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Recensione – Il Trono di Spade – A Game of Thrones – Sul Narcisismo del Principe Joffrey

 

Recensione - Il Trono di Spade (Game of Thrones)
Il Trono di Spade. Locandina HBO.

Il Trono di Spade affascina per una trama complessa, ricca di colpi di scena e con personaggi ben sviluppati dal punto di vista psicologico.

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Il Trono di Spade è una serie televisiva prodotta e trasmessa da HBO che racconta la trasposizione televisiva delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, collana di romanzi fantasy di George R.R. Martin.

La serie narra le vicende di un vasto regno sull’orlo di molte possibili guerre. Una guerra politica interna, tra le famiglie più influenti del vecchio continente. Una guerra contro il passato, la giovane erede di una dinastia da tempo detronizzata. Una guerra contro un nemico sconosciuto e misterioso: i temibili Estranei del nord.

Il Trono di Spade affascina per una trama complessa, ricca di colpi di scena e con personaggi ben sviluppati dal punto di vista psicologico, anche se a volte schematici e rudi.

Ecco perché nasce la curiosità e il gioco di riflettere su alcuni spunti e provare a condividerli con i lettori di State of Mind.

Tra le scene iniziali una ha colpito la nostra attenzione. Siamo nel terzo episodio della prima stagione e assistiamo a un dialogo tra la regina Cersei e suo figlio adolescente Joffrey, erede al trono. Biondo, fragile, carino, potenzialmente prepotente e violento. Ma prima occorre fare il punto sull’antefatto. Eddard Stark, lord di Grande Inverno, viene incaricato dal suo re (suo vecchio e amatissimo amico) di recarsi presso la capitale del regno per ricoprire la carica di Primo Cavaliere del Re. Durante il viaggio accade un increscioso incidente. Capita che il principe Joffrey, per farsi bello agli occhi della giovane figlia di Stark, minacci la sorella minore di quest’ultima (Arya) e un suo amico. Quando Arya si ribella a questo atteggiamento arrogante del suo principe, Joffrey si sente messo in discussione e alza il tiro impulsivamente: sfodera la spada.

IN TREATMENT - SERIE TV. LOCANDINA
In Treatment. Psicoterapia in TV – Introduzione

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A questo punto la custode di Arya, una metalupa, (i cani/lupo protettori degli uomini) percepisce la minaccia che incombe sulla sua padrona, si avventa sul principe e lo ferisce a un braccio. Joffrey, che è pur sempre un adolescente abituato all’agio e alla riverenza, si spaventa, urla, piagnucola, invoca pietà e fugge umiliato. A questo punto si accende il dramma politico degli adulti, poiché l’onore del principe dev’essere riparato e Cersei è tutt’altro che una madre capace di cogliere le occasioni di dolore, come l’umiliazione, per insegnare qualcosa a suo figlio.

No, per lei educare è insegnare la forza. Anzi di più. Occorre convincersi della propria onnipotenza. In pubblico Cersei entra a difesa del ragazzo, non accetta di lasciare il gesto impunito, sarebbe una debolezza, una incrinatura inaccettabile della sua immagine di futuro re. Quindi pretende un atto riparatorio, la testa di uno dei metalupi degli Stark.

Questo avviene ed è una delle scene più dolorose e ingiuste della serie. Una volta riparato il danno pubblico, Cersei si trova a gestire quello privato. Ha il timore che il figlio possa sentirsi indebolito da questa vicenda. E infatti egli arriva per curarsi, è triste, addolorato e umiliato. Come reagisce Cersei? mentre cura la ferita di Joffrey: “Un re deve avere cicatrici. Hai respinto un metalupo. Sei un guerriero come tuo padre”. Induce un racconto falso. Inizialmente tanto falso che lo stesso principe ha un moto di onestà e di autocritica: “Non sono un guerriero. Non ho fatto niente, il lupo mi ha morso e io ho gridato. Le sorelle Stark hanno visto tutto”.

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 Hanno visto che non è che un semplice ragazzo spaventato. In quella espressione tutti noi possiamo sentirci un po’ vicini a Joffrey, provare pena e compassione. Lì il principe mostra il dolore umano di un ragazzo che ha sbagliato e può entrare in contatto con la propria debolezza. In quel momento può essere moralmente salvo. Cersei potrebbe cogliere l’occasione per riconoscere la normalità della paura e dell’umiliazione come esperienze di vita tollerabili. Joffrey potrebbe essere indirizzato a conoscere le proprie paure, responsabilità e magari chiedere scusa. Lì poteva cominciare a divenire un uomo saggio e compiuto. Poteva allontanarsi dall’assetto sprezzante della sua famiglia. Dalla loro violenza. Cersei risponde: “Non è vero. Tu hai ucciso la bestia. Hai risparmiato Arya solo per l’affetto che lega tuo padre al suo”.

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Questa versione è talmente assurda che il principe prova a protestare ancora. In quel momento chiede aiuto, vuole sentirsi compreso e accudito. Ma la regina considera l’arbitrio nella costruzione del mondo e il disprezzo della verità come segni di forza e potere regale.

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Della regalità coglie l’arroganza e mai la saggezza: “quando Aerys Targaryen sedette sul trono tuo padre era un ribelle e un traditore. Un giorno siederai sul trono e sarai tu a decidere la verità”. Cersei lo spinge a credere al falso a credere all’invenzione della storia ad allontanarsi da una visione corretta della realtà, gli impone che la lettura arbitraria sia suo diritto regale e che un re debba disprezzare la verità. La realtà è roba per il popolo non per i re.

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Lo tratta come se fosse un onnipotente che ancora non sa di esserlo. Il dolore non esiste, basta che tu muti la verità. Gli altri sono oggetti da usare o gettare e la regola è che nessun dolore è necessario per un re. Così con l’intento di renderlo forte, Cersei rende suo figlio un principe che non sa soffrire, non sa entrare in contatto con il proprio dolore e con quello degli altri. Un principe che dissocia per mantenere vivi i suoi sogni di grandezza e regalità. Mentre lo guardiamo ci fa pena. Noi sappiamo che il doloroso rispetto della forza della realtà è la necessità di ogni principe medioevale ma anche di ogni persona. Sappiamo che proprio nel momento della sua intuizione di onnipotenza futura egli è un uomo finito, un fantoccio di pezza che sarà vittima della sua stessa storia.

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L’educazione di Joffrey assomiglia all’educazione di un moderno narcisista che viene educato dai genitori a considerarsi migliore e superiore agli altri. Che non può avere accesso alla paura, alle emozioni di umiliazione o di depressione.

La grandiosità protegge i genitori dai propri problemi psicologici e dai propri timori sulle debolezze del figlio e danneggia il figlio che si sente grande ma non sa avere un contatto compiuto e saggio con la realtà. La grandiosità che dovrebbe divenire forza diviene invece debolezza e fragilità.

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APPROFONDIMENTO

Gruppi di Parola per Figli di Genitori Separati: Una Risorsa alla Genitorialità

di Alessandra Cornale e Annabell Sarpato

Gruppi di Parola per Figli di Genitori Separati Una Risorsa alla Genitorialità. - Immagine: © Carlo Toffolo - Fotolia.comGruppi per Figli di Genitori Separati: nella maggior parte dei casi la rottura coniugale non è un punto di arrivo ma un punto di partenza.

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Nel momento storico attuale, dove l’incremento di separazioni e divorzi riflette uno scenario frammentato della famiglia, si osserva che nella maggior parte dei casi la rottura coniugale non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza per la ricerca di un nuovo equilibrio in cui ancora rabbia, aggressività, frustrazione, senso di colpa circolano nel contesto relazionale con possibili conseguenze negative sui figli. A volte per i genitori, presi dalle proprie vicende personali, può risultare difficile riconoscere il disorientamento dei figli, aiutarli a elaborare gli eventi, la sofferenza e i cambiamenti. Infatti, è da tempo confermato dalla ricerca e dall’esperienza che il dolore e le difficoltà dei bambini coinvolti in questa difficile transizione permangono anche nel lungo periodo e necessitano di una risorsa ritagliata sui loro bisogni.

In quest’ottica, si inserisce la risorsa dei Gruppi di Parola per figli di genitori separati (Marzotto, 2010), in cui i figli di famiglie divise possono mettere parola sul dolore, prendere le distanze dal conflitto ed avere una nuova consapevolezza dei propri bisogni e delle proprie domande.

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In Italia, i Gruppi di Parola sono una realtà piuttosto recente: sono stati introdotti, infatti, per la prima volta nel 2006 dalla professoressa Costanza Marzotto, presso il Servizio di Psicologia clinica per la coppia e la famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Il Gruppo di Parola ha una struttura specifica: è composto da un minimo di quattro a un massimo di dieci bambini tra i 6 ei 12 anni e segue un percorso di quattro incontri di due ore ciascuno, condotto da conduttori debitamente formati, preceduti da un incontro di presentazione di gruppo ai genitori. L’organizzazione prevede i primi tre incontri solo per i bambini e nella seconda parte del quarto incontro sono attesi i genitori. Al termine del ciclo di incontri, mamma e papà possono richiedere un incontro di restituzione facoltativo con i conduttori. La partecipazione ai Gruppi di Parola offre un’occasione per accedere ai sentimenti e nominare le difficoltà che i bambini incontrano durante la vicenda separativa, affinché trovino delle soluzioni possibili e allarghino la comunicazione con i genitori.

Nel gruppo, i bambini hanno la possibilità di confrontarsi, di esprimere i loro vissuti e le loro emozioni in uno spazio sicuro, caratterizzato dalla “confidenzialità”. Quest’ultimo aspetto risulta essere molto importante e rassicurante per i bambini: essi devono sentirsi liberi di parlare di quello che stanno vivendo, protetti dal segreto che verrà mantenuto dalle conduttrici e dagli altri membri del gruppo. Attraverso il confronto e il rispecchiamento, i bambini possono trovare soluzioni pratiche ai piccoli e grandi problemi della riorganizzazione familiare (ad esempio, le due case, i nuovi compagni di mamma e papà, la distanza da un genitore, il conflitto coniugale….) e identificarsi gli uni con gli altri per far tesoro delle reciproche esperienze, uscendo da quel sentimento di solitudine che spesso li colpisce.

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 Un momento significativo del Gruppo di Parola avviene durante l’ultima ora del quarto incontro: in questo momento, i bambini hanno modo di presentare a mamma e papà una letterona congiunta che essi hanno scritto per loro; in un secondo momento i genitori hanno la possibilità di rispondere al gruppo con dei messaggi anonimi, che vengono letti dalle conduttrici di fronte ai bambini e agli altri genitori.

Questo momento, carico di forti ed intense emozioni,  permette ai bambini di stare con la loro mamma e il loro papà insieme, che così trasmettono un messaggio importante della loro presenza e del loro amore, nonostante l’interruzione del legame coniugale.

Il Gruppo di Parola può rivelarsi una valida risorsa per aiutare i bambini a riposizionarsi nel corpo familiare e riconoscere ciò che resta di fecondo pur nel dolore che stanno vivendo, senza sentirsi colpevoli della separazione dei genitori; attraverso il gruppo, apprendono e consolidano il messaggio più importante che ogni figlio di genitori separati deve acquisire: nonostante la separazione, mamma e papà continueranno ad amarli e a rimanere per sempre i loro genitori.

 

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DIVORZIO – FAMIGLIA – GENITORIALITA’

 

APPROFONDIMENTI: 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Marzotto C. (a cura di) (2010). I Gruppi di Parola per figli di genitori separati. Milano: Vite e Pensiero Editore.

Mamme Obese e Neonati Teledipendenti

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Neonati Teledipendenti: Le mamme, in particolare quelle obese, utilizzano frequentemente la TV per intrattenere e calmare i bambini più agitati e attivi.

 

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La scoperta, fatta dai ricercatori della University of North Carolina at Chapel Hill, si aggiunge alla mole di conoscenze che può contribuire a spiegare il tasso crescente di obesità e inattività nei bambini statunitensi, e ha permesso di sviluppare strategie comportamentali ed educative per aiutare le madri a far fronte a questo problema.

Lo studio, condotto dalla nutrizionista Margaret E. Bentley, è il primo a esaminare l’interazione tra i fattori di rischio materni e quelli infantili nel modellare il comportamento dei giovani telespettatori nell’infanzia.

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Il team di ricercatori ha studiato le abitudini di un campione di 217 madri nere e a basso reddito e dei loro figli, per valutare il rischio di obesità nei bambini. I ricercatori hanno osservato le madri e i bambini nelle loro case a 3, 6, 9 12 e 18 mesi di età, raccogliendo informazioni socio-demografiche, sul temperamento infantile e sull’esposizione alla TV; per esempio hanno chiesto quanto spesso la TV era accesa, se c’era un televisore nella camera da letto del bambino, e se la TV era accesa durante i pasti. I ricercatori hanno anche intervistato le madri perché valutassero l’umore dei loro figli e i livelli di attività e agitazione.

 

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I risultati rivelano che le madri obese e senza un diploma di scuola superiore, che passavano molto temo davanti alla TV, e che avevano un bambino agitato, erano più propense a mettere i loro bambini davanti alla TV. In 12 mesi, quasi il 40 % dei bambini sono stati esposti a più di 3 ore di TV al giorno – un terzo delle ore di veglia.

La televisione, se usata come mezzo di intrattenimento d’elezione, può limitare la responsività materna ai comportamenti infantili, per esempio può portare le madri ad ignorare i segnali di sazietà del bambino. 

 

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Questo lavoro ha permesso ai ricercatori di progettare strategie di intervento sulla relazione madre/bambino; alle madri di bambini molto agitati, per esempio, è stato insegnato come calmare i figli senza sovralimentarli o metterli continuamente davanti alla televisione.

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BIBLIOGRAFIA:

Muore a 53 anni Susan Nolen-Hoeksema, grande studiosa del legame tra Ruminazione e Depressione

 

 

 Muore a 53 anni Susan Nolen-Hoeksema, grande studiosa del legame tra Ruminazione e Depressione - Immagine:  © Yale University
Susan Nolen-Hoeksema , Psicologa, ricercatrice e Capo del Dipartimento di Psicologia all’università di Yale, è morta il 2 gennaio 2013 all’età di 53 anni in seguito a un operazione chirurgica.

Il 2 gennaio a seguito di un intervento cardiaco è morta Susan Nolen-Hoeksema, professoressa di psicologia alla Yale University che ha esplorato per prima la prevalenza degli episodi depressivi tra le donne e l’importanza dello stile di pensiero ruminativo come fattore di mantenimento e di rischio per la depressione (Nolen-Hoeksema, 2000).

Il particolare, l’interesse di Susan Nolen-Hoeksema si è focalizzato negli anni sulle possibili spiegazioni della prevalenza della depressione tra le donne (doppia rispetto agli uomini) e, più recentemente, ha indagato le differenze di genere nei problemi di abuso di alcool, nonché la relazione tra alcolismo e depressione (Nolen-Hoeksema, 2004).

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Dalle queste ricerche, la variabile che sembra fare la differenza tra il genere e la tendenza a sviluppare sintomi depressivi è la ruminazione; esisterebbe cioè una maggior tendenza femminile a ragionare sulle cause e le conseguenze di una situazione problematica, contrapposta a una maggiore tendenza ad agire da parte degli uomini.

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Intervista con il Prof. Dimaggio – #2 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale: Verso il Cambiamento. - Immagine: © Frederic Bos - Fotolia.com
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Questi studi focalizzati sulla vulnerabilità femminile hanno portato la ricercatrice a vincere nel 2001 il premio della commissione per le donne in psicologia della Amercan Psychiatric Association e nel 2002 il premio per la carriera di ricercatrice da parte del National Institute of Mental Health.

Per chi si occupa di ricerca, il nome di Nolen-Hoeksema richiama soprattutto gli studi sulla ruminazione, che lei ha definito come “la tendenza a rispondere a un disagio focalizzandosi sulle cause e sulle conseguenze dei propri problemi, senza intraprendere nessuna azione di problem solving concreto”. In questo senso, ha senz’altro contribuito a spostare il focus dell’attenzione rispetto al ruolo delle cognizioni nei disturbi mentali dai fattori automatici come le distorsioni cognitive o i bias ai fattori più “volontari”, che richiedono l’impiego costante di risorse attentive e cognitive e che rappresentano oggi un importante tassello nel trattamento protocollizzato dei disturbi d’ansia e dell’umore.

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Negli ultimi anni la ricercatrice si è occupata del ruolo della ruminazione in altri disturbi, come i disturbi di abuso di sostanze e i disturbi alimentari, mostrando come i ruminatori abbiano più probabilità rispetto alle persone che non ruminano di mettere in atto comportamenti impulsivi e disfunzionali, come ubriacarsi e abbuffarsi (Nolen-Hoeksema, Stice, Wade & Bohon, 2007).

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Le ultime ricerche di Nolen-Hoeksema si stavano focalizzando sulla componente adattiva e funzionale della riflessione su se stessi, del modo cioè in cui la ruminazione può avere una controparte costruttiva, che porti a una crescita personale e non a un doloroso black-out (Nolen-Hoeksema, Wisco & Lyubomirsky, 2008) In questo senso, i suoi lavori stavano indagando le componenti personali e temperamentali che possono facilitare l’utilizzo di un’auto-riflessione positiva e l’evitamento di una ruminazione negativa e sterile.

Quella che la Professoressa Nolen-Hoeksema lascia è una comunità scientifica che ringrazia per il suo contributo, per l’aiuto che ha apportato a spostare l’attenzione sulle modalità di pensiero e sui training di gestione della ruminazione. Questo serve agli addetti ai lavori, in un mondo in cui, dalle parole di Nolen-Hoeksema “quando abbiamo una pausa dalle nostre attività quotidiane la maggior parte di noi è inondata da preoccupazioni, pensieri e emozioni che scorrono incontrollate, prosciugando le nostre energie sempre di più. Il mondo sta soffrendo di una epidemica eccessività di pensiero”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?

 

La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.comLEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

Quali aspetti della personalità favoriscono una tendenza alla procrastinazione distruttiva?

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La procrastinazione si riferisce all’atto di sostituire attività prioritarie e importanti con attività piacevoli o compiti meno rilevanti o urgenti. Il procrastinatore è colui che rimanda le cose importanti con l’intento di occuparsene in un altro momento e così rischia di chiudersi nella gabbia del domani.

Abbiamo discusso di come la procrastinazione possa essere una strategia pericolosa e di quanto si importante monitorare la propria tendenza a procrastinare. Il dubbio successivo è: quali aspetti della personalità favoriscono una tendenza alla procrastinazione distruttiva?

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Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com
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Un recente studio di Harrington (2005) considera il rapporto tra diverse componenti cognitive e la tendenza a procrastinare l’attività di studio in studenti universitari. Harrington ci mostra il ruolo di due componenti: intolleranza alla frustrazione e autovalutazione globale.

L’intolleranza alla frustrazione rappresenta la richiesta assoluta che le realtà sia esattamente come noi la desideriamo, una pretesa (es: la vita deve essere sempre facile e libera da ostacoli) e l’insostenibilità della sua frustrazione (es: non posso sopportare di fare cose difficili o di combattere contro ostacoli).

L’autovalutazione globale  rappresenta la definizione del proprio valore personale come dipendente dal raggiungimento di certe condizioni assolute (es: sono una persona di valore solo se ho sempre successo in quello che faccio).

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Queste due convinzioni estreme e assolute, spesso tanto radicate dall’essere implicite nella coscienza individuale, rappresentano un carico pesante sullo stato emotivo presente. Se la fatica è insopportabile e il fallimento implica l’essere totalmente inadeguato allora lo stress e la paura di fallire innanzi a un compito diventano molto più intense.

Certo questi piani pretenziosi o generalizzati ci illudono (1) che esista una vita senza fatica e dolori, che sia legittimo auspicarla e richiederla oppure che (2) esista la possibilità di ottenere la rassicurazione di essere persone di valore una volta per tutte. Abbandonare questi piani significa (1) abbracciare quella leggera malinconia dell’essere pulviscolo nell’universo, (2) capire che solo dolore, fatica e sfida conducono alla soddisfazione, (3) accettare che del valore personale nulla in fondo si può dire.

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BIBLIOGRAFIA:

Il Telefono Cellulare Non ci Aiuta a Lavorare Bene

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuando siamo impegnati in un’attività le brevi interruzioni – come i pochi secondi necessari a far tacere il cellulare che suona – hanno un effetto sorprendentemente grande sulla nostra capacità di portare a termine ciò che stiamo facendo.

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Lo studio, condotto alla Michigan State University, ha esaminato 300 persone mentre erano impegnate a eseguire una sequenza computerizzata e ha rivelato che le interruzioni di circa tre secondi raddoppiavano il tasso di errore.

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Le brevi interruzioni sono onnipresenti al giorno d’oggi: sms, notifiche di messaggi in entrata, o il collega di lavoro che ci distrae mentre lavoriamo. Ma, secondo i ricercatori, gli errori che ne derivano possono essere disastrosi per i professionisti impegnati in attività particolarmente difficili e impegnative, come ad esempio quelli che si occupano della meccanica degli aerei o i medici del pronto soccorso.

Il fattore determinante, spiega Altmann, non è la durata dell’interruzione – infatti anche brevissime interruzioni hanno avuto un grande impatto sulla prestazione ottenuta al compito dai partecipanti all’esperimento – ma il fatto che l’interruzione costringe il soggetto a spostare l’attenzione da un compito ad un altro, per questo anche brevissime interruzioni sono disturbanti quando si verificano nel corso di un processo che richiede una riflessione approfondita

Una soluzione, soprattutto quando gli errori hanno un costo, potrebbe essere quella di progettare un ambiente che protegga dalle interruzioni…a cominciare dall’obbligo di spegnere il cellulare!

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BIBLIOGRAFIA:

La Solitudine: Cartina Tornasole della Nostra Identità

 

Di Maria Laura Falduto e Pasquale Romeo

La Solitudine- Cartina Tornasole della Nostra Identità. - Immagine: © photowings - Fotolia.comLa solitudine è una spia indicatrice di una normale condizione di benessere specie se vissuta con equilibrio e in maniera sintonica con se stessi. La capacita di stare soli è un elemento fondante, come diceva Winnicott e non dipende dalla vicinanza fisica. Si può star soli anche in compagnia e sentirsi in compagnia essendo soli. 

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La solitudine riguarda più campi ed è fonte di studio e di confronto fra varie branche della filosofia, della letteratura, dell’antropologia e della psichiatria da secoli. Argomento intriso di molteplici significati, appare come una finestra sul mondo nel campo delle scienze umane e sociali, riflettendo uno spettro di condizioni che vanno dall’appartenenza e differenziazione dell’adolescente alla noia ed alla paura dell’anziano. La solitudine, condizione imprescindibile della nostra identità, definisce chi siamo per noi stessi e per gli altri, può fungere da fattore predisponente di alcune patologie come la depressione o al contrario essere altresì un potente cuscinetto specie in età adolescenziale tra l’accettazione di sé e quella dei propri pari.

Immagine: The Loneliness of a Sappy Man. © 2012 Marco Piunti. www.trattogrullo.com
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L’essere umano comincia a fare i conti con la solitudine proprio nella fascia di età che dalla pubertà si snoda verso l’età adulta, trovando il suo fulcro principale nell’adolescenza: in questa particolare fase, l’identità in formazione del ragazzo oscilla tra il bisogno di indipendenza, la ricerca dei propri spazi ed esperienze e quello di sicurezza-attaccamento verso le figure socio-affettive più prossime. E’ in questo periodo, caratterizzato da profondi cambiamenti sia fisiologici che strutturali che anche la dimensione affettiva e  cognitiva viene investita e caricata di significati molteplici.

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L’adolescente può vivere come un marchio d’infamia la condizione dell’essere solo e manifestare disagio in varie forme. E’ sorprendente, ma oltretutto preoccupante, scoprire da recenti studi nell’ambito della neuropsicologia, quali quelli condotti da U. Sabatello nel 2010 sulla devianza giovanile e sui disturbi della condotta, come molti dei pre-adolescenti autori di reati, ai test psicologici ottengano un alto punteggio nelle scale della depressione e dell’ansia. Ciò pone i clinici e gli esperti di fronte all’esigenza di valutare attentamente i loro ruoli per sostenere al meglio il ragazzo nel raggiungimento dei suoi compiti evolutivi.

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I teenagers percepiscono negativamente la solitudine e vi associano rabbia e tensione. Sembra una resistenza notevole alla crescita e quindi in senso lato al cambiamento, impedendo il gioco dei processi identificatori e il nascere della creatività. Elaborare e saper accettare il proprio senso di solitudine è una condizione imprescindibile per diminuire il proprio senso di separatezza: la sperimentazione della solitudine si rivela quel quid di svolta per l’affermazione della propria identità: stare con sé stessi, per sperimentarsi, diventa condizione preliminare al saper  stare con gli altri.

E’ come, se ad un tratto, si togliesse di dosso la coperta di Linus (o l’oggetto transazionale per dirla alla Winnicott) e  si facesse della solitudine sperimentata qualcosa di nuovo, una verità che non riscalda ma illumina! La gestione della solitudine in questa età può costituire un frutto prelibato, come la mela di Adamo, foriero di sofferenza ma anche di conoscenza.

Tuttavia, la capacità di avvertire la solitudine muta con la situazione contingente come se il nostro apparato psichico ne modificasse la soglia di percezione in base alle circostanze: nella condizione senile per esempio, la solitudine sembra maggiormente stigmatizzata, non per niente la depressione dell’anziano ha una prevalenza notevole divenendo patologico. Le perdite associate al normale decadimento legato all’età quali la perdita dell’udito per esempio, possono influire sulla percezione di solitudine e d’esclusione sociale, e conseguentemente limitare le interazioni sociali.

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Notevole importanza assumono senza alcun dubbio fattori sociali importanti quali il pensionamento e la perdita del ruolo sociale, la capacità d’essere utile agli altri, la mancanza di hobbies e la progressiva perdita delle performance cognitive e percettive che incidono sul vissuto del soggetto e sul suo usuale svolgimento delle azioni della vita quotidiana. Per tal motivo la vecchiaia diventa una malattia se non sufficientemente preparata in gioventù, se la vita non è stata prudentemente arricchita da ulteriori interessi oltre che da adeguati sostegni affettivi.

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com
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Parallelamente alla solitudine sperimentata dall’anziano, quella del malato mentale è altresì invalidante: Borgna la definisce sia morale che sociale, sia endocentrica che esocentrica, poiché coinvolge il singolo nello stare con sé stessi ma anche con gli altri. Una solitudine che si esercita su sé stessi depauperandosi dei propri oggetti interni, in una vuotezza del presente ed una mancanza di progettualità futura. Una solitudine condizionata dal proprio deserto interiore, o dal popolamento di oggetti persecutori. Il malato intrattiene un monologo con sé stesso sempre più povero nel contenuto e nella forma, un monologo che si riduce al pronome personale Io. 

La solitudine è intimistica, cioè appartiene alla sfera del privatissimo “non è spesso condivisibile” suscitando dei sentimenti conflittuali di amore e di odio. E’ possibile parlare in un salotto, mentre si banchetta in compagnia, tra amici di un argomento così privato quale la solitudine? forse no! Nella solitudine vi sono le radici dell’essere, con la solitudine emerge ciò che c’è di più vero e profondo. Diventa un argomento salottiero se se ne sviscera la sua parte più estroversa vale a dire la riflessione di sé per stare meglio con gli altri. Se è possibile fare quello che dice Tibullo “Sii una folla per te stesso” allora è possibile anche stare con gli altri essendo soli (P. Romeo, 2008).

La solitudine è una spia indicatrice di una normale condizione di benessere specie se vissuta con equilibrio e in maniera sintonica con se stessi. La capacita di stare soli è un elemento fondante, come diceva Winnicott e non dipende dalla vicinanza fisica. Si può star soli anche in compagnia e sentirsi in compagnia essendo soli. 

Forse in quest’ultima definizione vi sta il segreto della sana solitudine vincendo l’usuale paradosso secondo cui non si può essere contemporaneamente con e senza l’oggetto.

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BIBLIOGRAFIA:

1. Borgna, E. (2001). Malinconia. Milano: Feltrinelli.

2. Gabbard, O. (1995). Psichiatria Psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina.

3. Romeo, P. (2008).  Soli soli soli. Brescia: Bietti.

4. Sabatello, U. (2010). Lo sviluppo antisociale dal bambino al giovane adulto. Milano: Raffaello Cortina.

5. Winnicott, D. (1969). The capacity to be alone in the maturation processes and facilitating environment. Londra: Karnac.

Recensione: La Migliore Offerta di Tornatore- Ritratto di un Escluso

La Migliore Offerta

di Giuseppe Tornatore

Recensione

 

La-migliore-offerta_di Tornatore- Gennaio 2103 - Locandina

La Migliore Offerta – Recensione: Si rivela la fragilità del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione, perde la testa.

L’ ultimo film di Tornatore La Migliore Offerta si propone come un misurato mystery psicologico; non certo un thriller mozzafiato giocato su intrecci di complessità algoritmica, ma un intrigo dal sapore un po’ retrò costellato di enigmi (veri o immaginari) e presunte verità che si rivelano di volta in volta non essere mai tali.

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Organo propulsore di tutto l’impianto è la figura del protagonista, grazie anche alla lodevole interpretazione di Geoffrey Rush nei panni di Virgil Oldman, noto e ricchissimo battitore d’aste, imbattibile nello stimare e riconoscere capovalori d’arte ma umanamente indurito da tutta una serie di manie, superstizioni e piccole fobie che, benché non gli impediscano di eccellere nel suo mestiere, ne minano irrimediabilmente le competenze sociali e relazionali.

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All’inizio della vicenda la vita di Oldman sembra malgrado tutto scorrere tranquilla su binari ben oliati, impostata com è ad un rigido controllo (sic) delle potenziali intrusioni dal mondo esterno (guanti e fazzoletto sulla cornetta sono dettagli un po’ didascalici, ma servono a tratteggiare la psicologia del personaggio), fino a quando non entra in scena una giovane e misteriosa ereditiera che convoca il professionista per effettuare una stima del proprio patrimonio, custodito in una fatiscente e meravigliosa villa dalle atmosfere un po’ hitchcockiane.

Da questo momento in avanti ne La Migliore Offerta si rivela la fragilità psicologica del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione per una donna reale (fino a quel momento si era limitato ad amare le donne dei dipinti che collezionava da una vita), perde immediatamente la bussola.

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Il confronto con l’esistenza vera (o presunta tale) compromette il suo faticoso e misurato distacco e ne smaschera l’ingenuità e la miopia; dal momento in cui non gli è più possibile nascondersi dietro un’ostentata sterilità affettiva, si dimostra sfacciatamente impacciato e vulnerabile.

Al di là quindi dei meriti (e demeriti) artistico-cinematografici della pellicola, credo sia interessante riflettere sull’evoluzione di questa personalità nevrotica e ossessiva, e sulla debolezza di certe strutture psicologiche all’apparenza granitiche e incontrastabili.

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L’atteggiamento iniziale del protagonista de La Migliore Offerta è improntato a un tipico, ineccepibile senso del dovere e a  un’altrettanto intransigente pretesa di impeccabilità nel comportamento altrui; quando la misteriosa committente insiste a non presentarsi agli appuntamenti, adducendo scuse sempre più inverosimili, Virgil ha una reazione violenta e disordinata, perché intuisce la minaccia alla sua abitudine di avere tutte le situazioni perfettamente sotto controllo.

In generale, il  suo coinvolgimento interpersonale è pressoché nullo, tant’è che lo sentiamo chiedere ad uno dei suoi più stretti collaboratori e con cui lavora da una vita se sia sposato, e da quanto tempo.

Non ha alcun senso del ludico; la scena del ristorante in cui siede solo, coartato (e con i guanti) di fronte ad una torta di compleanno offertagli dal titolare, che non assaggerà perché si dice molto superstizioso e mancano alcuni minuti alla mezzanotte, rappresenta bene l’estraneità siderale che lo separa dagli altri personaggi che invece si godono la cena, e la tonalità emotiva che ne deriva.

L’eccessiva pretesa d’impeccabilità lo rende disarmato anche di fronte alla critica più banale; l’ereditiera che gli fa notare, con tono un po’ sprezzante, di non sopportare gli uomini che si tingono i capelli attiva immediatamente in lui il bisogno disperato di ripristinare un’immagine positiva di sé correndo dal barbiere a farsi togliere la tintura per scongiurare il rischio che il disprezzo altrui si traduca in disgusto ai propri stessi occhi.

 Il regista accenna in maniera un po’ frettolosa al trauma infantile (che non si nega a nessuno) a cui lo spettatore può far risalire il bizzaro comportamento di Virgil: un’infanzia passata in orfanotrofio, vittima di suore che con sadico compiacimento lo punivano facendolo sgobbare nel negozio di un antiquario.

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Da questa esperienza originaria il grande amore per l’arte, ma anche le ombrosità emotive e relazionali; Virgil s’ illude di sostituire il proprio nulla sul piano affettivo con l’estasi che prova ad ammirare i suoi dipinti femminili, depositari quindi per lui non tanto di un incalcolabile valore economico (su cui in realtà il cinico spettatore prova a fare due rapidi e increduli calcoli, durante la bellissima scena all’interno del caveau) ma della miracolosa investitura di fargli sperimentare una qualche intimità sentimentale, che possa redimerlo da quella intimità repressa e deviata che sperimenta nella vita reale, di cui non capisce assolutamente nulla.

Un bell’esempio di come le persone sofferenti si sforzino di difendere dolorosamente il proprio limitato orizzonte cognitivo ed emotivo, e di come in questo pericoloso lavorio perdano però la capacità di sentire gli altri, di capirli e di interpretarne le reali intenzioni e motivazioni.

 

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Gli Effetti Psicologici della “Politica del Figlio Unico” ( OCP ) in Cina

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Piccoli imperatori crescono: gli effetti collaterali psicologici della politica del figlio unico in Cina

Non solo effetti demografici ma anche psicologici per la controversa One Child Policy (OCP) – in italiano politica del figlio unico- cinese che dal 1979 mira a regolamentare le nascite in Cina.

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In una ricerca pubblicata il 10 Gennaio su Science sono state analizzate coorti di bambini nati immediatamente prima e immediatamente dopo l’introduzione della OCP, valutando alcune variabili psicologiche quali per esempio la fiducia verso gli altri e il risk-taking.

Dietro alle Teorie del Complotto, Cosa si Nasconde?. - Immagine: Costanza Prinetti - 2012
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Ritroviamo quindi nella ricerca due gruppi: il gruppo pre-OCP composto da soggetti che sono cresciuti con fratelli prima dell’introduzione della OCP, e il gruppo post-OCP costituito da individui cresciuti figli unici ma che avrebbero plausibilmente avuto fratelli se non fosse stato per la policy imposta. I ricercatori hanno coinvolto nello studio più di 400 soggetti sottoponendoli a compiti sperimentali nella forma di giochi a carattere economico.

Dalle analisi riportate risulta che gli individui cresciuti come figli unici a seguito della OCP erano significativamente meno fiduciosi, meno affidabili, meno pronti ad assumersi rischi, meno competitivi, più pessimisti e meno coscienziosi rispetto a coloro che, nati precedentemente all’introduzione della OCP, erano cresciuti al fianco di fratelli o sorelle. 

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Sono in gioco qui i fondamentali della relazione con l’altro. Sembrerebbe che tali effetti si mantengano anche in individui figli unici che durante l’infanzia abbiano avuto contatti significativi con i pari (siano essi amici o cugini o parenti).

A ragion veduta gli autori contemplano altri presumibili fattori come con-cause di tali differenze, tra cui l’età dei partecipanti allo studio (inevitabilmente diversa nei due gruppi) e l’incremento del capitalismo nel corso degli anni, anche se chiaramente la variabile maggiormente esplicativa di tali differenze psicologico-comportamentali sembra proprio l’essere nati prima o dopo l’introduzione della politica cinese del figlio unico.

Ci preme però ricordare ai lettori di non cedere alla facile generalizzare questi risultati agli altri figli unici del pianeta, ove non sia stata applicata una politica di controllo delle nascite e ove le differenze cross-culturali sono innegabili.

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BIBLIOGRAFIA:

In Treatment – Psicoterapia in TV. Recensione e Analisi del terzo episodio: S01E03 Sophie

In Treatment – Psicoterapia in TV

TERZA PUNTATA

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In Treatment S01 - Sophie - Immagine: Copyright HBO http://www.hbo.com/in-treatment/index.html#/in-treatment/episodes/1/03-sophie/index.htmlLo stato dissociativo di Sophie le permette di poter pensare di non avere bisogno di una terapia. Si è trattato solo di un incidente.

Nella terza seduta della settimana incontriamo quello che mi sembra il Paul migliore, finalmente rilassato e sorridente. È di nuovo una prima visita, ed è di nuovo un paziente non facilissimo, che pone una domanda terapeutica ambigua e sfuggente. Anzi, non c’è domanda terapeutica. Solo una richiesta di consulenza, un parere esperto. Ma il paziente è una giovane ragazza priva delle contorsioni mentali degli adulti. Il suo dolore è altrettanto complesso di quello di Laura e di Alex, ma la trattativa è molto meno subdola.

Sophie è un’adolescente che ha avuto un incidente stradale. La dinamica dell’incidente però non è chiara, è possibile che in qualche modo Sophie se lo sia procurato e quindi, in qualche modo, abbia cercato di suicidarsi. La ragazza non ricorda i dettagli dell’incidente e soprattutto non sa dire se veramente aveva l’intenzione di uccidersi.

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La richiesta di un parere psicologico, anzi psichiatrico, nasce da questa oscurità. Sophie era dissociata, ovvero ha agito in uno stato di coscienza disconnesso dal resto dell’attività mentale. Tecnicamente potrebbe essere un’amnesia dissociativa.

In Treatment - Psicoterapia in TV. Recensione di S01E02 Alex. - Immagine: © HBO
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Il caso è interessante sia nei suoi aspetti drammatici che psicologici. Una paziente del genere aggiunge un sapore da vecchia psichiatria viennese. Sophie per Paul è l’occasione di un percorso investigativo coinvolgente. Gli stati dissociativi sono un caso estremo di sofferenza mentale prodotta da gravi traumi reali in cui la persona è a rischio della sua vita. In questa situazione estrema di pericolo una risposta possibile è il “faint”, la brusca ed elevata riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. E’ una simulazione di morte. In questa situazione vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.

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Se questa condizione perdura a lungo non permette l’integrazione della memoria traumatica nel resto della vita mentale. Memoria che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo. Da questo processo deriva la frammentazione dissociativa (Liotti e Farina, 2011 LEGGI LA RECENSIONE SU STATE OF MIND). Vedremo in seguito come il caso di Sophie sia tagliato su questo modello teorico.

Lo stato dissociativo di Sophie le permette di poter pensare di non avere bisogno di una terapia. Si è trattato solo di un incidente.

Paul accetta la posizione diffidente di Sophie, ma al tempo stesso comprende il grande bisogno di accoglimento della ragazza e la sua sofferenza. È una puntata che allenta la tensione, dopo la ferocia sotterranea di Laura e di Alex. Riesce a convincere Sophie di avere bisogno di più incontri per poter stilare il suo parere e, in questo modo, aggancia la giovane paziente.

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BIBLIOGRAFIA:

Stereotipi Razziali e Mancanza di Creatività: un Processo Comune

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati di uno studio di follow-up dimostrano che il legame tra stereotipi razziali e la stagnazione della creatività può essere spiegata, almeno in parte, da un aumento della chiusura mentale.

Una nuova ricerca condotta alla Tel Aviv University suggerisce che gli stereotipi razziali e la mancanza di creatività hanno un meccanismo comune: il pensiero categorico.

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Anche se apparentemente molto diversi, questi due fenomeni hanno luogo perché ci si “fissa” su alcune categorie di informazioni e su un atteggiamento mentale convenzionale.

Stereotipi, Pregiudizi ed Euristiche
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I ricercatori hanno cercato di stabilire una relazione causale tra l’essenzialismo razziale – la convinzione che i gruppi razziali possiedono tratti di base e capacità stabili – e la creatività.

Hanno ipotizzato che, una volta attivata, la mentalità essenzialista porterebbe ad una certa riluttanza a prendere in considerazione punti di vista alternativi, con la conseguenza di una generalizzata chiusura mentale.

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I ricercatori hanno manipolato le credenze dei partecipanti sugli stereotipi razziale facendogli leggere uno di tre articoli: uno descriveva una falsa ricerca scientifica a sostegno degli stereotipi razziali, uno contrario allo stesso tema e uno sulle proprietà scientifiche dell’acqua.

I partecipanti hanno poi preso parte a un diffuso test sulla creatività chiamato Remote Associates Test durante il quale gli venivano date tre parole e loro dovevano trovare una nuova parola che le collegasse tra loro.

I risultati indicano che coloro che erano stati influenzati dalla visione essenzialista erano meno creativi, e risolvevano un numero significativamente minore di esercizi rispetto ai partecipanti degli altri due gruppi.

I risultati di uno studio di follow-up dimostrano che il legame tra stereotipi razziali e la stagnazione della creatività può essere spiegata, almeno in parte, da un aumento della chiusura mentale.

Insieme, questi studi suggeriscono che l’essenzialismo esercita i suoi effetti negativi sulla creatività modificando il modo di pensare delle persone, non tanto i contenuti del pensiero. 

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La ricerca suggerisce anche che gli stereotipi sono però abbastanza malleabili. Diversi aspetti che devono ancora essere esplorati, ma i ricercatori ipotizzano di utilizzare questi risultati per elaborare un programma di intervento in grado di ridurre gli stereotipi razziali, permettendo ai partecipanti non solo di diventare socialmente più tolleranti, ma anche di esprimere tutto il loro potenziale creativo.

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BIBLIOGRAFIA: 

“ Un segno invisibile e mio ” di Aimee Bender – Recensione

Recensione

“ Un segno invisibile e mio ”

Aimee Bender, 2011

 

Un-Segno-Invisibile-e-Mio-Beat, 2011
Un-Segno-Invisibile-e-Mio-Beat, 2011

 

Pubblicato nel 2001, questo romanzo di Aimee Bender offre la possibilità di viaggiare accanto alla sua protagonista, attraverso il groviglio interiore e personalissimo che la affanna e che lentamente riesce a sciogliersi quando finalmente incontra …la vita!

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Mona Gray è una bambina silenziosa, tenera, ottimista, fiduciosa nel mondo, grande osservatrice e molto molto responsabile! L’improvvisa e sconosciuta malattia che ‘ingrigisce’ il papà, la renderà tuttavia immobile e spenta, in cerca di una soluzione per salvare gli altri, il papà, se stessa.

Inizia a vivere in un mondo fatto di pensieri catastrofici che ci fanno da subito appassionare al suo bisogno di attenzioni, cure e spiegazioni sulle cose del mondo. Si affida così ai numeri, creando un sistema di credenze perfetto per risolvere ogni suo dubbio: numeri per strada, sui libri, sulle case..diventano la bussola che le permette di prevedere tutto.

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Pubblicato nel 2001, questo romanzo di Aimee Bender offre la possibilità di viaggiare accanto alla sua protagonista, attraverso il groviglio interiore e personalissimo che la affanna e che lentamente riesce a sciogliersi quando finalmente incontra …la vita!

Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com
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Durante tutto il racconto, ci muoviamo con Mona attraverso un mondo grigio e in cui l’atmosfera si fa a tratti tetra e carica di angoscia. Vien quasi voglia di “ticchettare” le dita sul libro, proprio come fa lei per annullare le paure che la assalgono!

Tra le molte letture possibili di questo romanzo, risulta interessante ovviamente quella psicologica.

Il quadro familiare freddo e anaffettivo, sembra aver creato nella piccola Mona una crescente paura verso tutto ciò che è emotivo, caldo, colorato. Le emozioni somigliano a mostri, terribili e fuori controllo. Manca nella protagonista un vero e proprio vocabolario delle emozioni, la capacità cioè di descriverle, esprimerle e raccontarle. La personalità di Mona è naif, bizzarra, a tratti crudele, ma è immediatamente facile leggere tra le righe le buone intenzioni celate dietro i suoi impiegabili (e a tratti inquietanti!) gesti quotidiani.

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Il modo in cui esplora il mondo è caratterizzato da paura e diffidenza, premonizioni catastrofiche e tentativi di contrastarle. La distanza dagli altri è necessaria e salvifica, ma estremamente dolorosa. Un senso di esclusione e di non appartenenza dominano nelle relazioni.

Ecco che si evidenzia in modo chiaro la parte più “sofferente” di Mona e contemporaneamente più “disturbante” per gli altri attori del romanzo: i pensieri catastrofici sul mondo (ossessioni e pensieri intrusivi di colpa) vengono annullati da rituali magici fatti di numeri e gesti ripetuti (compulsioni) e i suoi strani comportamenti allontanano e spaventano le persone che ha intorno.  

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Sebbene strani, questi comportamenti le permettono tuttavia di mettersi al sicuro, di sollevarsi dalla responsabilità che la insegue instancabile….Almeno finché il desiderio di una vita più colorata non inizia farsi pressante.

Il romanzo fa sperimentare molto da vicino questa parte sofferente e dolorosa di Mona con incredibile delicatezza e dettaglio. Può davvero insegnare, a chi vive vicino a qualcuno che soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo, ad andare oltre i faticosi comportamenti quotidiani per assumere un punto di vista più interno, più vicino alla sofferenza che li provoca.

Ad Aimee Bender il merito di essere riuscita a descrivere in modo così sottile e dinamico i pensieri di una mente apparentemente “congelata”, attraverso uno stile di scrittura efficace, rapido e sorprendentemente acuto.

Buona lettura!

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OSSESSIONI – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO- OCD – 

ATTACCAMENTO

Terapia Cognitivo Comportamentale delle Psicosi – Recensione

Recensione:

Terapia cognitivo comportamentale delle psicosi

Hagen, Turkington, Berge & Gråwe

 

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI, ECLIPSI 2012
TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI, ECLIPSI 2012

 

Un manuale essenziale per ogni operatore sanitario interessato ad applicare i principi della terapia cognitivo comportamentale al trattamento dei pazienti psicotici.

 

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A lungo la terapia cognitivo comportamentale è stata ritenuta adatta solo ai pazienti con disturbi d’ansia e depressivi, ovvero pazienti capaci di una buona alleanza terapeutica e di concordare e rispettare un contatto terapeutico realistico. Da qualche tempo sono invece emersi modelli in grado di confrontarsi con pazienti meno propensi a un’alleanza terapeutica chiara e afflitti da sintomi molto invalidanti. Tra questi, i pazienti psicotici sono quelli messi peggio. Uno degli ultimi libri pubblicati in Italia è quello di Hagen, Turkington, Berge e Gråwe (2012).

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L’adattamento di questi autori mantiene i principi di base della terapia cognitivo comportamentale: l’analisi cognitiva dei sintomi, la loro sdrammatizzazione decatatrofizzante e l’utilizzo di esercizi comportamentali che rendano la ristrutturazione cognitiva più “incarnata” e meno astratta.

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Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi. - Immagine: © svedoliver - Fotolia.com
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Nel caso delle psicosi, la grande sfida è la normalizzazione dei deliri e delle allucinazioni. Entrambi questi fenomeni possono essere ridotti a interpretazioni cognitive distorte di vecchio stampo. Le allucinazioni, soprattutto uditive, sono distorsioni delle percezioni subvocaliche che chiamiamo “discorso interno”, insomma il soliloquio mentale che ognuno di noi intrattiene con se stesso (l’analisi cognitiva delle allucinazioni è una delle parti più interessanti del libro). I deliri a loro volta, non è necessario dirlo, sono naturalmente casi da manuale di distorsioni cognitive.

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L’idea di Hagen, Turkington, Berge e Gråwe è che le tecniche di disputa e ristrutturazione cognitive sono applicabile anche a questi errori cognitivi, in maniera molto simile a quello che si fa per le idee di pericolo e di scarsa efficacia personali nei pazienti ansiosi.

Naturalmente occorre essere molto più cauti, essendo l’esame di realtà in questi pazienti più gravemente compromesso che negli ansiosi. E inoltre la capacità di tollerare l’impegno emotivo della terapia è più scarso in questi pazienti, che così potrebbero reagire con rifiuti, fughe, tentativi di sottrarsi non solo alla terapia ma addirittura alla seduta se sottoposti a ritmi troppo impegnativi.

 È quindi necessario monitorare continuamente lo stato emotivo del paziente, osservandone l’espressione del viso, la postura e il grado di agitazione e tenersi pronti a operare un rilassamento della tensione terapeutica utilizzando lo strumento della validazione e della rassicurazione.

Il modello terapeutico è anche molto didattico. I pazienti sono istruiti sulla reale natura dei loro deliri e delle loro allucinazioni, sempre con il fine di normalizzarle. C’è anche una componente socio-relazionale di reinserimento del paziente nel mondo esterno e di istruzione e addestramento dei familiari a gestire il paziente in casa.

Infine non è trascurato il disturbo bipolare, concepito all’interno di un continuum psicotico e non più come entità separata dalla schizofrenia.

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In conclusione, un manuale essenziale per ogni operatore sanitario interessato ad applicare i principi della terapia cognitivo comportamentale al trattamento dei pazienti psicotici. 

 

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La Comunicazione Emotiva: un Ponte tra Linguaggio e Musica

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Musica e linguaggio condividono origini e funzione, permettendoci di comunicare ciò che proviamo.

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La comunicazione emotiva costituisce un aspetto delle interazioni sociali di cui facciamo  esperienza ogni giorno. Ogni nostra frase o discorso veicola significati emotivi precisi e fornisce perciò ai nostri ascoltatori informazioni importanti su come ci sentiamo in un dato momento (immaginate di ascoltare la voce di vostra madre al telefono: potete capire se è triste, arrabbiata o  tranquilla anche solo dalle caratteristiche puramente “acustiche” della sua voce).

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Esattamente come accade per il linguaggio, anche la musica è in grado di comunicare emozioni all’ascoltatore: chi di voi non ha mai definito una canzone “allegra” o “triste”?

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Per quanto possa sembrare incredibile, il primo ad avanzare ipotesi su una presunta origine comune tra musica e linguaggio fu Darwin, nel 1871. Il famoso ricercatore sosteneva che questi due domini costituissero l’evoluzione di un “protolinguaggio musicale”, utilizzato dai nostri antenati per difendere il territorio, in fase di corteggiamento e infine proprio per comunicare le emozioni (Fitch, 2006). Se la teoria del “protolinguaggio” fosse vera, potremmo predire con sufficiente certezza che una persona con capacità deficitarie nell’elaborazione e nell’interpretazione della musica mostrerà difficoltà anche nel comprendere le emozioni veicolate dal linguaggio (quella che dai linguisti viene definita “prosodia emotiva”).

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A tal proposito, William Thompson, Manuela Marin e Lauren Stewart (2012) hanno condotto un recente studio al fine di testare la sensibilità alla prosodia emotiva del linguaggio parlato di soggetti affetti da amusia congenita. A causa delle anomalie cerebrali causate dal loro disturbo, i soggetti amusici hanno difficoltà a cantare con intonazione corretta, a tenere il ritmo di una canzone, a distinguere le tonalità dei suoni e a riconoscere brani senza avere il testo a disposizione (Stewart, 2011). Dal momento che il loro stato emotivo non subisce variazioni con l’ascolto di un brano, non amano particolarmente ascoltare la musica, la quale finisce raramente per far parte della loro vita quotidiana (McDonald & Stewart, 2008).

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La loro condizione ha portato numerosi ricercatori a chiedersi se il danno fosse circoscritto solo al campo musicale: è stato così scoperto che gli amusici, incapaci di percepire le variazioni minime di intonazione tipiche della musica, sono invece in grado di distinguere le più “grossolane” variazioni di tonalità linguistica (quelle ad esempio che differenziano una domanda da una affermazione, la cosiddetta “prosodia linguistica”) (Patel, 2008; Patel, Foxton & Griffiths, 2005).

Lo studio di Thompson e colleghi ha impiegato un campione di 24 soggetti, 12 amusici e altrettanti soggetti di controllo, ad ognuno dei quali è stato fatto ascoltare un set di 96 frasi registrate dal significato “neutro” (ad esempio “Il cucchiaio è nel cassetto”). Le frasi erano state originariamente pronunciate con l’intento di comunicare sei diverse emozioni (felicità, tristezza, tenerezza, irritazione, paura e un’emozione “neutra”). Ogni partecipante doveva indicare l’emozione percepita scegliendo una tra le sei opzioni, mostrate sullo schermo di un computer.

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I risultati dello studio hanno confermato l’ipotesi iniziale: i soggetti amusici risultavano meno accurati dei controlli nel distinguere le emozioni di serenità, tenerezza, irritazione e tenerezza. Ammettevano inoltre di riscontrare le stesse difficoltà nella vita di tutti i giorni, ad esempio parlando al telefono, dimostrando consapevolezza del loro problema.

Si tratta di un’importante prova empirica a supporto della teoria di Darwin: musica e linguaggio condividono origini e funzione, permettendoci di comunicare ciò che proviamo (Brown, 2000; Fitch, 2010).

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LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE – 

MUSICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2. - Immagine: © NLshop - Fotolia.com

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: La prima piaga: la sofferenza emotiva concettualizzata come una malattia fisica.

LEGGI LA PRIMA PARTE

 

Freud era un medico e praticò la medicina interna e poi la neurologia per molti anni, all’inizio della sua attività professionale. Utilizzò sempre nel suo lavoro le classificazioni dei disturbi psichici della psichiatria a lui contemporanea, e giunse ad influenzarla a sua volta (si pensi all’isteria d’angoscia, poi divenuta disturbo di panico nella classificazione DSM IV).

Le ricerche di Freud, tuttavia, non si focalizzarono sulle disfunzioni cerebrali. Grazie alla scoperta dell’inconscio Freud poté comprendere le forze psicologiche responsabili della genesi dell’isteria e di altre configurazioni emotive e comportamentali disfunzionali. Coerentemente con la consapevolezza che molti disturbi psichici hanno una base psicologica, Freud patrocinò l’ingresso di professionisti non medici nel campo della psicoterapia.

Nella prospettiva freudiana, dunque, la pratica psicoanalitica non ha una relazione necessaria con la medicina e la neurologia. Tuttavia, Freud non scisse mai del tutto i legami con la pratica medica in termini di concettualizzazione della sofferenza emotiva. Mentre apriva nuove vie applicando la teoria psicoanalitica a testi letterari, alle opere d’arte ed allo studio delle religioni, continuò a credere che il prestigio sociale della psicoanalisi dipendesse necessariamente dalla sua efficacia come strumento terapeutico capace di guarire varie sindromi cliniche.

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Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea. - Immagine: © hellotim - Fotolia.com
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La storia della psicoanalisi è ormai molto lunga. Gli obiettivi del lavoro psicoanalitico si sono molto ampliati. I benefici attesi da un trattamento psicoanalitico vanno molto oltre il miglioramento sintomatico. Già negli anni ’30 si è raggiunta la consapevolezza che lo specifico obiettivo di un trattamento psicoanalitico dovrebbe essere un cambiamento strutturale, un cambiamento permanente della personalità che includa il superamento del complesso di Edipo, lo sviluppo di meccanismi di difesa più maturi, il raggiungimento di un adeguato insight rispetto ai propri conflitti, un allentamento della rigidità del super io.

Da questo punto di vista, gli sviluppi del pensiero psicoanalitico al di fuori dell’ambito della psicologia dell’io hanno comportato un’estensione ancora maggiore degli obiettivi del trattamento. Obiettivi che oggi includono la riparazione di ferite narcisistiche, il raggiungimento dell’integrazione dell’identità, l’introiezione stabile delle imago parentali, la consapevolezza del dolore implicito nei processi di crescita e una maggiore capacità di contenere ed elaborare cognitivamente le emozioni negative.

La relazione degli obiettivi del trattamento psicoanalitico con il modello medico di malattia mentale è ormai molto debole. Un miglioramento sintomatico, per come è comunemente concettualizzato dalla psicopatologia descrittiva, può rappresentare tutt’al più un’auspicabile ricaduta positiva di cambiamenti che si realizzano a livelli più profondi. E tuttavia la psicoanalisi ha avuto molta difficoltà a sciogliersi da uno stretto legame con la nosografia psichiatrica. I clinici hanno continuato a credere che il valore sociale della psicoanalisi e la relativa possibilità di ricevere sostegno finanziario dalle istituzioni sanitarie dipenda in modo cruciale dalla percezione della psicoanalisi come uno degli strumenti terapeutici della medicina.

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 Tuttavia, la concettualizzazione nosografica della sofferenza emotiva non è del tutto idonea alle specifiche esigenze e mete del lavoro psicoanalitico. La psicoanalisi non è una terapia, e può essere più utilmente concettualizzata come un processo interpersonale finalizzato a realizzare cambiamenti profondi. Come dice il proverbio: “La farina del diavolo va tutta in crusca”. Ogni confusione tra conoscenza ed esigenze di supporto sociale è destinata a produrre una distorsione dei processi di organizzazione dell’informazione.

La psichiatria tratta le esperienze emotive dell’uomo come fatti obiettivi. E le classifica secondo valori ed aspettative. Giudica alcune sane, cioè auspicabili, appropriate e gradite, ed altre come patologiche, in quanto, inadeguate, socialmente sgradite e di ostacolo al funzionamento sociale e familiare. La psichiatria classifica i comportamenti, e di conseguenza gli esseri umani: sani, nevrotici, psicotici.

La psicoanalisi si rivolge alle emozioni ed ai desideri dell’uomo. E tuttavia la necessità di sintesi del materiale e la citata pressione per ottenere consenso ed apprezzamento nella realtà sociale tendono a promuovere generalizzazioni categoriali o dimensionali. Nel nostro lavoro quotidiano possiamo così parlare di struttura ossessiva, funzionamento psicotico, pazienti borderline.

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Impercettibilmente ma irresistibilmente cediamo così all’abitudine di classificare gli esseri umani. L’analizzando diventa un paziente. Un intreccio di relazioni oggettuali interne, paure e difese diventa una malattia. Un giudizio morale rispetto ai percorsi di sviluppo più meno adeguati dell’essere umano si insedia nel nostro pensiero e linguaggio psicoanalitici quotidiani, e sostituisce la necessaria neutralità rispetto ai fini ultimi dell’analizzando.

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Veniamo così a perdere la consapevolezza che il paziente si muove in un ambiente umano reale. Che la cosiddetta malattia mentale non è un fenomeno naturale o la distorsione di uno sviluppo fisiologico. Consiste invece in una complessa rete di strategie intrapsichiche ed interpersonali. Implica meccanismi di adattamento o reazione a relazioni oggettuali esterne spesso tragiche od estremamente primitive. Esprime frequentemente tentativi di controllo delle risposte degli oggetti di amore più intimi. E’ sempre in relazione con il fondamentale bisogno dell’uomo di comunicare e condividere le radici della sofferenza emotiva.

Non possiamo affidare il prestigio sociale della psicoanalisi ad un atteggiamento di imitazione del pensiero psichiatrico e della prassi medica. La percezione del contributo della psicoanalisi alla società contemporanea – un contributo che io ritengo vitale ed insostituibile – dipende in realtà dalla nostra capacità di mostrare come la psicoanalisi possa aiutare l’individuo a crescere, a costruire relazioni intime stabili, a tollerare il dolore.

La psicoanalisi non è una tecnologia medica, è una via per costruire speranza e realizzare processi di cambiamento.

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Lettura consigliata:

Lettera Aperta a Tutti i Matti

Carissimo compagno matto, svitato, lunatico, demente, scervellato, pazzerello, insensato, dopo trent’anni di lavoro a contatto con le sofferenze dei pazienti intrecciatesi indissolubilmente con le mie sento il desiderio di scrivere al matto prototipico, per rivelargli alcune cose che non ho raccontato a tutti perché non le avevo ancora capite o allora non c’è stato tempo.

Mi rivolgo, dunque, ai vari ansiosi. Agli spaventati in logorante attesa  di un abisso senza fondo dove si perderanno definitivamente. Aggrappati ad un sostegno qualsiasi la vita scorre senza che mai l’afferrino, le mani serrate sull’appiglio. Per non morire non vivono. A quelli rattrappiti dall’attesa della sentenza inappellabile di condanna alla solitudine e al disprezzo  che per non sbagliare somigliano a cadaveri di ineffabile perfezione. Ai fuggiaschi dalla derisione vergognosi di un esistere  che ingombra spazio nel mondo impegnati a scomparire ad occhi severi che non li lasciano mai. Alla grande schiera degli accerchiati da onde di minaccia, striscianti e inaspettati pericoli, malattie, rovesci e perdite che come minuscoli moscerini nel lavandino li trascineranno vorticosamente nello scarico.  In loro mai nessun potere, piccoli e tremanti, prima, o malfermi e stanchi, poi. Cappuccetti rossi nel bosco degli orrori o nonne divorate dal lupo.

Mi rivolgo inoltre ai cosiddetti depressi. Agli affaticati ogni mattina davanti alla grigia montagna brulla da scalare subito ai piedi dell’insonne letto. Tale è la nausea dei sapori e dei profumi della vita che hanno smorzato i sensi, non provano mai nulla tranne la noia. Non mancano di nulla, rimprovera il coro, eccetto forse se stessi.  Tutto è parimenti insensato  ripetitivo, già visto. In attesa di finirla vorrebbero solo dormire. Non hanno chiesto di esserci e, offesi, non sono mai entrati in gioco. Senza ricordi ne orizzonti annaspano in un livido dolente presente. Per giunta  sono arrabbiati convinti di aver firmato un contratto differente con Dio o un suo delegato. Somari svogliati alla scuola della vita. Deserti inariditi con una pozza asciutta e screpolata nel luogo dell’anima.    

Infine  anche a quelli che chiamiamo psicotici, anzi a loro soprattutto che mi fanno sempre battere il cuore. Ai diversi,  quelli strani, fatti male,  mancanti del software per gli incontri che decidono con la testa ogni mossa per sembrare normali. Non capiscono le bizzarre tradizioni degli umani. Come appena scesi dall’astronave senza il manuale di istruzioni per la terra. Ma  ognuno è diverso a modo suo, appunto. Non sono un’unica tribù.

Alcuni si avventurano in mondi privati senza altri condomini e vicini. Cancellano le tracce borbottando in compagnia di se stessi e smarriscono la strada del senso comune.

Altri costretti alla ribalta  per riempire lo specchio come attori ergastolani non possono scendere dal palco per fuggire un camerino vuoto, freddo con i fiori appassiti.

Certi stanno assediati tra gli agguati di inganni e  tradimenti. Sentinelle di tartari in perenne ritardo. Le braccia indolenzite dalla guardia sempre alta. In servizio permanente effettivo, impacciati dalla corazza sono i guerrieri professionisti che temono le conseguenze dell’amore.

Taluni, eterni orfani, si perdono alla vista delle spalle di chi va altrove mai rassegnati alla cacciata dall’originario utero.

Strani tra gli strani quelli che graffiano per abbracciare e s’imbrattano di sangue. La terra intorno sismicamente sobbalza. Pronti ad eruttare da un istante all’altro sono gli inghiottitoi carsici incolmabili dove tutto affonda e mai riempie il vuoto straziante e rabbioso della perduta perfezione unitaria.

All’orecchio di questi pellegrini della sofferenza sussurro che non sono soli, gli sembra soltanto guardando di se stessi il dentro e di tutti gli altri l’esterno rivestito di carta colorata e fiocchi, dentro anche i sorridenti pulsano dolore.

Siamo identici per oltre il 99% sia nei geni che nelle esperienze vissute. Tutto il vostro dolore  è propriamente umano, l’essenza stessa dell’umanità che ci accomuna. Diluite l’orgoglio ferito dell’”io” nella quiete comunitaria del “noi”. Immaginate la vostra vita come una dolorosa marcia dal nulla al nulla immersi in un popolo di ugualmente dolenti in faticoso cammino. Nessuno impegnato a trascinarsi avanti ha tempo e voglia di darvi la pagella.

Talvolta ci si appoggia l’un l’altro si mischia fiato e sudore. Ogni tanto brilla una stella, il gelo stiepidisce, il terreno si ammorbidisce. Rari momenti da collezionare, assaporare e conservare nella memoria. Per tutti gli altri raccontatevi una storia epica che gli dia, ingannandovi, un senso. Che la fantasia benevola addolcisca la realtà quando si fa più aspra (noi non lo chiameremo delirio). Per quanti errori vi riconosciate non avete combinato nulla di grave, siamo troppo ininfluenti per essere dannosi. I vostri nipoti stenteranno a rammentarvi il nome.

 

Perdonatevi e vogliatevi bene. Viziatevi di coccole come una madre che assiste il figlioletto leucemico agli ultimi giorni. Acchiappate tutto senza rinunce che questa non è la prova generale ma l’unica nostra vita.

Quando il dolore si fa più acuto pensate che non dura e tutto passa e dopo sarà pressappoco come prima di nascere che non era poi male.

Naturalmente continuate a venire da noi terapeuti per darci da mangiare, farci sentire sani e non lasciarci soli sul nastro trasportatore in attesa della caduta a fine corsa.

 

Roberto Lorenzini

L’ Autoconsapevolezza di Sé dipende da Network Neuronali

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

“L’ autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello. Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”

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L’autoconsapevolezza è un fenomeno complesso, ricco e integrato che fa parte della più estesa conoscenza di sé.

Il riconoscimento di sé stessi, a sua volta,  può essere brevemente definito come un “fenomeno qualitativo della psiche che si enuncia come l’essere coscienti di se stessi, di autoriferirsi, di esser coscienti del mondo e degli altri”[1.] .

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Questa capacità è stata lungamente considerata una qualità prettamente umana ed è stata profondamente analizzata. Gli studi di psicologia in questo campo hanno fatto uso di test classici, quali ad esempio il riconoscimento allo specchio.  Gli esiti prodotti hanno permesso l’allargamento dello spettro delle specie animali che sono in possesso di un certo grado della consapevolezza di sé, estendendolo così non solo alle scimmie antropomorfe, ma anche ai delfini, elefanti e polpi.

Negli esseri umani, i neuroscienziati ne hanno individuato il correlato neurologico in tre regioni: nella corteccia dell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia prefrontale mediale. 

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Questi risultati, di una localizzazione precisa della consapevolezza di sé, vengono oggi messi in discussione da un recente studio condotto da gruppo di ricerca dell’Università dell’Iowa guidato da David Rudrauf e apparso sulle pagine della rivista PLOS ONE.

La ricerca è stata condotta su un singolo soggetto, definito “paziente R”, in cui tutte e tre le regioni cerebrali elencate precedentemente sono state danneggiate a causa dell’encefalite da Herpes Simplex. Secondo il modello in vigore, gli estesi danni cerebrali avrebbero dovuto compromettere la sua autoconsapevolezza. Invece il  soggetto, sottoposto a test, ne ha dimostrato una buona facoltà , seppur con gravi amnesie dovute al danno ai lobi temporali, i quali compromettono normalmente il sé autobiografico.

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Il paziente R ha dato prova di riconoscersi sia quando si guardava allo specchio, sia quando esaminava alcune fotografie realizzate in periodi differenti della sua vita. Inoltre, manifestava di percepire un’azione compiuta come la conseguenza delle proprie intenzioni. La somministrazione di test di personalità (tra i quali il Big Five Inventory, Modified Patient Competency Rating Scale e il Self-Consciousness Scale Revised)  ha messo  in luce che egli aveva una capacità stabile di pensare a se stesso e di auto percepirsi. Infine egli manifestò una profonda capacità d’introspezione, considerato  uno degli aspetti più sofisticati dell’autoconsapevolezza.

I dati ottenuti permettono un avanzamento delle conoscenze fino ad ora condivise, ipotizzando che il tronco encefalico, il talamo e la corteccia posteromediale possano sopperire alle mancanze funzionali delle tre regioni danneggiate.

In conclusione, riportando le parole di David Rudrauf, possiamo affermare che: “l’autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello. Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”.

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BIBLIOGRAFIA: 

 

Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?

 

Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?. - Immagine: © djama - Fotolia.comPuò la psicoterapia cognitiva dialogare con la teoria delle relazioni oggettuali? Possiamo pensare ad un possibile dialogo?

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Possiamo pensare, da terapeuti cognitivisti, che i pazienti riproducano con noi gli stessi schemi disadattivi che hanno imparato nelle loro relazioni familiari più significative? E soprattutto, possiamo credere che anche un lavoro terapeutico di impronta cognitivista possa orientarsi all’individuazione di conflitti che agiscono nell’organizzazione mentale del paziente?

A nostro avviso sì, con alcune precisazioni. In primo luogo, i pattern relazionali che Kernberg e collaboratori (2012) considerano inconsci e risultanti dall’applicazione di meccanismi difensivi rigidi, nella prospettiva cognitivista possono essere descritti come automatismi di processo che il paziente segue nel tentativo di preservare significati coerenti e controllabili su di sé e sul mondo; in seconda battuta, ciò che dal punto di vista psicoanalitico viene definito “conflitto” può essere riformulato in termini cognitivisti parlando di inflessibilità degli scopi o del progetto di vita. E questa rigidità che preclude al paziente l’esplorazione di possibilità alternative si forma in relazioni familiari – oggettuali? – che legittimano e consolidano una modalità univoca di lettura dell’esperienza.

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Elisa è una paziente affetta da sintomatologia ossessiva, con una famiglia gravemente criticista e squalificante; la sua passione più grande è la pittura, che durante il percorso terapeutico assume connotati sempre più precisi: attraverso l’arte Elisa cerca riscatto e consolazione dalla relazione coi genitori, tuttora incapaci di riconoscere le sue qualità umane (sensibilità, creatività) prima che pittoriche. Il costrutto fondamentale che regola l’esperienza di Elisa, “sono stupida”, le impedisce di abbandonare le ossessioni e coltivare serenamente l’attività artistica, per due motivi: da un lato la convinzione di non avere capacità le fa sovrastimare la possibilità di insuccesso in tutte le azioni che intraprende – fra le altre, realizzare nei suoi lavori le istruzioni dell’insegnante di disegno -, dall’altro la necessità di dimostrare il proprio valore ai genitori conduce ad un aumento sproporzionato degli standard perfezionistici, premessa di nuovi insuccessi. Lo scopo di Elisa, “devo convincere i miei genitori che non sono stupida”, è diventato un piano di vita inflessibile che non trovando mai risoluzione genera stati emotivi intollerabili; il funzionamento ossessivo – timore del contagio e lavaggio delle mani – rappresenta quindi il tentativo non mentalizzato di controllare l’emozione penosa.

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Leggendo questo caso secondo i tratti delle relazioni oggettuali e conservando un legame di senso con la teoria cognitivista, è possibile affermare che Elisa abbia elaborato il proprio tema di vita come logica conseguenza dell’esplicita invalidazione che i genitori hanno rivolto a lei e al suo scopo originario, diventare una pittrice.

Nella relazione col terapeuta Elisa riproduce lo schema conosciuto, definendosi a più riprese stupida e testando il clinico sulle reazioni che queste parole elicitano in lui. “Sarò stupida anche per il terapeuta?” sembra chiedersi quando racconta di sé; il lavoro sulla relazione assume un ruolo centrale affinché Elisa possa sperimentare un modello di accettazione emotiva credibile, superando i conflitti e le tematiche inflessibili che l’hanno portata a sviluppare il suo malessere.

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Sabrina sta per laurearsi in medicina, ma si è bloccata al penultimo esame; sostiene di aver frequentato l’università solo ed esclusivamente per accontentare i genitori e critica aspramente l’ambiente ospedaliero, che detesta. Nel tempo libero realizza bomboniere e oggettistica in decoupage, che poi rivende nei mercatini della sua zona; se fosse libera di scegliere opterebbe senza alcun dubbio per dedicarsi a tempo pieno a questa sua attività creativa, ma l’immagine dei genitori che scuotono la testa e si rammaricano di avere una figlia inetta che non riesce neanche a laurearsi la paralizza in una condizione di stallo su entrambi i fronti.

Il rapporto con i genitori, in particolare con il padre, è infatti una storia di umiliazioni e bisogni frustrati, in cui la paziente si ricorda oggetto, da una parte di irragionevoli pretese di eccellenza, e dall’altra di lamentele rabbiose per la pochezza delle sue doti intellettuali e le abilità ordinarie e scadenti.

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 Nella relazione terapeutica è molto accondiscendente: sempre puntualissima agli appuntamenti, non dimentica mai di svolgere con la massima cura un compito a casa, se le capita di dover rimandare un incontro lo fa con decine di messaggi infarciti di faccine e desolazione; spesso durante il colloquio chiede conferma di aver capito bene la domanda e di aver risposto adeguatamente. Non sembra orientata più di tanto a stabilire un rapporto collaborativo che l’aiuti a chiarirsi le idee e a capire il perché delle sue difficoltà, benché questa sia stata la sua domanda iniziale; quello che le preme prima di tutto è dimostrare di essere una brava bambina, esorcizzando così il rischio di poter essere criticata e malgiudicata. Lei per prima si affanna a definirsi pasticciona, distratta, smemorata, quasi a volermi scoraggiare dal prendermi la briga di essere io a farle delle osservazioni; la sua autosvalutazione è tale che non avrei spazio per rincarare la dose. In realtà però dagli aneddoti della sua giornata emerge poi il ritratto di una ragazza estremamente scrupolosa e competente, l’unica che possa vantare un buon repertorio di valori morali su un palcoscenico di lazzaroni, e a stento trattiene la rabbia all’idea che gli altri interpretino come pedanteria la sua diligenza. Si ha effettivamente la sensazione che la relazione terapeutica riattivi prepotentemente uno schema antico, innescando ogni volta nella paziente il conflitto tra il bisogno assoluto di dimostrarsi all’altezza ed essere apprezzata e il tentativo narcisistico di proteggere un’autostima massacrata da anni di rimproveri e svalutazioni. Tuttavia, dietro questa tendenza passiva a compiacere a tutti i costi, si intravede una rabbia latente che rischia di tradursi in un inaudito ultimo atto, con il sabotaggio a sorpresa del progetto esistenziale formulato per lei dai genitori: l’abbandono dell’università a un passo dal traguardo.

In conclusione si può ritenere che la teoria delle relazioni oggettuali, pur essendo concettualmente distante dall’impostazione cognitivista, fornisca spunti utili a interpretare la storia e l’evoluzione sintomatologica del paziente, la sua organizzazione poco flessibile; lavorare sul funzionamento psicologico, sulla struttura che determina il mantenimento degli aspetti problematici, significa in primo luogo instaurare dei legami fra il contesto attuale e i diversi apprendimenti disfunzionali, individuando nelle relazioni più significative il luogo in cui tali acquisizioni sono maturate.

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PSICOTERAPIA COGNITIVA – PSICOANALISI – 

RELAZIONI INTERPERSONALI  –IN TERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

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