Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – parte 2:
La TMI: Verso il cambiamento
Dopo aver chiesto al prof. Dimaggio di parlarci della Terapia Metacognitivo – Interpersonale e di come funziona, abbiamo cercato di capire cosa produce il cambiamento nei pazienti e come la TMI può agire in questo senso.
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(State of Mind) Prof. Dimaggio secondo lei quali sono in generale gli ingredienti in grado di suscitare un cambiamento all’interno del paziente? Ovviamente ci rendiamo conto che la risposta può essere solo molto generica poiché per ogni paziente ci saranno anche degli ingredienti specifici legati alla sua storia di vita e di malattia.
(Dimaggio) La domanda è importantissima e nucleare. Ovviamente si sono così tanti fattori in gioco che quello che dico difetterà in tantissime aree, però cerco di identificarne alcune. Il primo fattore di cambiamento, sicuramente, è quello di cui parlavamo prima, cioè la capacità di formulare una mappa accurata del proprio funzionamento mentale. Questo è un prerequisito del cambiamento. Se un paziente non è in grado di sapere cosa delle proprie modalità di attribuzione affettiva, emotiva, agli eventi lo porta a soffrire, ovviamente il cambiamento è impossibile. In qualche modo generare questa comprensione è sia la costruzione di un prerequisito di cambiamento che un cambiamento in sé, poiché significa che si stanno costruendo abilità di funzionamento mentale che prima non erano presenti e funzionanti. Questa parte del cambiamento che non ha un correlato comportamentale diretto e osservabile, e spesso non si accompagna neanche a un miglioramento sintomatico, ma è parte del cambiamento strutturale.
Un secondo aspetto sicuramente centrale è arrivare al punto in cui il paziente acquisisce quella che in “metacognitivese” chiamiamo differenziazione, ovvero la capacità di assumere distanza critica dai propri stai interni. Questo corrisponde nella TMI al passaggio dalla fase di assessment alla fase di promozione più attiva del cambiamento.
La Differenziazione è una capacità che permette di capire che quello che stiamo vivendo è legato solo in modo marginale all’evento prossimale che l’ha scatenato mentre è soprattutto il risultato di modalità stabili di attribuzione di significato agli eventi. In altre parole se tendo a soffrire perché sono stato abbandonato o perché ho avuto una frustrazione lavorativa, l’obiettivo non è quello di comprendere come quell’evento specifico, determinante esterno, non abbia determinato l’intensità prolungata e invincibile della sofferenza soggettiva, a contrario è necessario realizzare che quell’evento ha risuonato con modalità di attribuzione interna, chiamiamoli schemi, che invece appartengono al mondo soggettivo. Si tratta di riconoscere modalità stabili di attribuzione di significato che generano anticipazioni negative e quindi dolore, sofferenza e comportamento disfunzionale. Capire questo, ovvero capire che la sofferenza nasce all’interno ed è frutto di una costruzione del mondo e non un riflesso del mondo è sicuramente un ingrediente fondamentale del cambiamento. Quando si arriva a questo passaggio il paziente è pronto per cambiare anhe nel comportamento.
Un’altro aspetto importante, che emerge dal lavoro di perfezionamento del modello che sto conducendo con i colleghi Raffele Popolo e Giampaolo Salvatore miei co-fondatori del centro di Terapia metacognitiva-interpersonale, che ci colloca credo nella terza onda di terapia cognitiva, è che una parte del cambiamento – una volta arrivati a capire la natura soggettiva della sofferenza e dei problemi relazionali – nasce non tanto dal confutare convinzioni disfunzionali, ma dal fare qualcosa di nuovo, che possa generare benessere e adattamento.
Raggiunta la differenziazione, con il paziente si riformula il contratto terapeutico e si lavora per promuovere attivamente il cambiamento assumendo che ci siano una serie di ingredienti successivi. Da questo punto di vista probabilmente un determinante prossimale è l’attivazione del sistema esploratorio e l’impegno al cambiamento comportamentale, che non è l’outcome del trattamento, ma lo strumento attraverso il quale un cambiamento ulteriore si realizza.
Assumendo che la mente è azione e che la mente è incorporata, se il corpo ripete azioni precedenti la mente è difficile che cambi. Per cui a quel punto con il paziente ri-negoziamo gli scopi del trattamento: quali sono le cose che, in un clima di totale collaborazione e di buona relazione terapeutica, paziente e terapeuta cercheranno di fare affinché il paziente tenti di pensare e fare cose nuove. Questo nuovo contesto d’azione ha la possibilità di generare varie forme di cambiamento. Il primo è che permette ulteriormente di stanare le strutture disfunzionali sottostanti. Quando il paziente inizia a provare a fare qualche cosa, se c’era stata una comprensione cognitiva del problema, si può osservare che invece le procedure, gli schemi emotivi e taciti, che avevano generato sofferenza sono ancora attivi e guidano ancora il comportamento.
Per esempio quello che guida l’evitamento sociale nel caso di disturbo evitante di personalità o fobia sociale; il paziente può aver capito che tende a vivere anticipatoriamente la rappresentazione dell’altro come un giudice critico, esserne consapevole, ma lo stesso evitare di esporsi; evitamento che indica come lo schema più profondo è comunque attivo. Per cui soltanto il tentativo di esposizione comportamentale permetterà di stanare questa componente procedurale ancora attiva e che poi è di fatto è quella più difficile da modificare. Quindi l’obiettivo del cambiamento comportamentale è quello di creare il contesto nel quale la mente possa tentare di intraprendere nuovi percorsi.
La fase successiva è la riflessione in seduta: a partire da un tentativo di esposizione comportamentale si genera il materiale per la riflessione in seduta. “Pensiamo insieme a quello che hai pensato e provato nel tentativo di fare questo”. La riflessione quindi permette la ri-attribuzione di significato, una maggiore distinzione fra fantasia e realtà, il lavoro sulla realizzazione personale, elemento tipico delle terapie con i disturbi di personalità e che è in sintonia con quello che sta facendo Studi Cognitivi con il lavoro sui piani di vita, l’aumento dell’agentività (agency). In pratica l’obiettivo del cambiamento non è solamente quello di smantellare la patologia, ma permettere al paziente di entrare in contatto con aree potenzialmente sane che determinerebbero realizzazione, soddisfazione, adattamento, piacevolezza nelle relazioni che prima erano schiacciate dagli schemi patogeni. Quindi si tratta di identificare i nuclei del funzionamento sano e aiutare il paziente ad agirli nella vita quotidiana e piano piano capire come muta l’esperienza soggettiva al mutare del perseguire i piani di vita.
Questi sono un po’ gli ingredienti del cambiamento anche se sono sicuro di non aver risposto esaustivamente.
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