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Le Cinque Strategie per una Migliore Vita di Coppia

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Apertura, positività, rassicurazione, attività condivise e rete sociale condivisa sono gli elementi chiave per una migliore vita di coppia.

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Tutti noi, quando siamo innamorati, cerchiamo di tenere lontana l’idea di momenti di crisi, di infelicità col nostro partner, perseguendo così il difficile obiettivo di mantenere sempre vivo il rapporto di coppia.

Ci chiediamo dunque cosa fare per essere sempre felici e in sintonia con i nostri partner. Nonostante questo tema venga più volte trattato sulle varie “Poste del Cuore” di rotocalchi e settimanali, dove attori e starlette dispensano consigli sulla coppia quasi dimenticando gli innumerevoli rapporti naufragati o i tanti divorzi alle proprie spalle, esistono studi che hanno indagato l’argomento seguendo metodologie di un certo rigore.

L' Amore ai Tempi delle Reti Sociali. - Immagine: © detailblick - Fotolia.com
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Nella letteratura sono infatti numerosi gli articoli che indagano le variabili che possono favorire o meno la durata e la qualità di un rapporto di coppia. Recentemente uno studio dell’ Illinois, effettuando una meta analisi su 35 studi e 12273 self-report, ha messo in evidenza l’importanza di alcune strategie che favoriscono il proseguire delle relazioni d’amore. Dalla ricerca è emerso che apertura, positività, rassicurazione, attività condivise e rete sociale condivisa sono gli elementi chiave per mantenere viva la coppia.

Apertura, nel rapporto, non vuol dire soltanto parlare dei propri sentimenti, ma fare in modo che anche il nostro compagno parli dei suoi, favorendo l’espressione delle sue emozioni, accogliendole senza giudicare o attaccare.

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Con positività, gli autori fanno riferimento al comportamento ottimista e allegro di una persona, agire in maniera positiva ha una migliore e notevole ripercussione nell’interazione con l’altro.

Nella coppia sembra essere importante anche rassicurare il partner sulla nostra presenza, non soltanto a livello affettivo, ma anche pratico. Offrire il proprio aiuto nelle faccende domestiche o mostrarsi pronti a condividere le responsabilità è uno strumento prezioso per il benessere di coppia.

L’importanza di fare delle attività piacevoli insieme è ormai nota, ma fare uno sforzo per includere all’interno di alcune di queste attività anche amici o parenti del proprio partner sembra essere molto efficace per una maggiore sintonia di coppia.

Dallo studio è emerso che per una persona che facilmente pratica alcune di queste cinque strategie, non sarà difficile includere, nel proprio rapporto di coppia, le strategie non ancora messe in atto. D’altro canto, sottolineano gli autori, anche per lo stesso partner che si accorge degli sforzi fatti dall’altro per mantenere vivo il rapporto sarà più facile adoperare le strategie. 

Nonostante le cinque strategie, però, vi è un’ ulteriore variabile che si dimostra essere fondamentale nel migliorare il proprio rapporto di coppia: l’evidenza degli sforzi. Se uno dei due partner dà il meglio di sé per mantenere vivo il rapporto ma tali sforzi rimangono vani e l’altro non li nota, le strategie delineate dagli autori si rivelerebbero poco utili.

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I ricercatori infatti spiegano: “A volte i pensieri di una persona non si trasferiscono in azioni. Prendiamo come esempio un uomo che ha intenzione di tornare a casa dal lavoro e sorprendere la propria compagna con dei fiori e portarla poi a cena fuori. L’uomo però riceve una telefonata d’affari e deve rimandare il progetto, tutte le sue buone intenzioni vengono meno. Allo stesso modo, quando si mettono in atto, per la propria coppia, sforzi considerevoli ma invisibili all’altro, quel che si è tentato di fare sembra del tutto inutile“.

I risultati della ricerca potrebbero risultare utili per tutte quelle coppie che, prese dai mille impegni e dalle routines quotidiane, tendono a dare l’altro per scontato.

Gli stessi autori concludono: “Adottare consapevolmente queste strategie effettuando anche un piccolo tentativo di “manutenzione”, come per esempio chiedere al proprio partner come è andata la giornata, inviargli un sms divertente per farlo sorridere o  prendere il telefono e chiamare i suoi genitori (ndr: questa forse per molti lettori sarà difficile!), può avere davvero un impatto molto positivo sul rapporto“.

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BIBLIOGRAFIA:

La Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) ha Bisogno della Ricerca

di Carmelo La Mela

Psichiatra, Psicoterapeuta  

Scuola Cognitiva di Firenze

 

La Terapia Cognitiva ha Bisogno della Ricerca. -Immagine: © Steve Young - Fotolia.com

Il gruppo di ricerca della Scuola Cognitiva di Firenze da anni si interessa allo studio delle variabili collegate all’esito della Terapia Cognitivo-Comportamentale nei vari quadri sindromici di DA. Attualmente è in atto uno studio mirato ad indagare gli aspetti di personalità e gli schemi centrali correlati a questi disturbi. Per questo scopo stiamo lavorando alla validazione, nella popolazione sana, di uno strumento utilizzato per esplorare gli schemi centrali.

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La Terapia Cognitivo-Comportamentale (Terapia Cognitivo-Comportamentale) è una terapia di indiscussa efficacia per i disturbi psicopatologici di asse I, che ha vinto la sfida con le altre forme di psicoterapia per essere stata la prima ad accettare di misurarsi con la verifica empirica, metodologicamente rigorosa, dei trial di ricerca randomizzati e controllati.

PARTECIPA ALLA RICERCA! (TUTTI I DATI SONO RACCOLTI IN FORMA ANONIMA)

Questa originaria scelta della Terapia Cognitivo-Comportamentale di posizionarsi nel campo delle scienze, ha caratterizzato tutta l’evoluzione di questo approccio. Di ciò ne è  ultima conferma il recente articolo sull’efficacia della Terapia Cognitivo-Comportamentale nella depressione resistente, apparso sul numero di dicembre 2012 della rivista  “The Lancet”, rivista che insieme a “Science” e “Nature” rappresenta un punto di riferimento assoluto per la comunità scientifica. Ulteriore conferma è il crescente interesse verso la Terapia Cognitivo-Comportamentale anche di quella parte  della psichiatria biologicamente orientata, che ha visto spesso solo nel trattamento farmacologico una risposta scientificamente fondata alle sindromi psicopatologiche.

Il-Fenomeno-del-drop-out-nei-DCA-un-Aspetto-da-Non-Sottovalutare!. - Immagine: © Tommaso Lizzul - Fotolia.com
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Sottovalutare!

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Le formulazioni cognitivo-comportamentali standard hanno enfatizzato il ruolo di due livelli di rappresentazioni cognitive, quello dei pensieri automatici negativi che sono in gran parte cognizioni immediate consce e quello degli schemi sottostanti. Gli schemi cognitivi sono solitamente definiti come “ una struttura mentale formata da domini di conoscenza immagazzinati che interagiscono nell’elaborazione di nuove informazioni” (Williams, 1987), un filtro mentale, insomma, attraverso il quale elaboriamo il significato che attribuiamo alle nostre nuove esperienze.

Recentemente questa primitiva definizione è stata modificata e ampliata (Beck, 1996)  in un modello che considera gli schemi come strutture multimodali, che rappresentano molto di più di una singola credenza. Uno schema, secondo queste proposte, è una struttura di conoscenza organizzata da significati fisici, emozionali, verbali, visivi, tattili, cenestesici. Questi aspetti interagiscono per integrare di esperienze somatopercettive ed emotive lo schema cognitivo.

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Tradizionalmente la Terapia Cognitivo-Comportamentale, riconosce il suo obiettivo nell’identificare e modificare gli schemi disfunzionali che sono alla base del disturbo e i fattori cognitivi e comportamentali che mantengono in atto il funzionamento patologico.

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Nel caso dei Disturbi dell’Alimentazione (DA) questi schemi vengono  identificati coi livelli di cognizione più prossimali alla dimensione psicopatologica e sintomatica del disturbo, e coinvolgono primariamente credenze focalizzate sul peso, la forma del corpo e l’alimentazione.

Lo stato attuale dei modelli cognitivo-comportamentale sviluppati per  la comprensione dei meccanismi psicopatologici alla base dei DA, così come proposti da Fairnburn, mostra come ci sia un certo numero di dimensioni psicologiche ed interpersonali  che sfuggono all’attenzione di questi modelli e  che  non vengono presi in considerazione dagli interventi terapeutici che ne derivano.

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Malgrado l’indiscusso successo del protocollo proposto da Fairnburn, gli studi di esito e sui fattori coinvolti nei drop-out,  indicano che nel trattamento dei DA, la percentuale di coloro che non rispondono agli attuali protocolli oscilla intorno al 60%.

Questi dati hanno indirizzato un filone di indagine, verso lo studio del funzionamento mentale dei soggetti affetti da DA, non solo relativo al piano psicopatologico ma anche allo studio di quegli schemi centrali,  più vicini all’assetto della personalità premorbosa, che possono rappresentare il livello di vulnerabilità personologica allo scompenso sintomatico.

La ricerca recentemente ha supportato l’ipotesi che la comprensione del ruolo di schemi gerarchicamente più centrali e nucleari nell’assetto di personalità dei soggetti affetti da DA, possa rappresentare un ulteriore livello di intervento psicoterapico che potrebbe permettere di affrontare in maniera più adeguata quei casi complessi che sfuggono all’efficacia dell’intervento Terapia Cognitivo-Comportamentale standard (Waller, 2007).

Negli ultimi anni le ricerche in questo campo, hanno aumentato le conoscenze su questi schemi centrali, permettendo di ipotizzare modelli esplicativi più articolati e rispondenti ai quesiti posti dagli studi  sul drop-out ed sugli esiti negativi  della Terapia Cognitivo-Comportamentale, e rappresentando un piano di intervento ulteriore, utile per affrontare i casi in cui si manifesti una mancanza di efficacia terapeutica.

L’attenzione a questo livello più profondo di schemi, permette di comprendere meglio gli schemi centrali alla base dell’immagine di sé e della modalità di costruzione della relazione interpersonale dei soggetti con DA, dando senso a molte di quelle variabili psicologiche che sono state messe in luce dalle ricerche, come coinvolte nella psicologia di questi soggetti, senza però, spesso, riuscire a trovarne una correlazione significativa con la dimensione sintomatologica.

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Questo potrebbe rappresentare una delle spiegazioni del perché la ricerca si è spesso scontrata con dati contraddittori o non in linea con le attese fondate su osservazioni cliniche.

Una spiegazione di questa contradittorietà, può derivare dal diverso livello nell’organizzazione del funzionamento mentale di alcune variabili psicologiche e degli schemi ad esse connesse.

In una concettualizzazione di questo tipo, gli schemi centrali assumono il ruolo di dimensione di vulnerabilità cognitivo-emotiva premorbosa che permette di fare ipotesi riguardo al momento dello scompenso clinico, e ai significati che hanno determinato quella che viene definita una “invalidazione del sistema”.

Dati preliminari permettono di ipotizzare che la psicopatologia alimentare possa essere correlata direttamente a schemi, profondi e incondizionati, sul sé e sugli altri e non solo a credenze legate all’alimentazione, al peso e alla forma corporea.

Schemi inerenti a temi di imperfezione e vergogna, scarso senso di efficacia, sensitività interpersonale, alto criticismo, timore del giudizio e  sensibilità a vissuti di delusione sono principi organizzatori di un senso di sé che trova nel bisogno di controllo, alto perfezionismo, alessitimia, strategie compensative che diventano  gli elementi di una vulnerabilità ad eventi sociali e relazionali  e che possono portare allo scompenso sintomatologico.

L’attenzione alla definizione di questo livello più nucleare nel sistema di schemi e credenze, mira ad una comprensione del mondo interiore delle persone con DA, più approfondita  di quella articolata attorno alle preoccupazioni relative al peso, forma del corpo e al cibo.

Un lavoro basato sugli schemi centrali permetterebbe di affrontare il complesso sistema di convinzioni e difficoltà interpersonali che spesso contribuiscono alla cronicità e complessità di questi disturbi.

Il gruppo di ricerca della Scuola Cognitiva di Firenze da anni si interessa allo studio delle variabili collegate all’esito della Terapia Cognitivo-Comportamentale nei vari quadri sindromici di DA. Attualmente è in atto uno studio mirato ad indagare gli aspetti di personalità e gli schemi centrali correlati a questi disturbi. Per questo scopo stiamo lavorando alla validazione, nella popolazione sana, di uno strumento utilizzato per esplorare gli schemi centrali.

L’invito che rivolgo a tutti gli interessati ad aiutarci in questo studio è quello di rispondere ai 2 questionari che troverete collegandovi al LINK sottostante.

https://www.surveymonkey.com/s/YSQ-S3

Tutti i dati sono raccolti in forma anonima ai soli fini della ricerca scientifica.

Vi ringrazio per l’interesse che mostrerete. 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Colloquio Psicologico – La Comunicazione Terapeutica #1

 

“Il guerriero sa che nessun uomo è un’isola. Non può lottare da solo. Quale sia il suo piano, dipende da altri uomini. Ha bisogno di discutere la sua strategia, di chiedere aiuto e, nei momenti di riposo, di avere qualcuno a cui raccontare le storie di battaglia intorno al fuoco.”

[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.71]

I Principi della Comunicazione Terapeutica. - Immagine: © Adam Gregor - Fotolia.comI principi di base che lo psicologo non deve mai dimenticare, sono principi che costituiscono il modo di essere dello psicologo. Essi devono essere presi come modello di comportamento indipendentemente dalla fase del colloquio che si sta affrontando, indipendentemente dal cliente, indipendentemente dal problema. Ognuno di questi principi di base ha il potere di aiutare lo psicologo a comprendere e sostenere il percorso del cliente verso il cambiamento.

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Lo psicologo è consapevole dell’importanza del suo ruolo nel processo di cambiamento del cliente perché sa che nessun uomo è un isola. E spesso il cliente crede di essere un’isola. Proprio per la consapevolezza della propria importanza lo psicologo deve prestare attenzioni ai principi della comunicazione terapeutica, la base del suo sostegno, il modo attraverso il quale i suoi propositi di essere fonte di aiuto e anche di comprensione, possono realizzarsi.

Come è stato descritto esistono diverse teorie su come debba essere affrontato un colloquio terapeutico, da quelle che pongono accento sulla forma (Rogers) a quelle che si focalizzano sul contenuto (Carkhuff). Esistono tecniche direttive e non-direttive, tecniche che lasciano completamente nelle mani del paziente la conduzione del colloquio ed altre per le quali, invece, è necessario seguire uno specifico percorso metodologico.

Il Colloquio Psicologico - Il Colloquio di Motivazione. - Immagine: © Ivelin Radkov Fotolia.com
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Da queste teorie e da queste tecniche si possono tentare di estrarre alcuni principi di base che lo psicologo non deve mai dimenticare, sono principi che costituiscono il modo di essere dello psicologo. Essi devono essere presi come modello di comportamento indipendentemente dalla fase del colloquio che si sta affrontando, indipendentemente dal cliente, indipendentemente dal problema. Ognuno di questi principi di base ha il potere di aiutare lo psicologo a comprendere e sostenere il percorso del cliente verso il cambiamento.

1. ESSERE PERSPICUI

  “Un guerriero non tenta di sembrare. Egli è”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.93]

 

Durante il colloquio psicologico è necessario essere perspicui. Per perspicuità s’intende la capacità di essere trasparenti sui fatti, di rispettare la realtà che è ostensiva e, cioè, che si mostra a noi con chiarezza. Non dobbiamo cercare di persuadere il cliente con le nostre parole (dicendo che qualcosa “è vero”) ma dobbiamo convincerlo mostrando che è così senza affermarlo. 

 “è trasparente nelle sue azioni, e segreto nei suoi piani.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.71]

Dire che qualcosa “è vero” mostra la necessità di doverlo affermare perché si potrebbero avere dei dubbi, perché non emerge chiaramente dalla realtà e, per questo, ha un minore potere di convinzione. Allo stesso modo lo psicologo non deve dire di “essere esperto” per persuadere il cliente a seguire un suo consiglio ma deve mostrare in modo perspicuo le sue capacità ponendo a rilievo nuove prospettive da cui osservare il problema. Queste nuove prospettive, se percepite dal cliente, costituiscono possibili soluzioni del problema. Quindi essere perspicui può essere terapeutico. L’unica via veramente perspicua è quella del comportamento; l’ipotesi di lavoro, di per sé, non è perspicua ma deve essere comunque legata alla realtà e deve essere semplice e feconda.

 “Per il guerriero della luce non esiste niente di astratto”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.54]

 Essere perspicui implica la necessità di non essere interpretativi. Quando i problemi del cliente vengono interpretati si perde la trasparenza sulla realtà, si perde la capacità di mostrare le soluzioni e si è costretti ad affermarle e ad iniziare un opera di persuasione tesa a farle accettare al cliente.

In questi casi si entra nel mondo dell’astratto. Questo non solo impone al cliente una soluzione che non gli appartiene e che non trova riscontro nella realtà ma sostiene anche la dipendenza di quest’ultimo dallo psicologo. Questo perché il cliente accetta la soluzione senza vederla. Attraverso la perspicuità è il cliente a trovare la via della soluzione anche se il professionista lo ha aiutato trasmettendo le informazioni essenziali.

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2. DOVE C’È UN PROBLEMA C’È UNA SOLUZIONE

 “Chi non riconosce i problemi, lascia aperta una porta, e le tragedie sopraggiungono”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.46]

E’ importante sapere che dove c’è un problema, c’è anche una soluzione. Quest’affermazione logica sottolinea come all’interno dei dati di un problema sia presente tutto il necessario per risolverlo. Come non esiste il caldo senza il freddo, non può esistere problema senza soluzione.

Il senso comune ci fa credere che gli psicologi trovino la soluzione partendo da qualcosa di esterno al problema, ragionando a un livello trascendentale e astratto, quando, trovare la soluzione, equivale semplicemente a vedere la realtà che emerge dal problema stesso.

E’ sufficiente osservare il problema, rimanendo aderente alla realtà (mantenendosi perspicuo) per vedere che essa mostra la soluzione. La vera difficoltà è che la maggior parte dei clienti, nel corso del colloquio, osservano il problema non come tale ma come “vincolo”, come una necessità ineluttabile che è così e non può essere altrimenti, e che quindi non possiede una soluzione. Il compito dello psicologo in questi casi è quello di aiutare la persona a scoprire prospettive nuove in cui il vincolo appaia come un problema per il quale esiste una soluzione.

 

3 . FAR EMERGERE LA STATUA DAL BLOCCO DI PIETRA

“Il guerriero allora lascia che la decisione si manifesti”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.88]

Questo concetto è strettamente connesso e dipendente dai due precedenti principi. Alla luce del fatto che ogni problema possiede una propria soluzione e che possiamo farla emergere, agli occhi del cliente, dalla realtà, possiamo dire che non è lo psicologo a costruire la soluzione.

L’obiettivo del colloquio deve essere sempre quello di portare il cliente a percepire nuovi punti di vista, a individuare le soluzioni. Non è lo psicologo ad imporre una certa definizione o certe prospettive, pur riconoscendole nella realtà. Egli induce il cliente a scoprirle, fungendo solo come supporto in questa ricerca, come fonte di informazioni.

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In questo modo, rinunciando a palesare il proprio ruolo di esperto, lo psicologo favorisce l’indipendenza del cliente, il suo senso di autoefficacia e la sua motivazione nel procedere verso il cambiamento. L’aumento della motivazione al cambiamento è dettata dal fatto che il cliente vede la soluzione. Non segue un percorso tracciato da altri del quale, di fatto, non conoscerebbe la meta. La statua esiste già, è immanente al blocco di pietra; il compito del psicologo-scultore è semplicemente quello di farla emergere sempre di più, ad ogni colpo di scalpello.

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4 . LOGICA DELL’AVERE E LOGICA DELL’ESSERE

“Le corde che sono sempre in tensione finiscono per logorarsi. […] Perciò, anche se potrebbe non essere dell’umore giusto, il guerriero della luce cerca di divertirsi con le piccole cose quotidiane.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.129]

Secondo la logica dell’avere è necessario possedere una certa cosa o raggiungere un certo stato per poter essere felici, si estremizzano affermazioni di bisogno, si confondono i bisogni reali con il desiderio, la bramosia e il capriccio. Non appena si ha qualcosa che si desidera, essa assume minore importanza e l’attenzione viene posta, sempre e comunque, su ciò che non si possiede. Ciò conduce lontano dalla felicità, che diventa irraggiungibile, e al cospetto di continue frustrazioni. Al contrario la logica dell’essere è l’atteggiamento di chi non ha nulla ma si trova comunque in una condizione di gioia, soddisfatti di sentirsi tutt’uno con il mondo.

“Il guerriero della luce presta ascolto a Lao Tzu, quando dice che dobbiamo distaccarci dall’idea dei giorni e delle ore per rivolgere sempre la nostra attenzione al minuto”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.130]

I concetti di logica dell’avere e logica dell’essere sono legati a doppio filo con i concetti di Autoefficacia e di Autostima.

L’Autefficacia è un costrutto psicologico che rappresenta ciò che la persona pensa di poter fare; è quindi qualcosa che si apprende e che è focalizzata sul risultato ottenuto attraverso comportamenti. Per questo motivo rappresenta qualcosa che il soggetto “ha”. Per esempio la frase: “io sono valido” implica “avere” la qualità di essere valido.

L’Autostima, all’opposto, è un costrutto psicologico che rappresenta ciò che la persona pensa di sé ed è centrata più sull’impegno che sul risultato. Questa caratteristica è qualcosa che fa parte di noi, che si scopre e che appartiene alla logica dell’essere. Per questo motivo rappresenta qualcosa che il soggetto “è”. Per esempio la frase: “io sono, io sono stato e io sarò” implica la scoperta che ogni persona ha valore di per sé, un valore universale indipendente da qualsiasi avvenimento. Questa è la scoperta dell’Autostima.

Questi due aspetti devono essere considerati all’interno di un colloquio orientato a raggiungere un cambiamento del cliente. Avere un’ Autoefficacia elevata vuol dire soffrire sensibilmente la frustrazione in caso di mancato raggiungimento dei risultati. Questa frustrazione può essere evitata se il soggetto possiede un’elevata Autostima. lo psicologo deve assicurarsi di intervenire sull’Autostima prima che sull’Autoefficacia. Rinforzare le regole di quest’ultima può essere un arma a doppio taglio. Per questo motivo è meglio incentivare dicendo: “stai andando bene” piuttosto che dicendo: “sei bravo/a”. In quest’ultima affermazione Autostima ed Autoefficacia vengono confuse e si rischia di sfavorire la prima e di favorire la seconda, aumentando la dipendenza del cliente dai rinforzi dello psicologo.

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Sia Autoefficacia che Autostima posseggono delle regole. In particolare le regole dell’Autoefficacia guidano il nostro comportamento mentre le regole dell’Autostima, che in realtà sono delle metaregole, affermano che, usando buone regole, si ottengono risultati e che, se non si ottengono, è necessario cambiare le regole.

La comunicazione dello psicologo deve focalizzarsi a livello di queste metaregole. Quando lo psicologo alimenta la propria convinzione in queste metaregole permetterà al cliente di vedere il fallimento come una necessità di cambiamento delle regole-guida del proprio comportamento, piuttosto che come la fonte vincolante di una frustrazione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Temple Grandin – Una Donna Straordinaria. Recensione

Di Giuseppina Epifanio

 TEMPLE GRANDIN – UNA DONNA STRAORDINARIA

Recensione

 

“Mi chiamo Temple Grandin

non sono come le altre persone

penso in immagini e le metto in relazione”

 

Temple Grandin - Thinking in Pictures. LocandinaLEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND 

Il film affronta il tema dell’Autismo ripercorrendo l’eccezionale vita di Temple Grandin, una donna autistica dotata di capacità straordinarie. 

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L’originalità di questa pellicola è dovuta al fatto che lo spettatore ha la possibilità di avvicinarsi a una patologia così complessa e particolare attraverso gli occhi, le emozioni e i pensieri della protagonista, affetta da sindrome autistica.

Temple Grandin è nata e cresciuta in un periodo in cui l’autismo era ancora poco conosciuto. Proprio per questo, nei primi anni della sua vita le venne attribuita una diagnosi di schizofrenia. Più tardi fu riconosciuta una forma di autismo. In quegli anni gli studiosi ritenevano che la causa di tale sindrome provenisse da carenze materne, da quella che veniva chiamata “madre frigorifero”. In questa scena del film, è palpabile la sofferenza della madre, la quale cerca di spiegare al dottore come la teoria non avesse fondamenta, visto anche il paragone con la seconda figlia la quale aveva sviluppato una normale affettività.

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Il film racconta gli anni in cui Temple realizza, tra incomprensioni e sofferenze, di essere “diversa ma non inferiore”. La storia inizia con la visita estiva di Temple presso il ranche della zia in cui adora passare giornate intere in mezzo agli animali da cui si sente compresa perché “la pensano come lei”. Durante questo soggiorno pensa per la prima volta di costruire una macchina degli abbracci, un metodo di compressione che riesca a calmarla nei momenti di difficoltà, dopo aver provato su se stessa una macchina che abbracciava le vacche per renderle più docili.

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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Le difficoltà subentrano nel momento in cui Temple è costretta a frequentare il College, le sue difficoltà relazionali e la costrizione in un ambiente poco piacevole cominciano a renderla nervosa, agitata e costantemente in ansia. E’ in questo momento che decide di costruire la sua prima “macchina degli abbracci”, la quale stringe e abbraccia entrambi i lati del suo corpo, facendola rilassare ogni volta che si sente tesa, in modo da compensare l’assenza del contatto fisico con gli altri, il quale le procura notevole fastidio.

Purtroppo la scuola non accetta che Temple tenga la macchina nella sua stanza, ritenendo che dietro il suo utilizzo ci sia un motivo di origine sessuale. La ragazza, tra agitazione e rabbia, grazie anche al supporto della zia, riesce a dimostrare, attraverso una solida ricerca scientifica, gli effetti rilassanti della sua macchina. Questo le permette di tenerla.

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Durante il college Temple è sostenuta anche dal professor Carlock, il quale riesce ad entrare nel suo mondo, interpretando il suo modo di osservare le cose, definendola per la prima volta una “pensatrice visuale”. Grazie al sostegno del professore, Temple riesce a laurearsi e poco dopo comincia a lavorare in un ranch, in cui si impegnerà a migliorare le strutture destinate alle vacche.

Il film stupisce per una serie di motivi: innanzitutto per le doti dell’attrice protagonista, Claire Danes, la quale riesce magistralmente a interpretare Temple Grandin, grazie a una notevole padronanza fisica ed espressiva. L’elemento che caratterizza il film è come Temple guarda le cose. Lei pensa per immagini e mentre questo invita un regista ad eccedere visivamente, Mick Jackson mantiene le cose semplici. Quando Temple fa i collegamenti con la sua memoria fatta di connessioni visive, viene mostrato come lei risolve i suoi problemi attraverso le immagini. Ne seguono una serie di situazioni divertenti. Inoltre, trattandosi di un film destinato al piccolo schermo, questo fa credere che anche la televisione cominci a sfornare dei prodotti di qualità.

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Nel complesso, il film, in quasi due ore, immerge lo spettatore nella vita di una donna davvero straordinaria, lasciandolo con il desiderio di conoscere ancora più dettagliatamente la biografia di Temple Grandin.

Attualmente Temple Grandin è una sessantenne americana con due lauree una in Psicologia e una in Zoologia, un master in Scienze Animali, è una tenace attivista del  movimento in tutela dei diritti degli animali e delle persone con autismo. Inoltre, è ricercatrice e professoressa presso la Colorado University.

I suoi studi sul “contatto” si sono rivelati pionieristici: i terapisti hanno osservato come un tocco molto leggero allerti il sistema nervoso, negli esseri umani come negli animali, ma la pressione profonda è rilassante  e calmante (Barnold and Brazelton, 1990; Gunzenhauser, 1990). La pressione profonda ha avuto effetti benefici in una varietà di contesti clinici: bambini con disturbi psichiatrici, bambini autistici, bambini con disturbo del sonno (ad esempio, è stato verificato che questi bambini dormono meglio avvolti in un sacco a pelo), ADHD (Ayres, 1979; Ayres 1989; King, 1990).

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Riguardo la sua esperienza personale, Temple Grandin afferma: “ La macchina mi ha permesso di imparare a tollerare di essere toccata da un’altra persona. Inoltre mi ha fatto sentire meno aggressiva e meno tesa. Ben presto ho notato un cambiamento nella reazione del nostro gatto nei miei confronti. Il gatto, che prima scappava da me ora rimane con me, perché ho imparato ad accarezzarlo con un tocco dolce. Dovevo consolare me stessa prima di poter dare conforto al gatto.”

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BIBLIOGRAFIA:

APPROFONDIMENTI: 

Perchè gli Anziani diventano Facili Prede dei Truffatori

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Una delle funzioni dell’insula anteriore è ricevere le informazioni corporee e interpretare questi stati viscerali, ed è proprio questa funzione che, nelle persone più anziane, sembra avere una minore attivazione. Questo ci porta a pensare che gli anziani non abbiano l’esatta sensazione che qualcosa non va quando qualcuno sembra inaffidabile.

Molte notizie di cronaca, ultimamente, riportano casi di anziani truffati e, seppur i tipi di truffe siano innumerevoli,  l’evolversi delle situazioni sembra essere sempre lo stesso: i non più giovani vengono avvicinati da persone sconosciute e da queste persuase ad entrare nelle loro case o magari a lasciar loro dei soldi. 

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In un recente articolo pubblicato su PNAS, gli autori, attraverso due studi, hanno voluto indagare il perché del fenomeno e comprendere se vi siano delle funzioni cerebrali che rendono gli anziani più facilmente influenzabili dagli estranei. La struttura cerebrale coinvolta nel fenomeno sembra essere l’insula anteriore, area alla base della percezione del disgusto.

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Nel primo studio, il campione è formato da un gruppo di persone più adulte (di età compresa tra i 55 e gli 84 anni) e uno di persone più giovani (età media 23 anni). I partecipanti di entrambi i gruppi hanno osservato 30 fotografie di volti di altrettante persone, è stato poi chiesto loro di valutare quanto fossero onesti e affidabili i volti osservati. Le facce fotografate sono state selezionate intenzionalmente dai ricercatori per sembrare affidabili, neutre o non affidabili. Entrambi i gruppi di ricerca hanno valutato in maniera molto simile i volti affidabili e neutri. Tuttavia, alla vista dei volti inaffidabili, i partecipanti più giovani non hanno mostrato alcuna esitazione nel valutarli negativamente, al contrario del gruppo di partecipanti d’età più avanzata: questi ultimi infatti hanno valutato i volti per niente affidabili come più onesti e benevoli rispetto ai più giovani.

Taylor, autrice dello studio e direttrice del Laboratorio di Neuroscienze Sociali dell’UCLA, spiega questo risultato alla luce di un’incapacità, da parte delle persone più grandi, di esaminare alcuni tratti facciali lievemente distinguibili nei soggetti meno affidabili. 

Con l’intento di comprendere però i meccanismi neurologici alla base di tale risultato, è stato condotto un secondo studio presso il Centro di Mappatura Cerebrale Ahmanson–Lovelace dell’UCLA, attraverso l’ausilio di Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI) con cui osservare cosa accade a livello cerebrale mentre i partecipanti osservano le foto precedentemente menzionate. Lo studio è condotto su 44 partecipanti: 23 per il gruppo di persone più adulte e 21 per il gruppo di persone più giovani. Dai risultati di questo secondo studio è emerso che nei partecipanti più giovani vi è un’attivazione maggiore dell’insula anteriore, sia durante la valutazione dei volti ma soprattutto durante la visione dei volti inaffidabili.

L’iniziale ipotesi dell’esistenza di meccanismi cerebrali alla base di determinate reazioni alla vista e alla valutazione dell’onestà dei volti, viene dunque confermata. Laddove i giovani manifestano una maggiore attivazione dell’insula anteriore, i partecipanti più anziani ricevono una minore risposta d’allarme data dalla scarsa attivazione della stessa area cerebrale.

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 Gli autori dello studio identificano un ruolo chiave dell’insula nel dirci che “Qualcosa qui non va”.

L’insula infatti, ricevendo informazioni di tipo sensoriale, manda questi segnali ad altre strutture cerebrali, dove vengono poi elaborate. Dunque una delle funzioni dell’insula anteriore è ricevere le informazioni corporee e interpretare questi stati viscerali, ed è proprio questa funzione che, nelle persone più anziane, sembra avere una minore attivazione. Questo ci porta a pensare che gli anziani non abbiano l’esatta sensazione che qualcosa non va quando qualcuno sembra inaffidabile.

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Vi sono però delle caratteristiche che rendono un volto poco affidabile? In realtà non vi sono dei tratti elencabili, come la stessa Taylor dice: “Il sorriso è poco sincero, il contatto visivo è assente: è una gestalt”.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

Storie di Terapie #20 – Le diagnosi di Francesca

 

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Storie di Terapie #20 - Le diagnosi di Francesca. - Immagine: © Aarrttuurr - Fotolia.comFobia sociale

Disturbo dipendente di personalità

Lei temeva di avere dentro di sé il seme della follia e osservava tutti i suoi comportamenti preoccupata che ne rappresentassero il germogliare. Forse proprio per questo aveva scelto la Facoltà di Psicologia: voleva sapere cosa fosse normale e cosa no per rimanere dentro i confini.  

Il primo incontro con Francesca è stato preceduto da numerosi appuntamenti presi e poi disdetti che mi avevano convinto di una scarsa motivazione.

Quando me la vidi davanti, la sensazione di fugacità del nostro incontro fu accentuata: mi disse subito, infatti,  che aveva già contattato e visto altri terapeuti e aveva in programma di vederne  altri due nella settimana successiva.

Mi chiese quale fosse il mio orientamento e la mia formazione e soprattutto il mio onorario. Apprese con disappunto che non facevo lo sconto per studenti, praticato da altri colleghi. Dopo il suo dettagliato e competente interrogatorio, che denunciava una preparazione nel campo della psicologia, mi riassunse brevemente i motivi del suo disagio.

Temeva di essere una “dipendente”  perché soffriva molto per il rifiuto di un uomo di cui era innamorata perdutamente da tre anni. Era in perenne conflitto con i genitori e riteneva di avere una timidezza patologica quando doveva esporsi in pubblico. Io, dopo aver risposto all’interrogatorio sulla mia formazione e il tipo di terapia che praticavo, mi limitai a farle notare che il giudizio degli altri e gli altri in generale sembravano essere molto importanti per lei e decisivi nel produrle emozioni positive o negative. Insomma una restituzione da cartomante o da oroscopo che si attaglia più o meno al 70% della popolazione. 

Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.com
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Quando ciò avviene provo un grande avvilimento e un serio rincrescimento per tutti i soldi che sono stati spesi per farmi studiare. Poiché l’impressione che avevo ricavato era di una ragazza sveglia, intelligente ero certo che non l’avrei più né risentita, né rivista. Quest’ultimo aspetto mi provocava un sottile fastidio,  ascrivibile all’area della delusione ed esprimibile con “peccato!”. L’effetto positivo che lei aveva fatto su di me fu confermato dal trovarmi a rimuginare sull’opportunità di concedere lo sconto per studenti. Per fortuna, la vergogna di pensarmi come una tavola calda nei pressi dell’università o come un’agenzia di viaggi under-ventisette mi trattenne dal ripensarci. Per rattoppare l’autostima provai a raccontarmi che l’interesse fosse suscitato da una problematica complessa e interessante che avevo intravisto ma il  problema era, come al solito, più banale.

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Francesca era una graziosissima venticinquenne, capelli corvini e occhi marroni, piercing con brillante sul naso, sprizzante una vitalità contagiosa. Caratteristica bellezza del sud ma non sfacciata, anzi pudica e riservata quindi, ai miei occhi, non minacciosa. Una Maria Grazia Cucinotta formato famiglia o per pensionati. A parziale mia discolpa, ammesso che colpa ci sia, devo dire che il suo aspetto, decisamente più infantile della sua età, deve aver attivato in me più di ogni altro il sistema dell’accudimento.

Il bello di avere una certa età è che la memoria trattiene poco e l’oblio  è un grande consolatore. Sta di fatto che, quando tre settimane dopo Francesca mi ritelefonò per prendere appuntamento, stentai a ricordare chi fosse, poi la nuvola imbizzarrita di capelli neri mi riapparse: avevo superato l’esame e battuto gli altri psicoterapeuti vagliati, nonostante il rifiuto dello sconto. Puntatina di orgoglio subdolamente tendente a sconfinare dall’ambito professionale. Autoprescrizione terapeutica: dieci minuti davanti allo specchio, contemplazione della mia data di nascita sulla carta di identità, lettura dei commenti sul giornale in merito alle vicende erotiche del nostro premier.

Quando rivedo Francesca per il secondo incontro tutto è in perfetto ordine e sono pronto ad interessarmi davvero a lei.

Seconda figlia dopo un maschio primogenito, ha una sorella di sette anni più piccola. E’ figlia di un importante proprietario terriero, mio coetaneo, originario di un paesino della Calabria. Famiglia potente e rispettata, ha avuto uno zio sequestrato a scopo di lucro, evento che ha marcato con preoccupazioni paranoidee e isolamento protettivo l’infanzia di Francesca.

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La famiglia vive in campagna lontano dal paese, che si può raggiungere solo se accompagnati in auto dai genitori. La madre è il prototipo della massaia, regina del focolare che dirige il traffico delle comunicazioni tra i membri della famiglia e ne stabilisce la cultura ufficiale. Il primogenito è debole e andrà per sempre protetto dalle insidie del mondo, l’ultima figlia è l’orgoglio della famiglia perché brava e obbediente, il padre è irascibile e gli vanno tenute nascoste le cose anche perché potrebbe sentirsi male,  Francesca è la ribelle, la pecora nera che sputtanerà il cognome della famiglia e farà morire tutti di crepacuore.

In verità fino alle scuole medie si dimostra diligente, studiosa, devota a San Galliano protettore del paese e con un vero talento per il disegno. L’inizio del periodo di ribellione coincide con l’iscrizione al ginnasio e l’impedimento a frequentare il liceo artistico.

C’è un giorno ed un gesto preciso che segna lo spartiacque tra i due periodi. E’ un sabato del tempo di quaresima, primavera inoltrata e Francesca torna dalla lezione di catechismo, non cena neppure e si butta  sotto la doccia. Quando riemerge dal bagno, dopo quasi un’ora, ha i capelli completamente rasati. Il padre la gonfia di botte come è uso fare e la madre spiega il comportamento come una ritorsione per il veto posto sul liceo artistico.

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Nessuno gliene chiede direttamente spiegazione, la moda punk allora imperante attenua il significato personale del gesto. Francesca passa da un fidanzato all’altro, attirando su di sé la riprovazione della famiglia e le critiche di tutto il paese. Dentro di sé però mantiene un rigore puritano, ha perso la verginità a nove anni per mano di due cugini e, pur  trovando  il sesso una attività molto piacevole, si attiene rigorosamente al principio che suona “sesso senza limiti ma solo con il fidanzato, altrimenti si è irrimediabilmente puttane”.

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Poiché di uomini gliene piacciono molti ed è facilmente ricambiata ha un gran da fare nell’interrompere e iniziare nuovi fidanzamenti. Quando, terminato il liceo lascia il paese per frequentare Psicologia a Roma, il tasso ormonale dell’intera provincia decresce. Meno bisognosa di opporsi alla famiglia grazie alla distanza interposta, smette i panni della ribelle. Procede brillantemente negli studi, lavoricchia per non pesare sulla famiglia, la cui ricchezza  sembra voler ignorare quasi fosse motivo di vergogna. Per lei è essenziale farcela da sola senza alcun aiuto. Si impegna nel volontariato,  riprende a dipingere e  cessa di avere rapporti sessuali se non con l’uomo di cui è innamorata che costituisce il motivo della sua richiesta di terapia.

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Paolo ha vent’anni più di lei, è un collega che fa il mio stesso lavoro. E’ stato sposato per due anni, ora ha una fidanzata ufficiale ed una piccola schiera di “trombamiche” (è la prima volta che vengo a conoscenza di questa categoria nosografica che Francesca mi dice diffusissima) che frequenta regolarmente. La sofferenza di Francesca è dovuta non alla gelosia, sentimento meschino e antico che rifiuta,  ma al fatto che è innamorata di Paolo e vorrebbe che lo fosse anche lui. Non si tratta di esclusività che, anzi, teme la annoierebbe, né di costruire un futuro: non si vede né moglie, né tantomeno madre, vuole semplicemente essere fidanzata con Paolo per poterci fare l’amore senza il senso di colpa derivante dalla sua regola aurea circa l’esercizio della sessualità. Paolo invece non fa altro che ribadirle che sono soltanto amici, anche se dorme abbracciato a lei e la vuole a disposizione tutti i giorni per usufruirne a suo capriccio, quando le altre trombamiche sono irreperibili.

Donne che non lasciano il partner violento. - Immagine: © Warren Goldswain - Fotolia.com
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Mi faccio l’idea che Paolo abbia timore del legame, per cui ha bisogno di stare in più situazioni per non sentirsi costretto in una sola; inoltre, quanto più Francesca lo cerca tanto più pone le distanze, ma quando è lei ad allontanarsi è lui a farsi avanti, un minuetto avanti e indietro per mantenere sempre la distanza di sicurezza. 

Per procedere in modo terapeuticamente corretto devo far chiarezza sulle mie emozioni controtrasferali, è evidente che Paolo mi sembra odioso, lo prenderei a calci e consiglierei a Francesca di fuggirlo. Sono altrettanto consapevole che parte di questo astio è dovuto a due inconfessabili emozioni quali  invidia e gelosia. D’altro canto  penso invece che tale sentimento sia interno al sistema di accudimento generato dal vedere soffrire la mia accudita, figlia o paziente che sia,  per colpa di un soggetto dal comportamento ambiguo perché malintenzionato o semplicemente gravemente disturbato. Un modo che Paolo utilizza per trattenere Francesca è interpretare continuamente i suoi comportamenti e affibbiargli diagnosi, ad esempio evitante, per smentire le quali lei si tuffa nel suo letto, salvo utilizzarne un’altra, ad esempio dipendente, quando deve far spazio per un’altra trombamica.

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Ad un certo punto , forse proprio grazie ai soldi spesi per farmi studiare, mi accorgo che ho perso di vista l’obiettivo. Non devo capire o cambiare Paolo, che non è mio paziente, non devo neppure proteggere Francesca da un cattivone che se ne approfitta, perché lei è una donna adulta e sta a lei decidere come vivere, non  devo auspicarmi la chiusura del loro rapporto o ricondurlo a categorie mie come il fidanzamento o l’amicizia.

Contemporaneamente un’ illuminazione di consapevolezza mi porta a collocare l’invidia per Paolo in una più ampia nostalgia per l’essere giovani oggi, che vuol dire disporre di categorie di pensiero più libere , che se io avessi avuto a disposizione mi avrebbero risparmiato tante lacerazioni e sofferenze. Mi rendo perfettamente conto che sono pensieri da vecchio. L’aggravante è che, ormai, non posso pensare di sentirmi vecchio, è che realmente lo sono e i vecchi, secondo me,  sono invidiosi dei giovani che gli strappano di mano la vita che avevano creduto essere per sempre loro.

Per allontanarmi dai pensieri su di me ed in considerazione del fatto che Francesca mi paga, senza sconti per farle terapia, lascio da parte me e Paolo e torno ad occuparmi di lei, cercando di definire degli obiettivi condivisi. In primo luogo a partire dalla sua richiesta proprio sul rapporto con Paolo: piuttosto che cercare di cambiare Paolo o il loro rapporto,  sembra più utile valutare quanto di positivo ci sia,  piuttosto che soffermarsi a rimuginare su quanto potrebbe andare meglio. In fondo ci sta da tre anni e continua a preferirlo a tutti gli altri spasimanti (ecco che mi esce un termine preistorico) e questa sua scelta va validata.

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In effetti Paolo, con la sua indecisione, le consente un rapporto intenso perché mai scontato, garantendola dalla noia che teme moltissimo e le consente di rimanere libera. Una madre intrusiva ai limiti dell’abuso ed un padre che, dall’inizio dell’adolescenza, ha percepito come fastidiosamente vicino, le fanno apprezzare più d’ogni altra cosa l’autonomia. In tutte le relazioni si sente soffocata dalla definizione del rapporto, capisce che Paolo non le ha mai attivato il desiderio di fuga e forse proprio per questo è la persona con cui è stata più a lungo e più intensamente.

Il passaggio successivo è quello di passare da un vissuto di vittima delle oscillazioni di vicinanza/distanza del rapporto a protagonista consapevole di tale andirivieni, che può essere visto come un modo di stare insieme. Francesca inizia a promuovere attivamente periodi di lontananza per viaggi di piacere o di studio e si concentra sul godere a pieno della vicinanza con Paolo, piuttosto che rovinarla rimuginando sulle future possibili assenze. Questo risultato lo otteniamo con due strategie: la concentrazione sul presente, sul qui ed ora, con un atteggiamento tipo mindfullness”, approfittando di un esame di Francesca in corso di preparazione e l’attenzione sul “marcatore somatico di Damasio”, altro esame in corso.

Invito Francesca ad abbandonare le valutazione strategiche per decidere cosa fare con Paolo e a concentrarsi su cosa le vada di fare, più  pancia e meno testa. La domanda non è più “cosa è meglio fare?” la cui risposta varia a seconda degli scopi presi in considerazione, ma piuttosto “cosa mi va ora di fare?” 

Vivere più serenamente nella quotidianità il rapporto con Paolo ha liberato molte energie che Francesca decide di investire in numerose altre relazioni, in modo da differenziare gli investimenti affettivi. Francesca si rende conto che le piace avere relazioni importanti, ma che preferisce non appartenere in modo esclusivo, avere  molti rapporti è più rassicurante e divertente che averne uno solo. Storicamente il desiderio di autonomia e libertà viene da una famiglia pervasiva, invadente dove il cognome definisce l’identità molto più del nome. 

Rinnovato impegno sullo studio arriva proprio da questo rileggere l’università come strada privilegiata per l’emancipazione. Rispetto agli studi ha un atteggiamento ambivalente: da un lato non se la sente di mollare l’università certificando un fallimento e vivendosi la colpa di aver fatto spendere dei soldi alla famiglia, dall’altro non se la sente di fare la psicologa per tutta la vita. Non ama identificarsi con nulla di stabile e definitivo e non vuole rinunciare alla sua vocazione artistica e creativa, che si esprime soprattutto nel dipingere e nel cucinare.

Gradualmente va immaginando un progetto ambizioso che recupera l’eredità culturale ed economica della famiglia, fino ad ora  sempre rifiutata o ignorata,  la spinta creativa e la conoscenza dei bisogni umani ottenuta con i suoi studi. L’idea è di mettere su un locale di ristorazione a sua gestione che abbia la caratteristica di un ambiente nutritivo, dove tutti i sensi possano essere appagati e le persone possano esprimere se stesse liberamente. Concretamente un locale dove si possa bere, mangiare, ascoltare musica e fare attività creative come dipingere o suonare. Francesca inizia a pensare in grande, immagina una forte sponsorizzazione della famiglia ed anche un coinvolgimento della sorella e del fratello. Il padre che già lavora nel settore come produttore potrebbe occuparsi delle forniture alimentari e degli aspetti amministrativi. Successivamente, se l’impresa funziona, pensa all’attivazione di un franchising in modo da aprire locali simili in altre città italiane ed europee. Il suo sogno è di vivere itinerante.

Time Cover - Monday, Feb. 06, 2012 (US). Immagine: © 2012 Time Inc. All rights reserved
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E’ evidente che pensare ad un progetto del genere è stato possibile solo dopo aver modificato l’idea di essere un’ incapace, incostante e non in grado di cavarsela da sola. Questo lo abbiamo ottenuto con una rivisitazione della sua storia che, piuttosto che in termini di ribellione ed incostanza, poteva essere interpretata utilizzando come filo conduttore la ricerca di libertà e la caparbietà. Aveva sempre fatto scelte controcorrente pagandole di persona e se l’era sempre cavata brillantemente per proprio conto. Il senso di autoefficacia fu consolidato dal riconoscere l’origine di tutte le sue paure circa la malattia mentale, paure che la spingevano a cercare sempre un’ etichetta diagnostica per i suoi comportamenti.

La nonna materna, Giuseppina, era stata rinchiusa in manicomio dove era morta. Francesca la ricordava appena, per averla vista tre volte durante il periodo del ricovero. Di quegli incontri aveva un ricordo molto angosciante: la  nonna vagava, vestita da stracciona, in un vasto cortile del manicomio, circondata da altri matti e individui con mostruose malformazioni. La storia della malattia della nonna era poco conosciuta da Francesca e la invitai a ricostruirla anche alla luce delle sue attuali competenze tecniche. Per lei la nonna era sempre stata lo spettro di come sarebbe diventata e dove sarebbe finita, spettro  che le veniva agitato dinnanzi durante il periodo delle cruente ribellioni adolescenziali.

Lei temeva di avere dentro di sé il seme della follia e osservava tutti i suoi comportamenti preoccupata che ne rappresentassero il germogliare. Forse proprio per questo aveva scelto la Facoltà di Psicologia: voleva sapere cosa fosse normale e cosa no per rimanere dentro i confini. 

Giuseppina era nata alla fine dell’ottocento. Primogenita di sei sorelle, si era dedicata alle loro cure in attesa di passare ad occuparsi  delle cure dei genitori quando sarebbero diventati anziani. Tale destino fu rafforzato dalla morte del suo fidanzato durante il primo conflitto mondiale. L’anno successivo a questo lutto, tre sorelle morirono per la pandemia della spagnola e i genitori non tardarono a raggiungerle, schiacciati dal dolore. Giuseppina iniziò a parlare con i morti, in  quel mondo aveva tutti i suoi cari. La notizia di questa giovane che trascorreva le giornate in preghiera e colloquiando con i defunti si diffuse rapidamente, non  era un fenomeno isolato nella Calabria del primo novecento. Molti si rivolsero a lei se colpiti da lutti gravi ed inaspettati, per  tutti aveva parole di conforto e riferiva loro ciò che i defunti dicevano, naturalmente si trattava sempre di messaggi pieni di incoraggiamento e amore.

Il fenomeno della Giuseppina che parla coi morti assunse una certa rilevanza e alla fine anche la chiesa locale, che l’aveva inizialmente ignorata, dovette occuparsene.  Giuseppina non chiedeva alcun compenso per i suoi contatti e dunque non rappresentava un concorrente diretto. La chiesa non voleva che lei smettesse, ma piuttosto che lavorasse per loro. Gli incontri con Giuseppina sarebbero dovuti avvenire nei locali della curia e solo dopo la partecipazione alle funzioni sacre e un sacerdote avrebbe presenziato agli incontri, per assicurarsi che non fossero trasmessi messaggi contrari alla dottrina ufficiale. La chiesa non voleva una partecipazione agli utili che non c’erano ma controllare il fenomeno e condividerne i meriti. Giuseppina accettò riluttante la collaborazione, ma nel giro di tre mesi perse la capacità di contattare i defunti. Disse apertamente che i troppi peccati degli uomini di chiesa le ostacolavano la visuale e c’era bisogno di una profonda conversione. Alcuni sostennero che i peccati cui si riferiva fossero le molestie subite dal giovane prete che le era stato affiancato, ma ciò non fu mai appurato con certezza. Sta di fatto che la forza mediatica di Giuseppina si inaridì e iniziò a circolare la voce che passeggiasse la notte dentro il cimitero e facesse strani riti sulle tombe. Siccome l’accusa di stregoneria era ormai desueta, il comportamento di Giuseppina fu etichettato come folle e grazie al regio decreto del 1904, che istituiva i manicomi per la cura dei poveri dementi,  internata. Dopo la sua morte, avvenuta a soli trentasette anni, il suo corpo fu seppellito all’interno del manicomio, per evitare che i suoi fan continuassero a venerarla.

La coppia in terapia- la prospettiva trigenerazionale. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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La ricostruzione della storia della nonna fu un gran sollievo per Francesca: non si trattava di una matta di cui vergognarsi e temere l’ereditarietà, ma di una donna semplice che si inseriva nel più vasto fenomeno della fede popolare. Il passo dal vergognarsene al considerarla una eroina generosa, disinteressata e vittima della sopraffazione del potere, di cui andare fiera, fu breve. Le sembrò che la nonna incarnasse quello spirito di anticonformismo e di libertà che lei aveva sempre sentito. 

La terapia si concluse quando Francesca, finiti gli studi, lasciò l’Italia per un corso di alta cucina a Parigi. Non ho più avuto notizie di lei ma sono certo che viva felice in qualche parte del mondo.

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In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina

 

In Treatment – Psicoterapia in TV

QUINTA PUNTATA

Gina

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In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E05 Gina. - Immagine: © HBO
In Treatment S01E05 – Immagine: © HBO

In Treatment – Recensione Quinto Episodio – Gina: Questa puntata è molto potente mostra la differenza tra visioni della psicoterapia.

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È venerdì, la settimana finisce e Paul va in terapia. O va in supervisione. O va in terapia e in supervisione. O nessuna delle due cose. Non si capisce bene, a dire il vero. E non lo capisce nemmeno Paul. E nemmeno Gina.

Potrebbe essere un incontro tra due vecchi colleghi che non si vedono da un pezzo (dieci anni) oppure l’inizio di una terapia o di una supervisione o entrambe le cose o nessuna delle due. Insomma, come molte delle relazioni di Paul, è tutto un gran pasticcio.

Noi spettatori guardiamo, affascinati e confusi. Una cosa è sicura: Gina Toll è una vecchia collega di Paul e da un bel po’ non si vedevano. Paul le chiesto di incontrarla, piuttosto sconfortato, alla fine della puntata precedente e le ha chiesto di vederlo. Gina è in pensione e lo riceve in casa, non in studio (ulteriore elemento di confusione). I due iniziano a parlare, in una situazione estremamente ambigua. Si intuisce che dieci anni prima Paul ha lavorato in un gruppo clinico capeggiato da Gina. Insomma, Gina è stata il capo di Paul. Ma non solo il capo. Paul conosceva il marito di Gina. C’era una relazione di amicizia. Poi qualcosa è accaduto, non si sono più visti, e Paul non è nemmeno andato al funerale del marito di Gina. Insomma, qualcosa deve essere andato storto, molto storto. Qualcosa che ancora dura dolorosamente. Paul, infatti, in questa situazione ambigua (è una terapia? Una supervisione? Una richiesta di aiuto e conforto a una vecchia amica?) inizia a parlare delle sue difficoltà con i pazienti: le offerte sessuali di Laura, il narcisismo di Alex, le amnesie di Sophie, le violenze della coppia. A tutto questo si aggiungono le difficoltà tra Paul e Gina.

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SITCC 2012 Roma - Reportage dal Congresso Annuale della Società Italiana di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale
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Gina, infatti, nutre grossi dubbi sulla capacità di Paul di gestire i pazienti. Sembra dare per scontato che Paul abbia già ceduto all’offerta sessuale di Laura. Poi sospetta –erroneamente- che Sophie sia una compagna di classe della figlia di Paul, Rose. Poi sottolinea il cedimento non terapeutico di Paul di fronte alla coppia, quando ha detto loro di abortire. La tensione tra Gina e Paul sale.

Non è finita. Dal dialogo veniamo a sapere che Gina dieci anni prima ha già avuto Paul in supervisione. Poi Paul aveva interrotto, insoddisfatto: Paul riteneva che Gina interferisse con la sua azione terapeutica. Gina rinfaccia tutto questo a Paul e lo rimprovera di essere passato al gruppo degli psicoanalisti relazionali, capeggiati da Stephen Mitchell a New York! Insomma, intuiamo che Gina è probabilmente legata al paradigma della psicologia dell’Io di Heinz Hartmann.

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Sia la psicologia dell’Io (Hartmann, 1951, 1958) che la psicoanalisi relazionale (Mitchell, 1988) sono ramificazioni della psicoanalisi freudiana, ma differiscono. La psicologia dell’Io da importanza alla consapevolezza auto-controllata e razionale degli atti mentali del pensiero cosciente, quella relazionale all’emotività e affettività delle situazioni interpersonali. Tutto questo non è solo teoria: Gina appare distaccata e razionale mentre Paul è sempre invischiato nelle relazioni, nel bene e nel male.

 Gina insomma rimprovera a Paul di avere scelto un modo di fare psicoterapia pericoloso, di eccessivo coinvolgimento con i pazienti e di rottura delle distanze e dei confini. Paul a sua volta rimprovera a Gina freddezza, carenza di umanità e di contatto. Lo scontro in passato è stato anche più violento e intuiamo che dieci anni prima Paul ha abbandonato il gruppo di lavoro di Gina in maniera traumatica.

Questa puntata è molto potente e, pur tra qualche semplicismo, mostra la differenza tra visioni della psicoterapia basate sull’analisi razionale degli stati mentali e terapie basate sulla coltivazione degli stati affettivi nella relazione terapeutica. La prima visione è fredda, la seconda calda. Questa distinzione non è solo della psicoanalisi, ma anche di altri approcci. Per esempio, anche nel paradigma cognitivo esiste uno stile razionalista che si oppone a uno stile relazionale. Insomma, c’è della gran confusione sotto il sole.

E confusi sono Paul e Gina. Alla fine dell’incontro (o seduta? O supervisione?) Paul saluta Gina, apparentemente senza accordarsi su un altro incontro. Dall’esterno lo spettatore sa che si vedranno ancora, dato il formato della serie. Ma all’interno della storia la puntata termina con un senso di perplessa sospensione e di oscurità del futuro che sta diventando, in qualche modo, il marchio di fabbrica della serie…

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IN TREATMENT – RAPPORTI INTERPERSONALI – PSICOANALISI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Alcool Prima di Dormire: Insonnia e Conseguenze sulla Salute

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Comunemente si tende a credere che bere alcool prima di andare a letto favorisca il sonno. Uno studio condotto da ricercatori giapponesi ha recentemente dato conferma che l’alcool può provocare insonnia e privare delle sue funzioni lo stato di riposo.

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I risultati  sono stati pubblicati sulla rivista Alcoholism: Clinical & Experimental Research da un gruppo di ricerca dell’Università di Akita in Giappone.

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
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I ricercatori hanno reclutato un gruppo di volontari formato da studenti universitari, a cui è stato somministrato alcool, sotto forma di bevanda, in diverse proporzioni e in tempi differenti. I livelli di alcool, calcolati in grammi, erano ripartiti nel seguente modo: a) zero grammi nel gruppo di controllo; b) 0,5 grammi (nel gruppo “dose bassa”) e infine c) 1 grammo (nel gruppo “dose alta”). Le dosi venivano distribuite ai partecipanti, 60 minuti o 40 minuti prima di andare a letto.

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 Successivamente ai volontari è stata monitorata l’attività cerebrale e cardiaca (tramite elettrocardiogramma). L’attenzione degli studiosi si è focalizzata sulla relazione tra la variabilità della frequenza cardiaca e la loro percentuale di sonno. Anche se dopo l’assunzione di alcool, la prima metà del sonno sembra essere di buona qualità e procedere normalmente, al termine del monitoraggio l’equipe ha rilevato casi di insonnia, sonno perturbato e una sensazione di esaurimento durante la veglia da parte dei volontari. I dati ottenuti sembrano derivare da un’alterazione del sistema nervoso autonomo: la branca del sistema parasimpatico che normalmente agisce rallentando la frequenza cardiaca e favorendo la digestione, viene soppressa, mentre, al contrario, prevale il sistema simpatico.

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Il cambiamento di questo rapporto di complementarietà porta l’organismo a mantenersi in uno stato di leggera attivazione che interferisce con la funzione ristoratrice del sonno e conducendo alla sua  frammentazione. Lo studio presente ha valutato gli effetti acuti dopo solo una singola dose di alcool assunta e ne ha registrato le conseguenze negative sulla salute.

Nei bevitori abituali, nei quali le dosi assunte assumono una valenza cronica, l’effetto potrebbe essere ancora peggiore dal momento che assumono più di un grammo di alcool e gli effetti conseguenti potrebbero essere molto più ampi e gravi.

Evitare dunque di assumere bevande alcooliche prima di andare a letto la sera è una buona strategia per potersi assicurare una notte di sonno migliore.

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alcool – INSONNIA – DIPENDENZE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

PSICHE E LEGGE #5 – Chi è il “Pericoloso Sociale”?

PSICHE E LEGGE #5

 Rubrica a cura di Selene PASCASI, Avvocato, Giornalista Pubblicista, Autrice

 Chi è il “pericoloso sociale”?

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PSICHE E LEGGE #5 - Chi è il “Pericoloso Sociale”?. -Immagine: © puckillustrations - Fotolia.comNormalità, anormalità, criminalità seriale, psicopatologia, inclinazione ad uccidere, aggressività latente. Termini, questi, cui gli avvocati che si occupano di diritto penale, sono costretti a fare i conti quotidianamente, ma che, mi duole constatarlo, nella realtà di ogni giorno, finiscono spesso per esser miscelati, svuotati della loro essenza più profonda. E non si tratta di una questione marginale. Pensiamo alle volte in cui si confonde il disagio psichico con la pericolosità sociale. In quante occasioni, decisamente troppe, si ascoltano frasi del tipo “quella persona è strana, è diversa da noi, è pericolosa”, e magari non lo è. Non lo è per la società, non lo è per la legge.

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Così, se nelle precedenti Rubriche mi sono occupata di follia, di sanità mentale, di capacità e di incapacità d’intendere e volere, oggi tratterò un tema altrettanto rilevante: la pericolosità sociale. Lo farò, è evidente, sotto il profilo che mi compete, dunque prettamente legale, lasciando l’analisi dei risvolti attinenti la sfera medica, ai professionisti del settore.Cercherò, dunque, di chiarire quando – per il Codice Penale – un soggetto è “socialmente pericoloso”, e quali strumenti sono previsti dal nostro sistema giuridico, per contenerne le azioni, a protezione della collettività ove questi vive ed interagisce.

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In primo luogo, va marcato un concetto fondamentale: il vizio di mente sofferto da un determinato individuo, non necessariamente vale ad attestarne la pericolosità sociale. Tale assunto, oggi scontato, non lo era altrettanto nel previgente ordinamento, fermo a far coincidere la malattia mentale del reo con la sua pericolosità, tanto da destinarlo – sempre e comunque – ad una restrizione in ospedale psichiatrico giudiziario, slegata da un accertamento concreto del pregiudizio che questi, potenzialmente, avrebbe potuto arrecare a terzi. La sentenza di proscioglimento per vizio di mente, difatti, veniva accompagnata, tout court, dall’obbligo di assegnazione all’O.P.G. a prescindere da un puntuale riscontro dell’effettiva pericolosità del reo. Solo successivamente, abolite le ipotesi di pericolosità sociale presunta (ad opera della Legge 10 ottobre 1986, n. 663), si richiese con fermezza un vaglio approfondito dello stato – mentale, sociale e giuridico – dell’individuo, sia al fine di dichiararne la pericolosità, che a quello, conseguente, di sottoporlo a misure di sicurezza. Accertamento specifico del caso via via portato a processo, che ai nostri giorni, dunque, assurge ad elemento imprescindibile di una corretta applicazione delle norme.A conferma, sarà sufficiente scorrere le pagine dell’attuale Codice Penale, per prendere cognizione dell’odierna qualificazione di pericolosità, delineata alla stregua di diverse caratteristiche del reo, attinte dal suo essere e dal suo vissuto. In particolare, l’art. 203 c.p., al primo comma, definisce socialmente pericolosa la persona (anche se non imputabile o non punibile) che abbia perpetrato un crimine, solo se sia “probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”.

Due, allora, sono i presupposti che dovranno sussistere affinché il giudice possa dichiarare l’imputato pericoloso: 1) l’attestata consumazione di un reato, o di un cosiddetto quasi-reato; 2) la probabilità che la stessa persona possa nuovamente compiere un delitto. Quel che rileverà, in sintesi, sarà la prognosi positiva circa l’effettiva probabilità che il reo possa rendersi autore di fatti “nuovi”, penalmente rilevanti. Ed ecco che – per etichettare giudizialmente taluno, come socialmente pericoloso – si dovrà dedicare ad ogni vicenda, ad ogni delitto e ad ogni criminale, un’analisi mirata. Ma in base a quali parametri andrà condotto tale esame? La risposta è offerta dal secondo comma dell’art. 203 c.p.: “la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133”.

Andiamo a leggere, allora, cosa dispone tale norma. L’art. 133 c.p. – al secondo comma – elenca una serie di parametri da cui il giudice può dedurre la “capacità a delinquere del colpevole”. Osserviamoli più da vicino. In primo luogo, il legislatore (al n. 1), fa rinvio ai motivi a delinquere e al carattere del reo.

Quanto ai motivi che hanno spinto il criminale a commettere un delitto – comunemente indicati come moventi – va sottolineato come una corretta indagine giudiziaria/peritale, sarà condotta sulla base di un vaglio inerente sia l’intensità del movente, che la tipologia (interrogandosi, ad esempio, sulla natura sociale o antisociale dell’intento perseguito).

Quanto al carattere del reo, invece, esso andrà a delinearsi non solo alla luce dell’indole propria del soggetto, ma altresì mediante lo studio delle modalità attraverso le quali, questi verrà, in via ipotetica, a relazionarsi con la società, in occasione di specifiche situazioni ambientali. Andrà esaminato, in altre parole, il modo in cui, con molta probabilità, un individuo dotato di quel particolare connotato comportamentale, potrebbe reagire a fronte di determinati stimoli esterni. Il riferimento, è al ben noto segmento “evento-fattore stressante/reazione-reato”, sul quale va orientata l’analisi. Senza dubbio, dunque, andranno presi in considerazione, tra gli altri fattori, i “rilievi peritali sulla personalità, sugli effettivi problemi psichiatrici e sulla capacità criminale dell’imputato” (come suggerisce la Cass. n. 40808/10). Del resto, il giudizio prognostico sulla pericolosità sociale, non può che basarsi su uno studio interdisciplinare e ad ampio raggio.

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A tal riguardo, preme sottolineare come – per espresso disposto dell’art. 220 del Codice di Procedura Penale – “salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato, e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.

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Tornando ai parametri indicati nell’art. 133 c.p., la norma annovera, al n. 2, i precedenti penali e giudiziari e, in genere, la condotta e la vita del reo, antecedenti al reato. Riguardo ai precedenti, si badi che la pericolosità sarà desunta – non solo dalle condanne penali subìte – ma anche dai reati prescritti, o estintisi per amnistia. Nel valutare la condotta e la vita del reo antecedenti al reato, invece, si avrà riguardo sia all’attuale modo di vivere, che al tenore di vita precedente alla commissione del delitto. Così, a titolo esemplificativo, se ne potrebbe desumere la propensione a delinquere, ad esempio, dal passato dedito al consumo di droghe o da un discutibile stile di vita, ben noto alle forze dell’ordine, amici o parenti.

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Il parametro n. 3, poi, è costituito dalla condotta contemporanea o susseguente al reato, elemento essenziale per valutare l’indole del reo. Nell’ambito di un processo penale, in effetti, si dovrà porre particolare attenzione all’atteggiarsi dell’imputato nel contesto di udienza, di fronte alle accuse esplicitamente rivoltegli, ed alle deposizioni dei testimoni. Viene da se, il disvalore legato ad una totale freddezza dimostrata durante la ricostruzione del delitto, così come un atteggiamento irrisorio, o di sfida verso gli organi di giustizia, talora indici di una propensione alla criminalità seriale. Di contro, saranno positivamente valutate, sia la collaborazione volontariamente offerta dal soggetto all’operato degli inquirenti, sia l’esternazione di segni di consapevolezza, di auto rimprovero, e di reale pentimento per il male arrecato alla vittima.

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In ultimo, ma non per importanza, al n. 4, l’art. 133 c.p. richiama le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo, quali elementi di estremo rilievo, in virtù dell’indubbia influenza del contesto socio-culturale di appartenenza dell’individuo, atto, talvolta, a rafforzare la già plasmatasi propensione al crimine. Riassumendo, pertanto, la qualità di persona pericolosa – dichiarabile solo nei confronti di chi abbia commesso un reato, o un quasi-reato – si evincerà dal riscontro degli stessi parametri dai quali l’art. 133 c.p., a sua volta, desume la capacità a delinquere.

Ciò precisato, non resta che chiedersi: una volta accertata e dichiarata, giudizialmente, la condizione di “pericoloso sociale” dell’autore di un crimine, quali saranno le conseguenze? Innanzitutto, la qualificazione di persona socialmente pericolosa, condizionerà l’entità e la qualità della pena comminata, così come la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (ammessa, dall’art. 164 c.p., solo se “avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art. 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati”). Ma v’è di più. A prescindere da tali aspetti – prettamente tecnici, ed esulanti dalla presente analisi – va detto che il primario effetto della dichiarazione di pericolosità sarà costituito dall’applicazione delle misure di sicurezza, le quali, ai sensi dell’art. 202 c.p., “possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, che abbiano commesso” un reato.

Resta inteso, ad ogni modo, che la pericolosità – mutabile nel tempo, e pertanto oggetto di revisione – esigerà, proprio per tale ragione, un doppio accertamento, sulla sussistenza della condizione (al momento dell’applicazione della misura di sicurezza), e sulla sua persistenza (all’atto dell’esecuzione). Va da se, che le misure di sicurezza, temporalmente non predeterminabili, saranno revocate, a norma dell’art. 207 c.p., nell’ipotesi in cui si riterrà cessato lo stato di pericolosità sociale del soggetto cui erano destinate.

Trattati, seppur a grandi linee, gli aspetti squisitamente legali della dichiarazione di pericolosità sociale, e dei requisiti giuridici sui quali si fonda, mi si consenta una riflessione. Se il legislatore, e la giurisprudenza, hanno profuso un serio impegno per delineare una nozione di pericolosità sociale disegnata sulla base di specifici dati – attinenti sia la personalità, il carattere, la condotta di vita e le condizioni sociali del reo, che i riscontri processuali, quali i precedenti penali – come si può tollerare che il comune cittadino si faccia portavoce di una “qualificazione sociale” del pericoloso, associata al mero disagio psichico, o al solo riscontro di disabilità o anomalie comportamentali? Come si può restare inerti di fronte ad infondate espressioni di “condanna sociale” del diverso, tacciato gratuitamente di pericolosità?

Se esiste un apparato normativo ben delineato, che interviene a qualificare il soggetto “socialmente pericoloso” esclusivamente all’esito di una specifica e mirata analisi multidisciplinare, questo è un apparato che va rispettato. E se “pericoloso” è il criminale che può commettere altri reati, non di meno, ricordiamolo, può esserlo il pensiero di chi sovrappone il pregiudizio al giudizio.

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Aggressività e Isolamento sociale: Ormoni Glucocorticoidi e Dopamina

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il recettore del corticosterone sembra avere un ruolo chiave nelle risposte a lungo termine agli eventi aggressivi subiti dai topi: questo recettore, secondo i risultati dello studio, sarebbe alla base della risposta di isolamento sociale controllando il rilascio della dopamina, uno dei neurotrasmettitore fondamentali nella regolazione del tono dell’umore.

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Disturbi-Frontali-e-Cognizione-Sociale. - Immagine: © robodread - Fotolia.com
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Episodi di aggressività traumatici che si presentano ripetutamente e cronicamente inducono cambiamenti comportamentali e relazionali a lungo termine impattando sul funzionamento cognitivo, emotivo e sociale.

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In uno studio pubblicato su Science pochi giorni fa è stato dimostrato che roditori sottoposti a ripetuti eventi aggressivi da parte di consimili per circa dieci giorni consecutivi, sviluppano in seguito un isolamento sociale cronico e un incremento importante del livello di ansia.

Generalmente gli eventi stressanti attivano il rilascio degli ormoni cosidetti glucocorticoidi (corticosterone nei topi e cortisolo negli umani) facendo in modo che gli individui possano far fronte al meglio alle cause dello stress. Ad ogni modo, eccessivi livelli di stress cronico possono portare a depressione, ansia e difficoltà sociali.

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In particolare il recettore del corticosterone sembra avere un ruolo chiave nelle risposte a lungo termine a tali eventi aggressivi subiti dai topi: questo recettore, secondo i risultati dello studio, sarebbe alla base della risposta di isolamento sociale controllando il rilascio della dopamina, uno dei neurotrasmettitore fondamentali nella regolazione del tono dell’umore.

Se questo recettore viene bloccato (procedura che è stata effettuata dai ricercatori), gli animali risultano maggiormente resilienti: cioè pur subendo i traumi aggressivi da parte di altri topi, presentano un minor rilascio di dopamina e un minor livello di isolamento sociale mantenendo il contatto con i propri consimili.

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BIBLIOGRAFIA: 

La Ruminazione Rabbiosa e i suoi correlati: Il Modello dei Sistemi Multipli

 

La ruminazione rabbiosa e i suoi correlati- Il modello dei sistemi multipli. - Immagine: © olly - Fotolia.comLa ruminazione rabbiosa sembra avere un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione di auto-controllo e nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi.

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Per molte persone l’ emozione di rabbia e l’attivazione fisiologica ad essa  associata tende a scomparire nel giro di 10-15 minuti.  Il dato testimonia come tendenzialmente gli individui siano in grado di regolare nel breve tempo e in maniera adattiva tale emozione. Ci sono a volte però delle situazioni in cui falliamo nel controllo della rabbia e le nostre emozioni negative vengono perpetuate per un tempo più lungo, in maniera disfunzionale e disadattiva.

Tale processo perseverativo è definito la Ruminazione Rabbiosa ed è sostanzialmente costituito da 3 componenti fondamentali:(1) pensiero ripetitivo legato all’evento passato che ha indotto rabbia “Non ci posso credere! E’ un’ora che aspetto e ancora niente! Sono furiosa!” (2) attenzione legata alle situazioni che si sono verificate in passato, legate ad emozioni di rabbia “Non ne posso più, anche stavolta è in ritardo!” (3) pensiero controfattuale “Invece di essere qui, avrei potuto fare altro!”.

Memorie Traumatiche e Ruminazione. - Immagine: © PZDesigns - Fotolia.com -
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Nel lungo periodo, la reiterazione di ricordi passati legati ad emozioni di rabbia, possono amplificare l’intensità e la durata dell’emozione negativa e portare a pensieri di vendetta e ritorsione “Ora mi ha proprio stancata! Gliela farò pagare!” (Sukhodolsky, 2001).

Una recente review (Denson 2012) ha messo in luce le implicazioni che la ruminazione rabbiosa ha a livello (1) cognitivo, (2) emotivo, (3) del controllo esecutivo, (4) neuro-fisiologico e (5) comportamentale.

1- Livello Cognitivo. L’elaborazione cognitiva di un evento che induce rabbia può presentare differenze (a) nel contenuto del pensiero, (b) nella modalità di processamento, (c) nella prospettiva dalla quale l’evento rabbioso può essere rievocato.

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A) Contenuto. La ruminazione rabbiosa viene distinta in “Provocation-focused”, quando presenta argomentazioni centrate sull’evento “ingiusto” o in “Self-focused”, quando invece presenta contenuti prevalentemente legati alla propria persona. Entrambe le forme di ruminazione alimentano l’aggressività, con la differenza che la ruminazione orientata alla provocazione facilita la messa in atto di comportamenti aggressivi, quella orientata verso sé, alimenta le emozioni di rabbia e l’attivazione fisiologica, senza condurre ad azioni discontrollate verso l’altro (Pedersen et al, 2011).

B) Processo. Alcuni autori (Denson et al 2012) distinguono uno stile analitico (WHY) focalizzato sulle cause e sulle conseguenze dell’evento; uno stile  esperienziale (WHAT) focalizzato sui dettagli dell’evento. La modalità analitica rappresenta uno stile di pensiero astratto, mentre quella esperienziale è costituita da elementi concreti legati all’evento. E’ stato evidenziato come ripensare all’evento in maniera astratta e analitica mantenga ed alimenti le emozioni di rabbia rispetto ad altre condizioni sperimentali (reappraisal, distrazione).

C) Prospettiva. Un’ ulteriore distinzione riguarda la prospettiva dalla quale viene rievocato un evento, se da una posizione auto-centrata (self-immersed) o da una decentrata (self-distanced). Dalle ricerche si evince infatti che una prospettiva self-distanced garantisce un vantaggio in termini di riduzione delle emozioni di rabbia rispetto alla condizione self-immersed (Kross 2005).

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2- Livello emotivo/affettivo. E’ stato confermato (Pedersen et al 2011) come soggetti esposti a critiche/insulti da parte degli sperimentatori e impegnati successivamente in compiti di ruminazione rabbiosa sull’evento, riferivano livelli di rabbia più intensi e prolungati rispetto a quelli che invece venivano destinati alla condizione di controllo (distrazione). Il dato testimonia che la ruminazione rabbiosa alimenta e mantiene nel tempo l’intensità e la durata della rabbia.

3- Livello del controllo esecutivo. Sono stati condotti una serie di studi (Pedersen et al 2011) nei quali è stata indotta la ruminazione e successivamente è stata richiesta l’esecuzione di un compito che implicava l’utilizzo di risorse cognitive necessarie per l’inibizione di impulsi e l’esplicazione di comportamenti funzionali (es. bere il maggior numero di bicchieri di una bevanda disgustosa ai fini di una maggiore ricompensa economica). I risultati degli studi hanno dimostrato che i soggetti non sottoposti alla ruminazione avevano una performance migliore rispetto al gruppo dei ruminatori. In conclusione, la capacità di esercitare un controllo funzionale sui nostri comportamenti sarebbe dunque compromessa a causa dell’eccessivo dispendio di risorse cognitive implicate nella ruminazione rabbiosa. 

Ruminazione & Depressione: La via Metacognitiva di Wells e colleghi- Congresso Terapia Metacognitiva per la depressione. Conduce il Dott. Costas Papageorgiou. - Immagine: © 2012 Alessandro Boldrini
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4- Livello neuro-fisiologico. Le neuroscienze hanno individuato i correlati scientifici della ruminazione rabbiosa (a) a livello neurale, testimoniando una co-attivazione di strutture corticali, come la corteccia prefrontale e l’insula anteriore, e di strutture sottocorticali, come il sistema limbico; (b) a livello fisiologico, confermando una iper-risposta del sistema cardiovascolare e della produzione di cortisolo e un loro lento ritorno ai livelli di baseline. Dalle ricerche sembrerebbe inoltre che gli effetti sul sistema cardiocircolatorio siano prevalentemente attributi alla ruminazione orientata verso la provocazione; quelli sul cortisolo invece alla ruminazione focalizzata sul sé.

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5- Livello comportamentale. La rassegna esamina una serie di studi dai quali si evince come i partecipanti che erano stati sottoposti a ruminazione rabbiosa fossero maggiormente inclini a mettere in atto comportamenti aggressivi e vendicativi. Questi potevano riguardare comportamenti “overt” diretti verso oggetti (es. colpire un sacco da boxe) o comportamenti “covert”,  diretti verso il bersaglio che aveva indotto la ruminazione (es. comportamenti vendicativi verso lo sperimentatore, come esprimere pareri negativi con il fine di ottenerne il licenziamento o la riduzione dello stipendio).

In conclusione, la ruminazione rabbiosa sembra avere un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione di auto-controllo e nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi. Gli studi di laboratorio, seppur condotti su popolazione “sana”, rappresentano una base preziosa dalla quale partire per comprendere meglio il funzionamento di  tale processo di pensiero e la disfunzionalità che questo può comportare, soprattutto nel lungo periodo, a livello psicologico e fisiologico!

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BIBLIOGRAFIA:

La Sindrome di Rebecca: il Caso di Laura

 

LA SINDROME DI REBECCA. - Immagine: © unitypix - Fotolia.comLa Sindrome di Rebecca, che da una prospettiva cognitivista può essere trattata come costellazione di tematiche ansiose e rabbiose spesso riconducibili a un Sè indegno, svela a Laura gli elementi centrali della sua organizzazione di conoscenza e dei suoi vissuti interpersonali.

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Come abbiamo già visto nell’articolo “Sindrome di Rebecca: quando la Ex Fidanzata diventa un Fantasma”, La Sindrome di Rebecca è la gelosia per il passato sentimentale del partner e deriva il proprio nome dal celebre film di Alfred Hitchcock “Rebecca la prima moglie“, tratto a sua volta dall’omonimo romanzo di Daphne du Maurier.

In questo pattern emotivo, descritto fra gli altri da Posadas (1988), il pensiero si focalizza ossessivamente sulle esperienze vissute dall’altro nelle relazioni precedenti. Non possono essere menzionati luoghi ed eventi che ricordano l’ex, pena il sospetto che esista ancora un legame, un ricordo nostalgico. La Sindrome di Rebecca si manifesta anche quando i riferimenti pericolosi sono casuali e vengono ridotti al minimo: il rimuginio trascura i dati di realtà e si lega a carenze nel funzionamento metacognitivo che pregiudicano una buona lettura degli stati mentali altrui.

Sindrome di Rebecca: quando la ex diventa un fantasma. - Immagine: © iceteastock - Fotolia.com
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L’emozione prevalente è una rabbia profonda, che si accentua quando la relazione precedente si è distinta per uno o più aspetti significativi, ad esempio la nascita di un figlio o il superamento di difficoltà personali. La rivale viene idealizzata e odiata, i suoi pregi messi a confronto con le proprie carenze, ma i termini di questa rappresentazione sono condizionati da un’evidente percezione di disvalore personale; l’immagine dell’ex diventa onnipresente nel legame attuale e il soggetto geloso arriva a desiderarne la rovina fisica, l’eliminazione cruenta. Causa principale di questa problematica è un sentimento di sé svalutato che induce a ritenersi indegni dell’amore del partner, le cui attenzioni non sono mai sufficienti a consolidare un’autostima adeguata.

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Un caso emblematico è quello di Laura, 35 anni, che giunge in terapia lamentando un’autentica ossessione per le donne frequentate in passato dal partner; le liti tra i due sono continue, la relazione sempre più vacillante a causa delle esplosioni di rabbia di Laura, convinta di cogliere costanti riferimenti alle ex.

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I sospetti nascono anche dal silenzio, per esempio quando il fidanzato la porta in un ristorante mostrando di conoscerlo già: “con chi ci sei venuto?” lo assilla Laura, e nessuna rassicurazione può placare il suo rimuginio. Nel lavoro clinico emerge che la donna nutre profonda sfiducia nelle figure maschili, anche a causa di un padre che tradiva la moglie senza curarsi della sofferenza arrecata all’intero nucleo familiare; l’immaginario di Laura attribuisce alle relazioni affettive un potere distruttivo, ingannatore, e la rappresentazione di sé è permeata dalla convinzione di non poter vivere esperienze serene, diverse.

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Laura si sente rifiutata dal padre, che ha abbandonato la famiglia quando lei aveva vent’anni, e poco protetta dalla madre, incapace di essere un punto di riferimento per i figli nei momenti di difficoltà emotiva; la terapia porta alla luce la credenza di non poter essere veramente amata da nessuno, poiché i legami affettivi “si reggono solo sull’interesse immediato, sulla reciproca convenienza o solitudine“.

La Sindrome di Rebecca, che da una prospettiva cognitivista può essere trattata come costellazione di tematiche ansiose e rabbiose spesso riconducibili a un Sè indegno, svela a Laura gli elementi centrali della sua organizzazione di conoscenza e dei suoi vissuti interpersonali.

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BIBLIGRAFIA:

L’universalità del Big Five e L’eccezione della Culture Tsimane

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il modello descrittivo dei Big five – implicante i famosi cinque tratti di personalità- considerato universale nella storia della psicologia, potrebbe non esserlo più grazie a uno studio antropologico effettuato su una popolazione indigena degli altopiani boliviani, gli Tsimane.

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L’infelicità è nell’occhio dello spettatore. - Immagine: © Delphimages - Fotolia.com.
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La popolazione Tsimane, costituita da allevatori e agricoltori, è organizzata in comunità che variano da 30 a 500 persone abitanti in circa 90 villaggi; vivono in famiglie allargate e la maggior parte della popolazione non riceve alcuna educazione scolastica formalizzata, con un tasso di alfabetizzazione intorno al 25%.

I ricercatori hanno tradotto nella lingua Tsimane il questionario Big Five Inventory sottoponendolo mediante colloquio orale a 632 adulti provenienti da 28 villaggi. Un’estensione successiva dello studio ha coinvolto altri 430 soggetti (tra cui 66 coinvolti anche nella prima parte) cui è stato chiesto di valutare la personalità del coniuge.

Lo studio, pubblicato in dicembre sul  Journal of Personality and Social Psychology  dimostra che questa popolazione non utilizza a livello concettuale e linguistico le cinque macro-dimensoni del modello del Big Five per descrivere la personalità umana (apertura mentale, estroversione, coscienziosità, gradevolezza e nevroticismo).

Di fatto la ricerca – con un campione esteso di soggetti coinvolti e un buon impanto metodologico- porta evidenze a supporto di un modello “Big Two” nella cultura Tsimane caratterizzato dai fattori della Prosocialità e dell’ Industriosità, dimensioni maggiormente legate alle caratteristiche delle piccole società rurali.

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Il tratto dell’industriosità include ad esempio l’efficienza, la perseveranza, l’accuratezza.

La ricerca rientra nel progetto Tsimane Health and Life History Project della University of California-Santa Barbara e University of New Mexico.

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BIBLIOGRAFIA:

Lance Armstrong, la Prepotenza del Perfezionismo

di Luca Morganti

Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo - Immagine: Creative commons License © DonkeyHotey
Lance Armstrong, ex ciclista professionista. Caricatura (2013)


Lance Armstrong, la prepotenza del perfezionismo

E alla fine arriva la verità. O meglio, la versione di Lance.

La confessione di Armstrong ci permette di entrare meglio nelle dinamiche sociologiche e psicologiche di questo dramma sportivo.

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Messo alle strette da ripetute confessioni e reciproche accuse di ex compagni di squadre e collaboratori, Lance Armstrong ha confessato l’uso di sostanze dopanti per vincere i suoi 7 Tour de France, la più importante corsa di ciclismo su strada, consecutivamente dal 1999 al 2005. La condanna sportiva è già stata in parte pronunciata, con la revoca dei titoli acquisiti sul campo, anche se nessun test effettuato allora ha mai provato la colpevolezza dell’americano: solo analisi successive, infatti, hanno evidenziato possibili anomalie nei campioni ematici. Al di là quindi dell’aspetto giudiziario sulla procedura e sull’esito della sentenza, la confessione di Armstrong ci permette di entrare meglio nelle dinamiche sociologiche e psicologiche di questo dramma sportivo.

Armstrong confessa tutto fin da subito: l’assunzione di farmaci, ormoni ed emotrasfusioni. Poi la domanda della compiacente intervistatrice amplia l’orizzonte:

DOMANDA: “è possibile vincere 7 volte di fila il tour senza doparsi?”
RISPOSTA: “Non in questa generazione ciclistica”.

Lo sapevamo, sia noi telespettatori innamorati dello sport sia l’intervistatrice. E forse lo sapevano tutti. Qualche anno fa, Schneider (2007) analizzò scientificamente le sfumature culturali del doping al Tour de France: una sorta di sospensione del giudizio tra la linea proibizionista e la passione culturale, sulla soglia dell’accettabilità di una pratica che forse spesso si dimentica essere dannosa per la salute degli atleti. Senza contare l’uso di sacche di sangue, che potrebbero servire a più meritevoli scopi. Teniamo ben presente tutto questo quando sentiamo proposte di liberizzazione del doping o di una sua visione più relativista (Tamburrini, 2006), alcune addirittura in nome di una competizione scientifica verso la ricerca di una miscela migliore.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale alle Olimpiadi. - Immagine: © Brian Jackson - Fotolia.com
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Dove sta l’uomo Lance Armstrong? Lui si colloca subito nella sua storia perfetta, di uomo che sconfigge il cancro in giovane età, poi diventa campione ed ha una famiglia modello. Molto americano, molto ego-oriented. E poi il suo personale rammarico: “non ho saputo gestirla”.

Perché “è una mia colpa non aver fermato la cultura del doping” – dice – “ma su 200 eroi c’erano 5 che non si dopavano”. Entriamo davvero nella sua psiche quando si definisce come “un prepotente, perché volevo sempre avere la situazione sotto controllo”, aggiungendo che l’arrivo del cancro – improvviso ed incontrollabile – ha esasperato questa sua combattività e desiderio di controllo. Intollerabile vivere con quell’incertezza su ciò che accade, meglio correre sapendo in partenza che la vittoria è sicura grazie al doping – come ha candidamente ammesso.

Lo scacco matto è dovuto al perfezionismo di Lance, autore un meccanismo curato al dettaglio, disumano o forse semplicemente troppo umano. L’unico particolare che è sfuggito gli è costato caro: nel 2009 rientra alle corse, senza doparsi, con modesti risultati. Il suo ritorno crea gelosie nei nuovi compagni, gli toglie visibilità, e spinge alle prime confessioni. Ora di quel ritorno si pente, l’unico vero rammarico personale è contro la voglia di rientrare, di fare sport. Vorrebbe tornare indietro, ma non può. Non può controllare le reazioni degli altri. Non può gestire un sistema che prima lo designa eroe e poi invece, quando lui vuole rientrare, non lo accoglie più.

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La storia si è svolta così, nel perfezionismo non è tollerata l’incertezza di non vincere, c’è la volontà di domare gli altri con prepotenza e sentendosi sopra le parti. Quando Armstrong si interroga sulla liceità del comportamento, chiede alla sua coscienza. Ma gli risponde il vocabolario: “dice che una persona imbroglia quando si avvantaggia su un rivale con un metodo scorretto di cui altri non dispongono” afferma il texano “credo fosse una battaglia tra pari”.

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La diffusione di responsabilità come meccanismo per non eliminare il senso di colpa e continuare nella menzogna, nel meccanismo perfetto: all’interno di un contesto che si lascia leggere in questo modo, come fa notare anche Bette (2011).

Gli atleti stessi riconoscono e sentono il peso di un contesto che li schiaccia, valutando il doping come risposta ad eccessive pressioni ambientali (Mroczkowska, 2010). Lo stesso accadde con Alex Schwazer in estate, reo confesso a causa dell’eccessiva aspettativa sulla ripetizione dei suoi successi.

La linea da seguire appare semplice, promuovendo con forza un approccio allo sport visto come possibilità di migliorare la propria performance (task oriented) più che come mezzo per affermare il proprio io (ego oriented): lezione già teorizzata da Joan Duda (1995). E se forse questo non basta e la letteratura può essere discordante (Petroczi, 2007), la realtà quotidiana ci suggerisce che pratica sport in maniera più soddisfacente chi lo fa per migliorarsi, divertirsi e confrontarsi con se stesso piuttosto che chi lo fa con l’obiettivo prepotente di affermarsi superando gli avversari a tutti i costi.

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STRESSPSICOLOGIA DELLO SPORT – ATTIVITA’ FISICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dare Significato alle Esperienze: Come si Sviluppa la Metacognizione

di Liria Valenti

Dare Significato alle Esperienze. Come si Sviluppa la Capacità Metacognitiva. - Immagine: © chocolates4me - Fotolia.comLa metacognizione permette all’individuo che la possiede di mentalizzare, cioè vedere e capire se stesso e gli altri in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri), e pensare e compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento.

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Attribuendo stati mentali agli altri, il bambino rende significativo e prevedibile il loro comportamento. Inoltre, una volta imparato a comprendere il comportamento altrui, diviene gradualmente capace di attuare il comportamento più appropriato per rispondere in modo adattivo ai singoli scambi interpersonali.

Tale capacità (metacognizione) è caratterizzata da una componente autoriflessiva e da una interpersonale, grazie alle quali l’individuo può distinguere la realtà interna da quella esterna, i processi intrapsichici da quelli relazionali.

Nel bambino, lo sviluppo della metacognizione, conosciuta anche come funzione riflessiva del Sé, ha inizio durante l’infanzia, momento evolutivo in cui avviene gradualmente un passaggio dai modelli mentali teleologici a quelli mentalizzati: tale passaggio dipende principalmente dalla qualità delle relazioni interpersonali tra il bambino e l’adulto che si prende cura di lui.

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Prevenire o curare? Tipi e modalità di intervento in ambito clinico. - Immagine: © Yabresse - Fotolia.com
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La mentalizzazione, infatti, fa parte di un processo intersoggettivo tra bambino e adulto di riferimento (generalmente la madre), e avviene attraverso l’esperienza che il bambino fa di quanto i propri stati mentali siano stati capiti e pensati grazie a interazioni affettuose con il genitore; pertanto, l’emergere e il completo sviluppo della funzione riflessiva dipendono dalla capacità del genitore di percepire più o meno accuratamente le emozioni, i bisogni, le esperienze del bambino.

Pertanto, quando la madre riflette uno stato affettivo del bambino, questa percezione organizza l’esperienza del bimbo che così conosce ciò che sta provando: con il suo comportamento attribuisce uno stato mentale al figlio e lo tratta come un agente mentale. Il rispecchiamento della madre diviene la rappresentazione dell’esperienza del bambino.

Facciamo un esempio concreto. In seguito a un rumore improvviso, il bambino si spaventa, sgrana gli occhi e inizia a piangere. La madre, che collega la reazione del figlio con l’evento accaduto, lo abbraccia, lo consola, lo tranquillizza accompagnando il contatto fisico con parole di rispecchiamento e conforto (“era un rumore, ti sei spaventato”, “non preoccuparti, è passato”); il bambino si calma e smette di piangere. In tal modo, grazie al comportamento di rispecchiamento della madre, egli può comprendere la sua esperienza emotiva (paura) e conoscere lo stimolo che l’ha causata (rumore improvviso).

L’esempio illustrato mostra, dunque, una risposta materna adeguata al disagio sperimentato dal bambino, e presuppone che la madre stessa abbia sviluppato una buona metacognizione: pur non spaventandosi in seguito al rumore improvviso, può immaginare che un’altra persona, nello specifico un bimbo piccolo, possa percepire le cose in modo diverso (sentire paura). Ripetute esperienze di relazione positiva tra madre e figlio creano un contesto favorevole per l’acquisizione e lo sviluppo della metacognizione.

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 Può succedere, invece, che l’adulto che si prende cura del piccolo fornisca una risposta inadeguata: pensando all’episodio del rumore che genera paura, la madre potrebbe reagire aggredendo il bambino e urlandogli di smetterla.

In questo caso, il bimbo si sentirebbe spaesato, piuttosto che accolto e rassicurato, e l’effetto sul suo comportamento sarebbe molto probabilmente un aumento della paura e del pianto correlato; a lungo andare, crescendo in un contesto relazionale in cui le proprie emozioni ed esperienze vengono frequentemente criticate e bloccate, questo bambino imparerà a ignorare le proprie sensazioni interiori fino a non percepirle neanche.

Un’altra opzione di risposta di fronte al pianto spaventato del bimbo, può essere rappresentata dall’assenza di risposta: semplicemente, l’esperienza del bambino viene ignorata dalla madre. In assenza di un rispecchiamento dell’esperienza, il bambino passerà dallo stimolo (rumore) alla risposta (pianto per paura) reagendo in modo automatico, senza effettuare una valutazione psicologica dell’evento; con molta probabilità diventerà un adulto che sperimenterà emozioni, ma non saprà collegarle a cosa le ha scaturite, e avrà pertanto difficoltà a gestirle e controllarle.

 

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METACOGNIZIONE – BAMBINI – GENITORIALITA’ 

 

BIBLIOGRAFIA:

I Circoli Viziosi: Quando il Paziente Continua a Farsi del Male.

 

I Circoli Viziosi- Quando il Paziente Continua a Farsi del Male. - Immagine: © photobank.kiev.ua - Fotolia.comPerché alcuni pazienti ripetono gli stessi circoli viziosi e le medesime scelte disfunzionali, pur avendo compreso il proprio funzionamento?

Come possiamo spiegare che per alcuni pazienti il cambiamento appaia irrealizzabile, a causa di pensieri e comportamenti che contrastano apertamente con l’utilità personale e terapeutica? Perché alcuni pazienti, pur sapendo razionalmente quale sia la strada da percorrere per un maggior benessere psicologico e pur avendo esplorato in terapia le diverse alternative fino a comprendere pienamente le ragioni che consigliano una determinata condotta, ripetono gli stessi circoli viziosi e le medesime scelte disfunzionali?

In ambito psicodinamico questo processo viene definito paradosso nevrotico, espressione che descrive l’incongruenza logica tra il bene necessario nonché esplicitato e il danno che il soggetto continua ad infliggersi senza sapersi spiegare quale impulso stia seguendo.

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Le analisi proposte in psicologia per chiarire il tema del paradosso vertono sui concetti di coerenza interna, di vantaggio secondario e sulle teorie funzionaliste (Giannatasio, 2010). La coerenza interna, che nei modelli costruttivista e cognitivo post-razionalista assume rilevanza centrale, rappresenta il bisogno dell’individuo di conservare un’identità riconoscibile nel tempo; la continuità del senso di sé richiede che le informazioni in entrata vengano processate secondo modalità cognitive ed emotive che integrino i significati nuovi, talvolta deformandoli, all’interno degli schemi di conoscenza già presenti.

Accertare le credenze centrali. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Mancini (2000) osserva però che in alcuni casi i pazienti ricercano intenzionalmente segnali e indizi che contrastino le loro teorie, per esempio quando coinvolgono il terapeuta in valutazioni personali sul problema. Il vantaggio secondario implica che il paziente scelga l’alternativa disfunzionale se le altre appaiono svantaggiose.

La psicoanalisi attribuisce tale meccanismo ad un movimento inconscio e alla funzione protettiva del disturbo mentale, capace di tutelare l’individuo da un’esplorazione di sé e del mondo che lo porrebbe in difficoltà. La tesi che il vantaggio secondario possa essere perseguito intenzionalmente è inverosimile, dal momento che il medesimo stato mentale conterrebbe due elementi opposti e il soggetto dovrebbe imporsi di credere qualcosa di cui conosce la non veridicità.

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Mancini e Gangemi (2002) suggeriscono la presenza di un meccanismo automatico davanti al quale il paziente desidera il cambiamento ma non sa come realizzarlo. Le teorie funzionaliste descrivono i circoli viziosi derivanti da comportamenti che dovrebbero essere rivolti verso uno scopo funzionale ma generano in realtà conseguenze diverse che ne mantengono gli aspetti patologici: un esempio è l’evitamento, in cui il paziente credendo di proteggersi da una situazione temuta finisce col rinforzare la propria percezione di pericolo.

Le tre prospettive illustrate presentano però un limite, non chiariscono la ragione per cui il paziente nella validazione delle credenze prenda in esame solo alcune delle informazioni pertinenti.

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Mancini e Gangemi (2002) ritengono che questa difficoltà concettuale possa essere superata focalizzandosi sul processo di controllo delle ipotesi; Mancini (2000) sottolinea che i processi diagnostici esaminano con accuratezza l’ipotesi di partenza ma i pazienti non di rado utilizzano processi pseudodiagnostici. Un processo diagnostico si caratterizza per l’incertezza dell’ipotesi iniziale, l’accessibilità cognitiva delle alternative, i costi elevati che scaturiscono dall’omissione di nuove informazioni e quelli, più bassi, legati alla loro acquisizione.

In assenza di queste condizioni, specie quando il tempo e le risorse per la scelta sono limitati, il paziente procede ad una disamina di carattere pseudodiagnostico, che si dimostra più rapida ma tende a confermare la credenza iniziale favorendo il mantenimento della condotta problematica.

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BIBLIOGRAFIA

Denise, una paziente virtuale a rischio di suicidio

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ nata Denise, una paziente virtuale progettata dalla University of Florida Department of Computer and Information Science and Engineering,  che può aiutare i futuri medici nella corretta valutazione del rischio di suicidio dei pazienti.

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Secondo i ricercatori che hanno sviluppato questo progetto la valutazione del rischio di suicidio da parte dei medici deve diventare un “must”, tanto quanto lo è, per esempio, il saper riconoscere un attacco cardiaco.

Il tasso di suicidi è cresciuto, negli ultimi 50 anni, del 60%, specialmente nei paesi in via di sviluppo ed è attualmente la decima causa di morte nel mondo: si stimano circa un milione di suicidi all’anno, con un tasso globale di 16 suicidi ogni 100.000 persone (uno ogni 40 secondi).

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Lo studio, condotto alla Medical College of Georgia at Georgia Health Sciences University, coinvolge studenti di medicina del secondo anno allo scopo di verificare se l’interazione con Denise – una madre e moglie in cerca di cure psichiatriche per l’insonnia e un disturbo dell’umore – può aiutarli nel processo di apprendimento della valutazione del rischio suicidario.
Un gruppo di 40 studenti interagisce con Denise, mentre un secondo gruppo guarda un video in cui un medico intervista un paziente con un disturbo dell’umore, il colloquio verte sulla valutazione del rischio di suicidio.
In un secondo momento, tutti gli studenti hanno il compito di intervistare un “paziente standardizzato”, cioè un attore addestrato per interpretare e segnalare sintomi associati a una certa condizione psicopatologica.
L’interazione virtuale con Denise permette ai giovani medici di fare domande e di ottenere una risposta “tipica”, ma sopratutto li mette nella condizione di riflettere su quali domande porre e a quale sia il modo migliore per farlo: Denise infatti è in grado di dire quando non capisce una domanda.
I ricercatori hanno ipotizzato che gli studenti che interagiscono con Denise saranno meglio in grado di valutare il rischio di suicidio nei pazienti standardizzati. Se l’ipotesi troverà conferma, Denise verrà condivisa con altri studenti di medicina attraverso Association of American Medical Colleges MedEdPORTAL, uno strumento on-line per l’educazione in medicina.
 Un secondo obiettivo sarà quello di valutare l’impatto a lungo termine dell’uso di Denise in quegli studenti che proseguono con una specializzazione in psichiatria.
I ricercatori sperano che questo strumento possa aiutare i futuri medici di base ad affrontare situazioni difficili come il suicidio, la psicosi, l’ansia e la depressione.
I disturbi dell’umore, come la depressione, che comportano un elevato rischio di disabilità e di suicidio, sono infatti i disturbi di salute mentale che più comunemente arrivano all’attenzione dei medici di base.
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BIBLIOGRAFIA:

Quando Tiziano Terzani rifiutò il Prozac.

 

Tiziano Terzani.
Tiziano Terzani (1938-2004).

Tiziano Terzani non assunse mai quelle pillole. Affrontò il proprio malessere “levandosi dal mondo”, per tre mesi in una casa nella foresta.

Nel libro-intervista pubblicato postumo La fine è il mio inizio (2006), il compianto reporter e scrittore Tiziano Terzani (1938-2004) racconta al figlio Folco che, in seguito a un lungo soggiorno in Giappone, sviluppò una brutta depressione reattiva, causata da apparenti motivazioni ambientali.

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All’epoca dei fatti era già espertissimo di Asia, dove aveva risieduto in vari Paesi, lavorando come corrispondente, ma questa volta sembrava non tollerare la delusione di assistere alla deriva di una cultura millenaria, naufragata in uno stile di vita tutto improntato a una competitività esasperata con l’Occidente, dove l’umanità era standardizzata e il tasso di suicidi cresceva di pari passo al PIL.

Una depressione da disillusione? Il lamento di un intellettuale (sempre di prima linea, mai da biblioteca) indignato? Lo scontro frontale con la realtà di un idealista?

Nell’intervista racconta “Sentivo che ero diventato come un giapponese, nel senso che non ero più io…mi alzavo la mattina con il peso del mondo sulla schiena…”. Si era persino messo a giocare in Borsa, attività lontanissima dai sui normali interessi, decisamente più umanistici e antropologici.

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Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio. - Immagine: © hollymolly - Fotolia.com
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Tornato in Europa, decise di consultare un noto psichiatra pisano che, pur non riconoscendo in Tiziano Terzani una depressione clinicamente grave (“Se è depresso lei, sono depressi tutti. Ce ne sono migliaia come lei…”) gli prescrisse il Prozac, da prendere nel caso in cui la sofferenza psichica fosse divenuta insopportabile. Il giornalista non assunse mai quelle pillole e anzi le somministrò al cane morente, come eutanasia. Scelse invece di affrontare il proprio malessere “levandosi dal mondo”, proprio lui che si descriveva come persona estremamente socievole, andando a vivere come un eremita per tre mesi in una casa nella foresta, ai piedi del monte Fuji.

Questo levarsi dal mondo, per periodi più o meno lunghi, ricorrerà anche successivamente, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, quando Tiziano Terzani si trovò ad affrontare il cancro, raccontato in Un altro giro di giostra (2004).

La mancata compliance di Tiziano Terzani all’antidepressivo e il suo modo di affrontare un momento così difficile mi hanno colpito molto, facendomi riflettere su come l’attuale epidemia depressiva del mondo occidentale, non sia soltanto una questione di neurotrasmettitori e di recettori, bersaglio dei farmaci, né solo di pensieri, emozioni o stati mentali disfunzionali, su cui tentano di incidere le diverse psicoterapie. C’è qualcosa di più profondo.

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Viene da chiedersi infatti quali siano i meccanismi sociali e relazionali che portano a questa emorragia di neurotramettitori o allo sviluppo di questi stati mentali disfunzionali. Il solito stress della vita postmoderna? E poi disfunzionali rispetto a cosa, a quale tipo di mondo? Siamo sicuri che il nostro mondo occidentale, al quale si riferisce la funzionalità, sia l’ambiente ideale per la nostra mente?

  Rispetto a quadri psichiatrici ben definiti (almeno nosograficamente) più tipici del passato come la schizofrenia, la depressione maggiore, il disturbo bipolare, sempre più spesso, nel mio lavoro di psichiatra, mi trovo di fronte a situazioni di crisi di persone che avevano funzionato bene fino a poco tempo prima. La crisi dell’adolescente (che oggi può avere anche 50 anni) che non riesce a trovare il proprio posto nel mondo, la crisi dell’anziano che ha perso ogni ruolo sociale e si sente solo e inutile, la crisi della coppia, la crisi del disoccupato, la crisi del diverso (omosessuali, immigrati e minoranze varie). Il tutto frequentemente condito con le più svariate forme di dipendenza (alcol, sostanze stupefacenti, farmaci, gioco d’azzardo, internet, etc.), come strategia autoterapeutica di primo livello.

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Oggi i cambiamenti, voluti o no, sono all’ordine del giorno e ho l’impressione che una diffusa vulnerabilità non ci permetta di affrontarli, altrimenti non ci spiegheremmo come persone apparentemente sane finiscano al pronto soccorso per un’ingestione incongrua di farmaci a scopo autolesivo dopo una delusione sentimentale, come ci siano adulti completamente incapaci di svolgere un ruolo genitoriale, come ci siano leader dei più svariati ambiti incapaci di sostenere la responsabilità del comando. Tutti questi individui in crisi riempiono le sale d’aspetto degli psichiatri che, spesso con incolpevole approssimazione, se ritengono che il livello di sofferenza sia meritorio, prescrivono il farmaco. Nulla di male per carità, il farmaco viene prodotto come rimedio dalla nostra stessa società che crea il disagio, con la finalità di oliare meglio i meccanismi e riportare il sistema alla massima efficienza.

Come osserva Tiziano Terzani (2004) “Gli psicanalisti (ma il discorso è assolutamente estensibile anche a psichiatri, psicologi e psicoterapeuti in genere n.d.a.) considerano loro compito riadattare i pazienti alla società, invece di cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in genere”.

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E’ chiaro che cambiare la società per adattarla ai bisogni dell’umanità in genere non è proprio un compito semplice, e di certo non è esclusivo di chi lavora ogni giorno, secondo le proprie competenze, per alleviare il disagio psichico del pianeta.

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Potrebbe essere utile però, anche con finalità preventive, iniziare a prendere consapevolezza di quanto un sistema sociale basato sull’individualismo e sulla perdita del concetto di comunità incida sulla diffusione e sul decorso dei disturbi psichiatrici, di quanto il fallimento dei sistemi educativi porti inevitabilmente a gravi disagi psicologici e comportamenti antisociali, di come il vuoto interiore causato dall’aderire in modo totalizzante a un sistema di vita consumistico crei solo una ricca e grassa infelicità.

Tiziano Terzani ci mette inoltre in guardia nei confronti del fanatismo scientifico, dell’illusione del progresso e ci invita a ricordarci di come la scienza in quanto tale, che si spinge a vivisezionare la realtà in parti sempre più piccole e disgiunte le une dalle altre, sia solo una delle possibili lenti con cui guardare il mondo. La scienza ha preso il posto della religione nel mondo occidentale, è il nuovo “oppio dei popoli”. Ma quel’ è il prezzo che stiamo pagando per questa progressiva sostituzione? Siamo sicuri che ci troviamo sul sentiero giusto? Ma soprattutto, dove ci porterà?

Alle rappresentazioni parziali e frammentarie, frutto dell’enorme impegno scientifico profuso dalla parte ricca del pianeta, il giornalista contrappone la millenaria sapienza indiana del non dualismo, del sentirsi parte di un tutto, perché è proprio il sentirsi troppo liberi, disgiunti da tutto il resto del mondo, a causare un gran senso di solitudine e tristezza.

 

  Ma come è possibile guardare la realtà con uno sguardo diverso e capire che nel profondo non siamo disgiunti dagli altri e dal mondo che ci circonda?

Tiziano Terzani ci invita a guardare ad Oriente, non alla ricerca dell’ultima moda new-age, ma per renderci conto di come da quelle parti esistano da millenni discipline (come lo yoga, il buddismo, lo zen, il taoismo e il tantrismo) finalizzate al risveglio e alla trasformazione della mente, volte a tacitare quell’io che produce la dualità, permettendo di ascoltare un altro Sé presente dentro di noi (Germani, 2008).

Il principale dualismo occidentale, al quale la nostra medicina è tuttora saldamente ancorata è quello cartesiano, che vede il corpo e la mente come due entità separate, mentre è sempre più evidente, anche secondo rigorosi studi della scienza occidentale (Lutz et al, 2004, Tange et al, 2012), come sia la mente a controllare la materia.

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La tecnica esplorativa che accomuna le diverse discipline orientali è la meditazione, che determina un’acquietamento psicosensoriale e lo spostamento dell’attenzione dall’esterno all’interno, permettendo di  diventare spettatori distaccati della propria mente.

Lo spettacolo potrebbe essere davvero interessante perché come dice Tiziano Terzani “Quel che è fuori è anche dentro, ciò che non è dentro, non è da nessuna parte”.

 

APPROFONDIMENTO:

 

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DEPRESSIONE – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – FARMACI – DIPENDENZE – PSICOANALISI – MEDITAZIONE

 

 

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