Lo stato dissociativo di Sophie le permette di poter pensare di non avere bisogno di una terapia. Si è trattato solo di un incidente.
Nella terza seduta della settimana incontriamo quello che mi sembra il Paul migliore, finalmente rilassato e sorridente. È di nuovo una prima visita, ed è di nuovo un paziente non facilissimo, che pone una domanda terapeutica ambigua e sfuggente. Anzi, non c’è domanda terapeutica. Solo una richiesta di consulenza, un parere esperto. Ma il paziente è una giovane ragazza priva delle contorsioni mentali degli adulti. Il suo dolore è altrettanto complesso di quello di Laura e di Alex, ma la trattativa è molto meno subdola.
Sophie è un’adolescente che ha avuto un incidente stradale. La dinamica dell’incidente però non è chiara, è possibile che in qualche modo Sophie se lo sia procurato e quindi, in qualche modo, abbia cercato di suicidarsi. La ragazza non ricorda i dettagli dell’incidente e soprattutto non sa dire se veramente aveva l’intenzione di uccidersi.
La richiesta di un parere psicologico, anzi psichiatrico, nasce da questa oscurità. Sophie era dissociata, ovvero ha agito in uno stato di coscienza disconnesso dal resto dell’attività mentale. Tecnicamente potrebbe essere un’amnesia dissociativa.
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Il caso è interessante sia nei suoi aspetti drammatici che psicologici. Una paziente del genere aggiunge un sapore da vecchia psichiatria viennese. Sophie per Paul è l’occasione di un percorso investigativo coinvolgente. Gli stati dissociativi sono un caso estremo di sofferenza mentale prodotta da gravi traumi reali in cui la persona è a rischio della sua vita. In questa situazione estrema di pericolo una risposta possibile è il “faint”, la brusca ed elevata riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. E’ una simulazione di morte. In questa situazione vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.
Se questa condizione perdura a lungo non permette l’integrazione della memoria traumatica nel resto della vita mentale. Memoria che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo. Da questo processo deriva la frammentazione dissociativa (Liotti e Farina, 2011 LEGGI LA RECENSIONE SU STATE OF MIND). Vedremo in seguito come il caso di Sophie sia tagliato su questo modello teorico.
Lo stato dissociativo di Sophie le permette di poter pensare di non avere bisogno di una terapia. Si è trattato solo di un incidente.
Paul accetta la posizione diffidente di Sophie, ma al tempo stesso comprende il grande bisogno di accoglimento della ragazza e la sua sofferenza. È una puntata che allenta la tensione, dopo la ferocia sotterranea di Laura e di Alex. Riesce a convincere Sophie di avere bisogno di più incontri per poter stilare il suo parere e, in questo modo, aggancia la giovane paziente.
I risultati di uno studio di follow-up dimostrano che il legame tra stereotipi razziali e la stagnazione della creatività può essere spiegata, almeno in parte, da un aumento della chiusura mentale.
Una nuova ricerca condotta alla Tel Aviv University suggerisce che gli stereotipi razziali e la mancanza di creatività hanno un meccanismo comune: il pensiero categorico.
Anche se apparentemente molto diversi, questi due fenomeni hanno luogo perché ci si “fissa” su alcune categorie di informazioni e su un atteggiamento mentale convenzionale.
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I ricercatori hanno cercato di stabilire una relazione causale tra l’essenzialismo razziale – la convinzione che i gruppi razziali possiedono tratti di base e capacità stabili – e la creatività.
Hanno ipotizzato che, una volta attivata, la mentalità essenzialista porterebbe ad una certa riluttanza a prendere in considerazione punti di vista alternativi, con la conseguenza di una generalizzata chiusura mentale.
I ricercatori hanno manipolato le credenze dei partecipanti sugli stereotipi razziale facendogli leggere uno di tre articoli: uno descriveva una falsa ricerca scientifica a sostegno degli stereotipi razziali, uno contrario allo stesso tema e uno sulle proprietà scientifiche dell’acqua.
I partecipanti hanno poi preso parte a un diffuso test sulla creatività chiamato Remote Associates Test durante il quale gli venivano date tre parole e loro dovevano trovare una nuova parola che le collegasse tra loro.
I risultati indicano che coloro che erano stati influenzati dalla visione essenzialista erano meno creativi, e risolvevano un numero significativamente minore di esercizi rispetto ai partecipanti degli altri due gruppi.
I risultati di uno studio di follow-up dimostrano che il legame tra stereotipi razziali e la stagnazione della creatività può essere spiegata, almeno in parte, da un aumento della chiusura mentale.
Insieme, questi studi suggeriscono che l’essenzialismo esercita i suoi effetti negativi sulla creatività modificando il modo di pensare delle persone, non tanto i contenuti del pensiero.
La ricerca suggerisce anche che gli stereotipi sono però abbastanza malleabili. Diversi aspetti che devono ancora essere esplorati, ma i ricercatori ipotizzano di utilizzare questi risultati per elaborare un programma di intervento in grado di ridurre gli stereotipi razziali, permettendo ai partecipanti non solo di diventare socialmente più tolleranti, ma anche di esprimere tutto il loro potenziale creativo.
“ Un segno invisibile e mio ” di Aimee Bender – Recensione
Recensione
“ Un segno invisibile e mio ”
Aimee Bender, 2011
Un-Segno-Invisibile-e-Mio-Beat, 2011
Pubblicato nel 2001, questo romanzo di Aimee Bender offre la possibilità di viaggiare accanto alla sua protagonista, attraverso il groviglio interiore e personalissimo che la affanna e che lentamente riesce a sciogliersi quando finalmente incontra …la vita!
Mona Gray è una bambina silenziosa, tenera, ottimista, fiduciosa nel mondo, grande osservatrice e molto molto responsabile! L’improvvisa e sconosciuta malattia che ‘ingrigisce’ il papà, la renderà tuttavia immobile e spenta, in cerca di una soluzione per salvare gli altri, il papà, se stessa.
Inizia a vivere in un mondo fatto di pensieri catastrofici che ci fanno da subito appassionare al suo bisogno di attenzioni, cure e spiegazioni sulle cose del mondo. Si affida così ai numeri, creando un sistema di credenze perfetto per risolvere ogni suo dubbio: numeri per strada, sui libri, sulle case..diventano la bussola che le permette di prevedere tutto.
Pubblicato nel 2001, questo romanzo di Aimee Bender offre la possibilità di viaggiare accanto alla sua protagonista, attraverso il groviglio interiore e personalissimo che la affanna e che lentamente riesce a sciogliersi quando finalmente incontra …la vita!
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Durante tutto il racconto, ci muoviamo con Mona attraverso un mondo grigio e in cui l’atmosfera si fa a tratti tetra e carica di angoscia. Vien quasi voglia di “ticchettare” le dita sul libro, proprio come fa lei per annullare le paure che la assalgono!
Tra le molte letture possibili di questo romanzo, risulta interessante ovviamente quella psicologica.
Il quadro familiare freddo e anaffettivo, sembra aver creato nella piccola Mona una crescente paura verso tutto ciò che è emotivo, caldo, colorato. Le emozioni somigliano a mostri, terribili e fuori controllo. Manca nella protagonista un vero e proprio vocabolario delle emozioni, la capacità cioè di descriverle, esprimerle e raccontarle. La personalità di Mona è naif, bizzarra, a tratti crudele, ma è immediatamente facile leggere tra le righe le buone intenzioni celate dietro i suoi impiegabili (e a tratti inquietanti!) gesti quotidiani.
Il modo in cui esplora il mondo è caratterizzato da paura e diffidenza, premonizioni catastrofiche e tentativi di contrastarle. La distanza dagli altri è necessaria e salvifica, ma estremamente dolorosa. Un senso di esclusione e di non appartenenza dominano nelle relazioni.
Ecco che si evidenzia in modo chiaro la parte più “sofferente” di Mona e contemporaneamente più “disturbante” per gli altri attori del romanzo: i pensieri catastrofici sul mondo (ossessioni e pensieri intrusivi di colpa) vengono annullati da rituali magici fatti di numeri e gesti ripetuti (compulsioni) e i suoi strani comportamenti allontanano e spaventano le persone che ha intorno.
Sebbene strani, questi comportamenti le permettono tuttavia di mettersi al sicuro, di sollevarsi dalla responsabilità che la insegue instancabile….Almeno finché il desiderio di una vita più colorata non inizia farsi pressante.
Il romanzo fa sperimentare molto da vicino questa parte sofferente e dolorosa di Mona con incredibile delicatezza e dettaglio. Può davvero insegnare, a chi vive vicino a qualcuno che soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo, ad andare oltre i faticosi comportamenti quotidiani per assumere un punto di vista più interno, più vicino alla sofferenza che li provoca.
Ad Aimee Bender il merito di essere riuscita a descrivere in modo così sottile e dinamico i pensieri di una mente apparentemente “congelata”, attraverso uno stile di scrittura efficace, rapido e sorprendentemente acuto.
Terapia Cognitivo Comportamentale delle Psicosi – Recensione
Recensione:
Terapia cognitivo comportamentale delle psicosi
Hagen, Turkington, Berge & Gråwe
TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI, ECLIPSI 2012
Un manuale essenziale per ogni operatore sanitario interessato ad applicare i principi della terapia cognitivo comportamentale al trattamento dei pazienti psicotici.
A lungo la terapia cognitivo comportamentale è stata ritenuta adatta solo ai pazienti con disturbi d’ansia e depressivi, ovvero pazienti capaci di una buona alleanza terapeutica e di concordare e rispettare un contatto terapeutico realistico.Da qualche tempo sono invece emersi modelli in grado di confrontarsi con pazienti meno propensi a un’alleanza terapeutica chiara e afflitti da sintomi molto invalidanti. Tra questi, i pazienti psicotici sono quelli messi peggio. Uno degli ultimi libri pubblicati in Italia è quello di Hagen, Turkington, Berge e Gråwe (2012).
L’adattamento di questi autori mantiene i principi di base della terapia cognitivo comportamentale: l’analisi cognitiva dei sintomi, la loro sdrammatizzazione decatatrofizzante e l’utilizzo di esercizi comportamentali che rendano la ristrutturazione cognitiva più “incarnata” e meno astratta.
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Nel caso delle psicosi, la grande sfida è la normalizzazione dei deliri e delle allucinazioni. Entrambi questi fenomeni possono essere ridotti a interpretazioni cognitive distorte di vecchio stampo. Le allucinazioni, soprattutto uditive, sono distorsioni delle percezioni subvocaliche che chiamiamo “discorso interno”, insomma il soliloquio mentale che ognuno di noi intrattiene con se stesso (l’analisi cognitiva delle allucinazioni è una delle parti più interessanti del libro). I deliri a loro volta, non è necessario dirlo, sono naturalmente casi da manuale di distorsioni cognitive.
L’idea di Hagen, Turkington, Berge e Gråwe è che le tecniche di disputa e ristrutturazione cognitive sono applicabile anche a questi errori cognitivi, in maniera molto simile a quello che si fa per le idee di pericolo e di scarsa efficacia personali nei pazienti ansiosi.
Naturalmente occorre essere molto più cauti, essendo l’esame di realtà in questi pazienti più gravemente compromesso che negli ansiosi. E inoltre la capacità di tollerare l’impegno emotivo della terapia è più scarso in questi pazienti, che così potrebbero reagire con rifiuti, fughe, tentativi di sottrarsi non solo alla terapia ma addirittura alla seduta se sottoposti a ritmi troppo impegnativi.
È quindi necessario monitorare continuamente lo stato emotivo del paziente, osservandone l’espressione del viso, la postura e il grado di agitazione e tenersi pronti a operare un rilassamento della tensione terapeutica utilizzando lo strumento della validazione e della rassicurazione.
Il modello terapeutico è anche molto didattico. I pazienti sono istruiti sulla reale natura dei loro deliri e delle loro allucinazioni, sempre con il fine di normalizzarle. C’è anche una componente socio-relazionale di reinserimento del paziente nel mondo esterno e di istruzione e addestramento dei familiari a gestire il paziente in casa.
Infine non è trascurato il disturbo bipolare, concepito all’interno di un continuum psicotico e non più come entità separata dalla schizofrenia.
In conclusione, un manuale essenziale per ogni operatore sanitario interessato ad applicare i principi della terapia cognitivo comportamentale al trattamento dei pazienti psicotici.
La comunicazione emotiva costituisce un aspetto delle interazioni sociali di cui facciamo esperienza ogni giorno. Ogni nostra frase o discorso veicola significati emotivi precisi e fornisce perciò ai nostri ascoltatori informazioni importanti su come ci sentiamo in un dato momento (immaginate di ascoltare la voce di vostra madre al telefono: potete capire se è triste, arrabbiata o tranquilla anche solo dalle caratteristiche puramente “acustiche” della sua voce).
Esattamente come accade per il linguaggio, anche la musica è in grado di comunicare emozioni all’ascoltatore: chi di voi non ha mai definito una canzone “allegra” o “triste”?
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Per quanto possa sembrare incredibile, il primo ad avanzare ipotesi su una presunta origine comune tra musica e linguaggio fu Darwin, nel 1871. Il famoso ricercatore sosteneva che questi due domini costituissero l’evoluzione di un “protolinguaggio musicale”, utilizzato dai nostri antenati per difendere il territorio, in fase di corteggiamento e infine proprio per comunicare le emozioni (Fitch, 2006). Se la teoria del “protolinguaggio” fosse vera, potremmo predire con sufficiente certezza che una persona con capacità deficitarie nell’elaborazione e nell’interpretazione della musica mostrerà difficoltà anche nel comprendere le emozioni veicolate dal linguaggio (quella che dai linguisti viene definita “prosodia emotiva”).
A tal proposito, William Thompson, Manuela Marin e Lauren Stewart (2012) hanno condotto un recente studio al fine di testare la sensibilità alla prosodia emotiva del linguaggio parlato di soggetti affetti da amusia congenita. A causa delle anomalie cerebrali causate dal loro disturbo, i soggetti amusici hanno difficoltà a cantare con intonazione corretta, a tenere il ritmo di una canzone, a distinguere le tonalità dei suoni e a riconoscere brani senza avere il testo a disposizione (Stewart, 2011). Dal momento che il loro stato emotivo non subisce variazioni con l’ascolto di un brano, non amano particolarmente ascoltare la musica, la quale finisce raramente per far parte della loro vita quotidiana (McDonald & Stewart, 2008).
La loro condizione ha portato numerosi ricercatori a chiedersi se il danno fosse circoscritto solo al campo musicale: è stato così scoperto che gli amusici, incapaci di percepire le variazioni minime di intonazione tipiche della musica, sono invece in grado di distinguere le più “grossolane” variazioni di tonalità linguistica (quelle ad esempio che differenziano una domanda da una affermazione, la cosiddetta “prosodia linguistica”) (Patel, 2008; Patel, Foxton & Griffiths, 2005).
Lo studio di Thompson e colleghi ha impiegato un campione di 24 soggetti, 12 amusici e altrettanti soggetti di controllo, ad ognuno dei quali è stato fatto ascoltare un set di 96 frasi registrate dal significato “neutro” (ad esempio “Il cucchiaio è nel cassetto”). Le frasi erano state originariamente pronunciate con l’intento di comunicare sei diverse emozioni (felicità, tristezza, tenerezza, irritazione, paura e un’emozione “neutra”). Ogni partecipante doveva indicare l’emozione percepita scegliendo una tra le sei opzioni, mostrate sullo schermo di un computer.
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I risultati dello studio hanno confermato l’ipotesi iniziale: i soggetti amusici risultavano meno accurati dei controlli nel distinguere le emozioni di serenità, tenerezza, irritazione e tenerezza. Ammettevano inoltre di riscontrare le stesse difficoltà nella vita di tutti i giorni, ad esempio parlando al telefono, dimostrando consapevolezza del loro problema.
Si tratta di un’importante prova empirica a supporto della teoria di Darwin: musica e linguaggio condividono origini e funzione, permettendoci di comunicare ciò che proviamo (Brown, 2000; Fitch, 2010).
Brown, S. (2000). The “musilanguage” model of music evolution. In N. L. Wallin, B. Merker, and S. Brown (Eds.), The Origins of Music (pp. 271-300). Cambridge, MA: MIT Press.
Freud era un medico e praticò la medicina interna e poi la neurologia per molti anni, all’inizio della sua attività professionale. Utilizzò sempre nel suo lavoro le classificazioni dei disturbi psichici della psichiatria a lui contemporanea, e giunse ad influenzarla a sua volta (si pensi all’isteria d’angoscia, poi divenuta disturbo di panico nella classificazione DSM IV).
Le ricerche di Freud, tuttavia, non si focalizzarono sulle disfunzioni cerebrali. Grazie alla scoperta dell’inconscio Freud poté comprendere le forze psicologiche responsabili della genesi dell’isteria e di altre configurazioni emotive e comportamentali disfunzionali. Coerentemente con la consapevolezza che molti disturbi psichici hanno una base psicologica, Freud patrocinò l’ingresso di professionisti non medici nel campo della psicoterapia.
Nella prospettiva freudiana, dunque, la pratica psicoanalitica non ha una relazione necessaria con la medicina e la neurologia. Tuttavia, Freud non scisse mai del tutto i legami con la pratica medica in termini di concettualizzazione della sofferenza emotiva. Mentre apriva nuove vie applicando la teoria psicoanalitica a testi letterari, alle opere d’arte ed allo studio delle religioni, continuò a credere che il prestigio sociale della psicoanalisi dipendesse necessariamente dalla sua efficacia come strumento terapeutico capace di guarire varie sindromi cliniche.
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La storia della psicoanalisi è ormai molto lunga. Gli obiettivi del lavoro psicoanalitico si sono molto ampliati. I benefici attesi da un trattamento psicoanalitico vanno molto oltre il miglioramento sintomatico. Già negli anni ’30 si è raggiunta la consapevolezza che lo specifico obiettivo di un trattamento psicoanalitico dovrebbe essere un cambiamento strutturale, un cambiamento permanente della personalità che includa il superamento del complesso di Edipo, lo sviluppo di meccanismi di difesa più maturi, il raggiungimento di un adeguato insight rispetto ai propri conflitti, un allentamento della rigidità del super io.
Da questo punto di vista, gli sviluppi del pensiero psicoanalitico al di fuori dell’ambito della psicologia dell’io hanno comportato un’estensione ancora maggiore degli obiettivi del trattamento. Obiettivi che oggi includono la riparazione di ferite narcisistiche, il raggiungimento dell’integrazione dell’identità, l’introiezione stabile delle imago parentali, la consapevolezza del dolore implicito nei processi di crescita e una maggiore capacità di contenere ed elaborare cognitivamente le emozioni negative.
La relazione degli obiettivi del trattamento psicoanalitico con il modello medico di malattia mentale è ormai molto debole. Un miglioramento sintomatico, per come è comunemente concettualizzato dalla psicopatologia descrittiva, può rappresentare tutt’al più un’auspicabile ricaduta positiva di cambiamenti che si realizzano a livelli più profondi. E tuttavia la psicoanalisi ha avuto molta difficoltà a sciogliersi da uno stretto legame con la nosografia psichiatrica. I clinici hanno continuato a credere che il valore sociale della psicoanalisi e la relativa possibilità di ricevere sostegno finanziario dalle istituzioni sanitarie dipenda in modo cruciale dalla percezione della psicoanalisi come uno degli strumenti terapeutici della medicina.
Tuttavia, la concettualizzazione nosografica della sofferenza emotiva non è del tutto idonea alle specifiche esigenze e mete del lavoro psicoanalitico. La psicoanalisi non è una terapia, e può essere più utilmente concettualizzata come un processo interpersonale finalizzato a realizzare cambiamenti profondi. Come dice il proverbio: “La farina del diavolo va tutta in crusca”. Ogni confusione tra conoscenza ed esigenze di supporto sociale è destinata a produrre una distorsione dei processi di organizzazione dell’informazione.
La psichiatria tratta le esperienze emotive dell’uomo come fatti obiettivi. E le classifica secondo valori ed aspettative. Giudica alcune sane, cioè auspicabili, appropriate e gradite, ed altre come patologiche, in quanto, inadeguate, socialmente sgradite e di ostacolo al funzionamento sociale e familiare. La psichiatria classifica i comportamenti, e di conseguenza gli esseri umani: sani, nevrotici, psicotici.
La psicoanalisi si rivolge alle emozioni ed ai desideri dell’uomo. E tuttavia la necessità di sintesi del materiale e la citata pressione per ottenere consenso ed apprezzamento nella realtà sociale tendono a promuovere generalizzazioni categoriali o dimensionali. Nel nostro lavoro quotidiano possiamo così parlare di struttura ossessiva, funzionamento psicotico, pazienti borderline.
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Impercettibilmente ma irresistibilmente cediamo così all’abitudine di classificare gli esseri umani. L’analizzando diventa un paziente. Un intreccio di relazioni oggettuali interne, paure e difese diventa una malattia. Un giudizio morale rispetto ai percorsi di sviluppo più meno adeguati dell’essere umano si insedia nel nostro pensiero e linguaggio psicoanalitici quotidiani, e sostituisce la necessaria neutralità rispetto ai fini ultimi dell’analizzando.
Veniamo così a perdere la consapevolezza che il paziente si muove in un ambiente umano reale. Che la cosiddetta malattia mentale non è un fenomeno naturale o la distorsione di uno sviluppo fisiologico. Consiste invece in una complessa rete di strategie intrapsichiche ed interpersonali. Implica meccanismi di adattamento o reazione a relazioni oggettuali esterne spesso tragiche od estremamente primitive. Esprime frequentemente tentativi di controllo delle risposte degli oggetti di amore più intimi. E’ sempre in relazione con il fondamentale bisogno dell’uomo di comunicare e condividere le radici della sofferenza emotiva.
Non possiamo affidare il prestigio sociale della psicoanalisi ad un atteggiamento di imitazione del pensiero psichiatrico e della prassi medica. La percezione del contributo della psicoanalisi alla società contemporanea – un contributo che io ritengo vitale ed insostituibile – dipende in realtà dalla nostra capacità di mostrare come la psicoanalisi possa aiutare l’individuo a crescere, a costruire relazioni intime stabili, a tollerare il dolore.
La psicoanalisi non è una tecnologia medica, è una via per costruire speranza e realizzare processi di cambiamento.
Carissimo compagno matto, svitato, lunatico, demente, scervellato, pazzerello, insensato, dopo trent’anni di lavoro a contatto con le sofferenze dei pazienti intrecciatesi indissolubilmente con le mie sento il desiderio di scrivere al matto prototipico, per rivelargli alcune cose che non ho raccontato a tutti perché non le avevo ancora capite o allora non c’è stato tempo.
Mi rivolgo, dunque, ai vari ansiosi. Agli spaventati in logorante attesa di un abisso senza fondo dove si perderanno definitivamente. Aggrappati ad un sostegno qualsiasi la vita scorre senza che mai l’afferrino, le mani serrate sull’appiglio. Per non morire non vivono. A quelli rattrappiti dall’attesa della sentenza inappellabile di condanna alla solitudine e al disprezzo che per non sbagliare somigliano a cadaveri di ineffabile perfezione. Ai fuggiaschi dalla derisione vergognosi di un esistere che ingombra spazio nel mondo impegnati a scomparire ad occhi severi che non li lasciano mai. Alla grande schiera degli accerchiati da onde di minaccia, striscianti e inaspettati pericoli, malattie, rovesci e perdite che come minuscoli moscerini nel lavandino li trascineranno vorticosamente nello scarico. In loro mai nessun potere, piccoli e tremanti, prima, o malfermi e stanchi, poi. Cappuccetti rossi nel bosco degli orrori o nonne divorate dal lupo.
Mi rivolgo inoltre ai cosiddetti depressi. Agli affaticati ogni mattina davanti alla grigia montagna brulla da scalare subito ai piedi dell’insonne letto. Tale è la nausea dei sapori e dei profumi della vita che hanno smorzato i sensi, non provano mai nulla tranne la noia. Non mancano di nulla, rimprovera il coro, eccetto forse se stessi. Tutto è parimenti insensato ripetitivo, già visto. In attesa di finirla vorrebbero solo dormire. Non hanno chiesto di esserci e, offesi, non sono mai entrati in gioco. Senza ricordi ne orizzonti annaspano in un livido dolente presente. Per giunta sono arrabbiati convinti di aver firmato un contratto differente con Dio o un suo delegato. Somari svogliati alla scuola della vita. Deserti inariditi con una pozza asciutta e screpolata nel luogo dell’anima.
Infine anche a quelli che chiamiamo psicotici, anzi a loro soprattutto che mi fanno sempre battere il cuore. Ai diversi, quelli strani, fatti male, mancanti del software per gli incontri che decidono con la testa ogni mossa per sembrare normali. Non capiscono le bizzarre tradizioni degli umani. Come appena scesi dall’astronave senza il manuale di istruzioni per la terra. Ma ognuno è diverso a modo suo, appunto. Non sono un’unica tribù.
Alcuni si avventurano in mondi privati senza altri condomini e vicini. Cancellano le tracce borbottando in compagnia di se stessi e smarriscono la strada del senso comune.
Altri costretti alla ribalta per riempire lo specchio come attori ergastolani non possono scendere dal palco per fuggire un camerino vuoto, freddo con i fiori appassiti.
Certi stanno assediati tra gli agguati di inganni e tradimenti. Sentinelle di tartari in perenne ritardo. Le braccia indolenzite dalla guardia sempre alta. In servizio permanente effettivo, impacciati dalla corazza sono i guerrieri professionisti che temono le conseguenze dell’amore.
Taluni, eterni orfani, si perdono alla vista delle spalle di chi va altrove mai rassegnati alla cacciata dall’originario utero.
Strani tra gli strani quelli che graffiano per abbracciare e s’imbrattano di sangue. La terra intorno sismicamente sobbalza. Pronti ad eruttare da un istante all’altro sono gli inghiottitoi carsici incolmabili dove tutto affonda e mai riempie il vuoto straziante e rabbioso della perduta perfezione unitaria.
All’orecchio di questi pellegrini della sofferenza sussurro che non sono soli, gli sembra soltanto guardando di se stessi il dentro e di tutti gli altri l’esterno rivestito di carta colorata e fiocchi, dentro anche i sorridenti pulsano dolore.
Siamo identici per oltre il 99% sia nei geni che nelle esperienze vissute. Tutto il vostro dolore è propriamente umano, l’essenza stessa dell’umanità che ci accomuna. Diluite l’orgoglio ferito dell’”io” nella quiete comunitaria del “noi”. Immaginate la vostra vita come una dolorosa marcia dal nulla al nulla immersi in un popolo di ugualmente dolenti in faticoso cammino. Nessuno impegnato a trascinarsi avanti ha tempo e voglia di darvi la pagella.
Talvolta ci si appoggia l’un l’altro si mischia fiato e sudore. Ogni tanto brilla una stella, il gelo stiepidisce, il terreno si ammorbidisce. Rari momenti da collezionare, assaporare e conservare nella memoria. Per tutti gli altri raccontatevi una storia epica che gli dia, ingannandovi, un senso. Che la fantasia benevola addolcisca la realtà quando si fa più aspra (noi non lo chiameremo delirio). Per quanti errori vi riconosciate non avete combinato nulla di grave, siamo troppo ininfluenti per essere dannosi. I vostri nipoti stenteranno a rammentarvi il nome.
Perdonatevi e vogliatevi bene. Viziatevi di coccole come una madre che assiste il figlioletto leucemico agli ultimi giorni. Acchiappate tutto senza rinunce che questa non è la prova generale ma l’unica nostra vita.
Quando il dolore si fa più acuto pensate che non dura e tutto passa e dopo sarà pressappoco come prima di nascere che non era poi male.
Naturalmente continuate a venire da noi terapeuti per darci da mangiare, farci sentire sani e non lasciarci soli sul nastro trasportatore in attesa della caduta a fine corsa.
Roberto Lorenzini
L’ Autoconsapevolezza di Sé dipende da Network Neuronali
“L’ autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello. Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”
L’autoconsapevolezza è un fenomeno complesso, ricco e integrato che fa parte della più estesa conoscenza di sé.
Il riconoscimento di sé stessi, a sua volta, può essere brevemente definito come un “fenomeno qualitativo della psiche che si enuncia come l’essere coscienti di se stessi, di autoriferirsi, di esser coscienti del mondo e degli altri”[1.] .
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Questa capacità è stata lungamente considerata una qualità prettamente umana ed è stata profondamente analizzata. Gli studi di psicologia in questo campo hanno fatto uso di test classici, quali ad esempio il riconoscimento allo specchio. Gli esiti prodotti hanno permesso l’allargamento dello spettro delle specie animali che sono in possesso di un certo grado della consapevolezza di sé, estendendolo così non solo alle scimmie antropomorfe, ma anche ai delfini, elefanti e polpi.
Negli esseri umani, i neuroscienziati ne hanno individuato il correlato neurologico in tre regioni: nella corteccia dell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia prefrontale mediale.
Questi risultati, di una localizzazione precisa della consapevolezza di sé, vengono oggi messi in discussione da un recente studio condotto da gruppo di ricerca dell’Università dell’Iowa guidato da David Rudrauf e apparso sulle pagine della rivista PLOS ONE.
La ricerca è stata condotta su un singolo soggetto, definito “paziente R”, in cui tutte e tre le regioni cerebrali elencate precedentemente sono state danneggiate a causa dell’encefalite da Herpes Simplex. Secondo il modello in vigore, gli estesi danni cerebrali avrebbero dovuto compromettere la sua autoconsapevolezza. Invece il soggetto, sottoposto a test, ne ha dimostrato una buona facoltà , seppur con gravi amnesie dovute al danno ai lobi temporali, i quali compromettono normalmente il sé autobiografico.
Il paziente R ha dato prova di riconoscersi sia quando si guardava allo specchio, sia quando esaminava alcune fotografie realizzate in periodi differenti della sua vita. Inoltre, manifestava di percepire un’azione compiuta come la conseguenza delle proprie intenzioni. La somministrazione di test di personalità (tra i quali il Big Five Inventory, Modified Patient Competency Rating Scale e il Self-Consciousness Scale Revised) ha messo in luce che egli aveva una capacità stabile di pensare a se stesso e di auto percepirsi. Infine egli manifestò una profonda capacità d’introspezione, considerato uno degli aspetti più sofisticati dell’autoconsapevolezza.
I dati ottenuti permettono un avanzamento delle conoscenze fino ad ora condivise, ipotizzando che il tronco encefalico, il talamo e la corteccia posteromediale possano sopperire alle mancanze funzionali delle tre regioni danneggiate.
In conclusione, riportando le parole di David Rudrauf, possiamo affermare che: “l’autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello. Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”.
Possiamo pensare, da terapeuti cognitivisti, che i pazienti riproducano con noi gli stessi schemi disadattivi che hanno imparato nelle loro relazioni familiari più significative? E soprattutto, possiamo credere che anche un lavoro terapeutico di impronta cognitivista possa orientarsi all’individuazione di conflitti che agiscono nell’organizzazione mentale del paziente?
A nostro avviso sì, con alcune precisazioni. In primo luogo, i pattern relazionali che Kernberg e collaboratori (2012) considerano inconsci e risultanti dall’applicazione di meccanismi difensivi rigidi, nella prospettiva cognitivista possono essere descritti come automatismi di processo che il paziente segue nel tentativo di preservare significati coerenti e controllabili su di sé e sul mondo; in seconda battuta, ciò che dal punto di vista psicoanalitico viene definito “conflitto” può essere riformulato in termini cognitivisti parlando di inflessibilità degli scopi o del progetto di vita. E questa rigidità che preclude al paziente l’esplorazione di possibilità alternative si forma in relazioni familiari – oggettuali? – che legittimano e consolidano una modalità univoca di lettura dell’esperienza.
Elisa è una paziente affetta da sintomatologia ossessiva, con una famiglia gravemente criticista e squalificante; la sua passione più grande è la pittura, che durante il percorso terapeutico assume connotati sempre più precisi: attraverso l’arte Elisa cerca riscatto e consolazione dalla relazione coi genitori, tuttora incapaci di riconoscere le sue qualità umane (sensibilità, creatività) prima che pittoriche. Il costrutto fondamentale che regola l’esperienza di Elisa, “sono stupida”, le impedisce di abbandonare le ossessioni e coltivare serenamente l’attività artistica, per due motivi: da un lato la convinzione di non avere capacità le fa sovrastimare la possibilità di insuccesso in tutte le azioni che intraprende – fra le altre, realizzare nei suoi lavori le istruzioni dell’insegnante di disegno -, dall’altro la necessità di dimostrare il proprio valore ai genitori conduce ad un aumento sproporzionato degli standard perfezionistici, premessa di nuovi insuccessi. Lo scopo di Elisa, “devo convincere i miei genitori che non sono stupida”, è diventato un piano di vita inflessibile che non trovando mai risoluzione genera stati emotivi intollerabili; il funzionamento ossessivo – timore del contagio e lavaggio delle mani – rappresenta quindi il tentativo non mentalizzato di controllare l’emozione penosa.
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Leggendo questo caso secondo i tratti delle relazioni oggettuali e conservando un legame di senso con la teoria cognitivista, è possibile affermare che Elisa abbia elaborato il proprio tema di vita come logica conseguenza dell’esplicita invalidazione che i genitori hanno rivolto a lei e al suo scopo originario, diventare una pittrice.
Nella relazione col terapeuta Elisa riproduce lo schema conosciuto, definendosi a più riprese stupida e testando il clinico sulle reazioni che queste parole elicitano in lui. “Sarò stupida anche per il terapeuta?” sembra chiedersi quando racconta di sé; il lavoro sulla relazione assume un ruolo centrale affinché Elisa possa sperimentare un modello di accettazione emotiva credibile, superando i conflitti e le tematiche inflessibili che l’hanno portata a sviluppare il suo malessere.
Sabrina sta per laurearsi in medicina, ma si è bloccata al penultimo esame; sostiene di aver frequentato l’università solo ed esclusivamente per accontentare i genitori e critica aspramente l’ambiente ospedaliero, che detesta. Nel tempo libero realizza bomboniere e oggettistica in decoupage, che poi rivende nei mercatini della sua zona; se fosse libera di scegliere opterebbe senza alcun dubbio per dedicarsi a tempo pieno a questa sua attività creativa, ma l’immagine dei genitori che scuotono la testa e si rammaricano di avere una figlia inetta che non riesce neanche a laurearsi la paralizza in una condizione di stallo su entrambi i fronti.
Il rapporto con i genitori, in particolare con il padre, è infatti una storia di umiliazioni e bisogni frustrati, in cui la paziente si ricorda oggetto, da una parte di irragionevoli pretese di eccellenza, e dall’altra di lamentele rabbiose per la pochezza delle sue doti intellettuali e le abilità ordinarie e scadenti.
Nella relazione terapeutica è molto accondiscendente: sempre puntualissima agli appuntamenti, non dimentica mai di svolgere con la massima cura un compito a casa, se le capita di dover rimandare un incontro lo fa con decine di messaggi infarciti di faccine e desolazione; spesso durante il colloquio chiede conferma di aver capito bene la domanda e di aver risposto adeguatamente. Non sembra orientata più di tanto a stabilire un rapporto collaborativo che l’aiuti a chiarirsi le idee e a capire il perché delle sue difficoltà, benché questa sia stata la sua domanda iniziale; quello che le preme prima di tutto è dimostrare di essere una brava bambina, esorcizzando così il rischio di poter essere criticata e malgiudicata. Lei per prima si affanna a definirsi pasticciona, distratta, smemorata, quasi a volermi scoraggiare dal prendermi la briga di essere io a farle delle osservazioni; la sua autosvalutazione è tale che non avrei spazio per rincarare la dose. In realtà però dagli aneddoti della sua giornata emerge poi il ritratto di una ragazza estremamente scrupolosa e competente, l’unica che possa vantare un buon repertorio di valori morali su un palcoscenico di lazzaroni, e a stento trattiene la rabbia all’idea che gli altri interpretino come pedanteria la sua diligenza. Si ha effettivamente la sensazione che la relazione terapeutica riattivi prepotentemente uno schema antico, innescando ogni volta nella paziente il conflitto tra il bisogno assoluto di dimostrarsi all’altezza ed essere apprezzata e il tentativo narcisistico di proteggere un’autostima massacrata da anni di rimproveri e svalutazioni. Tuttavia, dietro questa tendenza passiva a compiacere a tutti i costi, si intravede una rabbia latente che rischia di tradursi in un inaudito ultimo atto, con il sabotaggio a sorpresa del progetto esistenziale formulato per lei dai genitori: l’abbandono dell’università a un passo dal traguardo.
In conclusione si può ritenere che la teoria delle relazioni oggettuali, pur essendo concettualmente distante dall’impostazione cognitivista, fornisca spunti utili a interpretare la storia e l’evoluzione sintomatologica del paziente, la sua organizzazione poco flessibile; lavorare sul funzionamento psicologico, sulla struttura che determina il mantenimento degli aspetti problematici, significa in primo luogo instaurare dei legami fra il contesto attuale e i diversi apprendimenti disfunzionali, individuando nelle relazioni più significative il luogo in cui tali acquisizioni sono maturate.
Questa prospettiva egocentrica non tiene conto della libera opportunità delle persone di essere in modo diverso da come noi le vorremmo o le pensiamo e può giustificare un tentativo di imposizione, anche violenta.
In precedenti articoli abbiamo definito le pretese e poi abbiamo cercato di descriverle in relazione alla loro natura nel processo evolutivo dell’individuo.
Ricordiamo brevemente che la pretesa implica (1) la presenza di regole o imperativi rigidi, assoluti e universali e (2) l’idea che ogni persona (o anche che il mondo in generale) debba assolutamente rispettarli (es: nessuno si deve permettere di mettere ostacoli tra me e il mio obiettivo, nessuno si deve permettere di criticarmi pubblicamente, le persone devono essere sempre presenti e attente ai miei bisogni).
Il punto vulnerabile di questa prospettiva è confondere una preferenza personale, più o meno rilevante, con un imperativo, aspettativa o norma che valga in termini assoluti. Questa prospettiva egocentrica non tiene conto della libera opportunità delle persone di essere in modo diverso da come noi le vorremmo o le pensiamo e può giustificare un tentativo di imposizione, anche violenta.
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Adesso proviamo a fare il punto su quali possono essere le conseguenze di un tema pretenzioso.
1. Innanzitutto l’incapacità di tollerare la frustrazione ci rende schiavi del momento presente. Raggiungere obiettivi a lungo termine richiede sofferenza, sacrificio e fatica. La pretesa può rendere incapaci di ritardare un premio o anche solo di sostenere le innumerevoli volte in cui un risultato non giunge nei tempi e nei modi che ci attendevamo.
2. La pretesa è un piano rabbioso che ci tiene con la fronte corrucciata, porta a ruminare sul comportamento corretto e rispettoso che gli altri ci hanno negato, a esprimere giudizi di valore. E in questa richiesta (più o meno silente) noi siamo bloccati nella rabbia. E la rabbia è un emozione negativa, di lotta contro un avversario. E stare in lotta corrode le nostre energie e il nostro benessere.
3. Quando questa rabbia non è silente e ruminante può diventare esplosiva e dirompente. Possiamo attaccare verbalmente o fisicamente le altre persone, ferirle, distruggere i rapporti. Talvolta questo è l’esito di una rabbia a lungo covata, l’impulso improvviso di chi soffre a tal punto da non poter contemplare, neppure per un attimo, il dolore senza versarlo in furia.
4. Nel rapporto con gli altri la pretesa ci danneggia in diversi modi. Innanzitutto, può far sentire le persone ‘costrette’ (non sono libero di essere come voglio) o esposte al rischio di biasimo e disprezzo (con lui mi sento sempre inadeguato). I pretenziosi hanno molte richieste, spesso implicite, e sono severi. Questo può indurre gli altri a una ribellione impulsiva per affermare il proprio diritto al libero pensiero oppure a sottomettersi o semplicemente ad allontanarsi. Tutte e tre le reazioni costruiscono relazioni problematiche, da quelle tempestose a quelle devitalizzate.
5. La pretesa blocca, nel senso che ostacola la produzione di alternative e la flessibilità dell’individuo. Se gli altri devono assolutamente qualcosa, allora questa è l’unica possibilità. Ogni altra soluzione diversa è scartata o non contemplata. L’uomo si trasforma in un rigido automa programmato da regole e incapace di mettere in discussione critica. E quando è frustrato gli resta sempre e solo la stessa carta: cercare di ripristinare e imporre il giusto dovere. La pretesa ostacola la capacità di disingaggiarsi dai propri scopi e esplorare nuovi modi per avvicinarsi all’orizzonte dei propri valori, che non implichino il tentativo atti di imposizione o violenza.
In una vita in cui possiamo solo fare il massimo con i limiti e le risorse che ci vengono concessi, questo genere di flessibilità ci aiuta a non chiudere il nostro percorso ai primi muri che l’esistenza ci offre. A riconoscere che non siamo onnipotenti. A vederci come esseri che possono muoversi splendidamente nel mondo nonostante i propri limiti, anzi forse anche proprio perché limitati. Stare fermi a guardare è difficile e doloroso ma così possiamo valutare altre possibilità, per esempio una lenta costruzione piuttosto che una feroce guerra.
Harrington, N. (2003). The development of a multidimensional scale to measure irrational beliefs regarding frustration intolerance. Unpublished doctoral thesis, University of Edinburgh, United Kingdom.
Un secolo di ricerche condotte al fine di indagare perché valutiamo le informazioni come vere piuttosto che false ha tuttavia dimostrato che anche queste decisioni “intuitive”, “di pancia”, non sono poi così semplici ed immediate come sembrano.
Quante volte, leggendo una notizia sul giornale o ascoltando il discorso di un politico in tv, ci siamo chiesti: “Sarà vero? Posso fidarmi?”. E quante volte ci è stato consigliato, in assenza di prove concrete a sostegno dell’informazione letta o sentita, “Fidati semplicemente del tuo istinto”?
Un secolo di ricerche condotte al fine di indagare perché valutiamo le informazioni come vere piuttosto che false ha tuttavia dimostrato che anche queste decisioni “intuitive”, “di pancia”, non sono poi così semplici ed immediate come sembrano.
June 6th, 2012 issue of Time Magazine Articolo Consigliato: Essere ottimisti conviene! Il ruolo benefico delle illusioni.
Si tratta infatti di giudizi influenzabili da numerosi fattori, quali credenze generali, pregiudizi, aspettative, caratteristiche del contesto e aspetti di esperienze vissute nel passato, che interagiscono con la valutazione presente rendendo alcuni ricordi più disponibili rispetto ad altri (Bransford & Johnson, 1972; Henkel & Mather, 2007; Kunst-Wilson & Zajonc, 1980).
Ma c’è di più. Immaginate per un momento di dover valutare come vera o falsa la frase “John Key è vivo”. È molto probabile che non abbiate idea di chi si tratti. In assenza di immagini o ricordi su chi sia questo personaggio, l’unica opzione che vi rimane è indovinare. La letteratura in campo cognitivo ha tuttavia dimostrato che siamo più propensi a giudicare un’affermazione di tale tipo come vera quando ci vengono date informazioni aggiuntive, anche se queste non forniscono alcuna prova della sua veridicità. In altre parole, se ci venisse mostrata una foto di John Key, saremmo più propensi a credere che è vivo realmente (nonostante questa, di per sé, non lo dimostri).
Eryn Newman e colleghi hanno recentemente condotto uno studio molto interessante proprio al fine di chiarire questo fenomeno (Newman, Garry, Bernstein, Kantner & Lindsay, 2012). In due sessioni iniziali venivano mostrati ai soggetti sperimentali nomi di celebrità famose o poco note, accompagnati dalla frase “è vivo” oppure “è morto” (metà delle celebrità riportate erano realmente vive). Ad alcune frasi veniva affiancata la foto del personaggio in questione, ad altre no. Come previsto dai ricercatori, nei caso di personaggi poco conosciuti la presenza della foto aumentava la probabilità che l’affermazione venisse considerata vera. È curioso il fatto che le foto promuovessero un “effetto verità” anche quando affiancate a frasi del tipo “Il personaggio X è morto” (si credeva inizialmente che le foto avrebbero portato più facilmente a considerare un personaggio ancora vivo, effetto che non si è verificato).
In un ulteriore esperimento gli autori hanno dimostrato come fosse possibile ottenere un risultato del tutto analogo accompagnando le stesse affermazioni non con le foto dei personaggi, ma con delle informazioni aggiuntive, che ne elencassero le caratteristiche (es. “Ha i capelli corti e castani, gli occhi verdi, è un leader politico”). È stato così dimostrato come l'”effetto verità” fosse generalizzabile anche ad informazioni verbali che non fornissero alcuna prova all’affermazione da valutare.
Si tratta di risultati che vanno approfonditi, dal momento che vero meccanismo di funzionamento dell'”effetto verità” non è ancora stato chiarito. L’ipotesi principale avanzata dagli autori è che le fotografie o le informazioni verbali aggiuntive vengano inconsapevolmente adottate come contesto semantico dell’affermazione, fornendo così i dettagli necessari a generare “pseudoprove mentali” a suo sostegno.
Attendiamo approfondimenti, ora sicuramente più consapevoli degli errori in cui potremmo cadere nel valutare la veridicità delle informazioni che ci arrivano.
“Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere troppo sul serio la propria persona”. Questa celebre frase di Hermann Hesse calza a pennello con il messaggio che Bernhard Trenkle, psicoterapeuta tedesco, tenta di mandare nel suo testo “Curare Ridendo”, una raccolta di barzellette e aneddoti di satira internazionale che l’autore propone in un’opera di ben 3 volumi, di cui quello disponibile in Italia rappresenta la traduzione del primo (che ha venduto solo 35.000 copie nella sua versione tedesca!).
La domanda è semplice: possono la comicità e il senso dell’umorismo essere utilizzati in psicoterapia? Potremmo aggiungere: possono essi avere una funzione terapeutica, di promozione del cambiamento? Bernhard Trenkle ne è convinto, e ci propone un nuovo modo di pensare al significato della comicità e della barzelletta dentro la stanza del colloquio, durante la psicoterapia con i nostri pazienti.
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La risata è prima di tutto proposta come uno strumento che ci fa sembrare “reali”, che sa dare alla dinamica del colloquio, soprattutto in alcuni momenti visibilmente di disagio ed imbarazzo per il nostro paziente (e non di meno per noi), o in quelli più dolorosi e difficili da condividere, l’idea che “possiamo riderci su”, che possiamo alleggerirli, che ci possiamo avvicinare ad essi sollevandoci dal peso di doverci mantenere seri nel dirli perché non essere seri toglie valore alle cose. La risata è la distanza più corta tra le persone, ci consente di condividere, di sentirci con l’altro sulla stessa lunghezza d’onda, in fin dei conti, può aiutare (con la debita attenzione nel suo utilizzo) a coltivare quella famosa alleanza terapeutica che, come tutti noi terapeuti sappiamo, rappresenta uno dei fattori più rilevanti di buona riuscita della terapia. Come sottolinea l’autore, l’uso della battuta e del comico in generale nel setting clinico aiuta il buon terapeuta ad apparire meno serioso, fatto questo estremamente comune (soprattutto tra i colleghi di formazione analitica) che rischia di far dimenticare che se una faccia della sofferenza umana è costituita dal dolore e da quel quid di drammaticità, l’altra parte porta con sé un non so che di comico, che ha a che fare con tutti quegli aspetti di grandiosità ed esagerazione irrealistica che i nostri pazienti spesso attribuiscono ai significati che danno ai loro problemi.
La risata in terapia può anche avere una funzione di per sé terapeutica: essa veicola una sorta di intensa (anche se apparente) caduta della tensione, un momento di rilassamento, un momento di pausa. Un’interruzione che però favorisce lo spostamento della tensione dalla relazione al sé più vulnerabile. Questo spostamento, spesso segnalato da un momento di vera e propria pausa, di silenzio nella conversazione può essere di grande utilità nel favorire la riflessione su di sé da parte del paziente, il raggiungimento di una nuova consapevolezza emotiva o di nuovi interrogativi. Tutti questi mutamenti non possono non essere considerati segnali di un movimento, di uno spostamento di prospettiva, di un cambiamento, nella misura in cui producono qualcosa di nuovo che può divenire nuovamente oggetto di conversazione e di lavoro clinico.
Non solo, ma la barzelletta e le storielle raccontate ai nostri pazienti con debita scelta da parte del terapeuta del momento del colloquio e del processo terapeutico, possono essere molto utili al fine di favorire la comprensione di quei concetti, di quei fenomeni clinici, di quelle tecniche e di quei passaggi terapeutici chiave che spesso risultano a dir poco ostici e irreali ai pazienti, troppo distanti e slegati dalla loro esperienza emotiva così intensa e vera, perché sperimentata quotidianamente. L’autore ci offre quindi una serie di brevi racconti e freddure che ci parlano di allucinazioni, di associazioni guidate ed ipnosi, di cognizioni e auto-verbalizzazioni, di stili comunicativi disfunzionali, di condizionamento e di dissociazione e spostamento come tecniche di controllo del dolore, di sistemi di credenze e visioni del mondo rigide, di specifiche tecniche terapeutiche, di cambiamento e molto altro ancora.
Articolo consigliato: Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia.
Tutto ha una chiave di accesso più semplice, direttamente accessibile, di facile intuizione sia per i pazienti che per i terapeuti che provengono da diversi orientamenti teorici. Il tutto accompagnato e arricchito da pertinenti e divertenti illustrazioni, a cura di Lorenzo Recanatini.
Se questi sono solo alcuni dei vantaggi che l’uso della comicità in terapia porta con sé non ne vanno dimenticati i rischi, come ben viene riassunto nella frase di Gino Bramieri nella prefazione del testo a cura di Camillo Loriedo: “il problema di raccontare una bella barzelletta è che inevitabilmente ne fa venire in mente una orribile a chi l’ascolta”.
Resta, comunque, il fatto che Curare Ridendo rappresenta un buon spunto di riflessione per tutti quei clinici un po’ più “ingessati”, per quelli più “scettici” e per coloro che sono semplicemente curiosi di avvicinarsi ad una dimensione in cui terapia e comicità possono integrarsi, e dove la risata può essere utilizzata al servizio del percorso di guarigione. Il testo inoltre, per la sua brevità e scorrevolezza, è indicato anche per tutti i non clinici, che hanno la curiosità di avvicinarsi a dei concetti, anche complessi, del mondo psicologico con leggerezza e semplicità.
Un testo per ricordarci e farci riflettere su quanto è vero, in fin dei conti, come dice Pablo Neruda, che “ridere è il linguaggio dell’anima”.
Mi chiedo quanto faccia bene alla psicoanalisi italiana godere delle attenzioni scrupolose della stampa nazionale. In particolare le puntuali cronache psicoanalitiche di Luciana Sica nei paginoni culturali di Repubblica sono dettagliate, troppo dettagliate. Poco meno di un mese fa, il 18 dicembre 2012, la Sica aveva intervistato il nuovo presidente della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) Antonino Ferro.
Ferro aveva rilasciato un’interessante intervista che testimoniava il suo interesse per i nuovi sviluppi della psicoanalisi, la cosiddetta svolta relazionale (per chi ne voglia sapere di più raccomando il libro di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei, 2011, “La svolta relazionale, itinerari italiani”).
Questa svolta, che in realtà risale a circa 30 anni fa, significa per la psicoanalisi un distacco dal paradigma delle pulsioni freudiane, un paradigma che non ha aiutato la psicoanalisi a evolversi in scienza empirica, oscillando tra il biologico e il metapsicologico.
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.
Per Freud le pulsioni sono forze biologiche che però parlano, si esprimono in metafore, lapsus e associazioni di idee. Non del tutto sbagliato in linea generale, qualcosa di vero c’è. Molto qualcosa, però. E si tratta di un’ipotesi difficilmente verificabile nel caso singolo, nel lapsus che avviene nel qui e ora della seduta. Di qui si aprono le porte alle interpretazioni più audaci e selvagge.
A mio parere e -me ne rendo conto- semplificando, la relazione è qualcosa che ha a che fare più con l’attività mentale cosciente che con l’inconscio e le sue metafore. La sofferenza relazionale è una sofferenza umana del paziente bisognoso di contatto umano e affettivo, e non il prodotto di pulsioni che si vogliono scaricare. Il massimo teorico di questa svolta relazionale è stato Stephen Mitchell col suo classico “Relational Concepts in Psychoanalysis” (1988).
Ieri però, 7 gennaio 2013, è arrivato un altro articolo su Repubblica dell’implacabile cronista della psicoanalisi, Luciana Sica. L’intento era lodevole: documentare il dissenso dei freudiani ortodossi contro la svolta relazionale andata al potere con la presidenza di Ferro. Il risultato però è deludente. L’impressione è che la Sica faccia la cronaca delle beghe interne della Società Psicoanalitica Italiana, scambiando queste beghe per un dibattito scientifico di importanza nazionale e forse internazionale.
Già il rumoroso titolo dell’articolo (“Non possiamo non dirci freudiani”) sembrava rivolto al mondo intero, e invece a leggere l’articolo si rivelava un messaggio tutto interno alla Società Psicoanalitica Italiana. Dopo questo titolo così chiassoso, seguiva la cronaca dello scontro tra pulsionisti ortodossi freudiani e relazionalisti moderni. Alla fine dell’articolo la stessa Sica sembra involontariamente desolata dallo scarso spessore della vicenda.
A questo punto qualcuno potrebbe pensare male di me e darmi dell’invidioso: piacerebbe anche a voi cognitivisti ricevere le attenzioni dei paginoni culturali dei quotidiani nazionali. Certo che sì, rispondo. Perché no? Sarebbe ora che il dibattito scientifico psicologico fosse riportato nella sua interezza sui quotidiani generalisti. Ma se questa attenzione dovesse esprimersi nella cronaca dettagliata, troppo dettagliata delle beghe interne e umane, troppo umane della società dei terapeuti cognitivisti o sistemici, allora rispondo: meglio di no. Iddio in cielo mi scampi da simili amici. Meglio che Luciana Sica continui a mantenere il suo telescopio puntato fisso sulla psicoanalisi.
Le donne sposate subiscono meno frequentemente atti di violenza domestica, soffrono meno di depressione post partum e fanno meno abuso di sostanze durante il periodo della gravidanza e dopo, rispetto alle donne che convivono o che non hanno un compagno.
Per tutti coloro che si dichiarano contrari al “finché morte non vi separi”, vi sono brutte notizie in arrivo … un nuovo studio ha messo in luce gli effetti positivi del matrimonio.
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La ricerca in questione nasce con lo scopo di studiare gli effetti sui figli dei vari tipi di relazione tra partner. Ciò è quanto si è voluto analizzare alla luce del notevole aumento del numero di bambininati al di fuori del matrimonio. In Canada per esempio, dove lo studio è stato condotto, i bambini nati da coppie di fatto sono il 30%, contro il 9% del 1971. In molti Paesi europei, le nascite al di fuori del matrimonio superano persino quelle all’interno di coppie sposate.
I ricercatori hanno così effettuato l’analisi delle risposte fornite a un’indagine somministrata in Canada a 6421 donne con figli, commissionata dall’Agenzia della Sanità Pubblica Canadese nel 2006-2007, relativa alle esperienze di maternità.
Dall’analisi è emerso che le donne sposate subiscono meno frequentemente atti di violenza domestica, soffrono meno di depressione post partum e fanno meno abuso di sostanze durante il periodo della gravidanza e dopo, rispetto alle donne che convivono o che non hanno un compagno.
In particolare il 20% delle donne conviventi ma non sposate ha vissuto almeno una delle tre condizioni psico-sociali tra violenza domestica, abuso di sostanze e depressione post partum. Il dato è salito fino al 35% per le donne sole mai sposate e ha raggiunto il 67 % per le donne che hanno vissuto una separazione o un divorzio prima della nascita del bambino.
Uno dei meriti dello studio, così come dichiarato dal Dott. Urquia, co-autore dello studio ed epidemiologo presso il Centro Per La Ricerca Sulla Salute dell’ Inner City presso l’ospedale St. Michael’s, è quello di aver approfondito, dato l’elevato numero di bambini nati da genitori non sposati, quali sono i rischi e i benefici non solo mettendo a confronto genitori singles e i genitori sposati, ma di estendere l’analisi ad altri tipi di relazioni. Questo tuttavia non è l’unico merito della ricerca: per la prima volta, infatti, ci si è posti l’obiettivo di sapere quanto incida la durata della convivenza senza matrimonio sul benessere della donna e, conseguentemente, sul suo nascituro.
L’importanza è ancora più comprensibile se si pensa all’aumento del numero di bambini nati al di fuori del matrimonio, come precedentemente riportato. Si è così giunti al seguente risultato: le donne non sposate che vivono con il proprio compagno da meno di due anni sono più propense a sperimentare almeno uno dei tre problemi indagati. Tuttavia, questi problemi diventano meno frequenti quando aumentano gli anni di convivenza della coppia. La durata del rapporto, inoltre, sembra essere significativa solo per le donne conviventi: questo modello non si è ripetuto tra le donne sposate, che presentano comunque meno problemi psicosociali, indipendentemente dalla durata del loro matrimonio.
Oltre ai meriti, va però denunciato un grande limite, sottolineato dagli stessi autori: dall’analisi delle risposte fornite per l’indagine non è possibile comprendere se gli episodi di violenza domestica e l’abuso di sostanze siano la causa o il risultato delle separazioni. Si potrebbe pensare quindi a future ricerche, dando più spazio alla storia della coppia e indagando soprattutto i perché della fine del rapporto.
In questa puntata della mia monografia per State of Mind sull’ACT vorrei concentrarmi su un secondo processo, incluso nel macro-processo processi di mindfulness e accettazione: La Fusione Cognitiva.
Si riferisce alla tendenza degli esseri umani di essere catturati, “imbrigliati” dai CONTENUTI dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo.
Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro.
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Se io mi definisco come una “persona inadeguata nelle relazioni sociali” tale insieme di pensieri influenzeranno le mie azioni e, nei casi estremi, mi faranno vivere tutte le esperienze relazionali con questa lente, che rappresenta sì il mio modo di vivere le esperienze, ma canalizza e semplifica eccessivamente le informazioni legate a come sono “io in relazione con gli altri”. Potrei quindi, sminuire le situazioni relazionali in cui non sono stato inadeguato, oppure le valutazioni che gli altri fanno di me, in cui sostengono che “non è vero che sei inadeguato” etc…
Che effetto ha quindi la fusione cognitiva nella nostra esperienza di tutti i giorni?
Le valutazioni che riguardano la vita di tutti i giorni possono addirittura arrivare a sostituire la nostra esperienza della vita stessa. Spesso non si riesce più a distinguere tra il mondo costruito e valutato (attraverso il linguaggio) da quello di cui si ha conoscenza diretta attraverso l’esperienza sensoriale.
Il focus dell’intervento è, quindi, sui processi cognitivi, e non sui contenuti specifici dei pensieri. In questa ottica, i pensieri si sostituiscono alla nostra esperienza presente e sensoriale in un processo di vera e propria “alterazione” dell’esperienza nel presente.
Nell’ACT, sono previste diverse forme di fusione cognitiva:
1) Fusione giudizio – evento;
2) Fusione dannosità immaginata di un evento – evento dannoso;
3) Fusione con le attribuzioni causali arbitrarie che l’individuo costruisce rispetto alla propria storia di vita;
4) Fusione con il passato o con il futuro concettualizzato (di cui parleremo in modo più approfondito in seguito nella monografia).
La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ACT è la Defusione.
Che cos’è la Defusione?
La Relational Frame Theory (di cui abbiamo accennato nell’introduzione della monografia) postula che non sia di primaria importanza intervenire in modo diretto sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé. Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale.
Brevemente, l’ACT intende promuovere due capacità psicologiche:
1) Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute;
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2) Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.
Allenando tali abilità, e a mettersi nella posizione consapevole dell’osservatore, è possibile aumentare i gradi di libertà psicologica dell’individuo. Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile SCEGLIERE di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.
Un’ulteriore abilità che l’ACT tenta di promuove nell’individuo è quella di rinunciare a controllo dei propri pensieri e lasciarli andare, lasciargli spazio, passarci attraverso e grazie a questo diminuire l’influenza e la potenza di tali pensieri.
Secondo episodio, secondo paziente di In Treatment. È martedì, e Paul Weston nel suo studio riceve una prima visita. Situazione terapeuticamente intrigante: vediamo come se la cava Paul nell’incontro con un paziente mai visto. Mi rendo conto che in me lo spettatore e il terapeuta fanno a pugni. Il primo si accontenta di essere coinvolto, il secondo pensa: “vediamo come Paul fa un accertamento in prima visita”. Lo spettatore per fortuna prevale, anche perché se Paul tirasse fuori un’intervista diagnostica strutturata spegnerei il televisore.
Il paziente è Alex, un atletico pilota d’aerei militari, caccia top gun. È anche uno statuario afro-americano, sicuro di sé, quasi sprezzante eppure simpatico (o, almeno, è simpatico a me, gusti soggettivi). Paul si è ripreso dopo la seduta con Laura e controlla la seduta. E fa bene a farlo, perché Alex è uno che vuole sempre il meglio in tutto, e per ottenerlo si documenta, si informa. E per questo si è informato su Paul ed è giunto alla conclusione che questo terapeuta è “the best”. Vuole il meglio perché si ritiene il meglio. Questo pilota nero fa parte di un’elite che ha ricevuto da Dio (o da chi per lui, precisa Alex) il pacchetto completo: bellezza e talento tutto assieme. È una teoria che Alex dichiara apertamente a Paul.
Ma qual è il problema di Alex? In queste prime battute sembra un narcisista. Però non proprio un narcisista maligno. È sicuramente fiero della sua bellezza statuaria, del suo talento e del suo essere un pilota d’aerei. Si sente al centro, ma al tempo stesso non sembra insopportabilmente sprezzante, almeno finora.
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In questo mondo di classicità eroica, in cui –come nell’antica Grecia- bellezza, intelligenza e forza coincidono impeccabilmente, però si è intrufolato il suo opposto: la colpa e il senso del male. Alex è un pilota militare che compie missioni di guerra in Iraq, durante una delle guerre del golfo. Missioni che prevedono bombardamenti. Alex ha qui un ultimo sussulto narcisistico e compiaciuto: racconta egli sia capace di rispettare infallibilmente il tempo di ogni azione senza mai uscire dalla massima variazione tollerabile, che è di non più di 2 (due) secondi. Ma è l’ultimo sussulto eroico. Dopo il quale Alex racconta che, nell’ultima missione, ha bombardato una scuola coranica uccidendo dei bambini.
Alex ci tiene a chiarire subito che non è tormentato dalla colpa e, per dimostrarlo, dichiara che dorme bene di notte, come un bambino. Però ha preso un periodo di riposo dal suo lavoro di pilota. Perché? Perché, parole sue, è morto. E qui inizia un secondo racconto, mentre la storia della scuola coranica e dei bambini uccisi rimane lì, misteriosa e minacciosa.
In che senso Alex è morto? Nel senso che, tornato dalla missione, è uscito a fare jogging con un amico. E ha corso così tanto da procurarsi un infarto. Infarto così grave che, dice Alex, in quella situazione si ha solo il 3% o meno di probabilità di sopravvivere. E Alex è sopravvissuto e, ancora una volta, si compiace di questa ulteriore prova delle sue qualità fisiche, ormai superumane. Per salvarlo, infatti, i medici lo avevano infilato in una tuta termica che lo ha in qualche modo congelato (confesso una mia ignoranza: non so se un simile attrezzo esista davvero, su internet non ho trovato nulla). Alex ci è rimasto dentro 48 ore e –come sottolinea lui stesso- anche questo è un record.
Salvatosi da questo strano episodio, arriva il terzo colpo di scena, che è poi il motivo per cui Alex si è presentato dal dott. Weston (o almeno, lui se la racconta così). Alex non cerca una terapia, vuole solo un parere professionale. Ha deciso di tornare a Baghdad in incognito per visitare le macerie della scuola bombardata e vuole sapere da Paul che ne pensa.
Che dire? Paul non gli risponde direttamente, e fa bene. La richiesta di Alex è estremamente confusa. Nega ogni sentimento di colpa proclamando che lui ha solo eseguito degli ordini, nega di voler tornare a Baghdad sul luogo del disastro per espiare il suo tormento, nega anche di essersi procurato l’infarto quasi volontariamente correndo come un matto per chilometri e nega anche che quasi tentativo di farsi fuori sia stato un modo per punirsi. Insomma, nega tutto, nasconde tutto sotto il compiacimento delle sue qualità superumane e desidera solo un parere. Un parere psicologico su un’azione, ma negando ogni significato psicologico a questa azione.
Insomma, siamo di fronte a una grande difficoltà di concordare un contratto terapeutico chiaro con questo paziente.
Alex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico. In particolare sembra frequentemente sfuggirgli la regola che la terapia è trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali. Sembra una banalità, ma per molti pazienti non è così chiaro. Per molti pazienti l’esplorazione delle convinzioni distorte e dei propri stati mentali (o dei propri fantasmi inconsci, direbbe Paul Weston) significa rinunciare a una serie di altre convinzioni sul proprio malessere, ovvero teorie naif sulla propria sofferenza, che spiegano i problemi psicologici in termini di responsabilità del mondo o degli altri.
Insomma, alcuni pazienti si presentano al clinico come se non fossero disposti a un’alleanza curativa. È fondamentale che ci si renda conto che non sempre la presenza del paziente in studio, seduto davanti allo psicoterapista, vuol dire che egli abbia la volontà o la capacità di costruire un’alleanza di tipo clinico con il terapista. In altre parole alcuni pazienti portano in terapia domande di terapia non formulate in termini psicologici:
Ce l’hanno tutti con me (perché non va da un avvocato?)
Ho sempre mal di testa (perché non va dal neurologo?)
Mi si è ristretto lo stomaco (perché non va dal gastroenterologo?)
Sono tutti stupidi (perché non fonda un movimento culturale?)
Sono tutti cattivi (perché non fonda un movimento sociale, politico, religioso?)
È tutto sbagliato (perché non fa tutte le cose menzionate insieme?)
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Il problema del contratto un tempo era meno sentito in psicoterapia. Per gli analisti ogni accordo esplicito era sempre una difesa, essendo il paziente del tutto preda inconsapevole delle sue pulsioni e delle sue difese. Per i cognitivisti la situazioni era opposta: il paziente è tendenzialmente ragionevole e razionale e viene in terapia per ragionare sui suoi stati d’animo e ristrutturarli. Per un cognitivista classico era inimmaginabile pensare che il paziente voglia sottrarsi alla terapia: puzzava di inconscio.
Oggi invece si riconosce che per molti pazienti è bene chiarire e concordare le regole. La tecnica terapeutica descritta da Clarkin, Yeomans e Kernberg (1999) è tutta incentrata sulle regole del contratto e sulla analisi di tutti gli “sgarri” del paziente (o del terapeuta stesso). Ogni violazione è interpretata come manifestazione di quelle stesse difficoltà relazionali che sono oggetto del trattamento.
In questo Paul Weston sembra un analista vecchio stampo: inizia ad ascoltare il racconto di Alex senza dare alcuna direttiva. Alla fine dell’episodio Alex si congeda e va incontro al suo destino.
Oggigiorno, il problema della violenza domestica affligge centinaia di migliaia di persone nel Mondo e ogni anno la percentuale di donne che subiscono violenze e sevizie all’interno delle mura domestiche aumenta considerevolmente. In Italia, solo nel 2012, il 72% delle donne dichiara di essere stata vittima di violenza psicologica e il 44% di aver subito violenza fisica. Nell’85% dei casi, queste violenze vengono perpetrate dal partner. Le ripetute violenze fisiche e sessuali, talvolta, possono causare l’esordio e la persistenza di disturbi di natura mentale e, viceversa, uomini e donne con disturbi mentali possono essere più frequentemente coinvolti in episodi di violenza domestica: la relazione tra violenza e malattia mentale sarebbe, dunque, bidirezionale.
A questo proposito, è stata condotta una metanalisi presso il King’s College London’s Institute of Psychiatry per verificare se le persone affette da disturbi mentali avessero maggiori probabilità di andare incontro a episodi di violenza domestica.
Precedenti studi avevano già indagato sulla relazione tra violenza domestica e problemi di salute mentale, ma si erano focalizzati esclusivamente sulla depressione. Questo, invece, è il primo studio che prende in considerazione un’ampia gamma di problemi mentali sia nelle donne che negli uomini che risultano vittime di violenze domestiche. Sono stati utilizzati 18 database delle scienze biomediche e sociali (tra cui MEDLINE, EMBASE, PsycINFO), ricerche e articoli pubblicati e riguardanti la vittimizzazione e i disturbi mentali. Sono stati inclusi nella ricerca studi osservazionali e sperimentali che si sono occupati della violenza domestica su soggetti di età superiore ai 16 anni e dell’eventuale relazione con i disturbi mentali rilevati attraverso strumenti diagnostici scientificamente validati. Per quanto riguarda il tipo di violenza subita, sono stati considerati studi che si sono occupati di violenze fisiche, sessuali e psicologiche. Complessivamente, sono stati inclusi nella matanalisi 41 studi.
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Dai risultati è emerso che esiste un più alto rischio di esperire violenze da parte del partner per le donne con disturbi depressivi, ansiosi e post-traumatici rispetto alle donne senza alcun disturbo mentale. In particolare, le donne depresse hanno una probabilità due volte e mezzo superiore di essere vittime di violenze domestiche, rispetto alle donne senza disordini mentali.
La probabilità è ancora più alta se si considerano i disturbi ansiosi (3 volte e mezzo) e i disturbi post-traumatici (7 volte). Anche donne con disturbo bipolare o disturbo ossessivo compulsivo o con disturbi alimentari sembrerebbero essere più frequentemente vittime di violenze rispetto a coloro che non presentano alcun disturbo psichico. E’, inoltre, emerso che anche gli uomini con patologie psichiche hanno un rischio maggiore di essere coinvolti in violenze domestiche, ma le stime emerse indicano una incidenza minore e una probabilità inferiore rispetto alle donne.
Gli studi hanno, inoltre, confermato la bidirezionalità della relazione tra violenza domestica e disturbi mentali, nonostante non sia possibile indicarne la causalità.
Gli Autori, infine, aggiungono che successivi studi longitudinali potrebbero verificare se eventuali ricoveri per coloro che presentano gravi patologie psichiche possano essere utili per prevenire episodi di violenza domestica.