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Storie di Terapia #18 – Marino, il Ragazzo Prodigio

 

Storie di Terapia #18

Marino, il Ragazzo Prodigio

Storie di Terapia #18 - Marino il Ragazzo Prodigio. - Immagine: © kuco Fotolia.com

Marino è uno dei pazienti in cui è più forte la differenza tra aspetto esteriore e quello che si agita dentro di lui.

Marino era un giovane, poi un adulto e ora quasi un anziano che ho visto saltuariamente per quasi trent’anni. Ad accompagnarlo, nel corso della sua dolorosa esistenza, è stato soprattutto un mio carissimo collega cui lo affidai dopo il primo contatto con me, avvenuto in emergenza. Adesso le parti si sono invertite ed è il collega a chiedermi, a distanza di anni, di dare un’ “aggiustatina” alla terapia farmacologica,  che non ha mai sospeso: non lo ha mai guarito, ma ogni volta che è stata interrotta emergono le laceranti angosce deliranti di Marino.

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Marino è uno dei pazienti in cui è più forte la differenza tra l’aspetto esteriore e quello che si agita dentro di lui. Apparentemente si presenta come un ragazzo, poi adulto, infine anziano, di buona famiglia e di ottima educazione, capace di gentilezze di altri tempi fin troppo manierate, una persona di ottima cultura classica, con interessi molteplici su cui intrattiene amabili conversazioni. L’aspetto del rampollo di una famiglia che fu benestante, impegnata da tempo a gestire un declino irreversibile: pettinatura (fin quando ci sono stati i capelli) fuori moda con una riga a destra eredità del nonno, gran cavaliere del lavoro, che aveva costruito le fortune della famiglia costruendo orribili dormitori alla periferia della città, negli anni del boom economico; vestiti sempre eleganti, ma di una taglia più piccola, dall’aspetto vissuto a denunciarne l’origine paterna.

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L’impressione che ho sempre ricavato, sin dal primo incontro con Marino, è che fosse fuori posto. Il guaio è che la stessa profonda sensazione di estraneità al consesso degli esseri umani la provasse lui stesso. Era costantemente imbarazzato e sembrava riuscisse a rapportarsi con me e gli altri solo attraverso un ragionamento interno sempre attivo, in cui si chiedeva cosa fosse opportuno dire o fare in quella circostanza. Quello che a tutti sembra venire assolutamente naturale per lui era frutto della consultazione mentale del codice del galateo. Ciò comportava una marcata lentezza e un assoluta mancanza di spontaneità. Darsi la mano in sincronia, alternarsi nella conversazione con un interlocutore senza sovrapporre parole e silenzi, scambiarsi un cenno di saluto con uno sguardo non erano per lui degli automatismi che non sappiamo dove abbiamo appreso ma guidano automaticamente il comportamento, ma compiti impegnativi e sconosciuti da risolvere con un ragionamento che conducesse ad una decisione.

Autoterapia del delirio. - Immagine: © Lucian Milasan - Fotolia.com
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Mi sono convinto nel tempo che l’essenza del dramma che ha accompagnato Marino per tutta l’esistenza fosse proprio questa estraneità radicale. Certo i deliri, le allucinazioni e gli agiti esplosivi erano l’aspetto più vistoso e inquietante, ma anch’essi mi sembravano radicarsi su questo nucleo di alterità irriducibile. Mi viene da dire che i deliri fossero il tentativo di spiegare e dare un senso a quanto gli fluiva intorno e che a lui appariva estraneo e incomprensibile, mentre per tutti gli altri era ovvio e scontato.

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Per mettermi nei suoi panni ho immaginato di essere in un paese straniero di cui non solo afferro malamente la lingua ma non conosco affatto le usanze, i costumi, le regole fondamentali del comportamento interpersonale. Immagino anche che una guida mi abbia informato sulla facilità e pericolosità di offendere gli abitanti e mi abbia consegnato un manuale con le regole da seguire, da leggere durante il volo aereo. Lasciato l’aeroporto e addentratomi nella città, cammino guardingo e sospettoso con il timore che un mio gesto o una frase inopportuna abbia l’effetto di spingere l’ interlocutore a farmi saltar via la testa con un solo ben assestato fendente.

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Marino viene portato per la prima volta da me intorno ai venticinque anni. Il giorno precedente è stato ricoverato in SPDC dopo aver sequestrato il suo capoufficio, minacciando di ucciderlo con un coltello. Mi spiega che si trattava di autodifesa perché il capoufficio era intenzionato ad ucciderlo. Per capire come si arriva all’episodio che costituisce il debutto psichiatrico di Marino sono necessarie notizie sulla sua storia.

E’ l’unico figlio di Marta e Giovanni. Marta a sua volta è l’unica figlia di una famiglia di artisti e artistoidi con una tendenza alla bizzarria e alla schizotipia. Il padre è violoncellista, la madre pittrice, uno zio poeta e un altro scultore, morto da poco in manicomio. Per la famiglia di Marta tutto ciò che non è arte è volgare e disprezzabile, per questo la famiglia è apertamente contraria al matrimonio con Giovanni, che gira su una fiammante Maserati ma è pur sempre figlio di un palazzinaro di origini abruzzesi. La contrarietà al matrimonio è altrettanto vivace nella famiglia di Giovanni che, radicata sui valori del lavoro e del fare soldi con il sacrificio, guarda con sospetto e disprezzo i sognanti e inconcludenti parenti di Marta.

  I due genitori con le rispettive famiglie schierate alle spalle si battono per la conquista dell’immaginario e del futuro di Marino. La madre riconosce in lui, sin da neonato, le tracce di una sensibilità che ne faranno un grande artista: il modo in cui impugna il biberon le fa intravedere un luminoso futuro da flautista, che lei ha preparato ascoltando musica classica a pancia scoperta per tutta la gravidanza. Giovanni non ha dubbi sul futuro da ingegnere, che un giorno sarà alla guida della azienda fondata dal nonno, la “Calceforte s.r.l.”: la  prova incontrovertibile è la sua passione per le costruzioni con il Lego. Entrambi i genitori sono estremamente di carattere e ciò genera conflitti costanti in ogni ambito della vita domestica, ma il centro della guerra è per la conquista del futuro di Marino.

Durante le elementari e le medie non mostra una particolare propensione allo studio e questo rappresenta un duro colpo per entrambi. Gli insuccessi di Marino rappresentano per loro un fallimento, una diminuzione personale. Lui vorrebbe fare il linguistico, Marta lo vuole al classico e Giovanni, naturalmente, allo scientifico che lui stesso ha frequentato. La disputa si risolve grazie all’apertura proprio in quell’anno di una sezione sperimentale, un ibrido tra classico e scientifico. Il rendimento di Marino è disastroso e non è chiaro se sia la conseguenza o piuttosto la causa di quanto avviene in famiglia. Marta si avvolge in una cupa depressione e cessa ogni rapporto sociale, sostenendo che i risultati del figlio la fanno vergognare  con le sue amiche e li nasconde ai familiari. Giovanni inizia una relazione clandestina con un’ operaia della ditta, di vent’anni più giovane, che gli prosciuga i conti, fino a costringere il padre e i cognati a intervenire, di fatto interdicendolo da ogni attività economica. La coppia è ripetutamente sul punto di separarsi ma resta unita per Marino che invece, in cuor suo, si augura una rapida risoluzione di quel legame falso e malamente ostentato. Prende la maturità per il rotto della cuffia con il minimo dei voti, in un liceo privato. Disorientato sul suo futuro e senza specifici interessi, cambia quattro facoltà in tre anni. A questo punto la famiglia decide che l’Università italiana è troppo scarsa per interessare Marino e valorizzarne gli immensi talenti e decide di indirizzarlo in costosissimi e qualificatissimi master. Nell’ordine, frequenta i seguenti corsi: “Giornalista e critico d’arte”, “Management aziendale e superamento delle congiunture economiche”, “Economia applicata ai mercati dell’arte”, “ Arti nuovi e nuovi mercati”.

Lui propone una laurea breve in fisioterapia ma ciò suscita riprovazione e disgusto. La sola idea che loro figlio tocchi con le mani il corpo deforme e malato di altri esseri umani fa rabbrividire sia Marta che Giovanni.

Tutti questi master, che si concludono con un attestato di frequenza,  non conducono a nessuna prospettiva lavorativa e Marino continua a vivere a casa e sulle spese dei genitori. Gli insuccessi scolastici e professionali non intaccano minimamente l’idea che i genitori hanno di Marino e che sta diventando l’idea che lui ha di se stesso. E’ considerato da loro e da sè come un genio assoluto incompreso ed ostacolato nell’esprimersi dalla mediocrità dell’ambiente in cui è costretto a vivere.

Uno zio paterno, preoccupato della situazione, si accorda con un suo amico sindacalista perché lo assuma in una sede del patronato con mansioni da usciere  tuttofare. Allo stipendio provvederà lui stesso, di nascosto, dando all’amico quanto poi lui consegnerà al nipote. E’ un inganno a fin di bene, lo zio vuole togliere il nipote dallo stato di nullafacente che trascorre in mostre e concerti e che gli consente di passare giornate intere a fantasticare di un futuro grandioso che lo aspetta e gli renderà giustizia.

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Contemporaneamente anche i rapporti sociali e affettivi di Marino sono insoddisfacenti, se non del tutto assenti. La sua difficoltà a rapportarsi in modo naturale e spontaneo con gli esseri umani è probabilmente una sua caratteristica innata aggravata, però, dall’idea di essere superiore a tutti gli altri, indegni e disprezzabili, e dal fatto di non riuscire mai a stare al passo. Di fatto ha al suo fianco compagni sempre nuovi e sconosciuti, resta indietro e gli altri lo sopravanzano, non  ha relazioni con coetanee e perde la verginità a ventisei anni per mano di Anita, una trentacinquenne dipendente della Calceforte s.r.l., che deve accompagnare a Milano per una commissione aziendale. Marino si innamora e continua a cercarla dopo il viaggio a Milano. Per liberarsi delle sue goffe attenzioni ai limiti dello stalking, dopo tre mesi Anita gli mostra l’assegno di mille euro ricevuto dal padre per portare a termine l’iniziazione sessuale del figlio.

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In quell’occasione prende la macchina del padre e la danneggia contro un muro sentendosi certo che, quell’assegno, il padre lo abbia dato ad Anita perché smettesse di frequentarlo, non essendo lei alla sua altezza. La passione per l’opera lirica deve aver facilitato l’utilizzo del tema della Traviata per la costruzione di questo suo primo delirio.

Il secondo episodio delirante è stato quello che lo ha condotto al ricovero e poi da me: il sindacalista presso il quale lavorava, nonostante non fosse lui a pagarlo, si sentiva in dovere di fornire una scuola di vita a quel ragazzo svampito e viziato, per questo lo rimproverava per i ritardi, le frequenti assenze e lo scarso rendimento. Marino rimase colpito dai rimproveri, che non era avvezzo a ricevere, e si chiuse in bagno a riflettere sull’accaduto. Non ci capiva più niente. Come poteva essere che un misero sindacalista potesse non essere soddisfatto di lui, genio multiforme con molteplici master alle spalle?  Doveva pur esserci una spiegazione a tanta stranezza. La spiegazione la trovò nel cassetto del sindacalista: c’era un giornale con cerchiato un titolo riguardante il segretario generale del sindacato ed un coltello che usava per sbucciare la frutta durante la pausa pranzo. Quei due elementi acquisirono per Marino un significato preciso che dava ragione del comportamento strano e dei rimproveri di Settimio, il suo capo. Settimio aspirava a fare carriera nel sindacato e a diventare segretario nazionale, ma quel ragazzo brillante e straordinariamente dotato che si era inserito nel suo ufficio, lo avrebbe scavalcato e sarebbe diventato segretario al suo posto. Per questo, aveva deciso di eliminarlo e cercava di attirarlo in una trappola mortale, lo voleva accoltellare una mattina presto prima dell’arrivo degli altri impiegati. Per questo lo rimproverava dei ritardi e lo sollecitava ad arrivare sempre prima al mattino. Fortunatamente, pensò Marino, la sua straordinaria intelligenza e sensibilità gli avevano permesso di avvedersi del complotto. Aveva perciò sequestrato il suo capo, utilizzando lo stesso coltello. Non voleva fargli del male, si  accontentava che, all’arrivo delle forze dell’ordine che sarebbero certamente accorse, Settimio confessasse le sue intenzioni riconoscendo il suo straordinario talento, che lo avevano fatto da lui invidiare sino a desiderarne la morte. Rimase enormemente disorientato quando gli infermieri scesi dall’ambulanza, invece di occuparsi dei graffi dei polsi di Settimio, provocati dal fil di ferro con cui lo aveva legato, si diressero verso di lui. Ricordava la voce suadente di un dottore che gli parlava all’orecchio con fare complice, poi un ago nel braccio e poi il nulla.

I genitori che presero contatto con me per programmare la presa in carico del figlio dopo la dimissione mi mostrarono, non volendo, l’essenza del problema in poche battute. Non mi dovevo presentare come uno psichiatra, che ciò avrebbe offeso la sensibilità del giovane, ma come uno psicologo ricercatore di un’ Università americana alla ricerca di giovani talenti con caratteristiche geniali, da selezionare per un progetto riservato e segretissimo. Come spesso capita a tutti quelli che fanno questo lavoro mi chiesi chi fosse davvero da curare e capii che tra poco sarei stato io, se non chiarivo immediatamente le cose e mi lasciavo avvolgere in questa trama confusa di menzogne e sotterfugi che, sempre a fin di bene, aveva già fatto ammattire il povero Marino. Raccolti alcuni dati anamnestici dissi loro che il figliolo mi sembrava un ragazzo normale che non aveva mai fatto i conti con la realtà, sospinto dalle loro straordinarie aspettative, elevatissime e inconciliabili. Aveva faticato come una bestia per corrispondervi ma proprio non ce la faceva. Aveva finito per crederci anche lui al mito del ragazzo prodigio e quando la realtà era venuta con le gambe di Settimio a bussare per portargli il conto, non aveva potuto far altro che sbattergli violentemente la porta in faccia. Ho avuto finora nella vita la fortuna di non essere mai stato presente al momento in cui un genitore apprende della morte di un figlio. Quello che vidi doveva però assomigliargli molto: in principio ci fu lo stupore, l’incredulità, quello speciale sconcerto dovuto ad un blocco della possibilità di comprendere che trapassa in una confusione angosciosa, l’opaca oscura matrice da cui emerge l abbagliante luce del delirio. Il viso di Marta si contrasse, preparandosi al singhiozzo disperato, mi parve una nera vedova contadina china sul corpo del figlio spirato. Giovanni venne in soccorso scatenando una tempesta di rabbia, io ero il colpevole messaggero della verità e, come  Settimio, andavo sbattuto fuori, sequestrato, se necessario ucciso pur di non far entrare un’ intollerabile verità.

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Provai una pena infinita e abbozzai un tremolante conforto. La presentazione delle mie condoglianze disattivò la rabbia e permise l’esondazione delle lacrime, un  abbraccio umido li ricompose dopo anni di guerriglia, l’oggetto del contendere non c’era più, il ragazzo straordinario, ingegnere o artista, era morto e restava un figlio da conoscere ed amare.

  Quando lo incontrai la prima volta, Marino era ancora un bel ragazzo dall’evidente passato sportivo, alto un metro e ottanta, magro ma atletico. Accettava volentieri il colloquio, mostrandosi interessato a porre domande su quanto gli fosse accaduto, era critico e stupefatto, l’emozione predominante era la vergogna. Questa emozione, forte e prevalente, non mi permise di cogliere un imbarazzo di base, di cui ho già parlato precedentemente, che costituiva un elemento nucleare dell’esperienza interpersonale di Marino. Seppure non fosse il genio che volevano fosse, era una persona sensibile, intelligente e capace di attenta consapevolezza. Raccontò la sua storia di vita, identificando lui stesso il tema dolente. Evidentemente vi aveva riflettuto già per proprio conto. La narrazione era organizzata intorno al tema metaforico della confluenza dei fiumi. Lui era esattamente nel punto d’incontro di due grandi fiumi rappresentati dalle tradizioni familiari materna, artistica, e paterna, imprenditoriale. Entrambi erano ricche e impetuose, insieme erano incontenibili per gli argini e lui era stato travolto ed aveva esondato.

L’obiettivo che concordammo fu di liberarsi dalle aspettative che altri avevano posto sulle sue spalle, per andare alla ricerca di cosa effettivamente volesse lui. Non fu facile dare la parola a Marino e far tacere “ciò che Marino doveva volere”; perfino la ricerca dei gusti semplici inerenti il cibo e la musica erano smarriti sotto una serie di imperativi su come essere, cosa pensare, come comportarsi. Pensai che in questo martellamento sul dover essere fosse una radice di quel senso di non spontaneità ed estraneità con il genere umano che, cessati i deliri, mi sembrava l’aspetto psicopatologico più rilevante e stabile.

Avevo il pregiudizio che avrei trovato nei genitori dei fieri oppositori e attivi sabotatori del mio lavoro. Non fu così. Quando capirono che il figlio poteva essere più felice, se libero di essere ciò che voleva, accettarono il disinvestimento su di lui.

Marta promosse un gruppetto di musica da camera e iniziò sistematiche fornicazioni con il violoncellista, un elegante mantovano single, nella capitale per motivi di lavoro. 

Giovanni frequentò i master che aveva in progetto per il figlio acquisendo una competenza che gli permise di uscire dall’ombra paterna e diventare il vero e indiscusso capo della Calceforti s.r.l. 

Marino pareva essersi tolto uno zaino pesantissimo dalle spalle, tant’è che sembrava più alto e dritto con la schiena. Fece un corso della Regione Lazio per assistente di fisioterapia e iniziò a lavorare in alcuni centri convenzionati. Non essendo laureato, non poteva trattare direttamente il corpo dei pazienti e si limitava alla gestione delle macchine su delega di un fisioterapista responsabile del procedimento. 

La sua vita procedeva soddisfacente e meditava di andare a vivere per conto proprio quando incontrò Donna. Lei aveva ventisette anni, tre meno di lui, e studiava in Italia proveniente da un paesino sperduto del Wyoming (USA). Galeotto fu un malleolo, distorto sciando durante le vacanze invernali. Donna aveva l’ovale del volto allungato, meditabondo e triste come quello della Madonna del Parto ed esprimeva lo stesso miscuglio di dolcezza infinita e struggente tristezza. Considerate le scarse capacità sociali di Marino credo che fu lei a prenderlo per mano. Iniziarono una convivenza il cui peso economico e organizzativo gravava prevalentemente su di lei.

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Un giorno volle fermarsi a parlare con me dopo aver accompagnato Marino al controllo bimensile e mi accennò alla propria drammatica storia. Forse era il senso di colpa del sopravvissuto ad averla spinta a prendersi cura della situazione di Marino che, anche nell’ottenebramento dell’innamoramento, non doveva essergli apparsa del tutto normale.

La sua era una famiglia di coltivatori, il padre aveva un piccolo allevamento di cavalli da tiro e la madre, quando era sobria, faceva la levatrice nel paesino che distava cinque miglia dalla loro casa isolata. Lei era stata abusata dal padre quando aveva compiuto i dodici anni e immaginava che la stessa sorte fosse toccata alla sorella di due anni più piccola. Poiché aveva anche un fratello di un anno più grande di lei che era schizofrenico, la situazione in famiglia era pesante e connotata dalla violenza e dalla paura. A vent’anni aveva parlato con il vescovo della sua diocesi, manifestando l’intenzione di prendere i voti e, per questo, era stata inviata nel collegio di Firenze dove sarebbe restata fino alla licenza in teologia. Poi il malleolo e Marino. I genitori non sapevano della sua rinuncia agli studi, il  padre non lo avrebbe mai saputo perché, nel frattempo, si era impiccato nel Giorno del Ringraziamento alla trave centrale della stalla, luogo preferito per gli incontri incestuosi.

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Sentita questa storia fui preso da furia eugenetica ed iniziai ad illustrare alla coppia tutti i più efficaci mezzi anticoncezionali. Un carcinoma uterino felicemente asportato l’anno successivo risolse radicalmente il problema.

La vita di Marino è proseguita per anni tra alti e bassi in senso letterale. Progressivamente ho sostituito, al basso dosaggio di mantenimento dei neurolettici, degli stabilizzatori perché si alternavano tre fasi. Una fase di sostanziale benessere in cui si guadagnava da vivere negli studi di fisioterapia e si riteneva un onesto professionista. Una seconda fase era quella che definimmo del “Marino professore”: i genitori gli rimediavano dei cicli di lezioni di anatomofisiologia da tenere in un liceo serale parificato per figli di ricchi somari. Quando entrava nella “fase del professore” era molto agitato e preparava minuziosamente le lezioni perdendo ore di sonno, si mostrava intransigente con sé e con gli allievi, pretendeva moltissimo  e, scherzando, aggiungeva “più o meno la perfezione”, diventava fiero del suo lavoro e ne parlava in continuazione, esaltando le meraviglie dell’insegnamento. Donna lo descriveva come uno che ha tirato la coca, diventando insaziabile di cibo come di sesso.

Poi, bastava che qualcuno lo contrariasse perché si scatenasse come una furia contro tutti e tutto, accusandoli di non comprenderlo e di ostacolare il suo talento. Normalmente finiva licenziato. Due volte tentò di togliersi la vita. I successivi quattro mesi li trascorreva a letto perdendo anche il lavoro di fisioterapista e Donna era la sua amorevole badante. Lo scompenso maniaco-depressivo veniva ciclicamente innescato da una visita dei genitori. Quando il periodo di benessere si protraeva da un po,’ si presentavano per un tè, portando i pasticcini e poi iniziavano: “certo il tuo lavoro va bene e ti puoi accontentare”, “siamo convinti che un secondo stipendio di integrazione non potrebbe che aiutarvi”, “poi noi lo sappiamo quanto sei bravo ad insegnare”, “da piccolo tutti ti chiamavano il professore”, “naturalmente prima di tutto viene la tua salute e se non te la senti…” , “però che peccato il tuo talento sprecato”.  Concordammo con Donna la strategia per respingere questi nefandi attacchi, creando una cintura sanitaria intorno a Marino quando intuiva l’imminenza di una visitina di cortesia dei suoceri.

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L’ultimo incontro con Marino mi ha intristito fino nelle ossa. Lo ha accompagnato Donna. Non è più la Madonna del Parto, ma una badante ingrigita e stanca che aspetta, ansiosa, la fine di tutto. Non riesce ad andare in giro da solo perché si perde in continuazione, anche dentro casa si confonde tra le tre stanze di cui è composta e gli capita di urinare in cucina e addormentarsi nel bagno, un fine tremore costante scuote i suoi oltre 110 kg.

Non ha ancora imparato la sincronia giusta per scambiarsi una stretta di mano, sul suo volto, gonfio da cortisone e sudato, si affacciano gli occhi azzurri porcini come non ricordavo fossero, guardano il nulla e sembrano porre una domanda “perché?” Ma non c’è bisogno di rispondere, non capisce più niente…

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Tratti Psicopatici & Presidenti USA

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Presidenti USA: I risultati dello studio sono stati sbalorditivi: alcuni tratti della personalità psicopatica, che generalmente sono segnali di un disadattamento sociale, sono contrariamente associati ad una buona capacità di governare.

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Gli elementi caratteristici della psicopatia sono deficit di empatia e di rimorso, inadeguatezza delle relazioni interpersonali, mancanza del controllo degli impulsi, egocentrismo, inganno e falsificazione delle emozioni . Gli individui psicopatici possono assumere comportamenti devianti e compiere atti violenti nei confronti degli altri. Il DSM-IV include questo concetto nella diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità.

Sebbene la personalità psicopatica sia genericamente incline all’aggressività, vi sono alcuni casi in cui si rileverebbe adatta ad affrontare determinate situazioni, oltre che a occupare posizioni di comando. Questa ipotesi è stata avanzata da un gruppo di ricercatori guidati da Scott Lilienfeld, professore di psicologia della Emory University di Atlanta, in uno studio apparso sul “Journal of Personality and Social Psychology”.

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I risultati finali sono stati sbalorditivi: alcuni tratti della personalità psicopatica, che generalmente sono segnali di un disadattamento sociale, sono contrariamente associati ad una buona capacità di governare.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
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L’assenza di paura e la tendenza a dominare gli altri entrerebbero quindi nel background del leader di successo.

La ricerca svolta da Lilienfeld è basata su stime tratte da dati di più di cento storici e biografi dei Presidenti USA della Casa Bianca, raccolti a loro volta dai due storici Steve Rubenzer e Tom Faschingbauer. I dati riguardanti le personalità, l’intelligenza e i comportamenti dei 42 Presidenti USA, sono stati poi confrontati con la capacità di leadership dimostrata nel corso dei loro rispettivi mandati e con il manuale di psichiatria.

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Da un’analisi statistica rigorosa è emerso che  la determinazione e la spregiudicatezza nel mantenere la posizione dominante, che rinvia alla sfrontatezza associata alla personalità psicopatica, sono collegate a migliori risultati della presidenza. Valutato in termini soggettivi, questo riguarda la capacità di leadership, di persuasione e una gestione migliore delle crisi e dei rapporti con i membri del parlamento statunitense. In termini oggettivi, invece, ciò interessa la capacità di avviare nuovi progetti.

Contrariamente, alcuni tratti psicopatici legati ai comportamenti antisociali e impulsivi sono meno funzionali e quindi sono associati a cattive prestazioni dei presidenti USA. Per fare alcuni esempi possiamo riportare il fatto di essere incorsi in una procedura di impeachment o l’aver tollerato comportamenti poco etici dei subalterni.

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Concludendo, l’assenza di scrupoli e l’immunità alla paura sembrano essere un fattore predittivo importante per la capacità di governare. Esso sembra accomunare grandi presidenti USA quali JFK, George W. Bush, Theodore Roosevelt e Bill Clinton passando per Ronald Reagan e Andrew Jackson. Una domanda che possiamo porci alla luce dei risultati ottenuti e di quanto affermato, è se essere buoni presidenti USA significhi, in parte, essere psicopatici?

Lilienfeld ha chiarito ad un’intervista concessa a Scientific American: “Non bisogna fraintendere: la spavalderia è uno dei tratti di una personalità psicopatica, ma non direi che chi è molto spavaldo è un parziale psicopatico. La psicopatia si configura quando a questo tratto si associa una cattiva gestione degli impulsi e l’egocentrismo; senza questi non si può parlare di psicopatia. E vorrei sottolineare che i tratti di cattiva gestione degli impulsi e di egocentrismo, insieme ad altri tratti correlati, non sono collegati a buoni risultati nel mandato presidenziale”.

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 PSICOLOGIA POLITICA – DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’PSICOPATIA –  VIOLENZA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Aspettare per il Primo Rapporto Sessuale? Forse Conviene!

di Alessia Offredi

Aspettare per il Primo Rapporto Sessuale? Forse Conviene!. - Immagine: © majesticca Fotolia.comUna recente ricerca dimostra che avere il primo rapporto sessuale dopo i 19 anni è predittivo di alti livelli di soddisfazione di coppia.

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La maturazione sessuale e affettiva è uno dei numerosi compiti evolutivi che vengono affrontati durante l’adolescenza. Da una prospettiva socio-evolutiva, le relazioni affettive in adolescenza sono preziose opportunità per imparare a comunicare in modo efficace con il partner e a regolare adeguatamente le proprie emozioni (Shulman, 2003).

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K. Paige Harden ha  voluto indagare più specificatamente se la tempistica del primo rapporto sessuale fosse associata a determinati modelli di unioni affettive, maggior numero di partner e alta qualità delle relazioni sentimentali in età adulta, al netto di fattori genetici o ambientali. Per rispondere a questo quesito sono state seguite più di 1500 coppie di fratelli, dall’adolescenza all’età adulta. In una prima fase sono stati raccolti i dati riguardanti l’età del primo rapporto sessuale, l’aspetto fisico e le caratteristiche di personalità dei soggetti. Successivamente sono stati invece analizzati il tipo di unione formata (sposati, conviventi, …), il numero di relazioni affettive vissute, il grado di soddisfacimento riguardo la propria relazione e i fattori demografici  (reddito, scolarità, religiosità).

Amore online: relazioni reali con match virtuali. - Immagine: © Costanza Prinetti 2012.
Articolo consigliato: Amore online: relazioni reali con match virtuali

Dai risultati emerge che l’età in cui si ha il primo rapporto sessuale è predittiva dei livelli di qualità e stabilità delle relazioni affettive nella giovane età adulta: tra i partecipanti che convivevano o erano sposati, coloro che avevano avuto il primo rapporto sessuale dopo i 19 anni riportavano gradi di insoddisfazione affettiva molto più bassi rispetto a coloro che avevano avuto il primo rapporto durante l’adolescenza. D’altro canto, coloro che avevano riportato la prima esperienza sessuale in tarda età avevano anche minor probabilità di costruire una relazione affettiva. Tuttavia, non è stato indagato se questi dati rimangano tali anche dopo la prima età adulta, o se siano da considerarsi validi anche per relazioni affettive iniziate più avanti nel tempo.

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 Il meccanismo attraverso cui l’età del primo rapporto influenzerebbe la soddisfazione nei rapporti affettivi rimane da chiarire, ma a tal proposito si sono avanzate alcune ipotesi. Innanzitutto, avere il primo rapporto dopo i 19 anni potrebbe essere un indicatore di caratteristiche interpersonali, come lo sviluppo di un adattamento sicuro o forti capacità di auto-regolazione, elementi che potrebbero influenzare il grado di soddisfacimento della relazione. Inoltre, l’età troppo precoce o troppo tardiva del primo rapporto sessuale potrebbe essere una conseguenza di specifiche esperienze vissute in adolescenza, che condizionerebbero la qualità delle relazioni sentimentali in età adulta. Infine, la maturazione da un punto di vista cognitivo e affettivo, raggiunta solitamente alla fine dell’adolescenza, potrebbe portare a vivere con maggior consapevolezza le relazioni sentimentali.

 

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BIBLIOGRAFIA

Il Colloquio Psicologico – Introduzione

Anni fa, lungo il percorso che mi ha condotto a diventare uno psicoterapeuta, scrissi questo elaborato affascinato dagli insegnamenti del Manuale del Guerriero della Luce di Coelho. Lo rileggo oggi dopo quasi dieci anni e ancora, in molte di quelle parole ritrovo un forte stimolo alla costante riflessione circa il nostro ruolo in terapia e anche in società. Ve lo propongo com’era, nell’intenzione che possa offrire a voi come a me sintetiche pillole di saggezza e qualche riflessione.

Il Colloquio Psicologico

Introduzione

 

“A volte il guerriero della luce si comporta come l’acqua, e fluisce fra gli ostacoli che incontra.

In certi momenti, resistere significa venire distrutto. Allora egli si adatta alle circostanze. Accetta, senza lagnarsi, che le pietre del cammino traccino la sua rotta attraverso le montagne. 

In questo consiste la forza dell’acqua: non potrà mai essere spezzata da un martello, o ferita da un coltello. La più potente spada del mondo non potrà mai lasciare alcuna cicatrice sulla sua superficie.

L’acqua di un fiume si adatta al cammino possibile, senza dimenticare il proprio obiettivo: il mare. Fragile alla sorgente, a poco a poco acquista la forza degli altri fiumi che incontra.”

[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.53]

 

Il Colloquio Psicologico - Introduzione. - Immagine: © emiliau - Fotolia.com

L’avvio del rapporto con il cliente e il primo colloquio sono momenti delicati e ardui da affrontare, in cui si decide molto del futuro della terapia.

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Il guerriero della luce di Coelho è come l’acqua. Non viene colpito o ferito dalle esperienze vissute. Non vi reagisce con atteggiamenti negativi, ma si adatta, cercando di perseguire, nei limiti imposti dalla realtà, i suoi obiettivi. Egli non si oppone, non resiste, ma si adatta. Qui, più che altrove, appare palese l’associazione tra il comportamento del guerriero della luce e quello della persona assertiva. Per questo risulta così efficace associare queste stesse parole al ruolo del terapeuta nel colloquio psicologico.

Anche lo psicologo deve apprendere ad essere come l’acqua. Deve essere in grado di evitare le difficoltà generate dalle resistenze del cliente, attraversarle senza scontrarsi con esse (“…fluisce fra gli ostacoli che incontra”). Deve lasciare il flusso della comunicazioni nelle mani del cliente, adattandosi ad esso senza imporre alcun argomento, senza imporre alcuna definizione (“Allora egli si adatta alle circostanze, Accetta, senza lagnarsi, che le pietre del cammino traccino la sua rotta attraverso le montagne”).

La condivisione in psicoterapia. - Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.com
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Evitando queste imposizioni, evita lo scontro aperto con il cliente, che distruggerebbe il percorso terapeutico (“In questo consiste la forza dell’acqua: non potrà mai essere spezzata da un martello…”). Il suo compito è quello di trasmettere nuove informazioni, riflettendo e parafrasando ciò che dice il cliente, mostrando nuove prospettive e provocando una reazione di insight. Questa è un’esperienza alla base sia del rapporto di fiducia, che della negoziazione per una definizione comune del problema e degli obiettivi (“L’acqua di un fiume si adatta al cammino possibile, senza dimenticare il proprio obiettivo: il mare”).

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L’avvio del rapporto con il cliente e il primo colloquio sono momenti delicati e ardui da affrontare, in cui si decide molto del futuro della terapia. Una volta che il rapporto di fiducia è costruito, che il cliente è riuscito a scoprire prospettive alternative, che si è raggiunta una comune definizione di problema e obiettivi fino alla stipulazione di un contratto, il percorso diventa meno tortuoso, e la forza del terapeuta aumenta (“Fragile alla sorgente, a poco a poco acquista la forza degli altri fiumi che incontra”).

Il parallelismo tra il comportamento del guerriero della luce e quello dello psicologo nel corso di un colloquio psicologico è evidente. Ma la metafora di Coelho va molto al di là. Il guerriero della luce non è solo una rappresentazione metaforica del comportamento corretto del terapeuta. Rappresenta anche un modo di essere assertivo, uno stile di comportamento rispettoso nei confronti di sé stesso e degli altri, né passivo, né aggressivo. E, proprio per questo, dovrebbe appartenere almeno in parte al modo di essere del cliente, una volta terminata la terapia.

Il terapeuta/guerriero della luce ha il compito di far emergere (piuttosto che estrarre) il guerriero della luce dal cliente. In questo senso assume anche un ruolo di insegnante, dal quale il cliente apprende molto, anche sugli aspetti piacevoli di una relazione interpersonale, basata sull’accettazione incondizionata.

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Se la terapia ha successo il cliente raggiunge una maggior consapevolezza delle conseguenze del proprio comportamento e delle proprie reazioni nei rapporti interpersonali. Queste consapevolezze sono la base del suo cambiamento, di cui egli è l’attore. Inizierà a modificare il proprio comportamento e, a questi cambiamenti, seguiranno reazioni diverse, e positive, da parte dell’ambiente che lo circonda. Questo è il meccanismo attraverso il quale il guerriero della luce inizia ad emergere. Il guerriero non è quindi uno stato definitivo che deve essere raggiunto, è più qualcosa interno a ciascuno di noi che può essere lentamente fatto emergere, senza tuttavia riuscire mai a scoprirlo del tutto. 

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Queste sono le due facce della metafora del guerriero della luce prese in analisi in questo scritto. Associata sia al psicologo che al cliente che, di fatto, a ciascuno di noi.

LE TEORIE DEL COLLOQUIO PSICOLOGICO

“Un guerriero sa che un angelo e un demonio si contendono la mano che impugna la spada.

Dice il demonio:<Tu cederai. Non individuerai il momento giusto. Hai paura.>

Dice l’angelo: <Tu cederai. Non individuerai il momento giusto. Hai paura.>

Il guerriero è sorpreso. Hanno detto tutti e due la stessa cosa.

Poi il demonio continua: <Lascia che ti aiuti>.

E l’angelo dice: <Ti aiuto io.>

A questo punto, il guerriero avverte la differenza. Le parole sono le stesse, ma gli alleati sono diversi.”

[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.81]

Non esiste un unico tipo di colloquio psicologico. Diversi autori hanno sottolineato diversi aspetti della comunicazionetra terapeuta e cliente distinguendosi soprattutto lungo un continuum che pone ai suoi estremi approcci totalmente direttivi e totalmente non-direttivi.

Boston Process Change Study Group. Il cambiamento in psicoterapia. Raffaello Cortina Editore.
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Nei primi il terapeuta cerca di raggiungere il controllo delle prospettive disfunzionali del cliente, imponendo consapevolezza e accettazione di una realtà che non può vedere o ammettere e presupponendo l’esistenza di deficit nel cliente. In questo caso il terapeuta cerca di intervenire fornendo adeguate informazioni e dicendo al cliente ciò che deve fare [Leoni, 2003].

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Negli approcci non-direttivi il terapeuta svolge una funzione di specchio e mantiene un focus centrato principalmente sulla persona e sulla necessità di fornirle un supporto che la sostenga nel percorso di uscita dalla rete di stereotipi in cui è imprigionata.

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Ovviamente tra queste due posizioni sul modo di affrontare il colloquio psicologico esistono diverse alternative intermedie. Lo scopo di questi articoli è quello di fornire un quadro di base sulle principali teorie del colloquio psicologico, un inquadramento teorico di base, utile a ricordare la presenza di diversi punti di vista e le possibili alternative nel modo di affrontare una comunicazione terapeutica.

Negli articoli seguenti verranno prese in considerazione, prima di tutto, le teorie principali sul colloquio psicologico. I concetti alla base di queste teorie verranno poi estratti ed associati alla metafora del guerriero della luce per individuare alcuni principi di base su cui deve fondarsi l’azione dello psicologo. Si passerà poi a una descrizione dell’aspetto più pratico del colloquio soffermandosi, prima, sulle tappe e sugli obiettivi che devono essere raggiunti in terapia, poi, sui mezzi che si deve usare per ottenerli.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

La Nostalgia… Ci Scalda!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNostalgia: secondo una recente ricerca, ricordare i bei tempi andati è un modo efficace per riscaldarci nelle fredde giornate invernali.

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Lo studio, pubblicato sulla rivista Emotion®, ha studiato gli effetti di sentimenti nostalgici sulla reazione al freddo e sulla percezione del calore. I volontari, studenti universitari Cinesi e Olandesi, hanno partecipato a uno dei cinque studi effettuati.

Nel primo studio veniva chiesto ai partecipanti di riferire i sentimenti nostalgici provati nell’arco di 30 giorni. I risultati indicano che che la nostalgia è più frequente nelle giornate più fredde. Nel secondo studio i partecipanti potevano trovarsi in una di tre sale con temperature diverse: fredda (20 ˚C), confortevole (24 ˚C) e calda (28 ˚C), veniva poi misurato quanto si sentivano nostalgici. Anche in questo caso la nostalgia era più frequente in chi si trovava nella stanza fredda, mentre non c’erano differenze in chi si trovava nelle due stanze più calde. 

Vasi comunicanti. il dialogo tra mente e corpo. - Immagine: © freshidea - Fotolia.com
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Il terzo studio, condotto online, ha usato la musica per evocare nostalgia e verificarne un legame con sensazioni di calore. In questo caso i partecipanti che hanno riferito sentimenti nostalgici hanno anche sperimentato un maggiore calore corporeo in corrispondenza dei ricordi evocati dalla musica.

Il quarto studio ha testato l’effetto della nostalgia sulla sensazione di calore fisico mettendo i partecipanti in una stanza fredda e istruendoli a rievocare sia un evento nostalgico che uno ordinario del loro passato. Successivamente gli è stato chiesto di indovinare la temperatura della stanza nella quale si trovavano. Coloro che hanno  ricordato un evento nostalgico riferivano anche temperature più alte.

Nel quinto e ultimo studio i partecipanti dovevano nuovamente rievocare un evento nostalgico e uno ordinario del loro passato e poi immergere la mano nell’acqua ghiacciata per vedere quanto tempo avrebbero potuto sopportarlo. Chi aveva provato sentimenti nostalgici riusciva anche a tenere la mano più a lungo immersa nell’acqua ghiacciata.

Questo studio mostra che la nostalgia non solo è in grado di provocare un conforto psicologico ed emotivo, ma anche fisico. Sembra che la nostalgia abbia una funzione omeostatica, che permette di elicitare stati mentali positivi vissuti nel passato, compresi gli stati di comfort del corpo, e questo fa sentire più caldi o aumenta la nostra tolleranza al freddo. Ulteriori ricerche sono ora necessarie per vedere se la nostalgia può combattere altre forme di disagio fisico, oltre alla bassa temperatura.

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BIBLIOGRAFIA:

La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta

 

La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta. - Immagine: © olly - Fotolia.com

La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione.

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La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target (Fonagy et al., 1991; Fonagy, Target, 2001) e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione(Fonagy et al., 2002; Fonagy, Target, 2003), col quale ci riferiamo alla capacità dell’individuo di rappresentarsi i propri comportamenti e quelli degli altri come frutto di intenzioni, desideri, scopi, più in generale come risultante di stati mentali specifici.

Se la relazione con le figure di attaccamento è povera di sintonizzazione emotiva, se i genitori non mentalizzano i bisogni del figlio e non riescono perciò a fornire risposte adeguate, il bambino viene esposto ad un’esperienza prolungata di mancato riconoscimento; in particolare, quando la relazione di attaccamento non coinvolge il bambino come individuo pensato pensante – dotato cioè di intenzionalità complessa nella rappresentazione del genitore – egli non sperimenta il rispecchiamento necessario alla costruzione della funzione riflessiva, poiché l’immagine che i genitori gli rimandano con i loro comportamenti e le loro reazioni non descrive un soggetto che ha scopi e vissuti psichici individuali, in grado di differenziarsi dalla mente dell’altro e di generare una rappresentazione autonoma dell’esperienza, bensì un bambino incapace di aderire alle richieste che gli vengono impartite e di adattarsi correttamente all’ambiente in cui vive.

Dexter - Immagine: Copyright © 2011 - Showtime
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Si creano perciò categorie rigide e non mentalizzate, per le quali il bambino è semplicemente cattivo, stupido o disobbediente; tale processo è sia fonte di sofferenza emotiva, dalla quale il soggetto si difende elaborando a sua volta rappresentazioni rigide dell’esperienza in cui è assente l’attribuzione di stati mentali evoluti a sé e all’altro, sia fattore predittivo della successiva incapacità di reagire a vissuti dolorosi o traumatici adottando modalità di fronteggiamento efficaci.

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Il fallimento della funzione riflessiva conduce infatti l’individuo a percepire eventuali maltrattamenti subiti o la carenza di cure genitoriali come conseguenza della propria indegnità; se l’abuso non viene ricondotto all’intenzionalità specifica di chi lo compie, i sentimenti di vergogna, di rabbia, l’identificazione con l’aggressore e lo sviluppo di modalità altrettanto violente nella vita adulta diventano elementi centrali nella descrizione clinica del trauma.

La funzione riflessiva può però fallire anche nel terapeuta, e in questo caso i rischi che coinvolgono il lavoro clinico sono molteplici. Baldoni (2008) ne sottolinea cinque: interpretazioni inappropriate o precoci; utilizzo difensivo della diagnosi; prescrizione impropria di farmaci; reazioni non mentalizzate del terapeuta (noia, ostilità, disinteresse, seduzione, umorismo); relazione sessuale o sentimentale con il paziente.

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In questi casi il fallimento della funzione riflessiva nel terapeuta porta a non considerare gli stati mentali del paziente, il quale potrebbe non essere ancora pronto ad accogliere nella propria struttura di conoscenza le interpretazioni che il clinico narcisisticamente esibisce, oppure chiede diagnosi e farmaci sulla spinta di bisogni propri – essere rassicurato sulla controllabilità del disturbo, ricevere un rifiuto alla richiesta di terapia farmacologica così da sentirsi in grado di affrontare il malessere con le proprie risorse – che il clinico non coglie.

Per quanto attiene alle emozioni del terapeuta, l’assenza di un’efficace funzione riflessiva porta a non riconoscere né gli stati mentali elicitati dalla relazione terapeutica né quelli derivati dal proprio vissuto personale, e questo compromette la possibilità di utilizzare confini relazionali appropriati all’interno del setting; nei casi più gravi la seduttività del paziente, che costituisce in realtà un’infantile richiesta di tenerezza, trova come risposta la messa in atto da parte del clinico di comportamenti che esprimono un linguaggio sessuale adulto, e una distonia affettiva di simile intensità espone il paziente al riemergere dei contenuti traumatici.

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BIBLIOGRAFIA:

Il Training Autogeno, Per Chi e Per Come!

Dott.ssa Tania Fedrici. Psicologa clinica

Il Training Autogeno, Per Chi e Per Come!. - Immagine: © Robert Kneschke - Fotolia.comIl training autogeno è un metodo di auto distensione mente-corpo che una volta acquisito, praticato ed allenato può essere di sostegno nelle situazioni di difficoltà.

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In primis è un metodo, cioè significa che consta di precise regole per l’apprendimento e, in quanto tale, di applicazioni ripetute nel corso del tempo perché risulti efficace.Il training autogeno è un metodo, appunto,  di auto-distensione, ciò significa che chiunque lo impari poi lo possa gestire in maniera autonoma in praticamente qualsiasi situazione e luogo. Ciò conferisce a colui o colei che lo apprende l’opportunità di avere un “asso nella manica” da utilizzare in estrema autonomia senza il bisogno di aiuto da parte di altre persone. Per apprendere ed utilizzare la tecnica ci vogliono diversi mesi ed è necessario inoltre mantenere fresca la tecnica nel corso del tempo una volta terminano il training di base.

Questo metodo, che non è il solo utilizzato, è stato introdotto per la prima volta negli anni trenta da Johannes Heinrich Schultz, psichiatra tedesco, e risulta essere il cugino delle ben più note meditazione ed ipnosi.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Il training autogeno è risultato essere uno strumento estremamente versatile ed utile in molteplici situazioni problematiche. In particolare è di aiuto in situazioni di ansia e stress nelle quali avvengono molte attivazioni a livello fisico ed emotivo. La finalità degli esercizi è quella di riuscire ad esercitare una maggiore controllo per prevenire l’acutizzarsi di questo tipo di reazioni che possono, se non controllate, sfociare in attacchi di panico con le relative conseguenze.

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Il training autogeno è inoltre indicato per problematiche legate all’insonnia e in tutte quelle manifestazioni dolorose acute quali l’emicrania dove l’aspetto psicosomatico risulta estremamente rilevante.

Altro ambito di applicazione del training autogeno è il settore sportivo, questa tecnica viene infatti utilizzata per stimolare e facilitare la concentrazione alla vigilia di importanti eventi sportivi.

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Risulta inoltre molto utile in casi di fobie specifiche come ad esempio la paura di volare ed è inoltre consigliato in casi di somatizzazioni quali disturbi gastrointestinali, disturbi della pelle e disturbi sessuali.

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Pur essendo estremamente versatile il training autogeno non è adatto a tutti, è infatti fortemente sconsigliato nelle patologie depressive e psicotiche. Un occhio di riguardo va dato nella pratica alle donne in stato di gravidanza che possono comunque avvicinarsi alla tecnica con alcune dovute accortezze, è infatti necessario apporre alcune modifiche nell’esecuzione dell’esercizio del calore e della pesantezza a causa della presenza di eventuali cambiamenti nel sistema circolatorio.  La pratica del training è inoltre controindicata per persone in fasi acute di cardiopatie, soprattutto in soggetti che hanno riportato infarti negli ultimi sei mesi. 

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La pratica del training autogeno necessità di abiti comodi e di un luogo preferibilmente protetto da rumori e luci intense. Gli esercizi si possono attuare in tre posizioni, la posizione sdraiata, la posizione seduta e la posizione del cocchiere. In genere la posizione privilegiata nella fase di apprendimento è quella distesa. Il soggetto deve sentirsi comodo e a proprio agio.

Stress: Un aiuto dallo Yoga - Immagine: © antoshkaforever - Fotolia.com
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Il primo passaggio è l’acquisizione della respirazione che generalmente è una respirazione diaframmatica e profonda che ossigenando i tessuti induce un primo stato di rilassamento psicofisiologico. Seguono poi i due esercizi di base chiamati: esercizio della calma, esercizio della pesantezza ed esercizio del calore. L’acquisizione e la padronanza di questi tre esercizi in aggiunta alla respirazione sono da considerarsi gli elementi base per la pratica del training.

A questi tre esercizi ne seguono altri tre che sono secondari ed aiutano a stabilizzare le sensazioni positive provocate dagli esercizi svolti precedentemente: l’esercizio della fronte fresca, l’esercizio del cuore e del plesso solare.

Al termine della sessione di training è inoltre buona prassi praticare degli esercizi di risveglio e recupero delle normali funzioni vitali, è consigliabile consentire a ciascun soggetto di prendersi il tempo necessario per quest’ultima fase.

Generalmente al termine di ciascuna sessione, svolta in sede di training o svolta a casa come esercitazione viene chiesto ai partecipanti un breve feedback riguardo all’esperienza appena conclusasi nella quali generalmente si approfondiscono le sensazioni fisiche e psichiche provate durante gli esercizi.

Per concludere questo metodo risulta essere efficace per la maggior parte delle persone e una volta applicato può essere interiorizzato come un utile e sempre disponibile strumento per far fronte ad alcune piccole o grandi difficoltà della vita quotidiana!

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BIBLIOGRAFIA:

Quali Pubblicità Scoraggiano l’Uso di Droghe e Alcool?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Quali messaggi pubblicitari riescono a scoraggiare abuso di droga e alcool o a dissuadere le persone dal commettere comportamenti a rischio?

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I messaggi negativi – come “la droga fa male” “con la droga danneggi il tuo organismo” – sembrano non avere effetto in questo senso. È’ quanto sostenuto dai ricercatori della Indiana University e della Wayne State University.

Utilizzando tecniche di neuroimaging, i ricercatori hanno esaminato l’impatto di diversi messaggi sul cervello individui dipendenti da droghe e sostanze e gli hanno comparati con gli effetti che hanno avuto gli stessi messaggi sul cervello di persone non dipendenti da droghe. Hanno anche cercato di determinare dove si inserisce il problema di comunicazione del messaggio nel circuito che si crea tra messaggio, cervello e comportamento. È nel rapporto tra attività cerebrale e comportamento o nell’impatto del messaggio sul cervello? Forse il cervello di persone dipendenti da droghe e sostanze è sensibile al rischio, ma la consapevolezza del rischio non guida il loro comportamento. O forse è proprio la percezione del messaggio ad essere distorta.

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Psicoterapia & Desiderio- Costi e Benefici del Pensiero Desiderante. - Immagine: © dpaint - Fotolia.com
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Per rispondere a queste domande, i partecipanti hanno preso parte ad un gioco virtuale, l’Iowa Gambling Task, spesso utilizzato negli studi psicologici sul processo decisionale. Quattro mazzi di carte appaiono su uno schermo, e ai partecipanti viene detto che la vincita è condizionata dalla scelta del mazzo. Il gruppo di soggetti dipendenti mostravano una minore risposta cerebrale a scritte che indicavano la minore probabilità di vincita in relazione alla scelta di alcuni mazzi di carte. I messaggi negativi portavano addirittura a decisioni peggiori e più rischiose nei soggetti dipendenti da droghe rispetto a quelli non dipendenti.  

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Questi risultati suggeriscono che il livello di attività cerebrale nelle regioni del cervello che valutano il rischio è più basso nei soggetti dipendenti da droghe o alcol rispetto a quelli non dipendenti. Questi due gruppi elaborano i messaggi in modo diverso, in particolare quei messaggi che sottolineano la perdita o deboli prospettive di guadagno.

 La ricerca contribuisce a una crescente mole di letteratura sulla informazione in materia si salute, che esamina l’impatto di particolari tipi di messaggi sui meccanismi neurali coinvolti nel prendere decisioni rischiose, oltre a fornire maggiori indizi su quali regioni del cervello si attivino in risposta al rischio e al pericolo. Una regione in particolare, la corteccia cingolata anteriore, è fortemente coinvolta in una serie di disturbi clinici, tra cui abuso di droghe, ADHD, autismo, schizofrenia e disturbo ossessivo-compulsivo.

LEGGI GLI ARTICOLI SULLA PSICOLOGIA DEI MEDIA

Forse una risposta a questi risultati può essere l’uso di messaggi pubblicitari che evidenzino i vantaggi di una vita sana piuttosto che gli svantaggi dell’uso di droghe o alcol, ma i ricercatori sottolineano che ancora non sappiamo se i messaggi positivi sono effettivamente più efficaci nel ridurre il consumo di sostanze, perché il loro esperimento ha considerato le decisioni relative al denaro, e non quelle relative a sostanze. 

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

DROGHE – DIPENDENZE – DECISION MAKING – PSICOLOGIA DEI MEDIA 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Memorie Olfattive: una Base Scientifica alla Sindrome di Proust

 

Di Alessia Offredi

Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa.

(M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, 1913)

Memorie Olfattive: una Base Scientifica al Fenomeno di Proust. - Immagine: © Igor Yaruta - Fotolia.comGli odori sono in grado di richiamare alla memoria episodi autobiografici in modo estremamente vivido, dettagliato ed emotivamente connotato (Chu & Downes, 2000): si tratta della famosa Sindrome di Proust, dal nome dell’autore che per primo descrisse un evento simile in relazione all’odore di una “maddalena”.

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L’olfatto sarebbe dunque una via d’accesso “privilegiata” rispetto agli altri canali sensoriali.

Diversi studi hanno dimostrato che nel disturbo post traumatico da stress, gli odori legati al trauma (come quelli di sangue o benzina) innescano nei pazienti memorie dettagliate, ancorate profondamente e durature nel tempo (Kline & Rausch, 1985; Vermetten & Bremner, 2003).

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La vicinanza anatomica del sistema olfattivo alle strutture deputate alle emozioni (amigdala) e alla memoria (ippocampo) è stata vista come un’ulteriore prova a favore della Sindrome di Proust (Lombion, Bechtoille, Nezelof & Millot, 2010). Per verificare se gli stimoli olfattivi siano effettivamente evocativi di memorie più vivide, emotivamente cariche e dettagliate rispetto a stimoli provenienti da altri canali sensoriali, Toffolo e colleghi hanno condotto un nuovo studio, analizzando in particolare le memorie avversive.  

Come i ricordi influenzano le emozioni. - Immagine: © adimas - Fotolia.com
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Al campione, composto da 70 donne, è stato chiesto di guardare un filmato contenente scene violente o spaventose, con la consegna di prestare massima attenzione al contenuto del video. Contestualmente alla visione del filmato, venivano diffuse nella stanza una fragranza, una luce colorata e una musica. Dopo la visione, veniva chiesto alle partecipanti di esprimere una valutazione sul film, riguardante l’aspetto emotivo, la vividezza delle immagini, la loro gradevolezza e il grado di attivazione provato durante la visione. Una settimana dopo i soggetti sono stati di nuovo intervistati sulle medesime scale, fornendo loro uno degli stimoli sensoriali percepiti durante il film.

Coloro a cui veniva riproposto lo stimolo olfattivo manifestavano un ricordo del video meno piacevole, più dettagliato e riportavano livelli più alti di arousal.

La sindrome di Proust non sembra essere apparentemente confermata in questo studio: i ricordi suscitati da stimoli olfattivi non sono stati descritti con parole prese in prestito dal lessico emotivo, o per lo meno non in modo significativamente differente dagli altri. Colpa del setting in laboratorio? Può essere.

Tuttavia, lo studio di Lang e colleghi (2000) riguardante l’umore ci permette di interpretare i risultati in maniera più scrupolosa. Secondo questi autori, l’umore è formato da una componente d’attivazione fisiologica e una di valenza edonica: nel presente studio si riscontra effettivamente una maggior attivazione dell’individuo in risposta a stimoli olfattivi e una minore piacevolezza dei ricordi innescati dagli odori.

In questa prospettiva, è lecito affermare che le memorie olfattive siano maggiormente connesse all’aspetto emotivo delle memorie visive o uditive, al contrario di quanto affermato precedentemente in letteratura (ad esempio, Sherer & Zentner, 2000). Si comprende bene dunque il motivo per cui Marcel Proust si sia immerso in ricordi dell’infanzia dai toni caldi e affettuosi: una ninna nanna forse non avrebbe avuto lo stesso effetto. Merito della “maddalena”. 

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BIBLIOGRAFIA: 

 

APPROFONDIMENTO: 

Pretese Pure, Fragili e Dipendenti: Frutto del Processo Evolutivo!

 

Pretese Pure, Fragili e Dipendenti: Frutto del Processo Evolutivo!. - Immagine: © luzitanija - Fotolia.comLEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

Le nostre pretese possono essere classificate non solo in base al contenuto ma anche in base alla loro natura nel processo evolutivo dell’individuo.

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Vediamo quali sono le tre grandi tipologie di pretese:

Pretese pure: dipendono da un percorso di scarso allenamento alla frustrazione. Sono tipiche per esempio dei bambini viziati o abituati ad aver tutto concesso. In questo modo il bisogno di essere educati ai limiti realistici, necessario per sviluppare una buona capacità di adattamento, non è sviluppato. I genitori sono tutori assoluti e il bambino non cresce nella necessaria abilità di sostenere i “no” e i rifiuti.

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Le pretese pure non si sviluppano come tentativo di far fronte a ciò che l’individuo percepisce come una minaccia, ma come una naturale espressione del modo di essere e di rapportarsi con gli altri appreso durante l’infanzia(es: basta pretendere che poi la soddisfazione arriva). Allo stesso modo non si sviluppa l’attitudine a considerare gli stati mentali altrui, a negoziare con i bisogni altrui e accettare che in questa negoziazione nessuno vince tutto il banco.

Accertare le credenze centrali. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Pretese fragili: al contrario delle precedenti nascono come protezione da una minaccia. In questo caso, la pretesa ha lo scopo di evitare anche il minimo rischio di finire in un dolore (conosciuto o meno in passato), vissuto come terribile e che non si è più disposti a toccare.  Si tratta per esempio di persone con tratti di narcisismo in cui l’aspetto grandioso e di pretesa di riconoscimento ha il solo scopo di tutelare la sensazione di inadeguatezza o deprivazione affettiva.

Pretese dipendenti: la costruzione delle pretese dipendenti è più complesso dei precedenti. In questa categoria si raccolgono tutte quelle pretese che nascono dalla percezione di essere a credito rispetto agli altri e al mondo. Alcuni individui possono aver scelto nella loro vita un piano di fatica e impegno per occuparsi degli altri, ottenere successo, soddisfare le aspettative dei genitori. Questo come un dovere autoimposto che li ha spinti a seguire regole assolute senza metterle mai in discussione. La conseguenza è vivere ciechi ai propri bisogni e desideri, schiacciati dai doveri e aspettative altrui. E dopo tutto questo la persona si mette a credito, in attesa della ricompensa giusta o dovuta.

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Per esempio l’attesa è che gli altri (1) si sacrifichino allo stesso modo, seguendo cioè i medesimi doveri, (2) siano obbligati ad offrire il premio atteso per l’enorme sforzo profuso (riconoscimento costante, attaccamento eterno, successo totale). Purtroppo però questa trasposizione dei propri doveri o delle proprie regole condizionate sulle altre persone (es: se io faccio X allora gli altri mi daranno Y) non funziona. Semplicemente perché gli altri possono (1) non vedere i propri sforzi, (2) non avere le medesime regole, (3) occuparsi legittimamente dei propri diritti.

Facciamo un piccolo esempio:

–        Io sono più bravo, e mi sono impegnato. Avrebbe dovuto scegliere me per quel lavoro

–        E cosa le dice che il suo capo avrebbe scelto in base alla bravura e all’impegno?

–        Non è così?

–        Possiamo fare qualche altra ipotesi? Mettiamo che sappia che lei è più bravo e si è impegnato di più. Come mai potrebbe aver scelto comunque l’altro?

–        L’altro è un chiacchierone, gli è di certo più simpatico e gli da sempre ragione.

–        Anche questi sono criteri che una persona può usare, nonostante per lei non siano corretti.

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In sintesi, le pretese possono avere strutture diverse che delineano obiettivi diversi…

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BIBLIOGRAFIA:

Il Materialismo e l’Impulsività: responsabili delle Dipendenze Tecnologiche?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I telefoni cellulari sono utilizzati come parte di un rituale consumistico e hanno una funzione consolatoria sulle tendenze impulsive dell’utente, tanto da essere paragonate all’uso del ciuccio nei bambini piccoli! 

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Secondo un recente studio pubblicato sul Journal of Behavioral Addictions la dipendenza da cellulare e sms può essere paragonata allo shopping compulsivo con carta di credito; in entrambi i tipi di dipendenze sembrano avere un ruolo primario il materialismo, per cui alcuni oggetti di uso comune divengono degli status simbol, e l’impulsività, che ha un ruolo importante sia nelle dipendenze comportamentali che in quelle da sostanze. 

Telephone - © Tomasz Wojnarowicz - Fotolia.com
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James Roberts, docente di marketing alla Baylor’s Hankamer School of Business, sostiene che i telefoni cellulari sono utilizzati come parte di un rituale consumistico e hanno una funzione consolatoria sulle tendenze impulsive dell’utente, tanto da essere paragonate all’uso del ciuccio nei bambini piccoli! 

Studi precedenti hanno dimostrato che i giovani inviano una media di 109,5 messaggi di testo al giorno e circa 3.200 ogni mese; ne ricevono 113 e controllano il loro cellulare in media 60 volte in una giornata tipo; inoltre gli studenti universitari trascorrono circa 7 ore al giorno usando strumenti tecnologici di informazione e  comunicazione.

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Questo studio è il primo a occuparsi di come il materialismo giochi un ruolo nella dipendenza da telefono cellulare. I dati di questa ricerca provengono da self-report compilati da 191 studenti di economia presso due università statunitensi, in cui sono stati misurati materialismo, impulsività e l’uso di messaggistica istantanea.

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Secondo Roberts, il materialismo è un valore importante che influenza molte delle decisioni che prendiamo come consumatori. Inoltre, l’uso, e l’uso eccessivo, del telefono cellulare sono diventati comportamenti così comuni che è importante avere una migliore comprensione di ciò che spinge a questi tipi di dipendenze tecnologiche.

I risultati indicano che i telefoni cellulari sono utilizzati da circa il 90% degli studenti universitari; sono accessibili in qualsiasi momento, anche durante le lezioni, e dotati di sempre più funzioni, il che rende il loro uso e abuso sempre più probabile, tanto che la maggioranza degli intervistati sostiene che perdere il telefono cellulare sarebbe, addirittura, disastroso per la sua vita sociale…

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BIBLIOGRAFIA:

Terapia dinamica interpersonale breve – RECENSIONE

Recensione 

“Terapia dinamica interpersonale breve”

Lemma, Target e Fonagy (2011)

 

Terapia Dinamica Interpersonale Breve. Lemma A., Target M., Fonagy P.. Raffaello Cortina Editore, 2011

Il tentativo della Lemma è costruire un modello interpersonale breve che fosse in grado di accettare gli inevitabili compromessi moderni con i modelli cognitivi e interpersonali (interessati agli stati mentali consapevoli e non transferali) e al tempo stesso di mantenere un grado accettabile di azione sulle componenti dinamiche: inconscio e transfert.

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Questo libro presenta un interessante adattamento del modello psicodinamico alle necessità moderne di protocolli più brevi e flessibili e adattabili al servizio sanitario pubblico, nel Regno Unito come in Italia.L’autrice principale è Alessandra Lemma, che ha scritto il libro in collaborazione con Mary Target e Peter Fonagy. L’edizione italiana del libro è stata pubblicata da Raffello Cortina Editore (Milano).

Mentalizzazione
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Per un terapeuta di formazione dinamica il termine “interpersonale” è sospetto, perché focalizza la terapia sulle difficoltà relazionali e non su quelle interiori. Inoltre il lavoro sulle componenti intrapsichiche tende a diventare, nei modelli interpersonali, inevitabilmente più cosciente e consapevole, e quindi più cognitivo e meno dinamico. Infine l’attenzione al cosiddetto transfert diluisce e può addirittura scomparire, come è avvenuto nella cosiddetta Terapia Interpersonale di Klerman, che non è dinamica. 

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Il tentativo della Lemma è costruire un modello interpersonale breve che fosse in grado di accettare gli inevitabili compromessi moderni con i modelli cognitivi e interpersonali (interessati agli stati mentali consapevoli e non transferali) e al tempo stesso di mantenere un grado accettabile di azione sulle componenti dinamiche: inconscio e transfert.

Lemma, aiutata da Target e Fonagy, sostanzialmente ci è riuscita. Come? Il suo protocollo (che non vuole essere un nuovo modello) impacchetta in sedici sedute il lavoro, che potremmo chiamare interpersonale e quasi cognitivo, sugli stati mentali intenzionali (e quindi coscienti) del paziente secondo le tecniche già descritte abbondantemente da Fonagy per la sua terapia basata sulla mentalizzazione, ad aspetti dinamici.

Le tecniche fonagyane di sollecitazione della mentalizzazione si possono riassumere in un atteggiamento cortesemente incalzante (alla “tenente Colombo”, dice Fonagy) di incoraggiamento al paziente a chiarire al terapeuta e soprattutto a se stesso in seduta gli scopi e le ragioni delle sue azioni e dei suoi stati mentali.

Da un punto cognitivo è una tecnica che potremmo chiamare di chiarimento delle credenze distorte, con una leggera componente di disputa (chiedere “perché fai questo?” e “perché senti questo?” equivale a un accertamento e a una messa in discussione delle credenze cognitive che reggono azioni ed emozioni) ma senza espliciti inviti a ristrutturare, a vederla diversamente.

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E la parte dinamica dov’è? Prima di tutto, Lemma Target e Fonagy dicono che in sedici sedute c’è il tempo per sviluppare in parte una relazione di transfert e analizzarla. Però essa va analizzata con una costante attenzione al qui e ora. Insomma il transfert diventa un’esposizione in vivo a un problema relazionale del paziente trattabile in seduta.

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In secondo luogo, lo stile terapeutico incalzante senza ristrutturazione di Lemma, Target e Fonagy consente di sviluppare un’atmosfera tipicamente psicodinamica di astinenza e frustrazione, sebbene gli autori ci tengano a dire che la loro è una frustrazione supportiva. Quest’ultimo aspetto probabilmente è quello che è più interessante per lettori di orientamento non dinamico.

Soprattutto i terapeuti cognitivisti possono imparare da questo libro a moderare l’atteggiamento accudente e accogliente che è tipico del nostro orientamento, che a volte rischia di essere collusivo. 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Vita e Opere di Paola Luzzatto, la Sciamana dell’Arteterapia Italiana

 

Di Veronica Vincenzi e Gaspare Palmieri 

Vita e opere di Paola Luzzatto, la sciamana dell’arteterapia italiana. - Immagine: © olly - Fotolia.comPaola Luzzatto ha dato un considerevole contributo teorico e pratico all’arteterapia. I suoi insegnamenti, individuabili in numerose pubblicazioni scientifiche, sono preziosi elementi da assimilare per chiunque si interessi di questa disciplina.

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Paola Luzzatto descrive la sua vita come “una treccia colorata”, composta da diversi percorsi che si sono uniti fino a costituire una figura di arteterapeuta dal percorso professionale ed esperienziale unico. Già dalla laurea in Filosofia, con una tesi in Estetica dal titolo Susanne Langer: Il simbolismo nell’arte e nella religione, si potevano intuire i suoi futuri ambiti d’interesse: l’arte e la spiritualità. Da sempre appassionata di cinema e cineamatrice, l’attenzione al simbolo e la sua analisi attraverso la cinepresa, erano manifestazioni del bisogno di individuare forme capaci di esprimere l’esperienza umana e magari di astrarre dal caos uno spazio più organizzato e dotato di senso nel quale poter condividere e comunicare. Questo prelevare frammenti di vita e rappresentarli in modo visivo ritornerà anni dopo nel lavoro clinico con i pazienti, a cui Paola Luzzatto chiederà di rappresentare la propria storia autobiografica attraverso delle immagini. 

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte II . - Immagine: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte II
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Dopo la laurea, il Dottorato di Ricerca in Religioni Comparate a Ibadan in Nigeria, per studiare la religione e la psicologia del devoto, dove avviene l’incontro con Susanne Wenger, artista viennese trasferitasi nel 1949 a Oshogbo e divenuta sacerdotessa di alcuni culti Yoruba, di cui Paola ha recentemente pubblicato la biografia (Luzzatto 2009).

Nel 1981 si trasferisce a Londra, iscrivendosi alla School of Psychotherapy and Social Studies, che unisce l’insegnamento della psicoanalisi a quello delle psicoterapie cosiddette umanistiche (Rogers, Gestalt, Analisi Transazionale). L’incontro con l’arteterapia avviene frequentando questa scuola, durante la presentazione di un caso clinico. L’idea di poter usare le immagini (simboliche) in una terapia, unire il verbale al non verbale, “il concreto e il simbolico, come dice Susanne Wenger: la Terra e il Cielo”, la conquista a tal punto da iscriversi l’anno seguente al Goldsmith College e divenire lei stessa un’arteterapeuta. 

Per dieci anni rimane a Londra occupandosi di pazienti psichiatrici prima al Tooting Bec Hospital e successivamente al St. Thomas’ Hospital, utilizzando inizialmente la tradizionale modalità arte terapeutica dello Studio Aperto e poi sperimentando al St. Thomas’ un nuovo intervento di carattere maggiormente interattivo: l’Open Session (Luzzatto 1997 ).

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Successivamente si dedica di più a casi individuali, e approfondisce il ruolo dell’arte terapia nelle dipendenze e nei disturbi alimentari (tossicodipendenza; alcoolismo; anoressia), spesso utilizzando la Self-World Image, una tecnica d’ispirazione winnicottiana in cui guida i pazienti a rappresentare graficamente l’idea dell’Io, inserito nel mondo circostante (Luzzatto 1987; 1989; 1994a; 1994b). In questa tecnica il foglio bianco rappresenta il contenitore del mondo, che è a sua volta contenitore della persona.

 Paola Luzzatto costruisce un percorso di cura lavorando sulle immagini in divenire, sulle loro successive modificazioni, proponendo delle ipotesi di irrealtà che danno il potere all’individuo di cambiare una situazione data partendo dall’immaginare la situazione stessa trasformata.

Risale a questo periodo anche l’elaborazione della teoria del setting triangolare dell’arte terapia: se fino a quel momento la comunicazione tra il paziente e il terapeuta era stata immaginata come una comunicazione lineare, da lì in avanti avrebbe assunto la forma tripolare caratteristica dell’arteterapia, dove il terzo polo è costituito dall’immagine che esternalizzata visivamente diventa concreta e di conseguenza più diretta ed efficace della parola (Luzzatto 1998).

Il punto fondamentale di questo concetto è che l’atto della visualizzazione sarebbe capace di modificare le proprietà spazio-temporali della comunicazione.Nel processo arteterapeutico non solo l’immagine assume una valenza metaforica, ma diviene “partner silenzioso” del terapeuta, determinando agevolazioni e complessita’ del setting. Il trasfert e il controtransfert si configurano in questi caso come “doppi”, in quanto rivolti anche all’immagine (Luzzatto 2009a). 

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La celebrità di Paola Luzzatto è però dovuta soprattutto all’attività presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, dove dal 1995 si è occupata di pazienti oncologici. Come è noto tra i malati di cancro vi è un’alta percentuale di persone che reagiscono alla malattia con stati di ansia e di depressione. In questa tipologia di pazienti il lavoro psicologico non può prescindere dal corpo: un corpo malato, che ha subito interventi chirurgici, debole, talvolta estraneo al suo possessore.

A questo riguardo l’arteterapeuta ha ideato la tecnica del Contorno del Corpo (Luzzatto et al 2003), in cui viene utilizzato un foglio A4, con disegnata una sagoma corporea, che il paziente e’ invitato a riempire. Con questa tecnica è stato riscontrato come sia più semplice esprimere innanzitutto visivamente la presenza del dolore fisico, ma anche inserire il corpo in una situazione positiva o avvolgerlo in una sorta di protezione divino-spirituale.

Durante la sua attività in ambito oncologico ha inoltre messo a punto il Viaggio Creativo (Luzzatto & Gabriel 2000), un intervento in dieci tappe, rivolto a piccoli gruppi di pazienti che hanno appena terminato le cure (chirurgia, radioterapia, o chemioterapia). Lo scopo di questa tecnica è quello di aiutare ciascun paziente a non lasciarsi intimidire dalla pagina bianca (metaforicamente dall’incognita del futuro), sperimentare varie tecniche espressive per scoprire quelle più congeniali e trovare al termine di ogni incontro un’immagine significativa che rafforzi l’identità personale.

 Una maggiore consapevolezza, la riscoperta di ricordi perduti, un differente approccio verso la negatività, una rinnovata empatia, sono solo alcuni dei risultati raggiunti da chi ha intrapreso il viaggio. Paola Luzzatto, in collaborazione con i suoi studenti, ha poi portato per la prima volta l’arte terapia in camera sterile, ai pazienti oncologici che si trovano in isolamento per settimane e mesi, per il trapianto di midollo, offrendo  interventi che facilitano la comunicazione e aiutano ciascun paziente a ricontattare le sue risorse personali (Gabriel et al 2001).  

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Paola Luzzatto ha dunque dato un considerevole contributo teorico e pratico all’arteterapia. I suoi insegnamenti, individuabili in numerose pubblicazioni scientifiche, sono preziosi elementi da assimilare per chiunque si interessi di questa disciplina. Al momento attuale, tornata in Italia, si sta adoperando per dare maggiore “dignità” a una professione purtroppo non sempre riconosciuta in ambito accademico (Luzzatto 2002; 2010).

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BIBLIOGRAFIA:

  • Luzzatto P. (1987) The internal world of drug-abusers projective pictures of self-object relationships ( a pilot study), B. J. Projective Psychology, 32 (2), pp. 22-33
  • Luzzatto P.(1989) Drinking problems and short-term art therapy: working with images of withdrawal and clinging, in A. Gilroy, T. Dalley, Pictures at an Exibition, Tavistock/Routledge, London, pp. 207-219
  • Luzzatto P. (1994a) Anorexia Nervosa and Art Therapy: The double trap of the anorexic patient in The Arts in Psychotherapy, 21(2), pp. 139-143 
  • Luzzatto P. (1994b) Art therapy and anorexia. The mental double trap of the anorexic patient. The use of art therapy to facilitate psychic change, In D. Dokter, Arts therapies and clients with eating disorders: fragile boards,London, Jessica Kingsley Publishers, pp. 60-75
  • Luzzatto P. (1997) Short-term art therapy on the acute psychiatric ward: the open session as a psychodynamic development of the studio-based approach, INSCAPE journal of BAAT, 2 (1), pp. 2-10
  • Luzzatto P. (1998a) From psychiatry to psycho-oncology. Personal reflections on the use of art therapy with cancer patients,In Pratt M., Wood M., Art therapy in Palliative care: the creative response, Routledge, London, pp. 169-175
  • Luzzatto P. (1998b) L’approccio comunicativo in arte terapia e l’uso delle tre dimensioni: espressiva, cognitiva e analitica, In Belfiore M., Colli L. M., Tra il Corpo e l’Io: L’Arte e la Danza-Movimento Terapia ad orientamento psicodinamico, Pitagora, Bologna, pp. 59-69
  • Luzzatto P., Gabriel B. (2000) The creative journey: a model for short-term group art therapy with post treatment cancer patients,Art therapy: Journal of the american art therapy association, 17 (4), pp. 265-269
  • Gabriel B., Bromberg E., Vandenbovenkamp J., Walka P., Kornblith A., and Luzzatto P. (2001) Art therapy with adult bone marrow transplant patients in isolation:  a pilot study, Psycho-Oncology, 10, pp.114-123
  • Luzzatto P. (2002)  L’intervento di arte terapia e Il ruolo dell’arte terapeuta. In: Bellani et al (eds) Psicooncologia. Masson, Milano. pp 933-941; 1093-1041.
  • Luzzatto P., Sereno V., Capps R., (2003) A communication tool for cancer patients with pain: The art therapy technique of the Body outline,in Palliative and Supportive Care, 1 (2), pp. 135-142
  • Luzzatto P. (2009a) Arte terapia una guida al lavoro simbolico per l’espressione e l’elaborazione del mondo interno, Cittadella editrice, Assisi
  • Luzzatto P. (2009b) Susanne Wenger, artista e sacerdotessa, Atheneum, Firenze
  • Luzzatto P., Scassolini S. (2010), L’arte terapia nella depressione infantile, Cap.17. In: C. Ciampi et al. La Depressione 0-14 anni, Hygeia,Cagliari

Lavoro e Potere: Dinamiche della Violenza Domestica

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Nei casi in cui entrambi i partners avevano un’occupazione la violenza domestica è risultata raddoppiata rispetto a quando era solo il partner maschile ad avere un impiego.

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La violenza domestica ha il doppio delle probabilità di verificarsi in nuclei familiari in cui entrambi i partners lavorano, rispetto a quando lavora solo un partner. È quanto emerso da un recente studio condotto alla Sam Houston State University.

Lo studio, condotto da Cortney A. Franklin e Tasha A. Menaker e sostenuto dal Crime Victims’ Institute, è partito dall’ipotesi che la violenza domestica e la vittimizzazione potessero essere correlate a differenze nel livello di istruzione e status lavorativo tra i partners.

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Invece da quanto emerso in questo studio le differenze nei livelli di istruzione sembrano avere poca influenza sulla violenza domestica, mentre è la variabile lavoro a risultare significativa: infatti nei casi in cui entrambi i partners avevano un’occupazione la violenza domestica è risultata raddoppiata rispetto a quando era solo il partner maschile ad avere un impiego.

Lo studio si è basato su interviste telefoniche fatte a un campione di 303 donne con un età compresa tra i 18 e 81 anni e sentimentalmente impegnate con un uomo: il 67 per cento di loro ha riferito una qualche forma di vittimizzazione fisica o psicologica da parte del partner durante i due anni precedenti; gli atti violenti si riferivano al lancio di oggetti, spinte e spintoni, essere afferrate, colpite, prese a calci o a morsi e l’essere state minacciate con una pistola o un coltello.  

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L’ipotesi dei ricercatori è che l’occupazione lavorativa femminile può rappresentare una sfida all’autorità e al potere maschile all’interno del rapporto di coppia.

Quando le donne sono costrette a casa nel ruolo di casalinghe, non godono dei contatti con colleghi di lavoro, di un salario proprio, del prestigio legato ad alcune posizioni lavorative e quindi più in generale di risorse che possono metterle in una posizione di autonomia e potere individuale all’interno della coppia;la condizione di dipendenza economica invece valorizza il partner lavoratore all’interno della coppia, valore che rischia di essere messo in crisi nei casi in cui questa dipendenza economica e sociale non esiste perchè anche la donna lavora. 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Altri fattori che possono contribuire alle dinamiche di vittimizzazione sono lo stress relazionale e l’essere stati testimoni di atti di violenza domestica nell’infanzia.

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Infine, lo studio ha trovato che le donne ispaniche avevano significativamente meno probabilità rispetto alle donne caucasiche di denunciare la violenza domestica e che le donne anziane di tutte le etnie avevano meno probabilità di essere vittimizzate rispetto a quelle più giovani.

A seguito di questi risultati, Franklin e Menaker raccomandano che chi si occupa professionalmente delle vittime di violenza domestica impari strategie specifiche per affrontare i fattori di rischio e le differenze culturali. In particolare le giovani che sono state testimoni di violenza domestica nell’infanzia dovrebbero essere aiutare con dei programmi ad hoc che le aiutino a sviluppare strategie efficaci di risoluzione dei conflitti che insorgono nelle relazioni di coppia. 

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BIBLIOGRAFIA:

In Treatment: Psicoterapia in TV – Introduzione

In Treatment: Psicoterapia in TV

INTRODUZIONE

In Treatment: Psicoterapia in TV – Introduzione
In Treatment (HBO 2008-2010)

In questi mesi ci concederemo il piacere di rivedere tutta la Serie TV In Treatment e pubblicare un commento di ogni puntata con i lettori di State of Mind.

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Molti colleghi (e non colleghi) hanno visto o sentito parlare di In Treatment, serie televisiva americana prodotta dalla HBO dal 2008 al 2010. È una serie di particolare interesse per State of Mind. Il suo formato è quello della psicoterapia, i personaggi sono uno psicoterapeuta e i suoi pazienti.

In ogni puntata il protagonista, un terapeuta di formazione psicoanalitica (in termini più tecnici, dinamica e relazionale) affronta una seduta con un paziente, in un giorno fisso della settimana.

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Cougar Town - Locandina cinematografica. - Immagine: Proprietà di ABC Studios.
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Nella prima puntata il terapeuta tratta il paziente del lunedì, nella seconda il paziente del martedì, e così via. Finche la settimana si esaurisce e si inizia daccapo, col paziente (anzi, colla paziente) del lunedì. Unica eccezione, il venerdì, in cui invece è il nostro terapeuta che va in supervisione da un’analista più anziana. La struttura è ciclica, eppure anche drammatica: le sedute danno vita a una storia, le vicende si intrecciano e alcuni pazienti interagiscono parzialmente tra loro. Non proprio tutto accade nel chiuso dello studio del terapeuta.

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L’idea è sicuramente intrigante e l’esecuzione ancor di più. Il terapeuta si chiama Paul Weston ed è interpretato da un Gabriel Byrne tormentato e depressivamente fascinoso. Paul è un terapeuta che ha qualche problema nel mantenere le distanze con i suoi pazienti e anche in bilico tra la formazione analitica classica e ortodossa e alcuni (anzi molti) slanci relazionali modernistici, per così dire. La supervisora si chiama Gina Toll (interpretata da Dianne West) ed è al tempo stesso materna e custode dell’ortodossia, a tratti sarcastica verso gli sviluppi relazionali della psicoanalisi.

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La serie è, a parere della redazione di State of Mind, molto ben fatta e rappresenta la psicoterapia in maniera romanzesca ma anche credibile. La regia si è avvalsa di consulenze professionali. Inoltre, la serie americana si basa su una precedente serie israeliana (chiamata “BeTipul”, che in ebraico dovrebbe significare “In terapia”) di cui si dicono meraviglie e che a sua volta si era avvalsa di una consulenza professionale di terapeuti. Purtroppo, finora non siamo stati in grado di visionare l’originale israeliano.

Per consolarci, in questi mesi ci concederemo il piacere di rivedercela tutta e pubblicare un commento di ogni puntata con i lettori di State of Mind. Le commenteremo tutte, una per una fino alla 106esima. Stendiamoci dunque sul lettino, oppure sediamoci sul divano e accendiamo la TV. Anzi, accendiamo il computer e controlliamo: forse su State of Mind è apparso un commento a una puntata di “In treatment”.

 

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APPROFONDIMENTI :

ACT Monografia #1 – Acceptance and Commitment Therapy – Introduzione

 

 

ACT – Acceptance and Commitment Therapy – Introduzione

PARTE 1 di 7

 

ACT - Acceptance and Commitment Therapy. Introduzione. - Immagine: © Sergey Nivens - Fotolia.com

Secondo il modello ACT ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio.

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Secondo la visione di Steven Hayes, l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) fa parte di un movimento più ampio, basato e costruito su precedenti terapie comportamentali e cognitivo-comportamentali. Tuttavia, alcuni concetti presenti nella struttura corporea dell’ACT sono caratterizzati da istanze peculiari che costituiscono una nuova fase evolutiva, sia da un punto di visto teorico sia applicativo.  

Le terapie cosiddette di “terza ondata” sono caratterizzate da strategie di cambiamento su basi contestuali ed esperienziali (oltre agli aspetti più didattico-direttivi) e da una forte sensibilità al contesto dei fenomeni psicologici e non alla loro forma o al loro contenuto. Insomma, il focus è concentrato sui processi mentali. 

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Come già indicato in molti articoli di State of Mind, le terapie di terza ondata hanno diversi aspetti in comune: 

• Focus sui processi di accettazione;

• Focus sul decentramento/shifting cognitivo; 

• Focus sulla relazione terapeutica;

• Focus ciò che per l’individuo è importante nella vita (i valori). 

ACT-Acceptance and Commitment Therapy_ La soluzione è accettare. - Immagine:© Sergey Nivens - Fotolia.com
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In un momento storico come quello del mondo scientifico attuale, sta emergendo sempre più la necessità di fornire una teoria di base, che spieghi il funzionamento psichico globale, fondata su chiari fondamenti teorici e, allo stesso tempo, strettamente connessa ai protocolli e alle tipologie di trattamento clinico. Potremmo, quindi, sostenere che l’ACT sia una moderna forma di terapia cognitivo-comportamentale disegnata per incrementare le capacità personali di perseguire obiettivi e valori individuali significativi.  

L’ACT si basa su un modello teorico-filosofico noto come Relational Frame Theory. Secondo tale teoria, nell’essere umano, il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di frame relazionali, di cornici relazionali, nucleo centrale del linguaggio e non necessariamente per esperienza diretta). 

L’origine della sofferenza psicologica risiede nella normale funzione di alcuni processi del linguaggio umano (es. problem solving), quando applicati alla risoluzione di esperienze private/interne (es. pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni corporee, ecc.), invece che alla risoluzione di eventi/situazioni del mondo esterno.

Riteniamo che questo sia un aspetto molto importante dell’ACT. Tali processi mentali portano l’individuo a dare significato e sperimentare il pensiero in modo letterale. Per questo motivo, se ho un pensiero di inadegatezza allora IO SONO INADEGUATO. L’eccesso di tale processo porta a quello che in ACT viene chiamato il sé concettualizzato (una maschera scomoda che indossiamo, di cui abbiamo già scritto su state of mind).

Di fatto l’ACT non utilizza come strumento principale gli interventi diretti su contenuti di pensiero, come ad esempio il disputing. Tale terapia, invece, cerca di favorire l’accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente. 

Il fine ultimo dell’ACT è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT. 

I sei processi chiave, sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto. 

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Al posto della C possiamo, invece, leggere “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”, che includono i valori, l’impegno nell’azione, il sé come contesto e il contatto con il momento presente. 

Psicoterapia Cognitiva e Mindfulness: il lato opaco dei cimbali. - Immagine: © sahua d - Fotolia.com
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Insomma, secondo il modello ACT ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio. 

In questa monografia, composta da sette parti, cercheremo di illustrare i singoli processi implicati nell’ACT, considerandoli uno ad uno e integrandoli in una teoria complessa e multi-dimensionale. 

Il modello della psicopatologia, quindi, è un modello di inflessibilità psicologica e di “blocco/incastro”, in cui se si lascia che i pensieri (intesi in senso molto ampio) vivano al posto nostro arriviamo a non avere chiaro cosa vogliamo della vita e che cosa sia importante per noi. 

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LETTURE CONSIGLIATE: 

Anche una Breve Attività Fisica può Migliorare la Memoria

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un breve e moderato esercizio fisico migliora il consolidamento dei ricordi sia in anziani sani che in quelli con decadimento cognitivo lieve.

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Un gruppo di ricercatori del UC Irvine’s Center for the Neurobiology of Learning & Memory hanno scoperto un breve e moderato esercizio fisico migliora il consolidamento dei ricordi sia in anziani sani che in quelli con decadimento cognitivo lieve.

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La maggior parte della ricerche si è concentrata sui benefici che l’attività fisica può avere nel tempo sulla salute e le funzioni cognitive degli anziani. Ma il lavoro dell’UCI è il primo a prendere in considerazione gli effetti immediati sulla memoria di una breve serie di esercizi fisici.

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Sabrina Segal e i neurobiologi Carl Cotman e Lawrence Cahill hanno sottoposto un gruppo di persone con un età compresa tra i 50 e gli 85 anni, con o senza deficit di memoria, a un compito di visualizzazione di immagini piacevoli (foto di natura e di animali) al quale seguiva un breve periodo di attività fisica moderata (pedalare su una cyclette per 6 minuti al 70% della loro sforzo massimo); un’ora più tardi dovevano rievocare le immagini precedentemente visualizzate. I risultati indicano che il breve esercizio fisico portava a un notevole miglioramento nel compito di memoria, sia negli adulti sani che in quelli con problemi cognitivi, rispetto ai soggetti che non aveva praticato esercizio fisico.  Questa correlazione era particolarmente forte nelle persone con disturbi della memoria.

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Per comprendere in che modo un breve e intenso esercizio fisico produca effetti benefici sulla memoria i ricercatori stanno ora cercando di scoprire i fattori biologici che potrebbero sottendere a questo meccanismo.

 L’ipotesi è che il miglioramento mnestico possa essere correlato rilascio di noradrenalina indotto dall’attività fisica; neurotrasmettitore noto per il suo importante ruolo nella modulazione della memoria. Ipotesi questa che si basa sui dati raccolti in una precedente ricerca che dimostrano come l’aumento della noradrenalina, indotto farmacologicamente, acuisca la memoria e mentre il blocco del neurotrasmettitore la peggiori.

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Il fatto che un aumento di questo neurotrasmettitore possa essere indotto dal breve e moderato esercizio fisico offre un’ alternativa naturale e salutare all’uso di farmaci per il miglioramento della memoria; con una popolazione sempre più anziana questa sembra una grande risorsa a sostegno del miglioramento della qualità di vita e della prevenzione del declino mentale.

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BIBLIOGRAFIA

Extraterreste portami via! Psicologia degli Avvistamenti UFO

Extraterrestre Portami Via! Psicologia degli Avvistamenti UFO. - Immagine: © Costanza Prinetti

Extraterrestre Portami Via! Variabili psicologiche associate al fenomeno degli avvistamenti UFO. Valutiamo gli studi sull’argomento.

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Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, il numero delle persone che ha riferito avvistamenti UFO (oggetti volanti non identificati) è aumentato drasticamente di anno in anno. La mancanza di prove incontrovertibili sull’esistenza degli UFO non può che suscitare l’interesse per il ruolo delle variabili psicologiche associate a questo fenomeno. Questo però non ci autorizza a etichettare tali testimonianze come assurde e folli a priori, semplicemente perché non ci sono altrettante prove che confermino la non esistenza di una forma di vita al di fuori del nostro sistema solare.

Anche se la ricerca sulle caratteristiche psicologiche delle persone che hanno riferito avvistamenti UFO si basa esclusivamente su aneddoti e leggende, per spiegare questi resoconti dal punto di vista psicologico, sono state formulate fondamentalmente due ipotesi generali. La prima semplice ipotesi suggerisce che le persone che hanno riferito avvistamenti UFO abbiano in realtà problemi psichici e che i racconti degli avvistamenti UFO non siano altro che il frutto di una infelicità patologica dei presunti testimoni. La seconda ipotesi sostiene invece che le persone che riferiscono avvistamenti UFO siano alla base delle persone molto fantasiose che, sotto condizioni di forte aspettativa e ridotto esame di realtà, confondano le loro vivaci fantasie con eventi esterni realmente accaduti.

Un giorno di ordinaria follia #2 – Gli Alieni al CSM -Psichiatria- Immagine: © Anatoly Maslennikov - Fotolia.com
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Ma andiamo con ordine e valutiamo gli studi fondamentali e gli autori più importanti che hanno segnato la storia dell’argomento.

Nel 1977, Lawson somministrò una procedura d’induzione ipnotica a soggetti che non avevano mai avuto un’esperienza di avvistamenti UFO e chiese loro di immaginare di essere rapiti dagli alieni. Al termine della procedura d’ipnosi, questi soggetti spesso riferivano una serie di racconti particolareggiati con numerose similitudini alle narrazioni riferite dai soggetti che sostenevano di essere stati realmente rapiti. Sulla base di queste somiglianze, Lawson suggerì che i soggetti che sostenevano con fermezza di essere stati rapiti dagli alieni erano in realtà vittime della loro stessa fervida immaginazione. Secondo questa ipotesi, gli individui che riferiscono di aver avuto un contatto con una forma di vita aliena sono probabilmente vittime di un’erronea interpretazione di stimoli sensoriali ambigui, siano essi interni o esterni al sé. In seguito a questa erronea attribuzione, entrerebbe in gioco un meccanismo di archiviazione in schemi e credenze cognitive congruenti con le proprie attese.

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Allo stesso modo, la letteratura di tipo medico in questo settore, suggerisce che molte delle esperienze di questo tipo siano associate con le cadute durante l’addormentato, sognando, o mentre ci si sveglia dal sonno (Basterfield, 1981) e che alcune di queste esperienze possano essere spiegabili come esempi della cosiddetta paralisi del sonno (Hufford, 1982). La paralisi del sonno è accompagnata dalla sensazione di un peso opprimente sul torace ed è spesso accompagnata da vivaci e spaventose allucinazioni a carattere terrifico. I contenuti delle allucinazioni sembra variare in funzione delle credenze e delle aspettative del dormiente, e negli individui che credono negli extraterrestri, le allucinazioni possono assumere proprio la forma di queste credenze.

Nel 1985, Bloecher e colleghi, riportarono uno studio su dei soggetti che affermavano di essere stati rapite dagli alieni. Attraverso i test, i soggetti hanno dimostrato di avere un’intelligenza sopra la media. Sebbene i risultati dei test abbiano suggerito un certo livello di ansia e un lieve disturbo narcisistico in alcuni soggetti, non è stata trovata alcuna prova di una grave psicopatologia. 

 Allo stesso modo, Parnell (1988) somministrò l’ MMPI (Minnesota Multiphasic Inventory) e il Sixteen Factor Personality Questionnaire a 225 persone che avevano riferito avvistamenti UFO e non trovò prove di gravi disturbi psichici. Parnell trovò però che i soggetti che avevano sostenuto di aver avuto anche uno scambio d’informazioni con gli extraterrestri, avevano mostrato pensieri e sentimenti più insoliti rispetto alla popolazione media e avevano mostrato una maggiore tendenza al “pensiero divergente” (inteso come modalità di ragionare tipica degli individui creativi) e una condizione di isolamento sociale maggiore rispetto agli avvistatori di UFO che non avevano affermato di aver avuto alcuna tipo di comunicazione con questi.

Nel tracciare una sintesi di tutti questi risultati, sembra ci sia fondamentalmente un unico comun denominatore nelle credenze interne dell’individuo: il desiderio, la spinta e l’aspettativa di un qualcosa di diverso dal comune essere umano.

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A questo punto potremmo chiederci: che non ci sia, alla base di queste attese, una profonda e radicata delusione nei riguardi dell’uomo e, nello specifico, delle persone vicine?

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BIBLIOGRAFIA:

  • Basterfield, K. (1981). Can imagery explain certain UFO close encounters? Paper presented at the CUFOS Conference.
  • Bloecher, T, Clamar, A., & Hopkins, B. (1985). Summary report on the psychological testing of nine individuals reporting UFO abduction experiences. Mt. Ranier, MD: Fund for UFO Research.
  • Hufford, D. (1982). The terror that comes in the night. Philadelphia, PA: University of Pennsylvania Press.
  • Lawson, A. H. (1977). What can we learn from hypnosis of imaginary abductees? In MUFONUFO Symposium Proceedings (pp. 107-135). Seguin, TX: Mutual UFO Network. (READ FULL ARTICLE)
  • Parnell, J. (1988). Measured personality characteristics of persons who claim UFO experiences. Psychotherapy in Private Practice, 6, pp. 159-165.
  • Spanos, N. P., Cross, P. A., Dickson, K., DuBreuil, S. C. (1993). Close Encounters: An Examination of UFO Experiences. Journal of Abnormal Psychology, 102-4, pp. 624-632.
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