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Il Drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare

Il Drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare. Che cosa succede in terapia con pazienti con disturbi alimentari che li porta a “droppare” la terapia?

Di Alessia Zoppi

Pubblicato il 08 Nov. 2012

di Alessia Zoppi,  Chiara Spinaci

Il-Fenomeno-del-drop-out-nei-DCA-un-Aspetto-da-Non-Sottovalutare!. - Immagine: © Tommaso Lizzul - Fotolia.com

Che cosa succede in terapia con pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare che li porta a “droppare” la terapia?

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Questo articolo intende analizzare il fenomeno del drop-out come aspetto rilevante nel trattamento terapeutico dei Disturbi del Comportamento Alimentare. All’interno di queste patologie il fattore “rischio d’abbandono terapeutico” è una realtà importante, che si manifesta spesso nelle primissime sedute. Con il termine drop-out ci si riferisce al fenomeno di interruzione precoce non concordata della terapia da parte del paziente.

Garfield (1994) identifica il fenomeno in quei casi in cui i pazienti hanno sostenuto almeno una seduta e hanno interrotto il trattamento di propria sponte non presentandosi alle successive sedute, attese dal terapeuta. Il problema del drop-out è molto sentito a livello pubblico e nei servizi psichiatrici: il fenomeno sembra essere presente a livello internazionale con una variabilità molto ampia, e viene classificato come “precoce” (early, very early drop-out), se avviene nelle prime fasi di contatto, o “tardivo” (late drop-out), se avviene dopo molto tempo dall’inizio della terapia.

Con pazienti che sono trattati da tempo la percentuale si riduce drasticamente. In una ricerca di Mazzotti et al. (2001) l’entità del fenomeno è stata stimata intorno al 13%. I motivi dell’interruzione del trattamento erano stati: l’insoddisfazione per il trattamento clinico e/o farmacologico (34%); una storia di numerosi trattamenti precedenti (24%); una diagnosi di disturbo borderline di personalità(24%); il ritenere di non aver più bisogno di trattamento (10%). 

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Le cause del fenomeno sono molte. Il drop-out precoce secondo alcuni autori sarebbe legato all’imprinting, ovvero al primo impatto avuto con il terapeuta e la terapia, e alla mancanza di fattori motivazionali e relazionali positivi, come la mancanza di un legame capace di contenere le ansie e i timori del paziente (Giusti & Sica, 2006). Il drop-out tardivo sembrerebbe maggiormente correlato all’instaurarsi di fenomeni legati alla tecnica o a errori terapeutici. 

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Garfield (1994) lo associa a fattori soggettivi come sesso, età, razza e scolarità, oltre che alla diagnosi psichiatrica. È inoltre accertata la tendenza di pazienti con alcune patologie psichiatriche ad uscire dalla terapia tramite drop-out. In uno studio di Fassone et al. (2003) si è riscontrato che i pazienti con gravi disturbi di personalità, soprattutto se con doppia diagnosi di disturbo borderline di personalità e disturbi di abuso di sostanze o alimentare, sarebbero maggiormente soggetti a tale fenomeno. Questi pazienti tenderebbero ad un fenomeno di drop-out precoce. Anche lo studio di Zanetti et al., (2005) conferma il fenomeno per soggetti con Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Sharf e colleghi (2010) hanno analizzato la correlazione tra alleanza terapeutica e drop-out per identificare i fattori che incidono su tale relazione. Lo studio includeva più di mille partecipanti. Le variabili che sono emerse,  correlate al fenomeno drop-out in situazioni di debole alleanza terapeutica, sono diverse: la storia educativa dei clienti, la lunghezza della terapia, il setting di trattamento, il livello di scolarità del soggetto. 

Le variabili che sembrano essere associate al drop-out sono dunque molte e possono riguardare paziente, terapeuta, relazione terapeutica; sembra però esistere una certa correlazione tra aspetti psicopatologici e tendenza al drop-out. Tra le tipologie di pazienti tendenti al drop-out troviamo anche i soggetti con Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Che cosa succede in terapia con pazienti Disturbi del Comportamento Alimentare che porta questi a “droppare” la terapia?

 Fassino et al. (2009) attraverso una revisione della letteratura clinica analizzano quali fattori promuovono l’abbandono e il manifestarsi del drop-out durante la cura di pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare. Fassino et al. in questa revisione riprendono varie e precedenti pubblicazioni presenti in letteratura clinica. La premessa che viene fatta dagli autori è che il trattamento, di qualsiasi tipo, nei Disturbi del Comportamento Alimentare è una questione complessa e di interesse multidisciplinare e il fenomeno drop-out sarebbe un elemento predominante che caratterizzerebbe queste patologie più di altre. Ad incidere in maniera rilevante, aumentando i tassi e la frequenza del fenomeno, sarebbero due elementi: il rapporto con il corpo, protagonista assoluto e padrone della “legge del divieto” nell’Anoressia Nervosa, e l’evoluzione del trattamento.

Sono individuate due forme di drop-out in relazione al tempo: una forma “precoce” e una forma “tardiva”. La prima vede l’interruzione del trattamento da parte del soggetto Anoressico e Bulimico dopo già 2/3 sedute o entro il primo mese; mentre la seconda forma di drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare si presenta dopo il primo mese di trattamento.

Analizzando questi pazienti in diversi studi si è potuto vedere che in generale i pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare rispondono molto meglio alla terapia quando seguono un trattamento di tipo ospedaliero (tasso di abbandono che varia dal 20.2% al 51%) rispetto al trattamento ordinario esterno di tipo ambulatoriale (tasso di abbandono dal 29% al 73%) (Fassino et al. 2009).

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In particolar modo nella Bulimia Nervosa, la bassa autostima e la presenza di una severa sintomatologia auto-distruttiva, oltre che aspetti impulsivi, non aiuterebbero a far si che si instauri un’alleanza terapeutica; mentre nell’Anoressia Nervosa l’eventuale presenza del fenomeno “binge eating” e pratiche altamente rigide di purificazione fanno si che la paziente attui d’innanzi alla terapia una barriera difensiva riducendo motivazione e interesse.

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La stessa rabbia è un’emozione da dover tenere conto con pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare: riconoscerla, monitorarla e dare al paziente gli strumenti per gestirla fa si che essa non sfoci in aggressività verso il terapeuta e il trattamento stesso.

Un altro studio che sembra essere molto interessante è quello svolto da Kelly et al. nel 2012. Lo studio analizza il drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare, soffermandosi su stati emotivi autodiretti, quali l’ auto-compassione e la paura di auto-compassione. In particolar modo la ricerca indaga come questi interagiscono e ci permettano di prevedere come il paziente reagirà al trattamento. Ciò che emerge dalla ricerca è che l’auto-compassione e la paura di questa influenza la risposta al trattamento fino a compromettere in via definitiva la terapia, causando sentimenti di colpa e associandosi maggiormente con gli aspetti psicopatologici. Queste emozioni, in particolar modo la paura e la vergogna, renderebbero il paziente Disturbi del Comportamento Alimentare altamente vulnerabile all’abbandono terapeutico non riducendo la sintomatologia. Inoltre dalla ricerca è emerso che soggetti con una basso livello di auto-compassione sono quelli che tendono ad avere una soglia di autocritica molto elevata e presentano tassi elevati di vergogna, mostrandosi verso i propri confronti intransigenti e poco empatici. 

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Zanetti, et al., (2005), hanno indagato un campione di pazienti con Anoressia Nervosa che hanno abbandonato il percorso terapeutico; queste sono state ricontattate telefonicamente e intervistate sulla loro scelta. Gli Autori sostengono, infatti, che il fenomeno del drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare ha avuto poca attenzione da parte dei ricercatori, ma questo ha invece un peso rilevante sulla patologia: “Infatti, i pazienti con drop-out sono più a rischio di diventare pazienti cronici e quindi più difficilmente trattabili, con una alta frequenza di gravi complicanze organiche e mortalità. Gli studi indicano, infatti, che un abbandono precoce della terapia costituisce un fattore di rischio per una ricaduta precoce e a sua volta una ricaduta precoce è il predittore principale di un decorso cronico” (p.150). Gli Autori differenziano il drop-out non per il momento in cui si manifesta (precoce/tardivo), quanto in rapporto al miglioramento rispetto al sintomo (aumento o meno di peso). 

Tra le variabili predittive del drop-out esisterebbero alcuni fattori primari. Nei soggetti che abbandonano dopo un miglioramento del peso, sono significativi:  

 – Comportamenti auto-aggressivi di tipo compulsivo e maggiore livello di depressione: il tratto della compulsione come fattore predisponente è comprensibile se si pensa al problema del controllo in queste pazienti; non è di facile comprensione invece il tratto della depressione, poiché secondo gli autori normalmente questo favorisce il trattamento. Considerando che il drop-out avviene dopo miglioramento, si può ritenere che una volta migliorate le pazienti perdano la motivazione iniziale al trattamento. 

 – Minore tendenza alla somatizzazione.

 Nei soggetti che abbandonano senza miglioramento è significativo:

  – Maggiore ostilità: questo dato conferma il peso dell’impulsività e della rabbia come fattori precipitanti rispetto alla terapia, e verranno indicati anche da Fassino et al. (2009). 

Indagate le cause dell’abbandono, i fattori predisponenti risultano essere (p.152): 

 – Incomprensione con il terapeuta 25%

 – Non accordo con il tipo di terapia 18%

 – Miglioramento 15%

 – Non volontà di guarire 15%

 – Ferie o cambiamento del terapeuta 9%

 – Distanza dall’ambulatorio 9%

 – Inefficacia della terapia 9%

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Sia, dunque, l’atteggiamento verso la malattia che verso la terapia hanno un peso rilevante: l’atteggiamento del paziente verso la malattia porta a fenomeni di drop-out e di resistenza al trattamento per via del rapporto che esiste tra sintomo e soggetto:

1- difendono fortemente il sintomo; 

2- vivono egositonia verso il sintomo e agiscono con negazione della malattia; 

3- non hanno consapevolezza della gravità della malattia. 

L’atteggiamento verso la terapia invece è ambivalente: infatti le pazienti dichiarano di aver abbandonato perlopiù per “incomprensioni con il terapeuta e non accordo verso la terapia” sia rispetto ad aspetti tecnici, la compilazione del diario alimentare (32%), che relazionali, la freddezza e il distacco del terapeuta (26%).  Riconoscono invece l’aspetto più positivo del trattamento proprio nella disponibilità e nell’interesse del terapeuta (nel 52% dei casi). Questo deve far pensare al fatto che le pazienti, pur fortemente difese nel sintomo, cercano uno spazio in cui poter proprio sperimentare una “comunicazione efficace che permetta di esprimere e verbalizzare le difficoltà, la delusione di aspettative e le resistenze al trattamento” (Zanetti, et al., 2005, p.155).

Il clinico che approccia questi disturbi dovrà dunque ripensare al peso di alcune variabili nel rischio di drop-out e considerare come iniziale obiettivo del trattamento la creazione di una relazione sufficientemente contenitiva entro la quale creare una forte alleanza e in cui sarà, poi, possibile intervenire con tecniche dirette a specifici obiettivi terapeutici.

Nei primi mesi sarà necessario lavorare proprio sull’esperienza soggettiva del paziente rispetto alla terapia, al sintomo, alla sua resistenza al trattamento per poi accedere, in un secondo momento, ad altri contenuti emotivi e narrativi. 

 

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