expand_lessAPRI WIDGET

Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale

Che cos’è la Terapia Metacognitiva-Interpersonale e come funziona? Abbiamo cercato di scoprirlo grazie all’aiuto del prof. Giancarlo Dimaggio

Di Ursula Catenazzi, Sara Della Morte

Pubblicato il 08 Mag. 2012

Aggiornato il 15 Mag. 2012 19:12

 

Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – Parte 1:

La Terapia Metacognitiva-Interpersonale

 

Che cos’è la Terapia Metacognitiva-Interpersonale e come funziona? Abbiamo cercato di scoprirlo grazie all’aiuto del prof. Giancarlo Dimaggio.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-InterpersonaleGli strumenti nella cassetta degli attrezzi dello psicoterapeuta non sono mai abbastanza, soprattutto quando il paziente è affetto da un disturbo di personalità. Un interessante prospettiva viene proposta dalla Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI), modello che è stato sviluppato in seguito all’osservazione di pazienti che non erano in grado di riflettere sui propri stati mentali e che quindi, avendo difficoltà ad identificare pensieri ed emozioni suscitati da un evento, traevano un minore beneficio dalle tecniche cognitive standard, come l’ABC (Bassanini 2012, Ruggiero 2012). La TMI nasce soprattutto per il trattamento dei pazienti con disturbi di personalità e insieme al prof. Dimaggio abbiamo cercato di comprendere meglio questo interessante approccio terapeutico.

 

(State of Mind) Buongiorno prof. Dimaggio. Potrebbe descrivere e riassumere brevemente per i lettori di State of Mind la terapia Metacognitiva- Interpersonale (TMI)?

(Dimaggio) L’approccio della terapia Metacognitiva-Interpersonale è sviluppato principalmente per il trattamento dei disturbi di personalità, ma include una struttura che permette di trattare i disturbi di Asse I correlati, depressione, ansia nelle varie forme, disturbi ossessivi, disturbi alimentari.

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

Le caratteristiche fondamentali di questo approccio sono due: metacognitiva e interpersonale. La prima tiene presente costantemente come focus del trattamento, ma anche come variabile di difficoltà del funzionamento da tenere in considerazione per adattare il trattamento al singolo paziente, le abilità di ragionare in termini di stati mentali, che è la metacognizione per come l’abbiamo intesa storicamente nel corso degli anni con gli ex colleghi del terzo centro, dove per metacognizione intendiamo: la capacità di identificare gli stati interni, di ragionare su di essi, di costruire catene di nessi psicologici causali, quale azione dell’altro ha causato una nostra emozione, reazione e cosa noi abbiamo causato nell’altro; la capacità di prendere distanza critica dai contenuti mentali e trattarli come tali, invece che come dati di fatto, e formarsi una teoria della mente dell’altro ricca, articolata e complessa; utilizzare gli stati mentali come contenuto di strategie di planning, di pianificazione, di risoluzione di problemi sociali e legati alla sofferenza soggettiva. Questo è quello che noi intendiamo con metacognizione, concetto che ha un ampio grado di sovrapposizione con quello di mentalizzazione di Fonagy, Bateman e colleghi.

La differenza principale per quello che intendiamo con metacognizione comprende una varietà di processi dai più puntiformi, per esempio l’identificazione emotiva, a quelli più ampi, che sono la capacità di integrare i diversi stati interni in diverse aree funzionali. La metacognizione non è mai stata focalizzata esclusivamente su quello che avviene nell’attaccamento, che erano formulazioni fino a poco tempo fa di Fonagy e Beckam, che ultimamente però sembra stiano allargando il campo di applicazione del concetto.

L’idea nucleare da questo punto di vista è che qualunque forma di trattamento psicologico, in particolare per i disturbi di personalità, nasce da una formulazione del caso che implica che il paziente abbia avuto accesso ai contenuti mentali, sia in grado di ragionare sugli affetti, di rendersi conto di quali sono, di distinguerli l’uno dall’altro, di capire cosa li evoca e di capire quali sono le proprie rappresentazioni prototipiche, di prenderne distanza critica e piano piano ragionare sugli stati interni al fine di modificarli; ragionare sui comportamenti al fine di trovare nuove soluzioni, capire il gioco che avviene tra due menti durante le relazioni e utilizzare questa comprensione per adattarsi e trovare nuove soluzioni ai problemi relazionali, conflitti, realizzazione di desideri condivisi, ecc.

L’idea è che molti pazienti abbiano difficoltà a formarsi questa comprensione metacognitiva degli stati interni e degli stati degli altri, per cui il trattamento o deve promuoverla oppure deve tenere conto che l’obiettivo della terapia, come diceva Semerari, è quello di aiutare il paziente a formarsi questo prerequisito, ovvero acquisire una conoscenza mentalistica degli stati interni propri e degli altri, che poi viene utilizzata come strumento di cambiamento. La terapia quindi da un lato ha come obiettivo quello di migliorare la meta cognizione, la terapia metacognitiva-interpersonale, dall’altro lato ha l’obiettivo di considerare quanto il paziente è capace metacognitivamente, in maniera da evitare interventi che siano troppo complessi e che il paziente non può capire perché si presume una conoscenza degli stati mentali che il paziente non ha, e per stati mentali intendo i fenomeni psicologici, pensieri, emozioni, catene causali, ecc. Questo per esempio è condiviso da alcuni altri approcci, ci sono alcune correnti di lavoro che più o meno ragionano nella stessa maniera; per esempio Fonagy e Beckman considerano che bisogna lavorare in maniera approssimale alle capacità di mentalizzazione del paziente, cioè chiedere troppo al paziente può essere contro produttivo, il paziente non risponde perché gli si chiede di padroneggiare un materiale che non capisce.

Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

Recentemente nella tradizione di Bill Stiles e dei colleghi di orientamento narrativo portoghesi Miguel Gonçalves, si è sviluppato il concetto di zona terapeutica di sviluppo prossimale, dove gli interventi del terapeuta devono essere all’interno della zona di sviluppo prossimale, ovvero fornire un intervento al paziente immediatamente superiore alle capacità di comprensione mentalistica che il paziente possiede spontaneamente. Interventi che sono al di sotto della zona di sviluppo prossimale è probabile che non generino cambiamento, interventi che sono troppo al di sopra, per esempio chiedere al paziente di capire uno schema interpersonale, quando invece ancora fa fatica a comprendere le proprie emozioni è molto probabile che sia un intervento che viene rifiutato, viene non capito, genera deterioramento o semplicemente mancanza di progresso. Quello che facciamo è commisurabile con almeno questi altri approcci.

 

(State of Mind ) L’intervento TMI si articola quindi in tre grandi fasi: la prima è quella della strutturazione della complessità del caso, la seconda in cui con il paziente costruiamo uno stesso linguaggio “insegnandogli” la metacognizione e la terza infine, è quella che potremmo definire più terapeutica.

(Dimaggio) Cerchiamo di costruire col paziente una comprensione condivisa di cosa sono gli stati mentali, non necessariamente spiegando cos’è la metacognizione, ma spiegando che il comportamento è retto da stati mentali e facendo un lavoro che è soprattutto di sintonia relazionale, volto ad aiutare il paziente a capirli, a capirne l’importanza. C’è anche una componente a tratti psicoeducazionale, cioè se il paziente ha veramente una sorta di analfabetismo emotivo gli spieghiamo che cosa sono gli affetti, il loro valore evoluzionistico, da dove nascono, cosa generano e capire che è importante identificarli e discriminarli. Quindi c’è anche questa componente di nuovo apprendimento, si spiega al paziente che è parte del proprio funzionamento mentale e successivamente si cerca di promuoverlo.

Tutta la prima parte del trattamento, costruzione della scena, è finalizzata alla costruzione di una mappa condivisa tra paziente e terapeuta del funzionamento mentalistico del paziente, cioè paziente e terapeuta cercano insieme di capire cosa avviene nella mente del paziente, cosa va storto all’interno delle relazioni interpersonali significative e l’obiettivo è quello di acquisire una comprensione più dettagliata possibile nel corso del tempo. Quando sono stati raggiunti determinati livelli a quel punto si passa ad utilizzare questa conoscenza mentalistica per promuovere il cambiamento.

Ci sono dei passaggi della terapia, procedure iterattive che si ripetono ogni volta che il paziente torna indietro, magari ha acquisito delle consapevolezze in un area interpersonale, per esempio ha risolto alcuni problemi dell’attaccamento e si aprono problemi nell’area dell’antagonismo o del rango sociale a quel punto si ricomincia, perché magari in quell’area dimostra minori capacità metacognitive e bisogna risalire fino a che non comprende gli schemi interpersonali disfunzionali.

FINE PRIMA PARTE

Leggi la SECONDA PARTE 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Si parla di:
Categorie
ARTICOLI CORRELATI
cancel