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Gli Imperativi delle Pretese: Evitare di Complicarsi la Vita

 

Gli imperativi delle Pretese- evitare di complicarsi la vita. - Immagine:© Minerva Studio - Fotolia.com LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

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Questa prospettiva egocentrica non tiene conto della libera opportunità delle persone di essere in modo diverso da come noi le vorremmo o le pensiamo e può giustificare un tentativo di imposizione, anche violenta.

In precedenti articoli abbiamo definito le pretese e poi abbiamo cercato di descriverle in relazione alla loro natura nel processo evolutivo dell’individuo.

Ricordiamo brevemente che la pretesa implica (1) la presenza di regole o imperativi rigidi, assoluti e universali e (2) l’idea che ogni persona (o anche che il mondo in generale) debba assolutamente rispettarli (es: nessuno si deve permettere di mettere ostacoli tra me e il mio obiettivo, nessuno si deve permettere di criticarmi pubblicamente, le persone devono essere sempre presenti e attente ai miei bisogni).

Il punto vulnerabile di questa prospettiva è confondere una preferenza personale, più o meno rilevante, con un imperativo, aspettativa o norma che valga in termini assoluti. Questa prospettiva egocentrica non tiene conto della libera opportunità delle persone di essere in modo diverso da come noi le vorremmo o le pensiamo e può giustificare un tentativo di imposizione, anche violenta.

Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com
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Adesso proviamo a fare il punto su quali possono essere le conseguenze di un tema pretenzioso.

1. Innanzitutto l’incapacità di tollerare la frustrazione ci rende schiavi del momento presente. Raggiungere obiettivi a lungo termine richiede sofferenza, sacrificio e fatica. La pretesa può rendere incapaci di ritardare un premio o anche solo di sostenere le innumerevoli volte in cui un risultato non giunge nei tempi e nei modi che ci attendevamo.

2. La pretesa è un piano rabbioso che ci tiene con la fronte corrucciata, porta a ruminare sul comportamento corretto e rispettoso che gli altri ci hanno negato, a esprimere giudizi di valore. E in questa richiesta (più o meno silente) noi siamo bloccati nella rabbia. E la rabbia è un emozione negativa, di lotta contro un avversario. E stare in lotta corrode le nostre energie e il nostro benessere.

3. Quando questa rabbia non è silente e ruminante può diventare esplosiva e dirompente. Possiamo attaccare verbalmente o fisicamente le altre persone, ferirle, distruggere i rapporti. Talvolta questo è l’esito di una rabbia a lungo covata, l’impulso improvviso di chi soffre a tal punto da non poter contemplare, neppure per un attimo, il dolore senza versarlo in furia.

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4. Nel rapporto con gli altri la pretesa ci danneggia in diversi modi. Innanzitutto, può far sentire le persone ‘costrette’ (non sono libero di essere come voglio)  o esposte al rischio di biasimo e disprezzo (con lui mi sento sempre inadeguato). I pretenziosi hanno molte richieste, spesso implicite, e sono severi. Questo può indurre gli altri a una ribellione impulsiva per affermare il proprio diritto al libero pensiero oppure a sottomettersi o semplicemente ad allontanarsi. Tutte e tre le reazioni costruiscono relazioni problematiche, da quelle tempestose a quelle devitalizzate.

5. La pretesa blocca, nel senso che ostacola la produzione di alternative e la flessibilità dell’individuo. Se gli altri devono assolutamente qualcosa, allora questa è l’unica possibilità. Ogni altra soluzione diversa è scartata o non contemplata. L’uomo si trasforma in un rigido automa programmato da regole e incapace di mettere in discussione critica. E quando è frustrato gli resta sempre e solo la stessa carta: cercare di ripristinare e imporre il giusto dovere. La pretesa ostacola la capacità di disingaggiarsi dai propri scopi e esplorare nuovi modi per avvicinarsi all’orizzonte dei propri valori, che non implichino il tentativo atti di imposizione o violenza.

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In una vita in cui possiamo solo fare il massimo con i limiti e le risorse che ci vengono concessi, questo genere di  flessibilità ci aiuta a non chiudere il nostro percorso ai primi muri che l’esistenza ci offre. A riconoscere che non siamo onnipotenti. A vederci come esseri che possono muoversi splendidamente nel mondo nonostante i propri limiti, anzi forse anche proprio perché limitati. Stare fermi a guardare è difficile e doloroso ma così possiamo valutare altre possibilità, per esempio una lenta costruzione piuttosto che una feroce guerra.

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BIBLIOGRAFIA:

Fidarsi o Non Fidarsi? Quando Percepiamo un’Informazione come Vera

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Fidarsi o Non Fidarsi?

Un secolo di ricerche condotte al fine di indagare perché valutiamo le informazioni come vere piuttosto che false ha tuttavia dimostrato che anche queste decisioni “intuitive”, “di pancia”, non sono poi così semplici ed immediate come sembrano.

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Quante volte, leggendo una notizia sul giornale o ascoltando il discorso di un politico in tv, ci siamo chiesti: “Sarà vero? Posso fidarmi?”. E quante volte ci è stato consigliato, in assenza di prove concrete a sostegno dell’informazione letta o sentita, “Fidati semplicemente del tuo istinto”?

Un secolo di ricerche condotte al fine di indagare perché valutiamo le informazioni come vere piuttosto che false ha tuttavia dimostrato che anche queste decisioni “intuitive”, “di pancia”, non sono poi così semplici ed immediate come sembrano.

Essere Ottimisti Conviene! Il Ruolo delle Illusioni. - Immagine: © Time
June 6th, 2012 issue of Time Magazine
Articolo Consigliato: Essere ottimisti conviene! Il ruolo benefico delle illusioni.

Si tratta infatti di giudizi influenzabili da numerosi fattori, quali credenze generali, pregiudizi, aspettative, caratteristiche del contesto e aspetti di esperienze vissute nel passato, che interagiscono con la valutazione presente rendendo alcuni ricordi più disponibili rispetto ad altri (Bransford & Johnson, 1972; Henkel & Mather, 2007; Kunst-Wilson & Zajonc, 1980).

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Ma c’è di più. Immaginate per un momento di dover valutare come vera o falsa la frase “John Key è vivo”. È molto probabile che non abbiate idea di chi si tratti. In assenza di immagini o ricordi su chi sia questo personaggio, l’unica opzione che vi rimane è indovinare. La letteratura in campo cognitivo ha tuttavia dimostrato che siamo più propensi a giudicare un’affermazione di tale tipo come vera quando ci vengono date informazioni aggiuntive, anche se queste non forniscono alcuna prova della sua veridicità. In altre parole, se ci venisse mostrata una foto di John Key, saremmo più propensi a credere che è vivo realmente (nonostante questa, di per sé, non lo dimostri).

Eryn Newman e colleghi hanno recentemente condotto uno studio molto interessante proprio al fine di chiarire questo fenomeno (Newman, Garry, Bernstein, Kantner & Lindsay, 2012). In due sessioni iniziali venivano mostrati ai soggetti sperimentali nomi di celebrità famose o poco note, accompagnati dalla frase “è vivo” oppure “è morto” (metà delle celebrità riportate erano realmente vive). Ad alcune frasi veniva affiancata la foto del personaggio in questione, ad altre no. Come previsto dai ricercatori, nei caso di personaggi poco conosciuti la presenza della foto aumentava la probabilità che l’affermazione venisse considerata vera. È curioso il fatto che le foto promuovessero un “effetto verità” anche quando affiancate a frasi del tipo “Il personaggio X è morto” (si credeva inizialmente che le foto avrebbero portato più facilmente a considerare un personaggio ancora vivo, effetto che non si è verificato).

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In un ulteriore esperimento gli autori hanno dimostrato come fosse possibile ottenere un risultato del tutto analogo accompagnando le stesse affermazioni non con le foto dei personaggi, ma con delle informazioni aggiuntive, che ne elencassero le caratteristiche (es. “Ha i capelli corti e castani, gli occhi verdi, è un leader politico”). È stato così dimostrato come l'”effetto verità” fosse generalizzabile anche ad informazioni verbali che non fornissero alcuna prova all’affermazione da valutare.

Si tratta di risultati che vanno approfonditi, dal momento che vero meccanismo di funzionamento dell'”effetto verità” non è ancora stato chiarito. L’ipotesi principale avanzata dagli autori è che le fotografie o le informazioni verbali aggiuntive vengano inconsapevolmente adottate come contesto semantico dell’affermazione, fornendo così i dettagli necessari a generare “pseudoprove mentali” a suo sostegno.

Attendiamo approfondimenti, ora sicuramente più consapevoli degli errori in cui potremmo cadere nel valutare la veridicità delle informazioni che ci arrivano.

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BIAS – EURISTICHE – 

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Recensione: Curare Ridendo di Bernhard Trenkle

di Emma Fadda

Recensione: Curare Ridendo di Bernhard Trenkle.
Bernhard Trenkle (2009). Curare Ridendo. Roma: Alpes.

 

Recensione di “Curare Ridendo” di Bernhard Trenkle – Caro terapeuta hai mai pensato a come, a volte, sarebbe meglio non prenderti troppo sul serio?

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“Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere troppo sul serio la propria persona”. Questa celebre frase di Hermann Hesse calza a pennello con il messaggio che Bernhard Trenkle, psicoterapeuta tedesco, tenta di mandare nel suo testo “Curare Ridendo”, una raccolta di barzellette e aneddoti di satira internazionale che l’autore propone in un’opera di ben 3 volumi, di cui quello disponibile in Italia rappresenta la traduzione del primo (che ha venduto solo 35.000 copie nella sua versione tedesca!).

La domanda è semplice: possono la comicità e il senso dell’umorismo essere utilizzati in psicoterapia? Potremmo aggiungere: possono essi avere una funzione terapeutica, di promozione del cambiamento? Bernhard Trenkle ne è convinto, e ci propone un nuovo modo di pensare al significato della comicità e della barzelletta dentro la stanza del colloquio, durante la psicoterapia con i nostri pazienti.

Attraversare le emozioni - recensione
Articolo Consigliato: Recensione – “Attraversare le Emozioni”. A cura di Fosha, Siegel e Solomon.

La risata è prima di tutto proposta come uno strumento che ci fa sembrare “reali”, che sa dare alla dinamica del colloquio, soprattutto in alcuni momenti visibilmente di disagio ed imbarazzo per il nostro paziente (e non di meno per noi), o in quelli più dolorosi e difficili da condividere, l’idea che “possiamo riderci su”, che possiamo alleggerirli, che ci possiamo avvicinare ad essi sollevandoci dal peso di doverci mantenere seri nel dirli perché non essere seri toglie valore alle cose. La risata è la distanza più corta tra le persone, ci consente di condividere, di sentirci con l’altro sulla stessa lunghezza d’onda, in fin dei conti, può aiutare (con la debita attenzione nel suo utilizzo) a coltivare quella famosa alleanza terapeutica che, come tutti noi terapeuti sappiamo, rappresenta uno dei fattori più rilevanti di buona riuscita della terapia. Come sottolinea l’autore, l’uso della battuta e del comico in generale nel setting clinico aiuta il buon terapeuta ad apparire meno serioso, fatto questo estremamente comune (soprattutto tra i colleghi di formazione analitica) che rischia di far dimenticare che se una faccia della sofferenza umana è costituita dal dolore e da quel quid di drammaticità, l’altra parte porta con sé un non so che di comico, che ha a che fare con tutti quegli aspetti di grandiosità ed esagerazione irrealistica che i nostri pazienti spesso attribuiscono ai significati che danno ai loro problemi.

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La risata in terapia può anche avere una funzione di per sé terapeutica: essa veicola una sorta di intensa (anche se apparente) caduta della tensione, un momento di rilassamento, un momento di pausa. Un’interruzione che però favorisce lo spostamento della tensione dalla relazione al sé più vulnerabile. Questo spostamento, spesso segnalato da un momento di vera e propria pausa, di silenzio nella conversazione può essere di grande utilità nel favorire la riflessione su di sé da parte del paziente, il raggiungimento di una nuova consapevolezza emotiva o di nuovi interrogativi. Tutti questi mutamenti non possono non essere considerati segnali di un movimento, di uno spostamento di prospettiva, di un cambiamento, nella misura in cui producono qualcosa di nuovo che può divenire nuovamente oggetto di conversazione e di lavoro clinico.

 Non solo, ma la barzelletta e le storielle raccontate ai nostri pazienti con debita scelta da parte del terapeuta del momento del colloquio e del processo terapeutico, possono essere molto utili al fine di favorire la comprensione di quei concetti, di quei fenomeni clinici, di quelle tecniche e di quei passaggi terapeutici chiave che spesso risultano a dir poco ostici e irreali ai pazienti, troppo distanti e slegati dalla loro esperienza emotiva così intensa e vera, perché sperimentata quotidianamente.  L’autore ci offre quindi una serie di brevi racconti e freddure che ci parlano di allucinazioni, di associazioni guidate ed ipnosi, di cognizioni e auto-verbalizzazioni, di stili comunicativi disfunzionali, di condizionamento e di dissociazione e spostamento come tecniche di controllo del dolore, di sistemi di credenze e visioni del mondo rigide, di specifiche tecniche terapeutiche, di cambiamento e molto altro ancora.

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia.

Tutto ha una chiave di accesso più semplice, direttamente accessibile, di facile intuizione sia per i pazienti che per i terapeuti che provengono da diversi orientamenti teorici. Il tutto accompagnato e arricchito da pertinenti e divertenti illustrazioni, a cura di Lorenzo Recanatini.

Se questi sono solo alcuni dei vantaggi che l’uso della comicità in terapia porta con sé non ne vanno dimenticati i rischi, come ben viene riassunto nella frase di Gino Bramieri nella prefazione del testo a cura di Camillo Loriedo: “il problema di raccontare una bella barzelletta è che inevitabilmente ne fa venire in mente una orribile a chi l’ascolta”.

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Resta, comunque, il fatto che Curare Ridendo rappresenta un buon spunto di riflessione per tutti quei clinici un po’ più “ingessati”, per quelli più “scettici” e per coloro che sono semplicemente curiosi di avvicinarsi ad una dimensione in cui terapia e comicità possono integrarsi, e dove la risata può essere utilizzata al servizio del percorso di guarigione. Il testo inoltre, per la sua brevità e scorrevolezza, è indicato anche per tutti i non clinici, che hanno la curiosità di avvicinarsi a dei concetti, anche complessi, del mondo psicologico con leggerezza e semplicità.

Un testo per ricordarci e farci riflettere su quanto è vero, in fin dei conti, come dice Pablo Neruda, che “ridere è il linguaggio dell’anima”.

 

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Le illustrazioni del libro sono opera di Lorenzo Recanatini. il libro è edito da Alpes

 

Non possiamo non dirci freudiani? Lettera aperta a Luciana Sica di Repubblica, infaticabile cronista della psicoanalisi italiana.

 

Non possiamo non dirci freudiani? Lettera aperta a Luciana Sica di Repubblica, infaticabile cronista della psicoanalisi italiana.

 

Lettera Aperta a Luciana Sica. - Immagine: © La Repubblica.it
Immagine dell’articolo di Repubblica: La svolta degli analisti italiani: La psicanalisi non è solo Freud – © La Repubblica.

Mi chiedo quanto faccia bene alla psicoanalisi italiana godere delle attenzioni scrupolose della stampa nazionale. In particolare le puntuali cronache psicoanalitiche di Luciana Sica nei paginoni culturali di Repubblica sono dettagliate, troppo dettagliate. Poco meno di un mese fa, il 18 dicembre 2012, la Sica aveva intervistato il nuovo presidente della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) Antonino Ferro.

LEGGI L’ARTICOLO DEL 18 DICEMBRE PUBBLICATO DA REPUBBLICA

Ferro aveva rilasciato un’interessante intervista che testimoniava il suo interesse per i nuovi sviluppi della psicoanalisi, la cosiddetta svolta relazionale (per chi ne voglia sapere di più raccomando il libro di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei, 2011, “La svolta relazionale, itinerari italiani”).

Questa svolta, che in realtà risale a circa 30 anni fa, significa per la psicoanalisi un distacco dal paradigma delle pulsioni freudiane, un paradigma che non ha aiutato la psicoanalisi a evolversi in scienza empirica, oscillando tra il biologico e il metapsicologico.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

Per Freud le pulsioni sono forze biologiche che però parlano, si esprimono in metafore, lapsus e associazioni di idee. Non del tutto sbagliato in linea generale, qualcosa di vero c’è. Molto qualcosa, però. E si tratta di un’ipotesi difficilmente verificabile nel caso singolo, nel lapsus che avviene nel qui e ora della seduta. Di qui si aprono le porte alle interpretazioni più audaci e selvagge.

A mio parere e -me ne rendo conto- semplificando, la relazione è qualcosa che ha a che fare più con l’attività mentale cosciente che con l’inconscio e le sue metafore. La sofferenza relazionale è una sofferenza umana del paziente bisognoso di contatto umano e affettivo, e non il prodotto di pulsioni che si vogliono scaricare. Il massimo teorico di questa svolta relazionale è stato Stephen Mitchell col suo classico “Relational Concepts in Psychoanalysis” (1988).

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA

Ieri però, 7 gennaio 2013, è arrivato un altro articolo su Repubblica dell’implacabile cronista della psicoanalisi, Luciana Sica. L’intento era lodevole: documentare il dissenso dei freudiani ortodossi contro la svolta relazionale andata al potere con la presidenza di Ferro. Il risultato però è deludente. L’impressione è che la Sica faccia la cronaca delle beghe interne della Società Psicoanalitica Italiana, scambiando queste beghe per un dibattito scientifico di importanza nazionale e forse internazionale.

 Già il rumoroso titolo dell’articolo (“Non possiamo non dirci freudiani”) sembrava rivolto al mondo intero, e invece a leggere l’articolo si rivelava un messaggio tutto interno alla Società Psicoanalitica Italiana. Dopo questo titolo così chiassoso, seguiva la cronaca dello scontro tra pulsionisti ortodossi freudiani e relazionalisti moderni. Alla fine dell’articolo la stessa Sica sembra involontariamente desolata dallo scarso spessore della vicenda.

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A questo punto qualcuno potrebbe pensare male di me e darmi dell’invidioso: piacerebbe anche a voi cognitivisti ricevere le attenzioni dei paginoni culturali dei quotidiani nazionali. Certo che sì, rispondo. Perché no? Sarebbe ora che il dibattito scientifico psicologico fosse riportato nella sua interezza sui quotidiani generalisti. Ma se questa attenzione dovesse esprimersi nella cronaca dettagliata, troppo dettagliata delle beghe interne e umane, troppo umane della società dei terapeuti cognitivisti o sistemici, allora rispondo: meglio di no. Iddio in cielo mi scampi da simili amici. Meglio che Luciana Sica continui a mantenere il suo telescopio puntato fisso sulla psicoanalisi.

LEGGI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SULLA PSICOANALISI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

I Benefici del Matrimonio sulla Maternità

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le donne sposate subiscono meno frequentemente atti di violenza domestica, soffrono meno di depressione post partum e fanno meno abuso di sostanze durante il periodo della gravidanza e dopo, rispetto alle donne che convivono o che non hanno un compagno.

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Per tutti coloro che si dichiarano contrari al “finché morte non vi separi”, vi sono brutte notizie in arrivo … un nuovo studio ha messo in luce gli effetti positivi del matrimonio.

Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dai Convegni.
Articolo consigliato: Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dai Convegni.

La ricerca in questione nasce con lo scopo di studiare gli effetti sui figli dei vari tipi di relazione tra partner. Ciò è quanto si è voluto analizzare alla luce del notevole aumento del numero di bambini nati al di fuori del matrimonio. In Canada per esempio, dove lo studio è stato condotto, i bambini nati da coppie di fatto sono il 30%, contro il 9% del 1971. In molti Paesi europei, le nascite al di fuori del matrimonio superano persino quelle all’interno di coppie sposate.

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I ricercatori hanno così effettuato l’analisi delle risposte fornite a un’indagine somministrata in Canada a 6421 donne con figli, commissionata dall’Agenzia della Sanità Pubblica Canadese nel 2006-2007, relativa alle esperienze di maternità.

Dall’analisi è emerso che le donne sposate subiscono meno frequentemente atti di violenza domestica, soffrono meno di depressione post partum e fanno meno abuso di sostanze durante il periodo della gravidanza e dopo, rispetto alle donne che convivono o che non hanno un compagno.

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In particolare il 20% delle donne conviventi ma non sposate ha vissuto almeno una delle tre condizioni psico-sociali tra violenza domestica, abuso di sostanze e depressione post partum. Il dato è salito fino al 35% per le donne sole mai sposate e ha raggiunto il 67 % per le donne che hanno vissuto una separazione o un divorzio prima della nascita del bambino.

Uno dei meriti dello studio, così come dichiarato dal Dott. Urquia, co-autore dello studio ed epidemiologo presso il Centro Per La Ricerca Sulla Salute dell’ Inner City presso l’ospedale St. Michael’s, è quello di aver approfondito, dato l’elevato numero di bambini nati da genitori non sposati, quali sono i rischi e i benefici non solo mettendo a confronto genitori singles e i genitori sposati, ma di estendere l’analisi ad altri tipi di relazioni. Questo tuttavia non è l’unico merito della ricerca: per la prima volta, infatti, ci si è posti l’obiettivo di sapere quanto incida la durata della convivenza senza matrimonio sul benessere della donna e, conseguentemente, sul suo nascituro.

 L’importanza è ancora più comprensibile se si pensa all’aumento del numero di bambini nati al di fuori del matrimonio, come precedentemente riportato. Si è così giunti al seguente risultato: le donne non sposate che vivono con il proprio compagno da meno di due anni sono più propense a sperimentare almeno uno dei tre problemi indagati. Tuttavia, questi problemi diventano meno frequenti quando aumentano gli anni di convivenza della coppia. La durata del rapporto, inoltre, sembra essere significativa solo per le donne conviventi: questo modello non si è ripetuto tra le donne sposate, che presentano comunque meno problemi psicosociali, indipendentemente dalla durata del loro matrimonio.

Oltre ai meriti, va però denunciato un grande limite, sottolineato dagli stessi autori: dall’analisi delle risposte fornite per l’indagine non è possibile comprendere se gli episodi di violenza domestica e l’abuso di sostanze siano la causa o il risultato delle separazioni. Si potrebbe pensare quindi a future ricerche, dando più spazio alla storia della coppia e indagando soprattutto i perché della fine del rapporto.

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Nel frattempo, se non ci vedete ancora nulla di positivo nel matrimonio, tenete lontano i vostri compagni da articoli come questo!

 

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GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – DROGHE E ALLUCINOGENI PSICOPATOLOGIE POST PARTUM/PERINATALE – 

ABUSI E MALTRATTAMENTI

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

ACT Monografia #3 – Fuso e De-fuso?

ACT – Acceptance and Commitment Therapy

Fuso e De-fuso?  

PARTE 3 di 7

LEGGI: INTRODUZIONEPARTE 2

 

ACT Monografia #3 – Fuso e De-fuso?. - Immagine: © shockfactor - Fotolia.comNon è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo.

LEGGI LA MONOGRAFIA ACT

In questa puntata della mia monografia per State of Mind sull’ACT vorrei concentrarmi su un secondo processo, incluso nel macro-processo processi di mindfulness e accettazione: La Fusione Cognitiva. 

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Che cos’è la Fusione Cognitiva?

Si riferisce alla tendenza degli esseri umani di essere catturati, “imbrigliati” dai CONTENUTI dei propri pensieri. Il principio che giustifica la disfunzionalità di tale “aggancio ai pensieri” è riassunto nella seguente frase: Non è tanto ciò che pensiamo a crearci problemi e sofferenza ma il modo con cui noi ci mettiamo in relazione con ciò che pensiamo.

Quando siamo “fusi” con i nostri pensieri, soprattutto quelli disfunzionali, dimentichiamo che stiamo interagendo con un pensiero e non con un evento reale, un po’ come se i nostri pensieri e le nostre valutazioni sulla realtà vivessero al posto nostro.

Pratica(mente) mindfulness
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Se io mi definisco come una “persona inadeguata nelle relazioni sociali” tale insieme di pensieri influenzeranno le mie azioni e, nei casi estremi, mi faranno vivere tutte le esperienze relazionali con questa lente, che rappresenta sì il mio modo di vivere le esperienze, ma canalizza e semplifica eccessivamente le informazioni legate a come sono “io in relazione con gli altri”. Potrei quindi, sminuire le situazioni relazionali in cui non sono stato inadeguato, oppure le valutazioni che gli altri fanno di me, in cui sostengono che “non è vero che sei inadeguato” etc…

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Che effetto ha quindi la fusione cognitiva nella nostra esperienza di tutti i giorni?

Le valutazioni che riguardano la vita di tutti i giorni possono addirittura arrivare a sostituire la nostra esperienza della vita stessa. Spesso non si riesce più a distinguere tra il mondo costruito e valutato (attraverso il linguaggio) da quello di cui si ha conoscenza diretta attraverso l’esperienza sensoriale.

Il focus dell’intervento è, quindi, sui processi cognitivi, e non sui contenuti specifici dei pensieri. In questa ottica, i pensieri si sostituiscono alla nostra esperienza presente e sensoriale in un processo di vera e propria “alterazione” dell’esperienza nel presente. 

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Nell’ACT, sono previste diverse forme di fusione cognitiva:

1) Fusione giudizio – evento;

2) Fusione dannosità immaginata di un evento – evento dannoso;

3) Fusione con le attribuzioni causali arbitrarie che l’individuo costruisce rispetto alla propria storia di vita;

4) Fusione con il passato o con il futuro concettualizzato (di cui parleremo in modo più approfondito in seguito nella monografia).

La controparte virtuosa della fusione cognitiva, nell’ACT è la Defusione.

Che cos’è la Defusione?

La Relational Frame Theory (di cui abbiamo accennato nell’introduzione della monografia) postula che non sia di primaria importanza intervenire in modo diretto sui contenuti dei pensieri disfunzionali, bensì su come l’individuo si relaziona con i propri pensieri. In questo modo, ci si concentra sull’atteggiamento nei confronti dei propri pensieri e non sui pensieri in sé.  Ad esempio, fare pensieri disfunzionali di tipo depressivo o di tipo ansioso non fa molta differenza dal punto di vista dell’ACT: è l’influenza che hanno sulla vita dell’individuo (dettata dall’atteggiamento che l’individuo stesso ha nei confronti dei propri pensieri depressivi/ansiosi) a definirne l’impatto sulla sofferenza individuale. 

Brevemente, l’ACT intende promuovere due capacità psicologiche: 

1) Imparare a notare i propri pensieri, immagini o ricordi, riconoscendoli per ciò che sono, ovvero “prodotti della mente” e non realtà assolute;

Ruminazione - Immagine: Fotolia.com
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2) Guardare la propria esperienza da una posizione privilegiata, dall’alto, decentrata, promuovendo la consapevolezza della propria esperienza mentale.

Allenando tali abilità, e a mettersi nella posizione consapevole dell’osservatore, è possibile aumentare i gradi di libertà psicologica dell’individuo. Osservando i propri pensieri, immagini o ricordi è possibile SCEGLIERE di “fondersi” con essi (se ciò è utile e funzionale) oppure di “abbassare il volume” di tali prodotti della nostra mente, facendosene quindi influenzare meno.

Un’ulteriore abilità che l’ACT tenta di promuove nell’individuo è quella di rinunciare a controllo dei propri pensieri e lasciarli andare, lasciargli spazio, passarci attraverso e grazie a questo diminuire l’influenza e la potenza di tali pensieri.

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In Treatment – Psicoterapia in TV. Recensione e Analisi del secondo episodio: S01E02 Alex

In Treatment – Psicoterapia in TV

SECONDA PUNTATA

LEGGI L’INTRODUZIONE

 

In Treatment - Psicoterapia in TV. Recensione di S01E02 Alex. - Immagine: © HBOAlex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico.

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Secondo episodio, secondo paziente di In Treatment. È martedì, e Paul Weston nel suo studio riceve una prima visita. Situazione terapeuticamente intrigante: vediamo come se la cava Paul nell’incontro con un paziente mai visto. Mi rendo conto che in me lo spettatore e il terapeuta fanno a pugni. Il primo si accontenta di essere coinvolto, il secondo pensa: “vediamo come Paul fa un accertamento in prima visita”. Lo spettatore per fortuna prevale, anche perché se Paul tirasse fuori un’intervista diagnostica strutturata spegnerei il televisore.

Il paziente è Alex, un atletico pilota d’aerei militari, caccia top gun. È anche uno statuario afro-americano, sicuro di sé, quasi sprezzante eppure simpatico (o, almeno, è simpatico a me, gusti soggettivi). Paul si è ripreso dopo la seduta con Laura e controlla la seduta. E fa bene a farlo, perché Alex è uno che vuole sempre il meglio in tutto, e per ottenerlo si documenta, si informa. E per questo si è informato su Paul ed è giunto alla conclusione che questo terapeuta è “the best”. Vuole il meglio perché si ritiene il meglio. Questo pilota nero fa parte di un’elite che ha ricevuto da Dio (o da chi per lui, precisa Alex) il pacchetto completo: bellezza e talento tutto assieme. È una teoria che Alex dichiara apertamente a Paul.

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Ma qual è il problema di Alex? In queste prime battute sembra un narcisista. Però non proprio un narcisista maligno. È sicuramente fiero della sua bellezza statuaria, del suo talento e del suo essere un pilota d’aerei. Si sente al centro, ma al tempo stesso non sembra insopportabilmente sprezzante, almeno finora.

Skyfall_James Bond. Locandina
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In questo mondo di classicità eroica, in cui –come nell’antica Grecia- bellezza, intelligenza e forza coincidono impeccabilmente, però si è intrufolato il suo opposto: la colpa e il senso del male. Alex è un pilota militare che compie missioni di guerra in Iraq, durante una delle guerre del golfo. Missioni che prevedono bombardamenti. Alex ha qui un ultimo sussulto narcisistico e compiaciuto: racconta egli sia capace di rispettare infallibilmente il tempo di ogni azione senza mai uscire dalla massima variazione tollerabile, che è  di non più di 2 (due) secondi. Ma è l’ultimo sussulto eroico. Dopo il quale Alex racconta che, nell’ultima missione, ha bombardato una scuola coranica uccidendo dei bambini.

Alex ci tiene a chiarire subito che non è tormentato dalla colpa e, per dimostrarlo, dichiara che dorme bene di notte, come un bambino. Però ha preso un periodo di riposo dal suo lavoro di pilota. Perché? Perché, parole sue, è morto. E qui inizia un secondo racconto, mentre la storia della scuola coranica e dei bambini uccisi rimane lì, misteriosa e minacciosa.

In che senso Alex è morto? Nel senso che, tornato dalla missione, è uscito a fare jogging con un amico. E ha corso così tanto da procurarsi un infarto. Infarto così grave che, dice Alex, in quella situazione si ha solo il 3% o meno di probabilità di sopravvivere. E Alex è sopravvissuto e, ancora una volta, si compiace di questa ulteriore prova delle sue qualità fisiche, ormai superumane. Per salvarlo, infatti, i medici lo avevano infilato in una tuta termica che lo ha in qualche modo congelato (confesso una mia ignoranza: non so se un simile attrezzo esista davvero, su internet non ho trovato nulla). Alex ci è rimasto dentro 48 ore e –come sottolinea lui stesso- anche questo è un record.

Salvatosi da questo strano episodio, arriva il terzo colpo di scena, che è poi il motivo per cui Alex si è presentato dal dott. Weston (o almeno, lui se la racconta così). Alex non cerca una terapia, vuole solo un parere professionale. Ha deciso di tornare a Baghdad in incognito per visitare le macerie della scuola bombardata e vuole sapere da Paul che ne pensa.

Che dire? Paul non gli risponde direttamente, e fa bene. La richiesta di Alex è estremamente confusa. Nega ogni sentimento di colpa proclamando che lui ha solo eseguito degli ordini, nega di voler tornare a Baghdad sul luogo del disastro per espiare il suo tormento, nega anche di essersi procurato l’infarto quasi volontariamente correndo come un matto per chilometri e nega anche che quasi tentativo di farsi fuori sia stato un modo per punirsi. Insomma, nega tutto, nasconde tutto sotto il compiacimento delle sue qualità superumane e desidera solo un parere. Un parere psicologico su un’azione, ma negando ogni significato psicologico a questa azione.

Insomma, siamo di fronte a una grande difficoltà di concordare un contratto terapeutico chiaro con questo paziente.

Alex è il tipico paziente poco capace di comprendere, condividere e rispettare le regole implicite ed esplicite del contratto terapeutico. In particolare sembra frequentemente sfuggirgli la regola che la terapia è trattamento di problemi psicologici interiori e che il trattamento avviene esplorando e impegnandosi a cambiare i propri stati mentali. Sembra una banalità, ma per molti pazienti non è così chiaro. Per molti pazienti l’esplorazione delle convinzioni distorte e dei propri stati mentali (o dei propri fantasmi inconsci, direbbe Paul Weston) significa rinunciare a una serie di altre convinzioni sul proprio malessere, ovvero teorie naif sulla propria sofferenza, che spiegano i problemi psicologici in termini di responsabilità del mondo o degli altri.

Insomma, alcuni pazienti si presentano al clinico come se non fossero disposti a un’alleanza curativa. È fondamentale che ci si renda conto che non sempre la presenza del paziente in studio, seduto davanti allo psicoterapista, vuol dire che egli abbia la volontà o la capacità di costruire un’alleanza di tipo clinico con il terapista. In altre parole alcuni pazienti portano in terapia domande di terapia non formulate in termini psicologici:

  • Ce l’hanno tutti con me (perché non va da un avvocato?)
  • Ho sempre mal di testa (perché non va dal neurologo?)
  • Mi si è ristretto lo stomaco (perché non va dal gastroenterologo?)
  • Sono tutti stupidi (perché non fonda un movimento culturale?)
  • Sono tutti cattivi (perché non fonda un movimento sociale, politico, religioso?)
  • È tutto sbagliato (perché non fa tutte le cose menzionate insieme?)
Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
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Il problema del contratto un tempo era meno sentito in psicoterapia. Per gli analisti ogni accordo esplicito era sempre una difesa, essendo il paziente del tutto preda inconsapevole delle sue pulsioni e delle sue difese. Per i cognitivisti la situazioni era opposta: il paziente è tendenzialmente ragionevole e razionale e viene in terapia per ragionare sui suoi stati d’animo e ristrutturarli. Per un cognitivista classico era inimmaginabile pensare che il paziente voglia sottrarsi alla terapia: puzzava di inconscio.

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Oggi invece si riconosce che per molti pazienti è bene chiarire e concordare le regole. La tecnica terapeutica descritta da Clarkin, Yeomans e Kernberg (1999) è tutta incentrata sulle regole del contratto e sulla analisi di tutti gli “sgarri” del paziente (o del terapeuta stesso). Ogni violazione è interpretata come manifestazione di quelle stesse difficoltà relazionali che sono oggetto del trattamento.

In questo Paul Weston sembra un analista vecchio stampo: inizia ad ascoltare il racconto di Alex senza dare alcuna direttiva. Alla fine dell’episodio Alex si congeda e va incontro al suo destino.

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BIBLIOGRAFIA:

Violenza Domestica & Disturbi Mentali

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La violenza causa l’esordio di disturbi mentali e, viceversa, persone con disturbi mentali sono coinvolte in episodi di violenza.

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Oggigiorno, il problema della violenza domestica affligge centinaia di migliaia di persone nel Mondo e ogni anno la percentuale di donne che subiscono violenze e sevizie all’interno delle mura domestiche aumenta considerevolmente. In Italia, solo nel 2012, il 72% delle donne dichiara di essere stata vittima di violenza psicologica e il 44% di aver subito violenza fisica. Nell’85% dei casi, queste violenze vengono perpetrate dal partner. Le ripetute violenze fisiche e sessuali, talvolta, possono causare l’esordio e la persistenza di disturbi di natura mentale e, viceversa, uomini e donne con disturbi mentali possono essere più frequentemente coinvolti in episodi di violenza domestica: la relazione tra violenza e malattia mentale sarebbe, dunque, bidirezionale.

A questo proposito, è stata condotta una metanalisi presso il King’s College London’s Institute of Psychiatry per verificare se le persone affette da disturbi mentali avessero maggiori probabilità di andare incontro a episodi di violenza domestica.

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Precedenti studi avevano già indagato sulla relazione tra violenza domestica e problemi di salute mentale, ma si erano focalizzati esclusivamente sulla depressione. Questo, invece, è il primo studio che prende in considerazione un’ampia gamma di problemi mentali sia nelle donne che negli uomini che risultano vittime di violenze domestiche. Sono stati utilizzati 18 database delle scienze biomediche e sociali (tra cui MEDLINE, EMBASE, PsycINFO), ricerche e articoli pubblicati e riguardanti la vittimizzazione e i disturbi mentali. Sono stati inclusi nella ricerca studi osservazionali e sperimentali che si sono occupati della violenza domestica su soggetti di età superiore ai 16 anni e dell’eventuale relazione con i disturbi mentali rilevati attraverso strumenti diagnostici scientificamente validati. Per quanto riguarda il tipo di violenza subita, sono stati considerati studi che si sono occupati di violenze fisiche, sessuali e psicologiche. Complessivamente, sono stati inclusi nella matanalisi 41 studi.

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Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Dai risultati è emerso che esiste un più alto rischio di esperire violenze da parte del partner per le donne con disturbi depressivi, ansiosi e post-traumatici rispetto alle donne senza alcun disturbo mentale. In particolare, le donne depresse hanno una probabilità due volte e mezzo superiore di essere vittime di violenze domestiche, rispetto alle donne senza disordini mentali.

La probabilità è ancora più alta se si considerano i disturbi ansiosi (3 volte  e mezzo) e i disturbi post-traumatici (7 volte). Anche donne con disturbo bipolare o disturbo ossessivo compulsivo o con disturbi alimentari sembrerebbero essere più frequentemente vittime di violenze rispetto a coloro che non presentano alcun disturbo psichico. E’, inoltre, emerso che anche gli uomini con patologie psichiche hanno un rischio maggiore di essere coinvolti in violenze domestiche, ma le stime emerse indicano una incidenza minore e una probabilità inferiore rispetto alle donne.

Gli studi hanno, inoltre, confermato la bidirezionalità della relazione tra violenza domestica e disturbi mentali, nonostante non sia possibile indicarne la causalità.

Gli Autori, infine, aggiungono che successivi studi longitudinali potrebbero verificare se eventuali ricoveri per coloro che presentano gravi patologie psichiche possano essere utili per prevenire episodi di violenza domestica.

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 VIOLENZAABUSI & MALTRATTAMENTIRAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le ricerche Scientifiche Più Interessanti del 2012 – Individuo e Relazioni

Individuo e Relazioni

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Segnali chimici e sintonizzazione emotiva

La comunicazione tra gli esseri umani avviene, anche, grazie alla trasmissione di segnali chimici, che provocano la sintonizzazione emotiva.

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Il dolore fisico e quello sociale hanno in comune alcune aree di elaborazione cerebrale, lo studio in questione ha anche scoperto che l’assunzione di un antidolorifico ha reso possibile una minore percezione del dolore sociale.

 

Il QI individuale a rischio quando ci si trova in gruppo

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I processi sociali e quelli cognitivi sono strettamente legati: l’espressione delle capacità cognitive individuali è fortemente influenzata dal contesto e dai feedback sociali del momento.

Timing del primo rapporto e soddisfazione di coppia

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Più tardi è meglio è: avere il primo rapporto dopo i 19 anni predice alti livelli di soddisfazione coniugale nel futuro.

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Disegnata la mappa cerebrale del desiderio sessuale e dell’amore

 

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Identificate due strutture cerebrali fondamentali per il monitoraggio della progressione del desiderio sessuale verso il sentimento di amore.

 

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Avvantaggiamoci: una Proposta alternativa al Sistema Categoriale del DSM

Avvantaggiamoci- una Proposta alternativa al Sistema Categoriale del DSM. - Immagine: © marsil - Fotolia.comDiagnosi dimensionale e intervento clinico modulare, una proposta alternativa al sistema categoriale del DSM

 

1. In attesa dell’ennesimo DSM

Non sarà dato alla mia generazione ma gli operatori della salute mentale che stanno completando la loro formazione in questi anni credo e auspico che assisteranno ad un cambiamento del paradigma psicopatologico. Una vera e propria rivoluzione in senso khuniano che porterà a ripensare in modo del tutto nuovo alla sofferenza mentale e produrrà nuovi e più efficaci interventi terapeutici sia in ambito neurobiologico che psicoterapico e sociale.

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L’attuale modo di pensare psicopatologico è impregnato di una mentalità categoriale che ha da sempre spinto l’uomo a operare classificazioni nei domini di proprio interesse partendo dalla premessa implicita che fossero costituiti da oggetti separati e ben distinguibili.

2. Infaticabili categorizzatori

Il motivo del successo dell’approccio categoriale lo ascrivo a due motivi. Intanto è corrispondente all’esperienza che abbiamo della natura dove gli oggetti o ci sono o non ci sono e sono distinti nettamente uno dall’altro. Inoltre è più semplice prevedendo solo decisioni binarie circa la presenza o l’assenza di un dato oggetto o al suo interno di una certa caratteristica piuttosto che la valutazione della sua intensità. Tale approccio si è consolidato nelle scienze naturalistiche (si pensi a Linneo) e si è imposto anche nella medicina dove le malattie sono considerate realtà in sé.

Psicoterapia: Il DSM 5, i clinici di campagna e i Disturbi di Personalita’
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A poco vale l’esperienza quotidiana che ci fa sperimentare come nel mondo dei vissuti umani (emozioni e sentimenti) la questione non sia così semplificabile. L’amicizia e l’amore hanno confini incerti e, al loro interno l’oblatività e il possesso si sovrappongono in modo confuso. Ma tale confusione non è rassicurante e preferiamo ignorarla operando quelle terribili semplificazioni verso cui ci mette in guardia Bateson. Gli stessi pazienti, impregnati di mentalità categoriale ci chiedono se un certo disturbo ce l’hanno oppure no così come ci chiedono se quello che provano è innamoramento, amore o semplice infatuazione passionale.

Vogliamo fare ordine nella nostra realtà complessa e siamo abituati a farlo forzando la multiformità del reale nei cassetti ben distinti della nostra scrivania mentale. Tale approccio ha dominato da sempre la psicopatologia sin dall’antichità ed ha trovato la sua sistematizzazione con Kraepelin psichiatra tedesco e grande ordinatore nato nello stesso anno (1856) di quel gran confusionario cui tutti dobbiamo essere riconoscenti che fu Sigmund Freud.

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Da allora la tradizione categoriale non ha avuto rivali cacciando al confino della scienza gli oppositori (Griesinger con il suo riduzionismo neurofisiologico e Jung con i suoi tipi psicologici). Quando L’approccio categoriale ha incontrato gli americani portati per natura alla semplificazione e legittimati al ruolo di padroni del mondo dalla vittoria nei conflitti mondiali il risultato è stato l’imperialismo culturale delle ricorrenti edizioni del DSM.

3. Ce l’ho…mi manca

Se si è imposto così largamente il DSM deve pur avere dei meriti ma è certo che ha ucciso il ragionamento psicopatologico. Per accertarsene è sufficiente leggere le cartelle cliniche dei manicomi dei primi del ‘900 (non solo quelle affascinanti di illustri fenomenoghi) e confrontarle con quelle dei colleghi appena usciti dalle scuole di specializzazione che, preoccupati di stabilire la presenza o l’assenza di ognuno dei molteplici criteri diagnostici, ricordano le negoziazioni delle figurine Panini attraverso la frase fatidica del “ce l’ho… mi manca”.

Il DSM si pregia di essere “ateoretico” e dunque valido per tutti, un esperanto su cui tutti possano convergere come se presupporre l’assenza di una teoria che ordini i fatti non sia a sua volta una ben precisa teoria opposta ad esempio a tutta la tradizione occidentale che va da Kant fino al costruttivismo.

4. Limiti delle categorie

Il modello categoriale del DSM presenta però alcune evidenti difficoltà:

  • Nei DP la comorbidità è la norma e non l’eccezione.
  • La soglia dei criteri necessari per formulare la diagnosi comporta un massiccio uso della categoria residua di DP NAS che è sempre un brutto segno circa la validità di un sistema nosografico
  • Non è chiaro il confine tra tratti di personalità più o meno adattivi e veri e propri disturbi di personalità e neppure tra disturbi di personalità e disturbi di asse I°.
  • Sembra, inoltre che nella scelta del trattamento, anche farmacologico, il prescrittore sia guidato più dall’attenzione all’intensità di certe dimensioni che dalla diagnosi categoriale che poi invece sarà esibita nelle presentazioni scientifiche. Per questo non è infrequente assistere alla prescrizione di neurolettici a pazienti depressi o ossessivi in cui i temi di pensieri tendano a distaccarsi dalla realtà. Lo psichiatra sembra più attento ad una ipotetica sottostante “dimensione delirante” che alla diagnosi categoriale. Altrettanto inconsueta può apparire la prescrizione di un AD ad un paziente schizofrenico con prevalenza di sintomi negativi mirata ad una “dimensione di blocco e apatia”.

 

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 4. I modelli dimensionali cresciuti in clandestinità

Nella seconda metà del ‘900 pur senza affermarsi nelle nosografie ufficiali del DSM (esplicitamente americano) e del ICD (apparentemente internazionale ma condizionato dagli americani). L’approccio dimensionale ha prodotto numerosi modelli suffragati da solidissime ricerche. In particolare vanno ricordati:

  • Il modello psicobiologico del temperamento e del carattere a sette fattori di Cloninger (1987)
  • La valutazione dimensionale della patologia di personalità che attraverso il Dimensional Assessment of personalità pathology valuta 18 tratti di personalità
  • Il modello “big five” che prevede cinque domini o dimensioni di personalità.

Non è certo questa la sede per illustrarli ma va ricordato che le ricerche successive hanno identificato, confrontando questi tre diversi modelli, quattro comuni domini su cui tutti convergono. Inoltre la ricerca ha evidenziato che queste dimensioni hanno specifici correlati psicosociali, neurobiologici e genetici e non è poco.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
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 5. La mia proposta

Poiché ritengo che chi scrive abbia l’obbligo di non limitarsi ad una rassegna sullo stato dell’arte ma di dire la sua anche a rischio di sbilanciarsi ed esporsi a critiche e sberleffi, è giunto il momento di proporre il mio pensiero.

 

Un modello spettrale

Ritengo che tra tratti di personalità, disturbi di personalità e disturbi in asse I° esista un rapporto di spettro.

  • Tratti di personalità

Un tratto di personalità è un modo peculiare di percepire, pensare e rapportarsi nei confronti dell’ambiente e di se stessi che può essere più o meno adattivo a seconda dell’ambiente in cui opera. Il tratto ha origini genetiche (lascio alla psicologia evoluzionista la speculazione sul significato evolutivo dei vari tratti intesi come strategie diverse di adattamento) ma si potenzia per i rinforzi positivi che riceve dall’ambiente e siccome l’ambiente originario è quello familiare, composto da individui che condividono gran parte del patrimonio genetico, è assai probabile che ciò che la genetica propone l’ambiente costruisca e consolidi.

 

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  • Disturbi di personalità

Quando un tratto di personalità diventa rigido, pervasivo e dunque disadattivo (valutazione comunque imprescindibile da un ambiente di riferimento) si parla di DP. In altri termini il DP si ha quando il funzionamento della strategia adattiva in cui consiste il tratto diventa insensibile ai feed back ambientali e va per la sua strada. Così un tratto come la scrupolosità e la precisione si connota come disturbo ossessivo di personalità quando la ricerca della precisione e della scrupolosità da mezzo diventa fine, da strategia si trasforma in scopo e, in quanto tale, ostacola il raggiungimento degli scopi stessi, come ad esempio l’ossessivo che per fare le cose perfettamente finisce per non farle.

 

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  • Disturbi di asse 1°

Situazione analoga, ma più estrema, si verifica per i cosiddetti disturbi di asse I°. Tali disturbi li distinguerei in due gruppi (ecco le categorie che rientrano dalla finestra) quelli monodimensionali e quelli pluridimensionali.

Quelli monodimensionali sono l’esasperazione ancora più marcata di un tratto di personalità per cui alla “precisione-scrupolosità” segue il DP ossessivo e a questo il DOC.  Altrettanto si può dire per il DP evitante e la fobia sociale. Più in generale alla dimensione “harm avoidance” segue il cluster “B” dei DP e ad esso i disturbi d’ansia in asse I°. Ancora, come non cogliere la continuità tra la sospettosità e bizzarria i DP del cluster “A” e i disturbi psicotici in asse I°. Gli esempi potrebbero continuare ma non servirebbero a chiarire ulteriormente il concetto. Il passaggio dall’asse II° all’asse I° avviene quando il sistema cognitivo riesce ad elaborare un comportamento (sintomo) che risolvendo momentaneamente il problema dalla strategia “scopizzata” produce due effetti che lo rinforzano e lo mantengono: un immediato sollievo emotivo e la cessazione dell’esplorazione di strategie alternative. Il sintomo una volta generato diventa un potente attrattore  che monopolizza il funzionamento di tutto il sistema.

Quelli pluridimensionali sono invece specifici dell’asse I° seppure abbiano numerose radici in asse II°. Essi si generano quando diversi tratti di personalità superano un certo valore soglia e, per così dire, precipitano creando qualcosa di nuovo e diverso dai precursori.  Ad esempio per fare un DCA la dimensione “perfezionismo e controllo” deve incrociare la dimensione “problemi di identità e definizione esterna del sé” e la dimensione “importanza del corpo”. A sua volta la stessa dimensione “importanza del corpo” entra in gioco nell’ipocondria quando incontra la dimensione “harm avoidance” e nel disturbo dismorfofobico quando si sposa con la “dimensione delirante”. Anche in questo caso dell’incontro di più dimensioni il sintomo si mantiene e si rinforza perché riesce a soddisfarle tutte.

 

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Tra i vantaggi di un modello dimensionale va ascritto anche il fatto che esso è facilmente traducibile in uno categoriale essendo sufficiente stabilire dei valori di “cut off” per le singole dimensioni, qualora ad esempio  ci sia l’utilità di categorizzare per motivi di comunicazione in ambito di ricerca. Il contrario invece è praticamente impossibile.

 

Implicazioni terapeutiche

Tutto quanto sostenuto finora ha delle implicazioni terapeutiche? A mio avviso decisive.

L’assetto categoriale della nosografia ha dato origine ai protocolli e a tutta una serie di studi sulla loro efficacia. I protocolli tuttavia vengono utilizzati più in contesti di ricerca, medico legale e assicurativo che nella pratica clinica reale proprio perché i pazienti presentano spesso molteplici comorbidità.

Nel cognitivismo italiano sono apparsi negli ultimi anni ipotesi terapeutiche focalizzate su aspetti dimensionali. In particolare “La dimensione delirante” di B. Coratti e R. Lorenzini del 2008 e “Sviluppi Traumatici: etiopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa” di B. Farina e G. Liotti del 2011.

 

LEGGI LA RECENSIONE DI “Sviluppi Traumatici: etiopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa ” DI GIOVANNI MARIA RUGGIERO

 

 

Già in passato nel volume “Psicoterapia cognitiva dell’ansia” curato con Sandra Sassaroli e Giovanni Maria Ruggiero del 2006 avevo proposto l’idea della terapia modulare come superamento dei protocolli e ad esso si rimanda per approfondimenti. In questa sede basta ricordarne alcune idee:

"Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Febbraio 2013
Articolo Consigliato: “Il Colloquio in Psicoterapia Cognitiva” Di G.M. Ruggiero e S. Sassaroli – Febbraio 2013
  • Le persone non sono mai riducibili ad una diagnosi e sono sempre qualcosa in più ad esempio grazie alle loro specifiche risorse.
  • All’interno di una stessa diagnosi convivono situazioni cliniche molto diverse.
  • Una patologia è scomponibile in diversi aspetti ciascuno dei quali, oltreché presente può avere intensità differente e contribuire al mantenimento della sofferenza con peso diverso.
  • Per ciascuno di questi aspetti è immaginabile un modulo di intervento di efficacia valutata empiricamente la cui collocazione nel timing della terapia, intensità e durata andrà valutata per ogni singolo paziente.
  • Moduli identici possono essere presenti nella terapia di disturbi diversi: si pensi ad un modulo psicoeducativo sulle emozioni indispensabile e sostanzialmente simile in tutti i disturbi d’ansia, con un evidente vantaggio anche in termini di formazione.
  • Ogni terapia è costituita di tanti singoli moduli, ognuno come un mattoncino di lego concorre alla struttura complessiva.
  • Ogni modulo è come una micro terapia di un aspetto del disturbo

 

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In questo modo ai protocolli che sono dei vestiti su misura di indubbia qualità ma fatti in serie, si sostituisce l’opera artigianale del sarto (psicoterapeuta) che pur avvalendosi di tessuti e procedure di provata efficacia e qualità modella la terapia su misura del singolo paziente. Con un doppio vantaggio. Per il paziente di essere considerato e valorizzato per la sua unicità. Per il terapeuta di essere al momento insostituibile da qualsiasi macchina “applica protocolli standardizzati”.

 

LEGGI LA RUBRICA “STORIE DI TERAPIE” DI ROBERTO LORENZINI

 

 

Ho scritto queste riflessioni perché mi auguro che la ricerca in ambito psicopatologico si sviluppi in direzione dimensionale e in ambito clinico in direzione modulare. Il titolo di questo articolo è dunque un invito a percorrere per primi la strada della dimensionalità anche nell’intervento terapeutico.

LEGGI ARTICOLI SU: 

DIAGNOSTIC AND STATISTICAL MANUAL OF MENTAL DISORDERS – DSM 5 – DISTURBI DI PERSONALITA’ – IN TERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Ossitocina: Una Possibile Cura per l’Autismo

 di Giuseppina Epifanio, Psicologa

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.comOssitocina: una possibile cura per l’ Autismo? Studi recenti tentano di avvalorare l’utilità terapeutica della somministrazione di ossitocina

LEGGI GLI ARTICOLI SU: AUTISMO

Gli esseri umani sono creature sociali e il comportamento prosociale è fondamentale per l’interazione con il loro ambiente. Il nucleo centrale della socialità è la metacognizione, quell’abilità che ci permette di dedurre gli stati interni degli altri a partire da stimoli esterni, come le espressioni facciali, così da capire il significato del comportamento di un’altra persona o da predirlo.

Per molto tempo abbiamo accettato l’idea che gli ormoni determinino il nostro stato d’animo. Tuttavia, recentemente le neuroscienze hanno messo in evidenza come l’ossitocina, l’ormone che agisce anche come neuromodulatore, possa aumentare proprio l’abilità di capire il senso di quello che gli altri stanno pensando o provando e migliorare così la cognizione sociale. L’ossitocina sembra, infatti, influenzare la nostra apertura verso gli altri e la nostra capacità di comprenderli.

Questa capacità è compromessa in soggetti con Autismo. L’Autismo è un disturbo caratterizzato, appunto, da una forte disfunzione sociale e da un’incapacità a rispondere in modo appropriato a stimoli sociali e ad interpretare accuratamente le espressioni facciali.

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Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca?
Articolo consigliato: Giornata Mondiale dell’ Autismo. A che punto è la ricerca?

Diversi ricercatori hanno suggerito che il neuropeptide ossitocina giochi un ruolo chiave nel comportamento sociale e che possa essere implicato nell’eziologia dell’Autismo. Questo neuropeptide migliora, infatti, l’approccio sociale e, negli umani sani, la sua somministrazione per via nasale, migliora il riconoscimento emozionale e delle espressioni facciali. Ciò ha portato alcuni a meditare sul possibile uso dell’ossitocina sotto forma di spray nasale per trattamenti di questo tipo di disturbi psichiatrici caratterizzati da deficit sociali.

Lo studio di Guastella et al. del 2010 ha utilizzato 16 soggetti maschili con un’età compresa tra i 12 e i 19 anni ai quali era stato loro diagnosticato, secondo i criteri del DSM-IV, o il disturbo autistico o la Sindrome di Asperger. Si è partiti dall’ipotesi che i miglioramenti a seguito della somministrazione intransale di ossitocina, se indirizzati in modo particolare all’inizio della vita, possano portare risultati migliori.

I partecipanti dovevano ricevere una singola dose di ossitocina e placebo sotto forma di spray nasale una volta a settimana. Il gruppo di partecipanti più grandi (16-19 anni, n=5) ha ricevuto una dose di 24 IU (4 soffi per narice), che è stata scelta per la maggior parte degli studi di ricerca sull’ossitocina intranasale con gli adulti. I soggetti tra i 12 e i 15 anni hanno ricevuto una dose di 18 IU (n=11, 3 soffi per narice). Dopo 45 minuti dalla somministrazione del farmaco, i soggetti erano sottoposti al Reading the Mind in the Eyes Test-Revised (RMET), un test che valuta la capacità di leggere le emozioni dagli occhi grazie alle sottili espressioni facciali affettive ed è il più valido test usato per il riconoscimento emozionale in pazienti autistici. Otto partecipanti hanno ricevuto ossitocina e otto hanno ricevuto un placebo alla prima sessione del test. I risultati indicano che l’ossitocina migliora la performance nel  RMET nel 60% dei partecipanti. Il gruppo di ricerca ha poi diviso gli items in items facili e items difficili. L’effetto dell’ossitocina era fortemente significante per gli items più facili del test.

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 Questo studio ha prodotto risultati molto rilevanti confermando il ruolo dell’ossitocina nel migliorare il riconoscimento emozionale in giovani pazienti. L’età è un fattore importante, in quanto i risultati suggeriscono un potenziale aumento dei comportamenti sociali nei giovani nei quali i miglioramenti delle risposte sociali possono essere più probabili.

In combinazione con le ricerche precedenti, questi risultati suggeriscono una potenziale valutazione dell’ossitocina intranasale come trattamento per migliorare la comunicazione e l’interazione sociale in giovani soggetti con disturbo dello spettro autistico.  Le ricerche future avranno però il compito di approfondire tali risultati, ad esempio sperimentando la somministrazione di ossitocina sui bambini autistici, in modo da ipotizzare un trattamento terapeutico che sia immediato e tempestivo, in un’ottica di prevenzione, rispetto a quelle che possono essere le caratteristiche croniche di tale patologia. Inoltre, sarebbe importante valutare quelli che sono gli effetti a lungo termine di un tale trattamento, in modo da escludere controindicazioni inattese.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

AUTISMO – ESPRESSIONI FACCIALI – BAMBINI & ADOLESCENTI

 

BIBLIOGRAFIA:

Le Ricerche Scientifiche più Interessanti del 2012 – Psicopatologia

Psicopatologia

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheBiomarcatori e Schizofrenia

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Identificato un set di biomarcatori che possono essere utili per la comprensione delle anomalie cerebrali della schizofrenia, una tra le condizioni psichiatriche più gravi e invalidanti e colpisce circa l’1 per cento della popolazione.

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Il progesterone nella cura del trauma psichico acuto

 

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Depressione e Ossitocina

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Trattare la depressione con l’ossitocina, ormone dell’amore.

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Dinorfina: l’oppioide endogeno che placa l’Ansia

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Identificata una sostanza naturalmente prodotta dal nostro corpo e che fa parte della famiglia degli oppioidi (tra cui ritroviamo anche le endorfine) e che avrebbe la funzione di attenuare gli stati emotivi negativi.

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  • Andras Bilkei-Gorzo, Susanne Erk, Britta Schürmann, Daniela Mauer, Kerstin Michel, Henning Boecker, Lukas Scheef, Henrik Walter, and Andreas Zimmer. Dynorphins Regulate Fear Memory: from Mice to Men. The Journal of Neuroscience, 4 July 2012, 32(27):9335-9343; DOI: 10.1523/JNEUROSCI.1034-12.2012

 

Autismo: diagnosi precoce

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Attualmente la diagnosi di autismo viene fatta intorno ai di 2 o 3 anni di età. Secondo questo studio è possibile rilevare uno sviluppo cerebrale anomalo già a 6 mesi di età, cioè molto prima che i bambini comincino a manifestare sintomi autistici.

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Le Ricerche Scientifiche Più Interessanti del 2012 – Infanzia e Sviluppo

FLASH NEWS

Infanzia e sviluppo

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNeanche ai bambini piacciono i piagnucoloni!

Già a tre anni un bambino è in grado di distinguere tra un espressione autentica di sofferenza e una simulata: i piagnucoloni vengono smascherati facilmente e i loro lamenti non suscitano una risposta empatica nei coetanei.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
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Apprendimento del Linguaggio: i Bambini già a 3 mesi riconoscono Regole Complesse

LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO: Apprendimento del Linguaggio: i Bambini già a 3 mesi riconoscono Regole Complesse

I neonati con meno di tre mesi di vita sono in grado di estrarre e apprendere automaticamente regole complesse dalla lingua parlata; compito che agli adulti riuscirebbe solo grazie a un processo di ricerca e riconoscimento attivo.

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  L’importanza della relazione padre/bambino

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L’interazione diretta dei bambini con i padri, a soli 3 mesi di vita, è predittiva di minori problemi comportamentali al compimento dell’anno di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Procrastinazione: “Usare” con Cautela!

 

Procrastinazione:"Usare" con Cautela!. - Immagine: © michaklootwijk - Fotolia.com

La procrastinazione da strategia di controllo diventa strategia di prevenzione del problema.

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La procrastinazione si riferisce all’atto di sostituire attività prioritarie e importanti con attività piacevoli o compiti meno rilevanti o urgenti. Il procrastinatore è colui che rimanda le cose importanti con l’intento di occuparsene in un altro momento e così rischia di chiudersi nella gabbia del domani.

Il meccanismo della procrastinazione è tutt’altro che semplice. Punto primo: un compito prioritario importante attiva la percezione di fatica e stress (discomfort) ma anche la paura di fallire (fear of failure), il livello di tensione sale. D’altronde scegliere di non occuparsi di una priorità non toglie l’individuo dalla paura di fallire e la carica, anzi, di un senso di colpa per non aver compiuto il proprio dovere. In questo turbamento emotivo entra la procrastinazione, che è un po’ un amico viscido e mellifluo. Il pensiero “me ne posso occupare anche domani” aleggia nella mente come una porta socchiusa verso la via di fuga da questo assedio cognitivo.

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Il pensiero permissivo che governa la procrastinazione assume una forma duplice di controllo e di evitamento cognitivo. Il controllo è “tra la colpa di non farlo e lo stress di farlo trovo un accordo tra le parti rasserenante nello stabilire che lo farò domani”. A questo punto le parti che litigano nel parlamento della mia mente possono mettersi a tacere e accettare una parziale soddisfazione, con conseguente riduzione del carico cognitivo (da rimuginio). 

calendario
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L’evitamento sta nel fatto che il pensiero permissivo mi guida verso un’attività che occupa le mie risorse cognitive (una forte distrazione). Le parti del parlamento mentale, dopo essere state sedate vengono portate a cena fuori, tutto offerto gratuitamente. Il parlamento della nostra mente si occupa di tutt’altro e vive felice e contento, almeno fino a quando il domani viene a chiedere il conto.

A quel punto l’urgenza è la priorità sono presumibilmente aumentate. Lo stress e la paura di fallire pure. Il parlamento è più agitato e può aumentare il rischio di chiedere nuovamente lumi alla procrastinazione. Il processo procrastinatorio lentamente incastra, anche perché la trappola del domani è potenzialmente senza fine. Tanto che a un certo punto il parlamento della nostra mente neanche apre più la discussione (il rimuginio o la riflessione).  La procrastinazione da strategia di controllo diventa strategia di prevenzione del problema. E allora il parlamento si chiude nel paese dei balocchi.

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A quel punto se qualche sottosegretario giunge innanzi a uno dei parlamentari dicendo “ma ascolti, guardi che il tempo è scaduto, l’opportunità perduta” si può scatenare (1) la furia e la rivolta rabbiosa, (2) una forma di giustificazione a posteriori (es: non ce la facevo, troppo difficile, tanto sarebbe andato male ecc…) Certo perché diventa poi difficile accettare il dolore delle proprie responsabilità.

Così nella trappola del domani continuo a non vedere, e per continuare a non vedere mi riempio la mente di altre attività. Poi me la canto e me la suono, cioè me la racconto ogni qualvolta balza in mente il pensiero che potrei mancare ai miei doveri o allontanarmi dai miei scopi.

Posso andare avanti anni così, ma prima o poi la realtà arriva con il suo passo da elefante e mi porta i suoi dati. Posso vedere che in questi anni ho perso tutto al gioco. Posso vedere che la mia carriera è bruciata. Posso vedere che in cinque anni di università il mio libretto è ancora bianco. E come si dice: la frittata è fatta. Quello diventa un passaggio molto doloroso e molto delicato, talvolta fattore precipitante di molti agiti estremi.

Essere consapevoli vuol anche dire imparare a procrastinare con moderazione.

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BIBLIOGRAFIA:

Gli Effetti a Lungo Termine dei Videogames Violenti

 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le persone che usano videogames violenti per tre giorni consecutivi mostrano comportamenti aggressivi e ostili che aumentano nei giorni.

 

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 Gli effetti psicologici dell’utilizzo di videogames violenti sono stati a lungo discussi nel panorama scientifico. Si discute soprattutto sulla durata degli effetti post-utilizzo, se questi si protraggono nel tempo o se invece possono dirsi solo transitori. Le precedenti ricerche, tuttavia, si sono soffermate solo sugli effetti di un’unica sessione di gioco. Spetta a un recente studio il merito di fornire la prima prova sperimentale che gli effetti negativi dell’utilizzo di videogames violenti sono cumulabili nel tempo.

I ricercatori hanno trovato che le persone che usano videogames violenti per tre giorni consecutivi mostrano comportamenti aggressivi e aspettative ostili che aumentano giorno dopo giorno. Al contrario, coloro che utilizzano giochi non violenti non mostrano cambiamenti significativi nell’ aggressività o nell’ostilità verso gli altri.

“Sebbene altri studi sperimentali abbiano mostrato che una singola sessione di videogames violenti aumenti l’aggressività a breve termine, questo è il primo studio a dimostrare effetti più a lungo termine” scrive Brad Bushman, co-autore dello studio e Professore di Comunicazione e Psicologia presso l’ Ohio State University.

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Lo studio ha coinvolto 70 studenti universitari francesi a cui è stato detto che avrebbero partecipato ad uno studio di tre giorni sugli effetti della luminosità dei videogames sulla percezione visiva. I partecipanti sono stati assegnati a due gruppi sperimentali: metà di loro ha giocato con videogames violenti (Condemned 2, Call of Duty 4 e The Club), l’altra metà invece ha utilizzato videogames non violenti (S3K Superbike, Dirt2 e Pure). Entrambi i gruppi hanno effettuato sessioni di gioco per singolo videogames della durata di venti minuti al giorno, per tre giorni consecutivi.

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Dopo le sessioni di videogames, in ognuno dei tre giorni, i partecipanti hanno preso parte a un esercizio che misura le loro aspettative ostili: è stata loro data una storia da leggere e chiesto successivamente di riportare una lista di 20 cose che il protagonista potesse fare o dire per proseguire la storia (ad es. in una storia un uomo alla guida della propria auto urta violentemente la macchina del protagonista, causando danni significativi). I ricercatori hanno contato quante volte i partecipanti hanno elencato azioni o frasi violente e/o aggressive.

Gli studenti hanno poi partecipato a un compito competitivo di tempi di reazione, utilizzato per misurare l’aggressività. Ad ognuno di loro è stato detto di competere contro un avversario situato in un’altra stanza in 25 prove di velocità da effettuare al computer, obiettivo delle prove è rispondere per primi ad un segnale visivo che compare sullo schermo. Il perdente di ogni prova avrebbe ascoltato nelle proprie cuffie un rumore sgradevole (unghie su una lavagna, trapano del dentista e sirene), la cui durata d’esposizione è decisa dal vincitore della prova. In realtà non c’era alcun avversario in un’altra stanza, ma ai partecipanti è stato detto di essere i vincitori in quasi metà delle prove, per misurare così il tempo di esposizione al rumore sgradevole inflitto al finto avversario.

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 I risultati hanno mostrato che, dopo ogni giorno, coloro che hanno utilizzato i giochi violenti hanno avuto un aumento nelle loro aspettative ostili: in altre parole, dopo aver letto l’inizio delle storie, sono stati più propensi a pensare che i personaggi avrebbero dovuto reagire con aggressività o violenza. A proposito Bushman scrive “Questi risultati non solo indicano un probabile effetto cumulativo dei videogiochi sull’ostilità, ma suggeriscono anche come le persone che fanno un uso spropositato di questi videogames potrebbero avere una tendenza a vedere il mondo come un luogo ostile e violento.”

Allo stesso modo, anche l’aggressività dei partecipanti è aumentata giorno dopo giorno: nel ruolo di vincitori alle prove dei tempi di reazione, infatti, gli studenti hanno punito il finto avversario con un’esposizione al rumore fastidioso di durata sempre più elevata nel corso dei tre giorni.

Al contrario, coloro che hanno giocato con videogames non violenti non hanno mostrato alcuna ostilità nelle loro aspettative né aggressività nei loro comportamenti.

I ricercatori, a questo proposito, dichiarano che sarebbe interessante scoprire gli effetti dei videogames violenti dopo mesi o anni di gioco, ma ammettono che questo non sarebbe possibile per motivi pratici e soprattutto etici. Tuttavia, pensando a tutti quei ragazzi che passano i loro pomeriggi (e a volte anche le notti) a giocare davanti al pc o a qualche altra console di gioco, resta pur sempre l’invito a proseguire le ricerche su questo argomento.

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PSICOLOGIA & TECNOLOGIA – VIOLENZA –  PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA  

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Relazioni Interpersonali & Senso di Appartenenza

 

Relazioni Interpersonali & Senso di Appartenenza. - Immagine: © Minerva Studio - Fotolia.comLa ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature permette di sentirsi parte integrante di un tutto e mantenersi indipendenti.

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No man is an island”, nessun uomo è un’isola, recita il primo verso dell’omonima poesia di John Donne, valeva all’epoca del poeta e religioso inglese e vale ai tempi odierni, in cui è sempre più facile connettersi agli altri e avere relazioni interpersonali, che si parli di reale o virtuale.

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La ricerca di relazioni interpersonali appaganti e durature all’interno di un contesto sociale più ampio, permette di sentirsi parte integrante di un tutto e contemporaneamente di mantenere la propria indipendenza e individualità. Un bisogno fondamentale la cui mancanza potrebbe portare allo sviluppo di sintomi di tipo depressivo.

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Diversi studi si sono occupati del senso di appartenenza e disturbi dell’umore (Eberhart & Hammen, 2010; Flynn, Kecmanovic, & Alloy, 2010; Slavich, Thornton, Torres, Monroe, & Gotlib, 2009; Starr & Davila, 2008). I ricercatori dell’Università del Queensland, (W.D.Cockshaw et al. 2012) si sono concentrati sul significato del senso di appartenenza a uno specifico contesto, nel caso della ricerca è stato preso in considerazione il luogo di lavoro, differenziandolo da un più astratto e generale senso di appartenenza dell’individuo alla comunità in cui vive.

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I partecipanti allo studio, 369, con una prevalenza femminile (il 72% ca) e un’età media di 40 anni, sono stati reclutati via mail con la collaborazione dell’associazione degli alunni e dello staff, del Servizio “Salute e Benessere”, interni all’università australiana. Al campione è stato chiesto di compilare un questionario online che indagava pensieri e cognizioni su due aspetti: far parte della comunità in senso generale e il senso di appartenenza legato al proprio gruppo di lavoro. Una terza parte del questionario era dedicata ad approfondire la presenza di sintomi ansiosi e depressivi.

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I dati raccolti hanno confermato che il sentimento generale di appartenenza alla propria comunità, è diverso da quello specifico che deriva dal sentirsi parte di un gruppo.

Ciò potrebbe essere spiegabile con il fatto che ciascuno di noi fa parte di svariati contesti, all’interno dei quali ricopre uno specifico ruolo (in famiglia, a scuola, sul lavoro, con gli amici). Un altro aspetto emerso è che un deficit nel senso di appartenenza specifico di un contesto può essere predittivo dello sviluppo di sintomi depressivi. Ciò potrebbe dipendere da un diminuito senso di inclusione e valore personale, che l’appartenenza a un gruppo contribuisce a rafforzare. Lo studio dell’Università del Queensland, conferma qualcosa di cui tutti noi prima o poi ci siamo resi conto: che non si vive solo per se stessi, che sentirsi parte di un sistema permette di esprimere aspetti diversi della nostra identità e che le difficoltà nelle relazioni interpersonali interne al gruppo possono portare a un disagio significativo.

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RAPPORTI INTERPERSONALI – SENSO DI APPARTENENZA – DEPRESSIONE – ANSIA 

 

  

BIBLIOGRAFIA

Il Colloquio Psicologico: Il Colloquio Tra Rogers & Carkhuff

 

Il Colloquio Psicologico: Il Colloquio Tra Rogers & Carkhuff. - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.comColloquio Psicologico. Autori che si sono occupati di colloquio psicologico e definiti i padri di due approcci antitetici: Rogers e Carkhuff

LEGGI LA MONOGRAFIA SUL COLLOQUIO PSICOLOGICO

Due autori che si sono occupati di colloquio psicologico e che possono essere definiti i padri di due approcci antitetici su questo argomento sono Rogers e Carkhuff. Il loro approccio è diametralmente opposto, più classico e non-direttivo quello del primo, più tecnologico e direttivo l’altro.

Carl Rogers è il padre del colloquio psicologico non-direttivo, per lo meno nella sua forma classica. Egli apparteneva alla corrente dei fenomenologi e, per questo, riteneva che ognuno percepisse il mondo in un modo unico e proprio. Queste percezioni individuali costituivano quello che lui chiamava “campo fenomenico” di una persona. Questo campo comprende sia le percezioni consce che quelle inconsce anche se Rogers [1951]considerava le percezioni consce e quelle che potevano esserlo alla base del comportamento umano.

Una parte di queste percezioni consce, sempre appartenenti al campo fenomenico della persona, riguarda il “sé”, il “me” e l’”io”.

Queste sono le percezioni che definiscono il Sé che, quindi, è legato a contenuti che possono avere accesso alla nostra coscienza. Al fianco di questa idea di Sé emerge anche un’idea di Sé Ideale. Questo concetto è inteso come l’insieme delle percezioni, riferibili all’area del Sé e particolarmente apprezzate dal soggetto, che vorrebbe facessero parte della propria idea di Sé. Queste idee di Sé influenzano il comportamento umano.

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Quest’ultimo, secondo Rogers [1951],sarebbe teso all’autorealizzazione (riducendo i bisogni ed esaltando piaceri e soddisfazioni), al mantenimento della coerenza del sé (evitando il conflitto interno)  e della congruenza tra sé ed esperienza (evitando stati di incongruenza). Gli stati di incongruenza emergono nel momento in cui si realizza una frattura tra il sé percepito e un esperienza reale, e le conseguenze sono confusione e potenziale angoscia (se questa frattura rimane a livello inconscio). Se un’esperienza è potenzialmente minacciosa e in grado di creare una frattura di questo tipo possiamo proteggerci attivando meccanismi di difesa. Da queste esperienze nasce la patologia. Il Sé nevrotico si è strutturato in modo non congruente all’esperienza dell’organismo, e costringe quest’ultimo a negare la consapevolezza delle esperienze sensoriali ed emotive che generano il contrasto. Ciò avviene attraverso meccanismi di distorsione e negazione.

Il Colloquio Psicologico - Introduzione. - Immagine: © emiliau - Fotolia.com
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Questo è il paziente affrontato da Rogers nei suoi colloqui psicologici. Per l’autore [Rogers e Kinget, 1965]non esiste differenza tra il primo colloquio e i successivi poiché non si percorre una via centrata sull’evoluzione dei contenuti, ma sul mantenimento della corretta forma del colloquio. Il terapeuta non entra nel merito dei contenuti, lasciandoli nelle mani della conduzione del cliente, ma si concentra sulla realizzazione dei requisiti formali, fondamentali per il buon esito del colloquio stesso.

Questo buon esito si realizza quando, grazie alla semplice azione di supporto del terapeuta, l’io del cliente viene rafforzato a tal punto da permettergli di uscire dai rigidi schemi stereotipati in cui era rinchiuso. Ciò gli permette di osservare le proprie esperienze da nuovi punti di vista che le rendono accettabili e non più fonte di angoscia. I tre requisiti necessari perché il colloquio possa svolgere questa funzione sono [Pervin e John, 1997]:

1)  Congruenza e genuinità: il terapeuta genuino è sé stesso. Egli è onesto e si presenta al cliente com’è, senza maschera alcuna. è in grado di creare un rapporto di fiducia con il cliente fondato sulla reciproca sincerità. Il terapeuta è libero di costruire un rapporto uguale a quello tra persona e persona, può condividere i sentimenti positivi, ma anche negativi, con il cliente.

2)  Considerazione positiva incondizionata: si realizza nel momento in cui il terapeuta riesce a trasmettere un grande senso di accettazione al cliente, un accettazione totale e incondizionata che implica l’assenza di qualsiasi forma di giudizio verso valori anche deprecabili. Questa considerazione si fonda sulla necessità di non dimenticare il valore universale della persona in quanto tale, che rimane costante indipendentemente dai suoi pensieri, dalle sue emozioni e dai suoi comportamenti. Questa condizione permette la creazione di un atmosfera di calore e comprensione all’interno della quale viene favorita l’esplorazione del proprio Sé da parte del cliente.

3)  Comprensione Empatica: essere empatici equivale a percepire le esperienze e il loro significato per il cliente, mettersi nei suoi panni pur rimanendo sé stessi, accettando la sua sensibilità e la sua logica. Attraverso questa capacità il terapeuta è in grado di comprendere i problemi della persona che gli sta di fronte e di entrare in contatto con le sue emozioni, con il suo modo di vedere le cose e con il suo modo di interpretare la realtà [Galeazzi e Franceschina, 2001].

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  Questi sono i requisiti di base di quella che Rogers definisce come terapia centrata-sul-cliente le cui caratteristiche principali [Rogers 1942, 1977] sono: a) la profonda fiducia nelle capacità del cliente e nel percorso di crescita, realizzazione e congruenza; b) l’accento sull’importanza del rapporto terapeutico in cui il terapeuta deve cercare di comprendere il cliente e di trasmettere questa volontà di comprensione e, infine, c) la prevedibilità del processo terapeutico.

Tutto ciò si realizza in un colloquio psicologico non-direttivo in cui il terapeuta si preoccupa di agire come uno specchio (attraverso parafrasi, eco, giustificazioni e riflessioni) sia per mostrare la propria empatia e il proprio impegno a comprendere il cliente, sia per permettere a quest’ultimo di guardare sé stesso dall’esterno e, cioè, guardare sé stesso attraverso il terapeuta-specchio. In questo modo può scoprire nuovi punti di vista e nuove prospettive da cui poter valutare le proprie difficoltà. Aiutare l’altro a scoprirsi rappresenta un’esperienza unica e, anche per questo, ogni colloquio ha, secondo Rogers, la medesima importanza del primo [Fine e Glasser, 1996].

Carkhuff ha in comune con Rogers l’idea che il raggiungere qualcosa nel colloquio sia in realtà un far emergere qualcosa [Anchisi, 1999, in Fine e Glasser, 1996]. È il soggetto, attraverso il colloquio, a comprendere e a definire i propri obiettivi.

La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Tuttavia esistono molte differenze tra questi due approcci. Anziché essere centrato-sul-cliente il focus principale del colloquio di Carkhuff è il problema [Carkhuff, 1987]. Ciò ha comportato il distacco da alcune delle tematiche, care all’eredità psicoanalitica di Rogers, quali, ad esempio, l’analisi del passato e del suo rapporto con il disturbo del cliente. L’obiettivo di questa impostazione di base è quello di costruire un colloquio che sia funzionale ed economico, efficace ed efficiente. Questo colloquio deve fare scomparire il problema piuttosto che mostrare accettazione incondizionata o comprensione empatica. Quelli che importano sono, prima di tutto, i contenuti rispetto alla forma.

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Per poter realizzare ciò Carkhuff sottolinea l’importanza di un percorso metodologico ben definito da seguire che possa ottimizzare la terapia e ottenere il maggior numero di risultati nel minor numero di sedute possibili. Questo percorso metodologico è definito da protocolli, insieme di regole che sanciscono il modo in cui il colloquio deve essere strutturato per ottenere risultati con rapidità. Questi protocolli, che guidano il comportamento del counselor e la strutturazione della sessione di colloquio, possono essere di diversi tipi, in relazione al problema che ci si trova a dover affrontare.

Adottare questi protocolli vuol dire anche riconoscere un ruolo diverso al primo colloquio rispetto a quelli successivi in quanto le diverse sessioni hanno diverse funzioni all’interno del percorso metodologico.

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 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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