La letteratura beat, sviluppatasi negli Stati Uniti a partire dal secondo dopoguerra, racchiuse nel proprio movimento alcuni dei poeti e romanzieri americani più importanti del ventesimo secolo, in particolare Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti e Gregory Corso. La nascita del beat segnò una rottura drastica con gli schemi di pensiero e di comportamento dominanti nella società americana del tempo; la nuova critica poetica e sociale si scagliava contro il conformismo morale, culturale e psicologico, il perbenismo dei costumi e la censura letteraria che impediva l’emergere di forme espressive autenticamente libere.
L’essenza della letteratura del movimento beat è la spontanea sovrapposizione fra produzione artistica e vita reale: il poeta racconta di viaggi mentre viaggia, descrive una mente allucinata nello stesso istante in cui la sua mente viene guidata da droghe allucinogene, svela una sessualità trasgressiva e sregolata riferendo la propria esperienza. La poesia beat è un flusso ininterrotto di pensieri che emergendo alla coscienza vengono trascritti senza che su di essi venga operata alcuna elaborazione razionale; una poesia per associazioni libere, potremmo dire richiamando un elemento centrale della clinica psicoanalitica, una poesia frutto dell’impulso e dall’impulso dominata, mentre vengono aboliti costrutti logici e organizzazioni formali.
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Lo stile beat non considera la struttura, non sceglie i contenuti e i significati bensì lascia che il loro scorrere naturale si impadronisca della penna e delle sue conseguenze. Richiesto di una spiegazione sulla tecnica del suo fare poesia, Ginsberg rispose che essa consisteva unicamente nel fissare su carta le immagini, le percezioni, le idee che l’inconscio generava, nell’istante medesimo del loro accesso alla coscienza. Si liberò quindi un linguaggio astratto, ricco di neologismi, parole storpiate o collocate seguendo un’anarchia semantica e sintattica non di rado assoluta; comparvero narrazioni esplicite di una sessualità che non accettava il disgusto borghese per la pulsionalità, si affermò l’esigenza di non selezionare i temi dello scrivere: la poesia beat può parlare d’amore e di follia, del bilancio economico del governo americano o dei personaggi di un supermercato, mantenendo uno sguardo puro sullo scopo ultimo dell’attività letteraria, testimoniare l’affrancamento mentale e spirituale da qualunque schema di pensiero culturalmente imposto.
Nell’accostarsi al genere beat, notava la critica dell’epoca, occorre svincolarsi dal senso particolare per cogliere l’universale; le immagini visionarie, paradossali, grottesche, le esagerazioni della lingua e del colore poetico, l’apparente banalità di alcuni elementi della trama letteraria vanno interpretati in chiave simbolica, come esternazione immediata di un malessere non più riducibile a categorie discrete.
Opere come “Gasoline” di Gregory Corso, “Il pasto nudo” di William Burroughs o “Urlo” di Allen Ginsberg hanno un valore che supera il testo concreto e apre la possibilità di concepire la letteratura come un patrimonio di esperienze multiformi; il legame coi mutamenti sociali che avrebbero coinvolto il mondo occidentale a partire dagli anni Sessanta, l’accento sulle religioni orientali e sul rifiuto del dogmatismo, l’esaltazione di una spiritualità individuale ma insieme condivisa che legittima ogni persona ad esprimere il proprio bisogno di emancipazione, sono tratti distintivi di un movimento che prendendo avvio dalla ricerca di uno stile espressivo autonomo ha compiuto un viaggio affascinante dentro l’animo umano.
La suggestionabilita’ viene definita come il grado in cui la codifica, la registrazione, il recupero e la relazione degli eventi da parte dei bambini possono essere influenzati da una gamma di fattori sociali e psicologici.
Recentemente mi sono recata ad un convegno tenutosi a Bologna, organizzato dalla corte d’Appello in collaborazione con magistrati, avvocati, psicologi e psichiatri forensi. Il tema riguardava l’ascolto del minore e la valutazione della sua capacità a testimoniare in seguito a presunte molestie ed abusi (fisici, sessuali e psicologici).
Particolarmente interessante è stato l’intervento del Prof. Gulotta, relativo al ruolo della suggestionabilita’ del minore. La suggestionabilita’ viene infatti definita come il grado in cui la codifica, la registrazione, il recupero e la relazione degli eventi da parte dei bambini possono essere influenzati da una gamma di fattori sociali e psicologici(Ceci e Bruck, 1993).
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Gulotta e collaboratori hanno sottoposto un gruppo di bambiniin età scolare ad una serie di esperimenti: questi consistevano nel mostrare ai bambini alcune scenette divertenti che un giocoliere faceva direttamente davanti a loro entrando in aula e interrompendo la lezione. Circa due settimane dopo l’esperienza del giocoliere, i bambini venivano intervistati riguardo alcune caratteristiche del personaggio (abiti che indossava, comportamento, cose che aveva fatto). Gli esperimenti hanno messo in evidenza la facile suggestionabilita’ dei bambini, soprattutto in base al modo in cui le domande venivano formulate dalle intervistatrice.
Ad esempio, alla domanda: “Ti ricordi di che colore aveva il cappello il giocoliere?”, (il giocoliere non possedeva il cappello), la maggior parte dei bambini aveva risposto citando un colore a caso. Ai bambini più coraggiosi, che avevano risposto in maniera negativa “no, non lo ricordo”, l’intervistatrice aveva risposto dicendo: “dai, prova a pensarci bene, non è difficile”, e dopo questo intervento anche questi bambini avevo fornito una risposta precisa ed accurata: “ah, si ora ricordo, era fucsia!”.
Questi esperimenti mettono in evidenza l’importanza e la necessità di avere in ambito forense personale addestrato nel porre domande che NON SIANO suggestive.
Ma cosa sono le domande suggestive?
Una domanda può essere definita “suggestiva” se include informazioni sulla risposta voluta o prevista dall’intervistatore. Poiché a livello scientifico non sono disponibili dei dati scientifici comparativi sulla dimensione del loro effetto, tali domande sono state organizzate secondo la loro presunta intensità (definita in base alla quantità di informazioni che esprimono implicitamente). È importante precisare che l’intensità suggestiva delle tipologie di domande non è necessariamente collegata alla loro efficacia; infatti metodi più sottili di suggestione potrebbero essere maggiormente efficaci rispetto a tattiche più evidenti di influenzamento.
Domande ad alta suggestionabilita’, quindi non idonee
⁃ Quanto velocemente correva X quando lo hai visto fuggire dal negozio?
Questa domanda è altamente suggestiva poiché implica al suo interno una descrizione e una valutazione implicita (ovvero che il soggetto abbia visto X che correva fuggendo dal negozio).
⁃ A e B hanno dichiarato che…lo hai visto anche tu vero?
Questa è una domanda suggestiva poiché esercita una pressione alla conformità, alla comparazione sociale.
⁃ È assolutamente impossibile che tu non ti ricordi questo fatto.
Domanda suggestiva poiché fornisce un forte feedback negativo.
⁃ Te lo continuerò a chiedere finchè non mi dirai cosa ti ha fatto X, vedrai che dopo avermelo detto ti sentirai molto meglio.
In tal caso la domanda è fortemente suggestiva ed è caratterizzata da premesse e velate minacce.
Facciamo ora invece qualche esempio di domande aperte, corrette e a bassa suggestionabilita’.
⁃ Che cos’è successo, che cosa hai visto?
⁃ Era un uomo o una donna?
⁃ Ha detto qualcos’altro quell’uomo?
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Gulotta e collaboratori, nel corso della conferenza hanno anche mostrato come sia possibile aiutare i bambini a non farsi trarre in inganno dalle domande suggestive. Per dimostrare ciò a un gruppo di bambini veniva effettuato un training nel quale si spiegava loro che l’adulto poteva chiedere cose che non erano accadute o non presenti nella scenetta, in casi del genere venivano incoraggiati i bambini ad esprimere la propria opinione, senza aver paura di contraddire l’adulto e di non essere conformi al resto del gruppo (es: se non ti ricordi di che colore aveva il cappello il giocoliere, rispondi che non ti ricordi, non è necessario che tu ti sforzi trovando a tutti i costi una risposta precisa”).
I risultati sembrano evidenziare che i bambini sottoposti al training siano maggiormente in grado di contrastare le domande suggestive, mantenendo inalterata la propria opinione.
Quindi sarebbe importante, ogni qualvolta ci si presta ad interrogare un bambino, innanzitutto tranquillizzarlo e rassicurarlo sull’eventuale incapacità di rispondere alle domande ed inoltre far si che l’incidente probatorio venga effettuato da uno psicologo/psichiatra forense esperto in testimonianza del minore, abile nel porre domande che non siano suggestive.
Nel film “Il sospetto” uscito da poco nelle sale italiane e molto interessante per quanto riguarda questo tema, vi è proprio un esempio molto chiaro di un interrogatorio effettuato ad una minore, in seguito ad un dubbio di abuso sessuale, in cui vengono poste domande altamente suggestive. Consiglio agli interessati di vederlo!
Il Costo Economico della Tristezza: Essere di Cattivo Umore Fa Male al Portafoglio. Conviene considerare l’umore prima di far shopping.
D’ora in poi ci converrà considerare di che umore siamo, prima di uscire a fare shopping: per lo meno per il bene del nostro portafoglio. Gli inglesi lo chiamano “Misery-is-not-miserly effect” (traducibile con l’italiano “l’infelicità non è avara”), e corrisponderebbe alla tendenza, piuttosto diffusa, a spendere più denaro quando ci si sente tristi o di cattivo umore. Diversi studi hanno dimostrato come la tristezza possa influenzare decisioni di tipo “economico”, rendendoci propensi a rinunciare a somme di denaro maggiori al fine di acquistare un bene (Lerner, Small, & Loewenstein, 2004). Nonostante il ruolo centrale giocato dalle teorie sul sé in psicologia, tuttavia, pochi sono stati i contributi dati al campo, di recente sviluppo, dell’economia comportamentale (ossia l’applicazione di modelli psicologici all’ambito economico).
Basandosi sui risultati di precedenti studi, che hanno dimostrato come stimoli in grado di indurre uno stato di tristezza in un individuo aumentassero anche il suo livello di self-focus (Salovey, 1992; Wood, Saltzberg, & Goldsamt, 1990), Cynthia Cryder e colleghi hanno condotto una interessante ricerca al fine di fornire dati empirici a supporto dell’effetto “misery-is-not-miserly” (Cryder, Lerner, Gross, & Dahl, 2008). In particolare, gli autori hanno voluto testare l’ipotesi che il self-focus potesse costituire un fattore di mediazione dell’effetto in questione.
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Sono così stati reclutati 33 soggetti (20 maschi, età media: 21 anni), assegnati in modo casuale al gruppo sperimentale (sad condition) o al gruppo di controllo (neutral condition). Ai soggetti nella sad condition è stato mostrato un breve filmato sulla morte dell’insegnante di un ragazzo (tratto dal film The Champ), e successivamente chiesto di scrivere un piccolo tema su come avrebbero reagito se una situazione analoga fosse capitata a loro. Ai soggetti nella neutral condition, invece, è stato mostrato un documentario sulla barriera corallina, con conseguente richiesta da parte dei ricercatori di scrivere un breve saggio sulle proprie attività quotidiane. In questo modo è stato possibile valutare il livello di self-focus riportato dai soggetti nelle due diverse condizioni. Il compito finale consisteva poi nel chiedere a tutti i soggetti quanto sarebbero stati disposti a spendere (in un range compreso tra $0 e $10) per acquistare una bottiglia d’acqua, con l’avvertimento che se qualcuno avesse indicato il prezzo effettivo della bottiglia, l’avrebbe dovuta acquistare per davvero.
Gli autori hanno così non solo dimostrato empiricamente che i soggetti appartenenti alla sad condition erano disposti a spendere più denaro rispetto al gruppo di controllo (in media, $2.11 vs $0.56), ma anche precisato che l’effetto “misery-is-not-miserly” si verificava solo in presenza di alti livelli di self-focus. In altre parole, sarebbe la tendenza a focalizzarsi sul sé a spiegare la relazione tra tristezza e denaro speso. Si tratta di una relazione ancora da chiarire, e per ora sono state avanzate solo alcune ipotesi: è possibile che un evento triste, “accoppiato” ad alti livelli di self-focus, porti a sentimenti di autosvalutazione, e che i soggetti in questo stato tendano a spendere di più perché questo li fa sentire meglio. È anche possibile che il senso di autosvalutazione porti ad attribuire un valore maggiore a ciò che ci sta intorno, per contrasto. Ci affidiamo a future ricerche per chiarire meglio questi risultati.
Ripensate al peggior bacio della vostra vita. Com’è stato? Sbauscioso? A centrifuga? Cannibalesco, mentre cercava di mordervi la lingua o mangiarvi la faccia? Mozzafiato perché più che un bacio profondo sembrava una gastroscopia? O talmente moscio da farvi cadere le braccia ed esclamare “tutto qui?!!”.
A quanto pare baciare bene è un’arte, così non stupisce che innumerevoli siti online piuttosto che riviste per adolescenti (e non) riportino “i consigli degli esperti per un bacio davvero indimenticabile”.
E la domanda sorge spontanea: ma chi diavolo è un esperto del bacio?! E quali sono questi preziosi suggerimenti? Bene o male tutti noi abbiamo delle teorie naive su quale sia il modo migliore per baciare, ma la scienza come si esprime su quello che è indubbiamente uno dei comportamenti più diffusi al mondo?
Ce lo spiega in maniera simpatica Sherile Kirshenbaum in La scienza del bacio (2011), curiosissimo libro in cui antropologia, fisiologia, psicologia e genetica danno il loro contributo “per fornire qualche consiglio pratico [su come baciare] basato sulle migliori ricerche svolte finora”.
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Il libro presenta una nutrita bibliografia per chi volesse approfondire gli argomenti trattati – che spaziano dalle origini evolutive del bacio e la sua diffusione nel mondo, a come il nostro corpo ne viva l’esperienza a livello chimico e cerebrale. Inoltre l’autrice cita numerosi dati tratti da studi scientifici e riporta alcune chicche esilaranti raccolte in giro per il mondo, rendendo la lettura piacevole e interessante.
E allora vediamo alcuni dei 10 consigli scientifici di Sherile Kirshenbaum per un bacio indimenticabile.
1)Toglietemi tutto, ma non il mio rossetto
Mentre le scimmie bonobo reclamizzano la propria fertilità sfoggiando un sedere rosso, noi donne, grazie al processo di cooptazione evolutiva, abbiamo spostato questo segnale sul viso: labbra rosse e carnose infatti sono indicatori attendibili di capacità riproduttiva e suscitano una forte attrazione sessuale verso gli uomini (Cunningham et al., 1995). Donne, non uscite mai di casa, quindi, senza un rossetto in borsa!
2) L’omme addà puzzà?
Considerando che la bocca è un’autentica “fogna” poiché contiene milioni di batteri, trascurare la propria igiene orale non è un’idea furba, tanto più che le donne nel valutare un compagno dipendono moltissimo dal gusto. Ma anche l’olfatto gioca un ruolo importante. Nel famoso “esperimento della t-shirt sudata” (Wedekind et al., 1995) 49 donne annusarono le magliette puzzolenti di 44 maschi e le classificarono in base alla gradevolezza e all’attrazione sessuale. Si osservò che le donne tendenzialmente preferivano l’odore delle t-shirt indossate da uomini con un fattore MHC molto diverso dal proprio. Il fattore MHC è un gruppo di geni che controlla il modo in cui il sistema immunitario ci difende dalle malattie; scegliendo un partner con un MHC diverso dal proprio si trasmette alla propria prole un sistema immunitario più versatile e flessibile, un indubbio vantaggio in termini di sopravvivenza evolutiva. Quindi ben vengano deodorante e profumo, ma in alcune situazioni l’incompatibilità è solo una questione di chimica ed odore naturale. È proprio il caso di dire che a volte scegliamo il nostro partner a naso…
3) L’attesa del piacere è essa stessa piacere
Quando desideriamo qualcosa il nostro cervello scarica dopamina, il neurotrasmettitore che fornisce un senso di piacere in quanto legato all’attesa di una ricompensa; se nel momento del bacio la dopamina ha raggiunto i massimi livelli, la ricompensa (e quindi il piacere) saranno maggiori. Rimandate quindi il più possibile il momento del bacio vero e proprio, magari impegnando il tempo a flirtare spudoratamente con l’oggetto dei vostri desideri.
Farsi le coccole prima del bacio vero e proprio, tenersi per mano, accarezzarsi il viso o la schiena, riduce i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, stimola i livelli di ossitocina, l’ormone del legame affettivo, e scatena sensazioni positive.
Forse alcuni di questi consigli vi sembreranno scontati, ma, come sostiene l’autrice del libro, “assumono una nuova forza e risonanza appena si riconosce la scienza che c’è dietro” e forse è bene tenerli a mente la prossima volta che ci appresteremo a baciare qualcuno.
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Infatti saper dare un bacio indimenticabile ha una rilevanza che va ben oltre la caducità di un momento piacevole. Se gli uomini tendono a dare meno importanza al bacio in sé (soprattutto nel caso di una relazione occasionale) in quanto lo considerano il preludio a qualcosa di più, “un modo per eccitare una donna o per scoprire qualche indizio sulla sua ricettività sessuale”, per le donne il primo bacio pare essere un buon metodo per testare un potenziale compagno (Hughes et al., 2007).
Poiché l’orologio biologico femminile ticchetta e gli ovuli sono contati, dal punto di vista evolutivo una donna non può permettersi il lusso di prendere una cantonata nella scelta del partner; il bacio sembra quindi un primo indicatore attendibile sull’idoneità del papabile compagno per una relazione duratura: se un bacio non vi convince, meglio lasciar perdere.
In conclusione, saper baciare bene è un’arte che si può apprendere, ma accortezze ed una tecnica impeccabile non sempre sono sufficienti; dopotutto “a kiss is but a kiss” e a volte è la chimica che ci frega! In tal caso poco male, baciate qualcun altro, magari sarete più fortunati.
Una Famiglia Perfetta (2012). Locandina Cinematografica
Una famiglia perfetta. Un film sul perfezionismo ma anche sul cinismo, sulla solitudine, sull’accettazione. Un film di Paolo Genovese che ha il sapore di commedia con retrogusto agrodolce. E così gradualmente il sapore accompagna un filo rosso della trama, che ondeggia e gioca e si muove continuamente tra finzione e realtà.
Il film inizia in una bellissima villa di campagna, il giorno di natale, dove un solitario e ricco cinquantenne decide di affittare una compagnia di attori perché interpretino la sua famiglia, esattamente come la desidera. Per un’intera giornata questa compagnia di attori avrà il compito di interpretare la sua famiglia ‘perfetta’ nonostante l’ansia di dover rappresentare un meticoloso copione, dove non sono possibili molte pause e dove è sempre buona la prima. Una compagnia che si trova a recitare per un solo spettatore che si mostra ossessivo, provocatore e maltrattante.
Lo spettatore e sceneggiatore è Leone, l’uomo ricco e solo, interpretato da Sergio Castellitto. Un uomo dal fine intelletto, un manipolatore che conosce (o pensa di conoscere) come si muove l’animo umano.
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Gli attori pensano si tratti di un eccentrico che desidera trovare una sorta di conforto anche solo nella finzione di una famiglia. In realtà lo scopo è più alto, più esistenziale. Leone sta costruendo un grande esperimento il cui scopo è mostrare l’infondatezza della perfezione.Leone cerca la conferma pessimistica della sua visione dell’esistenza umana e delle relazioni affettive tanche che anche quando il copione della perfezione è già scritto e solo da interpretare, l’animo umano non può evitare per sua natura di distruggerlo.
Insomma l’essere umano è misero, ferisce, distrugge, non è capace di resistere agli impulsi o di curarsi realmente degli altri. Ogni sforzo, impegno o valore sono destinati a essere frustrati. Per questo è inutile, nella mente di Leone, impegnarsi in qualcosa e in questa deduzione sta l’errore di Leone.
Lo spettatore può anche immaginarsi un Leone adolescenteperfezionista, rimuginatore e iperresponsabile (e qualche tratto lo si nota ancora), impegnato ad amare come pensa che sia l’amoreideale. E come a tutti succede anche il Leone adolescente deve aver battuto la testa contro la durezza della vita, le sue sofferenze e le sue frustrazioni. Però la sua via d’uscita negli anni è stato dedurne l’insensatezza dell’esistenza e degli affetti e costruirsi un piano opposto: mollare tutto.
Se niente di perfetto può essere allora nulla vale la pena di un investimento, rischio o sforzo. Perché costruire la famiglia se questa porta con sé solo nuove opportunità di dolore e frustrazione?
Leone sceglie la solitudine e il cinico del disinvestimento e del ritiro. Ora, a circa cinquant’anni, è come se volesse dare prova a sé (e non solo) che questa scelta era l’unica possibile, la prova tangibile di non aver commesso in fondo un errore. E il motore presumibilmente è proprio la solitudine che sente e il vedere che le altre persone, coloro che non si ritirano nonostante le imperfezioni, alla fine sopravvivono gratificandosi del valore che attribuiscono alle proprie scelte.
E così procede l’esperimento della famiglia perfetta dove Leone riesce parzialmente. Perché sì, nulla purtroppo è perfetto. Tuttavia l’esperienza può offrire una forma nuova di conoscenza, più flessibile, che apre le porte a nuove possibilità. E in fondo ciascuno di noi è un Leone che cerca la sua strada tra due poli opposti, la strada capace di attribuire un valore anche e nonostante l’imperfezione.
L’esperimento della famiglia perfetta nasce per confermare le proprie ipotesi ma si rivela più utile per verificare che nell’imperfezione si può reggere e trovare soddisfazione. E forse, ne vale anche la pena.
Ricordiamo che alla sezione Junior erano ammessi elaborati direttamente derivati da tesi sperimentali di laurea magistrale degli anni accademici 2010-2011-2012 con un età massima per i partecipanti di 30 anni. La sezione Senior prevedeva la partecipazione di articoli pubblicati o già accettati per la pubblicazione su riviste peer reviewed negli anni 2011-2012 in cui il primo autore non avesse superato i 40 anni di età.
A questa prima edizione del Premio State of Mind, hanno partecipato più di 70 candidati da tutta Italia e questo è, a parere della redazione, un ottimo e incoraggiante segnale. Speriamo per i prossimi anni di riuscire a garantire e ampliare le successive edizioni del Premio, per favorire e sostenere una ricerca scientifica evidence-based di alta qualità in Italia.
SEZIONE JUNIOR:
VINCITORE: Dottoressa Beatrice Agostini (1,2)
Che ha presentato il lavoro: Supramodal responses to people in the distributed ‘face’ network
1University of Padova, Italy 2Centre for Mind/Brain Science, University of Trento, Italy
ABSTRACT
It is well-known that face recognition is mediated by a distributed neural system that comprise several brain regions. But what happens when we read or hear the name of a famous person? More generally, which regions of the brain are responding when we recognize a person through modalities that are different than the visual one? In this abstract, we present an fMRI experiment designed to identify a supramodal representation in the network for faces: instead of finding which areas are active only during a visual presentation of known persons, we identify which areas respond during the listening or reading of a person’s name. Our results indicate a strong supramodal response of the medial precuneus and the medial frontal gyrus. The posterior superior temporal sulcus responded clearly in its left part, whereas the anterior temporal lobe had a stronger supramodal response in its right part. On the contrary, FFA did not show any supramodal response, thus limiting its role into perceptual processing.
La capacità di riconoscere un volto conosciuto è mediata da un network corticale che comprende diverse regioni cerebrali. Ma cosa succede quando si sente o si legge il nome di una persona famosa? Con questo esperimento vogliamo identificare le risposte sopramodali all’interno dei network dedicati al riconoscimento dei volti: invece di individuare unicamente quali aree rispondono durante la presentazione visiva di un volto familiare, individuiamo anche quali aree rispondono mentre sentiamo o leggiamo il nome di una persona famosa. I risultati mostrano una forte risposta sopramodale per quel che riguarda il precuneus e il giro frontale mediale. Il solco temporale superiore posteriore risponde in maniera chiara nell’emisfero di sinistra, mentre il lobo temporale anteriore risponde unicamente nella sua parte di destra. Al contrario, l’area fusiforme per i volti non mostra alcuna attivazione sopramodale, limitando così il suo ruolo ad un livello visivo/percettivo.
Keywords: cortical network, people, fMRI, fusiform face area, semantic information
I nove candidati finalisti che si sono distinti per la qualità dei lavori sottoposti:
– Dottoressa Beatrice Agostini (vincitrice) – Supramodal responses to people in the distributed ‘face’ network.
– Dottoressa Dalila Burin – The Baldwin’s illusion and the Ames’s room: effects of three-dimensional context.
– Dottoressa Michela Candini – Meccanismi impliciti ed espliciti nel riconoscimento del se’ corporeo: uno studio sui soggetti sani e sui pazienti con lesione cerebrale destra.
– Dottoressa Giulia Di Fini – Lo sviluppo dei Temi di Vita all’ interno dell’Adult Attachment Interview: una ricerca qualitativa.
– Dottoressa Federica Gandini – Metacognizioni e Pensiero Desiderante nel Binge Eating Disorder.
– Dottoressa Alessia Offredi– Effects of anger rumination on different kinds of anger.
– Dottoressa Carolina Alberta Redaelli – Problems in long-term treatment for unipolar depression: antidepressant and sexual dysfunctions.
– Dottoressa Giulia Spagnoli – Virtual reality environments for the assessment of alcohol dependent subjects.
– Dottor Davide Zanchi – Psychological reactions and social support prior to breast cancer screening. Empirical evidence and psychometric considerations on the ios scale.
Although all professions are susceptible to work-related stress, the nursing profession has been identified as particularly stressful; indeed, oncology nursing is often described as being among the most stressful specialty areas. The current study tested the short-term effects of an innovative self-help stress management training for oncology nurses supported by mobile tools. The sample included 30 female oncology nurses with permanent status employed in six oncology hospitals in Milan, Italy. The stress inoculation training (SIT) methodology served as the basis of the training, with the innovative challenge being the use of mobile phones to support the stress management experience. To test the efficacy of the protocol, the study used a between-subjects design, comparing the experimental condition (SIT through mobile phones) with a control group (neutral video through mobile phones). The findings indicated psycho- logical improvement of the experimental group in terms of anxiety state, anxiety trait reduction, and coping skills acquisition. This paper discusses implications for the implementation of this protocol in several contexts.
I Cinque candidati finalisti che si sono distinti per la qualità dei lavori sottoposti:
– Dottoressa Chiara Cognetta (vincitrice) – Self-help stress management training through mobile phones: An experience with oncology nurses.
– Dottoressa Laura Calloni – L’influenza di Adhd, impulsività e sensation seeking sul comportamento deviante in preadolescenza: l’effetto di moderazione del gruppo dei pari
– Dottor Alessandro Grecucci – Reappraising the Ultimatum: an fMRI Study of Emotion Regulation and Decision Making
– Dottoressa Liuba Papeo – Lexical and gestural symbols in left-damaged patients
– Dottoressa Mara Soliani -L’Effetto del Pensiero Desiderante sull’esperienza di Craving: un disegno sperimentale
Si Ringrazia in particolare Studi Cognitivi (Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale) Sponsor del Premio.
Ringraziamo tutti i partecipanti al Premio, invitandoli a candidarsi il prossimo anno per la seconda edizione.
Invitiamo tutti i partecipanti al Premio a collaborare con State of Mind: chi di voi avesse piacere di cimentarsi nella scrittura giornalistica e divulgativa e nel dialogo tra colleghi, può proporsi come blogger collaboratore per il nostro Journal.
State of Mind vuole essere un luogo di incontro tra professionisti di tutte le aree della salute mentale e della ricerca in psicologia e un promotore di una cultura psicologica informata e aperta anche ai non addetti ai lavori.
Crediamo che questo possa portare un utile servizio alla società e al tempo stesso migliorare la visibilità professionale per gli autori del Journal. Per chi fosse interessato a collaborare, può richiedere le linee guida per la redazione degli articoli e le informazioni su come diventare collaboratori di State of Mind all’indirizzo: info.stateofmind (at) gmail.com premurandosi di inviare il proprio Curriculum Vitae.
Scelta del Partner: Gli uomini sono attratti da donne a loro somiglianti? “Chi si piglia si somiglia”: è solo un detto popolare?
Oppure gli uomini sono davvero attratti da donne simili a loro? Quali caratteristiche rendono una donna più attraente delle altre agli occhi di un uomo?
Ebbene il viso gioca, sicuramente, un ruolo importante nella scelta del partner, in quanto è la parte maggiormente esposta e visibile del corpo e le caratteristiche del volto possono essere indicative del potenziale riproduttivo della donna: ad esempio, tratti marcatamente femminili, spesso, sono associati alla presenza di estrogeni e sono, dunque, indicatori della fertilità. Si suppone che anche caratteristiche neutrali, come il colore degli occhi o dei capelli, possano influenzare l’attrazione dell’uomo per una donna, in quanto sono associati alla probabilità che i tratti paterni siano trasmessi alla prole, a seconda che il fenotipo della donna sia di tipo dominante o recessivo: gli uomini potrebbero preferire donne con tratti recessivi perché questo aumenterebbe la probabilità che i propri tratti siano trasmessi ai figli e ciò ne garantisce la paternità. Un’ipotesi alternativa, invece, presuppone che gli uomini prediligano l’omogamia all’eterogamia e preferiscano donne simili a loro per caratteristiche fisiche, psicologiche e socio-economiche.
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Le ipotesi dell’omogamia e della certezza della paternità, per spiegare l’attrazione tra uomini e donne, sono state verificate in una ricerca francese, suddivisa in 3 studi, condotta da Bovet e colleghi.
Nel primo studio sono state utilizzate fotografie del volto di donne reali di età compresa tra i 18 e i 25 anni, che si differenziavano per alcune caratteristiche fisiognomiche (colore dei capelli, colore degli occhi, labbra, mento, naso, orecchie) e ai 345 soggetti, caucasici ed eterosessuali, che hanno partecipato a questo studio è stato chiesto di cliccare sulle immagini di quelle dalle quali erano maggiormente attratti. Nel secondo studio sono stati utilizzati volti artificiali, creati attraverso un software e con il Photoshop sono state modificate alcune caratteristiche facciali, quali il colore degli occhi, il colore dei capelli, il mento, lo spessore delle labbra e delle sopracciglia, per creare casi di omogamia, eterogamia, recessività e dominanza; i 99 soggetti, che hanno preso parte a questo secondo studio, in questo caso, dovevano cliccare sulle immagini delle donne con le quali avrebbero creato una famiglia. Nel terzo studio sono state selezionate, tra le città di Parigi, Grenoble, Montpellier e Hyères, 155 coppie reali con un figlio ed è stato verificato se vi fossero somiglianze fisiche tra i partner. Lo scopo di quest’ultimo studio era quello di verificare se le preferenze espresse precedentemente in astratto trovassero conferma nella vita reale.
I risultati di tutti e 3 gli studi hanno confermato che gli uomini sono più attratti da donne con tratti facciali simili ai propri ed è stata, dunque, confermata l’ipotesi dell’omogamia, mentre non è stata supportata l’ipotesi della certezza della paternità: gli uomini non esprimono preferenze per donne con caratteri recessivi, in modo tale da aumentare la probabilità che i propri tratti facciali siano trasmessi alla prole, ma ricercano la vicinanza di donne con fattori genetici simili ai propri. In particolare, dal primo studio, in cui sono state utilizzate foto di donne reali, è emerso che la maggioranza degli uomini preferisce donne con caratteristiche dominanti e questo risultato sarebbe in contrasto con l’ipotesi della certezza della paternità, mentre sembrerebbe supportare l’ipotesi dell’omogamia. Il secondo studio, in cui sono state utilizzate immagini di volti virtuali creati attraverso un software, ha messo in evidenza ancora una volta che gli uomini preferiscono donne che presentano fenotipi simili ai propri e questa preferenza per l’omogamia è emersa rispetto a tutte le caratteristiche facciali. Infine, l’ultimo studio, che ha preso in considerazione coppie reali, ha confermato che l’omogamia è un fattore che influenza considerevolmente l’attrazione tra uomini e donne, mentre la preferenza per tratti recessivi risulta secondaria e non significativa.
Dunque, gli uomini sono più attratti da donne con lo stesso colore di capelli, lo stesso colore degli occhi, labbra e sopracciglia dello stesso spessore e con una fossetta sul mento.
Ma una domanda lecita è: “Anche le donne sono attratte da uomini simili a loro?”
Objectives: Our aim was to explore treatment outcome for non-specific time-limited psychotherapy for bulimic spectrum disorders in routine clinical practice. Design: In view of the focus on outcome in routine clinical practice, we used a naturalistic design.
Methods. A total of 53 patients were successfully followed up and independently assessed on average at six months after completing such therapy and assigned to an improved or non-improved group based on evidence of a change to a less severe diagnosis.
Results. According to our criteria 60.4% were classed as ‘improved’, 37.7% showed no significant change and 1.9% (one patient) was judged to be worse. Improvement was greater in those with a lower initial score on the global severity index of the SCL90.
Conclusions. We consider the problems of measuring outcome in such patients, as well as the implications of the results for the psychotherapeutic management of bulimic spectrum patients with significant psychiatric co morbidity.
Introduction
Recurrent binge-eating, associated with significant psychological distress, is a common clinical problem in both specialised eating disorders services and more generic psychological and psychiatric services. This behaviour is most associated with bulimia nervosa (BN), which is mainly characterised by recurrent binge eating episodes and purging to compensate for the food eaten. In many cases, however, such symptomatology may not meet strict diagnostic criteria for bulimia nervosa. For example, the DSM IV specifies a minimum average of two binge / purge episodes a week for at least three months (American Psychiatric Association, 1994), but those who present with similar behaviours (e.g. less frequent binge / purge episodes, binge eating in the absence of purging behaviours) are referred to as Eating Disorders Not Otherwise Specified (EDNOS) in DSM IV. EDNOS also includes the subgroup referred to as binge eating disorder (BED), in which recurrent binge-eating occurs in the absence of regular use of compensatory behaviour, such as vomiting or laxative abuse. This study is concerned with the psychotherapeutic treatment of the full range of such symptomatology, which for the purposes of the present study we will refer to as ‘bulimic spectrum disorders’, a term which encompasses BN, BED and other eating disorders where there is a clinical problem of binge-eating in the absence of very low body weight. Such treatment is typically offered on a time-limited basis of between 16-20 sessions.
Clinical practice in the treatment of such disorders tends to be guided by empirically supported treatments evaluated in randomised controlled trials (RCTs) (e.g. National Institute for Clinical Excellence, 2004). There is evidence from a review of the many trials of psychotherapy and drug treatments for these disorders over the last few decades that a form of cognitive-behavioural therapy (CBT-BN) successfully improves some, if not all symptoms of BN (Agras, Walsh, & Fairburn, 2000; Fairburn, Jones & Peveler, 1993; Wilson & Fairburn, 1998 for a detailed review). Interpersonal psychotherapy (IPT) also has a clear evidence base and accordingly, is also recommended as a treatment for bulimia nervosa (Fairburn, 2000, Wilfrey, Agras, Telch, Rossiter, Schneider, Cole, Sifford & Raeburn, 1993). Given the similarities between many EDNOS cases and cases of BN (Fairburn, Cooper, Bohn, O’Connor, Doll & Palmer, 2007) it is expected these treatments would also benefit patients with an EDNOS diagnosis. Indeed, NICE (2004) makes similar recommendations to the above for the treatment of BED and related atypical eating disorders.
RCTs provide valuable information on the relative efficacy of different forms of psychotherapy carried out under controlled conditions. In the delivery of therapy in routine clinical practice, however, there is evidence that therapists are more flexible in the provision of treatment, often tailoring therapy to individual needs, and being guided by their personal experience, expertise and supervision, rather than predominantly basing clinical decisions on empirical data (Von Ranson & Robinson, 2006, Thompson-Brenner & Westen, 2005b). Outside of research trials, therapists are more likely to be trained in and practise treatments that integrate theoretical frameworks than those prescribed in therapy manuals (Tuschen-Caffier, Pook & Frank, 2001; Westen, Novotony, & Thompson-Brenner, 2004). Moreover, the duration of therapy can be longer than what is prescribed in the fixed term therapies characteristic of RCTs (Morrison et al, 2003; Thompson-Brenner & Western, 2005a). These differences may be due to an increased likelihood, outside of research trials, of addressing co-morbidity (Roth & Fonagy, 1996) rather than focusing on a single disorder (Morrison et al, 2003; Thompson-Brenner & Westen, 2005b).
Accordingly, therapy in routine clinical practice may often be qualitatively different from that in randomised clinical trials (Tuschen-Caffier et al, 2001). Given these apparent differences, there is an argument for studying treatment outcomes from patient samples in routine clinical settings in order to complement findings from RCTs in the development of treatments. Morrison et al (2003) argue that treatment recommendations can be drawn from assessing correlations between what clinicians do in their everyday practice and treatment outcome. As there is likely to be variety in what is practised and its effectiveness, they argue it is important to consider studying patterns of co-variation between treatment provision and outcome to aid the development of effective treatments. Exploring treatment provision and outcome data from routine clinical practice may provide a way of addressing some of the potential omissions of the literature provided by empirically supported therapies which have focused almost exclusively on brief, largely ‘CBT therapies’ taking place in controlled trails (Thompson-Brenner & Westen, 2005 a; Westen, Novotony & Thompson-Brenner, 2004).
This study focused on the delivery of non-specific time limited outpatient psychotherapy for patients presenting with ‘bulimic spectrum disorders’ (as defined above) delivered in routine clinical practice in a specialised eating disorder service for adults within the National Health Service. There were two broad aims:
To investigate treatment outcome in routine clinical practice.
To examine whether any patient and treatment characteristics were predictive of outcome.
We hoped to use this information to indicate those patients for whom time limited psychotherapy (‘TLP’) may be appropriate, as well as identifying those patients who may need a different approach.
METHOD
Procedure
In accordance with routine clinical practice in the service, those patients with bulimic spectrum disorders assessed assuitable for a course of ‘time-limited psychotherapy’ (TLP) and whowere motivated to try this form of intervention, were placed on a waiting list for allocation to a therapist. The mean duration of waiting time to be offered a start date fortherapy was 19.2 weeks (S.D=8.8). It was explained to patients that TLP would normally consist of 16-20 sessions, usually commencing on a weekly basis. The form of psychotherapy utilised varied according to a combination of patient problems and therapeutic orientation of therapists. Broadly speaking this included cognitive-behavioural (CBT – e.g. Fairburn, Cooper & Shafran, 2003), interpersonal (IPT – Birchall, 1999), personal construct (PCT – Button, 1985) and more integrative psychotherapeutic approaches. It should be stressed that all therapy was conducted according to ‘usual clinical practice’ in the multi-disciplinary team and not constrained by the requirements of a research trial. All therapists were either experienced and qualified in their therapeutic modality or received appropriate supervision from such an individual.
At the end of the course of TLP, there was approximately a four-month period when the patient was not seen by the service. At the end of this period it was routine practice that they were invited to attend for a review appointment, usually with their original assessor, rather than their therapist. In circumstances where the assessor and therapist was the same person, the review was conducted by a third party with experience in assessing eating-disordered patients. We only attempted to review those patients who completed at least a half of the allocated number of sessions (>=8). Those patients who did not take up the formal offer of a start date for therapy or who dropped out at an early stage in therapy (<8 sessions) were not formally reviewed for this study. We did, however, carry out a comparison of those reviewed and those not reviewed in order to assess representativeness (see below).
Participants
Subjects were drawn from a consecutive series of patients who had presented to a specialised eating disorders service over a three-year period between January 2004 and January 2007. Their initial assessment had concluded that they were suitable for a course of time-limited psychotherapy and that they met criteria for either bulimia nervosa or eating disorder not otherwise specified (including binge eating disorder), with regular (at least weekly) ‘objective’ binge-eating being present for at least three months. Patients with a Body Mass Index (BMI) less than 18.0 and/or a recent history of anorexia nervosa were excluded.
During the period of the study, 138 patients were offered TLP for ‘bulimic spectrum disorders’ and thus eligible for the study. They were predominantly young females, althoughseven(5.1%)were male and eighteen (13.0%) were age 40 or over. 67.2% were diagnosed as BN and 32.8% as EDNOS. Only 21.7% had previously received some form of psychiatric/psychotherapeutic treatment specifically for their eating disorder. In all cases, binge-eating was a significant aspect of their eating disorder. Most patients used some form of compensatory behaviour, most commonly self-induced vomiting, which occurred at least weekly in 68.8% of patients. In addition to their eating-disordered behaviour, as a group they showed elevated scores on the SCL90 (Global Severity Index mean = 1.74, SD = 0.76 ) and the Rosenberg Self-Esteem Scale (RSE) (mean= 4.81, SD = 1.53), thus indicative of wider mental health problems, as one would expect in such a population.
Out of the overall cohort, 24 never started; 32 attended 1-7 sessions; 28 attended therapy but failed to attend review; 1 patient where details were lost. The remaining 53 patients were reviewed at least four months (mean 26.5 weeks, S.D. 14.4) after completing therapy and comprised our main study sample, as outlined below.
Main Study Sample
The characteristics of the main study sample are displayed in Table 1. We compared those reviewed (n=53) with those not reviewed (n=85) on a number of clinical and demographic variables. The only difference between groups was that those reviewed were older at initial presentation (t=2.838, d.f. 136, p<.001). In all other respects, there was no evidence that those followed up were in any way atypical of the cohort as a whole.
Table 1: Characteristics of Main Study Sample (n=53)
Measures and the Assessment of Outcome
As part of the Service’s routine assessment processes, all patients were asked to complete the following questionnaires at initial assessment and at review:
In addition to such validated questionnaires, clinicians used an in-house standard rating scale of the frequency of key behaviours and concerns characteristic of eating disorders. This was based on the Clinical Eating Disorders Rating Instrument (‘CEDRI’) (Palmer, R.L., Christie, M., Cordle, C., Davies, D. & Kenrick, J., 1987), which is also incorporated into the service’s routine assessment.
Our main outcome criterion was based on the diagnosis at review compared with that at initial assessment. Diagnosis was according to DSMIV criteria and in each case this was based on a consensus judgement by the first two authors (EB and CW).
Improved
Where patients moved to what might be regarded as a less severe diagnosis and included:
BN to EDNOS
BN to No Eating Disorder
EDNOS to No Eating Disorder
It should be noted that in our study this category would not apply in cases where there was any significant increase in frequency of either binge-eating or compensatory behaviour.
No Change
Where patients remained at the same diagnosis (i.e. BN or EDNOS)
Worse
Where patients moved to a more severe diagnosis (i.e. from EDNOS to BN)
Co-morbidity
We did initially consider making a comparison of co morbidity before therapy and at review, but robust data was not available on a sufficient number of patients to make this valid. We will, however, exemplify some of the issues around co-morbidity by means of case vignettes.
Statistical Analysis
All data was stored and analysed using SPSS version 16.0. Non-parametric statistical tests (Mann-Whitney and chi-square) were used to compare improvers with non-improvers.
RESULTS
Outcome
The breakdown of outcome was that 60.4% were categorised as ‘improved’, 37.7% ‘no change’ and 1.9% ‘worse’. At follow-up only 15.1% met criteria for bulimia nervosa and 37.7% were symptom-free from the eating disorder standpoint (i.e. no recent objective binge-eating or compensatory behaviour). The remainder (47.1%) were categorised as EDNOS.
Factors Associated with Outcome
In view of the fact that only one patient was categorised as worse, the improved group was compared to the non-improved group (comprising ‘no change’ and ‘worse’) on all variables. Two variables significantly differentiated between improvers and non-improvers. Lower score at initial assessment on the Global Severity Index of the SCL90 was found in improvers (Mann-Whitney U 148, p=.025). Moreover, those patients who received a form of CBT (n=8) were more likely to be improvers (chi-square 6.56, d.f. 2, p<.05). All eight patients who received CBT were improved, as opposed to 24/45(53.3%) of those receiving other forms of psychotherapy. In view of this finding, we compared those receiving CBT versus the remainder on pre-treatment variables and there was no evidence that they presented with less severe symptoms initially.
Problems in Measuring Outcome in this Study
In order to illustrate some of the difficulties of assessing outcome in bulimic spectrum disorders and to indicate how the use of different outcome measures is likely to result in different ‘improvement’ rates, two cases are briefly presented below:
Case Vignette: N
N was a 43 year old male, who presented with bulimia nervosa (purging type) and moderate depression over the past two years. He had had no previous treatment for his eating disorder, but he had attended general psychiatry out-patients a year or two ago for his depression. At initial presentation, he was bingeing 3-4 times a week, as well as vomiting and taking laxatives at similar frequency.
He received 17 sessions of IPT. When followed up five months after therapy, he was only bingeing occasionally (less than weekly), but his vomiting had increased to 2-3 times a day. His mood had improved. He was next followed up a further three months later, by which time he was eating regularly, not bingeing and vomiting had reduced to 1-2 times a week, his mood improvement having been sustained.
In this case, according to the binge-eating criterion, there is clear improvement at both 5 and 8 month follow-up, whereas in terms of vomiting there was deterioration, albeit followed by some improvement. Moreover, initial and sustained improvement in mood was not accompanied by marked improvement in eating behaviour.
In this study N, outcome was taken at the five month follow up point. N was rated ‘no significant change’, as despite having shifted from a diagnosis of BNP to EDNOS and reporting improved mood, his increase in vomiting indicated a severe level of eating disorder psychopathology remained.
Case Vignette: C
C was a 25 year old obese woman presenting with Binge Eating Disorder over the past four years. She had had no previous treatment for an eating disorder, but had received some counselling at general practice level for depression. At initial presentation, binge-eating was occurring five times a week, with no compensatory behaviour.
She received 16 sessions of IPT. At follow-up five months later, there had been only one binge-eating episode in the past five weeks, but questionnaire scores (EDI, SCL90, Rosenberg and Core) were unchanged and indicative of continuing moderate depressive symptoms and ongoing low self-esteem.
Thus, whilst improvement was identifiable in terms of the binge-eating criterion, there was considerable ongoing co-morbidity.
In this study outcome was rated as ‘significant improvement’. This was based on the change in eating disorder symptoms as this study did not include measures of co-morbidity to evaluate outcome.
DISCUSSION
The first aim of the study was to investigate treatment outcome for time-limited psychotherapy for ‘bulimic spectrum disorders’ in routine clinical practice. In this study outcome was examined by assessing ‘improvement’ in the group of patients who completed therapy and attended for a four month follow up review. Improvement was defined by movement from one eating disorder diagnosis to one that was considered less severe. Using this criterion, our results show that 60.4% of those who completed therapy had improved. However, not all of these were free of an eating disorder. In terms of diagnosis 37.7% had no eating disorder symptoms, 47.1% met criteria for EDNOS and 15.1% met criteria for BN.
This outcome appears to be comparable with those of other studies of time limited therapies for bulimic spectrum disorders, which report improvement rates as ranging from 39% – 70.1% (e.g. Agras et al, 2000; Fichter et al, 2008; Vrabel et al, 2008; Wilson and Fairburn, 1998).
This variation in ‘improvement’ in studies is due to a number of factors, the most common of which is the lack of agreement in defining and measuring outcome (Anderson & Maloney, 2001; Fassino, Piero, Levi, Gramaglia, Amianto, Leombruni, & Abbate Daga, 2004). Studies include a variety of diagnostic and outcome measures, reflecting numerous definitions of symptoms, remission, recovery and relapse; they rely on a variety of sources to assess outcome (i.e. patients, clinicians and independent / external assessors) and outcome may be reported at a variety of time periods post treatment. In this study we chose to measure a change from one eating disorder diagnostic category to a less severe category (as recorded in DSM-IV), as have other studies (e.g. Vrabel et al, 2008). However, as the case vignettes described above illustrate, defining outcome was not always straightforward. A shift from BN to the EDNOS category generally constituted a reduction in binge – purge behaviours. However this was not true in every case. For example Case Vignette ‘N’ significantly reduced binge-eating, but also increased purging behaviour significantly, resulting in a change of diagnosis from BNP to EDNOS, but an assessment outcome of ‘no significant change’. As explained above, even though a patient may have changed to a more favourable diagnosis, where there was any substantial increase in either binge-eating or compensatory behaviour we classified the outcome as ‘no change’. This is an important clinical point, and needs to be made explicit, when using a shift in diagnosis as a measure of outcome.
A second aim of this study was to examine whether any patient and treatment characteristics were predictive of outcome. This study identified two variables that appeared to predict improved outcome. The first was patient’s scores at initial assessment on the Global Severity Index (GSI) of the SCL-90, with lower scores on this measure, predicting superior treatment outcome. The GSI was taken as a crude measure of co morbidity and hence it appears that a higher level of co-morbidity as measured at initial assessment was a predictor of poorer treatment outcome. Other studies indicate the presence or indication of co-morbid problems as an indication of poor treatment outcome in the treatment of binge eating disorder and bulimia nervosa (e.g. Baell and Wertheim, 1992; Berkman, Lohr & Bulikl, 2007;Bossert, Schmolz, Wiegand, Junker & Kreig, 1992; Thompson-Brenner and Westen, 2005a). In some studies other predictors of global outcome have been identified, such as low self-esteem (Bell 2002), binge frequency and ‘ineffectiveness’ (Baell and Wertheim,1992), but the current study did not replicate these findings.
Complex patients presenting with pre treatment co-morbidity may need to be routinely offered additional or different treatment to the time limited therapies offered, which focus primarily on addressing the eating disorder. Westen and Hardern-Fischer (2001) comment that symptom focused treatments can help but may fail to address the personality structure that provides a context for understanding disordered eating patients. Indeed, given the increasing body of evidence showing that personality variables run alongside most mood, anxiety and eating disorders, they should be a focus of treatment alongside symptoms (Brown and Barlow, 1992; Westen et al, 2004; Thompson-Brenner & Westen, 2005a), to create a treatment approach more valid than current manualised treatments focusing solely on a specific set of symptoms.
Lengthening treatment may address this need as specific aspects of the co morbidity (e.g. depression, anxiety, personality issues, low self esteem, ‘ineffectiveness’) could then be addressed either by integrating specific symptom focused with co morbid / personality focused interventions from the beginning of therapy, or by addressing broader issues prior to addressing the eating disorder. An alternative way of addressing this issue is to develop a flexible (‘staged’) treatment approach whereby eating disorders symptoms are the initial focus of therapy but there is the flexibility to move to address broader psychopathology / issues if assessed as being clinically appropriate.
The second predictor of improvement indicated in this study is related to the type of time limited psychotherapy the patient received, with those who received CBT having improved outcome in comparison to those receiving other psychotherapeutic approaches. Analysis was conducted, which indicated that patients offered CBT at assessment were not ‘qualitatively different’ from those offered another type of therapy. This is an interesting finding, which appears to be consistent with current NICE Guidelines and research (Fassino et al, 2004, reviewed existing literature on psychological treatments for eating disorders and found evidence of the efficacy of CBT). However we would wish to be extremely cautious in drawing conclusions from this finding, given the very small numbers in the therapy subgroups.
The findings from the current study are limited by several factors. Firstly, this research is based on a single service over a three year period. Although it is likely that the patients presenting in this time are typical of those generally seen in this service, a larger cohort would have given more statistical power to the data.
Secondly, the main finding was restricted to patients who attended follow up appointments at four months post therapy. This was 53/81 patients (65.4%) of those who attended at least half of the allocated number of sessions, with approximately one third of those contacted failing to attend. Moreover, we did not have the resources to be able to attempt to assess those patients who dropped out at an early stage in treatment. This appears to reflect the difficulties in ‘real life’ service evaluation research of getting patients to attend appointments and/or complete questionnaires once their treatment has ended. The percentage of follow ups obtained in routine clinical practice is generally much smaller than among the participants of controlled trials (Tuschen-Caffier et al, 2001) and reflects the clinician’s general difficulties and resource constraints of ‘chasing’ patients who have been discharged from routine clinical practice. However it is a significant point with regard to evaluating outcome, as outcome levels have been shown to improve over time (e.g. Fitcher, Quadflieg & Gnutzmann, 1998; Fichter et al, 2008; Vrabel et al, 2008).
Thirdly, outcome in this study was limited to a primary analysis of eating disorder symptoms as we did not have consistent, detailed information on co-morbidity. Our measure of co morbidity came from the Global Severity Index of the SCL-90 and although this is a measure used in other studies to assess the presence of wider psychopathology, more specific tools such as the Beck Depression Inventory could have been administered. We would also have benefited from systematically collecting information regarding contact with general psychiatric services.
Finally, this study aimed to look at outcome in real life practice, thereby the therapists weren’t following manualised treatment packages. Accordingly we cannot make any claims about the relationship between specific interventions and outcome.
In conclusion, this small-scale service-evaluationstudy of time-limited psychotherapy in routine clinical practice found improvement rates broadly comparable to the range of outcomes deriving from current literature . However, as Fassino et al (2004) point out, the lack of consensus on how to define outcome in eating disorders is problematic and the use of different criteria of improvement could produce significantly different results. The predictors of ‘good outcome’ in this study were also consistent with the current research literature. We hope that our findings will stimulate further outcome research in routine clinical practice in other specialised eating disorder services, to complement findings from randomised clinical trials.
References
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State of Mind
Original Article
Outcome of Time Limited Psychotherapy for ‘Bulimic Spectrum Disorders’ in Routine Clinical Practice
Objectives: Our aim was to explore treatment outcome for non-specific time-limited psychotherapy for bulimic spectrum disorders in routine clinical practice. Design: In view of the focus on outcome in routine clinical practice, we used a naturalistic design.
Methods. A total of 53 patients were successfully followed up and independently assessed on average at six months after completing such therapy and assigned to an improved or non-improved group based on evidence of a change to a less severe diagnosis.
Results. According to our criteria 60.4% were classed as ‘improved’, 37.7% showed no significant change and 1.9% (one patient) was judged to be worse. Improvement was greater in those with a lower initial score on the global severity index of the SCL90.
Conclusions. We consider the problems of measuring outcome in such patients, as well as the implications of the results for the psychotherapeutic management of bulimic spectrum patients with significant psychiatric co-morbidity.
Questione di gusti: la prima puntata di “In treatment” non la ricordavo come la mia preferita. Rivedendola, mi ha confermato una certa perplessità. Intendiamoci, la serie ha tutto il mio gradimento, altrimenti non starei qui a rivederla tutta per condividerla commentandola con voi. E poi si tratta del mio giudizio personale senza alcuna pretesa critica.
In questa prima puntata si familiarizza con il “format” della serie. C’è il terapeuta, un analista, interpretato da Gabriel Byrne. E c’è la paziente, una donna seduta su un divano e in posizione vis-a-vis col terapeuta.
I pazienti di Paul Weston (il nome del personaggio analista) non adottano la posizione sdraiata classica sul lettino o sul divano. Probabilmente non lo fanno per ragioni drammatiche. Già essere riusciti a fare una serie appassionante usando solo due attori che parlano deve essere stata un’impresa. Renderla interessante impedendo ai due attori di guardarsi in faccia sarebbe stata una missione impossibile.
Questa prima puntata inizia con la paziente in lacrime e il terapeuta perplesso, quasi attonito. Perplesso come me spettatore, del resto. Non riesco a capire cosa succede. La paziente è una bellezza che –almeno a me- pare un po’ anonima. Sarà un pregiudizio, anzi lo è: questa ragazzona americana piangente mi dà subito l’idea di una persona manipolatrice e falsa. Mi aspettavo una situazione intensa e introspettiva e invece mi trovo con questa bambolona tecnicamente attraente ma, forse per il mio gusto mediterraneo, priva di vero fascino.
Ulteriore motivo di perplessità, la sensazione di essere davanti a una situazione già troppo forte che mette in crisi la credibilità dell’ambiente terapeutico, del cosiddetto setting. Gli sceneggiatori, di fronte alla scarsa drammaticità della situazione terapeutica, due persone che parlano in una stanza, sono costretti a scardinarla. Così facendo però mi fanno temere che l’intera serie possa soffrire di claustrofobia e che assisterò a violazioni sistematiche delle regole terapeutiche. Mi viene in mente il classico libro “Violazioni del setting” di Glen Gabbard (1991), un campionario completo delle scorrettezze dei terapeuti. In primo piano, naturalmente, quelle di natura sessuale. E intanto la bambolona continua a piangere, non si sa bene perché. Sono perplesso e quasi diffidente. Stai a vedere che i soggettisti mi somministreranno la solita storia del terapeuta che va a letto con la paziente.
La donna inizia un racconto che cattura la mia attenzione. La forza di In treatment risiede molto in questi racconti che alimentano la forza drammatica del telefilm. Questo primo racconto conferma l’intensa sessualità e seduttività di questa paziente del lunedì, Laura.
Laura ha litigato la sera prima con il suo fidanzato convivente, poi è uscita a bere in un locale con un’amica. Ha bevuto troppo e si è lamentata tutta la sera. Il suo fidanzato, dice Laura, ha posto un ultimatum: o ci si sposa o ci si lascia. Laura ha percepito questo ultimatum come un ricatto sentimentale e dice al terapeuta che ormai gli uomini sono diventati le nuove donne: sono ossessionati dal matrimonio.
Il racconto prosegue con una scena di sesso occasionale (ma non consumato) con un avventore di quello stesso locale dove Laura è andata con l’amica. Avventore definito da Laura “republican”, uno che vota per il partito Repubblicano. Frase che conferma la tendenza di Laura a etichettare. Dopo aver evitato di consumare nel bagno del locale con l’avventore, seguono disperazione, confusione e una notte insonne per Laura, notte trascorsa al freddo in auto parcheggiata nei pressi dello studio (e della casa) di Paul. Tutto appare sempre più teatrale e manipolatorio.
Il racconto ha ancora un sapore di risaputo ma cattura. In seguito, conoscendo lo sviluppo del personaggio di Laura, mi chiederò se questa sensazione di prevedibilità del racconto di Laura sia stata consapevolmente assunta dagli autori del telefilm. Tutto in Laura suona come prevedibile e al tempo stesso irresistibile e manipolatorio.
Il punto di crisi è quando salta fuori che, in realtà, è stata per prima Laura a dire al fidanzato che, al punto in cui era la loro relazione, o ci si lasciava o ci si sposava. Per un attimo Paul sembra prendere l’iniziativa e mettere spalle al muro Laura. Ma di nuovo la perde, subito dopo: Laura, colpo di scena (oppure no?), confessa il suo amore a Paul. E a mia volta confesso che i miei sentimenti verso questa prima puntata erano al massimo dell’ambivalenza. Da una parte ero catturato dalla capacità degli sceneggiatori di costruire un racconto semplicemente facendo parlare i personaggi senza farli quasi agire (anche se laura qualcosa fa: piange come una fontana e nel pieno del racconto dell’incontro dell’avventore si ritira in bagno per vomitare). D’altro canto presentare una paziente così sfacciatamente isterica nella prima puntata mi pareva un gioco troppo scoperto e scontato. Isteria, seduttività, donna, psicoanalisi. Il terapeuta che ascolta, apparentemente distaccato ma in realtà maneggiato come un pupazzo dalla paziente. Troppo facile.
Ma torniamo a questa prima puntata. Laura confessando il suo amore a Paul riprende la palla e non la molla più. Paul non farà altro che ascoltare fino alla fine. L’offerta di Laura è esplicita, perfino sfacciata, sia pure tra le lacrime. È un’offerta assoluta e immediata, affettiva e sessuale al tempo stesso. A questo punto Paul non può fare a meno di chiarire che egli non può accettare, sotto ogni punto di vista. La reazione di Laura è di sbalordimento: si aspettava invece un’adesione immediata e completa da parte di Paul. Con annesso rapporto sessuale sul divano analitico.
Devo dire che, arrivato a questo punto, ero in uno stato misto di fascinazione e incredulità. Sia quando lo vidi la prima volta, sia rivedendo in questi giorni, la mia impressione rimaneva identica: la paziente mi pareva inverosimile, e l’offerta sessuale da consumarsi sul divano era davvero troppo. Laura poi è troppo ragazzona. Eppure qualcosa non trasformava tutto questo in delusione, ma in fascinazione.
Ed era merito del tema sottostante che già emerge in questa prima puntata. Tutta la serie sarà dedicata al dramma di Paul e alle sue difficoltà di rispettare le regole professionali del cosiddetto setting terapeutico avendo a che fare con pazienti che sono tutti particolarmente capaci di sfondarle e di attirarlo fuori dalla sua parte di osservatore.
In treatment è proprio una serie sulle violazioni del setting, e lo annuncia fin dalla prima puntata. Per questo affascina e cattura, malgrado la situazione già fin troppo estrema che presenta da subito.
La nascita di un bambino è un evento di fronte al quale i neo-genitori non si sentono quasi mai pronti e che solleva una serie di interrogativi e di dubbi sulle proprie competenze in qualità di genitori. “Sarò una buona madre?”, “Sarò un buon padre?” sono domande che, quasi certamente, ci si è posti almeno una volta nella vita, dopo essere venuti a conoscenza del concepimento di un figlio. Ebbene c’è un modo per dare una risposta a queste domande prima della nascita di un bambino: un buon partner, molto probabilmente, sarà anche un buon genitore. Esisterebbe, infatti, una relazione tra lo stile di attaccamento romantico della coppia e lo stile genitoriale e questa relazione sarebbe mediata dal fattore della “responsività”: sia nel rapporto di coppia che nel rapporto tra genitori e figli è fondamentale essere responsivi, ossia essere sintonizzati con l’altro e rispondere in maniera adeguata e tempestiva ai suoi bisogni.
Articolo consigliato: “Perfezionismo e Genitorialità, lo stress e l’ansia di essere un genitore perfetto”
Recentemente, alcuni ricercatori (Millings et al., 2012) hanno condotto uno studio per esaminare l’eventuale relazione esistente tra lo stile di attaccamento e la responsività verso il partner e lo stile genitoriale. Per quanto concerne lo stile genitoriale, è stato preso in considerazione il modello di Baumrind che distingue 3 stili: autoritario, autorevole e permissivo. Rispetto allo stile di attaccamento, sono state distinte le modalità evitante, ambivalente e sicura: lo stile di attaccamento evitante si associa ad una mancanza di sensibilità e di responsività nei confronti dell’altro e a ripetute risposte di rifiuto; lo stile ambivalente è caratterizzato da risposte incoerenti e inadeguate; lo stile sicuro è quello ottimale ed è caratterizzato dalla capacità di rispondere in maniera pronta e adeguata alle richieste dell’altro. Hanno partecipato allo studio 125 coppie di età compresa tra i 24 e i 55 anni, di cui l’89% degli uomini e il 99% delle donne erano i genitori biologici dei bambini. Ai partecipanti sono stati somministrati dei questionari per valutare l’attaccamento romantico nella coppia, la responsività manifestata nei confronti del partner e lo stile genitoriale.
I risultati hanno messo in evidenza che la responsività è un fattore di mediazione tra l’attaccamento romantico e lo stile genitoriale e questa relazione è presente sia nelle madri che nei padri.
In particolare, è emerso che gli stili di attaccamento evitante e ambivalente all’interno della coppia si associano a bassi livelli di responsività e ad una predilezione per gli stili genitoriali permissivo (caratterizzato da eccessiva tolleranza, senza alcuna forma di controllo e di autorità) o autoritario (in cui il rispetto delle regole è ottenuto anche attraverso metodi coercitivi e punitivi). Lo stile di attaccamento sicuro, invece, è associato ad uno stile genitoriale autorevole, attraverso il quale si valorizzano l’autonomia e l’indipendenza dei figli, ma si fa anche valere l’autorità dando delle regole, senza, tuttavia, ricorrere a metodi punitivi.
Lo stile di attaccamento sicuro e lo stile genitoriale autorevole consentono di essere per i propri figli una base sicura alla quale fare riferimento nel momento del bisogno, ma dalla quale allontanarsi nei momenti di sicurezza per esplorare l’ambiente circostante e diventare gradualmente autonomi.
Dunque, essere sensibili e responsivi verso il proprio partner può aiutarci ad essere anche buoni genitori e ad essere attenti ai bisogni di entrambi.
Questo risultato potrebbe essere molto utile anche nella progettazione di interventi di auto-aiuto tesi a migliorare la responsività di entrambi di partner, in modo tale da agire nello stesso tempo sia sulla coppia che sulla relazione tra genitori e figli.
L’ evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale.
In questo articolo parleremo del primo processo chiave dell’ACT: L’evitamento esperienziale e della sua controparte, l’accettazione.
Come scritto nell’introduzione di questa monografia, l’accettazione rientra nel macro-processo di processi di mindfulness e accettazione, cardine per la flessibilità psicologica cui mirano i percorsi psicoterapici ACT.
Che cos’è esattamente l’evitamento esperienziale? Partiamo da qui…
Articolo Consigliato: ACT-Acceptance and Commitment Therapy. La soluzione è accettare.
L’evitamento esperienziale è quell’insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare e/o alterare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), anche quando ciò causa un danno comportamentale. Tentativi per controllare l’ansia, pensieri per controllare altri pensieri (es: rimuginare), cercare in tutti i modi di non pensare o di non ricordare un dolore tramite comportamenti dannosi e disfunzionali.
L’evitamento esperienziale si concretizza anche nei tentativi di fuga o di controllo dell’esperienza esterna, come evitare situazioni ansiogene, evitare i conflitti o l’espressione della rabbia.
Che sia rivolto all’interno della nostra esperienza psichica o all’esterno, la natura e la funzione dell’evitamento esperienziale non cambia: lo scopo è fuggire, razionalizzando, ignorando, iperspiegando… insomma, cercando con tutte le forze di allontanare ciò che per noi è doloroso e che riteniamo insopportabile.
Possiamo, quindi, evitare pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni (anche piacevoli, ad esempio entrare in contatto con l’intimità…) ma anche situazioni esterne.
E’ fondamentale comprendere insieme al paziente quali siano le aree della sua esperienza in cui presenta un repertorio e modalità di fare esperienza che siano ristretti, ripetitivi, ricorsivi e che portino alla formazioni di circoli viziosi dannosi.
Anche durante la terapia, e nella relazione terapeutica, è possibile osservare alcuni comportamenti del paziente che facciamo pensare ad una messa in atto dell’evitamento. Vediamone alcuni. Rispondere in modo aggressivo ad un intervento del terapeuta, arrivare in ritardo alla seduta, attivare spesso e volentieri l‘accudimento del terapeuta tramite una richiesta di aiuto disfunzionale e allarmante. Altre situazioni di evitamento esperienziale potrebbero essere le risate durante un racconto doloroso e sofferente, non lasciare mai spazio agli aspetti negativi e dolorosi degli episodi narrati oppure cambiare in modo repentino argomento mentre in seduta si stanno affrontando temi importanti per il paziente.
Come si può vedere da questi esempi, tutti questi comportamenti sono accumunati dallo scopo di evitare pensieri, emozioni, immagini e ricordi dolorosi che sarebbe opportuno affrontare. Il tutto con l’aspettativa e la convinzione che controllando questi aspetti si possa soffrire meno. Presto ci si accorge che, come ben scrive Hayes: “the control is the problem, not the solution” (“il controllo non è la soluzione, ma il problema”).
Quale alternativa, quindi, all’evitamento esperienziale?
Il corrispettivo funzionale dell’evitamento esperienziale nell’ACT viene chiamato “Accettazione”. Essendo un termine che talvolta viene confuso e malintepretato, in psicoterapia si possono usare altri termini simili come “lasciare spazio” o “aprirsi all’esperienza”.
Verso cosa dovremmo, quindi, lasciare spazio? Alle emozioni dolorose, ai pensieri dannosi che ogni giorni la nostra mente ci propone, agli impulsi e ai ricordi dolorosi.
Articolo consigliato: Il Controllo è il Problema, non la Soluzione.
Per quanto difficile tale processo possa essere, l’alternativa sembra più dannosa: versare tutto nel pentolone bucato del dimenticatoio non funziona e non fa altro che aggiungere dolore e sofferenza al dolore già normalmente presente nelle vite di tutti gli esseri umani.
Smettendo di muoverci con tutte le nostre forze sulle sabbie mobili dell’evitamento esperienziale (metafora frequente nell’ACT) potremmo provare una strategia alternativa e aprirci alle esperienze della nostra vita, guardandole per quello che sono.
In questo modo, potremmo imparare: a) a non giudicare le nostre esperienze interne (ed esterne) con uno sguardo malevolo dell’inquisitore di noi stessi e b) accogliere gli stati emotivi e dar loro l’importanza “informativa” che meritano e c) indebolire il potere dei pensieri sul nostro comportamento e sulla nostra esperienza quotidiana.
Proviamo ad immaginare un tema di sofferenza a noi (ahimè) caro. Questa immagine continua a presentarsi nella nostra mente e non ha nessuna intenzione di andarsene. Puntualmente si ripresenta nella nostra esperienza e ne influenza i comportamenti e gli esiti del nostro agire. Cosa potremmo farci con questa immagine?
Se metto in atto un evitamento esperienziale potrei far finta di niente, cercare con tutte le risorse che ho di allontanarla, di non pensarci, di scaricare l’emozioni che accompagna l’immagine con un comportamento impulsivi, o con l’uso di una sostanza, e così via…
Dove porterebbero tali tentativi di allontanamento da questa immagine dolorosa?
Se la risposta è facile, la soluzione non lo è di certo. Assumente un atteggiamento di apertura, di accettazione verso la propria esperienza richiede sforzo, tempo, fatica, impegno e anche sofferenza.
Ma se, come ricorda il titolo del famoso libro di Hayes, vogliamo “Smettere di soffrire e iniziare a vivere” forse questa sarebbe la strada più appagante e a lungo termine meno dolorosa.
Marino era un giovane, poi un adulto e ora quasi un anziano che ho visto saltuariamente per quasi trent’anni. Ad accompagnarlo, nel corso della sua dolorosa esistenza, è stato soprattutto un mio carissimo collega cui lo affidai dopo il primo contatto con me, avvenuto in emergenza. Adesso le parti si sono invertite ed è il collega a chiedermi, a distanza di anni, di dare un’ “aggiustatina” alla terapia farmacologica, che non ha mai sospeso: non lo ha mai guarito, ma ogni volta che è stata interrotta emergono le laceranti angosce deliranti di Marino.
Marino è uno dei pazienti in cui è più forte la differenza tra l’aspetto esteriore e quello che si agita dentro di lui. Apparentemente si presenta come un ragazzo, poi adulto, infine anziano, di buona famiglia e di ottima educazione, capace di gentilezze di altri tempi fin troppo manierate, una persona di ottima cultura classica, con interessi molteplici su cui intrattiene amabili conversazioni. L’aspetto del rampollo di una famiglia che fu benestante, impegnata da tempo a gestire un declino irreversibile: pettinatura (fin quando ci sono stati i capelli) fuori moda con una riga a destra eredità del nonno, gran cavaliere del lavoro, che aveva costruito le fortune della famiglia costruendo orribili dormitori alla periferia della città, negli anni del boom economico; vestiti sempre eleganti, ma di una taglia più piccola, dall’aspetto vissuto a denunciarne l’origine paterna.
L’impressione che ho sempre ricavato, sin dal primo incontro con Marino, è che fosse fuori posto. Il guaio è che la stessa profonda sensazione di estraneità al consesso degli esseri umani la provasse lui stesso. Era costantemente imbarazzato e sembrava riuscisse a rapportarsi con me e gli altri solo attraverso un ragionamento interno sempre attivo, in cui si chiedeva cosa fosse opportuno dire o fare in quella circostanza. Quello che a tutti sembra venire assolutamente naturale per lui era frutto della consultazione mentale del codice del galateo. Ciò comportava una marcata lentezza e un assoluta mancanza di spontaneità. Darsi la mano in sincronia, alternarsi nella conversazione con un interlocutore senza sovrapporre parole e silenzi, scambiarsi un cenno di saluto con uno sguardo non erano per lui degli automatismi che non sappiamo dove abbiamo appreso ma guidano automaticamente il comportamento, ma compiti impegnativi e sconosciuti da risolvere con un ragionamento che conducesse ad una decisione.
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Mi sono convinto nel tempo che l’essenza del dramma che ha accompagnato Marino per tutta l’esistenza fosse proprio questa estraneità radicale. Certo i deliri, le allucinazioni e gli agiti esplosivi erano l’aspetto più vistoso e inquietante, ma anch’essi mi sembravano radicarsi su questo nucleo di alterità irriducibile. Mi viene da dire che i deliri fossero il tentativo di spiegare e dare un senso a quanto gli fluiva intorno e che a lui appariva estraneo e incomprensibile, mentre per tutti gli altri era ovvio e scontato.
Per mettermi nei suoi panni ho immaginato di essere in un paese straniero di cui non solo afferro malamente la lingua ma non conosco affatto le usanze, i costumi, le regole fondamentali del comportamento interpersonale. Immagino anche che una guida mi abbia informato sulla facilità e pericolosità di offendere gli abitanti e mi abbia consegnato un manuale con le regole da seguire, da leggere durante il volo aereo. Lasciato l’aeroporto e addentratomi nella città, cammino guardingo e sospettoso con il timore che un mio gesto o una frase inopportuna abbia l’effetto di spingere l’ interlocutore a farmi saltar via la testa con un solo ben assestato fendente.
Marino viene portato per la prima volta da me intorno ai venticinque anni. Il giorno precedente è stato ricoverato in SPDC dopo aver sequestrato il suo capoufficio, minacciando di ucciderlo con un coltello. Mi spiega che si trattava di autodifesa perché il capoufficio era intenzionato ad ucciderlo. Per capire come si arriva all’episodio che costituisce il debutto psichiatrico di Marino sono necessarie notizie sulla sua storia.
E’ l’unico figlio di Marta e Giovanni. Marta a sua volta è l’unica figlia di una famiglia di artisti e artistoidi con una tendenza alla bizzarria e alla schizotipia. Il padre è violoncellista, la madre pittrice, uno zio poeta e un altro scultore, morto da poco in manicomio. Per la famiglia di Marta tutto ciò che non è arte è volgare e disprezzabile, per questo la famiglia è apertamente contraria al matrimonio con Giovanni, che gira su una fiammante Maserati ma è pur sempre figlio di un palazzinaro di origini abruzzesi. La contrarietà al matrimonio è altrettanto vivace nella famiglia di Giovanni che, radicata sui valori del lavoro e del fare soldi con il sacrificio, guarda con sospetto e disprezzo i sognanti e inconcludenti parenti di Marta.
I due genitori con le rispettive famiglie schierate alle spalle si battono per la conquista dell’immaginario e del futuro di Marino. La madre riconosce in lui, sin da neonato, le tracce di una sensibilità che ne faranno un grande artista: il modo in cui impugna il biberon le fa intravedere un luminoso futuro da flautista, che lei ha preparato ascoltando musica classica a pancia scoperta per tutta la gravidanza. Giovanni non ha dubbi sul futuro da ingegnere, che un giorno sarà alla guida della azienda fondata dal nonno, la “Calceforte s.r.l.”: la prova incontrovertibile è la sua passione per le costruzioni con il Lego. Entrambi i genitori sono estremamente di carattere e ciò genera conflitti costanti in ogni ambito della vita domestica, ma il centro della guerra è per la conquista del futuro di Marino.
Durante le elementari e le medie non mostra una particolare propensione allo studio e questo rappresenta un duro colpo per entrambi. Gli insuccessi di Marino rappresentano per loro un fallimento, una diminuzione personale. Lui vorrebbe fare il linguistico, Marta lo vuole al classico e Giovanni, naturalmente, allo scientifico che lui stesso ha frequentato. La disputa si risolve grazie all’apertura proprio in quell’anno di una sezione sperimentale, un ibrido tra classico e scientifico. Il rendimento di Marino è disastroso e non è chiaro se sia la conseguenza o piuttosto la causa di quanto avviene in famiglia. Marta si avvolge in una cupa depressione e cessa ogni rapporto sociale, sostenendo che i risultati del figlio la fanno vergognare con le sue amiche e li nasconde ai familiari. Giovanni inizia una relazione clandestina con un’ operaia della ditta, di vent’anni più giovane, che gli prosciuga i conti, fino a costringere il padre e i cognati a intervenire, di fatto interdicendolo da ogni attività economica. La coppia è ripetutamente sul punto di separarsi ma resta unita per Marino che invece, in cuor suo, si augura una rapida risoluzione di quel legame falso e malamente ostentato. Prende la maturità per il rotto della cuffia con il minimo dei voti, in un liceo privato. Disorientato sul suo futuro e senza specifici interessi, cambia quattro facoltà in tre anni. A questo punto la famiglia decide che l’Università italiana è troppo scarsa per interessare Marino e valorizzarne gli immensi talenti e decide di indirizzarlo in costosissimi e qualificatissimi master. Nell’ordine, frequenta i seguenti corsi: “Giornalista e critico d’arte”, “Management aziendale e superamento delle congiunture economiche”, “Economia applicata ai mercati dell’arte”, “ Arti nuovi e nuovi mercati”.
Lui propone una laurea breve in fisioterapia ma ciò suscita riprovazione e disgusto. La sola idea che loro figlio tocchi con le mani il corpo deforme e malato di altri esseri umani fa rabbrividire sia Marta che Giovanni.
Tutti questi master, che si concludono con un attestato di frequenza, non conducono a nessuna prospettiva lavorativa e Marino continua a vivere a casa e sulle spese dei genitori. Gli insuccessi scolastici e professionali non intaccano minimamente l’idea che i genitori hanno di Marino e che sta diventando l’idea che lui ha di se stesso. E’ considerato da loro e da sè come un genio assoluto incompreso ed ostacolato nell’esprimersi dalla mediocrità dell’ambiente in cui è costretto a vivere.
Uno zio paterno, preoccupato della situazione, si accorda con un suo amico sindacalista perché lo assuma in una sede del patronato con mansioni da usciere tuttofare. Allo stipendio provvederà lui stesso, di nascosto, dando all’amico quanto poi lui consegnerà al nipote. E’ un inganno a fin di bene, lo zio vuole togliere il nipote dallo stato di nullafacente che trascorre in mostre e concerti e che gli consente di passare giornate intere a fantasticare di un futuro grandioso che lo aspetta e gli renderà giustizia.
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Contemporaneamente anche i rapporti sociali e affettivi di Marino sono insoddisfacenti, se non del tutto assenti. La sua difficoltà a rapportarsi in modo naturale e spontaneo con gli esseri umani è probabilmente una sua caratteristica innata aggravata, però, dall’idea di essere superiore a tutti gli altri, indegni e disprezzabili, e dal fatto di non riuscire mai a stare al passo. Di fatto ha al suo fianco compagni sempre nuovi e sconosciuti, resta indietro e gli altri lo sopravanzano, non ha relazioni con coetanee e perde la verginità a ventisei anni per mano di Anita, una trentacinquenne dipendente della Calceforte s.r.l., che deve accompagnare a Milano per una commissione aziendale. Marino si innamora e continua a cercarla dopo il viaggio a Milano. Per liberarsi delle sue goffe attenzioni ai limiti dello stalking, dopo tre mesi Anita gli mostra l’assegno di mille euro ricevuto dal padre per portare a termine l’iniziazione sessuale del figlio.
In quell’occasione prende la macchina del padre e la danneggia contro un muro sentendosi certo che, quell’assegno, il padre lo abbia dato ad Anita perché smettesse di frequentarlo, non essendo lei alla sua altezza. La passione per l’opera lirica deve aver facilitato l’utilizzo del tema della Traviata per la costruzione di questo suo primo delirio.
Il secondo episodio delirante è stato quello che lo ha condotto al ricovero e poi da me: il sindacalista presso il quale lavorava, nonostante non fosse lui a pagarlo, si sentiva in dovere di fornire una scuola di vita a quel ragazzo svampito e viziato, per questo lo rimproverava per i ritardi, le frequenti assenze e lo scarso rendimento. Marino rimase colpito dai rimproveri, che non era avvezzo a ricevere, e si chiuse in bagno a riflettere sull’accaduto. Non ci capiva più niente. Come poteva essere che un misero sindacalista potesse non essere soddisfatto di lui, genio multiforme con molteplici master alle spalle? Doveva pur esserci una spiegazione a tanta stranezza. La spiegazione la trovò nel cassetto del sindacalista: c’era un giornale con cerchiato un titolo riguardante il segretario generale del sindacato ed un coltello che usava per sbucciare la frutta durante la pausa pranzo. Quei due elementi acquisirono per Marino un significato preciso che dava ragione del comportamento strano e dei rimproveri di Settimio, il suo capo. Settimio aspirava a fare carriera nel sindacato e a diventare segretario nazionale, ma quel ragazzo brillante e straordinariamente dotato che si era inserito nel suo ufficio, lo avrebbe scavalcato e sarebbe diventato segretario al suo posto. Per questo, aveva deciso di eliminarlo e cercava di attirarlo in una trappola mortale, lo voleva accoltellare una mattina presto prima dell’arrivo degli altri impiegati. Per questo lo rimproverava dei ritardi e lo sollecitava ad arrivare sempre prima al mattino. Fortunatamente, pensò Marino, la sua straordinaria intelligenza e sensibilità gli avevano permesso di avvedersi del complotto. Aveva perciò sequestrato il suo capo, utilizzando lo stesso coltello. Non voleva fargli del male, si accontentava che, all’arrivo delle forze dell’ordine che sarebbero certamente accorse, Settimio confessasse le sue intenzioni riconoscendo il suo straordinario talento, che lo avevano fatto da lui invidiare sino a desiderarne la morte. Rimase enormemente disorientato quando gli infermieri scesi dall’ambulanza, invece di occuparsi dei graffi dei polsi di Settimio, provocati dal fil di ferro con cui lo aveva legato, si diressero verso di lui. Ricordava la voce suadente di un dottore che gli parlava all’orecchio con fare complice, poi un ago nel braccio e poi il nulla.
I genitori che presero contatto con me per programmare la presa in carico del figlio dopo la dimissione mi mostrarono, non volendo, l’essenza del problema in poche battute. Non mi dovevo presentare come uno psichiatra, che ciò avrebbe offeso la sensibilità del giovane, ma come uno psicologo ricercatore di un’ Università americana alla ricerca di giovani talenti con caratteristiche geniali, da selezionare per un progetto riservato e segretissimo. Come spesso capita a tutti quelli che fanno questo lavoro mi chiesi chi fosse davvero da curare e capii che tra poco sarei stato io, se non chiarivo immediatamente le cose e mi lasciavo avvolgere in questa trama confusa di menzogne e sotterfugi che, sempre a fin di bene, aveva già fatto ammattire il povero Marino. Raccolti alcuni dati anamnestici dissi loro che il figliolo mi sembrava un ragazzo normale che non aveva mai fatto i conti con la realtà, sospinto dalle loro straordinarie aspettative, elevatissime e inconciliabili. Aveva faticato come una bestia per corrispondervi ma proprio non ce la faceva. Aveva finito per crederci anche lui al mito del ragazzo prodigio e quando la realtà era venuta con le gambe di Settimio a bussare per portargli il conto, non aveva potuto far altro che sbattergli violentemente la porta in faccia. Ho avuto finora nella vita la fortuna di non essere mai stato presente al momento in cui un genitore apprende della morte di un figlio. Quello che vidi doveva però assomigliargli molto: in principio ci fu lo stupore, l’incredulità, quello speciale sconcerto dovuto ad un blocco della possibilità di comprendere che trapassa in una confusione angosciosa, l’opaca oscura matrice da cui emerge l abbagliante luce del delirio. Il viso di Marta si contrasse, preparandosi al singhiozzo disperato, mi parve una nera vedova contadina china sul corpo del figlio spirato. Giovanni venne in soccorso scatenando una tempesta di rabbia, io ero il colpevole messaggero della verità e, come Settimio, andavo sbattuto fuori, sequestrato, se necessario ucciso pur di non far entrare un’ intollerabile verità.
Provai una pena infinita e abbozzai un tremolante conforto. La presentazione delle mie condoglianze disattivò la rabbia e permise l’esondazione delle lacrime, un abbraccio umido li ricompose dopo anni di guerriglia, l’oggetto del contendere non c’era più, il ragazzo straordinario, ingegnere o artista, era morto e restava un figlio da conoscere ed amare.
Quando lo incontrai la prima volta, Marino era ancora un bel ragazzo dall’evidente passato sportivo, alto un metro e ottanta, magro ma atletico. Accettava volentieri il colloquio, mostrandosi interessato a porre domande su quanto gli fosse accaduto, era critico e stupefatto, l’emozione predominante era la vergogna. Questa emozione, forte e prevalente, non mi permise di cogliere un imbarazzo di base, di cui ho già parlato precedentemente, che costituiva un elemento nucleare dell’esperienza interpersonale di Marino. Seppure non fosse il genio che volevano fosse, era una persona sensibile, intelligente e capace di attenta consapevolezza. Raccontò la sua storia di vita, identificando lui stesso il tema dolente. Evidentemente vi aveva riflettuto già per proprio conto. La narrazione era organizzata intorno al tema metaforico della confluenza dei fiumi. Lui era esattamente nel punto d’incontro di due grandi fiumi rappresentati dalle tradizioni familiari materna, artistica, e paterna, imprenditoriale. Entrambi erano ricche e impetuose, insieme erano incontenibili per gli argini e lui era stato travolto ed aveva esondato.
L’obiettivo che concordammo fu di liberarsi dalle aspettative che altri avevano posto sulle sue spalle, per andare alla ricerca di cosa effettivamente volesse lui. Non fu facile dare la parola a Marino e far tacere “ciò che Marino doveva volere”; perfino la ricerca dei gusti semplici inerenti il cibo e la musica erano smarriti sotto una serie di imperativi su come essere, cosa pensare, come comportarsi. Pensai che in questo martellamento sul dover essere fosse una radice di quel senso di non spontaneità ed estraneità con il genere umano che, cessati i deliri, mi sembrava l’aspetto psicopatologico più rilevante e stabile.
Avevo il pregiudizio che avrei trovato nei genitori dei fieri oppositori e attivi sabotatori del mio lavoro. Non fu così. Quando capirono che il figlio poteva essere più felice, se libero di essere ciò che voleva, accettarono il disinvestimento su di lui.
Marta promosse un gruppetto di musica da camera e iniziò sistematiche fornicazioni con il violoncellista, un elegante mantovano single, nella capitale per motivi di lavoro.
Giovanni frequentò i master che aveva in progetto per il figlio acquisendo una competenza che gli permise di uscire dall’ombra paterna e diventare il vero e indiscusso capo della Calceforti s.r.l.
Marino pareva essersi tolto uno zaino pesantissimo dalle spalle, tant’è che sembrava più alto e dritto con la schiena. Fece un corso della Regione Lazio per assistente di fisioterapia e iniziò a lavorare in alcuni centri convenzionati. Non essendo laureato, non poteva trattare direttamente il corpo dei pazienti e si limitava alla gestione delle macchine su delega di un fisioterapista responsabile del procedimento.
La sua vita procedeva soddisfacente e meditava di andare a vivere per conto proprio quando incontrò Donna. Lei aveva ventisette anni, tre meno di lui, e studiava in Italia proveniente da un paesino sperduto del Wyoming (USA). Galeotto fu un malleolo, distorto sciando durante le vacanze invernali. Donna aveva l’ovale del volto allungato, meditabondo e triste come quello della Madonna del Parto ed esprimeva lo stesso miscuglio di dolcezza infinita e struggente tristezza. Considerate le scarse capacità sociali di Marino credo che fu lei a prenderlo per mano. Iniziarono una convivenza il cui peso economico e organizzativo gravava prevalentemente su di lei.
Un giorno volle fermarsi a parlare con me dopo aver accompagnato Marino al controllo bimensile e mi accennò alla propria drammatica storia. Forse era il senso di colpa del sopravvissuto ad averla spinta a prendersi cura della situazione di Marino che, anche nell’ottenebramento dell’innamoramento, non doveva essergli apparsa del tutto normale.
La sua era una famiglia di coltivatori, il padre aveva un piccolo allevamento di cavalli da tiro e la madre, quando era sobria, faceva la levatrice nel paesino che distava cinque miglia dalla loro casa isolata. Lei era stata abusata dal padre quando aveva compiuto i dodici anni e immaginava che la stessa sorte fosse toccata alla sorella di due anni più piccola. Poiché aveva anche un fratello di un anno più grande di lei che era schizofrenico, la situazione in famiglia era pesante e connotata dalla violenza e dalla paura. A vent’anni aveva parlato con il vescovo della sua diocesi, manifestando l’intenzione di prendere i voti e, per questo, era stata inviata nel collegio di Firenze dove sarebbe restata fino alla licenza in teologia. Poi il malleolo e Marino. I genitori non sapevano della sua rinuncia agli studi, il padre non lo avrebbe mai saputo perché, nel frattempo, si era impiccato nel Giorno del Ringraziamento alla trave centrale della stalla, luogo preferito per gli incontri incestuosi.
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Sentita questa storia fui preso da furia eugenetica ed iniziai ad illustrare alla coppia tutti i più efficaci mezzi anticoncezionali. Un carcinoma uterino felicemente asportato l’anno successivo risolse radicalmente il problema.
La vita di Marino è proseguita per anni tra alti e bassi in senso letterale. Progressivamente ho sostituito, al basso dosaggio di mantenimento dei neurolettici, degli stabilizzatori perché si alternavano tre fasi. Una fase di sostanziale benessere in cui si guadagnava da vivere negli studi di fisioterapia e si riteneva un onesto professionista. Una seconda fase era quella che definimmo del “Marino professore”: i genitori gli rimediavano dei cicli di lezioni di anatomofisiologia da tenere in un liceo serale parificato per figli di ricchi somari. Quando entrava nella “fase del professore” era molto agitato e preparava minuziosamente le lezioni perdendo ore di sonno, si mostrava intransigente con sé e con gli allievi, pretendeva moltissimo e, scherzando, aggiungeva “più o meno la perfezione”, diventava fiero del suo lavoro e ne parlava in continuazione, esaltando le meraviglie dell’insegnamento. Donna lo descriveva come uno che ha tirato la coca, diventando insaziabile di cibo come di sesso.
Poi, bastava che qualcuno lo contrariasse perché si scatenasse come una furia contro tutti e tutto, accusandoli di non comprenderlo e di ostacolare il suo talento. Normalmente finiva licenziato. Due volte tentò di togliersi la vita. I successivi quattro mesi li trascorreva a letto perdendo anche il lavoro di fisioterapista e Donna era la sua amorevole badante. Lo scompenso maniaco-depressivo veniva ciclicamente innescato da una visita dei genitori. Quando il periodo di benessere si protraeva da un po,’ si presentavano per un tè, portando i pasticcini e poi iniziavano: “certo il tuo lavoro va bene e ti puoi accontentare”, “siamo convinti che un secondo stipendio di integrazione non potrebbe che aiutarvi”, “poi noi lo sappiamo quanto sei bravo ad insegnare”, “da piccolo tutti ti chiamavano il professore”, “naturalmente prima di tutto viene la tua salute e se non te la senti…” , “però che peccato il tuo talento sprecato”. Concordammo con Donna la strategia per respingere questi nefandi attacchi, creando una cintura sanitaria intorno a Marino quando intuiva l’imminenza di una visitina di cortesia dei suoceri.
L’ultimo incontro con Marino mi ha intristito fino nelle ossa. Lo ha accompagnato Donna. Non è più la Madonna del Parto, ma una badante ingrigita e stanca che aspetta, ansiosa, la fine di tutto. Non riesce ad andare in giro da solo perché si perde in continuazione, anche dentro casa si confonde tra le tre stanze di cui è composta e gli capita di urinare in cucina e addormentarsi nel bagno, un fine tremore costante scuote i suoi oltre 110 kg.
Non ha ancora imparato la sincronia giusta per scambiarsi una stretta di mano, sul suo volto, gonfio da cortisone e sudato, si affacciano gli occhi azzurri porcini come non ricordavo fossero, guardano il nulla e sembrano porre una domanda “perché?” Ma non c’è bisogno di rispondere, non capisce più niente…
Presidenti USA: I risultati dello studio sono stati sbalorditivi: alcuni tratti della personalità psicopatica, che generalmente sono segnali di un disadattamento sociale, sono contrariamente associati ad una buona capacità di governare.
Gli elementi caratteristici della psicopatia sono deficit di empatia e di rimorso, inadeguatezza delle relazioni interpersonali, mancanza del controllo degli impulsi, egocentrismo, inganno e falsificazione delle emozioni . Gli individui psicopatici possono assumere comportamenti devianti e compiere atti violenti nei confronti degli altri. Il DSM-IV include questo concetto nella diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità.
Sebbene la personalità psicopatica sia genericamente incline all’aggressività, vi sono alcuni casi in cui si rileverebbe adatta ad affrontare determinate situazioni, oltre che a occupare posizioni di comando. Questa ipotesi è stata avanzata da un gruppo di ricercatori guidati da Scott Lilienfeld, professore di psicologia della Emory University di Atlanta, in uno studio apparso sul “Journal of Personality and Social Psychology”.
I risultati finali sono stati sbalorditivi: alcuni tratti della personalità psicopatica, che generalmente sono segnali di un disadattamento sociale, sono contrariamente associati ad una buona capacità di governare.
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L’assenza di paura e la tendenza a dominare gli altri entrerebbero quindi nel background del leader di successo.
La ricerca svolta da Lilienfeld è basata su stime tratte da dati di più di cento storici e biografi dei Presidenti USA della Casa Bianca, raccolti a loro volta dai due storici Steve Rubenzer e Tom Faschingbauer. I dati riguardanti le personalità, l’intelligenza e i comportamenti dei 42 Presidenti USA, sono stati poi confrontati con la capacità di leadership dimostrata nel corso dei loro rispettivi mandati e con il manuale di psichiatria.
Da un’analisi statistica rigorosa è emerso che la determinazione e la spregiudicatezza nel mantenere la posizione dominante, che rinvia alla sfrontatezza associata alla personalità psicopatica, sono collegate a migliori risultati della presidenza. Valutato in termini soggettivi, questo riguarda la capacità di leadership, di persuasione e una gestione migliore delle crisi e dei rapporti con i membri del parlamento statunitense. In termini oggettivi, invece, ciò interessa la capacità di avviare nuovi progetti.
Contrariamente, alcuni tratti psicopatici legati ai comportamenti antisociali e impulsivi sono meno funzionali e quindi sono associati a cattive prestazioni dei presidenti USA. Per fare alcuni esempi possiamo riportare il fatto di essere incorsi in una procedura di impeachment o l’aver tollerato comportamenti poco etici dei subalterni.
Concludendo, l’assenza di scrupoli e l’immunità alla paura sembrano essere un fattore predittivo importante per la capacità di governare. Esso sembra accomunare grandi presidenti USA quali JFK, George W. Bush, Theodore Roosevelt e Bill Clinton passando per Ronald Reagan e Andrew Jackson. Una domanda che possiamo porci alla luce dei risultati ottenuti e di quanto affermato, è se essere buoni presidenti USA significhi, in parte, essere psicopatici?
Lilienfeld ha chiarito ad un’intervista concessa a Scientific American: “Non bisogna fraintendere: la spavalderia è uno dei tratti di una personalità psicopatica, ma non direi che chi è molto spavaldo è un parziale psicopatico. La psicopatia si configura quando a questo tratto si associa una cattiva gestione degli impulsi e l’egocentrismo; senza questi non si può parlare di psicopatia. E vorrei sottolineare che i tratti di cattiva gestione degli impulsi e di egocentrismo, insieme ad altri tratti correlati, non sono collegati a buoni risultati nel mandato presidenziale”.
La maturazione sessuale e affettiva è uno dei numerosi compiti evolutivi che vengono affrontati durante l’adolescenza. Da una prospettiva socio-evolutiva, le relazioni affettive in adolescenza sono preziose opportunità per imparare a comunicare in modo efficace con il partner e a regolare adeguatamente le proprie emozioni (Shulman, 2003).
K. Paige Harden ha voluto indagare più specificatamente se la tempistica del primo rapporto sessuale fosse associata a determinati modelli di unioni affettive, maggior numero di partner e alta qualità delle relazioni sentimentali in età adulta, al netto di fattori genetici o ambientali. Per rispondere a questo quesito sono state seguite più di 1500 coppie di fratelli, dall’adolescenza all’età adulta. In una prima fase sono stati raccolti i dati riguardanti l’età del primo rapporto sessuale, l’aspetto fisico e le caratteristiche di personalità dei soggetti. Successivamente sono stati invece analizzati il tipo di unione formata (sposati, conviventi, …), il numero di relazioni affettive vissute, il grado di soddisfacimento riguardo la propria relazione e i fattori demografici (reddito, scolarità, religiosità).
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Dai risultati emerge che l’età in cui si ha il primo rapporto sessuale è predittiva dei livelli di qualità e stabilità delle relazioni affettive nella giovane età adulta: tra i partecipanti che convivevano o erano sposati, coloro che avevano avuto il primo rapporto sessuale dopo i 19 anni riportavano gradi di insoddisfazione affettiva molto più bassi rispetto a coloro che avevano avuto il primo rapporto durante l’adolescenza. D’altro canto, coloro che avevano riportato la prima esperienza sessuale in tarda età avevano anche minor probabilità di costruire una relazione affettiva. Tuttavia, non è stato indagato se questi dati rimangano tali anche dopo la prima età adulta, o se siano da considerarsi validi anche per relazioni affettive iniziate più avanti nel tempo.
Il meccanismo attraverso cui l’età del primo rapporto influenzerebbe la soddisfazione nei rapporti affettivi rimane da chiarire, ma a tal proposito si sono avanzate alcune ipotesi. Innanzitutto, avere il primo rapporto dopo i 19 anni potrebbe essere un indicatore di caratteristiche interpersonali, come lo sviluppo di un adattamento sicuro o forti capacità di auto-regolazione, elementi che potrebbero influenzare il grado di soddisfacimento della relazione. Inoltre, l’età troppo precoce o troppo tardiva del primo rapporto sessuale potrebbe essere una conseguenza di specifiche esperienze vissute in adolescenza, che condizionerebbero la qualità delle relazioni sentimentali in età adulta. Infine, la maturazione da un punto di vista cognitivo e affettivo, raggiunta solitamente alla fine dell’adolescenza, potrebbe portare a vivere con maggior consapevolezza le relazioni sentimentali.
Anni fa, lungo il percorso che mi ha condotto a diventare uno psicoterapeuta, scrissi questo elaborato affascinato dagli insegnamenti del Manuale del Guerriero della Luce di Coelho. Lo rileggo oggi dopo quasi dieci anni e ancora, in molte di quelle parole ritrovo un forte stimolo alla costante riflessione circa il nostro ruolo in terapia e anche in società. Ve lo propongo com’era, nell’intenzione che possa offrire a voi come a me sintetiche pillole di saggezza e qualche riflessione.
Il Colloquio Psicologico
Introduzione
“A volte il guerriero della luce si comporta come l’acqua, e fluisce fra gli ostacoli che incontra.
In certi momenti, resistere significa venire distrutto. Allora egli si adatta alle circostanze. Accetta, senza lagnarsi, che le pietre del cammino traccino la sua rotta attraverso le montagne.
In questo consiste la forza dell’acqua: non potrà mai essere spezzata da un martello, o ferita da un coltello. La più potente spada del mondo non potrà mai lasciare alcuna cicatrice sulla sua superficie.
L’acqua di un fiume si adatta al cammino possibile, senza dimenticare il proprio obiettivo: il mare. Fragile alla sorgente, a poco a poco acquista la forza degli altri fiumi che incontra.”
[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.53]
L’avvio del rapporto con il cliente e il primo colloquio sono momenti delicati e ardui da affrontare, in cui si decide molto del futuro della terapia.
Il guerriero della luce di Coelho è come l’acqua. Non viene colpito o ferito dalle esperienze vissute. Non vi reagisce con atteggiamenti negativi, ma si adatta, cercando di perseguire, nei limiti imposti dalla realtà, i suoi obiettivi. Egli non si oppone, non resiste, ma si adatta. Qui, più che altrove, appare palese l’associazione tra il comportamento del guerriero della luce e quello della persona assertiva. Per questo risulta così efficace associare queste stesse parole al ruolo del terapeuta nel colloquio psicologico.
Anche lo psicologo deve apprendere ad essere come l’acqua. Deve essere in grado di evitare le difficoltà generate dalle resistenze del cliente, attraversarle senza scontrarsi con esse (“…fluisce fra gli ostacoli che incontra”). Deve lasciare il flusso della comunicazioni nelle mani del cliente, adattandosi ad esso senza imporre alcun argomento, senza imporre alcuna definizione (“Allora egli si adatta alle circostanze, Accetta, senza lagnarsi, che le pietre del cammino traccino la sua rotta attraverso le montagne”).
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Evitando queste imposizioni, evita lo scontro aperto con il cliente, che distruggerebbe il percorso terapeutico (“In questo consiste la forza dell’acqua: non potrà mai essere spezzata da un martello…”). Il suo compito è quello di trasmettere nuove informazioni, riflettendo e parafrasando ciò che dice il cliente, mostrando nuove prospettive e provocando una reazione di insight. Questa è un’esperienza alla base sia del rapporto di fiducia, che della negoziazione per una definizione comune del problema e degli obiettivi (“L’acqua di un fiume si adatta al cammino possibile, senza dimenticare il proprio obiettivo: il mare”).
L’avvio del rapporto con il cliente e il primo colloquio sono momenti delicati e ardui da affrontare, in cui si decide molto del futuro della terapia. Una volta che il rapporto di fiducia è costruito, che il cliente è riuscito a scoprire prospettive alternative, che si è raggiunta una comune definizione di problema e obiettivi fino alla stipulazione di un contratto, il percorso diventa meno tortuoso, e la forza del terapeuta aumenta (“Fragile alla sorgente, a poco a poco acquista la forza degli altri fiumi che incontra”).
Il parallelismo tra il comportamento del guerriero della luce e quello dello psicologo nel corso di un colloquio psicologico è evidente. Ma la metafora di Coelho va molto al di là. Il guerriero della luce non è solo una rappresentazione metaforica del comportamento corretto del terapeuta. Rappresenta anche un modo di essere assertivo, uno stile di comportamento rispettoso nei confronti di sé stesso e degli altri, né passivo, né aggressivo. E, proprio per questo, dovrebbe appartenere almeno in parte al modo di essere del cliente, una volta terminata la terapia.
Il terapeuta/guerriero della luce ha il compito di far emergere (piuttosto che estrarre) il guerriero della luce dal cliente. In questo senso assume anche un ruolo di insegnante, dal quale il cliente apprende molto, anche sugli aspetti piacevoli di una relazione interpersonale, basata sull’accettazione incondizionata.
Se la terapia ha successo il cliente raggiunge una maggior consapevolezza delle conseguenze del proprio comportamento e delle proprie reazioni nei rapporti interpersonali. Queste consapevolezze sono la base del suo cambiamento, di cui egli è l’attore. Inizierà a modificare il proprio comportamento e, a questi cambiamenti, seguiranno reazioni diverse, e positive, da parte dell’ambiente che lo circonda. Questo è il meccanismo attraverso il quale il guerriero della luce inizia ad emergere. Il guerriero non è quindi uno stato definitivo che deve essere raggiunto, è più qualcosa interno a ciascuno di noi che può essere lentamente fatto emergere, senza tuttavia riuscire mai a scoprirlo del tutto.
Queste sono le due facce della metafora del guerriero della luce prese in analisi in questo scritto. Associata sia al psicologo che al cliente che, di fatto, a ciascuno di noi.
LE TEORIE DEL COLLOQUIO PSICOLOGICO
“Un guerriero sa che un angelo e un demonio si contendono la mano che impugna la spada.
Dice il demonio:<Tu cederai. Non individuerai il momento giusto. Hai paura.>
Dice l’angelo: <Tu cederai. Non individuerai il momento giusto. Hai paura.>
Il guerriero è sorpreso. Hanno detto tutti e due la stessa cosa.
Poi il demonio continua: <Lascia che ti aiuti>.
E l’angelo dice: <Ti aiuto io.>
A questo punto, il guerriero avverte la differenza. Le parole sono le stesse, ma gli alleati sono diversi.”
[Coelho, Manuale del Guerriero della Luce, 1997, p.81]
Non esiste un unico tipo di colloquio psicologico. Diversi autori hanno sottolineato diversi aspetti della comunicazionetra terapeuta e cliente distinguendosi soprattutto lungo un continuum che pone ai suoi estremi approcci totalmente direttivi e totalmente non-direttivi.
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Nei primi il terapeuta cerca di raggiungere il controllo delle prospettive disfunzionali del cliente, imponendo consapevolezza e accettazione di una realtà che non può vedere o ammettere e presupponendo l’esistenza di deficit nel cliente. In questo caso il terapeuta cerca di intervenire fornendo adeguate informazioni e dicendo al cliente ciò che deve fare [Leoni, 2003].
Negli approcci non-direttivi il terapeuta svolge una funzione di specchio e mantiene un focus centrato principalmente sulla persona e sulla necessità di fornirle un supporto che la sostenga nel percorso di uscita dalla rete di stereotipi in cui è imprigionata.
Ovviamente tra queste due posizioni sul modo di affrontare il colloquio psicologico esistono diverse alternative intermedie. Lo scopo di questi articoli è quello di fornire un quadro di base sulle principali teorie del colloquio psicologico, un inquadramento teorico di base, utile a ricordare la presenza di diversi punti di vista e le possibili alternative nel modo di affrontare una comunicazione terapeutica.
Negli articoli seguenti verranno prese in considerazione, prima di tutto, le teorie principali sul colloquio psicologico. I concetti alla base di queste teorie verranno poi estratti ed associati alla metafora del guerriero della luce per individuare alcuni principi di base su cui deve fondarsi l’azione dello psicologo. Si passerà poi a una descrizione dell’aspetto più pratico del colloquio soffermandosi, prima, sulle tappe e sugli obiettivi che devono essere raggiunti in terapia, poi, sui mezzi che si deve usare per ottenerli.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Emotion®, ha studiato gli effetti di sentimenti nostalgici sulla reazione al freddo e sulla percezione del calore. I volontari, studenti universitari Cinesi e Olandesi, hanno partecipato a uno dei cinque studi effettuati.
Nel primo studio veniva chiesto ai partecipanti di riferire i sentimenti nostalgici provati nell’arco di 30 giorni. I risultati indicano che che la nostalgia è più frequente nelle giornate più fredde. Nel secondo studio i partecipanti potevano trovarsi in una di tre sale con temperature diverse: fredda (20 ˚C), confortevole (24 ˚C) e calda (28 ˚C), veniva poi misurato quanto si sentivano nostalgici. Anche in questo caso la nostalgia era più frequente in chi si trovava nella stanza fredda, mentre non c’erano differenze in chi si trovava nelle due stanze più calde.
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Il terzo studio, condotto online, ha usato la musica per evocare nostalgia e verificarne un legame con sensazioni di calore. In questo caso i partecipanti che hanno riferito sentimenti nostalgici hanno anche sperimentato un maggiore calore corporeo in corrispondenza dei ricordi evocati dalla musica.
Il quarto studio ha testato l’effetto della nostalgia sulla sensazione di calore fisico mettendo i partecipanti in una stanza fredda e istruendoli a rievocare sia un evento nostalgico che uno ordinario del loro passato. Successivamente gli è stato chiesto di indovinare la temperatura della stanza nella quale si trovavano. Coloro che hanno ricordato un evento nostalgico riferivano anche temperature più alte.
Nel quinto e ultimo studio i partecipanti dovevano nuovamente rievocare un evento nostalgico e uno ordinario del loro passato e poi immergere la mano nell’acqua ghiacciata per vedere quanto tempo avrebbero potuto sopportarlo. Chi aveva provato sentimenti nostalgici riusciva anche a tenere la mano più a lungo immersa nell’acqua ghiacciata.
Questo studio mostra che la nostalgia non solo è in grado di provocare un conforto psicologico ed emotivo, ma anche fisico. Sembra che la nostalgia abbia una funzione omeostatica, che permette di elicitare stati mentali positivi vissuti nel passato, compresi gli stati di comfort del corpo, e questo fa sentire più caldi o aumenta la nostra tolleranza al freddo. Ulteriori ricerche sono ora necessarie per vedere se la nostalgia può combattere altre forme di disagio fisico, oltre alla bassa temperatura.
La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta
La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione.
La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target (Fonagy et al., 1991; Fonagy, Target, 2001) e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione(Fonagy et al., 2002; Fonagy, Target, 2003), col quale ci riferiamo alla capacità dell’individuo di rappresentarsi i propri comportamenti e quelli degli altri come frutto di intenzioni, desideri, scopi, più in generale come risultante di stati mentali specifici.
Se la relazione con le figure di attaccamento è povera di sintonizzazione emotiva, se i genitori non mentalizzano i bisogni del figlio e non riescono perciò a fornire risposte adeguate, il bambino viene esposto ad un’esperienza prolungata di mancato riconoscimento; in particolare, quando la relazione di attaccamento non coinvolge il bambino come individuo pensato pensante – dotato cioè di intenzionalità complessa nella rappresentazione del genitore – egli non sperimenta il rispecchiamento necessario alla costruzione della funzione riflessiva, poiché l’immagine che i genitori gli rimandano con i loro comportamenti e le loro reazioni non descrive un soggetto che ha scopi e vissuti psichici individuali, in grado di differenziarsi dalla mente dell’altro e di generare una rappresentazione autonoma dell’esperienza, bensì un bambino incapace di aderire alle richieste che gli vengono impartite e di adattarsi correttamente all’ambiente in cui vive.
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Si creano perciò categorie rigide e non mentalizzate, per le quali il bambino è semplicemente cattivo, stupido o disobbediente; tale processo è sia fonte di sofferenza emotiva, dalla quale il soggetto si difende elaborando a sua volta rappresentazioni rigide dell’esperienza in cui è assente l’attribuzione di stati mentali evoluti a sé e all’altro, sia fattore predittivo della successiva incapacità di reagire a vissuti dolorosi o traumatici adottando modalità di fronteggiamento efficaci.
Il fallimento della funzione riflessiva conduce infatti l’individuo a percepire eventuali maltrattamenti subiti o la carenza di cure genitoriali come conseguenza della propria indegnità; se l’abuso non viene ricondotto all’intenzionalità specifica di chi lo compie, i sentimenti di vergogna, di rabbia, l’identificazione con l’aggressore e lo sviluppo di modalità altrettanto violente nella vita adulta diventano elementi centrali nella descrizione clinica del trauma.
La funzione riflessiva può però fallire anche nel terapeuta, e in questo caso i rischi che coinvolgono il lavoro clinico sono molteplici. Baldoni (2008) ne sottolinea cinque: interpretazioni inappropriate o precoci; utilizzo difensivo della diagnosi; prescrizione impropria di farmaci; reazioni non mentalizzate del terapeuta (noia, ostilità, disinteresse, seduzione, umorismo); relazione sessuale o sentimentale con il paziente.
In questi casi il fallimento della funzione riflessiva nel terapeuta porta a non considerare gli stati mentali del paziente, il quale potrebbe non essere ancora pronto ad accogliere nella propria struttura di conoscenza le interpretazioni che il clinico narcisisticamente esibisce, oppure chiede diagnosi e farmaci sulla spinta di bisogni propri – essere rassicurato sulla controllabilità del disturbo, ricevere un rifiuto alla richiesta di terapia farmacologica così da sentirsi in grado di affrontare il malessere con le proprie risorse – che il clinico non coglie.
Per quanto attiene alle emozioni del terapeuta, l’assenza di un’efficace funzione riflessiva porta a non riconoscere né gli stati mentali elicitati dalla relazione terapeutica né quelli derivati dal proprio vissuto personale, e questo compromette la possibilità di utilizzare confini relazionali appropriati all’interno del setting; nei casi più gravi la seduttività del paziente, che costituisce in realtà un’infantile richiesta di tenerezza, trova come risposta la messa in atto da parte del clinico di comportamenti che esprimono un linguaggio sessuale adulto, e una distonia affettiva di simile intensità espone il paziente al riemergere dei contenuti traumatici.