Promuovere la comprensione della mente degli altri in psicoterapia è un’operazione complessa e spesso controproducente, che la terapia metacognitiva interpersonale suggerisce di non compiere prematuramente. Di solito quando si cerca di mostrare ai pazienti come il punto di vista degli altri possa differire da quello che automaticamente hanno attribuito (sulla base dei propri schemi), i pazienti non riescono a cambiare la propria prospettiva.
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Al contrario, spesso si attaccano con più forza alle loro attribuzioni iniziali e la relazione terapeutica si deteriora transitoriamente. Un recente studio sperimentale (Vorauer e colleghi, 2013) porta conferma a questa idea e apre altre strade di riflessione su come comprendere il punto di vista dell’altro in modo efficace e benefico per la relazione.
All’interno di scambi in relazioni di coppia, veniva prima chiesto ai partecipanti all’esperimento di assumere il punto di vista dell’altro nella propria immaginazione. La conseguenza di questa istruzione era sorprendente: aumentava la loro illusione di essere trasparenti all’altro, ovvero che l’altro conoscesse i propri valori, preferenze e sentimenti.
Al contrario se veniva chiesto di inibire l’assunzione immaginaria di prospettiva e di prestare invece attenzione a dettagli oggettivi, la tendenza a pensare che l’altro li capisse come se fossero trasparenti diminuiva. Il risultato importante è che l’aumento dell’illusione di trasparenza è legato a maggiore insoddisfazione nella relazione, mentre al contrario l’attenzione ai dettagli, produce maggiore soddisfazione.
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Un’implicazione per la psicoterapia è che quando si decide di promuovere nel paziente la capacità di capire la mente degli altri non conviene farlo tramite il canale immaginativo. Questo porterebbe a sovrastimare il grado in cui l’altro è simile a sé. E’ preferibile invece invitare il paziente a rievocare in dettaglio degli episodi autobiografici e soffermandosi sul comportamento manifesto. In questo modo è più facile che le persone si rendano conto delle differenze che esistono tra sé e gli altri e di come il processo di comprensione reciproca sia un lavoro che necessita di attenzione e impegno. In questo modo si può ridurre l’aspettativa automatica di essere capiti dall’altro: “Se siamo diversi devo spiegarmi per essere capito e non aspettarmi che l’altro lo faccia spontaneamente”.
La psicoanalisi è cambiata. Di fatto è cambiata così profondamente che la concettualizzazione tradizionale della mente inconscia può apparire ampiamente superata.
Una giovane donna di fronte allo specchio. L’ultimo tocco al maquillage. Un look pallido e misterioso. Boccoli neri sulle spalle nude. La vita un po’ più attillata: una siluette più femminile. Più tardi, sul treno un uomo la fissa. Un impercettibile oscillazione della gamba sinistra ha attratto la sua attenzione.
Può il suo occasionale compagno di viaggio, o noi osservatori psicoanaliticamente formati, pensare che la giovane donna del nostro schizzo clinico sia inconsapevole del proprio desiderio di essere notata ed osservata? Il desiderio di prevalere nelle relazioni triangolari, di affascinare e controllare il maschile – che le richiede tanta fatica, tempo e denaro – è così centrale nella sua identità che possiamo rispondere solo no questa domanda.
Nella concettualizzazione freudiana dell’isteria, e più in generale della malattia mentale, la dimensione topica è centrale. Nel primo modello del processo psicoanalitico che Freud offrì alla comunità scientifica il disvelamento dei desideri inconscirappresenta il fattore terapeutico cruciale del trattamento psicoanalitico. L’analista cura in quanto consente al paziente di acquisire della conoscenze su di sé, che sono escluse dalla sua consapevolezza.
Nel corso della sua carriera Freud sviluppò modelli sempre più articolati e complessi del processo psicoanalitico. Scoprì la centralità del transfert e dell’analisi del transfert, così come descrisse le resistenze che si oppongono al progredire del trattamento. Nel periodo tra le due guerre James Strachey introdusse il concetto di interpretazione mutativa: in questa prospettiva, mediante l’interpretazione di transfert l’analista non solo condivide con il paziente le conoscenze che ha acquisito, e che riguardano i suoi sentimenti inconsci verso l’analista, ma di fatto agisce sulla relazione di transfert: esprime tolleranza e comprensione di quelle emozioni e quei desideri che il paziente ha sempre sperimentato come vergognosi e colpevoli.
Monografia: Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea.
Negli anni successivi, lo sviluppo delle varie scuole psicoanalitiche kleiniane, postkleiniane o comunque orientate a riconoscere la centralità delle relazioni oggettuali nella psicopatologia e nel trattamento psicoanalitico, consentì di riconoscere con maggiore consapevolezza che l’analista non solo offre informazioni, che il suo ruolo terapeutico dipende in modo essenziale dalla sua interazione con il paziente (Thomä e Kächele, 1985, pp. 342-369). Ad esempio, nel modello di Balint (1968) la psicopatologia sorgerebbe da un difetto fondamentale nel percorso evolutivo; la regressione controllata nella situazione psicoanalitica consentirebbe di sperimentare nuovamente tali angosce primitive in un contesto protetto, mettendo così in moto un nuovo inizio. Kohut, nel contesto dei suoi studi sul narcisismo, introdusse il concetto di riparazione empatica. Secondo la teoria dei processi di pensiero proposta da Wilfred Bion e dai suoi seguaci (ad esempio, Baranger e Baranger, 1990), in cui le interazioni emotive interpersonali hanno un particolare rilievo, il potere terapeutico della psicoanalisi risiederebbe nella capacità dell’analista di introiettare le emozioni primitive del paziente, processarle e restituirle al paziente in una forma più evoluta ed assimilabile.
Questi contributi, espressione di molteplici scuole e prospettive nel contesto più generale del movimento psicoanalitico, ci permettono di formulare oggi in modo più avanzato maturo il ruolo dell’inconscio nel processo psicoanalitico. La teoria psicoanalitica contemporanea riconosce all’empatia, all’interazione emotiva, all’analista –sia come persona reale che come oggetto di transfert –un ruolo anche più rilevante di quello tradizionalmente attribuito all’analisi del transfert. La psicoanalisi è cambiata. Di fatto è cambiata così profondamente che la concettualizzazione tradizionale della mente inconscia può apparire ampiamente superata.
La geniale teoria dei desideri inconsci di Freud è al centro di un modello della sofferenza emotiva e della mente umana rigidamente uni-personale. Egli osservava come un naturalista i pazienti nevrotici e i prodotti della loro vita mentale inconscia. Ora, in pieno XXI secolo, siamo sempre più consapevoli della interazione emotiva che ha luogo nella stanza d’analisi. Un interazione che coinvolge contenuti inconsci ad entrambi i partecipanti alla seduta.
Come possiamo concettualizzare ed analizzare i fenomeni inconsci in questa nuovo scenario psicoanalitico caratterizzato da interattività, intersoggettività, e consapevolezza dell’influenza dell’osservatore psicoanalista? La nostra giovane donna ha terminato il suo breve viaggio. Giace ora sul lettino analitico e racconta un sogno che include evidenti riferimenti ad oggetti parziali, magari un uomo con pantaloni rossi e un grande cappello che sale su una scala a pioli. Le associazioni successive contengono riferimenti all’incontro sul treno e alle imbarazzanti avances del compagno di viaggio.
Che cosa è inconscio in questa seduta? Di cosa esattamente la nostra paziente è all’oscuro? Gli psicoanalisti sono stati addestrati a pensare che il desiderio rappresenti il contenuto principale dell’inconscio. Nello schizzo clinico il desiderio, il desiderio erotico rivolto all’analista, potrebbe essere il più immediato e classico contenuto dell’interpretazione.
Ma alla paziente manca realmente questa informazione? La centralità del potere seduttivo nell’identità della paziente ci suggerisce ancora una volta che no sia la risposta più adeguata. Parti preconsce dell’io possiedono chiaramente l’informazione e sviluppano strategie coerenti con questo desiderio. E sottraggono questo contenuto alla comunicazione manifesta, soprattutto alla comunicazione con l’analista, in una prospettiva strategica.
Perché allora il Sé colma i materiali verbali e non verbali, le narrative così come i sogni, di allusioni al contenuto celato? Dobbiamo cercare la risposta nell’incontro sul treno. L’obiettivo della rimozione non è impedire la conoscenza. E’ lo scambio di emozioni. É la proiezione –meglio, l’identificazione proiettiva –di emozioni e desideri nell’ascoltatore, nell’osservatore. Le strategie inconsce della paziente mirano di fatto ad indurre nell’analista una stato di eccitazione.
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La questione non ovviamente celare un desiderio, piuttosto quella di come controllare sapientemente il campo emozionale dell’oggetto per poter essere oggetto di desiderio. In una certa misura, l’inconscio emerge all’interfaccia tra un analista ed un paziente. Non rappresenta un sistema di conoscenze irraggiungibili per il soggetto. E’ un sistema di proibizioni finalizzato al controllo dell’analista e della sua esperienza della situazione psicoanalitica. In una certa misura l’inconscio si costituisce come uno schermo che ostacola lo specifico stile di indagine riflessiva dell’analista.
L’analista si confronta oggi come sempre con la rimozione. Tuttavia, il contributo primario dell’analista non consiste più nella sua capacità di scoprire i desideri inconsci del paziente. Piuttosto, il suo potenziale terapeutico dipende dalla sua disponibilità a focalizzare la propria lente d’ingrandimento su se stesso, sui propri desideri ed affetti controtransferali in relazione alle strategie comunicative del paziente.
Il principale obiettivo delle strategie difensive del paziente è il controllo della mente dell’analista. Le strategie che il paziente utilizza a questo scopo sono gli elementi più accuratamente rimossi –elementi inconsci dunque –della situazione psicoanalitica.
Thomä H., e Kächele H. (1985) Lehrbuch der psychoanalytischer Therapie. 1 Grundlagen. Springer-Verlag, Berlin-Heidelberg. Tr. It. (1990) Trattato di Terapia psicoanalitica. 1: Fondamenti Teorici. Bollati Boringhieri Editore, Torino.
Balint M. (1968) The Basic Fault: Therapeutic Aspects of Regression. Tavistock, London. Tr. it.: Il difetto fondamentale. In (1983) La regressione. Raffaello Cortina Editore, Milano
Puzzle che passione… e che vantaggi! – Neuropsicologia
Un recente studio ha evidenziato che fare puzzle non è soltanto un divertimento: permette ai bambini di sviluppare le abilità spaziali.
Il puzzle è un gioco antico, inventato addirittura intorno al 1760 in Inghilterra. Eppure non è mai passato di moda, e tante generazioni hanno giocato impegnandosi in questo rompicapo.
Un recente studio effettuato dall’università di Chicago ha evidenziato però che fare puzzle non è soltanto un divertimento: permette ai bambini di sviluppare le abilità spaziali.
La ricerca ha riguardato 53 coppie bambino-genitore, provenienti da diverse condizioni socioeconomiche. Ai genitori è stato chiesto di interagire con i loro figli come avrebbero fatto normalmente durante le attività quotidiane a casa e sono stati filmati per sessioni di 90 minuti ogni 4 mesi tra i 26 e i 46 mesi di età del bambino; circa la metà dei bambini dello studio sono stati visti giocare con i puzzle almeno una volta. Successivamente, raggiunti i 54 mesi di età, sono stati somministrati dei test per accertare le loro abilità nel ruotare e traslare le forme utilizzando ad esempio il “mental transformation task”.
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Come spiega la psicologa Susan Levine, uno dei massimi esperti sullo sviluppo delle capacità matematiche nei bambini, è emerso che coloro che hanno giocato con i puzzle hanno ottenuto migliori risultati nei test rispetto a quelli che non ci hanno giocato. Un buon risultato nei test è incoraggiante, perché l’abilità di trasformare mentalmente le forme è un importante predittore delle prestazioni nelle discipline STEM (acronimo americano di: Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica).
La ricerca ha anche evidenziato una particolarità: i genitori con un reddito economico più alto impegnavano più frequentemente i figli con i puzzle rispetto agli altri.
Un’altra curiosa differenza è che tra coloro che hanno ottenuto i migliori risultati nei test, i maschi hanno superato le femmine.
Una possibile spiegazione può essere data dal fatto che, come è stato osservato, i genitori dei bambini, rispetto a quelli delle bambine, hanno utilizzato maggiormente un linguaggio di tipo spaziale durante il gioco, erano più coinvolti e proponevano puzzle più complicati. Ma la psicologa Susan Levine ha affermato che per dare risposte più certe sarà necessario effettuare ulteriori studi, in particolare per determinare se il gioco del puzzle e il parlare di concetti spaziali è correlato causalmente allo sviluppo delle abilità spaziali.
L’importante conclusione a cui si è comunque arrivati è che coinvolgere sia i maschi che le femmine nel gioco del puzzle può supportare lo sviluppo di un aspetto cognitivo che è implicato nel successo delle importantissime discipline STEM.
Nonostante le controverse opinioni in merito, la cannabis ha conquistato un posto di rilievo come rimedio nel dare sollievo a chi soffre di malattie come il cancro, il disturbo post traumatico da stress, e la SLA. La sostanza è nota, là dove altri farmaci invece falliscono, per lenire dolore, aumentare l’appetito e ridurre l’insonnia.
Israele è leader mondiale nella ricerca sulla cannabis medica. Il principio attivo della marijuana, il THC, è stato scoperto da Raphael Mechoulam e Yechiel Gaoni. Il Prof. Mechoulam ha anche merito di aver definito il sistema endocannabinoide, che imita gli effetti della cannabis e svolge un ruolo sull’appetito, la sensazione di dolore, l’umore e la memoria.
Nel 2009, Zach Klein, un laureato del Tel Aviv University’s Department of Film and Television Studies, ha diretto il documentario dal titolo Prescribed Grass e ha così sviluppato un interesse per la ricerca scientifica sulla marijuana medica; ora insieme a dei ricercatori della TAU’s Porter School of Environmental Studies sta conducendo una ricerca sui benefici di cannabis medica.
Utilizzando la marijuana proveniente da una fattoria chiamata Tikkun Olam, Klein e i suoi colleghi ricercatori hanno testato l’impatto del trattamento su 19 pazienti (di età compresa tra 69 e 101) della casa di cura Hadarim in Israele. I pazienti sono stati trattati con cannabis medica sotto forma di polvere, olio, vapori e fumi, tre volte al giorno nel corso di un anno, per condizioni quali il dolore, la mancanza di appetito, spasmi muscolari e tremori.
I risultati sono stati sorprendenti: non solo i partecipanti hanno mostrato evidenti cambiamenti fisici, tra cui l’aumento di peso e la riduzione di dolore e tremori, ma anche il personale che lavora ad Hadarim ha riferito un miglioramento immediato negli stati d’animo dei pazienti, nella capacità di comunicazione e nella facilità nel completare le attività della vita quotidiana; inoltre quasi tutti i pazienti hanno riferito un aumento di ore di sonno e una diminuzione degli incubi e dei flashback correlati al PTSD.
Questi risultati hanno anche permesso di ridurre significativamente l’assunzione cronica di farmaci, come gli antipsicotici, gli antiparkinsoniani, gli stabilizzatori dell’umore, e gli antidolorifici.
Quest’anno, Klein inizia uno nuovo studio in collaborazione con i ricercatori dell’Israel’s Reuth Medical Center, in cui verificherà se l’assunzione di cannabis medica può migliorare la deglutizione, visto che uno dei più grandi problemi nei pazienti affetti da malattie croniche è l’assunzione di cibo.
Disfagia, e difficoltà a deglutire, possono portare ad un calo della nutrizione e anche alla morte. Klein ritiene che l’uso di cannabis, che riesce a stimolare le regioni del cervello associate con i riflessi di deglutizione, possa avere un impatto positivo su questo tipi di problemi.
” Il Padre “, tragedia in tre atti di August Strindberg scritto nel 1887, rappresenta uno dei più importanti tentativi del grande drammaturgo svedese di intessere un’opera naturalistica, in cui la distaccata osservazione di una vicenda familiare tormentata e grottesca venga svolta sulla scena attraverso uno stile semplice, privo di riflessi narrativi che facciano riferimento all’esperienza autobiografica dell’autore.
L’esito appare in realtà distante da questo obiettivo, caricandosi di significati oscuri e complessi sui quali il percorso umano di August Strindberg aleggia con tutti i suoi temi irrisolti. La trama è lineare, la scenografia essenziale, la recitazione degli attori costruita sull’espressività enfatica del teatro classico.
Il Capitano, ufficiale di cavalleria, è sposato con Laura, donna esuberante e scaltra; partendo da un dissidio sull’educazione da impartire alla figlia, ha inizio la caduta della potenza maschile e la cinica sopraffazione da parte della donna. Laura instilla nella mente del marito il dubbio che la figlia non sia sua e lo fa con perfidia strategicamente crescente, allusioni, provocazioni quasi impercettibili che l’uomo non riesce a contrastare; nello sviluppo di questa azione sadica vengono coinvolti il medico di famiglia, il fratello, la figlia e la balia che molti anni addietro aveva cresciuto il Capitano.
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L’intento è condurlo alla follia per farlo interdire e avere il pieno controllo della scena familiare: in una progressiva destrutturazione dell’identità l’uomo arriva ad aggredire Laura e a perdere ogni controllo sui propri processi mentali, fino a rifugiarsi in una regressione infantile che lo trasforma in un essere indifeso accovacciato fra le braccia della balia o impegnato a inventare giochi di guerra. Il crollo della natura maschile e del potere si è consumato, le incertezze sulla reale potenza della propria figura, da sempre abituata a comandare e a poter disporre della volontà altrui, sgretolano la psiche del Capitano fino ad annullarla, facendola precipitare nell’abisso della sconfitta e dell’impotenza contro un nemico che non si tocca, non si vede.
Laura utilizza armi che August Strindberg mostra di temere e disprezzare, l’azione disgregante dell’ambiguità femminile – l’autore fu più volte accusato di misoginia per tali convinzioni – che sotto le spoglie della semplicità, della fragilità è pronta a colpire con l’astuzia della parola sospesa, del pensiero impossibile da fermare come l’acqua nella roccia.
August Strindberg ne ” Il padre ” approfondisce tematiche che si riveleranno attuali anche nel secolo successivo, la crisi della famiglia borghese, la lotta fra i sessi, la solitudine umana costretta in dinamiche relazionali rigide e fredde; il suo teatro lascia il segno, come testimoniato spesso anche dagli attori che l’hanno portato al pubblico, obbliga a dividersi fra l’osservazione disturbante degli elementi autobiografici e la crudezza con cui vengono illuminate sofferenze universali.
Non univoche sono anche le scelte interpretative alla luce del vissuto che trascinò August Strindberg verso periodi di grave patologia psichica per poi recuperarlo ad un impulso di conoscenza esso pure nevrotico; individuando il legame complesso fra storia di vita e produzione letteraria è possibile ipotizzare una collocazione concettuale dei diversi scritti, così ne ” Il padre ” riconosciamo la centralità del tortuoso rapporto con l’interiorità femminile che nel tracciato autobiografico affiora con viscerale impatto emotivo per poi a tratti attenuarsi, unita allo sguardo persino rabbioso sull’impotenza dell’uomo davanti alla fragilità dell’anima e delle relazioni.
L’attività artistica dell’autore svedese abbraccia quasi ogni genere letterario, il suo anelito all’indagine intellettuale si manifesta avvolgendo molteplici discipline del sapere, ma rimane a dominare l’intreccio esistenziale un’inquietudine mai sanata, cupa e a tratti maniacale, pulsionale e impietosa.
I personaggi de ” Il padre ” e ugualmente di altre opere sono il tentativo inconsapevole di aggredire se stesso, di espellere e combattere la propria parte femminile – meglio, il disagio del dualismo immaginato fra eroismo titanico e imperfezione umana – generando un alternarsi continuo di virilità e disperazione, toni stentorei e sibili lamentosi nei quali crogiolarsi come un bambino che compatisce la propria debolezza chiedendo per essa il compatimento degli adulti.
Leonard Cohen: Guarire dalla Depressione Cronica: quando Leonard iniziò a ignorare Cohen
Quando Leonard iniziò a ignorare Cohen. Dopo tanti tentativi, nel 1999 la depressione di Leonard Cohen scomparve spontaneamente.
Like a bird on a wire,
like a drunk in midnight quier,
I have tried in my way to be free…
(Leonard Cohen, Bird on a wire, 1968)
Ci ha provato davvero in tanti modi a liberarsene, ma nel 1999, dopo circa cinquant’anni di sofferenze e tentativi di cure, la depressione di Leonard Cohen, settantanovenne poeta, scrittore, ma soprattutto cantautore canadese di origine ebrea, scomparve spontaneamente.
“Mi ricordo che mi svegliavo al mattino e mi sedevo in un angolo della mia cucina, che ha una finestra sulla strada. Guardavo il sole che splendeva sui paraurti cromati delle auto e pensavo che era davvero bello. Pensavo che per la prima volta percepivo quello che anche gli altri percepivano. La vita divenne più semplice e lo sfondo di continua autoanalisi che mi aveva accompagnato per tanto tempo scomparve”.
Apparentemente la cura fu semplice: imparare ad ignorarsi.
“Quando smetti di pensere a te stesso tutto il tempo, sei invaso da una sorta di pace. A me è successo in modo impercettibilmente progressivo e davvero non riuscivo a crederci. Mi sembrava ci fosse qualcosa che non andasse! E’ come quando bevi un bicchiere di acqua fresca quando sei assetato: ogni molecola del tuo corpo ti ringrazia”.
Non è la prima volta che mi succede di sentire racconti di questo tipo, anche se non bisogna correre il rischio di incappare nel semplicismo. Capita infatti spesso di sentire i famigliari di una persona depressa incoraggiare il proprio congiunto, invitandolo a smettere di pensare solo a sé stesso e alla propria malattia, o magari di consigliargli di fare del volontariato, perché “C’è sempre qualcuno che sta peggio di te!”, che non ha da mangiare (soprattutto in Africa) o che ha malattie fisiche come tumori, amputazioni o altre menomazioni. Di solito questo tipo di consigli, nella persona veramente depressa non funzionano, anzi possono sortire l’effetto contrario in quanto il depresso si sente ulteriormente colpevolizzato.
In Leonard Cohen la situazione sembra diversa. Pare infatti che dopo decenni di cure (antidepressivi) e tentativi di autocure (arte, donne, alcol, droghe, zen), il sistema depressivo si sia inceppato, con una sorta di guarigione “per disperazione”.
Alcuni studi condotti negli Stati Uniti, dove i disturbi dell’umore sono endemici (almeno un americano su cinque ha sofferto almeno una volta di un episodio depressivo durante la vita), hanno mostrato come circa il 30% dei casi di persone affette da depressione cronica vada incontro a una remissione dei sintomi in età avanzata. I ricercatori hanno invece individuato tra i fattori favorenti il perpetuarsi del disagio il fumo, l’obesità, l’inattività fisica, la scarsa rete sociale e le malattie fisiche (Byers et al., 2012).
La depressione di Leonard Cohen
“Ogni giorno, ogni mattina me la trovo davanti e cerco di affrontarla” ha raccontato in un’altra intervista il cantautore riferendosi alla propria “tempesta nel cervello”, come la definiva lo scrittore americano William Styron (1996).
Nel 2008 in concerto a Ginevra, presentandosi al pubblico con la consueta ironia dark, ricordò di essere stato nella capitale elvetica quindici anni prima, quando, sessantenne, era solo “un ragazzino con un sogno folle” e di avere assunto nel frattempo un sacco di psicofarmaci (fluoxetina, paroxetina, bupropione, metilfenidato) e di avere studiato religioni e filosofie.
Pare che la depressione di Cohen sia esordita nell’ adolescenza, in seguito alla perdita prematura del padre. Anche la madre soffriva di un disturbo dell’umore. La figura materna è stata descritta nelle biografie come estremamente possessiva e con un’attitudine a tenere legato il figlio a sè con sensi di colpa indotti.
Questo potrebbe avere condizionato il rapporto di Leonard Cohen con le donne, caratterizzato da estrema difficoltà a mantenere una relazione stabile. Aveva sempre bisogno di una relazione, ma portava ogni relazione al punto di rottura, alle compagne chiedeva una presenza costante che spesso non era in grado di ricambiare, chiedeva attenzioni fisiche, ma voleva disporre della sua libertà. Era depresso, vulnerabile, ma usava il suo fascino come un coltello a serramanico (Nadel, 2011).
La depressione che ha descritto nelle interviste aveva caratteri clinici gravi: anedonia, problemi di funzionamento sociale, abuso di alcol e droghe. I medici consultati gli hanno prescritto diversi antidepressivi, compresi gli iMAO e gli stabilizzatori dell’umore, che solitamente vengono considerati nelle depressioni resistenti. Con la fluoxetina si sentiva migliorato perchè aveva perso l’interesse spasmodico per le donne, onde accorgersi che si trattava solo di un effetto collaterale sulla libido. Un giorno, apparentemente senza l’assenso dello psichiatra, decise di smetterle le medicine provando altre strade più legate alla spiritualità.
Nonostante abbia sempre dichiarato la propria appartenenza all’ebraismo, ha spesso lamentato la mancanza, nella religione dei suoi padri, di una dimensione meditativa, che ha poi cercato altrove.
Leonard Cohen e il Buddismo zen
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Alla fine degli anni sessanta c’era stato infatti l’importantissimo incontro con il missionario del buddismo zen giapponese Roshi, da cui scaturì una frequentazione più che trentennale del suo monastero sul monte Baldy, vicino a Los Angeles. Negli anni novanta il cantautore si trasferì per tre anni nel monastero e nel 1996 venne ordinato monaco con il nome di Jikan, il silenzioso. Il ritiro buddista, seppure scandito da alzatacce all’alba, lunghe meditazioni, passeggiate a piedi nudi sulla neve, non mancava di qualche privilegio in stile holliwoodiano per Leonard Cohen, per il quale le donne, il sakè e le sigarette erano ammesse, seppure solo in dosi moderate.
“Di questi tempi” raccontò in un’intervista di quel periodo, con evidente attitudine meditativa, “la mia unica necessità è prendere nota di tutto. Non mi sento un musicista o uno scrittore. Sono solo una voce, un diario vivente”.
C’è uno schema che emerge nel percorso esistenziale di Cohen fin dalla giovane età: non appena la vita diventa troppo caotica e affollata, si mette alla ricerca di uno spazio vuoto dove ritrovarsi e ricominciare. Gli è successo con la vita spensierata di Montreal, con la pace mediterranea dell’isola greca di Idra e con il monte Baldy.
La lunga esperienza mistica di Leonard Cohen, oltre ai sicuri benefici sul piano psicologico, gli ha causato parecchie grane sul versante economico, in quanto la sua manager ha approfittato dell’assenza dal mondo materiale per sperperare il suo patrimonio, lasciandolo sull’orlo della bancarotta. Questo evento l’ha però riportato, in età avanzata, a ricalcare i palcoscenici di mezzo mondo, per la gioia dei fan.
Nel caso di Leonard Cohen in cui la depressione è durata per così tanti anni si può forse ipotizzare più un quadro di depressione ricorrente, di distimia o in termini cognitivisti di una organizzazione di significato personale di tipo depressivo (Guidano e Liotti, 1983), che del resto emerge sia nella sua poetica che nel suo modo di cantare che è sempre stato molto profondo, a tratti tetro, impostato su tonalità basse e che negli ultimi dischi acquista toni quasi cavernosi (“La mia voce è diventata più profonda dopo cinquemila sigarette” disse negli anni novanta). Una voce che sembra nascere dal cuore (se si può usare ancora questa parola), che ricorda quella dei mantra dei lama tibetani o dei canti dei cristiano ortodossi, sempre per restare dalle parti dell’oriente.
Per via della sua poetica malinconica è stato considerato il sacerdote artistico del pathos, citato anche da Kurt Cobain, che nella canzone Penny Royal Tea (1993) auspica di trovarsi “nell’aldilà di Leonard Cohen, per singhiozzare in eterno”. Quando alcuni lavori discografici ricevettero negli Stati Uniti diverse critiche rispetto all’essere eccessivamente lugubri, Leonard Cohen propose provocatoriamente alla propria etichetta musicale di vendere delle lamette da barba (a scopo autolesionistico) insieme ai dischi. L’ultimo disco di Leonard Cohen Old ideas (2012) contiene invece la canzone Going home, il cui refrein recita “Going home without my sorrow, going home sometime tomorrow, going home to where it’s better than before…”.
La scoperta che le onde lente del cervello frontale contribuiscono a rafforzare le memorie apre la strada a trattamenti terapeutici per la perdita di memoria negli anziani.
Per la prima volta, gli scienziati della University of California, Berkeley, hanno scoperto un legame tra il poco sonno, la perdita di memoria e il deterioramento cerebrale, cioè i mali caratteristici della vecchiaia. Questa scoperta apre la porta alla possibilità di migliorare la qualità del sonno nelle persone anziane per migliorarne la memoria.
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I neuroscienziati hanno scoperto che le onde cerebrali lente generate durante il sonno profondo e ristoratore, che sperimentiamo tipicamente nella giovinezza, svolgono un ruolo chiave nel trasferimento dei ricordi dall’ippocampo – che funge da deposito a breve termine per le memorie – alla corteccia prefrontale, che si comporta invece più come un “hard disk” per le memorie a lungo termine.
I risultati di questo studio tuttavia suggeriscono che negli adulti più anziani i ricordi possano rimanere bloccati nell’ippocampo a causa della scarsa qualità del sonno profondo a “onde lente”, e venire quindi sovrascritti da nuovi ricordi.
La scoperta che le onde lente del cervello frontale contribuiscono a rafforzare le memorie apre la strada a trattamenti terapeutici per la perdita di memoria negli anziani, come ad esempio la stimolazione transcranica in corrente continua o rimedi farmacologici. Per esempio, in uno studio precedente, neuroscienziati tedeschi hanno avuto successo nell’utilizzare, su giovai adulti, la stimolazione transcranica per migliorare il sonno profondo e hanno così raddoppiato la loro memoria durante la notte.
Mander e suoi colleghi ricercatori hanno testato la memoria di 18 giovani (20enni sani) e di 15 adulti (70enni sani) dopo un’intera notte di sonno. Prima di andare a letto, i partecipanti hanno imparato una lista di vocaboli e sono stati testati su un set di 120 parole.
Mentre dormivano, l’EEG ha misurato l’attività delle onde cerebrali. La mattina dopo, sono stati testati nuovamente durante la risonanza magnetica funzionale (fMRI).
Negli anziani, i risultati hanno mostrato un chiaro legame tra il grado di deterioramento cerebrale nel lobo medio frontale e la gravità della compromissione dell’attività ad onde lente registrata durante il sonno. In media, la qualità del loro sonno profondo è stata del 75% inferiore a quella dei partecipanti più giovani, e la loro memoria il giorno dopo era peggiorata del 55%.
Al contrario, nei giovani, le scansioni cerebrali hanno dimostrato che il sonno profondo aveva efficacemente contribuito a trasferire le loro memorie dal deposito a breve termine dell’ippocampo al magazzino a lungo termine della corteccia prefrontale.
INTERDIPENDENZA E INDIPENDENZA DEI CANALI COMUNICATIVI
“Un guerriero della luce non ripete sempre la stessa lotta: soprattutto quando nota di non andare né avanti né indietro”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.98]
Si riconoscono tre canali comunicativi per tre repertori di risposta che sono: le emozioni, i comportamenti e i pensieri. Ciascuno di questi è legato a un preciso correlato neuro-fisiologico che è rappresentato rispettivamente dal sistema viscerale-autonomico per le emozioni, da quello motorio-volontario per i comportamenti e da quello corticale-cognitivo per i pensieri e le verbalizzazioni [Leoni, 2003; Anchisi e Gambotto Dessy, 1995].
Questi tre canali comunicativi sono in un rapporto di interdipendenza tra loro.
Qualsiasi cambiamento in ognuno di essi implica una variazione di entità variabile negli altri. La risposta viscerale ed emotiva, per esempio, implica una reazione comportamentale a questo stimolo ma determina anche un processo cognitivo di analisi di tale emozione. Allo stesso modo i comportamenti e i pensieri possono agire a feedback influenzando le emozioni provate. Questo meccanismo, in coloro che soffrono di disturbi psicologici è particolarmente evidente in quanto si mantiene stabile in un circuito negativo che porta al mantenimento degli schemi emotivi, cognitivi e comportamentali della malattia.
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Questa interdipendenza reciproca può essere osservata, ad esempio, nel ciclo di mantenimento del DAP (Disturbo da Attacchi di Panico) in cui a reazioni d’allarme emotive quali palpitazioni, tremori, sensazioni di svenimento ecc… si associano comportamenti di isolamento e di evitamento e pensieri legati alla paura di perdere il controllo, di morire e di impazzire [Rovetto, 2003]. Ognuno di questi canali comunicativi influenza gli altri due mantenendo queste reazioni. Per questo motivo l’obiettivo deve essere quello di rompere questo circuito e sostituirlo gradualmente con uno alternativo in cui l’interdipendenza sostenga uno schema di relazioni reciproche comportamentali-cognitive-emotive che siano positive e favoriscano il benessere del paziente.
Questa conclusione potrebbe far pensare che sia sufficiente agire su uno di questi canali comunicativi per poter raggiungere la scomparsa del sintomo anche negli altri. In realtà non è così. Diverse ricerche hanno dimostrato un certo grado di indipendenza di questi tre aspetti della personalità [Rachman e Hodgson, 1974]che rende impossibile affrontare il sintomo prendendo in considerazione solo un canale e considerarlo come il “tutto” problematico. Lo psicologo deve concentrarsi sul “tutto” nella sua complessità. Gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali, nonostante siano in parte interdipendenti tra loro, devono essere tutti trattati perché si arrivi alla scomparsa del disturbo.
FAR CONDURRE L’INTERAZIONE
“Talvolta un guerriero della luce pensa: <Quello che non farò io, non sarà fatto.>
Non è così: egli deve agire,ma deve anche lasciare che l’Universo intervenga al momento debito”.
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.48]
Visto che deve essere il paziente a scoprire la soluzione, a percorrere la strada e a promuovere il suo stesso cambiamento è indispensabile che sia lui a guidare l’interazione con il terapeuta. Questo principio è stato oggetto di forti discussioni in quanto al suo interno si pone in essere la dicotomia tra approccio direttivo e non-direttivo. In realtà l’utilizzo di un approccio direttivo, se non estremo, come quello adottato dai creatori del colloquio di motivazione non impedisce di lasciar condurre l’interazione al paziente e si limita ad essere semplicemente più diretto negli interventi dello psicologo. Questa necessità è importante soprattutto nel primo colloquio poiché costituisce la strategia attraverso la quale è possibile comprendere con maggior chiarezza e maggior profondità le caratteristiche della personalità del soggetto, permette di osservare la sua visione del mondo dal suo punto di vista, permette di attivare una relazione empatica. Lasciare l’interazione nelle mani del paziente è necessario anche per favorire lo sviluppo di un rapporto di fiducia, elemento chiave per il buon esito della terapia e obiettivo principale del primo colloquio. Inoltre bisogna tenere a mente che il paziente giunge dallo psicologo con problemi e aspettative specifiche che è necessario tenere presente e a cui deve essere data la priorità.
“La spada del guerriero della luce è nelle sue mani”.
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.96]
Se lo psicologo vuole che il paziente acquisti le capacità del guerriero della luce non deve privarlo della spada, non deve fare vedere come lui la usa o farsi imitare ma deve sostenerlo nel suo addestramento. Se il paziente deve diventare un guerriero della luce non può lasciare l’elsa nelle mani dello psicologo.
CONQUISTARE LA FIDUCIA
“Quando vince una battaglia il guerriero festeggia. […] Ma il guerriero conosce il motivo di questo suo gesto. Egli gode del miglior dono che la vittoria possa portare: la fiducia”.
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.124]
Non può esservi terapia senza fiducia. Questa deve essere il primo obiettivo di qualsiasi colloquio psicologico e costituisce una base essenziale indipendente dall’orientamento professionale dello psicologo.
Per Fine e Glasser [1996] la fiducia è “uno stato d’animo che il paziente sperimenta quando è convinto che tutto ciò che il professionista sta facendo è nell’interesse del paziente, anche quando quest’ultimo non ne comprende a pieno il significato”, è un senso di accettazionecompleta che lentamente porta il paziente ad aprirsi allo psicologo senza paura di veder usato ciò che dice contro di sé. Questo rapporto è il prerequisito perché si possa pensare a porre in atto una terapia vera e propria.
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Come fare a sviluppare un rapporto di fiducia? Gli elementi che forniscono solide basi per la sua costruzione sono [Fine e Glasser, 1996]:
1) L’Onestà: lo psicologo deve essere aperto e sincero con il paziente, deve farlo sentire a proprio agio, deve mostrare per primo la sua fiducia indipendentemente dalle caratteristiche di reticenza e inattendibilità del soggetto. Deve quindi impegnarsi a mostrare un senso di accettazione totale che va al di là di ciò che viene narrato. Solo in questo modo il paziente si aprirà gradualmente allo psicologo. Spesso questo atteggiamento comporta la necessità di aprirsi anche per lo psicologo. In tal caso deve dare risposta alle curiosità del paziente sulla propria vita evitando, però, di centrare l’attenzione su di sé. E’ più difficile gestire le richieste riguardanti i propri atteggiamenti e valori. Gli Autori consigliano, in proposito, di chiarire al paziente che il supporto, l’aiuto e il rispetto garantito dallo psicologo è qualcosa che va al di là delle differenze nei valori individuali.
“Il guerriero della luce è affidabile. Commette alcuni errori, a volte si giudica più importante di quanto realmente sia. Ma non mente.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.79]
2) Seguire il flusso delle parole: è sempre meglio utilizzare, almeno nel corso del primo colloquio, domande aperte che permettano al paziente di esporre il problema dal proprio punto di vista consentendo di chiarire come lo ha vissuto ed affrontato fino al momento dell’inizio della terapia. E’ importante accettare la definizione che il paziente da del suo problema, almeno inizialmente, poiché ci permette di instaurare il rapporto di fiducia. Svalutare, negare e respingere la definizione del paziente prima che la relazione sia consolidata può annullare qualsiasi possibilità di costruire un rapporto di fiducia e portare anzitempo all’interruzione della terapia. La negoziazione della definizione del problema e degli obiettivi avverrà in un secondo momento, quando la fiducia sarà già stata conquistata.
3) La catarsi: uno dei momenti del colloquio in cui lo psicologo ha la possibilità di mostrare questo grande senso di accettazione e di sostegno, e di favorire così la conquista della fiducia del paziente è lo sfogo catartico. Questo è il momento in cui il paziente si libera dei suoi problemi e di ciò che lo angoscia parlandone apertamente con un fluire di parole e di sentimenti (spesso accompagnato da un pianto liberatorio) che genera, al termine, uno stato di sollievo, anche se temporaneo. Il verificarsi della catarsi è, di per sé, indice che il paziente sta iniziando a porre fiducia nello psicologo. Il compito di quest’ultimo è innanzitutto quello di ascoltare (mostrandolo anche attraverso la propria espressione corporea) senza interrompere il libero fluire di pensieri ma cercando di comprendere ciò che il paziente sta provando. Solo successivamente dovrà affrontare le cause del disagio. Se il paziente avverte il supporto del counselor nel corso di quest’esperienza il rapporto tra i due ne uscirà rafforzato per la condivisione di un’esperienza emotiva molto intensa.
4) Seguire le priorità del paziente: il paziente giunge dallo psicologo con un problema, e lo psicologo deve occuparsi di quel problema anche se ritiene che le difficoltà del paziente siano legate ad altre questioni. Il professionista non deve negare il problema, poiché la sua priorità non è quella di far capire il problema reale al paziente ma quella di mostrare la sua accettazione e il suo supporto, quella di conquistare la sua fiducia. Anche perché senza fiducia ogni tentativo di far vedere il reale problema al paziente è destinato al fallimento.
“Il guerriero della luce si preoccupa di coloro che pensano di conoscere il cammino.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.112]
5) Partecipazione: un altro modo per guadagnare la fiducia del paziente è quello di identificarsi con alcuni suoi comportamenti e modi di parlare. Questo si può realizzare semplicemente imitando alcuni suoi gesti, la sua postura ecc… senza dare l’impressione di una messinscena ma facendoli apparire del tutto naturali.
6) Le Informazioni:per mostrare al paziente l’interesse per la sua persona è possibile preoccuparsi di ciò che egli ha bisogno sapendo fornire informazioni che potrebbero aiutarlo. Queste informazioni possono riguardare sia dati che aiutino il paziente a osservare un problema da nuove prospettive, sia informazioni che possono aiutarlo a risolvere un qualsiasi problema pratico fornendo il contatto con uno specialista di fiducia.
“<Ricordati di una cosa,> risponde il maestro. <Ciò che fa annegare non è l’immersione , ma il fatto di rimanere sott’acqua.>”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.84]
7) La risposta di insight:rappresenta la sensazione che il paziente avverte quando percepisce una nuova prospettiva attraverso la quale osservare il problema che lo ha afflitto. Spesso si sviluppa in seguito ad un affermazione cruciale dello psicologo che accende una sorta di lampadina nella mente del paziente facendo improvvisamente luce su aspetti fino ad allora rimasti nell’ombra. Oltre ad aiutare il paziente nella comprensione del proprio problema, questo è anche il mezzo più efficace per dare un feedback sull’interesse e l’attenzione fornita dal professionista.
“A poco a poco, tutto ciò che sembrava complicato diventa semplice. E il guerriero ne gioisce.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.111]
8) La speranza:un ultimo aspetto rilevante per la costruzione di un rapporto di fiducia riguarda la capacità del terapeuta di mostrare (e non dire) che il paziente si è affidato a un professionista che ha già affrontato problemi simili con successo. Lo psicologo deve essere in grado di trasmettere un senso di speranza nei confronti del buon esito della terapia, un senso che fonda buona parte dell’effettivo successo finale.
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“Un guerriero della luce ha sempre una seconda opportunità nella vita. Come tutti gli altri uomini e le altre donne, egli non è nato sapendo già maneggiare la spada. Ha sbagliato molte volte, prima di scoprire la propria Leggenda Personale.”
[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.100]
Queste rappresentano le vie attraverso le quali si può favorire l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra professionista e paziente caratterizzato da una graduale apertura di quest’ultimo verso aspetti di sé sempre più intimi e centrali nella risoluzione del problema.
Questa necessità è tanto rilevante che molti autori la ritengono imprescindibile per la messa in atto di una terapia. Solo quando il terapeuta è certo della forza del rapporto di fiducia stabilito con il paziente può orientare la sua attenzione verso la realizzazione di altri obiettivi.
Sembra assodato che la felicità tra gli umani segua una curva a forma di U, con un massimo tra i 25 e 65 anni e un picco minimo tra i 45 e 55, la cosiddetta crisi di mezza eta ‘ (Blanchflower & Oswald, 2008).
La responsabilità di crescere una famiglia, le preoccupazioni economiche, i problemi di salute o forse la presa di consapevolezza che la giovinezza sia alle spalle… Tante le ipotesi.
Pochi però, finora, avevano chiamato in causa la biologia.
Una ricerca sui primati condotta da un primatologo dell’Università di Edimburgo, Alexander Weiss, ha dimostrato come anche le scimmie adulte, mostrassero meno energie, umore più basso, diminuite interazioni di gruppo e interesse verso le cose nuove: una crisi di mezza eta ‘ insomma. Lo studio è stato condotto su 336 scimpanzè e 172 oranghi. I valutatori hanno intervistato i guardiani degli zoo, i volontari, i ricercatori e altre persone che avevano a che fare con questi animali. Per valutare il benessere è stato costruito un questionario ispirato agli strumenti volti a valutare il benessere negli essere umani.
I risultati hanno evidenziato che anche questi animali esperiscono una curva ad U della felicità il cui picco negativo si aggira intorno ai trent’anni, la mezza eta ‘ per i primati. Anche se l’influenza biologica sembra evidente, ai neurobiologi si presenta un’interessante domanda cui rispondere in futuro: perchè?
Uno studio condotto dai ricercatori della New Zealand’s University of Otago ha studiato la relazione tra le emozioni e il consumo di cibo.
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Un totale di 281 giovani adulti (con un’età media di 20 anni) hanno completato un diario alimentare giornaliero per 21 giorni consecutivi, oltre ad avere fornito i dati relativi alla loro età, sesso, etnia, peso e altezza. Quelli con una storia di un disturbo alimentare sono stati esclusi.
Ciascuno dei 21 partecipanti doveva annotare ogni sera nel suo diario come si era sentito, usando una lista di nove aggettivi positivi e nove negativi, e rispondere a a cinque domande su ciò che avevano mangiato quel giorno, in particolare ai partecipanti è stato chiesto di segnare il numero di porzioni di frutta (esclusi i succhi di frutta e frutta secca), ortaggi, e le varie categorie di alimenti considerati poco sani come biscotti, patatine e torte.
I risultati indicano un forte rapporto tra stato d’animo positivo e il consumo di frutta e verdura, ma non di altri alimenti.
Nei giorni in cui le persone mangiavano più frutta e verdura, riferivano di sentirsi più tranquille, più felici ed energiche di quanto avvenisse normalmente.
Per capire “cosa” provoca “cosa” – se la sensazione positiva o il mangiare cibi più sani – il Dr Conner e il suo team hanno fatto ulteriori analisi e hanno scoperto che mangiare frutta e verdura era un comportamento predittivo del miglioramento dell’umore nel giorno successivo. Questi risultati erano indipendenti dal BMI degli dei soggetti testati.
I ricercatori sostengono che i giovani avrebbero bisogno di consumare circa 7-8 porzioni totali di frutta e verdura al giorno per notare un cambiamento significativo del tono dell’umore.
Con il termine stress si intende una risposta fisica e psicologica alle richieste e/o pressioni provenienti dall’interno o dall’esterno (ambiente) dell’individuo. Tale risposta automatica, regolata fisiologicamente dal rilascio ormonale consente all’individuo di attivare le sue risorse fisiche, emotive e cognitive necessarie al fine di affrontare adeguatamente un potenziale o reale pericolo. La risposta di stress, organizzata in fasi successive, si caratterizza per una serie di sintomi fisici, emotivi, cognitivi e differenti risposte comportamentali, che variano di individuo a individuo. Una delle risposte generalmente più frequenti è l’ansia, quello stato di allerta e attivazione che ci orienta verso la ricerca di soluzioni.
Sebbene quindi l’ansia abbia un significato primariamente protettivo e finalizzato alla sopravvivenza, in quanto tanto negli animali quanto nell’uomo essa ci consente di “allertarci” di fronte a un pericolo e agire per evitarlo, la maggior parte delle persone la considera come negativa, ne è spaventata, vorrebbe non averla. Quasi nessuno sa distinguere quella che è un’ansia normale da un’ansia patologica, che per sua durata, intensità e gravità invece che aiutarci a raggiungere l’obiettivo desiderato lo ostacola, ci danneggia, ci affatica.
Il limite fra la normalità e patologia va rintracciato quindi nell’influenza che queste emozioni negative hanno sulla qualità della vita della persona: se è tale da impedire una buona qualità della vita ad esempio impedisce di andare a lavorare, di uscire di casa, di esprimersi e di realizzarsi, si tratta di un’ ansia patologica. Ed è in questi casi che il rischio maggiore per l’individuo è quello di sviluppare una vera e propria patologia psichica, un Disturbo d’Ansia.
Molteplici sono i fattori di rischio, che favoriscono quindi l’esposizione maggiore dell’individuo allo stress: li ritroviamo in famiglia, sul lavoro, nelle relazioni amicali; a volte si esprimono in una malattia fisica, altre volte sono insiti nel contesto ambientale in cui viviamo. In un quadro generale segnato da una crescente precarietà economica e lavorativa in cui vertono sempre più i giovani e le famiglie italiane di oggi, lo stress e l’ansia rappresentano una reale emergenza sociale, che minaccia sempre più l’integrità psicofisica e la qualità di vita delle persone: dal fenomeno del Burnout in ambito lavorativo, all’ aumento delle malattie fisiche e psichiche, ai conflitti e al disagio in ambito relazionale e familiare.
Ma possiamo evitarli? Sono un destino inesorabile, una malattia del nostro tempo oppure possiamo fare qualcosa per combatterli?
Dati e ricerche recenti su stress e ansia.
L’ESEMeD (European Study on the Epidemiology of Mental Disorders) [Acta Psychiatr Scand 2004: 109 (Suppl. 420): 21–27] è il primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali effettuato in un campione rappresentativo della popolazione adulta generale italiana e di altri 5 paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Olanda e Spagna). In Italia lo studio è stato promosso e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) nell’ambito del Progetto Nazionale Salute Mentale; la selezione delle persone da intervistare e le interviste sono state invece realizzate dalla Doxa, nota azienda nel settore delle indagini di popolazione, in collaborazione con il gruppo di coordinamento italiano dell’ISS.
Per l’Italia è stato intervistato, tra il 2001 e il 2002 un campione di quasi 5.000 soggetti maggiorenni, selezionati dalle liste elettorali di 172 comuni. Dai dati risulta che le donne hanno una probabilità tripla di sviluppare un disturbo d’ansia rispetto agli uomini e che, sono più a rischio i giovani e non sposati, i disoccupati, le casalinghe e chi vive in città.
Le considerazioni di Kaplan e colleghi nel 1997 hanno messo in evidenza che la maggior parte degli studi epidemiologici evidenzia che circa un terzo della popolazione ha avuto o avrà nel corso della sua vita un disturbo psichico, e tra questi, i più diffusi sono i disturbi d’ansia e quelli di tipo depressivo.
Il sito del Policlinico Gemelli di Roma afferma che “le indagini sulla popolazione generale hanno documentato comeoltre un soggetto su cinque possa andare incontro ad un qualche disturbo d’ansia nell’arco della vita. Nei periodi di maggiore intensità dei sintomi le persone affette da disturbi d’ansia risultanoincapaci di attendere proficuamente alle proprie attività: è stato stimato che in questi casi si può determinare assenza (o presenza inefficiente) per il 10-40% delle giornate lavorative mensili”.
Prendendo in considerazione invece i dati sulla popolazione europea emerge che generalmente si ricorre poco agli interventi socio-sanitari. In Europa, la percentuale di coloro che, soffrendo di problematiche di ansia o di depressione, si sono rivolti a una struttura sanitaria è solo del 26% e i due terzi di questi soggetti ha consultato un operatore dei Servizi di Salute Mentale, mentre gli altri si sono rivolti al medico generico.
Nel 2011 la Lidap Onlus (Lega Italiana contro i Disturbi d’Ansia, da Agorafobia e da attacchi di Panico), associazione costituita da persone che soffrono d’ansia e presente in Italia da più di 20 anni, ha svolto un’indagine sui fattori ambientali che sono causa di ansia e panico.
L’indagine, durata quasi due anni, poneva agli intervistati un semplice quesito: elenca dalla più alla meno intensa 10 condizioni che, presenti attorno a te, sono fonte d’ansia. Il quesito è stato posto a più di 3.500 persone di tutta Italia e le risposte più frequenti sono state quelle legate allo stress urbano come: il traffico, la ricerca del parcheggio, la confusione nei mezzi pubblici, le distanze all’interno della stessa città, gli spostamenti continui, lo scarso contatto con la natura. A sorpresa, ad essere afflitte da questo male non sono solo grandi città come Roma o Milano, ma anche centri più piccoli come Catania e Messina.
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Dai dati raccolti dalla ricerca emergono risultati importanti: 1) chi vive nei grandi centri urbani è sottoposto a un numero maggiore di stimoli legati all’ansia come risulta dai questionari nei quali alle prime posizioni si riscontrano in modo più frequente gli stress urbani; 2) i residenti nei piccoli comuni non indicano all’interno delle 10 condizioni nessuna causa d’ansia legata al territorio.
L’aspetto preoccupante dell’indagine è che lo stress urbano è stato individuato come un fattore costante nella vita quotidiana, al punto da poter portare all’insorgere del disturbo in un numero crescente di individui. Nel 2011 i dati riportavano che il 4% della popolazione italiana, (circa 2 milioni e mezzo di persone), soprattutto le donne, soffre di ansia, attacchi di panico e agorafobia. Fino al 2000 i numeri erano nettamente inferiori; dunque, ci si ammala di più.
Ansia e panico non risparmiano nemmeno bambini e adolescenti: i bambini hanno le spalle piccole e dunque hanno una maggiore difficoltà ad affrontare stimoli e situazioni più grandi di loro. Ansia e panico sono disturbi diffusi in età scolare; scuola e sport sono per loro le maggiori fonti di preoccupazione. Spesso, dunque, non si tratta di svogliatezza o capricci ma di un malessere interno che opprime i bambini. Per esempio alla paura scolastica sono legati incubi notturni, ansia acuta e il rifiuto di andare a scuola, perché vissuta come un contesto minaccioso. I piccoli affetti da ansia sociale tendono ad isolarsi dal gruppo per la paura di non essere interessanti o poco graditi.
Nel 2012 emerge un nuovo scenario: la crisi economica come nuova fonte di stress e ansia. Un quadro disarmante emerge dallo studio dell’Eurodap, Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico, su come gli italiani stanno vivendo questo lungo periodo di crisi.
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“Delle 500 persone, tra i 18 e i 65 ani di età, che hanno preso parte al nostro sondaggio, l’80 % si è detto preoccupatissimo per l’odierna situazione di crisi che sta vivendo l’Italia – afferma Paola Vinciguerra, psicologa, psicoterapeuta, presidente Eurodap – Tra le persone c’è paura, rabbia e in molti casi anche sensi di colpa. I pensieri che costruiamo in questa situazione di allarme, difficilmente potranno essere positivi quando non abbiamo più la speranza. Chi ci guida, i politici, viene percepito come nemico e non come un protettore e il futuro può essere unicamente minaccioso. La volontà di miglioramento, d’impegno che sarebbe necessaria in questo momento per trovare alternative e soluzioni, è completamente annullata dalla paura, dall’ansia e dalla depressione.”
Solo 3 persone su 10, infatti, credono che inventare qualcosa di diverso sarebbe utile a superare questo brutto momento che sta vivendo l’economia, mentre il resto, purtroppo la maggioranza, non vede possibilità di individuare vie d’uscita per superare questo momento così difficile.
Stress e Ansia: prevenire è meglio che curare.
Una buona notizia in materia di stress e ansia è che nessuno dei due è un destino inevitabile, qualcosa contro cui non possiamo combattere. La prevenzione primaria e secondaria sono la prima arma, uno strumento attraverso cui si promuovono competenze specifiche, abilità, strategie che possono essere di grande utilità per anticipare il pericolo e gestirlo in maniera efficace “prima che peggiori”. Questo passo non può però prescindere da un momento fondamentale, quello che si basa sulla conoscenza del fenomeno, sul fare informazione, sull’insegnare alle persone cosa sono ansia e stress, come si legano tra loro, quali sono i fattori che li causano e soprattutto come riconoscerli, a partire dall’ascolto delle nostre sensazioni, emozioni e pensieri.
Perché insomma, prevenire è sempre meglio che curare!
Quando le esperienze della vita ti permettono di conoscere persone straordinarie, non si può fare a meno che ascoltare le loro storie e lasciarsi incuriosire da ciò che hanno da raccontare.
Sono venuto a conoscenza di Randy Pausch ad un Training ACT (organizzato da ACT Italia) a cui ho partecipato.
Questo intermezzo della mia monografia sull’Acceptance and Commitment Therapy è dedicato proprio a lui: Randy Pausch, professore di informatica alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh in Pennsylvania.
Nel settembre 2006, gli è stato diagnosticato un cancro al pancreas metastatizzato. Sottoposto a intervento chirurgico palliativo e chemioterapia, è vissuto in modo attivo e proattivo fino alla fine del 2007. È deceduto il 25 luglio 2008.
Come ricorda wikipedia, nella pagina a lui dedicata, Randy Pausch ha tenuto la sua ultima lezione pubblica, la “Last Lecture” intitolata “Realizzate i Vostri Sogni d’Infanzia” (“Really Achieving Your Childhood Dreams”), presso la Carnegie Mellon University il 18 settembre 2007.
Randy Pausch ha tenuto la sua “Last Lecture” gravitando intorno alla seguente domanda: “quale messaggio provereste a trasmettere se aveste una sola ed ultima occasione per farlo?”.
Ciò che colpisce della lezione di Randy Pausch è la freschezza e il vigore con cui parla, il contatto preciso e disincantato con ciò che gli è accaduto e soprattutto con ciò che lo aspetta. In questa lezione Randy Pausch incarna molti dei principi dell’ACT e, a suo modo, continua (per quanto gli è concesso) la propria vita, ispirato a ciò che lui ritiene importante, fattibile e “di valore”.
Non credo vi sia modo migliore per comprendere il suo messaggio che ascoltarlo nella sua Last Lecture…
In Treatment – Recensione Sesto Episodio –Laura: Una settimana prima Laura voleva andare a letto con il suo terapeuta e aveva quasi lasciato il suo fidanzato. Ora lo sposa.
Inizia il secondo giro di sedute. Nella prima settimana ogni paziente ha esposto il suo tema, che ora va incontro agli sviluppi. Torna Laura, la giovane infermiera che sette giorni prima aveva dichiarato il suo desiderio e perfino il suo amore a Paul. Torna sorridente e luminosa e annuncia a Paul di avere accettato di sposare il suo fidanzato. Devo dire che la reazione di Paul è irritante, almeno da un punto di vista psicoterapeutico. Paul non incoraggia la paziente, non la supporta, non la valida. Teme che il cambio di rotta sia troppo repentino. Una settimana prima Laura voleva andare a letto con il suo terapeuta e aveva quasi lasciato il suo fidanzato. Ora lo sposa.
Intendiamoci. Che la conversione di Laura sia troppo rapida è vero. E inoltre, dal punto di vista drammatico, gli sceneggiatori fanno bene a mantenere alto il livello di confusione. Infine, da un punto di vista squisitamente psicoanalitico Paul continua a fare il suo mestiere: instillare dubbi, suggerire che ogni decisione sia sempre una difesa inconscia.
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Tutto giusto. Però da un punto di vista più terapeutico smontare di nuovo una paziente così visibilmente sofferente e al tempo stesso così confusa e poco capace di gestirsi è davvero una mossa azzardata. Nella realtà, un terapeuta prudente avrebbe inc0raggiato la paziente e avrebbe tirato un sospiro di sollievo, dopo le offerte sessuali della settimana precedente. Senza contare i rimproveri della terribile Gina.
Però lo spettacolo deve andare avanti, dritto verso il suo precipizio. I dubbi di Paul sono fondati, e la paziente reagisce tornando alle provocazioni sessuali, e dichiarando di esse sicura che tra lei e Paul c’è una genuina attrazione. A questo punto Paul tenta di metterci una pezza ma ormai è tardi. E dire che la paziente lo aveva avvertito di volere una seduta felice e non tesa. Insomma, una seduta di validazione emotiva. Ma cos’è questa validazione?
Secondo Marsha Linehan (1993) l’aspetto essenziale di un intervento di validazione consiste nel comunicare al paziente che le sue reazioni hanno un senso e che possono essere comprese se si tiene conto della sua condizione attuale, dei fattori ambientali e delle diverse situazioni che occorrono.Il terapeuta decide di accettare l’altro così com’è, glielo comunica e considera con attenzione il racconto delle sue difficoltà emotive, senza sminuirne il valore o banalizzarle.
Insomma, si tratta del contrario di un’interpretazione delle difese, intervento che svaluta i pensieri e le emozioni coscienti del pazienti attribuendo loro un altro significato, inconscio. Laura non la prende bene e viene naturale pensare che, in fondo, Paul se l’è cercata. È tutta la situazione di Paul che appare sempre più dolorosa e problematica. La seduta era stata preceduta da un breve scambio tra Paul e sua moglie che mostra le incrinature del loro rapporto. Purtroppo Paul sembra vivere in un suo mondo in cui non c’è più spazio per la vita al di fuori della terapia e dei suoi pazienti.
Una sola breve esperienza di binge-alcol – che è simile a quello che spesso molti fanno durante le vacanze o nei fine settimana – può dare inizio a un effetto cascata di danni cerebrali.
Si sa che l’assunzione cronica di grandi quantità di alcolha effetti negativi sulla salute – problemi cardiaci, epatici, disturbi cognitivi e danni cerebrali – e che l’entità del danno dipende in larga misura dal modo in cui vengono consumati gli alcolici.
Il binge drinking, in particolare, se avviene almeno una volta al mese in età adulta aumenta significativamente il rischio di sviluppare demenza nel corso della vita; tuttavia ancora poco si sa su quale sia la soglia precisa oltre la quale si hanno effetti dannosi per l’organismo.
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Uno studio condotto alla University of Kentucky e pubblicato sulla rivista Alcoholism: Clinical & Experimental Research, suggerisce però che questa soglia potrebbe essere ancora più bassa di quanto si possa immaginare.
Nel corso dello studio un gruppo di ratti è stato sottoposto all’assunzione di alcol per un periodo di 1 o 2 giorni a intervalli regolari di otto ore; il loro tessuto cerebrale è stato poi esaminato 2 o 7 giorni dopo la dieta alcolica.
I risultati indicano che le cellule gliali – che sono cellule di varia forma e funzione, non direttamente coinvolte nei processi di trasmissione degli impulsi nervosi, ma che costituiscono un sostegno strutturale ai neuroni, assicurando loro nutrimento, protezione dalle lesioni, e svolgendo altri compiti fisiologici quali l’isolamento elettrico degli assoni – reagiscono ai danni cerebrali esprimendo diverse proteine che in condizioni di salute non vengono espresse, una delle quali è la vimentina; l’espressione della vimentina era evidente a occhio nudo in molti tessuti cerebrali esposti all’alcol per un periodo minimo di 24 ore.
I ratti avevano livelli di alcol nel sangue che erano più di quattro volte il limite di guida legale, che per essere raggiunto negli esseri umani richiederebbe di bere 12 lattine di birra, un paio di bottiglie di vino, o la metà di un quinto di whisky. Purtroppo, i self-report sull’assunzione di alcolici e i dati relativi al livello di alcol nel sangue di strutture di pronto soccorso confermano che questo livello di consumo è comune nei pazienti con disturbi da abuso di alcolici.
La Vimentina sembra essere un buon marcatore di attivazione gliale che mostra che un giorno di binge drinking può causare danni cerebrali che persistono e addirittura crescono dopo una settimana di astinenza.
Tuttavia l’assenza di palese deterioramento neuronale suggerisce che un singolo, breve e intenso binge probabilmente non si traduca in cambiamenti funzionali e / o deficit cognitivi, ma poiché gli alcolisti hanno binges multipli per tutta la vita, è importante considerare che ogni binge successivo al primo provoca un certo livello di danni al cervello.
Quindi, teoricamente, più binge provocano un effetto cumulativo negativo a livello cognitivo, comportamentale, e strutturale.
In conclusione, dice Nixon, autore principale dello studio, il messaggio forte che questi dati ci inviano è che anche una sola breve esperienza di binge-alcol – che è simile a quello che spesso molti fanno durante le vacanze o nei fine settimana – può dare inizio a un effetto cascata di danni cerebrali.
Convegno: “L’Evoluzione della Cura tra Oriente e Occidente” – Firenze 1 dicembre 2012
Il primo dicembre a Firenze ho partecipato ad un interessante evento organizzato da IFP Istituto di Formazione Psicosomatica di Firenze – SIMP TOSCANA Società Italiana di Medicina Psicosomatica Sezione Toscana – SIPNEI Società Italiana di PsicoNeuroEndocrinoImmunologia Sezione Toscana, con la collaborazione della Scuola di Agopuntura Tradizionale della città di Firenze, nel quale ci si interrogava sulle aree di contatto e di similitudine dei paradigmi di cura occidentali ed orientali, una visione d’insieme, un macro-sguardo volto a trovare sinergie nell’ottica di un approccio olistico all’individuo e ai processi di cura.
Premessa teorica che ha spinto gli organizzatori a promuovere questo evento è certamente la crisi del modello biomedico ad oggi dominante in occidente.L’evento risponde all’esigenza dei curanti di riflettere sul rapporto tra medicina e filosofia della cura nel modello occidentale ed orientale, capire quali i punti comuni quali le incongruenze e come poter apportare nell’uno e nell’altro modello importanti miglioramenti mutuati dall’altro.
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Se ci pensiamo l’intreccio tra filosofia e medicina ha origini molto antiche, anzi possiamo dire che sia in Cina che in Grecia segna indelebilmente gli inizi delle due discipline. Molto spesso in effetti le due discipline erano incarnate nella stessa persona, altre volte erano l’uno allievo e l’uno maestro dell’altro.
In occidente poi con la rivoluzione scientifica si è aperta una forbice sempre maggiore tra filosofia e medicina andando incontro ad una visione estremamente meccanicistica e specializzata che pur trovando negli anni importanti riscontri di eccellenza ha portato ad una visione sempre più “spezettata” dell’essere umano, un non dialogo tra i professionisti della cura, tra gli stessi professionisti che hanno in cura uno stesso individuo. Questo non è accaduto in oriente dove il paradigma di cura mantiene una visione olistica dell’individuo, dove il legame tra medicina e filosofia è rimasto saldo.
Il convegno nasce dall’esigenza di trovare un dialogo dopo tempo, nasce dall’idea di poter integrare e trovare una via olistica di cura, senza vincitori né vinti, ma trovando nell’uno e nell’altro modello tecniche e specializzazione che possano apportare ad un aiuto prezioso al superamento della sofferenza.
“Abbracciare, ecco la gran scienza. Distinguere è la scienza di ordine inferiore” forse è da qui che si può partire per trovare un ponte tra Oriente ed Occidente. Tra i tanti, forse, il ponte di più facile comprensione tra modello Orientale e modello Occidentale è l’utilizzo della meditazione, intesa come strumento di terapia e di cura del sé, in questo ci viene in aiuto l’intervento del Dott. Bottaccioli che proprio di questo tratta nel suo interessante intervento.
Il Dott. Bottaccioli pone l’attenzione sul sottogruppo di meditazioni basate sulla consapevolezza (meditazione Vipassana, meditazione Zen, meditazione sulla consapevolezza per la riduzione dello stress….), il cui elemento comune è lo sviluppo di un’attenzione rivolta al momento presente caratterizzata da apertura, attenzione nel presente, accettazione e curiosità.
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Sono infatti ormai molte le ricerche che suggeriscono che questo allenamento all’attenzione abbia significativi effetti benefici sulla salute fisica e mentale. L’applicazione delle tecniche di neuro-imaging al cervello dei meditanti mostra che gli effetti positivi della meditazione sulla salute si combinano con la riprogrammazione di cruciali circuiti cerebrali. Ad esempio, diversi studi hanno osservato come la corteccia prefrontale dorsolaterale, la corteccia prefrontale ventromediale e la corteccia anteriore cingolata si attivano maggiormente nei soggetti che praticano da anni meditazione rispetto a controlli sani paragonabili per genere età e scolarizzazione, che non hanno mai meditato (Holzel, 2007).
Inoltre, i dati di un altro studio interessante dell’Università di Toronto, ci mostrano come un corso di 8 settimane di meditazione mindfulness “sia” in grado di alterare in maniera significativa il pattern di attivazione cerebrale di coloro che avevano meditato. In sostanza parafrasando un antico detto buddista, forse la meditazione non cambierà il mondo esterno, ma può certamente cambiare la nostra maniera di relazionarci ad esso. Anche in questa giornata, poi, viene posto l’accento sull’importanza della relazione, come uno degli strumenti più importanti nelle mani del clinico, la relazione medico paziente come parte integrante del processo di cura.
Lascio Firenze con molti spunti, qualche libro di filosofia da rispolverare e con una diversa attenzione per l’individuo nella sua totalità.
Chiedere scusa dopo aver commesso un errore non è semplice per tutti allo stesso modo. Le ricerche sulla “propensione a scusarsi” (disposition to apologize) sono proliferate soprattutto nel corso dell’ultimo decennio: prima di allora, tale costrutto è stato studiato solamente in relazione ai concetti di “clemenza” e “perdono”, e considerato un loro precursore (Exline & Baumeister, 2000).
Uno degli studi più interessanti che si è invece focalizzato nello specifico sulla propensione a chiedere scusa è stato condotto da Lazare nel 2004: il ricercatore è stato tra i primi a mettere in evidenza come questa capacità non sia presente in tutte le persone in egual misura.
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I più propensi a chiedere scusa sarebbero infatti coloro che mostrano più umiltà, empatia e orientamento verso gli altri; chi possiede credenze positive sul sé, chi crede nella possibilità di migliorare in merito alle esperienze vissute e chi ha un’impostazione mentale fondata sull’accettazione non giudicante delle persone e degli eventi che accadono sembra essere maggiormente in grado di comprendere i propri errori e agire di conseguenza (Lazare, 2004).
Più in generale, gran parte degli studi condotti sul tema sono giunti a concludere che la volontà di scusarsi rifletta un funzionamento psicologico sano ed adattivo (Howell, Dopko, Turowski, Buro, 2011).
Howell e colleghi, della Grant MacEwan University (Canada) hanno condotto un interessante studio volto sia ad identificare nello specifico i tratti di personalità correlati alla willingness to apologize, sia a testare lo strumento da loro sviluppato per misurare il costrutto in questione (questionari precedenti si erano più generalmente focalizzati sulla riconciliazione o su situazioni specifiche: Ashy, Mercurio, & Malley-Morrison, 2010; Sandage, Worthington, Hight, & Berry, 2000). Il PAM (Proclivityto Apologize Measure), un questionario di 35 item, è stato così somministrato ad un gruppo di studenti canadesi, insieme ad una batteria composta da 12 ulteriori questionari self-report.
Come previsto, livelli più alti di propensione a scusarsi correlavano positivamente con alti livelli di accettazione (scala della mindfulness) e di compassione verso se stessi e verso gli altri. Ad essere più propensi a scusarsi erano anche coloro che riportavano livelli maggiori di benessere, una maggior tendenza a vedere le persone come in grado di cambiare e un maggior orientamento verso gli altri (dimensione del caring).
Chi si riteneva soddisfatto dei propri livelli di autonomia, competenza e delle proprie relazioni e riferiva un alto grado di autostima riportava meno difficoltà nel riconoscimento degli errori commessi e chiedeva scusa con più naturalezza.
I fattori che invece ostacolavano l’inclinazione a scusarsi erano invece la tendenza all’evitamento, alti livelli di supponenza e intransigenza e tutti i tratti di personalità riconducibili al narcisismo, come il self-focus (Howell et al., 2011).
Si tratta di risultati particolarmente interessanti, ma occorrono ulteriori studi che indaghino lo stesso costrutto basandosi su un campione più ampio e utilizzino il questionario di Howell e colleghi, in modo da testarne l’efficacia.
Exline, J. J., & Baumeister, R. F. (2000). Expressing forgiveness and repentance. Benefits and barriers. In M. E. McCullough, K. I. Pargament, & C. E Thoresen (Eds.), Forgiveness: Theory, research, and practice (pp.133–155). New York: Guilford Press.
Howell, A. J., Dopko, R. L., Turowski, J. B., & Buro, K. (2011). The disposition to apologize. Personality and Individual Differences, 51, 509–514. (DOWNLOAD)
Lazare, A. (2004). On apology. New York: Oxford University Press.
Giancarlo Dimaggio è uno dei più vivaci e intelligenti esponenti del cognitivismo clinico italiano e internazionale. Da sempre promuove l’esplorazione dei disturbi metacognitivi nello studio della sofferenza emotiva e il trattamento di questi disturbi. E’ autore di importanti articoli e libri su questi argomenti (vedi bibliografia).
E’ psichiatra e psicoterapeuta cognitivo, professore di psicoterapia della Scuola di specializzazione in Psicologia clinica dell’Università “La Sapienza” di Roma, didatta della SITCC(Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva), socio fondatore del Centro di Terapia metacognitiva interpersonale di Roma, didatta presso l’“Istituto A.T. Beck”.
Dimaggio, G., Lysaker, P.H. (2010) (a cura di), Metacognizione e psicopatologia. Valutazione e trattamento. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2011.
Dimaggio, G., Salvatore, G., Fiore, D., Carcione, A., Nicolò, G., Semerari, A. (2012), “General principles for treating the overconstricted personality disorder: Toward operationalizing technique”. In Journal of Personality Disorders, 26, pp. 66-83.
Dimaggio, G., Semerari, A. (2003) (a cura di), I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza, Roma-Bari.
Dimaggio, G., Semerari, A., Carcione, A., Nicolò, G., Procacci, M. (2007), Psychotherapy of Personality Disorders: Metacognition, States of Mind and Interpersonal Cycles. Routledge, London.