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Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa con la Sua Noia

Marisa non presenta sintomi clamorosi, ma solo una noia esistenziale, un infrangibile disinteresse per tutto e per tutti.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 05 Nov. 2012

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione 

 

#16 – L’impalpabile Marisa con la Sua Noia

Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comDisturbo dipendente di personalità

Disturbo del comportamento alimentare

Non tutti i pazienti suscitano le stesse emozioni e, con l’esperienza, si impara a tener a freno anche emozioni negative con le quali ha ben poco a che vedere il paziente, quanto piuttosto il mondo interno del terapeuta.

Un’emozione che ho imparato a temere più delle altre è il disinteresse. Non la paura, la rabbia, il disgusto o la tristezza ma, più di tutte, è il disinteresse che si ammanta di noia a preavvisare di una terapia mal condotta. Se mi annoio, vuol dire che non sono riuscito ad andare oltre le apparenze; l’esterno degli uomini è spesso ripetitivo, scontato, banale. L’interno invece è sempre stupefacente, sorprendente nella sua grandezza o nella sua miseria. Ormai l’ho capito per cui, quando mi viene da dire tra me “questo non ha niente, cosa viene a fare a farmi perdere tempo”, mi fermo un attimo e penso che sono vittima dell’inganno del brutto anatroccolo, che devo guardare meglio alla sostanza di cui quella persona è fatta e non ai cliché con cui si presenta in società. La noia poi la si sperimenta quando ci si trova in un contesto in cui non si hanno scopi attivi; quando mi sento così,  mi sto valutando impotente di produrre qualsiasi cambiamento ed è prodromo di fallimento terapeutico. 

Marisa ha tutte le caratteristiche apparenti per suscitare il mio disinteresse. Non presenta sintomi clamorosi, ma solo una noia esistenziale, un infrangibile disinteresse per tutto e per tutti, esclusi i suoi due figli di cinque e otto  anni. Non lavora perché non ne ha bisogno, ma anche (se si oltrepassa la buccia) perché si ritiene incapace di qualsiasi attività. 

L'anoressia- Il corpo Invisibile. - Immagine: © deviantART - Fotolia.com
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Viene da una famiglia ricca e persino nobile, estremamente attenta alla forma e all’apparenza, è amatissima dal marito verso il quale non prova nulla e che è stato solo un appoggio per liberarsi della sua famiglia d’origine.

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Dall’età di quattordici anni ha sviluppato un disturbo alimentare e, tuttora, abbuffa e vomita di nascosto da tutti. E’ normopeso. Circondata da servitori indiani e filippini, non fa nulla tutto il giorno, in  poche parole la si potrebbe definire un parassita dell’umanità, ricca, viziata e annoiata dal benessere. 

La accolgo con interesse solo per l’inviante, simpatico e per l’aspetto fisico. Tutto il resto è noia! L’inviante è suo cugino che è stato, in passato, mio paziente e che ricordo come persona brillante, intelligente e simpatica.  Siccome lui era davvero squinternato, immagino che anche la cugina debba esserlo e, dunque, mi impongo di prestarle attenzione. 

Inoltre, Marisa è una trentottenne alta un metro e ottantacinque di una bellezza scultorea. La immagino come la polena di una nave vichinga per la maestosità imponente del suo corpo e la decisione, solo apparente, con cui si impone. Ogni volta che entra nello studio, sento che devo esercitare autodisciplina per non soffermarmi ad ammirare le parti più esibite di quel corpo che, consapevole del suo effetto, si lascia ammirare. Lo stile non è mai volgare, piuttosto fintamente trascurato. Grandi maglioni contengono a stento un seno elegante, dove fanno bella mostra vivaci e stravaganti collane che tentano, senza bisogno, di richiamarvi l’attenzione. Marisa, che si accorge dell’effetto che fa, quasi a scusarsi, dice immediatamente che il seno è stato rifatto ben tre volte, a motivo di incredibili complicazioni operatorie. Le tuniche dall’aspetto monacale, con le quali nasconde il suo fisico slanciato e robusto da ragazza di buona famiglia che ha fatto sport (equitazione, polo, scherma, golf, tanto per intenderci) sin da piccolissima sono, come una tela di Fontana, squarciate su un lato fino a una dozzina di centimetri dall’inguine. 

Lo sguardo azzurro intenso, che compare e scompare dietro un siparietto oscillante di capelli biondi, racconta però una tristezza abissale. O meglio, qualcosa di peggio, la noia. Marisa non ha apparentemente problemi. Il marito la adora ed ha accettato di non essere ricambiato, chiedendo in cambio solo una notte di amore sfrenato, indotto dalla cocaina, con frequenza circa quindicinale. I figli vanno bene a scuola e promettono bene a golf, polo, equitazione e scherma. Il padre ha tolto il disturbo due anni fa, eliminando problemi di assistenza che un’incipiente demenza poteva far temere. La madre continua a rimproverarla per ogni cosa che fa e le dice che non combinerà mai nulla di buono, ma è un disco rotto a cui non bada più. Le sue giornate si dividono fra visite alle amiche con pettegolezzi incrociati, shopping militante e naufragio dolce, con dosi massicce di cannabis, che le consente di staccare il pensiero.

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Quando non è staccato, il pensiero si avvita su due temi. 

Cosa penseranno gli altri di me è la domanda che si pone in presenza ed in assenza degli altri, durante tutto lo stato di veglia. Si badi bene che la questione cruciale non è cosa potrebbe avvenire nella relazione con l’altro, a seconda del giudizio più o meno positivo, ma chi sia effettivamente Marisa. Cerca nel giudizio dell’altro una risposta, che lei non ha, circa chi lei sia, cosa voglia, cosa tema. Il giudizio negativo cui è sin da piccola abituata non la spaventa quanto l’assenza del giudizio stesso, il  terrore è che lo specchio non rifletta nulla e venga certificata la sua inesistenza. 

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E qui si verifica il paradosso della bellezza: è evidente che si accorga di essere notata e oggetto di apprezzamenti positivi, indubbiamente ne è contenta, ma ciò non cambia niente, non le dà alcuna consistenza identitaria, non è lei ad essere notata ma il suo corpo. Anche quando l’interesse è rivolto ad altri aspetti di lei, scatta implacabile la maledizione della bellezza, “si interessano a me solo per il mio fisico e non si accorgono neppure che esisto”, un modo per non riconoscersi nessun valore che non sia quello estetico. 

L’altro pensiero costante è quello del cibo. Vive sotto la tirannia delle calorie, resiste a qualsiasi introduzione calorica e si impegna in defatiganti attività ginniche per eliminarle. La sua ha il connotato di una sfida mistica, una lotta contro il demonio e le sue tentazioni. Si esalta nella prospettiva della vittoria, ma basta un piccolo cedimento che tutta la linea di difesa crolla: i primi sono i dolci, la cioccolata e i crackers. Senza mezze misure, che tanto tutto è perduto, fa incursioni nella dispensa e stermina merendine dei figli e pacchi formato famiglia di biscotti. Quando la dispensa è svuotata, attacca nel frigo formaggi, salumi, maionese e ketchup. A questo punto, in uno stato confusionale che è quasi una trance,  prova un gonfiore opprimente allo stomaco che le ostacola il respiro. Solo raramente ha violato la porta del freezer e si è ritrovata seduta per terra, in cucina, a succhiare i bastoncini di merluzzo per ammorbidirli, prima di riuscire a spezzarli e ingoiarli in grossi pezzi. Fino circa ad un anno fa,  l’episodio si concludeva con Marisa avvolta in un plaid sul divano, tracimante di cibo e di sensi di colpa e con un po’ di preoccupazione all’idea di poter morire soffocata. 

Poi, in un giorno di particolari eccessi,  le avvenne di vomitare una slavina rosa sul tappeto della nonna. Fu terribile, perché rese impegnativo l’occultamento della sua abitudine di abbuffare. Da allora, per evitare il ripetersi dell’incidente, iniziò ad andare in bagno e scoprì che bastava inginocchiarsi di fronte alla tazza del cesso e immaginarsi due o tre cose, che aveva scoperto essere dei formidabili trigger, per vomitare tutto senza difficoltà e senza tracce, tranne un odore di acido che, sempre di più, stava impregnando il suo bagno. Naturalmente Marisa è perennemente a dieta e nessuno sospetta il problema, essendo il suo fisico ineccepibile. Immagina che nessuno potrebbe capirla e prova vergogna per quanto le capita. 

In verità, il fatto che nessuno si avveda di quanto le accada, è una sicurezza nel presente ma un dolore lontano.

 Seconda di tre figli, in mezzo a due fratelli geniali e di grande successo, è sempre stata trasparente agli occhi dei genitori. Ricorda che a nove anni andava a scuola con l’abbigliamento e il trucco che sarebbero stati eccessivi e volgari per una prostituta, senza che nessuno le dicesse nulla. Portava a casa numerosa refurtiva, sottratta ai compagni, con lo stesso risultato. Queste disattenzioni genitoriali le sono particolarmente evidenti e motivo di rabbia, ora che è lei ad essere nel ruolo di mamma. Racconta che già a quindici anni aveva l’aspetto fisico attuale e non stento ad immaginare l’effetto che poteva fare a compagni e professori. 

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Pur non studiando quasi nulla riuscì ad essere sempre promossa, in parte  per il cognome altisonante che portava e che i genitori facevano valere, al momento buono, in parte per le ripetizioni che alcuni professori si offrivano di darle gratuitamente. Faceva ripetizioni, infatti,  sempre dopo la disastrosa pagella del primo trimestre, con tutte le materie più importanti: il  Marucci, terrore dell’italiano e del latino, la riceveva due ore a settimana, il Grigno, settantenne scienziato matematico, con aspirazioni da Nobel e gobba da Quasimodo,  le dedicava un’ora al bisogno prima dei compiti in classe, il professore di scienze Gangemi,  trentottenne siciliano in trasferta a Roma senza la famiglia al seguito,  si recava addirittura a casa sua. 

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I genitori non si chiesero mai perché i professori si prestassero a lavorare così assiduamente ed entusiasticamente gratis per una giovane sfaticata, indisponente e nient’affatto brillante; in verità le ripetizioni non erano affatto gratis, ma retribuite fantasiosamente senza il ricorso al denaro. Marisa ne ricavò la convinzione di poter ottenere tutto senza impegno e solo imparando a capire al volo e soddisfare i desideri degli altri. Ancora si chiede come i genitori non si interrogassero sul perché ogni anno la prima pagella fosse disastrosa, facendo scattare il bisogno delle ripetizioni, che poi conducevano ad una conclusione dell’anno brillante. Poi l’anno successivo tutto ricominciava da capo, come se a nulla fossero valse le ripetizioni. I professori erano particolarmente severi nel primo trimestre, per rendere necessarie le ripetizioni, a fine anno, invece, dovevano essere particolarmente generosi per compensare le insufficienze che comunque Marisa accumulava nelle materie a gestione femminile. Perdere per strada una tale studentessa sarebbe stato un vero peccato  per il Marucci, il Grigno e il Gangemi. 

Negli ultimi tre anni del liceo abortì clandestinamente due volte, senza dir nulla neppure ad Eugenio, che era il suo ragazzo di allora, una specie di bullo malavitoso che l’aveva scelta solo perché il capo deve avere la donna più bella come simbolo del suo potere. La invidiava e  la umiliava per il suo stato sociale e non era raro tornasse a casa con vistosi ematomi sul volto e la famiglia scherzava sulla sua proverbiale disattenzione per gli spigoli. 

Durante questo periodo Marisa sviluppò sia una notevole maestria nelle faccende di sesso, che le conferì prestigio nella comunità scolastica maschile e invidia malevola in quella femminile, sia una sorta di distaccata anestesia sessuale. Le rutilanti prestazioni da tigre del sesso andavano di pari passo ad un godimento tenue e spaventato, come un micetto inseguito da un mastino infuriato e bavoso. Tuttora, nelle defatiganti nottate in cui con l’ausilio della cocaina si paga con interessi da usura il debito coniugale, Marisa è una sorta di attrice non protagonista che assiste dal di fuori,  spinta dalla droga in una smania febbricitante alle esaltate evoluzioni del marito.

Il momento che più si connota di piacere è dopo le abbuffate: con lo stomaco in tensione, il cervello annebbiato dalla cannabis, il tepore della coperta in cui si avvolge, stringe forte il cuscino di velluto tra le cosce e dopo un po’ avverte pulsare in basso, al ritmo cardiaco, un gocciolante rapido godimento. 

Quando l’attuale marito ha bussato alla porta per chiederla per fidanzata e poi sposa, i genitori sono stati ben contenti di sistemare questa figlia senza qualità e senza speranze, che rappresentava solo un costo. Si aggiunga che Riccardo, assolutamente privo di qualsiasi tratto nobiliare e di raffinatezza, aveva però un’ottima attività ed un traboccante conto in banca e Marisa avrebbe avuto un futuro assicurato, nonostante la sua scontata  incapacità. Sapeva di non amare quell’uomo, ma iniziava anche a chiedersi se, semplicemente, non fosse proprio incapace di amare. Almeno era ricco e completamente al servizio della sua bellezza, che immaginava non sarebbe durata per sempre, meglio realizzare subito il dono di madre natura prima che si deteriori. 

Per sette anni si era rifiutata di fare figli, convinta di essere incapace a crescerli. Per tutto questo periodo aveva pensato seriamente al suicidio come ad una liberazione dalla noia. Non aveva mai progettato il gesto coscientemente, ma aveva preso sistematicamente ad utilizzare il phon immersa nella vasca, oppure a guidare sotto l’effetto di forti dosi di cannabis. 

Da quando è diventata madre ha accantonato l’idea, pur continuando ad augurarsi una morte improvvisa per cause naturali. 

 I figli sono stati voluti da Riccardo che ha deciso per entrambi e di questo lei lo ringrazia. Dopo i due allattamenti si è fatta ritoccare il seno.

Il principe dei chirurghi plastici le ha messo una protesi esplosa, in seguito, sotto la pressione della cintura di sicurezza. Sono seguite altre tre operazioni tutte incredibilmente con complicazioni, alla fine è residuata una orribile cicatrice che vorrebbe a tutti i costi mostrarmi. 

Con il principe dei chirurghi ha avuto una relazione iniziata un anno prima del nostro incontro e che è motivo di sofferenza: i due si scambiano messaggini di contenuto erotico, con lo scopo dichiarato dell’incentivo alla solitaria contemporanea masturbazione. Entrambi non sembrano interessati ad una traduzione  pratica delle fantasie, il  piano fantastico  preserva dai guai coniugali e soprattutto dalle delusioni.

Quando il principe non si fa vivo per parecchio tempo, lei sprofonda in quello stato di perdita dell’identità che conduce alle abbuffate. Lo stesso non avviene se è lei a interrompere i contatti; non  le serve averlo, non sa che farsene, le serve pensare che lui la voglia, la desideri, la pensi, uno  come lui che ha visto nude le donne più belle del mondo. 

Marisa sembra non avere desideri, né  interessi di alcun genere. 

Una sola volta ha tentato di lavorare come contabile nell’impresa del marito ma non capiva quello che doveva fare, anche perché non glielo avevano spiegato, certi che non ne sarebbe stata in grado. Tutto ciò la fa sentire sempre inferiore agli altri. 

Il circolo vizioso in cui è infilata è di questo tipo: siccome non so fare niente, non mi cimento in nessuna attività per evitare fallimenti. Non facendo nulla, non scopro se certe attività siano piacevoli, nè se siano alla mia portata. Non avere interessi e competenza è una ulteriore prova della mia incapacità. 

Insomma,  non è la mancanza di interessi e, dunque, di esperienze a generare il senso di inefficacia, ma esattamente il contrario, è l’inefficacia a generare la paralisi operativa. 

Andiamo a frugare nel suo lontano passato per scoprire se, prima dell’istaurarsi di questo sentimento di inefficacia, ci fossero state delle tendenze, passioni o talenti. In verità, seguo un’intuizione avuta dal primo incontro: Marisa sembra una natura artistica costretta a vivere un’esistenza non sua, una poderosa quercia mutilata e costretta a diventare un bonsai. Riemerge dalla prima infanzia una passione per il disegno e il piacere di giocare con il pongo e la plastilina. Questa sua passione fu considerata una perdita di tempo e, perciò,  la ragazza fu avviata allo sport ed allo studio della musica che, insieme alla danza, più si confaceva al suo status sociale. Nel ritornare ai primi anni della sua vita, anche attraverso foto di famiglia  utilizzate per ricostruire il genogramma, ci avvediamo dei volti tristi che i genitori mostrano sempre. E’ in questa occasione che Marisa rammenta tre gravi eventi luttuosi che hanno marcato la sua infanzia e io ne immagino immediatamente la connessione con il suo senso di indegnità e la colpa del sopravvissuto che le impedisce di godersi la vita, anche se Marisa non vede alcun nesso con la sua situazione di cronica insoddisfazione.

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Il primo evento ha preceduto di qualche anno la sua nascita: un fratellino,  Vittorio, di tre anni,  fu ritrovato morto nel lettino la mattina del primo dell’anno. I genitori provarono un dolore straziante, aggravato dal senso di colpa per il fatto di aver bevuto troppo la sera di Capodanno;  immaginarono di non aver sentito i richiami del figlio agonizzante e di averlo lasciato morire da solo. Secondo Marisa la madre non si è più ripresa da questo lutto e, ancora oggi,  odia tutti i viventi per il solo fatto di essere tali.

 Il secondo evento è contemporaneo alla nascita di Marisa. La gravidanza, iniziata due anni e tre mesi dopo la morte di Vittorio, si presenta gemellare e tutto procede bene fino al sesto mese. Poi, lo sviluppo dei due feti diventa asimmetrico e, al momento della nascita la femmina, Marisa, è vivace e ben sviluppata, il maschietto nasce morto. Il ginecologo spiega che la bambina ha prevalso e battuto il fratello nella competizione per le risorse e per la vita. Per questo, Marisa si porta per cinque anni il soprannome de “la cannibala” : diviene una sorta di aneddoto familiare che lei abbia sempre fame e divori tutto ciò che ha intorno. 

Infine la morte del nonno. Quando Marisa compie sette anni, viene iscritta ad un corso pomeridiano di fisarmonica cui l’accompagna nonno Gino, sessantatreenne appena andato in pensione,  perché la custodia con dentro lo strumento è pesante. Nell’attraversare viale Manzoni, la bambina sfugge al nonno e si mette a correre, lui  avverte il pericolo del tram che sopraggiunge e balza in avanti, ce la fa a spingere Marisa oltre le rotaie e anche lui sembra in salvo ma il  tram ha montati sui fianchi dei portabandiera per il giorno successivo, ventuno aprile, Natale di Roma. Il supporto aggancia la cinghia della custodia della fisarmonica e trascina Gino per una dozzina di metri sotto le ruote. Quando il tranviere, disperato, riesce a fermare il mezzo Marisa, sdraiata sul nonno morente, è intrisa di sangue ma illesa. Il sacrificio del nonno non è stato inutile. E’ morto per lei. 

Nessuno l’ha mai apertamente rimproverata dell’accaduto, solamente anni dopo alcune critiche hanno iniziato a manifestarsi, sul suo modo di fare “troppo impulsivo”, sul suo “gettarsi in ogni situazione senza riflettere”. Marisa ha iniziato a pensare che doveva essere più calma, più prudente, ricorda che immaginava  che, se restava immobile dentro il letto, non avrebbe fatto danni.

Così passava moltissimi pomeriggi dopo il ritorno da scuola, con il solo conforto del cuscino stretto tra le gambe. Ora che li ricorda, quei pomeriggi assomigliano moltissimo ai suoi ritiri odierni sul divano e sotto il plaid, con le canne dopo le abbuffate.  

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Lavorammo su questo tema di indegnità e colpa, che le aveva impedito di vivere una vita, la sua, che era costata tre vittime innocenti. Il proprio godimento era sentito come una offesa a quei morti, cui ogni piacere era precluso per sempre. Provammo a ristrutturare diversamente il modo di vedere la cosa: se lei viveva una vita bella, il loro sacrificio acquistava un senso e non era stato inutile,  lei aveva il dovere di vivere anche per loro.

Fece un sogno in cui  era incinta e cercava di raggiungere di notte, a piedi, l’ospedale ma si perdeva su degli oscuri sentieri di montagna. Stremata, credendo di non farcela, si sdraiava per terra. Un cerbiatto luminescente balzava fuori dalla sua vagina e le indicava la strada. Proseguiva ancora il cammino, ma le forze le mancavano di nuovo: accasciata per terra, partoriva di nuovo un essere informe che restava per terra al suo fianco. Per rianimarlo iniziava a plasmarlo e ne faceva una specie di piccolo bronzo di Riace, ma con un morso lo evirava perché voleva finalmente una femmina. 

Genericamente e con poca convinzione da parte mia, convenimmo che il sogno significava che era giunto per lei il momento di vivere e fare ciò che davvero voleva, che da lei sarebbero uscite cose belle e luminose.  Si trattava di un generico incoraggiamento a darsi da fare e prendere in mano la propria vita, che non era finita con quelle tre morti prima ancora di cominciare.  

Non so dunque a cosa attribuire quello che accadde nei successivi sei mesi. Marisa interruppe la relazione virtuale con il principe dei chirurghi e ne iniziò una, molto più concreta e soddisfacente, con il padre di un compagno di scuola del figlio maggiore, che conobbe al consiglio di classe dove si era candidata come rappresentante. Con questo amante sperimentò i suoi primi orgasmi senza cocaina e senza cuscino. 

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Frequentò un corso di arte orafa ed iniziò a fabbricare gioielli bizzarri, ma molto apprezzati, con materiali poveri. 

Iniziò a rifiutarsi ai cocaina party di Riccardo, che rimase molto sconcertato e attribuì il cambiamento al pessimo influsso della psicoterapia. 

La bulimia sembrò spostarsi dal cibo ai corsi ed alle attività, temetti persino un viraggio maniacale. Fece un corso di ikebana, un corso di teatro sperimentale e uno di sommelier e diventò volontaria di diverse associazioni.

Un piccolo sintomo era rimasto: alla sera,  quando riepilogava dentro di sé tutte le attività della giornata, doveva concludere l’elenco ripetendo trentatre volte, senza errori pena la ripetizione la formula,  “per la salute di Ginorio”, che capimmo essere la forma contratta di per Gino e per Vittorio. Nonostante la persistenza di Ginorio, quando ci rendemmo conto che aveva difficoltà a trovare un’ora per la psicoterapia tra tutti i suoi vari impegni, decidemmo di concludere. 

Tre anni dopo mi telefonò per dirmi che avrebbe gradito la mia partecipazione al suo nuovo matrimonio.  

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