chimici, che provocano la sintonizzazione emotiva.

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Il dolore fisico e quello sociale hanno in comune alcune aree di elaborazione cerebrale, lo studio in questione ha anche scoperto che l’assunzione di un antidolorifico ha reso possibile una minore percezione del dolore sociale.

 

Il QI individuale a rischio quando ci si trova in gruppo

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I processi sociali e quelli cognitivi sono strettamente legati: l’espressione delle capacità cognitive individuali è fortemente influenzata dal contesto e dai feedback sociali del momento.

Timing del primo rapporto e soddisfazione di coppia

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Più tardi è meglio è: avere il primo rapporto dopo i 19 anni predice alti livelli di soddisfazione coniugale nel futuro.

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Disegnata la mappa cerebrale del desiderio sessuale e dell’amore

 

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Identificate due strutture cerebrali fondamentali per il monitoraggio della progressione del desiderio sessuale verso il sentimento di amore.

 

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Avvantaggiamoci: una Proposta alternativa al Sistema Categoriale del DSM

Avvantaggiamoci- una Proposta alternativa al Sistema Categoriale del DSM. - Immagine: © marsil - Fotolia.comDiagnosi dimensionale e intervento clinico modulare, una proposta alternativa al sistema categoriale del DSM

 

1. In attesa dell’ennesimo DSM

Non sarà dato alla mia generazione ma gli operatori della salute mentale che stanno completando la loro formazione in questi anni credo e auspico che assisteranno ad un cambiamento del paradigma psicopatologico. Una vera e propria rivoluzione in senso khuniano che porterà a ripensare in modo del tutto nuovo alla sofferenza mentale e produrrà nuovi e più efficaci interventi terapeutici sia in ambito neurobiologico che psicoterapico e sociale.

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L’attuale modo di pensare psicopatologico è impregnato di una mentalità categoriale che ha da sempre spinto l’uomo a operare classificazioni nei domini di proprio interesse partendo dalla premessa implicita che fossero costituiti da oggetti separati e ben distinguibili.

2. Infaticabili categorizzatori

Il motivo del successo dell’approccio categoriale lo ascrivo a due motivi. Intanto è corrispondente all’esperienza che abbiamo della natura dove gli oggetti o ci sono o non ci sono e sono distinti nettamente uno dall’altro. Inoltre è più semplice prevedendo solo decisioni binarie circa la presenza o l’assenza di un dato oggetto o al suo interno di una certa caratteristica piuttosto che la valutazione della sua intensità. Tale approccio si è consolidato nelle scienze naturalistiche (si pensi a Linneo) e si è imposto anche nella medicina dove le malattie sono considerate realtà in sé.

Psicoterapia: Il DSM 5, i clinici di campagna e i Disturbi di Personalita’
Articolo consigliato: Psicoterapia: Il DSM 5, i clinici di campagna e i Disturbi di Personalita’

A poco vale l’esperienza quotidiana che ci fa sperimentare come nel mondo dei vissuti umani (emozioni e sentimenti) la questione non sia così semplificabile. L’amicizia e l’amore hanno confini incerti e, al loro interno l’oblatività e il possesso si sovrappongono in modo confuso. Ma tale confusione non è rassicurante e preferiamo ignorarla operando quelle terribili semplificazioni verso cui ci mette in guardia Bateson. Gli stessi pazienti, impregnati di mentalità categoriale ci chiedono se un certo disturbo ce l’hanno oppure no così come ci chiedono se quello che provano è innamoramento, amore o semplice infatuazione passionale.

Vogliamo fare ordine nella nostra realtà complessa e siamo abituati a farlo forzando la multiformità del reale nei cassetti ben distinti della nostra scrivania mentale. Tale approccio ha dominato da sempre la psicopatologia sin dall’antichità ed ha trovato la sua sistematizzazione con Kraepelin psichiatra tedesco e grande ordinatore nato nello stesso anno (1856) di quel gran confusionario cui tutti dobbiamo essere riconoscenti che fu Sigmund Freud.

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Da allora la tradizione categoriale non ha avuto rivali cacciando al confino della scienza gli oppositori (Griesinger con il suo riduzionismo neurofisiologico e Jung con i suoi tipi psicologici). Quando L’approccio categoriale ha incontrato gli americani portati per natura alla semplificazione e legittimati al ruolo di padroni del mondo dalla vittoria nei conflitti mondiali il risultato è stato l’imperialismo culturale delle ricorrenti edizioni del DSM.

3. Ce l’ho…mi manca

Se si è imposto così largamente il DSM deve pur avere dei meriti ma è certo che ha ucciso il ragionamento psicopatologico. Per accertarsene è sufficiente leggere le cartelle cliniche dei manicomi dei primi del ‘900 (non solo quelle affascinanti di illustri fenomenoghi) e confrontarle con quelle dei colleghi appena usciti dalle scuole di specializzazione che, preoccupati di stabilire la presenza o l’assenza di ognuno dei molteplici criteri diagnostici, ricordano le negoziazioni delle figurine Panini attraverso la frase fatidica del “ce l’ho… mi manca”.

Il DSM si pregia di essere “ateoretico” e dunque valido per tutti, un esperanto su cui tutti possano convergere come se presupporre l’assenza di una teoria che ordini i fatti non sia a sua volta una ben precisa teoria opposta ad esempio a tutta la tradizione occidentale che va da Kant fino al costruttivismo.

4. Limiti delle categorie

Il modello categoriale del DSM presenta però alcune evidenti difficoltà:

  • Nei DP la comorbidità è la norma e non l’eccezione.
  • La soglia dei criteri necessari per formulare la diagnosi comporta un massiccio uso della categoria residua di DP NAS che è sempre un brutto segno circa la validità di un sistema nosografico
  • Non è chiaro il confine tra tratti di personalità più o meno adattivi e veri e propri disturbi di personalità e neppure tra disturbi di personalità e disturbi di asse I°.
  • Sembra, inoltre che nella scelta del trattamento, anche farmacologico, il prescrittore sia guidato più dall’attenzione all’intensità di certe dimensioni che dalla diagnosi categoriale che poi invece sarà esibita nelle presentazioni scientifiche. Per questo non è infrequente assistere alla prescrizione di neurolettici a pazienti depressi o ossessivi in cui i temi di pensieri tendano a distaccarsi dalla realtà. Lo psichiatra sembra più attento ad una ipotetica sottostante “dimensione delirante” che alla diagnosi categoriale. Altrettanto inconsueta può apparire la prescrizione di un AD ad un paziente schizofrenico con prevalenza di sintomi negativi mirata ad una “dimensione di blocco e apatia”.

 

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 4. I modelli dimensionali cresciuti in clandestinità

Nella seconda metà del ‘900 pur senza affermarsi nelle nosografie ufficiali del DSM (esplicitamente americano) e del ICD (apparentemente internazionale ma condizionato dagli americani). L’approccio dimensionale ha prodotto numerosi modelli suffragati da solidissime ricerche. In particolare vanno ricordati:

  • Il modello psicobiologico del temperamento e del carattere a sette fattori di Cloninger (1987)
  • La valutazione dimensionale della patologia di personalità che attraverso il Dimensional Assessment of personalità pathology valuta 18 tratti di personalità
  • Il modello “big five” che prevede cinque domini o dimensioni di personalità.

Non è certo questa la sede per illustrarli ma va ricordato che le ricerche successive hanno identificato, confrontando questi tre diversi modelli, quattro comuni domini su cui tutti convergono. Inoltre la ricerca ha evidenziato che queste dimensioni hanno specifici correlati psicosociali, neurobiologici e genetici e non è poco.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
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 5. La mia proposta

Poiché ritengo che chi scrive abbia l’obbligo di non limitarsi ad una rassegna sullo stato dell’arte ma di dire la sua anche a rischio di sbilanciarsi ed esporsi a critiche e sberleffi, è giunto il momento di proporre il mio pensiero.

 

Un modello spettrale

Ritengo che tra tratti di personalità, disturbi di personalità e disturbi in asse I° esista un rapporto di spettro.

  • Tratti di personalità

Un tratto di personalità è un modo peculiare di percepire, pensare e rapportarsi nei confronti dell’ambiente e di se stessi che può essere più o meno adattivo a seconda dell’ambiente in cui opera. Il tratto ha origini genetiche (lascio alla psicologia evoluzionista la speculazione sul significato evolutivo dei vari tratti intesi come strategie diverse di adattamento) ma si potenzia per i rinforzi positivi che riceve dall’ambiente e siccome l’ambiente originario è quello familiare, composto da individui che condividono gran parte del patrimonio genetico, è assai probabile che ciò che la genetica propone l’ambiente costruisca e consolidi.

 

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  • Disturbi di personalità

Quando un tratto di personalità diventa rigido, pervasivo e dunque disadattivo (valutazione comunque imprescindibile da un ambiente di riferimento) si parla di DP. In altri termini il DP si ha quando il funzionamento della strategia adattiva in cui consiste il tratto diventa insensibile ai feed back ambientali e va per la sua strada. Così un tratto come la scrupolosità e la precisione si connota come disturbo ossessivo di personalità quando la ricerca della precisione e della scrupolosità da mezzo diventa fine, da strategia si trasforma in scopo e, in quanto tale, ostacola il raggiungimento degli scopi stessi, come ad esempio l’ossessivo che per fare le cose perfettamente finisce per non farle.

 

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  • Disturbi di asse 1°

Situazione analoga, ma più estrema, si verifica per i cosiddetti disturbi di asse I°. Tali disturbi li distinguerei in due gruppi (ecco le categorie che rientrano dalla finestra) quelli monodimensionali e quelli pluridimensionali.

Quelli monodimensionali sono l’esasperazione ancora più marcata di un tratto di personalità per cui alla “precisione-scrupolosità” segue il DP ossessivo e a questo il DOC.  Altrettanto si può dire per il DP evitante e la fobia sociale. Più in generale alla dimensione “harm avoidance” segue il cluster “B” dei DP e ad esso i disturbi d’ansia in asse I°. Ancora, come non cogliere la continuità tra la sospettosità e bizzarria i DP del cluster “A” e i disturbi psicotici in asse I°. Gli esempi potrebbero continuare ma non servirebbero a chiarire ulteriormente il concetto. Il passaggio dall’asse II° all’asse I° avviene quando il sistema cognitivo riesce ad elaborare un comportamento (sintomo) che risolvendo momentaneamente il problema dalla strategia “scopizzata” produce due effetti che lo rinforzano e lo mantengono: un immediato sollievo emotivo e la cessazione dell’esplorazione di strategie alternative. Il sintomo una volta generato diventa un potente attrattore  che monopolizza il funzionamento di tutto il sistema.

Quelli pluridimensionali sono invece specifici dell’asse I° seppure abbiano numerose radici in asse II°. Essi si generano quando diversi tratti di personalità superano un certo valore soglia e, per così dire, precipitano creando qualcosa di nuovo e diverso dai precursori.  Ad esempio per fare un DCA la dimensione “perfezionismo e controllo” deve incrociare la dimensione “problemi di identità e definizione esterna del sé” e la dimensione “importanza del corpo”. A sua volta la stessa dimensione “importanza del corpo” entra in gioco nell’ipocondria quando incontra la dimensione “harm avoidance” e nel disturbo dismorfofobico quando si sposa con la “dimensione delirante”. Anche in questo caso dell’incontro di più dimensioni il sintomo si mantiene e si rinforza perché riesce a soddisfarle tutte.

 

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Tra i vantaggi di un modello dimensionale va ascritto anche il fatto che esso è facilmente traducibile in uno categoriale essendo sufficiente stabilire dei valori di “cut off” per le singole dimensioni, qualora ad esempio  ci sia l’utilità di categorizzare per motivi di comunicazione in ambito di ricerca. Il contrario invece è praticamente impossibile.

 

Implicazioni terapeutiche

Tutto quanto sostenuto finora ha delle implicazioni terapeutiche? A mio avviso decisive.

L’assetto categoriale della nosografia ha dato origine ai protocolli e a tutta una serie di studi sulla loro efficacia. I protocolli tuttavia vengono utilizzati più in contesti di ricerca, medico legale e assicurativo che nella pratica clinica reale proprio perché i pazienti presentano spesso molteplici comorbidità.

Nel cognitivismo italiano sono apparsi negli ultimi anni ipotesi terapeutiche focalizzate su aspetti dimensionali. In particolare “La dimensione delirante” di B. Coratti e R. Lorenzini del 2008 e “Sviluppi Traumatici: etiopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa” di B. Farina e G. Liotti del 2011.

 

LEGGI LA RECENSIONE DI “Sviluppi Traumatici: etiopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa ” DI GIOVANNI MARIA RUGGIERO

 

 

Già in passato nel volume “Psicoterapia cognitiva dell’ansia” curato con Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero del 2006 avevo proposto l’idea della terapia modulare come superamento dei protocolli e ad esso si rimanda per approfondimenti. In questa sede basta ricordarne alcune idee:

"Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Febbraio 2013
Articolo Consigliato: “Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Febbraio 2013
  • Le persone non sono mai riducibili ad una diagnosi e sono sempre qualcosa in più ad esempio grazie alle loro specifiche risorse.
  • All’interno di una stessa diagnosi convivono situazioni cliniche molto diverse.
  • Una patologia è scomponibile in diversi aspetti ciascuno dei quali, oltreché presente può avere intensità differente e contribuire al mantenimento della sofferenza con peso diverso.
  • Per ciascuno di questi aspetti è immaginabile un modulo di intervento di efficacia valutata empiricamente la cui collocazione nel timing della terapia, intensità e durata andrà valutata per ogni singolo paziente.
  • Moduli identici possono essere presenti nella terapia di disturbi diversi: si pensi ad un modulo psicoeducativo sulle emozioni indispensabile e sostanzialmente simile in tutti i disturbi d’ansia, con un evidente vantaggio anche in termini di formazione.
  • Ogni terapia è costituita di tanti singoli moduli, ognuno come un mattoncino di lego concorre alla struttura complessiva.
  • Ogni modulo è come una micro terapia di un aspetto del disturbo

 

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In questo modo ai protocolli che sono dei vestiti su misura di indubbia qualità ma fatti in serie, si sostituisce l’opera artigianale del sarto (psicoterapeuta) che pur avvalendosi di tessuti e procedure di provata efficacia e qualità modella la terapia su misura del singolo paziente. Con un doppio vantaggio. Per il paziente di essere considerato e valorizzato per la sua unicità. Per il terapeuta di essere al momento insostituibile da qualsiasi macchina “applica protocolli standardizzati”.

 

LEGGI LA RUBRICA “STORIE DI TERAPIE” DI ROBERTO LORENZINI

 

 

Ho scritto queste riflessioni perché mi auguro che la ricerca in ambito psicopatologico si sviluppi in direzione dimensionale e in ambito clinico in direzione modulare. Il titolo di questo articolo è dunque un invito a percorrere per primi la strada della dimensionalità anche nell’intervento terapeutico.

LEGGI ARTICOLI SU: 

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM 5 – DISTURBI DI PERSONALITA’ – IN TERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Ossitocina: Una Possibile Cura per l’Autismo

 di Giuseppina Epifanio, Psicologa

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.comOssitocina: una possibile cura per l’ Autismo? Studi recenti tentano di avvalorare l’utilità terapeutica della somministrazione di ossitocina

LEGGI GLI ARTICOLI SU: AUTISMO

Gli esseri umani sono creature sociali e il comportamento prosociale è fondamentale per l’interazione con il loro ambiente. Il nucleo centrale della socialità è la metacognizione, quell’abilità che ci permette di dedurre gli stati interni degli altri a partire da stimoli esterni, come le espressioni facciali, così da capire il significato del comportamento di un’altra persona o da predirlo.

Per molto tempo abbiamo accettato l’idea che gli ormoni determinino il nostro stato d’animo. Tuttavia, recentemente le neuroscienze hanno messo in evidenza come l’ossitocina, l’ormone che agisce anche come neuromodulatore, possa aumentare proprio l’abilità di capire il senso di quello che gli altri stanno pensando o provando e migliorare così la cognizione sociale. L’ossitocina sembra, infatti, influenzare la nostra apertura verso gli altri e la nostra capacità di comprenderli.

Questa capacità è compromessa in soggetti con Autismo. L’Autismo è un disturbo caratterizzato, appunto, da una forte disfunzione sociale e da un’incapacità a rispondere in modo appropriato a stimoli sociali e ad interpretare accuratamente le espressioni facciali.

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Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca?
Articolo consigliato: Giornata Mondiale dell’ Autismo. A che punto è la ricerca?

Diversi ricercatori hanno suggerito che il neuropeptide ossitocina giochi un ruolo chiave nel comportamento sociale e che possa essere implicato nell’eziologia dell’Autismo. Questo neuropeptide migliora, infatti, l’approccio sociale e, negli umani sani, la sua somministrazione per via nasale, migliora il riconoscimento emozionale e delle espressioni facciali. Ciò ha portato alcuni a meditare sul possibile uso dell’ossitocina sotto forma di spray nasale per trattamenti di questo tipo di disturbi psichiatrici caratterizzati da deficit sociali.

Lo studio di Guastella et al. del 2010 ha utilizzato 16 soggetti maschili con un’età compresa tra i 12 e i 19 anni ai quali era stato loro diagnosticato, secondo i criteri del DSM-IV, o il disturbo autistico o la Sindrome di Asperger. Si è partiti dall’ipotesi che i miglioramenti a seguito della somministrazione intransale di ossitocina, se indirizzati in modo particolare all’inizio della vita, possano portare risultati migliori.

I partecipanti dovevano ricevere una singola dose di ossitocina e placebo sotto forma di spray nasale una volta a settimana. Il gruppo di partecipanti più grandi (16-19 anni, n=5) ha ricevuto una dose di 24 IU (4 soffi per narice), che è stata scelta per la maggior parte degli studi di ricerca sull’ossitocina intranasale con gli adulti. I soggetti tra i 12 e i 15 anni hanno ricevuto una dose di 18 IU (n=11, 3 soffi per narice). Dopo 45 minuti dalla somministrazione del farmaco, i soggetti erano sottoposti al Reading the Mind in the Eyes Test-Revised (RMET), un test che valuta la capacità di leggere le emozioni dagli occhi grazie alle sottili espressioni facciali affettive ed è il più valido test usato per il riconoscimento emozionale in pazienti autistici. Otto partecipanti hanno ricevuto ossitocina e otto hanno ricevuto un placebo alla prima sessione del test. I risultati indicano che l’ossitocina migliora la performance nel  RMET nel 60% dei partecipanti. Il gruppo di ricerca ha poi diviso gli items in items facili e items difficili. L’effetto dell’ossitocina era fortemente significante per gli items più facili del test.

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 Questo studio ha prodotto risultati molto rilevanti confermando il ruolo dell’ossitocina nel migliorare il riconoscimento emozionale in giovani pazienti. L’età è un fattore importante, in quanto i risultati suggeriscono un potenziale aumento dei comportamenti sociali nei giovani nei quali i miglioramenti delle risposte sociali possono essere più probabili.

In combinazione con le ricerche precedenti, questi risultati suggeriscono una potenziale valutazione dell’ossitocina intranasale come trattamento per migliorare la comunicazione e l’interazione sociale in giovani soggetti con disturbo dello spettro autistico.  Le ricerche future avranno però il compito di approfondire tali risultati, ad esempio sperimentando la somministrazione di ossitocina sui bambini autistici, in modo da ipotizzare un trattamento terapeutico che sia immediato e tempestivo, in un’ottica di prevenzione, rispetto a quelle che possono essere le caratteristiche croniche di tale patologia. Inoltre, sarebbe importante valutare quelli che sono gli effetti a lungo termine di un tale trattamento, in modo da escludere controindicazioni inattese.

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AUTISMO – ESPRESSIONI FACCIALI – BAMBINI & ADOLESCENTI

 

BIBLIOGRAFIA:

Le Ricerche Scientifiche più Interessanti del 2012 – Psicopatologia

Psicopatologia

 

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheBiomarcatori e Schizofrenia

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Identificato un set di biomarcatori che possono essere utili per la comprensione delle anomalie cerebrali della schizofrenia, una tra le condizioni psichiatriche più gravi e invalidanti e colpisce circa l’1 per cento della popolazione.

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Il progesterone nella cura del trauma psichico acuto

 

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Depressione e Ossitocina

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Trattare la depressione con l’ossitocina, ormone dell’amore.

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Dinorfina: l’oppioide endogeno che placa l’Ansia

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Identificata una sostanza naturalmente prodotta dal nostro corpo e che fa parte della famiglia degli oppioidi (tra cui ritroviamo anche le endorfine) e che avrebbe la funzione di attenuare gli stati emotivi negativi.

 LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO: Dinorfina: l’oppioide endogeno che placa l’Ansia – Neuroscienze

  • Andras Bilkei-Gorzo, Susanne Erk, Britta Schürmann, Daniela Mauer, Kerstin Michel, Henning Boecker, Lukas Scheef, Henrik Walter, and Andreas Zimmer. Dynorphins Regulate Fear Memory: from Mice to Men. The Journal of Neuroscience, 4 July 2012, 32(27):9335-9343; DOI: 10.1523/JNEUROSCI.1034-12.2012

 

Autismo: diagnosi precoce

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Attualmente la diagnosi di autismo viene fatta intorno ai di 2 o 3 anni di età. Secondo questo studio è possibile rilevare uno sviluppo cerebrale anomalo già a 6 mesi di età, cioè molto prima che i bambini comincino a manifestare sintomi autistici.

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Le Ricerche Scientifiche Più Interessanti del 2012 – Infanzia e Sviluppo

FLASH NEWS

Infanzia e sviluppo

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNeanche ai bambini piacciono i piagnucoloni!

Già a tre anni un bambino è in grado di distinguere tra un espressione autentica di sofferenza e una simulata: i piagnucoloni vengono smascherati facilmente e i loro lamenti non suscitano una risposta empatica nei coetanei.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Serie consigliata: “I comportamenti aggressivi dei bambini”

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Apprendimento del Linguaggio: i Bambini già a 3 mesi riconoscono Regole Complesse

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO: Apprendimento del Linguaggio: i Bambini già a 3 mesi riconoscono Regole Complesse

I neonati con meno di tre mesi di vita sono in grado di estrarre e apprendere automaticamente regole complesse dalla lingua parlata; compito che agli adulti riuscirebbe solo grazie a un processo di ricerca e riconoscimento attivo.

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  L’importanza della relazione padre/bambino

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO: Bambini: già dai 3 mesi di vita quanto contano le interazioni con papà

L’interazione diretta dei bambini con i padri, a soli 3 mesi di vita, è predittiva di minori problemi comportamentali al compimento dell’anno di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Procrastinazione: “Usare” con Cautela!

 

Procrastinazione:"Usare" con Cautela!. - Immagine: © michaklootwijk - Fotolia.com

La procrastinazione da strategia di controllo diventa strategia di prevenzione del problema.

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La procrastinazione si riferisce all’atto di sostituire attività prioritarie e importanti con attività piacevoli o compiti meno rilevanti o urgenti. Il procrastinatore è colui che rimanda le cose importanti con l’intento di occuparsene in un altro momento e così rischia di chiudersi nella gabbia del domani.

Il meccanismo della procrastinazione è tutt’altro che semplice. Punto primo: un compito prioritario importante attiva la percezione di fatica e stress (discomfort) ma anche la paura di fallire (fear of failure), il livello di tensione sale. D’altronde scegliere di non occuparsi di una priorità non toglie l’individuo dalla paura di fallire e la carica, anzi, di un senso di colpa per non aver compiuto il proprio dovere. In questo turbamento emotivo entra la procrastinazione, che è un po’ un amico viscido e mellifluo. Il pensiero “me ne posso occupare anche domani” aleggia nella mente come una porta socchiusa verso la via di fuga da questo assedio cognitivo.

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Il pensiero permissivo che governa la procrastinazione assume una forma duplice di controllo e di evitamento cognitivo. Il controllo è “tra la colpa di non farlo e lo stress di farlo trovo un accordo tra le parti rasserenante nello stabilire che lo farò domani”. A questo punto le parti che litigano nel parlamento della mia mente possono mettersi a tacere e accettare una parziale soddisfazione, con conseguente riduzione del carico cognitivo (da rimuginio). 

calendario
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L’evitamento sta nel fatto che il pensiero permissivo mi guida verso un’attività che occupa le mie risorse cognitive (una forte distrazione). Le parti del parlamento mentale, dopo essere state sedate vengono portate a cena fuori, tutto offerto gratuitamente. Il parlamento della nostra mente si occupa di tutt’altro e vive felice e contento, almeno fino a quando il domani viene a chiedere il conto.

A quel punto l’urgenza è la priorità sono presumibilmente aumentate. Lo stress e la paura di fallire pure. Il parlamento è più agitato e può aumentare il rischio di chiedere nuovamente lumi alla procrastinazione. Il processo procrastinatorio lentamente incastra, anche perché la trappola del domani è potenzialmente senza fine. Tanto che a un certo punto il parlamento della nostra mente neanche apre più la discussione (il rimuginio o la riflessione).  La procrastinazione da strategia di controllo diventa strategia di prevenzione del problema. E allora il parlamento si chiude nel paese dei balocchi.

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A quel punto se qualche sottosegretario giunge innanzi a uno dei parlamentari dicendo “ma ascolti, guardi che il tempo è scaduto, l’opportunità perduta” si può scatenare (1) la furia e la rivolta rabbiosa, (2) una forma di giustificazione a posteriori (es: non ce la facevo, troppo difficile, tanto sarebbe andato male ecc…) Certo perché diventa poi difficile accettare il dolore delle proprie responsabilità.

Così nella trappola del domani continuo a non vedere, e per continuare a non vedere mi riempio la mente di altre attività. Poi me la canto e me la suono, cioè me la racconto ogni qualvolta balza in mente il pensiero che potrei mancare ai miei doveri o allontanarmi dai miei scopi.

Posso andare avanti anni così, ma prima o poi la realtà arriva con il suo passo da elefante e mi porta i suoi dati. Posso vedere che in questi anni ho perso tutto al gioco. Posso vedere che la mia carriera è bruciata. Posso vedere che in cinque anni di università il mio libretto è ancora bianco. E come si dice: la frittata è fatta. Quello diventa un passaggio molto doloroso e molto delicato, talvolta fattore precipitante di molti agiti estremi.

Essere consapevoli vuol anche dire imparare a procrastinare con moderazione.

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BIBLIOGRAFIA:

Gli Effetti a Lungo Termine dei Videogames Violenti

 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le persone che usano videogames violenti per tre giorni consecutivi mostrano comportamenti aggressivi e ostili che aumentano nei giorni.

 

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 Gli effetti psicologici dell’utilizzo di videogames violenti sono stati a lungo discussi nel panorama scientifico. Si discute soprattutto sulla durata degli effetti post-utilizzo, se questi si protraggono nel tempo o se invece possono dirsi solo transitori. Le precedenti ricerche, tuttavia, si sono soffermate solo sugli effetti di un’unica sessione di gioco. Spetta a un recente studio il merito di fornire la prima prova sperimentale che gli effetti negativi dell’utilizzo di videogames violenti sono cumulabili nel tempo.

I ricercatori hanno trovato che le persone che usano videogames violenti per tre giorni consecutivi mostrano comportamenti aggressivi e aspettative ostili che aumentano giorno dopo giorno. Al contrario, coloro che utilizzano giochi non violenti non mostrano cambiamenti significativi nell’ aggressività o nell’ostilità verso gli altri.

“Sebbene altri studi sperimentali abbiano mostrato che una singola sessione di videogames violenti aumenti l’aggressività a breve termine, questo è il primo studio a dimostrare effetti più a lungo termine” scrive Brad Bushman, co-autore dello studio e Professore di Comunicazione e Psicologia presso l’ Ohio State University.

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Lo studio ha coinvolto 70 studenti universitari francesi a cui è stato detto che avrebbero partecipato ad uno studio di tre giorni sugli effetti della luminosità dei videogames sulla percezione visiva. I partecipanti sono stati assegnati a due gruppi sperimentali: metà di loro ha giocato con videogames violenti (Condemned 2, Call of Duty 4 e The Club), l’altra metà invece ha utilizzato videogames non violenti (S3K Superbike, Dirt2 e Pure). Entrambi i gruppi hanno effettuato sessioni di gioco per singolo videogames della durata di venti minuti al giorno, per tre giorni consecutivi.

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Dopo le sessioni di videogames, in ognuno dei tre giorni, i partecipanti hanno preso parte a un esercizio che misura le loro aspettative ostili: è stata loro data una storia da leggere e chiesto successivamente di riportare una lista di 20 cose che il protagonista potesse fare o dire per proseguire la storia (ad es. in una storia un uomo alla guida della propria auto urta violentemente la macchina del protagonista, causando danni significativi). I ricercatori hanno contato quante volte i partecipanti hanno elencato azioni o frasi violente e/o aggressive.

Gli studenti hanno poi partecipato a un compito competitivo di tempi di reazione, utilizzato per misurare l’aggressività. Ad ognuno di loro è stato detto di competere contro un avversario situato in un’altra stanza in 25 prove di velocità da effettuare al computer, obiettivo delle prove è rispondere per primi ad un segnale visivo che compare sullo schermo. Il perdente di ogni prova avrebbe ascoltato nelle proprie cuffie un rumore sgradevole (unghie su una lavagna, trapano del dentista e sirene), la cui durata d’esposizione è decisa dal vincitore della prova. In realtà non c’era alcun avversario in un’altra stanza, ma ai partecipanti è stato detto di essere i vincitori in quasi metà delle prove, per misurare così il tempo di esposizione al rumore sgradevole inflitto al finto avversario.

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 I risultati hanno mostrato che, dopo ogni giorno, coloro che hanno utilizzato i giochi violenti hanno avuto un aumento nelle loro aspettative ostili: in altre parole, dopo aver letto l’inizio delle storie, sono stati più propensi a pensare che i personaggi avrebbero dovuto reagire con aggressività o violenza. A proposito Bushman scrive “Questi risultati non solo indicano un probabile effetto cumulativo dei videogiochi sull’ostilità, ma suggeriscono anche come le persone che fanno un uso spropositato di questi videogames potrebbero avere una tendenza a vedere il mondo come un luogo ostile e violento.”

Allo stesso modo, anche l’aggressività dei partecipanti è aumentata giorno dopo giorno: nel ruolo di vincitori alle prove dei tempi di reazione, infatti, gli studenti hanno punito il finto avversario con un’esposizione al rumore fastidioso di durata sempre più elevata nel corso dei tre giorni.

Al contrario, coloro che hanno giocato con videogames non violenti non hanno mostrato alcuna ostilità nelle loro aspettative né aggressività nei loro comportamenti.

I ricercatori, a questo proposito, dichiarano che sarebbe interessante scoprire gli effetti dei videogames violenti dopo mesi o anni di gioco, ma ammettono che questo non sarebbe possibile per motivi pratici e soprattutto etici. Tuttavia, pensando a tutti quei ragazzi che passano i loro pomeriggi (e a volte anche le notti) a giocare davanti al pc o a qualche altra console di gioco, resta pur sempre l’invito a proseguire le ricerche su questo argomento.

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PSICOLOGIA & TECNOLOGIA – VIOLENZA –  PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA  

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Relazioni Interpersonali & Senso di Appartenenza

 

Relazioni Interpersonali & Senso di Appartenenza. - Immagine: © Minerva Studio - Fotolia.comLa ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature permette di sentirsi parte integrante di un tutto e mantenersi indipendenti.

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No man is an island”, nessun uomo è un’isola, recita il primo verso dell’omonima poesia di John Donne, valeva all’epoca del poeta e religioso inglese e vale ai tempi odierni, in cui è sempre più facile connettersi agli altri e avere relazioni interpersonali, che si parli di reale o virtuale.

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La ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature all’interno di un contesto sociale più ampio, permette di sentirsi parte integrante di un tutto e contemporaneamente di mantenere la propria indipendenza e individualità. Un bisogno fondamentale la cui mancanza potrebbe portare allo sviluppo di sintomi di tipo depressivo.

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Diversi studi si sono occupati del senso di appartenenza e disturbi dell’umore (Eberhart & Hammen, 2010; Flynn, Kecmanovic, & Alloy, 2010; Slavich, Thornton, Torres, Monroe, & Gotlib, 2009; Starr & Davila, 2008). I ricercatori dell’Università del Queensland, (W.D.Cockshaw et al. 2012) si sono concentrati sul significato del senso di appartenenza a uno specifico contesto, nel caso della ricerca è stato preso in considerazione il luogo di lavoro, differenziandolo da un più astratto e generale senso di appartenenza dell’individuo alla comunità in cui vive.

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Articolo consigliato: Senso di appartenza e apertura verso l’altro

I partecipanti allo studio, 369, con una prevalenza femminile (il 72% ca) e un’età media di 40 anni, sono stati reclutati via mail con la collaborazione dell’associazione degli alunni e dello staff, del Servizio “Salute e Benessere”, interni all’università australiana. Al campione è stato chiesto di compilare un questionario online che indagava pensieri e cognizioni su due aspetti: far parte della comunità in senso generale e il senso di appartenenza legato al proprio gruppo di lavoro. Una terza parte del questionario era dedicata ad approfondire la presenza di sintomi ansiosi e depressivi.

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I dati raccolti hanno confermato che il sentimento generale di appartenenza alla propria comunità, è diverso da quello specifico che deriva dal sentirsi parte di un gruppo.

Ciò potrebbe essere spiegabile con il fatto che ciascuno di noi fa parte di svariati contesti, all’interno dei quali ricopre uno specifico ruolo (in famiglia, a scuola, sul lavoro, con gli amici). Un altro aspetto emerso è che un deficit nel senso di appartenenza specifico di un contesto può essere predittivo dello sviluppo di sintomi depressivi. Ciò potrebbe dipendere da un diminuito senso di inclusione e valore personale, che l’appartenenza a un gruppo contribuisce a rafforzare. Lo studio dell’Università del Queensland, conferma qualcosa di cui tutti noi prima o poi ci siamo resi conto: che non si vive solo per se stessi, che sentirsi parte di un sistema permette di esprimere aspetti diversi della nostra identità e che le difficoltà nelle relazioni interpersonali interne al gruppo possono portare a un disagio significativo.

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RAPPORTI INTERPERSONALI – SENSO DI APPARTENENZA – DEPRESSIONE – ANSIA 

 

  

BIBLIOGRAFIA

Il Colloquio Psicologico: Il Colloquio Tra Rogers & Carkhuff

 

Il Colloquio Psicologico: Il Colloquio Tra Rogers & Carkhuff. - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.comColloquio Psicologico. Autori che si sono occupati di colloquio psicologico e definiti i padri di due approcci antitetici: Rogers e Carkhuff

LEGGI LA MONOGRAFIA SUL COLLOQUIO PSICOLOGICO

Due autori che si sono occupati di colloquio psicologico e che possono essere definiti i padri di due approcci antitetici su questo argomento sono Rogers e Carkhuff. Il loro approccio è diametralmente opposto, più classico e non-direttivo quello del primo, più tecnologico e direttivo l’altro.

Carl Rogers è il padre del colloquio psicologico non-direttivo, per lo meno nella sua forma classica. Egli apparteneva alla corrente dei fenomenologi e, per questo, riteneva che ognuno percepisse il mondo in un modo unico e proprio. Queste percezioni individuali costituivano quello che lui chiamava “campo fenomenico” di una persona. Questo campo comprende sia le percezioni consce che quelle inconsce anche se Rogers [1951]considerava le percezioni consce e quelle che potevano esserlo alla base del comportamento umano.

Una parte di queste percezioni consce, sempre appartenenti al campo fenomenico della persona, riguarda il “sé”, il “me” e l’”io”.

Queste sono le percezioni che definiscono il Sé che, quindi, è legato a contenuti che possono avere accesso alla nostra coscienza. Al fianco di questa idea di Sé emerge anche un’idea di Sé Ideale. Questo concetto è inteso come l’insieme delle percezioni, riferibili all’area del Sé e particolarmente apprezzate dal soggetto, che vorrebbe facessero parte della propria idea di Sé. Queste idee di Sé influenzano il comportamento umano.

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Quest’ultimo, secondo Rogers [1951],sarebbe teso all’autorealizzazione (riducendo i bisogni ed esaltando piaceri e soddisfazioni), al mantenimento della coerenza del sé (evitando il conflitto interno)  e della congruenza tra sé ed esperienza (evitando stati di incongruenza). Gli stati di incongruenza emergono nel momento in cui si realizza una frattura tra il sé percepito e un esperienza reale, e le conseguenze sono confusione e potenziale angoscia (se questa frattura rimane a livello inconscio). Se un’esperienza è potenzialmente minacciosa e in grado di creare una frattura di questo tipo possiamo proteggerci attivando meccanismi di difesa. Da queste esperienze nasce la patologia. Il Sé nevrotico si è strutturato in modo non congruente all’esperienza dell’organismo, e costringe quest’ultimo a negare la consapevolezza delle esperienze sensoriali ed emotive che generano il contrasto. Ciò avviene attraverso meccanismi di distorsione e negazione.

Il Colloquio Psicologico - Introduzione. - Immagine: © emiliau - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Il Colloquio Psicologico – Introduzione

Questo è il paziente affrontato da Rogers nei suoi colloqui psicologici. Per l’autore [Rogers e Kinget, 1965]non esiste differenza tra il primo colloquio e i successivi poiché non si percorre una via centrata sull’evoluzione dei contenuti, ma sul mantenimento della corretta forma del colloquio. Il terapeuta non entra nel merito dei contenuti, lasciandoli nelle mani della conduzione del cliente, ma si concentra sulla realizzazione dei requisiti formali, fondamentali per il buon esito del colloquio stesso.

Questo buon esito si realizza quando, grazie alla semplice azione di supporto del terapeuta, l’io del cliente viene rafforzato a tal punto da permettergli di uscire dai rigidi schemi stereotipati in cui era rinchiuso. Ciò gli permette di osservare le proprie esperienze da nuovi punti di vista che le rendono accettabili e non più fonte di angoscia. I tre requisiti necessari perché il colloquio possa svolgere questa funzione sono [Pervin e John, 1997]:

1)  Congruenza e genuinità: il terapeuta genuino è sé stesso. Egli è onesto e si presenta al cliente com’è, senza maschera alcuna. è in grado di creare un rapporto di fiducia con il cliente fondato sulla reciproca sincerità. Il terapeuta è libero di costruire un rapporto uguale a quello tra persona e persona, può condividere i sentimenti positivi, ma anche negativi, con il cliente.

2)  Considerazione positiva incondizionata: si realizza nel momento in cui il terapeuta riesce a trasmettere un grande senso di accettazione al cliente, un accettazione totale e incondizionata che implica l’assenza di qualsiasi forma di giudizio verso valori anche deprecabili. Questa considerazione si fonda sulla necessità di non dimenticare il valore universale della persona in quanto tale, che rimane costante indipendentemente dai suoi pensieri, dalle sue emozioni e dai suoi comportamenti. Questa condizione permette la creazione di un atmosfera di calore e comprensione all’interno della quale viene favorita l’esplorazione del proprio Sé da parte del cliente.

3)  Comprensione Empatica: essere empatici equivale a percepire le esperienze e il loro significato per il cliente, mettersi nei suoi panni pur rimanendo sé stessi, accettando la sua sensibilità e la sua logica. Attraverso questa capacità il terapeuta è in grado di comprendere i problemi della persona che gli sta di fronte e di entrare in contatto con le sue emozioni, con il suo modo di vedere le cose e con il suo modo di interpretare la realtà [Galeazzi e Franceschina, 2001].

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  Questi sono i requisiti di base di quella che Rogers definisce come terapia centrata-sul-cliente le cui caratteristiche principali [Rogers 1942, 1977] sono: a) la profonda fiducia nelle capacità del cliente e nel percorso di crescita, realizzazione e congruenza; b) l’accento sull’importanza del rapporto terapeutico in cui il terapeuta deve cercare di comprendere il cliente e di trasmettere questa volontà di comprensione e, infine, c) la prevedibilità del processo terapeutico.

Tutto ciò si realizza in un colloquio psicologico non-direttivo in cui il terapeuta si preoccupa di agire come uno specchio (attraverso parafrasi, eco, giustificazioni e riflessioni) sia per mostrare la propria empatia e il proprio impegno a comprendere il cliente, sia per permettere a quest’ultimo di guardare sé stesso dall’esterno e, cioè, guardare sé stesso attraverso il terapeuta-specchio. In questo modo può scoprire nuovi punti di vista e nuove prospettive da cui poter valutare le proprie difficoltà. Aiutare l’altro a scoprirsi rappresenta un’esperienza unica e, anche per questo, ogni colloquio ha, secondo Rogers, la medesima importanza del primo [Fine e Glasser, 1996].

Carkhuff ha in comune con Rogers l’idea che il raggiungere qualcosa nel colloquio sia in realtà un far emergere qualcosa [Anchisi, 1999, in Fine e Glasser, 1996]. È il soggetto, attraverso il colloquio, a comprendere e a definire i propri obiettivi.

La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Tuttavia esistono molte differenze tra questi due approcci. Anziché essere centrato-sul-cliente il focus principale del colloquio di Carkhuff è il problema [Carkhuff, 1987]. Ciò ha comportato il distacco da alcune delle tematiche, care all’eredità psicoanalitica di Rogers, quali, ad esempio, l’analisi del passato e del suo rapporto con il disturbo del cliente. L’obiettivo di questa impostazione di base è quello di costruire un colloquio che sia funzionale ed economico, efficace ed efficiente. Questo colloquio deve fare scomparire il problema piuttosto che mostrare accettazione incondizionata o comprensione empatica. Quelli che importano sono, prima di tutto, i contenuti rispetto alla forma.

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Per poter realizzare ciò Carkhuff sottolinea l’importanza di un percorso metodologico ben definito da seguire che possa ottimizzare la terapia e ottenere il maggior numero di risultati nel minor numero di sedute possibili. Questo percorso metodologico è definito da protocolli, insieme di regole che sanciscono il modo in cui il colloquio deve essere strutturato per ottenere risultati con rapidità. Questi protocolli, che guidano il comportamento del counselor e la strutturazione della sessione di colloquio, possono essere di diversi tipi, in relazione al problema che ci si trova a dover affrontare.

Adottare questi protocolli vuol dire anche riconoscere un ruolo diverso al primo colloquio rispetto a quelli successivi in quanto le diverse sessioni hanno diverse funzioni all’interno del percorso metodologico.

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 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La Psicantria: introduzione di Francesco Guccini

di Francesco Guccini

La Psicantria: introduzione di Francesco Guccini
Francesco Guccini insieme agli “psicantrici” Gaspare Palmieri & Cristian Grassilli

La Psicantria? Ma che razza di titolo ha questo CD? E chi sono, questi due? Introduzione di Francesco Guccini al Manuale della Psicantria.

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Sono appena salito in macchina e, come al solito, la mia compagna
ha subito acceso l’autoradio. È lei che guida, io non ho la patente, e questo le conferisce l’autorità di scegliersi che cosa ascoltare. A volte i gusti coincidono, poche volte in verità. Dicevo, non ho fatto in tempo ad accomodarmi sul sedile e ad allacciare la cintura di sicurezza che lei ha già selezionato – e imposto – un CD: “Francesco, per favore, abbi pazienza e dammi retta! Sono forti, vedrai!”.

Al giorno d’oggi è quasi un’impresa ascoltare un disco senza essersi procurati alcune informazioni preliminari, quindi senza pregiudizi: bastano un PC o l’“iPhone”, ci si collega a Internet, si digita “Google” o “MySpace”, e qualunque cantante o cantautore non ha più segreti.

Invece un primo impatto senza bisogno di curriculum conta, eccome. Perché sono il timbro della voce, la specifica varietà della musica e la capacità emozionale delle parole che devono restare impresse, che devono colpire.

E questo disco impressiona.

Psicantria - Copertina disco -
La Psicantria: Manuale di Psicopatologia Cantata. Introduzione di Francesco Guccini.

La prima canzone si intitola “La Psicantria”, ed è un vero e proprio manifesto: essa spiega (cantando!) la differenza che passa fra uno psichiatra, uno psicologo e uno psicoterapeuta. Due voci maschili si alternano – una più bassa e corposa, verrebbe da dire più adulta, l’altra sorprendentemente limpida, perfettamente a suo agio con gli acuti – a un coro di voci bianche. Le altre canzoni mentre si susseguono l’una dopo l’altra, raccontano storie che non ti aspetti, esperienze e ricordi di anoressia, di depressione, di ansia e attacchi di panico, di ipocondria. I personaggi, che spesso narrano di sé in prima persona, non solo sanno esordire e presentarsi con la sicurezza e la padronanza di attori consumati ma possiedono una presenza scenica raramente riscontrabile perfino nei testi di chi, come i cantautori, scrive abitualmente per mestiere.

Ecco allora lo schizofrenico, l’individuo affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, la personalità bipolare, quella borderline: pazienti nel significato etimologico del termine, persone che sentono nel profondo, che subiscono il peso dell’esistenza, che sono troppo sensibili. Non si pensi, però, ad una carrellata da Circo Barnum, a uno show di casi umani: gli autori, Palmieri e Grassilli, se da un lato si schermano abilmente dietro la figura retorica dell’ironia, dall’altro mostrano una professionalità competente, da veri esperti dell’argomento, e queste imprevedibili canzoni sono lo spiazzante e provocatorio risultato di uno studio molto serio e autenticamente appassionato. D’accordo, quella trattata è materia delicatissima, ma non aspettatevi bozzetti, stramberie, favolette dai contenuti morbosi. Ogni ascolto lascia un’impressione netta, indelebile, e la consapevolezza di incontri memorabili con uomini e donne che, pur con tutte le loro debolezze, le loro mancanze, le loro sofferenze, ci fanno affezionare; di più, ci fanno cantare a squarciagola, con entusiasmo e coinvolgimento, la loro Storia, le loro insindacabili vicende.

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Se ciò accade è perché si percepisce, in chi scrive e compone, oltre a una indiscutibile preparazione intellettuale, un altro ingrediente: l’abitudine alla cura, al rispetto, alla volontà di fare bene. Questi due giovani autori sono riusciti nell’impresa – tanto più importante e preziosa di questi tempi – di cantare la fiducia nelle qualità spirituali dell’uomo, e la speranza nelle potenzialità espressive e nelle risorse morali degli esseri umani. La felicità dell’anima e la “guarigione”, sono a portata di mano, se si ha vicino la guida giusta: basta solo un piccolo sforzo, basta imparare a prendersi cura di sé.

Adesso possiamo rivelarlo: Gaspare Palmieri è psichiatra, e Cristian Grassilli psicoterapeuta. Lavori misteriosi. Professioni che, come la mia, mettono addosso un bel po’ di ansia da prestazione, di responsabilità. Riflettendo sulle parole di certe canzoni tornano alla memoria gli esempi e gli insegnamenti degli Italiani migliori, di Maria Montessori e di Franco Basaglia. Alcune frasi possiedono la forza stilistica degli epigrammi e il tono autorevole delle sentenze e c’è una poetica ben riconoscibile dentro a questi brani in musica, quella che sa rintracciare nel dolore un’ipnotica, peculiare bellezza, meno convenzionale ma altrettanto seducente. Chi non ha in mente l’estetica, che è prima di tutto un’etica, dei “mostri” infelicissimi portati sullo schermo da Tim Burton? La fragilità, l’instabilità emotiva, ogni condizione di autoemarginazione o disadattamento, diventano occasione e pretesto per valori alternativi, segnati da un alto tasso di originalità e anticonformismo.

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Ma la vera intuizione, da parte di Palmieri e di Grassilli, è che la musica, meglio, la canzone, sia un mezzo fantastico, a poco prezzo, per creare empatia, per suscitare partecipazione: sono pronto a scommettere che queste canzoni, orecchiabili, a volte persino ballabili, riuscirebbero a muovere emozioni anche in chi non fosse particolarmente interessato a indagare la condizione esistenziale propria e altrui e che “Mio fratello” e “Abbi cura di te” non sfigurerebbero in nessuna hit parade.

La malattia mentale è ancora oggi, purtroppo, un tabù, e alcune patologie sanno suscitare nient’altro che sospetto, diffidenza, paura, anche se certi vissuti sono solo apparentemente distanti e lontani da quelli dei cosiddetti “normali”. E pensare che basterebbe sentir suonare una canzone per ritrovarsi a cantare insieme, a sdrammatizzare, a condividere.

Francesco Guccini

 

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Psicologia, Psicologi, Psicoterapeuti e Psichiatri… facciamo chiarezza

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataPsicologo: Molto spesso la figura dello psicologo non viene capita, non è chiaro che tipo di formazione abbia e che cosa faccia!

Iniziamo con il chiarire che per diventare psicologi è necessario frequentare un corso universitario riconosciuto della durata di cinque anni in seguito al quale è necessario praticare un tirocinio post lauream della durata di un anno solare, al termine del quale, secondo le sessioni previste (due all’anno, una a giugno e una a novembre) è possibile sostenere l’esame di stato.

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In seguito all’esame di stato, se con esito positivo, è possibile iscriversi all’albo degli psicologi della propria regione e di qualsiasi altra regione a scelta del professionista.

Lo psicologo può specializzarsi in ambiti differenti già durante il percorso universitario.
I macro ambiti di specializzazione sono i seguenti:
– Psicologia clinica;
– Psicologia dello sviluppo – LEGGI GLI ARTICOLI SU BAMBINI & ADOLESCENTI
– Neuro-Psicobiologia;
– Psicologia del lavoro – PER APPROFONDIRE LA PSICOLOGIA DEL LAVORO CLICCA QUI.

La psicologia clinica si occupa dello studio scientifico e applicativo delle problematiche psicologiche e relazionali dell’individuo, della famiglia e del gruppo.
La psicologia dello sviluppo si concentra maggiormente sullo studio delle differenti tappe evolutive del bambino e delle eventuali problematiche che riguardano gli aspetti di crescita.
La psicobiologia, definita come una branca delle neuroscienze, studia il comportamento umano in stretta connessione con gli aspetti biologici.
La psicologia del lavoro o psicologia delle organizzazioni si concentra sullo studio dei comportamenti degli individui all’interno dei contesti lavorativi e pone anche molta attenzione agli aspetti interpersonali all’interno del contesto lavorativo.

Esame di Stato- Professione Psicologo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Lo scopo comune dei diversi ambiti di applicazione è quello di favorire e promuovere il benessere degli individui. – LEGGI GLI ARTICOLI SULLA PSICOLOGIA POSITIVA

Lo psicoterapeuta è uno psicologo che si specializza ulteriormente in ambito clinico attraverso una scuola di formazione quadriennale pubblica o privata che permette di acquisire delle competenze specifiche, specialistiche ed approfondite sul funzionamento della psiche umana.

Anche in questo contesto gli orientamenti specialistici sono molteplici.
In linea di massima si parla di orientamento psicodinamico, sistemico, cognitivo-comportamentale.

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L’orientamento psicodinamico è un orientamento che prende la sua origine dalla psicoanalisi e che prevede un intervento piuttosto ampio finalizzato allo sviluppo personale della persona.
L’orientamento sistemico-relazionale parte dal presupposto che la persona è membro del sistema-famiglia, l’obiettivo quindi diventa quello di migliorare la modalità di comunicazione e le interazioni tra i diversi membri della famiglia.
L’orientamento cognitivo comportamentale si concentra sui processi mentali (pensiero e ragionamento ad esempio) e sulle azioni, ovvero i comportamenti manifesti, condotti da parte dei soggetti.

Lo scopo in generale di qualsiasi psicoterapia, a prescindere dall’orientamento, è quello di aiutare la persona che si trova in un momento di difficoltà, difficoltà che possono essere tra le più disparate.

  Un chiarimento a parte per la figura dello psichiatra; questa figura professionale svolge compiti differenti rispetto allo psicologo o psicoterapeuta. Lo psichiatra infatti è un professionista medico con una specializzazione post lauream in psichiatria. Lo psichiatra si occupa della cura dei disturbi mentali tenendo in considerazioni molteplici aspetti che vanno da quello farmacologico a quello giuridico. Da specificare che lo psicologo a differenza dello psichiatra non può prescrivere farmaci.

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Diventa per questo motivo importante la collaborazione tra le due figure professionali, psicologo o psicoterapeuta e psichiatra, le quali assieme riescono a garantire un servizio completo e efficace per la persona in difficoltà.

Un appunto, infine, per la figura professionale del counselor; questo non necessariamente è laureato in psicologia ma può appartenere ad altri ambiti di formazione; si occupa in maniera circoscritta di orientare la persona e di aiutarla a sviluppare strategie specifiche per la risoluzione del problema posto. Per diventare couselor è necessario frequentare un corso di formazione triennale post lauream. Ad oggi, non esiste un albo di appartenenza per soli couselor.

In generale possiamo concludere dicendo che è estremamente importante rivolgersi a professionisti seri e preparati con le necessarie qualifiche professionali! Tra i metodi più utili ed immediati per la verifica del possedimento dei titoli necessari è possibile consultare i rispettivi albi professionali on line.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Virginia Woolf e la Ruminazione Depressiva: L’abito Nuovo (1924)

 

Cari amici e lettori di State of Mind, 

Il giornale interrompe le pubblicazioni per qualche giorno e spero che abbiate modo di riposarvi, leggere, pensare e essere allegri insieme alle vostre famiglie. 

Con l’occasione vi segnaliamo un bellissimo racconto breve di Virginia Woolf  che illustra molto bene il problema della Anger Rumination e della Ruminazione Depressiva. 
 
Che difficoltà  e che dolore esistenziale generano questi processi di pensiero!
 
Vi auguro un Natale felice e un periodo di riposo e di riflessione anche per chi è di altre religioni, vi auguro anche un anno nuovo pieno di successi e soddisfazioni.
 
un saluto affettuoso a tutti,
Sandra Sassaroli 
 

L’abito Nuovo. Virginia Woolf (1924)

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BIBLIOGRAFIA: 

Brian Wilson e un Pericoloso Controtransfert Surf-Rock

 

God only knows what I’d be without you…

God only knows, Beach Boys, 1968

Brian Wilson e un Pericoloso Controtransfert Surf-Rock

Con Brian Wilson, in realtà, la tecnica utilizzata da Landy fu decisamente poco ortodossa: una terapia costante 24 ore su 24, che abbracciava “ogni aspetto fisico, psichico, personale, sociale e sessuale” della vita del musicista, che comunque ebbe successo nel limitare l’abuso di droga da parte di Wilson e nel ristabilire la sua salute mentale e fisica con l’imposizione di diete ferree, esercizio fisico, e sedute di psicoterapia. 

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I Beach Boys sono una celebre band surf-rock statunitense, formatasi nel 1961, che ha riscosso un grande successo negli anni sessanta con canzoni orecchiabilissime e spensierate che spingono l’immaginazione verso spiagge californiane, ragazze abbronzate in bikini e auto cabriolet al tramonto. La band, piazzatasi al dodicesimo posto tra i migliori cento artisti di tutti i tempi, secondo l’autorevole rivista Rolling Stone (2004), si è riunita proprio quest’anno per un tour mondiale, visto che le reunion geriatric rock tirano di brutto negli ultimi anni.

Brian Wilson è stato bassista, pianista e per anni leader della band nel periodo dei maggiori successi, fino alla comparsa di inevitabili incomprensioni che lo portarono ad uscirne negli anni settanta.

Jimi Hendrix. - Immagine: © Louis Fermando : Sonia Maria. Licenza Creative Commons 2.0
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Affetto da un disturbo schizoaffettivo diagnosticato solo tardivamente, cresciuto in un contesto famigliare problematico, dotatissimo dal punto di vista compositivo, nonostante fosse sordo da un orecchio (pare in seguito alle botte del padre), Brian Wilson è stato l’autore dei principali successi del gruppo. 

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A metà degli anni settanta, all’apice della carriera e della notorietà attraversò un periodo di grave disagio psicologico caratterizzato da sintomatologia depressiva, dispercezioni uditive ed abuso di sostanze (in particolare cocaina).

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La moglie preoccupata decise allora di contattare il controverso psicologo Eugene Landy (1934-2006) per un consulto, che si tramutò in una lunga e intermittente presa in carico dal 1975 al 1991. Il Dr. Landy, professionista alquanto singolare, prima di laurearsi in psicologia all’Università dell’Oklaoma, era stato distributore di dischi di musica afroamericana per dj, aveva prodotto un programma radiofonico nazionale, ed era stato manager del chitarrista jazz George Benson (quello di Give me the night). Dopo la laurea lavorò in un Servizio per Doppia Diagnosi a Los Angeles, insegnò all’Università della California e si dedicò alla libera professione psicoterapeutica, seguendo un indirizzo gestaltico.

Con Brian Wilson, in realtà, la tecnica utilizzata da Landy fu decisamente poco ortodossa: una terapia costante 24 ore su 24, che abbracciava “ogni aspetto fisico, psichico, personale, sociale e sessuale” della vita del musicista, che comunque ebbe successo nel limitare l’abuso di droga da parte di Wilson e nel ristabilire la sua salute mentale e fisica con l’imposizione di diete ferree, esercizio fisico, e sedute di psicoterapia. 

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Nel trattamento erano anche comprese secchiate d’acqua fredda al mattino nel caso in cui il paziente non volesse alzarsi e chiusura a chiave del frigorifero per evitare binging di alimenti e alcolici. Il dottor Landy, che definiva la cura “Milieau therapy” (terapia ambientale) lavorava con un’ equipe di collaboratori, completamente dedicata a Wilson, che per lunghi periodi era l’unico paziente dello psicologo. C’era chiaramente anche un controllo completo sulla vita di relazione del paziente e la seconda moglie Melinda ricorda come all’inizio della frequentazione con Wilson, la coppia (entrambi intorno ai quarant’anni) era costretta a vedersi in clandestinità perché il dottor Landy osteggiava il rapporto.

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La terapia venne sospesa l’anno successivo quando lo psicologo propose  di raddoppiare la parcella a ventimila dollari al mese (alla faccia dell’etica).

Nel 1983, in occasione di una ricaduta, il dottor Landy venne nuovamente ingaggiato questa volta alla tariffa di trentacinquemila dollari al mese e per coprire il costo esorbitante, vennero ceduti allo psicologo un quarto dei diritti editoriali della band. L’invischiamento in aspetti extraterapeutici continuò ad aumentare progressivamente e cinque anni dopo il dottor Landy assunse il ruolo di manager, produttore esecutivo e coautore dei brani e dell’autobiografia di Brian Wilson, formalizzato anche dalla creazione della società Brains and Genius da parte della coppia (Carlin, 2006).

EABCT 2012 – State of Mind
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Nel 1989, i famigliari del musicista, preoccupati per l’enorme influenza del terapeuta, tentarono di dividere la coppia senza successo. Ci riuscì invece una sentenza della corte federale l’anno successivo, che identificando il reato di circonvenzione di incapace, intimò al dottor Landy di tenersi a distanza da Brian Wilson. A questo seguì la sospensione della licenza a esercitare come psicologo in California per due anni (continuò poi a lavorare trasferendosi alle Hawaii). 

L’esperienza terapeutica fu talmente intensa che Brian Wilson in un’intervista definì quel periodo come “gli anni di Landy” e dichiarò di sentirsi ”devastato” dopo la morte dello specialista avvenuta nel 2006.

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Appare evidente come in questo caso clinico il terapeuta abbia decisamente oltrepassato di gran lunga i confini del setting, probabilmente spinto dai propri bisogni narcisistici di entrare egli stesso nel firmamento del rock, e non accontentandosi del ruolo di “psicologo delle star”. 

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E’ d’obbligo a questo punto fare qualche riflessione su un concetto vecchio come il cucco, ma che dovrebbe sempre guidare chi cura in psichiatria: il controtransfert e la sua analisi. Domande come: cosa provo per questo paziente? Compassione? Tenerezza? Rabbia? Invidia? Ammirazione?

Ad esempio, nella mia pratica privata di psicoterapeuta mi è capitato di curare musicisti e altri artisti e di immedesimarmi, solidarizzare, talvolta anche esaltarmi un po’ nella condivisione della comune passione. In questi casi ho sempre cercato di tendere verso una relazione che favorisse la messa in gioco soprattutto dei sistemi cooperativi paritetici (Liotti e Monticelli, 2008), devo dire il più delle volte con buoni risultati.

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Ma a volte non è così facile, la fascinazione per certi pazienti può essere motivante a livello terapeutico da una parte, ma dall’altra può minacciare i confini della terapia. Desideri, fantasie o richieste di assistere a eventuali esibizioni, di collaborare a un progetto comune possono presentarsi nel percorso coi pazienti artisti, sia da una parte che dall’altra del setting (soprattutto quando anche il terapeuta ha velleità artistiche).

Se per un attimo ci si sforzasse inoltre di tralasciare gli aspetti etici, si potrebbe inoltre restare colpiti dal fatto che, almeno per certi periodi, il “metodo Landy” abbia avuto successo per quanto riguarda l’astensione dall’abuso di sostanze e i miglioramenti della sintomatologia depressiva, che aveva portato il musicista a un grave stato di apatia con presenza di ideazione autolesiva.

Il motivo principale per cui questa cura intensiva, poi degenerata, ha funzionato è dovuto senz’altro all’effetto protettivo. Se ci si pensa è simile a quello che succede quando una persona affetta da abuso di sostanze e problemi psichiatrici entra in una comunità terapeutica o in un reparto: sente la protezione dei muri e dell’equipe curante e questo, insieme a un’adeguata terapia farmacologica, ha un effetto quasi immediato di alleviare l’angoscia.

In questo caso, invece che essere il paziente a entrare in una struttura (da tenere a mente come spesso è davvero un’impresa convincere queste persone a curarsi, soprattutto se ricche e famose), è stata l’intera equipe a trasferirsi a casa del paziente. In Inghilterra negli Stati Uniti (Smyth e Hoult, 2000), nell’ambito del servizio pubblico, esistono da anni dei servizi di assistenza psichiatrica domiciliare, sia per abbattere i costi dei ricoveri, sia per favorire la cura di persone che hanno difficoltà a frequentare i servizi territoriali (il cosiddetto outreach). In questi tempi di spending review trovare alternative ai costosissimi ricoveri sta diventando di vitale importanza. Entrare però a casa delle persone e di conseguenza nella vita delle persone richiede in chi cura un continuo monitoraggio del proprio setting interno.

In Studio con Otto Kernberg: l'importanza centrale del Transfert - Immagine: Proprietà di State of Mind - All rigths reserved
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Lo psicanalista Gabbard (1995) nel suo interessantissimo libro Violazioni del setting, oltre a trattare approfonditamente il tema delle violazioni sessuali in psicoterapia, affronta anche le violazioni non sessuali e parla di una “china scivolosa”, come di una graduale erosione dei confini del rapporto terapeutico.

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Da quando gli stessi psicanalisti hanno riconosciuto sempre di più l’importanza della soggettività di chi cura ai fini di costruire una buona alleanza terapeutica, la figura positivista del terapeuta “schermo bianco” è sempre meno sostenibile. Nonostante le dinamiche transferali e controtrasferali agiscano spesso al di fuori della coscienza, la domanda da porci credo sia sempre quella: ma andando incontro ai bisogni dei pazienti, non è che stiamo soddisfacendo soprattutto i nostri di bisogni?

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D’altra parte il desiderio di curare e di essere curati sono due lati di una moneta estremamente sottile. 

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APPROFONDIMENTI :

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psiche & Legge #4 – Stupro Coniugale: Costringere la Moglie al Sesso

 

PSICHE & LEGGE #4

Stupro Coniugale: costringere la moglie al sesso è reato. E se il consenso al rapporto è conseguenza del clima che si respira in casa?

 

Violenza Domestica: Costringere la Moglie al Sesso. - Immagine: © xunantunich - Fotolia.comPsiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

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Scrisse John Lennon “Viviamo in un mondo in cui ci nascondiamo per fare l’amore, mentre la violenza e l’odio si diffondono alla luce del sole”. Verissimo. Ma l’altra faccia della medaglia, quella più dolorosa, ci racconta di violenze perpetrate in casa, lì dove l’occhio sociale non arriva a vedere, a denunciare.

Così, troppo spesso, aggressioni, stupri e abusi psicologici, trovano “protezione” in un malsano tepore familiare, dove all’uomo tutto è concesso. Concezione medievale? Magari. Duole ammetterlo, ma la mia esperienza di matrimonialista, e di penalista, testimonia il contrario. E non mi riferisco solo alle violenze fisiche, ma anche a quelle mentali, più subdole, ostiche da fronteggiare.

Ma cosa accade se il clima di terrore che si respira in casa, induce la donna ad accettare qualsiasi compromesso – anche lesivo della propria libertà sessuale – pur di difendere fragili equilibri sociali, o di non mettere a repentaglio la sua vita, o quella dei figli?

Accade che la poverina finirà per accettare il “gioco al massacro”, acconsentirà a rapporti sessuali non realmente desiderati.

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E lo farà in silenzio, senza nulla far percepire al partner. Troppo pericoloso dire NO! E allora, mi si permetta il termine, quella donna accetterà di essere “stuprata psicologicamente”.

Tematica delicatissima, che affronterò oggi, nel #4 della mia Rubrica mensile. Proverò, in poche righe, a spiegare il sottile confine tra il non reato (congiunzione carnale tra coniugi consenzienti) e il reato (che sussiste quando al rapporto sessuale, desiderato solo da uno dei partners, l’altro acconsente per il mero timore di subire pericolose ripercussioni).

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Lo stupro coniugale – come dai più definito – è, purtroppo, un delitto “dai grandi numeri”. Altissime sono le percentuali delle violenze commesse proprio dall’uomo che si ha accanto. Del resto, non si può sottacere come in talune realtà, viga ancora la primitiva ottica per cui “il maschio”, con il matrimonio, acquista il debitum coniugale, ovvero il diritto alla fisica congiunzione con la moglie, ormai di sua “proprietà”. Diritto che, nei tempi passati, prendeva le forme di una sorta di esimente, di una causa di giustificazione (tacitamente recepita dai giudici), in virtù della quale, lo stupro era lecito – o comunque punito in maniera più leggera – proprio perché commesso nei confronti della coniuge.

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Una specie di immunità, dunque, sulla falsariga dell’americana marital rape exemption – impunità allo stupro coniugale – prima vigente, ad esempio, nell’Illinois, nel South Dakota, o nel Vermont (assetto poi radicalmente mutato, grazie all’introduzione di uno specifico delitto, lo spousal rape, inserito appositamente per sanzionare la violenza sessuale tra persone sposate). In Italia, fu negli anni settanta che la Cassazione, nel motivare una sentenza di condanna per stupro, inferta ad un uomo, rilevò come la concessione del corpo (deditio corporis) prestata con il matrimonio, non potesse in alcun modo giustificare l’imposizione unilaterale dei congiungimenti carnali. Non solo. La giurisprudenza più vicina agli anni ottanta, precisò che l’esercizio del diritto di intrattenere rapporti fisici con il coniuge, inevitabilmente legato al matrimonio, non comprende il potere di imporre il rapporto al coniuge dissenziente, usando violenza fisica o morale.

Il profondo mutamento del sentire sociale, indusse infine il legislatore ad adeguare l’allora vigente Codice Penale alle nuove esigenze. Ed ecco che, con Legge di riforma n. 66/96, i reati a stampo sessuale – prima inseriti nell’ambito dei delitti contro la “morale pubblica e il buon costume” – vennero collocati tra i reati commessi contro la “libertà personale”, reale bene violato.

Oggi, dunque, la posizione della legge è chiarissima: lo stupro è reato a tutti gli effetti, a nulla rilevando che sia stata perpetrato nei confronti di estranei o del partner.

  A puntualizzarlo, è ancora una volta la Cassazione che – sull’impronta della legge – è intervenuta a marcare, in una nota occasione, come nel nostro sistema non sia consentito distinguere fra la violenza sessuale commessa su vittime sconosciute, e quella consumata all’interno di un rapporto matrimoniale. Rapporto, che mai e poi mai potrebbe autorizzare l’uso irrispettoso, “proprietario” e violento del corpo altrui, o il ricorso a comportamenti finalizzati a limitare la libertà sessuale della partner, umiliandone la dignità.

Sul punto, i giudici di legittimità, si espressero in maniera cristallina: in ambito familiare non esiste “un diritto all’amplesso, né il potere di esigere o d’imporre una prestazione sessuale non condivisa”.

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E neppure l’ingiustificato e persistente rifiuto di congiungersi col coniuge – seppur ricompreso tra gli obblighi di fedeltà e di assistenza morale e materiale derivanti dal matrimonio – potrebbe mai legittimare il ricorso alla forza, come mezzo per ottenere l’adempimento negato. In altre parole, ciò che la Cassazione volle marcare, è che, quando si tratta di accertare se vi sia stata o meno coartazione dell’altrui libertà di scelta, non vanno adottati – nei rapporti sessuali tra coniugi – criteri di giudizio diversi da quelli applicabili nei rapporti tra estranei.

Non esiste, sostenne la Corte, una “quantità di violenza sessuale tollerabile tra coniugi” (Cass. n. 14789/04). Libertà sessuale, dunque, come bene protetto dalla norma, e come diritto di dissentire a non desiderati “utilizzi” del corpo. Ad ogni modo, con riferimento alla tematica trattata, occorre anche notare come il contesto ambientale, o le particolari caratteristiche della donna stuprata, possano a prima vista far apparire desiderato (perciò lecito), un comportamento in realtà indotto.

Il caso del “Bambino di Padova”, etica giornalistica e risvolti legali #2
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I casi sono una miriade, e meritano ognuno un vaglio specifico. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui la vittima abbia preferito “dire di si”, piuttosto che correre peggiori rischi. E allora, per accertare se si sia di fronte ad una violenza sessuale (prevista e sanzionata dal Codice Penale) oppure ad un semplice rapporto carnale fra coniugi (magari non pienamente desiderato, ma comunque liberamente accettato dal partner), ci si dovrà chiedere: il consenso al congiungimento fisico, è stato davvero volontario, o frutto di sottomissione psicologica? Ricordiamo, infatti, che nel Codice Penale, lo stupro “per costrizione” fisica è equiparato ad ogni effetto a quello commesso “mediante minaccia”. In tale ottica, pretendere del sesso dal coniuge, prospettandogli un male ingiusto – rivolto alla stessa vittima o a terzi – configurerà inevitabilmente una comune violenza sessuale.

D’altronde, se autore del reato può essere “chiunque”, è evidente che anche il coniuge potrà macchiarsi del delitto, ove costringa la moglie ad atti carnali non voluti. Maggiore, però, sarà l’impatto negativo che l’orribile gesto avrà sulla psiche della vittima. Basti pensare che, nella gran parte dei casi, a muovere la violenza, non sarà nulla di più che l’istinto di soddisfazione sessuale ancorato a retaggi culturali nei quali l’uomo vestiva il ruolo di padrone della coniuge, considerata come un “soggetto debole”, alla stregua di un minore, o di un disagiato psichico.

  Le mura domestiche, quindi, come ambiente dove il maschio tutto poteva fare e disfare. Questioni “casalinghe”, che non dovevano, né potevano esser raccontate o, peggio, denunciate. Ma ancor oggi, a ben vedere, lo stupro coniugale rientra a pieno titolo nell’alveo della criminalità sommersa, di quella criminalità non “raccontata”, nascosta tra le pieghe della famiglia, quale “fatto” da celare, piuttosto che quale delitto da denunziare. Lo confermano i dati Istat, secondo i quali il 93% delle donne che ammettono di essere state violentate dal coniuge non ha mai sporto denunzia. Snodo centrale, dunque, è il consenso “estorto”, viziato, della vittima. Così, se sarà punito per violenza sessuale, il coniuge che abbia “portato a termine” un rapporto carnale, nonostante l’opporsi della moglie, il reato scatterà anche nell’ipotesi in cui la stessa non si sia ribellata ai congiungimenti sessuali – mai riferiti a parenti o amici – poiché versante in uno stato di totale soggezione nei confronti del marito, ed indotta a soccombergli per allontanare il rischio di subire ulteriori violenze. Viene da se che, l’apparente consenso offerto all’atto sessuale, non potrà giammai valere a giustificare la pretesa del partner, laddove le precedenti minacce e violenze possano ritenersi palesi segnali di un rifiuto ai rapporti.

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In tali circostanze, è evidente che il consenso all’amplesso andrà letto, né più né meno, che come diretta conseguenza del clima di terrore familiare. Mi piace ricordare un noto caso giudiziario – affrontato dalla Cassazione nel 2008 – che vide protagonista una donna, la quale, resasi conto che il sottrarsi al “dovere coniugale” provocava le furie del marito, più volte autore di gesti di rabbia e di aggressività, manifestati in presenza dei figli, gli si concedeva senza nulla opporre.

Esemplificative, sono le parole riferite dalla vittima ai giudici: “si litigava sempre per questo problema… c’erano queste liti, quindi i ragazzi erano lì presenti e, per non creargli questa confusione, acconsentivo perché c’erano i ragazzi”. Lo si legge negli atti processuali. Verbali che spiegano a chiare lettere la condizione di estrema soggiogazione psicologica, nella quale versava, ormai da tempo, la poverina. Peraltro, lo stesso imputato dichiarò che la moglie – soprattutto nell’ultimo periodo di convivenza – non era disponibile ad avere rapporti sessuali, mostrandosi distaccata, e che, solo per il quieto vivere, aderiva, talvolta, alla sua richiesta di contatti intimi. Situazione decisamente difficile, quella descritta, in cui molte (troppe) donne si trovano a dover convivere, con evidenti ripercussioni sulla loro stabilità emotiva.

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Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale. - Immagine: © jedi-master - Fotolia.com
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Ma c’è di più. Per qualsiasi donna, uno stupro subito dall’uomo che si ama, che le dorme accanto, e che ha condiviso o condivide con lei un percorso di vita, non farà che aggravarne lo stato di profondo malessere, conseguente alla violenza. In tali orribili circostanze, infatti, lo stupro non provocherà solo una lesione della sfera sessuale, ma sarà indice di uno stato di malsana e continuata soggezione, che la vittima di sovente si vede costretta ad “accettare” per via della dipendenza economica dal “mostro”, o per difendere l’irreale immagine sociale della “famiglia felice”. Di qui, l’esponenziale aumento di gravissime patologie psicologiche, quali l’ASD (Acute Stress Disorder, Sindrome Acuta da Stress), il cui sintomo principe è proprio la chiusura e l’isolamento del soggetto verso l’esterno. Chiusura che, di certo, non agevolerà la donna stuprata, nel prendere la decisione di varcare la porta di casa, e denunciare l’“amato”, che così, continuerà ad abusare della sua “proprietà”, come un secolo fa, come se nulla fosse mutato rispetto ad un passato… ancora troppo presente. Uscire dal tunnel del “terrore d’amore”, è senz’altro difficile, è vero. Ma un rimedio c’è. Al primo segnale di aggressività, rallentiamo i giri del cuore, mettiamo una freccia alla nostra esistenza quotidiana, e fermiamoci nella corsia di emergenza. Li, prenderemo del tempo per osservarci, e trovare la forza di scegliere quella via alternativa che ci salverà la vita: la denuncia! E poi, un giorno, chissà, quella favola interrotta potrebbe esserci narrata da chi saprà davvero amarci. E se così non fosse, potremmo comunque ritenerci amate, almeno da noi stesse.

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BIBLIOGRAFIA:

Dietro alle Teorie del Complotto, Cosa si Nasconde?

Dietro alle Teorie del Complotto, Cosa si Nasconde?. - Immagine: © Costanza Prinetti - 2012. Teorie del Complotto: un’associazione tra la credenza nelle Teorie del Complotto e la disposizione dell’individuo stesso a complottare.

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E se l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre fosse in realtà stato orchestrato dallo stesso governo americano? Cosa c’è di vero dietro alla morte della principessa Diana? Siamo davvero sbarcati sulla Luna o è stato tutto progettato sullo scenario di set cinematografico? Cosa si nasconde dietro alle scie chimiche tracciate nel cielo dagli aerei di linea? Siamo sicuri che la cura per il cancro non sia già stata trovata?

Con il verificarsi di eventi socialmente significativi, spesso nell’opinione pubblica possono svilupparsi credenze in scenari alternativi che vanno sotto il nome di Teorie del Complotto (o Teorie della Cospirazione).

Le Teorie del Complotto sono definite come i tentativi da parte dell’opinione pubblica di spiegare la causa di un evento significativo come frutto di una macchinazione da parte di un’alleanza segreta costituita da individui potenti ed al di sopra delle masse (McCauley & Jacques, 1979).

È importante sottolineare però che non tutte le cospirazioni sono teorie folli a priori. Alcune teorie sono state infatti in ultima analisi verificate, come la cospirazione del Watergate (1970). Tuttavia, le più comuni teorie della cospirazione ad oggi diffuse, non sono state ancora provate. È per questo che spiegare la formazione di tali credenze rappresenta un fenomeno di rilevante interesse scientifico. La ricerca ha già infatti mostrato che la popolarità delle teorie del complotto è aumentata negli ultimi anni, probabilmente proprio per effetto della facilità con cui queste teorie si sono diffuse attraverso internet e l’esponenziale sviluppo dei mezzi di comunicazione (Coady, 2006).

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Comunque, qualunque cosa gli psicologi possano pensare personalmente circa le teorie del complotto, ci sono buone ragioni per studiarne il fenomeno. Infatti, le teorie del complotto sono in grado di influenzare le masse senza la loro consapevolezza, e questo può già dirsi molto rilevante. Ad esempio, dopo l’espansione delle teorie del complotto sulla morte della principessa Diana, l’opinione pubblica britannica si dimostrava più incline ad approvare quelle teorie, nonostante razionalmente le persone pensassero che le loro credenze in merito alla casualità dell’evento non fossero cambiate (Douglas & Sutton, 2008).

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In un recente studio (Douglas & Sutton, 2011) viene proposta una spiegazione al quanto convincente, secondo cui, per effetto di un meccanismo socio-psicologico, l’approvazione delle teorie del complotto dipenda dalla disposizione alla cospirazione da parte dello stesso individuo.

Come diventai paranoico: questo è un complotto (in teoria)!
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La logica di questa spiegazione può essere esposta seguendo determinate premesse, che ora esponiamo. L’opinione pubblica ricercherebbe in automatico delle spiegazioni socialmente coerenti per eventi ad alto impatto emotivo, come per la morte di celebrità o per l’accadimento di grandi catastrofi internazionali (Leman & Cinnirella, 2007). Per tali eventi, però, le persone in genere non hanno accesso diretto ai fatti che le possano aiutare a distinguere le spiegazioni corrette da quelle non corrette. Al contrario, l’individuo è tenuto a fare affidamento ad una matrice di informazioni spesso contrastanti, provenienti dalle più variegate fonti di informazione (Wallace, 2001). Uno strumento socio-cognitivo che può aiutare le persone in queste situazioni è la cosiddetta “proiezione” (Ames, 2004).

La proiezione è definita come il processo attraverso il quale i pensieri, i sentimenti, le motivazioni, o le tendenze all’azione dell’individuo sono attribuite ad altri individui. Il primo teorico a parlare di questo particolare “meccanismo di difesa” fu il ben noto Sigmund Freud (1896), padre della psicanalisi, teorizzando il fatto che l’essere umano utilizzi questo stratagemma, senza averne consapevolezza, per liberare la propria mente da desideri e motivazioni socialmente indesiderate, proiettandole appunto su qualcuno di esterno al Sé. Al contrario, i modelli teorici contemporanei tendono a vedere la proiezione come un mezzo inconsapevole ed automatico per dare un senso al contesto sociale e coerenza ad informazioni esterne poco attendibili o comunque ambigue (Ames, 2004).

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Il punto teorico cruciale proposto da Douglas e Sutton (2011) è che di fronte alla valutazione delle teorie del complotto, le persone possono utilizzare la proiezione come strumento per capire ciò che gli altri potrebbero avere fatto. Così, per esempio, potrebbero essere meno propensi a respingere l’ipotesi che l’AIDS sia stato creato dagli stessi scienziati del governo, se ritengono che personalmente, trovandosi nella posizione degli stessi ipotetici scienziati, sarebbero stati disposti a crearlo. In questo modo, chi affermerebbe “sì, probabilmente nella loro posizione lo farei”, è soggetto alla relativa affermazione “sì, sicuramente l’hanno fatto”.

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I risultati di questo studio segnano un significativo passo avanti per le ricerche precedenti, che solitamente hanno spiegato la presenza nell’individuo di credenze a favore dell’esistenza di cospirazioni governative segrete come semplice e diretta conseguenza di un deficit individuale, come la sfiducia cronica nei riguardi del prossimo (Goertzel, 1994), o la presenza di conclamati disturbi psichiatrici, come la Paranoia (Knight, 2002).

Ma pensateci bene: e se questo articolo fosse stato redatto per ingannarvi?

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BIBLIOGRAFIA:

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