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Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile.

Luca Sperandeo – Dottore in Giurisprudenza abilitato al patrocinio (Ordine degli Avvocati di Milano)
Andrea Bassanini – Psicologo, Psicoterapeuta in formazione. 

 

Genitori Omosessuali & Affidamento Minorile. - Immagine: © beaubelle - Fotolia.com

La Suprema Corte ha stabilito che il danno per lo sviluppo del minore affidato a un nucleo familiare omosessuale non può essere presunto ma deve essere provato in concreta, basandosi su certezze cliniche o massime d’esperienza.

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E’ di qualche settimane fa la sentenza (n. 601/2013) con cui la Corte di Cassazione ha affrontando la questione relativa all’effettiva incidenza pregiudizievole dell’omosessualità del genitore affidatario nei confronti del figlio minorenne.

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Così come già rilevato su State of Mind da Giovanni Maria Ruggiero, allo stato attuale: “Nessun parametro psicologico o evolutivo ci ha mostrato numeri che dimostrino che per i bambini sia controindicato crescere con genitori omosessuali”.

Ragionando sul medesimo principio, la Suprema Corte ha stabilito che il danno per lo sviluppo del minore affidato a un nucleo familiare omosessuale non può essere presunto ma deve essere provato in concreta, basandosi su certezze cliniche o massime d’esperienza.

Lo scenario nel quale si colloca la sentenza n. 601/2013 si caratterizza per la presenza di tre elementi distintivi: la violenza, l’elemento culturale-religioso e l’omosessualità.

Il minore, al centro del caso in esame, era conteso tra il padre (di religione mussulmana) e la madre (ex tossicodipendente, legata da una relazione sentimentale con l’educatrice della comunità di recupero che l’aveva ospitata, con la quale successivamente aveva intrapreso una convivenza), immerso in una realtà resa ancora più complessa e delicata dall’aggressione della convivente della madre, ad opera del padre, avvenuta sotto gli occhi del figlio.

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La Corte di Cassazione si è dovuta calare nella fattispecie concreta, sgomberando dal campo qualsiasi sorta di “pregiudizio” e cercando di stabilire quale incidenza, in termini di disagio, avessero potuto provocare nel minore la violenza paterna e l’omosessualità materna.

La stessa rilevava che solo la condotta paterna aveva causato provate ripercussioni negative nel minore (“aveva assistito a un episodio di violenza agita dal padre ai danni della convivente della madre, che aveva provocato in lui un sentimento di rabbia nei confronti del genitore”), mentre non era stata dimostrata in alcun modo la dannosità del contesto familiare materno.

Sicuramente la sentenza in esame, a dispetto del clamore generato, non rappresenta quel punto di svolta, in tema di affidamento dei minori, osannato da alcuni e osteggiato da altri.

Infatti, i giudici di legittimità si sono limitati ad invocare per il caso concreto l’applicazione della regola generale dell’onere della prova, secondo la quale non può essere data per scontata la dannosità per il minore di un contesto familiare omosessuale, in assenza di prove basate su certezze scientifiche o dati d’esperienza.

Crediamo che tale aspetto sia cruciale rispetto a ciò che culturalmente o dogmaticamente possa essere interpretato come principio a favore/sfavore del contesto omosessuale. Spesso la dannosità per il minore viene data per assodata in questi casi, considerando poco o scarsamente le caratteristiche psichiche dei membri del sistema familiare. Sembra, infatti, che l’omosessualità nasconda e oscuri tutto il resto delle caratteristiche del sistema/famiglia, soprattutto le risorse e gli aspetto protettivi e della coppia genitoriale e della famiglia in sé.

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Insomma, in questa sentenza, la Corte non esclude in linea di principio la possibilità che si possa formare una prova a sostegno della tesi sugli effetti dannosi di un nucleo familiare omosessuale, tuttavia, constata che nel caso di specie tale prova non è stata fornita.

La Suprema Corte si è pronunciata rilevando che le richieste del padre muovevano dal mero pregiudizio (presupposto ma non provato) che il vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale fosse di per sé dannoso per l’equilibrato sviluppo del minore, cercando di far passare per assodato un elemento che invece doveva essere dimostrato.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Pur ridimensionando la portata innovativa della sentenza n. 601/2013, è interessante rilevare come la pronuncia della Corte di Cassazione abbia aperto uno spiraglio riguardo all’ampliamento del concetto di famiglia, ponendosi in contrasto con quanto stabilito dall’art. 29 della Costituzione (che identifica la famiglia soltanto in quella società naturale fondata sul matrimonio) e riconoscendo implicitamente che anche un nucleo familiare composto da soggetti del medesimo sesso possa essere qualificato come famiglia.

Una tale lettura potrebbe rappresentare un primo passo verso il riconoscimento dei matrimoni tra soggetti omosessuali, considerato che il disposto dell’art. 8 della C.E.D.U. si presta a un’interpretazione estensiva della nozione di famiglia in grado di ricomprendere anche la relazione stabile di una coppia omosessuale.

Tale orientamento, infatti, potrebbe concretizzarsi in un incentivo per il legislatore a dettare principi e criteri direttivi in materia, mirando sia a una regolamentazione giuridica delle coppie omosessuali sia all’eventuale apertura alle adozioni di minori a favore delle stesse, in accordo con i diritti fondamentali stabiliti dalla Corte Europea.

Con la sentenza in esame la Cassazione non si è fatta portatrice di una corrente giurisprudenziale innovativa, bensì, ha manifestato l’esigenza e l’auspicio di un intervento chiarificatore da parte del legislatore.

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Tribolazioni 01 – No Conflict. Monografia Psicologica di Roberto Lorenzini

 

 

Intelligenza: la leggenda del Qi? Da sfatare!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le variazioni più importanti nelle performance sono dovute principalmente a tre componenti: memoria a breve termine, ragionamento e capacità di verbalizzazione. Tuttavia nessuna componente da sola può spiegare il QI.

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Un nuovo studio condotto da Adrian Owen del Western’s Brain and  Mind Institute è pronto a sfatare la leggenda del QI (Quoziente Intellettivo).  La ricerca ha coinvolto oltre 100 mila persone da tutto il mondo, che hanno potuto partecipare attraverso il web. I volontari hanno eseguito 12 test cognitivi che indagavano la memoria, l’attenzione, le capacità di ragionamento e di pianificazione; inoltre erano invitati a compilare un questionario che esplorava le abitudini, lo stile di vita e la situazione socioeconomica e familiare.

Intelligenza? Una questione di Ormoni. - Immagine:© Yuri Arcurs - Fotolia.com
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I risultati ottenuti dai molteplici dati a disposizione hanno messo in luce che le variazioni più importanti nelle performance sono dovute principalmente a tre componenti, ovvero la memoria a breve termine, il ragionamento e la capacità di verbalizzazione. Tuttavia nessuna componente da sola può spiegare il QI.

Il ricercatore ha inoltre sottoposto alcuni soggetti a risonanza magnetica funzionale (fRMI), osservando che le differenze nelle abilità cognitive corrispondono a circuiti cerebrali tra loro differenti. Gli ampi dati hanno reso possibile la valutazione di caratteristiche come l’età, il sesso o le abitudini (ad esempio il gioco on-line) e come esse possano influenzare le capacità cerebrali: l’avanzare degli anni ad esempio incide sul ragionamento e la memoria, il fumo impatta negativamente sulla capacità di verbalizzazione e sulla memoria a breve termine, l’ansia mina in maniera prevalente  la memoria a breve termine, mentre i videogiochi parrebbero favorire il ragionamento e la memoria a breve termine.

Attualmente lo studio sta proseguendo con versioni  nuove del test, a cui si può registrare andando sul seguente sito: www.cambridgebrainscience.com/theIQchallenge. Tuttavia le finalità ultime dello studio non sono state rese note dagli autori per evitare che i risultati dei test possano essere falsati dalle aspettative dei partecipanti.

Un altro studio sembra avvalorare i risultati ottenuti citati precedentemente, infatti Kou Murayama, uno psicologo dell’Università di Monaco, afferma che le capacità matematiche non dipendono dal QI, ma dal grado di motivazione ad apprendere numeri e le operazioni.

La ricerca è stata condotta su 3.500 bambini delle elementari ed ha mostrato che l’intelligenza è effettivamente importante nei primi momenti dell’apprendimento delle competenze di una materia; ma in seguito, per il raggiungimento di alcuni traguardi, ciò che diviene necessario è una buona motivazione e un elevato interesse per la materia che si sta apprendendo, associati ad autostima e capacità nello studio. Gli insegnanti, quindi, potrebbero tenere conto di questi fattori in modo da far progredire gli allievi nello studio nel modo migliore e più sereno possibile.

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BIBLIOGRAFIA:

Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è!

 

Finito il dì, col Sol che se ne va.

Andiam a casa a riposar, laggiù ci aspetta il focolar.
Perciò, cantiam.
Per la strada prender sempre un’ascia a fian, fischiando andiam.
Il bosco appar già pieno di mister.
Lassù la Luna apparirà, il buon, cammin ci mostrerà.
Cantiam, che l’Orco non verrà, ma tu, gira dal bosco ner.
Cantiam, fischiam, vogliam, cantar, fischiar, vogliam

 

Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è. - Immagine: © alphaspirit - Fotolia.com

Crisi del lavoro al giorno d’oggi. Quali effetti sulla nostra salute psicofisica? Andare al lavoro ammalati… andare al lavoro, finché c’è!

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Il lavoro, tema centrale di questo periodo chi ce l’ha, chi non ce l’ha, chi proprio non riesce a trovarlo, chi ancora non sa cosa fare, chi ha il contratto in scadenza, chi da sempre ha lavorato a progetto, chi del lavoro ne fa la propria vita, chi è in cassa integrazione e si chiede per quanto… ma quali le possibili ripercussioni sulla nostra salute psicofisiologica?

In un report del Chartered Institute of Personnel and Development si evidenzia come un terzo dei 670 datori di lavoro interpellati ammette di aver riscontrato una netta diminuzione delle assenze dei propri dipendenti nel corso dell’ultimo anno.

Questi dati che potrebbero sembrare positivi ad una prima occhiata nascondono secondo gli esperti un chiaro segnale di ansia che ha paradossalmente ripercussioni sulla qualità ed efficacia del lavoro stesso.

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Infatti, andare al lavoro malati predispone anche i colleghi al rischio di “contagio”, l’efficacia nel proprio lavoro diminuisce e aumenta anche il rischio di commettere errori e oltretutto fa allungare i tempi di recupero.

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.com
Articolo consigliato: Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione.

Sicuramente oggi questo dato più che un segnale di attaccamento al lavoro e di eccessiva doverizzazione dovrà forse essere letto come la paura delle persone di perdere il posto di lavoro tanto agognato rimanendo a casa per malattia troppo a lungo. Con la crisi la paura di perdere il lavoro, la paura di non farcela, la paura e a volte la realtà di non arrivare a fine mese sono diventati “fantasmi” reali nella vita di molti.

In Europa la depressione colpisce il 38,2 % degli individui, ovviamente non tutti i casi sono collegati alla crisi, alla perdita di lavoro e alla perdita del ruolo lavorativo. Ad oggi però l’organizzazione mondiale della sanità rileva un aumento di casi di depressione tra i giovani che faticano sempre di più a trovare un lavoro e tra i cinquantenni che rischiano di perdere il lavoro senza avere davanti alcuna possibile prospettiva di riqualificazione o rioccupazione.

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 “Gli uomini sono più a rischio per il ruolo che hanno all’interno del nucleo familiare – spiega Marialori Zaccaria, presidente dell’Ordine degli psicologi del Lazio – Si sentono i capifamiglia e soffrono di più in caso di perdita del lavoro. Subentra una crisi di identità.”

 

Sempre più giovani si ammalano proprio perché in piena crisi economica trovano molte difficoltà nel realizzare i loro sogni, si trovano senza speranza, non vedono alcuna possibilità di costruirsi un futuro, non sentono l’esistenza di uno spazio per loro. Si sentono troppo spesso senza punti di riferimento, senza carte da spendere in un mercato del lavoro fin troppo chiuso.

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ANSIA – PSICOLOGIA DEL LAVORO – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

Acido Folico in Gravidanza e Autismo nei Bambini: Correlazioni

Di Dario Catania.
Psichiatra e Psicoterapeuta, Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale

 

Acido Folico e Disturbi dello Spettro Autistico. -Immagine: © PHOTOERICK - Fotolia.comLe donne che hanno assunto acido folico nei primi stadi della gravidanza hanno mostrato una diminuzione del 40% del rischio di avere un figlio con diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM IV-TR. Per primi stadi si intende il periodo che va da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza.

I disturbi dello Spettro Autistico rappresentano un gruppo di condizioni psicopatologiche in cui le competenze sociali attese, lo sviluppo del linguaggio e le modalità di comportamento non evolvono in modo appropriato o si alterano fino a perdersi nell’infanzia, causando una grave e precoce disfunzione persistente.

Questi disturbi generalizzati dello sviluppo, inizialmente considerati di origine psicosociale e psicodinamica, riconoscono un’eziologia di tipo multifattoriale, con numerose prove a favore di un substrato biologico legato ad alterazioni precoci del neurosviluppo. Al momento non si conoscono strategie di prevenzione primaria rispetto a questi disturbi.

Ossitocina: Una Possibile Cura per l'Autismo?. - Immagine: © IKO - Fotolia.com
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L’assunzione di acido folico, una vitamina del gruppo B, prima del concepimento e nei mesi iniziali di gravidanza risulta una efficace strategia di prevenzione per i disturbi  legati alle malformazioni conseguenti alla mancata fusione del tubo neurale, quella struttura embrionale da cui avrà origine, nel corso dello sviluppo, il sistema nervoso.

Nessuno studio ha evidenziato se l’assunzione di questa vitamina possa essere efficace nella prevenzione di altri disturbi del neurosviluppo.

Un gruppo di ricercatori norvegesi ha pubblicato sul numero 13 di febbraio, della rivista “JAMA”, un interessante e originale studio condotto su un campione di 85176 madri norvegesi e rispettivi figli, nati tra il 2002 e il 2008. Le madri del gruppo sono state reclutate nello studio a partire dalla 18a settimana di gravidanza (prima ecografia) fino al parto, dopodiché sono stati monitorati i rispettivi figli, in un lungo follow-up che si è concluso il 31 marzo 2012. Obiettivo di questa ricerca è stato valutare se l’assunzione di acido folico prima del concepimento possa ridurre il rischio di insorgenza di un disturbo dello spettro autistico nell’infanzia (Disturbo Autistico, Sindrome di Asperger e Disturbi Pervasivi dello Sviluppo non altrimenti specificati).

Alla fine del periodo di follow-up 270 bambini (0,32%) hanno ricevuto una diagnosi di disturbo dello spettro autistico e precisamente sono stati riscontrati 114 casi di Disturbo Autistico (0,13%), 56 casi di Sindrome di Asperger (0,07%) e 100 con diagnosi di Disturbi Pervasivi dello Sviluppo non altrimenti specificati (0,12%).

Solo 64 delle 61042 madri che avevano assunto acido folico prima della gravidanza hanno concepito un bambino con diagnosi di Disturbo Autistico (0,10%); nelle 24134 madri che non avevano assunto il supporto di acido folico, i casi di Disturbo Autistico sono stati 50 (0,21%).

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L’Odds Ratio (OR), misura statistica utilizzata per definire il rapporto di causa-effetto tra due eventi, per esempio tra un fattore di rischio e una malattia, per i bambini esposti ad acido folico è risultato pari a 0,61; ciò significa che l’evento studiato rappresenta un fattore di protezione.

L’esiguità dei dati numerici relativamente ai casi di Sindrome di Asperger e a quelli di Disturbo pervasivo dello sviluppo non ha permesso di giungere a risultati simili.

In conclusione, le donne che hanno assunto acido folico nei primi stadi della gravidanza hanno mostrato una diminuzione del 40% del rischio di avere un figlio con diagnosi di disturbo autistico, secondo i criteri del DSM IV-TR. Per primi stadi si intende il periodo che va da 4 settimane prima a 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza.

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Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo - Recensione
Articolo Consigliato: Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo – Recensione

Lo studio certamente presenta alcune limitazioni che possono avere influenzato i risultati, prima fra tutte il fatto che il campione di donne selezionato presentava caratteristiche sociodemografiche poco rappresentative della popolazione generale: madri alla prima gravidanza, età media elevata, elevato livello d’istruzione, non fumatrici. Altro limite riguarda la diagnosi dei sottotipi di disturbo dello spettro autistico, che in alcuni recenti studi è stata considerata non avere elevata affidabilità, motivo per cui i criteri diagnostici potrebbero essere significativamente modificati nella quinta edizione del DSM, in uscita a maggio 2013.

Se da un lato è evidente che l’assunzione di acido folico nel periodo compreso tra 4 settimane prima del concepimento e 8 settimane dopo l’inizio della gravidanza è associato ad un minor rischio di Disturbo Autistico, non è possibile, al momento, stabilire alcun rapporto di causalità tra il disturbo e l’uso di questa vitamina del gruppo B. Certamente sarà necessario replicare questi risultati e studiare ulteriormente l’influenza di fattori genetici e biologici nello sviluppo di questa patologia per poter spiegare in modo esaustivo il ruolo e l’importanza dell’assunzione di acido folico in relazione a questi disturbi.

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 DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO –  BAMBINI –  GRAVIDANZA E GENITORIALITA’ – 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Amore: Il cuore di chi si ama va allo stesso ritmo

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Uno studio condotto da ricercatori dell’Università della California rivela che il cuore di mariti, mogli e fidanzati ha lo stesso ritmo.

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Il professore di psicologia Emilio Ferrer responsabile della ricerca ha monitorato 32 coppie in relazioni romantiche. I soggetti volontari venivano fatti sedere a circa un metro di distanza e venivano  agganciati a specifici macchinari che misuravano la pressione, battito cardiaco e ritmo di respirazione.

I risultati mostrano che il battito cardiaco dei membri della stessa coppia era all’unisono, così come il ritmo dell’inspirazione e dell’espirazione dell’aria. I risultati non sono stati replicati  quando i due soggetti monitorati non facevano parte della coppia originaria: i volontari non mostravano sincronizzazione.

 

MONOGRAFIA: LA RELAZIONE DI COPPIA 

La connessione tra due persone va oltre il piano emotivo, ma è fisiologica. Per concludere, come ultimo risultato è stato visto che sono soprattutto le donne ad adeguare la loro respirazione e il loro battito cardiaco a quello dell’uomo e probabilmente la spiegazione di ciò è che hanno più empatia.

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Abstract

A host of theoretical frameworks suggest associations of physiological signals between two individuals within a romantic relationship. However, few studies have provided empirical evidence of such associations using physiological reactivity from both partners in the dyad. In this study we use measures of respiration and heart rate from romantic partners recorded across three laboratory tasks. We examine the interrelations of each measure between both dyad members using coupled linear oscillators (Boker & Nesselroade, 2002). These models were used to capture oscillations in respiration and heart rate, and to examine interdependence in the physiological signals between both partners. Results show that associations were detectable within all three tasks, with different patterns of coupling within each task. Discussion centers on ways to investigate the synchrony of physiological responses across within relationships, including the promises of and obstacles for doing so.

 

MONOGRAFIA: LA RELAZIONE DI COPPIA 

BIBLIOGRAFIA:

Trattare l’ ansia infantile con il computer: si può!

di Antonio Ascolese

Trattare l’ansia infantile con il computer: Si può!. - Immagine: © sunabesyou - Fotolia.com

Il tema dell’ ansia infantile meriterebbe maggiore approfondimento. Infatti, i dati indicano che un bambino su otto ne soffre.

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Quello con pazienti pediatrici affetti da disturbi d’ansia (ansia infantile), è un trattamento che meriterebbe maggiore approfondimento nell’ambito della ricerca clinica. Infatti, stando ai dati dell’ “Anxiety and Depression Association of America”, un bambino su otto soffre di ansia infantile.

Spesso, inoltre, questi disturbi perdurano anche durante l’età adulta e, un intervento precoce, permetterebbe una riduzione di tali sviluppi. Per evitare le terapie a base farmacologica con i bambini, inoltre, la ricerca di trattamenti alternativi si fa sempre più urgente.

Cercando di andare incontro a queste esigenze, il team dell’università di Tel Aviv, guidato dal professor Yair Bar-Haim, ha condotto un’interessante ricerca per testare e verificare la validità di un nuovo trattamento.

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In realtà si tratta di un trattamento già presentato in letteratura e già utilizzato nella pratica clinica, anche se limitatamente ai soli pazienti adulti: si tratta della tecnica ABM (Attention Bias Modification), basata sull’uso di un programma al computer. Per la prima volta, i ricercatori di Tel Aviv hanno provato questo programma per allontanare i bambini dalla loro tendenza a soffermarsi sulle possibili minacce e per intervenire sui loro modelli di pensiero. 

L’intento del professor Bar-Haim è quello di validare un sistema di cura alternativo, che sfrutti la familiarità dei bambini all’utilizzo del computer, evitando loro i possibili effetti negativi dovuti all’uso di medicinali e riducendo la necessità di personale altamente formato per la cura.

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Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Alla base di questo metodo c’è il tentativo di trasformare il test dot-probe in una terapia. Questo test richiede al soggetto di dirigere l’attenzione verso un punto che compare in una determinata posizione sullo schermo di un computer. Questi punti appaiono immediatamente dopo uno stimolo (parole o immagini) dal contenuto minaccioso o neutro. I bias attentivi sono valutati misurando la velocità di risposta, mediante la pressione di un tasto, all’apparizione del punto nella posizione occupata da uno stimolo.

I risultati di questo test confermano che i soggetti con ansia infantile dirigono costantemente la loro attenzione verso gli stimoli a contenuto minaccioso, mentre i soggetti di controllo, tendono a volgere l’attenzione lontano da tali parole. Tutte le persone ansiose, infatti, hanno una forte sensibilità nella percezione delle minacce: è proprio questa sensibilità che genera e mantiene l’ansia.

 Per trasformare il test dot-probe in terapia, la posizione in cui appaiono i punti viene manipolata, in modo che questi appaiano più frequentemente nella posizione delle parole neutrali. Gradualmente, il paziente inizia a soffermarsi su queste parole, riuscendo così a normalizzare il bias attentivo e riducendo la propria ansia.

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La ricerca del gruppo del professor Bar-Haim ha testato questo trattamento su un campione di 40 pazienti pediatrici con disturbi d’ansia in corso, divisi in tre gruppi sperimentali: il primo ha ricevuto il trattamento ABM, il secondo è un gruppo placebo, dove il punto è apparso in maniera bilanciata tra immagini minacciose e neutre, il terzo è un altro gruppo di controllo, in cui ai pazienti sono stati mostrati solo stimoli neutri. Il trattamento prevedeva una seduta a settimana per quattro settimane consecutive, per un totale di 480 prove per ogni paziente.

Serious Games: un motore per modificare le relazioni umane. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.com
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Il livello di ansia nei bambini è stato misurato prima e dopo il trattamento, tramite interviste e questionari. Nei due gruppi di controllo non sono stati rilevati cambiamenti significativi nel bias dei pazienti. Nel gruppo che ha seguito il trattamento ABM, invece, sono state rilevate molteplici differenze significative nel bias attentivo dei partecipanti: circa il 33 per cento dei pazienti di questo gruppo, infatti, non ha più presentato alcun criterio diagnostico del disturbo d’ansia.

Questi risultati, a supporto delle ipotesi dei ricercatori, hanno attirato l’attenzione verso questo trattamento, giustificando la necessità di nuove indagini, per meglio approfondire l’ABM utilizzato con pazienti pediatrici: al momento, oltre 20 centri in tutto il mondo stanno sperimentando questa tecnica che richiede l’uso del computer da parte dei pazienti.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

ANSIA – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – ATTENZIONE – BAMBINI

 

 

Bibliografia

Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – Parte 3


Il setting del colloquio e l’atteggiamento del professionista dovranno trasmettere fin dall’inizio una certa quota di freschezza, apertura e disponibilità a parlare di sessualità e gli altri ingredienti fondamentali sono la riservatezza, il rispetto e il focalizzarci sul tema.

LEGGI LA PRIMA PARTE  –  SECONDA PARTE 

La data del 15-09-2012 segna la ripresa delle danze del Master di Sessuologia presso Studi Cognitivi di Modena. Le luci inizialmente sono puntate sul tema del  trattamento delle disfunzione sessuali femminili affrontato dalla Dr.ssa Anna Franca. Una disfunzione sessuale è caratterizzata da un’anomalia del processo che sottende il ciclo di risposta sessuale  (desiderio- eccitazione- orgasmo- risoluzione) o dal dolore associato al rapporto sessuale. In sessualità parliamo di disfunzioni, di alterata funzionalità e non di disturbo.

– LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU SESSO & SESSUALITA’ – 

 DISTURBI SESSUALI – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI –

Durante questo primo incontro viene messa il luce l’importanza di come parlare di sessualità voglia dire parlare di aspetti fisici, affettivi, intellettivi e sociali della persona. Si pone quindi l’accento su come costruire le varie fasi di un’anamnesi sessuologica.

 – LEGGI GLI ARTICOLI SU: SESSO & SESSUALITA’ – 

L’anamnesi sessuale implica un uso di termini e di un linguaggio da parte del terapeuta che deve  ben scegliere per evitare connotazioni di  banalizzazione, negazione, tecnicizzazione e psichiatrizzazione.  Si parte con il creare attraverso il colloquio terapeutico  una fotografia della situazione attuale del sintomo  e poi si costruisce  la storia di vita del soggetto e della coppia. I soggetti solitamente si sentono  imbarazzati, temono il giudizio, hanno sentimenti di colpa e vergogna, di inadeguatezza, di ansia che creano una barriera alla comunicazione. Nelle prime fasi l’obiettivo è ridurre l’ansia e l’imbarazzo, trasmettendo comprensione per la difficoltà che affronta il paziente nell’esaminare col medico aspetti delicati e intimi della propria vita. Ostacoli più specifici nascono dall’età e dal sesso dell’assistito. Fattori importanti per il formarsi di disfunzioni sono le precedenti esperienze, la presenza di  aspettative negative, l’ansia da prestazione, la tendenza al controllo, rimuginii, depressione e dolore.  Il setting del colloquio e l’atteggiamento del professionista dovranno trasmettere fin dall’inizio una certa quota di freschezza, apertura e disponibilità a parlare di sessualità e gli altri ingredienti fondamentali sono la riservatezza, il rispetto e il focalizzarci sul tema. Come consuetudine va restituita  la sua diagnosi al singolo o alla coppia attraverso una lettura integrata degli elementi organici, emotivi, cognitivi, comportamentali e relazionali.

Corso di Perfezionamento Cognitivo-Comportamentale in Sessuologia
Articolo Consigliato: Corso di Perfezionamento CBT in Sessuologia – Parte 1

La diagnosi deve specificare se si tratta di una disfunzione  permanete  (se la disfunzione è presente fin dall’inizio dell’attività sessuale) o acquisita, se è caratterizzata da un sintomo generalizzato o situazionale (legato a particolari attività, situazioni) e se è dovuta a fattori psicologici, fisici o una combinazione dei due elementi. Vengono definiti alcuni fattori predisponenti (ad es: un’educazione repressiva, l’inadeguatezza delle informazioni sulla sessualità, esperienze sessuali precoci e traumatizzanti), i fattori precipitanti (ad  es.: la  nascita di un figlio, le discordie coniugali,  l’invecchiamento, le disfunzioni del partner) e fattori di mantenimento (ad es.: le ansie da performance, anticipazione di fallimenti, scarsa comunicazione della coppia, la paura dell’intimità) (Hartow, 1985).

Nell’analizzare in dettaglio i vari tipi di terapie possiamo riassumere che per quanto riguarda l’inibizione dell’ eccitazione sessuale lo scopo è quello di ridurre l’ansia durante le fasi dell’eccitamento che inibisce la donna, per quanto concerne l’inibizione dell’orgasmo femminile l’obiettivo è modificare la tendenza ad osservare le sensazioni pre-orgasmiche in modo ossessivo, incrementare sentimenti erotici e ampliare le fantasie erotiche. Per il vaginismo funzionale lo scopo è di evitare spasmi involontari della muscolatura del terzo esterno vaginale attraverso una desensibilizzazione sistematica in vivo. Quando parliamo di vaginismo dobbiamo capire e far descrivere alla persona cosa intende per il dolore, e cosa pensa possa accadere.

Si apre poi  il sipario anche sul tema handicap e sessualità. Le persone con handicap hanno pulsioni, sensazioni di natura sessuale come la maggior parte delle persone li differenzia solo l’espressione, la traduzione in comportamento con cui le persone cercano di soddisfare i loro bisogni. Vi sono poi persone con handicap fisici o psichici che non hanno problemi sessuali.

In base al tipo di handicap possono presentarsi più o meno problematiche in tale sfera. Si sottolinea nei soggetti con handicap una possibile difficoltà di comprensione degli impulsi, una difficoltà da parte di operatori/familiari ad accompagnare le persone in questa crescita.

L’obiettivo di un intervento è fare maturare la persona con handicap per quanto è consentito o possibile prima di tutto sul piano dell’autoconsapevolezza personale e  delle capacità relazionali,  in generale favorire uno sviluppo psicoaffettivo tale per cui abbia un significato pensare, sviluppare  e vivere la sessualità.

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L’incontro successivo condotto dalla Dr.ssa Anna Franca è stato un viaggio all’interno della sessualità nelle diverse fasi di vita del singolo e della coppia, dal momento del concepimento fino all’invecchiamento, analizzando lo sviluppo e la variazioni della sessualità dai primi  innamoramenti alle diverse fasi di cambiamento durante la gravidanza. In modo particolare vengono descritti  interventi di training razionale-emotivo nella preparazione al parto precisando che la gestante non è da considerarsi una paziente quindi il percorso mira a sviluppare e acquisire le capacità di vivere le emozioni il più possibile positive in una situazione coinvolgente come quella della gravidanza e parto. Lo scopo di tale intervento è eliminare errori di percezione, interpretazioni e valutazioni che possono mantenere stati di ansia, depressione e ostilità.

 

 Vengono organizzati in modo particolare tre moduli: modulo ristrutturazione cognitiva razionale, modulo addestramento assertivo e modulo rilassamento ( Di Pietro, 1984).  Sulla scia del tema della gravidanza vengono approfondite altre tematiche associate. Si descrivono le distinzioni tra baby blues, depressione post partum e psicosi post partum  (Linee Guida per la prevenzione e la cura dei disturbi psichiatrici delle donne dopo il parto  a cura di Ghisletta, marzo 2004), ponendo in modo particolare l’accento sull’esperienza dell’interruzione volontaria di gravidanza e  sull’interruzione spontanea di gravidanza e quindi sugli interventi adeguati. La Sindrome Post Abortiva (S.P.A) viene considerata all’interno dei Post Traumatic Distress Disorder è annoverato tra gli eventi traumatici perché produce un marcato stress tale da creare dei disturbi alla vita psichica.

A seguire viene posto il riflettore sul disturbo del desiderio maschile e femminile e  sull’ intervento sessuologico di coppia, incontro condotto dalla Dr. Rebecchi e dalla Dr.ssa Chiappelli.

Il Desiderio o interesse sessuale è un sentimento che include il desiderio di avere un’esperienza sessuale, di sentirsi recettivi ai preliminari sessuali del partner e il fantasticare sul fare sesso.

La relazione intima ed intensa nella quale sono in gioco gli affetti, i desideri e soprattutto i bisogni, può essere tanto temuta da soffocare ogni slancio verso di essa, nella paura di un disconoscimento o della perdita dell’oggetto nel quale molto si è investito. Il desiderio per esistere e mantenersi deve potersi fondare su una prospettiva relazionale del piacere. In Disorders of Sexual Desire (1979), Helen Kaplan affronta il tema dell’ inibizione del desiderio sessuale da un punto di vista clinico. Le turbe del desiderio sessuale vengono così classificate in primarie e secondarie.  L’Inibizione primaria è condizione rara, che si associa ad una storia di asessualità che si estende a tutta la vita del soggetto, l’Inibizione secondaria è invece caratterizzata dalla sua comparsa dopo un normale sviluppo sessuale nella storia del paziente. Vi sono  persone nelle quali l’appetito sessuale è debole per caratteristiche costituzionali, cosicché esse non si sentono disturbate dalla scarsa frequenza dei loro rapporti sessuali, che avvengono per la pressione di richieste o circostanze esterne (Simonelli, 1996).

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Nell’uomo e nella donna gli oggetti del desiderio vengono condizionati e influenzati dall’esperienza personale. I disturbi del desiderio ci possono essere divisi in modo particolare in due gruppi: il desiderio sessuale basso e l’avversione sessuale.

Nel primo i criteri diagnostici fanno riferimento a carenti o assenti fantasie sessuali e desiderio di attività sessuale persistente o ricorrente. Le anomalie causano disagio o difficoltà interpersonali, possono emergere in comorbilità con stati depressivi, con disturbo d’ansia ansia, disturbi alimentari. Il disturbo da avversione sessuale rappresenta una persistente o ricorrente estrema avversione ed evitamento di tutti o quasi i contatti sessuali genitali con il partner. Il soggetto descrive ansia, timore e disgusto davanti ad un opportunità sessuale. Davanti a tali disagi bisogna indagare la percezione individuale  e la valutazione del problema nella coppia.  Kaplan oltre a descrivere le cause organiche parla di cause immediate, come ad esempio la rabbia per problemi situazionali e cause remote come la paura delle prestazioni  sessuali, la paura del rifiuto, la paura dell’ intimità e l’ostilità. Il basso desiderio può essere sostenuto dalla difficoltà di elaborazione degli stimoli,  da distorsioni cognitive, dalla  mancanza di repertori comportamentali e da un ambiente stressante e scarsamente rinforzante.

Corso di Perfezionamento Cognitivo-Comportamentale in Sessuologia
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Il sintomo sessuale è mantenuto e da diversi fattori organici, ambientale e individuali e relazionali. Nel parlare di disfunzioni sessuali di coppia bisogna capire le dinamiche relazionale oltre agli aspetti eziologici e patogenetici è necessario approfondire la comunicazione della coppia: analizzare i tre interlocutori su cui lavorare cioè i singoli e la nostra coppia (Satir, 1988). La coppia è formata da due individui ciascuno dei quali ha credenze e scopi organizzati gerarchicamente. L’assesment implica colloqui congiunti, individuali e quindi un attenta osservazione delle dinamiche relazionali. Nei colloqui  individuali (Baucom & Epstein 1997; Dattilo & Padesky 1996) e relazionali, bisogna analizzare le motivazioni di entrambi i coniugi, fare un accurata anamnesi sessuale di ogni partner (Pasini) e capire l’esordio, la storia del problema e la descrizione del problema qui e ora. La funzione della terapia coppia è fare emergere le  credenze teorie sulla sessualità dei soggetti, le loro emozioni rispetto a ciò emozioni al fine di costruire uno schema del circolo vizioso individuale di mantenimento e relazionale. Le coppie stressate hanno pochi scambi positivi minori, nullificano l’impatto degli aspetti positivi e si focalizzano su quelli negativi, reagendo immediatamente ( Boussod  e Jacobson 1986).

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La sessualità umana è un fenomeno estremamente complesso, è necessario spaziare dall’antropologia alla biologia dalla psicologia alla etologia alla sociologia. Le disfunzioni sessuali si manifestano con forte impronta somatica, nella maggior parte  dei casi il disagio è legato ad una “disfunzione” del corpo e la sofferenza provata è attribuita al deficit somatico come stato di sofferenza di un organismo in toto. Nel trattamento delle disfunzioni sessuali si pone il problema diagnostico centrato sull’aspetto biologico o psicologico o bio psicologica. Bisogna capire il legame esistente tra la manifestazione somatica e quella emotiva. Importante, quindi, la collaborazione tra con specialisti andrologi, ginecologi, endocrinologi, chirurghi. Quindi, è necessario per i terapisti oltre alla conoscenza dei processi psicologici anche dei processi biologico implicati.

Il decimo incontro del Master  ha voluto infatti dare spazio al Dr. Carani, endocrinologo e al Dr. Pescatori, urologo. Si parla dell’identità sessuale e dei disordini dello sviluppo sessuale dalla prospettiva medica. Si parla si sesso cromosomico, gonatico, fenotipico, ipotalamico e psicosociale prima di addentrarci nella indicazioni e controindicazione della terapia ormonale e dell’intervento chirurgico. Il percorso psicologico parallelo e integrato con tutto il percorso di adeguamento medico chirurgico. Si sviluppa secondo modalità individuate caso per caso e mira alla verifica dell’assunzione della responsabilità della propria scelta, a sostenere e elaborare le modificazioni ormonali, somatiche nonché le esperienze relazionali e sociali del soggetto. Parallelamente si mira all’elaborazione del conflitto d’indentità e dei conflitti cognitivi ed emotivi che si presentano durante il percorso.

“L’acquisizione della nostra identità di genere è un processo che non ha mai fine, rispetto alla quale noi dobbiamo negoziare continuamente sia la dimensione intrapsichica che relazionale” ( Argentieri, 1996).

 

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Bibliografia:

Mentire: può La Pratica Perfezionare L’Inganno?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Con un po’ di pratica, è possibile imparare a dire una bugia indistinguibile dalla verità? 

A chi non è mai capitato di dire una bugia? E a chi non è mai capitato, successivamente, di non ricordare la bugia detta e mettersi così nei guai? In realtà mentire, da un punto di vista cognitivo, è un processo assai complicato: nell’inventare una bugia, infatti, creiamo un’ informazione falsa che viene elaborata solo dopo aver mentalmente soppresso un’informazione vera.

Vari studi hanno dimostrato che, da un punto di vista cognitivo, le persone generalmente spendono maggiori risorse, impiegano più tempo e fanno più errori nel dire una bugia, rispetto al dire la verità, proprio perché in possesso di due informazioni contrastanti. Recentemente, anche la ricerca in neuroscienze cognitive conferma questa ipotesi: mentire impiega più regioni del cervello che sono coinvolte nel controllo cognitivo come la corteccia prefrontale dorsolaterale e la parte anteriore della corteccia cingolata.

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Mentire richiede dunque una maggiore quantità di controllo cognitivo rispetto al raccontare la verità. Tuttavia, se il dispendio cognitivo di risorse quando si dice una bugia possa essere intenzionalmente ridotto, risulta essere una questione ancora aperta da un punto di vista scientifico: con un po’ di pratica, si potrebbe imparare a dire una bugia che potrebbe essere indistinguibile dalla verità? 

Una recente ricerca della New Northwestern University ha messo in luce che, essendo la menzogna più malleabile di quanto si pensasse, attraverso formazione e pratica, l’arte dell’inganno può essere perfezionata.

 

I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire.

Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

Scopo dei ricercatori, in questo studio, è stato infatti esaminare se, quando siamo addestrati a mentire, il compito di dire una bugia risulta più automatico e meno impegnativo. A tal fine hanno sottoposto al campione del loro studio, composto da 48 partecipanti, un compito basato sul Paradigma di Differenziazione dell’Inganno (Differentiation of Deception Paradigm, DDP). Questo compito, il cui scopo è valutare i tempi di reazione dei partecipanti nel rispondere e gli errori commessi, è diviso in due parti: nella prima vengono elencate delle frasi a cui i partecipanti devono rispondere in maniera sincera (rispondendo “me stesso” se le informazioni nella frase si riferiscono al paziente e “altri” se le informazioni nella frase letta si riferiscono ad altre persone), nella seconda parte del compito viene invece chiesto ai partecipanti di mentire al successivo blocco di affermazioni, invertendo le risposte “me stesso” e “altri”. Come baseline, ai partecipanti dello studio, viene somministrata una prima prova di DDP.

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I partecipanti vengono successivamente divisi in tre gruppi: di controllo, con istruzioni e con training.  Dopo la baseline, il gruppo di controllo ha visionato un video della durata di 15 minuti, ripetendo poi ancora un compito di DDP. A seguito della baseline, nel gruppo con istruzioni, è stato semplicemente detto di accelerare e fare meno errori nel dare le risposte false, senza dar loro il tempo per esercitarsi, ed è stato poi somministrato un altro compito di DDP.  Nel gruppo con training, invece, è stata effettuata una sessione di formazione sul come fornire risposte più veloci senza fare errori, dando poi ai soggetti del tempo per esercitarsi. Dopo il training, anche questo gruppo ha effettuato un’altra prova di DDP.

I risultati hanno mostrato che l’istruzione da sola ha ridotto significativamente il tempo di reazione e gli errori dei partecipanti nel dare risposte ingannevoli. Tuttavia, le differenze nei tempi di reazione e negli errori tra le risposte ingannevoli e veritiere sono state del tutto cancellate solo nel gruppo con training. Il risultato suggerisce dunque che le l’inganno è malleabile e può essere controllato volontariamente con l’intenzione.

Nel prendere atto comunque dei limiti della ricerca, non si può ignorare l’impatto di questi risultati, soprattutto nel campo della psicologia della testimonianza. Attraverso un’adeguata preparazione, un testimone può essere in grado di mentire senza difficoltà?

Il dubbio è così importate che non si può non sperare in future ricerche sul tema. Nel frattempo … se avete proprio bisogno di dire una bugia, per lo meno esercitatevi un po’ prima di farlo!

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NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:


Sonno REM e Sogno? La teoria di Hobson.

 

Sonno REM e Sogno? Una forma primitiva di coscienza!

La teoria di Hobson.

Sonno REM e Sogno? La teoria di Hobson. - Immagine: © yanlev - Fotolia.com

Hobson osserva come siano ormai noti i meccanismi cerebrali attivi durante il sonno, in pratica sappiamo “come” si dorme ma  non è ancora del tutto chiaro “perché” il nostro cervello necessiti di dormire.

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La funzione del sonno e quella dell’attività onirica che lo caratterizza, hanno interessato e affascinato fin dall’antichità filosofi, studiosi, scienziati e ricercatori.

La domanda “Perché dormiamo?” ha stimolato la creazione di molte affascinanti teorie, inoltre le qualità bizzarre ed evanescenti del sogno hanno suscitato ipotesi e speculazioni tra le più disparate riguardo la sua origine e il suo significato.

Tra le teorie più celebri e conosciute vi è certamente l’ipotesi freudiana secondo la quale i sogni, rappresenterebbero quel particolare spazio entro il quale trovano appagamento i desideri relegati nell’inconscio, rimossi o inaccettabili entro la nostra dimensione cosciente di veglia.

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Grazie alle crescenti ricerche scientifiche sui substrati neurali del sonno, negli anni ’60 fu scoperta una fase di esso, caratterizzata da rapidi movimenti oculari (REM), che si osservò avere la più alta correlazione (anche se non esclusiva) con l’attività del sognare.

Grazie a questi studi sono comparse all’orizzonte nuove interessanti teorie che hanno associato al sonno REM delle specifiche funzioni tra cui la regolazione omeostatica della temperatura e del peso corporei, il mantenimento dell’integrità dell’equilibrio psicologico e della salute mentale, la mediazione dei processi di apprendimento.

Psicoanalisi analisi dei sogni - © rolffimages - Fotolia.com -
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Tra le ipotesi più innovative e intriganti ritroviamo quella di J. Allan Hobson psichiatra, nonché uno dei maggiori studiosi contemporanei in questo campo, direttore del Laboratorio di Neurofisiologia del Massachusetts Mental Health Center a Boston dal 1968 al 2003, e autore di numerosissimi articoli scientifici e libri sul sonno e i sogni.

Hobson osserva come siano ormai noti i meccanismi cerebrali attivi durante il sonno, in pratica sappiamo “come” si dorme ma  non è ancora del tutto chiaro “perché” il nostro cervello necessiti di dormire.

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La teoria avanzata dallo studioso è che la caratteristica attivazione cerebrale presente durante il sonno REM consenta lo sviluppo e il mantenimento di circuiti necessari per il corretto funzionamento delle funzioni cerebrali di più alto livello, compresa la coscienza, nella fase di veglia. Egli definisce perciò la fase REM come “protocoscienza”, ovvero un primordiale stato di organizzazione del cervello che rappresenta la base su cui si costruisce la coscienza e che è presente precocemente negli esseri umani, fin dallo sviluppo fetale.

Secondo Hobson, negli adulti, la veglia, è caratterizzata da aspetti di coscienza secondaria e dipendenti dal linguaggio, come l’auto-riflessività, il pensiero astratto, la volizione e la metacognizione, che ci permettono di essere consapevoli del mondo esterno, del nostro corpo e di noi stessi. Quando sogniamo durante la fase REM del sonno, invece, abbiamo una consapevolezza solo parziale, con caratteristiche di coscienza primaria, che include percezioni ed emozioni generate e organizzate in uno scenario interno, ma che erroneamente consideriamo frutto di uno stato di veglia, nonostante un gran numero di segnali cognitivi che ci dicono che non sia così. 

La coscienza del sogno, rispetto a quella della veglia, è infatti maggiormente capace di integrare immagini e stimoli tra i più disparati, ricreando spesso una bizzarra simulazione del mondo. Tuttavia è anche meno efficiente nel riconoscere l’incoerenza e irrealtà della propria condizione, le limitazioni del proprio pensiero e l’impoverimento della memoria.

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Quante volte, nei sogni, ci capita di provare sensazioni ed emozioni, agire e sentire in maniera così vivida che spesso, una volta svegli, facciamo fatica a considerare tutto ciò solo frutto di un mondo fittizio creato dal nostro cervello?

Una particolare attività cerebrale “ibrida”, che si colloca tra il sonno REM e la veglia, è rappresentato dai sogni lucidi, nei quali le persone provano la consapevolezza soggettiva di stare sognando, pur non essendo svegli. 

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Gli esperimenti neuroscientifici condotti con EEG e fMRI hanno evidenziato, durante i sogni lucidi, un insolito stato di co-attivazione dei circuiti della coscienza primaria e di quella secondaria e in particolare, rispetto al sonno REM, un’aumentata attivazione delle aree corticali frontali, che si è soliti associare alle componenti metacognitive, di pensiero astratto e autoriflessivo della consapevolezza secondaria.

La teoria innovativa di Hobson, secondo cui il sogno nella fase REM può essere visto come un pattern generatore di realtà virtuale utilizzato dal cervello per un corretto sviluppo e mantenimento della coscienza durante lo stato di veglia, aggiunge così un nuovo e stimolante punto di vista a sostegno dell’idea che il sonno, nella sua globale complessità, sia un prezioso processo sia di tipo preparatorio, che di recupero, che ci consente un’interazione pienamente adattiva con il mondo che ci circonda.

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SOGNI  –  SONNO – MEMORIA

 

 

BIBILOGRAFIA:

Il Colloquio Psicologico – La Comunicazione Terapeutica #4

Il Colloquio Psicologico - La comunicazione Terapeutica#4. - Immagine: © apops - Fotolia.com

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PARTE I – PARTE II – PARTE III

CIÒ CHE È INUTILE È DANNOSO

 “Un guerriero della luce ascolta ciò che l’avversario ha da dire. E lotta solo se è necessario”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.87]

IL COLLOQUIO PSICOLOGICO – MONOGRAFIA

Nel rapporto con il paziente non bisogna mai fare nulla più del necessario, perché se qualcosa non è necessario è superfluo, e ciò che è superfluo può sempre essere potenzialmente dannoso. E’ bene tenere questo principio a mente poiché potrebbe in alcune occasioni salvare il rapporto con il paziente. Per esempio i professionisti, trasportati dalla curiosità e dalla volontà di conoscere e scoprire tutte le variabili che hanno un ruolo nella risoluzione del problema, possono essere indotti ad esplorare assieme al paziente aree del tutto scollegate dal problema principale, oppure connesse con quest’ultimo ma non necessarie per affrontarlo.

Il Colloquio Psicologico - Introduzione. - Immagine: © emiliau - Fotolia.com
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Oltre che rischiare una perdita inutile di tempo, questo modo di comportarsi può portare paziente e psicologo fuori rotta, decentralizzando il focus dal problema ad aspetti del tutto marginali e arrivando a definire obiettivi che possono essere inutili per risolvere la difficoltà principale. Spesso la conseguenza di questo modo di agire è l’elaborazione di affermazioni interpretative che pongono interesse su aree molto lontane dal problema e sulle quali si interviene senza la consapevolezza che comunque il sintomo non viene colpito. In questo caso il superfluo diventa dannoso.

Questa norma deve essere applicata sempre, anche per aspetti per i quali non vediamo possibili conseguenze negative, perché spesso esse non sono chiare come nell’esempio precedente. L’obiettivo del terapeuta è il problema e all’interno di questo percorso deve mantenere sempre vivido nella mente un criterio di economia e scartare tutto ciò che può essere scartato senza intaccare la possibilità di eliminare il disturbo.

PROCEDERE A TRAZIONE ANTERIORE

“Un guerriero della luce studia con molta attenzione la posizione che intende conquistare”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.38]

Esistono due modi per superare gli ostacoli che si presentano nel corso del colloquio. Adeguandosi alla metafora della trazione anteriore e posteriore si può affermare di poter spingere o tirare il paziente oltre l’ostacolo. E’ sempre meglio evitare il primo di questi metodi. Usare la trazione posteriore vuol dire di fatto costringere di forza il paziente in una direzione che entra in contrasto con la sua forza di inerzia portandolo a “sbandare” verso l’esterno del percorso. Comportarsi in questo modo può quindi favorire continue ricadute del soggetto con pochi apparenti miglioramenti. Se, al contrario, ci affidiamo alla trazione anteriore le cose cambiano.

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I contrasti con l’inerzia del paziente non vengono rilevati e il soggetto si mantiene con maggior facilità all’interno del percorso terapeutico. Nel colloquio psicologico la trazione anteriore si realizza dando al paziente un obiettivo da seguire, qualcosa che gli interessa e che persegue con impegno, in questo modo si può mettere in luce ciò che c’è di positivo nella strada che si sta percorrendo, si condivide con lui la conoscenza della meta finale e si alimentano, quindi, le sue motivazioni. In questo modo si evita che il paziente sbandi lungo il percorso.

CONOSCERE GLI ALTRI E SÉ STESSI

“Un guerriero approfitta di qualsiasi opportunità per imparare.”

[Coelho, Manuale del guerriero della luce, 1997, p.26]

A volte i clienti posso essere molto diversi dal psicologo. Attraverso il colloquio costui è in grado di scalfire la profondità della cultura del paziente ma non può raggiungere la consapevolezza della sua complessità [Fine e Glasser, 1996] . La presenza di questa differenza richiede un maggior lavoro mentale e una maggior riflessione su di sé.

Da un lato lo psicologo deve cercare di capire gli altri e di capire in che modo si differenziano da lui nei comportamenti, nelle loro convinzioni, nel loro modo di pensare, nei loro valori ecc… Esistono diversi fattori che possono essere fonte di queste profonde differenze tra psicologo e paziente ed è bene che ciascuna di esse sia presa attentamente in considerazione:

1) La cultura: intesa come attività caratteristiche di un gruppo di persone, influenza comportamenti, credenze e atteggiamenti del paziente. Quando un paziente sembra mostrare un forte senso di appartenenza ad un gruppo culturale diverso da quello dello psicologo, quest’ultimo deve cercare di comprendere queste differenze studiando la cultura e di capire l’origine di convinzioni positive e negative.

2) La classe socioeconomica: rappresenta lo status del paziente all’interno della società che non comprende solo il livello di reddito ma anche lo stile di vita.

3) Il sesso: rappresenta la differenza più profonda e rigida che può intercorrere tra il paziente e il professionista. è molto importante imparare a relazionarsi con le caratteristiche tipiche dell’altro sesso, imparare a non lasciarsi lusingare dalla seduttività e a non essere seduttivi.

4) I gruppi oppressi: rappresentano gruppi sociali oggetti di pregiudizio, astio e discriminazione. I clienti di questo tipo vedono spesso nel terapeuta un rappresentante del nemico e manifestano un atteggiamento ostile. In tali casi lo psicologo deve cercare di comprendere i sentimenti che provano queste persone e le esperienze che hanno vissuto e che le hanno condotte ad assumere tale atteggiamento.

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In tutti questi casi, che spesso si intrecciano tra loro, è fondamentale l’impegno dello psicologo nel comprendere le profonde differenze che separano le proprie credenze da quelle del paziente. Questa comprensione è alla base di un avvicinamento tra paziente e professionista, alla base di un rapporto di fiducia, alla base del buon esito della terapia. Questa comprensione non può essere separata dalla conoscenza della cultura del paziente, ricevere informazioni su di essa è quindi indispensabile.

Queste si possono ottenere dallo stesso paziente (basta chiederlo) mostrando la propria ignoranza al riguardo ma, allo stesso tempo, il proprio interesse nei confronti della persona. In questo modo lo psicologo è in grado di avere informazioni sul background culturale del paziente e di mostrare contemporaneamente la propria comprensione empatica.

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Oltre alla comprensione degli altri lo psicologo deve prestare la dovuta attenzione anche a sé stesso. Ciascuno di noi, infatti, possiede un background culturale che influenza le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti. E’ importante conoscerci e conoscere il modo attraverso il quale mostriamo la nostra cultura, anche inconsapevolmente, e conoscere come questa possa influenzare il rapporto con il paziente in relazione alle differenze nelle convinzioni e negli atteggiamenti di quest’ultimo.

Il rischio che si corre non preoccupandosi di questi aspetti è quello di impedire lo sviluppo di un rapporto di fiducia, alimentando i contrasti, oppure di imporre valori e atteggiamenti che sono figli della storia dello psicologo ma non di quella del paziente.

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IL COLLOQUIO È FIGLIO DELLA CULTURA DEL TERAPEUTA

Infine, un ultimo principio che sarebbe bene tenere in considerazione riguarda l’importanza della cultura dello psicologo. Per riuscire a mostrare la propria professionalità, per riuscire a comprendere e conoscere gli atteggiamenti degli altri, per riuscire a pronunciare la frase giusta al momento giusto, in grado di provocare l’insight e di cambiare le prospettive del paziente, è necessario che la sua  cultura di base sia all’altezza della situazione.

Questa cultura riguarda innanzitutto l’ambito psicologico all’interno del quale lo psicologo deve sapere muoversi con naturalezza: dalla conoscenza delle caratteristiche sintomatiche dei disturbi psicologici alle dinamiche dei rapporti interpersonali, dai meccanismi di funzionamento del sistema nervoso alle teorie principali sullo sviluppo infantile ecc…

Ma la cultura necessaria non si limita solo al mondo della psicologia. Non v’è confine ai vantaggi che si ottengono in ambito terapeutico continuando a coltivare ed aumentare la propria conoscenza in qualsiasi campo, dalla letteratura alla chimica, alla storia, alla filosofia ecc… Maggiore è il campo delle conoscenze possedute più grande è la fonte dalla quale si possono cogliere quelle informazioni che, trasmesse al paziente, possono mostrargli punti di vista diversi e sostenere l’avvio del cambiamento. 

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LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE –  ALLEANZA TERAPEUTICA – IN TERAPIA – COLLOQUIO PSICOLOGICO

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Mostrami la Tua Foto di Facebook e ti Dirò da Dove Vieni!

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Mostrami la tua Foto di Facebook e ti dirò da dove vieni: le differenze culturali influenzano la rappresentazione di sè anche online.

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Diverse ricerche in ambito psicologico hanno evidenziato come il contesto culturale in cui nasciamo e viviamo abbia un’influenza cruciale sul nostro modo di comportarci e di pensare. Gli studi condotti sulle differenze culturali riportate da abitanti di parti del mondo diverse non solo hanno dimostrato come occidentali e orientali abbiano modi di ragionare quasi opposti, ma anche come la loro cultura detti legge sui modi di percepire e di porre attenzione, sulle motivazioni, sui modi di relazionarsi e persino sulla percezione del sé (Masuda & Nisbett, 2001; Markus & Kitayama, 1991).

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Gli occidentali, immersi sin dalla nascita in una cultura fondata sull’individualismo e sull’indipendenza, hanno la tendenza a percepire gli oggetti e organizzare le informazioni in modo analitico; gli orientali, la cui cultura promuove un forte senso di interdipendenza, tendono invece a considerare se stessi come parte di una comunità più ampia e a processare le informazioni in modo olistico, dando uguale importanza agli oggetti ed al loro contesto (Masuda & Nisbett, 2001; Nisbett & Masuda, 2003).

Dati questi presupposti, sarebbe del tutto ragionevole ipotizzare che l’esposizione a pratiche e valori culturali diversi influenzi la cognizione sociale ed il modo di mostrarsi agli altri non solo “nel mondo reale” ma anche online, sui social network. Quasi tutti ormai possediamo un “profilo” di Facebook: con un indirizzo email valido chiunque può creare una sorta di “biglietto da visita” completo di foto e di una varietà di informazioni personali anche molto specifiche (luogo di nascita, luogo in cui ci si trova attualmente, data di nascita, stato della corrente situazione sentimentale, musica/libri/film preferiti, numero di “amici” e via dicendo).

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Huang e Park (2012) hanno condotto uno dei primi studi che abbiano usato proprio Facebook come database di ricerca. I due studiosi hanno testato l’ipotesi che il contesto culturale di un individuo influenzi la sua rappresentazione di sé anche online, in una situazione cioè in cui il controllo applicabile al proprio modo di mostrarsi agli altri risulti maggiore.

Nella prima parte dello studio sono state esaminate le foto del profilo di 200 utenti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. Di questi soggetti, 50 erano studenti taiwanesi della National Taiwan University e 50 studenti americani della Univesity of Illonois; sono state inoltre selezionate le foto di 50 studenti taiwanesi che stavano studiando negli Stati Uniti e di 50 studenti americani trasferitesi a Taipei per motivi di studio. Misurando il rapporto tra l’area della faccia di ciascun utente e l’area della foto intera, i ricercatori hanno osservato come gli orientali prediligessero il contesto “ambientale” e de-enfatizzassero il soggetto; al contrario, gli americani tendevano ad enfatizzare la propria figura trascurando quasi del tutto ciò che vi stava intorno. Il dato più curioso è che gli studenti trasferitesi all’estero per studiare adattavano le loro foto del profilo alla cultura locale, rendendo la propria foto più simile a quella dei compagni.

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Nella seconda parte dello studio sono state considerate caratteristiche più specifiche delle foto (proporzioni del corpo del soggetto, numero di persone incluse, background e intensità del sorriso). È stato inoltre controllato il fattore “clima”: vi era infatti il rischio che questo avesse influenza sull’importanza data all’ambiente all’interno della foto, spiegando come mai i taiwanesi prediligessero maggiormente il contesto rispetto alla figura principale (quest’ipotesi è stata scartata, confermando l’idea che fosse solo il contesto culturale a influenzare le caratteristiche delle foto). Mentre non vi era alcuna differenza nel tipo di background e nel numero di persone incluse nelle foto, è stato invece osservato come gli americani mostrassero sorrisi di intensità maggiore, laddove gli orientali prediligessero al contrario espressioni più “tenui”. Questo risultato conferma i dati disponibili sulle differenze culturali nell’espressione delle emozioni, per cui la cultura orientale porrebbe maggiore enfasi sull’equilibrio e il controllo emotivo, mentre quella occidentale ne promuoverebbe un’espressione più aperta e libera (Chim, Moon & Tsai, 2009).

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Si tratta di risultati interessanti, dal momento che le influenze culturali sulla cognizione e sui comportamenti sociali nel mondo virtuale costituiscono un campo ancora quasi del tutto inesplorato. Il successo dei social network è un fenomeno ancora del tutto recente: non ci resta che attendere ulteriori studi che confermino o smentiscano i risultati ottenuti da Huang e Park.

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SOCIAL NETWORK – PSICOLOGIA CROSSCULTURALE –  PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA –  PSICOLOGIA SOCIALE – ESPRESSIONI FACCIALI

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Chim, L., Moon, A., & Tsai, J. L. (2009). Beauty is in the culture of the beholden: The occurrence and perception of American and Chinese smiles in magazines. Poster presented at the 10th Annual Meeting of the Society of Personality and Social Psychology, Tampa, FL.
  • Huang, C. M., & Park, D. (2012). Cultural influences on Facebook photographs. International Journal of Psychology, 1–10.
  • Markus, H. R., & Kitayama, S. (1991). Culture and the self: Implications for cognition, emotion, and motivation. Psychological Review, 98, 224–253. (DOWNLOAD)
  • Masuda, T., & Nisbett, R. E. (2001). Attending  holistically versus analytically: Comparing the context sensitivity of Japanese and Americans. Journal of Personality and Social Psychology, 81, 922–934.
  • Nisbett, R. E., & Masuda, T. (2003). Culture and point of view. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 100, 11163–11170

Pro ANA – Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet

 

Pro ANA - Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet. - Immagine: © servane roy berton - Fotolia.com

Siti Pro ANA e pro MIA – Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet. Caratteristiche, motivazioni e stato della ricerca.

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Con il termine Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) si fa riferimento ad un disagio caratterizzato da un alterato rapporto con il cibo e con il proprio corpo, che si esprime attraverso una preoccupazione eccessiva rispetto al peso e alla forma corporea [DSM IV-TR].

Uno dei problemi che negli ultimi anni i Paesi Occidentiali e quelli in via di sviluppo si trovano ad affrontare è la proliferazione dei siti pro ANA o “pro-MIA”, siti web che promuovono rispettivamente l’anoressia e la bulimia.

Non ultima, la BBC si interrogava già, in un servizio del 2008, in merito agli oltre (all’epoca) 500 siti pro-ANA e pro-MIA, sottolineando quanto fosse complicato distinguere le pagine web che inneggiavano ai disturbi alimentari (fornendo consigli su come controllare la fame e il peso, ad esempio) da quelle che invece offrivano un supporto alle persone che cercavano di “uscire dal disturbo”.

Molti siti sembravano collocarsi in un’area grigia, a metà strada: professavano di voler offrire supporto a chi cercava di curare il proprio disturbo, ma in realtà in qualche modo offrivano consigli su come protrarlo.

Villa La Pietra. Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/thessaly/
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La BBC, lanciava – appunto – un allarme nei confronti dei siti pro ANA, sostenendo che proprio il proliferare, grazie al web e ai social network, di comunità virtuali di questo tipo potesse portare ad un incremento dei disturbi alimentari. L’allarme era stato lanciato a seguito di alcuni studi che avevano dimostrato che giovani donne, dopo aver consultato alcuni siti pro ANA, avevano un abbassamento dell’autostima, percepivano se stesse con un’immagine peggiorativa ed erano più propense a confrontare la propria forma fisica con quelle delle altre donne.

All’interno, dunque, dei tanti siti pro ANA esistono sfumature e correnti di pensiero differenti, ma sembrerebbe che questi siti raccolgano soprattutto un inno al disturbo alimentare.

Alcuni promuovono addirittura la “magrezza ad ogni costo”; altri hanno lo scopo manifesto di “aiutare gli altri a raggiungere i propri obiettivi, ossia la perfezione [ossia, la magrezza, N.d.T.]”.

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Laura Freberg, docente di psicologia all’UCLA, si domanda, dunque, quanto dovremmo preoccuparci dell’impatto che questi siti possono avere su persone che già hanno instaurato un disturbo alimentare e su adolescenti o giovani donne (le categorie più a rischio di svilupparne uno) sane.

La dott.ssa Freberg, per rispondere, si rifà a uno studio sugli adolescenti condotto da un gruppo di ricercatori di Standford del 2007. Tra gli adolescenti con una diagnosi di disturbo alimentare, infatti, molti risultavano  frequentatori di siti pro ANA, e ben pochi dei loro famigliari avevano idea dell’esistenza di queste pagine web.

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Ad oggi, però, non vi sono ancora sufficienti dati di ricerca a lungo termine per poter effettivamente ampliare e confermare gli esiti di questo studio.

Tornando sull’esistenza (e la diffusione) dei siti pro ANA, non possiamo non pensare che siano figli, dopotutto, di Internet.

La rete consente a persone diverse di ritrovarsi e aggregarsi in base a bisogni o desideri di qualunque natura, con una semplicità e velocità mai conosciuta prima. Non è dunque così sorprendente che esistano siti o “comunità” che inneggiano a qualcosa che va oltre il senso comune e soprattutto sfida le nostre capacità di comprensione.

 Negli ultimi anni si è notato un cambiamento nelle comunità pro ANA: se prima, infatti, gli utenti, in genere “celavano” sé stessi dietro a pseudonimi o a fotografie di modelle o icone, si è assistito ad un tentativo di diffusione di questi gruppi anche attraverso i social network, in particolare (come è ormai quasi ovvio quando si parla di social network) Facebook.

Nelle pagine (alcune delle quali prontamente rimosse) gli utenti parlavano di sé stessi “mettendoci la faccia”, non più nascondendosi dietro pseudonimi.

Alcuni psicologi, come il dottor Steven Crawford, direttore associato del Center for Eating Disorders a Baltimore, ipotizzano che questo “portare alla luce” ciò che prima veniva consumato e agito nell’ombra, spesso in realtà sotto gli occhi di famigliari e amici senza che questi si accorgessero di nulla, possa avvicinarsi ad una ribellione adolescenziale.

Ma potrebbe anche significare un’apertura verso il gruppo dei pari, la ricerca di un confronto non solo per conoscere e migliorare le proprie tecniche anoressizzanti.

A questo proposito, credo sia interessante ciò che afferma Rose, 17 anni, attiva frequentatrice per due anni di un gruppo pro ANA su Facebook: “Questi siti mi hanno permesso di trovare un luogo dove poter parlare del mio disturbo senza che ci fosse qualcuno che tentasse a tutti i costi di “mettermi a posto”, o di dirmi che quello che stavo facendo era orribile e disgustoso. Per me, buona parte del problema era il cercare di ricevere attenzioni. Mi sentivo così sola e volevo solo che qualcuno mi notasse, e ho trovato quel modo: anche se da altre persone sofferenti, sono stata però presa in considerazione”.

Le parole di Rose vanno in direzione dello studio condotto dalla dott.ssa Tierney sulle comunità pro ANA. Nel suo lavoro di ricerca del 2006, “Pro-anorexia websites and their implications for users, practitioners, and researchers,” Stephanie Tierney sostiene che questa tipologia di siti ha raggiunto una certa popolarità perché favorisce un senso di comunità e appartenenza tra le persone sofferenti di anoressia.

Gli studi relativi alle comunità online pro ANA sono ancora ai loro albori, ma sono riuscite ad individuare dei tratti e dei contenuti comuni a tutti i siti: raccomandazioni e consigli sul come perdere peso, immagini o messaggi motivazionali (le così dette Thinispiration, che possono assumere la forma di fotografie di modelle o personaggi famosi particolarmente magri, o mantra, come ad esempio: “Ricordati che il magro non passa mai di moda” e così via), chat room, etc.

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Magrezza non è Bellezza. I Disturbi Alimentari (e-book) & Booktrailer
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Molti ricercatori hanno provato a dare una risposta sulla ragione della nascita dei siti e comunità pro ANA. Secondo alcuni, i siti possono rappresentare semplicemente un hobby (Lapinski, 2006); un modo per protestare contro il materialismo della cultura moderna, e quindi questi siti nascerebbero sulla falsariga di un ascetismo restrittivo (Tierney, 2006, p.182).

Altri ricercatori sostengono che i siti funzionino come una strategia per affrontare l’impatto emotivo e le difficoltà di un disturbo simile (Mulveen & Hepworth, 2006).

Una delle ipotesi più accreditate, quella di Williams and Reid, sostiene che i siti pro ANA vadano ad intersecare il senso di controllo, onnipotenza e desiderio di ottenere risultati tipico della patologia anoressica.

Allo stato attuale di ricerca, possiamo affermare che siano tre le motivazioni per frequentare siti pro ANA:

– Le persone vi accedono per ricercare informazioni su come perdere peso o, se già hanno sviluppato un disturbo alimentare, per mantenerlo e “migliorarlo”.

Senso di comunità che si sviluppa tra i frequentatori del sito.

  • Oltre ad offrire, infatti, uno spazio “protetto” nel quale gli utenti possono esprimere liberamente le proprie idee e discutere le proprie preoccupazioni senza timore di giudizio, promuovono un senso di amicizia in un gruppo di persone che molto probabilmente sono carenti di relazioni interpersonali nella vita quotidiana (Davis e Lipsey, 2003) e che attraversano una fase di sviluppo in cui il gruppo dei pari rappresenta un punto di riferimento fondamentale per superare i diversi compiti di sviluppo e per costruire la propria identità. Il gruppo, infatti, funziona come un luogo di apprendimento e sperimentazione, di confronto e di valutazione delle proprie capacità che andranno poi a formare l’immagine di Sé.
  • E’ plausibile pensare che le persone con un disturbo alimentare vivano con fatica e difficoltà le occasioni sociali, poiché la maggior parte di esse prevede, in effetti, il consumo di cibo o bevande.
  • L’identità si costituisce attraverso e grazie le relazioni, ecco perché i siti pro ANA possono rappresentare una minaccia nella costruzione di un’immagine di Sé “sana”, favorendo, infatti, la sovrapposizione della propria identità al disturbo alimentare.

– Consentono agli utenti di sviluppare un senso di identità.

  • E’ probabile, come abbiamo detto, che dal momento in cui i disturbi alimentari permeano le relazioni personali e il concetto di sé (entrambi elementi fondamentali nello sviluppo dell’identità) il disturbo alimentare rappresenti buona parte dell’identità di chi ne soffre.

Ulteriori studi e approfondimenti sono necessari per comprendere più a fondo un fenomeno così complesso come quello dei siti e delle comunità pro ANA.

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DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ALIMENTAZIONE – PSICOLOGIA DEI SOCIAL NETWORK – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA –  

 

BIBLIOGRAFIA:

In Treatment – Psicoterapia in TV. S01E08 Sophie

In Treatment – Psicoterapia in TV

OTTAVA PUNTATA

Sophie

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In Treatment - Psicoterapia in Tv. S01E08 SophieCon Sophie vi è una situazione confusa in cui il contratto terapeutico si costruisce faticosamente in un’atmosfera di sospetto, di sfiducia e diffidenza.

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LEGGI LA RUBRICA: IN TREATMENT

Anche con Sophie, come con Alex, Paul sta portando avanti una complessa trattativa che precede il trattamento. Sophie si era presentata una settimana prima per chiedere una valutazione psichiatrica sul suo stato mentale. La ragazza è quindi ancor più lontana dal chiedere una terapia rispetto ad Alex. Ritorna per questo secondo incontro e la valutazione non è ancora pronta.Paul ha bisogno di più informazioni, di più dati. Ma non li raccoglie nei modi di una intervista formale di raccolta dati. Lo stile di Paul è inevitabilmente relazionale e psicoterapeutico. E inevitabilmente riesce a condurre Sophie nella posizione del paziente, a farle accettare di farsi analizzare.

Colloquio Psicologico - La Comunicazione Terapeutica #3. - Immagine: © Rob - Fotolia.com
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Sophie confessa alcuni suoi disagi con i genitori o nella palestra che frequenta (ricordiamo che Sophie è una giovanissima atleta che si sta preparando per le Olimpiadi). Gli ambienti che descrive Sophie sono tutti marcati da diffidenza, sfiducia, ipocrisia, falsità e trascuratezza. Almeno a dire della ragazza. I genitori di Sophie sono separati e la ragazza sembra disprezzare la madre e cercare morbosamente il favore del padre. Anche il rapporto con il suo allenatore, Cy, e sua moglie, è troppo intimo e intriso di ambiguità. È l’allenatore e non i genitori che accompagna Sophie alla seduta. Il quadro è molto confuso e Paul ipotizza che il malessere di Sophie dipenda da ambienti in cui le regole di relazione sono spesso infrante.

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Anche con Paul ci sono dei rischi di violazione delle regole, ma -almeno per ora- queste eventualità sembrano gestite bene. Per esempio Sophie si è presentata in seduta zuppa di pioggia e Paul ha superato la tentazione di aiutarla a cambiarsi chiamando in aiuto sua moglie (la comparsa della moglie è fertile di futuri sviluppi). Sophie durante la seduta parla spesso con una punta di disprezzo della figlia di Paul, sua compagna di Istituto. Infine, è capitato che Sophie abbia telefonato senza rendersene conto a Paul, permettendogli così di ascoltare dall’apparecchio un alterco tra la ragazza e il suo allenatore.

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Insomma una situazione confusa in cui il contratto terapeutico si costruisce faticosamente in un’atmosfera di sospetto, di sfiducia e diffidenza. Quest’ultima coppia di sostantivi non è scelta a caso. Essa costituisce anche il nome di un interessante libro dedicato alla relazione terapeutica: “La sfiducia e la diffidenza. Metodologia clinica per i casi difficili“ del collega Sabba Orefice. È un libro interessante che ci fa capire come i modelli relazionali (che così tanto appassionano Paul Weston) non debbano intendersi solo come accoglienza e anodino volersi bene, ma anche come confronto, conflitto, sfiducia e diffidenza.

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IN TREATMENT – TELEVISIONE-TV SERIES

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Fiction & Realtà: Coinvolgersi nella Lettura Favorisce l’ Empatia

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Leggere romanzi e fiction può aumentare la nostra empatia e migliorare le relazioni con gli altri?

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Una risposta a questa domanda è stata fornita dai ricercatori Bal e Veltkamp, i quali hanno condotto due studi presso la Vu University Medical Centre di Amsterdam. Al primo studio hanno partecipato 163 studenti universitari. Ad alcuni dei partecipanti é stato proposto di leggere “The adventure of the six Napoleons”, uno dei racconti della raccolta “Il ritorno di Sherlock Holmes”, ad altri un capitolo di “Cecità” di José Saramago e ad altri ancora un reportage sulla rivolta in Libia e sul disastro nucleare in Giappone. Nel secondo studio, alcuni dei 97 studenti che vi hanno preso parte, hanno letto il primo capitolo della “Cecità” di José Saramago, mentre agli altri è stato chiesto di leggere un articolo di giornale. In entrambi gli studi dopo la lettura è stato misurato il livello di coinvolgimento emotivo del lettore nella storia, mentre la capacità di provare ed esprimere empatia è stata rilevata, attraverso una scala quantitativa, prima dell’esperimento, subito dopo la lettura del testo e una settimana dopo.

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L’effetto paradossale del mettersi nei panni dell’altro. - Immagine: © Pona - Fotolia.com
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Dai risultati è emerso che gli studenti che avevano mostrato un forte coinvolgimento emotivo nella lettura delle fiction manifestavano un maggiore livello di empatia una settimana dopo l’esperimento, mentre subito dopo la lettura non emergeva nessun cambiamento. Dunque, la lettura delle fiction sembrerebbe avere un’influenza sulla capacità empatica e sul comportamento umano dopo un periodo di latenza e non nell’immediato. Gli studenti che avevano letto fatti di cronaca, invece, non mostravano nessun cambiamento nel livello di empatia né nell’immediato né a distanza di una settimana. Ma un risultato sorprendente riguarda gli studenti che avevano letto le fiction ma che non si erano sentiti coinvolti nella storia: in questo caso, i livelli di empatia risultavano addirittura più bassi.

Leggere fiction e romanzi, dunque, può avere il potere di trasportarci in un’altra dimensione, di coinvolgerci nelle vicende dei personaggi, di emozionarci e, nello stesso tempo, può avere degli effetti considerevoli sul piano sia emotivo che comportamentale, rendendoci più empatici e più predisposti alle relazioni con gli altri.

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Se un libro ci coinvolge tanto da sentirci parte della storia e delle avventure dei personaggi, questo avrà effetti sulla nostra vita e sulla nostra persona a distanza di tempo, ci renderà capaci di comprendere meglio gli stati d’animo altrui e ci consentirà di mettere in atto risposte emotive e sociali più appropriate.

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EMPATIA – LETTERATURA – ARTE

 

BIBLIOGRAFIA:

Attachment and Behavioral Inhibition – Part 2

 

– Attachment Series –

Attachment and Behavioral Inhibition - Part 2. - Immagine: © altanaka - Fotolia.com

Attachment and behavioral inhibition – Part 1

Although little association has been found between BI and infant attachment style, several studies have investigated the relationship (e.g. additive/interactive) between these measures and their effect on anxiety on childhood.

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Muris and Meesters (2002) investigated the relationship between attachment style, behavioral inhibition and anxiety symptoms within a normal population of 280 parent and adolescent pairs. The Attachment Questionnaire for Children (AQC), Behavioral Inhibition Instrument (BII), and the Revised Children’s Anxiety and Depression Scale (RCADS) were administered to both mothers and children. The results revealed a significant main effect of attachment on the overall anxiety scale as well as the subscales (i.e. social phobia, panic disorder, separation anxiety disorder, generalized anxiety disorder and obsessive compulsive disorder).

Insecure attachment and externalizing behavior problems. - Immagine: © lithian - Fotolia.com
Raccomanded: Insecure attachment and externalizing behavior problems

Compared to those with a secure attachment, children with insecure attachment had significantly higher anxiety scores. A significant main effect of behavioral inhibition on anxiety scores was only observed for the social phobia subgroup, with uninhibited children having higher scores. Finally, although there were significant main effects of both inhibition and attachment on anxiety symptoms, there was not a significant interaction between them. These findings replicate the link between BI and anxiety symptoms and insecure attachment and anxiety symptoms. While they both appear contribute to the development of anxiety symptoms, they do so independently of each other.

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Shamir-Essakow, Ungerer and Rapee (2005) examined an at risk sample of 104 pre-school children, 72 of whom were inhibited and 32 uninhibited, and their parents. Behavioral inhibition was measured using the Short Temperament Scale for Children (STSC) and attachment style was measured using the SSP. Parent and child diagnoses were conducted using the ADIS. Overall, 70 children were diagnosed with at least one anxiety disorder; no association was found between behavioral inhibition or attachment style and maternal anxiety. Behavioral inhibition and attachment were, however, significantly associated with child anxiety. Inhibited children and insecure children had higher levels of anxiety, independent of maternal anxiety. 

Mannasis, Bradley, Goldberg, Hood and Swinson (1995) examined the relationship between BI, insecure attachment and anxious symptoms in the offspring of mothers with anxiety disorders. Children (n = 20) between 18-59 months were assessed for BI in a laboratory setting and attachment using the SSP. Children’s anxious symptoms were measured using the CBCL. The results demonstrated that children who were classified as inhibited (n = 13) displayed more sleep problems than those who were classified as uninhibited. The children who were insecurely attached (n = 16) had higher scores on the internalizing scale of the CBCL. According to DSM anxiety scale on the CBCL, two uninhibited children with an insecure attachment style met criteria for separation anxiety disorder. Additionally, one inhibited child with an insecure attachment style met criteria for avoidant disorder.

As attachment and infant temperament share measurement characteristics, possible interactions and additive effects between them and anxiety have been investigated. The studies reviewed demonstrate that while BI and insecure attachment were both independently associated with child anxiety, there was no significant interaction found between them on child anxiety.

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Attachment and behavioral inhibition – Part 1

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REFERENCES:

Anoressia Nervosa. Come Funziona il Cervello Anoressico

 

Il Cervello Anoressico. -Immagine:© domenicodezio - Fotolia.comL’attenzione selettiva può distorcere la percezione che le ragazze anoressiche hanno del proprio corpo, ma può spiegare da sola una così grande differenza tra il dato di fatto (i 40 kg) e la sensazione di essere irrimediabilmente grasse? A quanto pare, la causa di questo gap va ricercata nella struttura neurale delle persone con anoressia nervosa.

 LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: ANORESSIA NERVOSA -AN

Da anni gira su YouTube un video che si chiama The Mirror – Lo Specchio – Anoressia, creato dal sito svedese abkontakt.se, che ben rappresenta la percezione distorta del proprio corpo e delle proprie forme che caratterizza le ragazze anoressiche. Fianchi troppo larghi, pancia troppo sporgente, gambe troppo grosse, anche quando si arriva a pesare 40 kg, declamate con una convinzione che spiazza e con una sofferenza che si può quasi toccare. Essere in grave sottopeso e continuare a vedere il proprio corpo come enorme, sgraziato, grasso; si perde la speranza di poter cambiare la situazione, di poter essere finalmente “belle”.

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E davanti a disperate ragazze, ancor più spiazzati professionisti (psichiatri, psicologi, nutrizionisti, dietisti) a cercare di convincerle che 40 kg sono decisamente pochi e che del loro corpo non sono rimaste che pelle e ossa. 

La ricerca si fa allora assidua, inizia ad approfondire meglio se non ci sia qualcosa che non vada proprio nella percezione spaziale e visiva delle ragazze anoressiche. Continuare a urlare al mondo la propria disperazione davanti ai chili di troppo non può essere solo un capriccio, un pretesto. L’angoscia è tangibile, ne sono troppo convinte. Deve allora esserci qualcosa che non va a un livello più strutturale.

L'anoressia- Il corpo Invisibile. - Immagine: © deviantART - Fotolia.com
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Sappiamo che l’anoressia è una malattia, di origine psicologica, con grandi e gravi ricadute sulla salute della persona. Sappiamo anche che è qualcosa di simile a un disturbo di tipo ansioso: il cibo diventa un’ossessione, l’unica cosa a cui si può pensare sono i modi per evitare di assumere calorie o per smaltirle e si sviluppa la fobia di prendere chili su chili, con la percezione di non poterne prendere uno senza ingrassare in modo irrefrenabile.

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Sappiamo anche che nei disturbi ansiosi entra in campo una distorsione che ci porta a prestare attenzione in modo selettivo all’oggetto della nostra paura e a tutto quello che risulta a esso attinente. Tra le conseguenze, la percezione di una probabilità che quell’evento si realizzi viene stimata come più alta rispetto alla possibilità reale che la cosa temuta avvenga. Allo stesso modo, l’attenzione selettiva può distorcere la percezione che le ragazze anoressiche hanno del proprio corpo, ma può spiegare da sola una così grande differenza tra il dato di fatto (i 40 kg) e la sensazione di essere irrimediabilmente grasse?

A quanto pare, la causa di questo gap va ricercata nella struttura neurale delle persone con anoressia nervosa. O almeno, questa è la proposta di alcuni ricercatori tedeschi della Ruhr-Universität di Bochum, con a capo Boris Suchan, che hanno individuato un errore di comunicazione nel lobo sinistro, quello deputato all’elaborazione di immagini. La ricerca in questione, pubblicata su Behavioural Brain Research, ha confrontato i criteri di giudizio della propria immagine di 10 donne anoressiche e 15 donne senza alcun disturbo alimentare, da cui è emerso che mentre la maggioranza dei soggetti sani si vedeva solo leggermente più magra della realtà, le persone anoressiche si percepivano come molto più grasse.

A queste interviste si sono affiancate le immagini neurali catturate attraverso una risonanza magnetica svolta mentre le donne osservavano una serie di immagini, tra cui dovevano scegliere quella che a loro giudizio meglio rappresentava la propria silhouette. Le neuroimmagini prodotte hanno confermato come nelle persone anoressiche sia presente una connessione debole tra l’area FBA (area del corpo fusiforme) e l’area EBA (area del corpo extrastriata), entrambe collocate nell’emisfero sinistro. Sembra allora che in caso di anoressia nervosa la rete per il processamento delle immagini del corpo sia alterata anche dal punto di vista funzionale.

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Ecco allora l’Eureka! dei blog e dei quotidiani più o meno divulgativi che titolano “Anoressia, svelata l’origine del disturbo”, “Anoressia, la causa è un errore di comunicazione nel cervello”, e via dicendo. Ci sembra invece giusto lanciare un alert, ricordando che lo studio in questione raccoglieva i dati di appena 10 pazienti anoressiche e 15 soggetti sani, e che, nonostante l’entusiasmo che stimolano le ricerche svolte con l’ausilio di strumentazioni come la risonanza magnetica, constatare l’attività neurale o la struttura cerebrale di una persona anoressica non ha carattere esplicativo, ma solamente descrittivo, e non consente di conseguenza di parlare di cause neurali alla base del disturbo.

Quindi, sebbene sia fondamentale indagare le diverse componenti che possono contribuire a aumentare la nostra conoscenza su un problema così diffuso e invalidante come l’anoressia nervosa, è importante ricordare che ogni ricerca è un tassello in più ma non la risposta definitiva.

Sicuramente uno dei punti fermi rispetto all’anoressia e ai disturbi alimentari in genere, visto anche che l’età di insorgenza tipica si colloca nella fascia adolescenziale, è l’importanza di una buona prevenzione.

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La prevenzione che propone il progetto ProYouth, attivo in 7 Paesi Europei e co-finanziato dalla Comunità Europea si basa sull’utilizzo di una piattaforma web, consultabile all’URL www.proyouth.eu, che contiene una serie di strumenti e offre alcuni servizi importanti, come le chat individuali e di gruppo, in cui è possibile confrontarsi con uno psicologo in modo anonimo e gratuito. È sufficiente registrarsi alla piattaforma fornendo un indirizzo e-mail e scegliendo una password, e compilare in seguito un breve questionario che valuta il benessere personale. Dopo essersi registrati, si può usufruire dei servizi del sito in modo gratuito e anonimo (chat, forum, informazioni sui disturbi alimentari, blog), ed è possibile cancellare la propria registrazione in qualsiasi momento.

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Il ProYouth rappresenta un tentativo di aumentare il benessere psicologico in adolescenza e di combattere i disturbi alimentari sul nascere, prima che possano diventare davvero dannosi per la persona.

Per ogni dubbio o necessità potete scrivere a [email protected], lo staff vi risponderà al più presto!

Abbiate cura di voi.

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ANORESSIA NERVOSA -AN – DISTURBI  DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – ADOLESCENTI – NEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Fattori di Rischio per l’Insorgenza dei Disturbi Alimentari

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Competizione tra pari o influenza dei media: cosa  è più rischioso per l’insorgenza dei disturbi alimentari?

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E’ l’intervallo a scuola: “Mi dai una patatina?”, “No, non puoi, non voglio che ingrassi più di così!”.

Parole di terapia che testimoniano storie di etero e auto-criticismo tra teenagers. In adolescenza la competizione e il criticismo tra amiche e compagne di classe, possono esercitare un’influenza significativa in relazione all’insoddisfazione corporea nelle ragazze; molto più di quanto impattano gli ideali di magrezza trasmessi da televisioni e altri media.

L'anoressia- Il corpo Invisibile. - Immagine: © deviantART - Fotolia.com
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L’influenza dei media sull’immagine corporea, su body dissatisfaction e sui sintomi alimentari è da molto tempo oggetto di dibattito: alcuni studiosi ritengono che l’influenza dei media sull’insoddisfazione corporea possa poi esitare in disturbi alimentari, altri invece sostengono che il legame tra esposizione ai media e disturbi alimentari sia inconsistente.

 

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Lo studio pubblicato sul Journal of Youth and Adolescence ha confrontato gli effetti della pressione competitiva tra pari con l’influenza dei media sull’insoddisfazione corporea e sintomi alimentari in un campione di circa duecento ragazze adolescenti.

 A seguito di una serie di dati raccolti mediante una batteria di self-report, l’esposizione a ideali di magrezza attraverso programmi televisivi o social media non si è rivelato un fattore predittivo di outcome negativi legati all’immagine corporea, mentre era proprio il livello di pressione competitiva tra pari una variabile predittiva significativa dell’insoddisfazione corporea.

Inoltre in tale modello che considera comunque un numero limitato di fattori, la competizione tra pari predice i sintomi di disturbo alimentare, non a breve, ma a lungo termine.

 

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DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE –  TELEVISIONE – ADOLESCENTI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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