Il nostro stato emotivo influenza le nostre decisioni, anche in ambito finanziario. Una nuova ricerca condotta da un team di ricercatori della Harvard Kennedy School of Government e della Columbia University ha studiato in che modo l’impazienza causata dalla tristezza può produrre notevoli perdite finanziarie.
Utilizzando i dati raccolti dall’Harvard Decision Science Laboratory e dal Center for Decision Sciences at Columbia, gli autori hanno scoperto che l’emozione di tristezza, indotta dalla visione di un video, induceva i soggetti sperimentali a scelte finanziarie impazienti e miopi: i loro guadagni aumentavano nell’immediato ma diminuivano sul lungo periodo producendo una sostanziale perdita finanziaria.
Chi invece era stato assegnato alla visione di un video neutro non andava incontro alle stesse reazioni e i loro guadagni risultavano complessivamente maggiori. L’effetto osservato è attribuibile a quello che i ricercatori definiscono “bias del presente”, in cui le decisioni vengono prese per ottenere una gratificazione immediata, ignorando le possibilità di guadagno differite nel tempo.
Lerner e i suoi collaboratori sostengono che i risultati hanno implicazioni importanti per la progettazione di politiche pubbliche – in settori quali la gestione del patrimonio e i regolamenti della carta di credito. Secondo loro la progettazione e l’attuazione di politiche pubbliche dovrebbe essere basata sulla considerazione di tutta la gamma dei processi psicologici attraverso i quali vengono prese le decisioni; la comprensione di questi processi può anche aiutare a risolvere i problemi economici associati con la dipendenza crescente da carte di credito.
Lerner, J. S., Li, Y., & Weber, E.U. (2012). The Financial Costs of Sadness. Psychological Science. DOI:10.1177/0956797612450302.
Femminicidio, il Ruolo dell’Impulsività
L’informazione sui segnali di impulsività rabbiosa prima delle tragedie deve viaggiare insieme al discorso sociale e politico, completarlo renderlo pratico e concreto nella vita quotidiana delle donne e degli uomini.
Dall’inizio dell’anno sono morte 100 donne uccise da compagni, mariti, ex fidanzati o estranei. Le motivazioni sociali e politiche e storiche dell’emergenza femminicidio sono molte e variegate.
L’amore visto come possesso e la violenza contro le donne sono un vecchio tema al centro dell’attenzione della riflessione femminista, fin dal suffragettismo, durante il femminismo degli anni settanta e più che mai ora.
Molti sono i motivi sociali e storici di questa emergenza.
La crescita delle donne, la loro spinta all’autonomia economica e all’indipendenza, la crisi dei modelli tradizionali nelle società occidentali, il bisogno di due stipendi in famiglia che hanno portato molte donne a lavorare fuori casa, hanno reso sempre più discusso e meno condiviso il modello tradizionale di possesso e dedizione esclusiva alla famiglia.
La reclusione in casa, l’intenzione di possesso da parte dell’uomo, sono vissute dalla maggior parte delle donne come illegittime, pretestuose, assurde. Le donne si vedono come autonome, indipendenti e come persone con il diritto a scegliere e a vivere la vita che preferiscono e desiderano. Questo aumento di libertà porta anche aumento di libertà nelle relazioni affettive e sentimentali.
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Questo passaggio culturale, sociale e psicologico è in atto e spesso incontra ostacoli. Adattarsi a cambiamenti di questo tipo richiede tempo e non viene subito assorbito dalla società come un dato di fatto.
Nelle coppie dove non sia presente follia questi ostacoli divengono motivo di discussioni, approfondimenti, confronti anche serrati. Dove si va a vivere, dove lavora l’uomo? O dove lavora la donna? Chi sceglie i tempi della convivenza? Chi e perché lascia l’altro? Chi dedica più tempo alla casa? O ai figli? L’idea della parità a implicazioni nella quotidianità importanti e non tutte facili da gestire.
Se il sentimento presente nell’uomo è non solo amare qualcuno ma anche volere il suo bene, desiderare la sua felicità e soddisfazione oltre che la propria, si riescono a costruire punti di vista comuni, ciascuno cede, si confronta, cambia mutuando il cambiamento nella condivisione affettiva e del progetto di vita comune.
Ma se l’amore diviene volere l’altro come possesso e dominio esclusivo allora nascono problemi che in condizioni normali portano alla separazione; se c’è follia, invece, possono portare alla violenza e al femminicidio.
Nel femminicidio impulsivo, visto dal punto di vista degli psicoterapeuti, possiamo trovare alcune caratteristiche che andiamo a descrivere.
L’inizio è spesso il sentimento di minaccia di un uomo che si rende conto che la “sua” donna lo vuole abbandonare, vuole separarsi, vuole fare una vita indipendente, vuole vivere con un altro.
Arriva allora la disperazione, il senso della propria piccolezza, del fallimento, della solitudine. Un uomo sano è capace di accettare il tema doloroso della solitudine con consapevolezza e strazio, accettandone l’ineluttabilità e sentendosi capace di uscirne con il tempo e l’accettazione di ciò che è accaduto. Ma alcune persone non hanno questa capacità matura di accettare la sofferenza di una separazione. Per non entrare in contatto con queste emozioni tristi la cosa più facile è dare la colpa all’altro, alla sua crudeltà, alla sua ingiusta tendenza alla fuga, al tradimento. Se si è di fronte a un abbandono è più facile vedere la colpa nell’altro che vedere se stessi.
Arriva allora la rabbia, con emozioni violente e contrastanti di passione e di rabbia contro l’altro che fa male, trascura, si allontana. La rabbia è contro l’altro che si desidera avere vicino, possedere e che invece si muove in modo indipendente.
La rabbia è un’emozione importante, la sensazione di avere subito dall’altro un torto ingiusto. È un segnale emotivo che nelle comunità umane serve a segnalare che si deve fare i conti con un’ingiustizia, che si soffre, che si vorrebbe venisse riparato il danno subito. Ma è un’emozione forte che andrebbe governata, gestita in modo non cruento, messa al servizio della propria corteccia.
Ma le persone che hanno scatti di rabbia non sanno governarla, metterla al servizio di un discorso, ma sanno solo farla esplodere e gettarla sull’altro come violenza. Mentre picchiano o urlano o attaccano si sentono disperati e impotenti e spesso anche vittime.
L’impulsività e la rabbia sono collegate da un filo potente. Non esiste emozione rabbiosa disregolata che non abbia come esito comportamenti impulsivi. L’impulsività è il comportamento della rabbia. E qui accadono le tragedie.
Gli ingredienti sono quindi il senso di minaccia per la perdita di qualcosa che appartiene, la rabbia esplosiva e l’impulsività che trasforma la rabbia in comportamenti di attacco e di violenza espressa.
Ovviamente non tutte le crisi di rabbia generano femminicidi, possono generare schiaffi, spintoni, insulti urlati, oggetti gettati contro il muro. Ma quando ci si trova in questa area si è in ogni caso in un area pericolosa. Dove tutto può accadere. Dove una donna può morire perché uccisa consapevolmente in una crisi di rabbia incontrollata, o per sbaglio, perché ha sbattuto la testa contro il muro con una spinta troppo forte.
Ultimo ingrediente che non smetto di citare. Gli uomini sono più forti delle donne dal punto di vista dell’apparato muscolare. Accade ovviamente anche alle donne di arrabbiarsi ed essere impulsive ma è molto difficile e molto più raro che possano uccidere un uomo picchiandolo.
Che fare? Dal punto di vista sociale e politico dare voce al problema del femminicidio, renderlo un problema di cui non si possa fare a meno di occuparsi. Sensibilizzare gli uomini e renderli consapevoli e partecipi della tragedia che tocca tutti (noino.org)
Dal punto di vista psicologico per le donne la prevenzione non è tutto ma è moltissimo. Si deve insegnare alle donne a chiudere i rapporti con uomini che abbiano comportamenti violenti di qualsiasi tipo, i segnali devono essere colti prima che si trasformino in tragedie. Gettare un cellulare contro un muro è già un comportamento rabbioso disregolato e impulsivo che deve segnalare alla donna che vi è allarme rosso e che è ora di chiudere una storia che non può portare che a esiti dolorosi se non tragici.
Domenica Barbara Stefanelli si chiedeva sul Corriere della Sera: perché le donne continuano ad avere rapporti con uomini violenti? La sua risposta è: il rovesciamento estremo di un amore. “qualcosa esplode nella coppia e brucia l’amore, lo capovolge, lo profana fino all’estremo, rivela che la relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra, ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna”. Questa risposta solo sociale però rimanda a troppo tardi le soluzioni.
Vogliamo dare un vero contributo da psicoterapeuti? Gli uomini violenti hanno disturbi di personalità che non impediscono di intendere e di volere ma che vanno individuati, diagnosticati, curati prima del danno fatale. I segnali di rabbia e impulsività ci sono anche prima, vanno colti, dalle famiglie, dalle ragazze, dalle famiglie delle future vittime, dalle persone che assistono agli scatti, dagli amici e dalle amiche. I maschi violenti hanno imparato a leggere la violenza in famiglie dove era presente dolore e violenza.
E le donne che stanno con uomini violenti? La responsabilità ha radici familiari. Le madri non devono considerare accettabile o tollerare la violenza in famiglia, gli insulti dei mariti, che le figlie imparano a considerare come eventi ineluttabili che è loro compito gestire, sopportare, accettare. Le ragazze che accettano uomini violenti sono spesso ragazze che hanno accettato e che hanno visto la violenza nelle loro vite, fin da piccole. Con genitori sofferenti, fragili, impulsivi, discontrollati.
L’informazione sui segnali di impulsività rabbiosa prima delle tragedie devono viaggiare insieme al discorso sociale e politico, completarlo renderlo pratico e concreto nella vita quotidiana delle donne e degli uomini.
100 Morte che non contano – Contro la violenza sulle donne
Plutchik, R., Van Praag, H. M.,Hollander, E. (1995) The nature of impulsivity: Definitions, ontology, genetics, and relations to aggression. In (Ed) Stein, Dan J. (Ed), Impulsivity and aggression. John Wiley & Sons,
Se prendiamo per buona l’affermazione che ciascuno di noi è vittima della propria mente, allora sarà molto meglio imparare, sin da ora e sin da subito, a vedere il famigerato bicchiere mezzo pieno.
Stando a Tali Sharot, neuroscienziata israeliana ricercatrice all’University College di Londra, infatti, una visione del mondo rosea e ottimista è l’arma in più che ci consente di vincere le sfide quotidiane. Ma, soprattutto, che ci può aiutare a guadagnare di più. Le ricerche condotte e analizzate dalla stessa Sharot sono riuscite a “quantificare” il valore aggiunto di un atteggiamento positivo nella vita quotidiana.
“Il livello di ottimismo di una persona al primo anno degli studi di giurisprudenza ha permesso di predire il suo reddito un decennio più tardi: un piccolo punto in più sulla scala dell’ottimismo valeva 33 mila dollari di più all’anno” scrive la dott.ssa Sharot nel suo ultimo saggio “Ottimisti di natura”, che le è valso la copertina del Time pochi mese fa.
La tesi della Sharot, supportata da risonanze magnetiche che mostrano come funziona il cervello quando semplicemente immaginiamo di agire in modo ottimistico, illustra come gli esseri umani siano naturalmente portati a rifuggire il pessimismo.
“Si è tentati di ipotizzare– scrive infatti – che l’ottimismo sia stato selezionato nell’evoluzione proprio perchè le aspettative positive aumentano le probabilità di sopravvivenza. Il fatto che gli ottimisti vivano più a lungo e godano di una salute migliore, Insieme con le ricerche che collegano l’ottimismo a geni specifici, danno un forte sostegno a questa ipotesi”.
Quasi a dire che l’ottimismo funge da velo che protegge l’essere umano dal cogliere sino in fondo la propria condizione, pena l’estinzione.
In effetti il ragionamento sembra non fare una piega: “Per definizione, gli ottimisti sono persone che hanno aspettative positive per il futuro. Poiché si aspettano di cavarsela meglio e di essere più sani, hanno meno ragioni soggettive per preoccuparsi e disperarsi e di conseguenza sono meno ansiosi e si adattano meglio a fattori di stress”. Questo li aiuta ad essere più pronti alle richieste dell’ambiente, sociale o lavorativo che sia.
Un circolo virtuoso che genera a sua volta condizioni positive che a loro volta consentono alla persona di vivere in modo soddisfacente.
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In psicologia, questo circolo virtuoso (che naturalmente può divenire vizioso e sfociare nel suo opposto) ha un nome curioso e suggestivo: “Profezia che si autoavvera”.
Ne fece un uso magistrale Pat Riley, l’allenatore di basket dei Los Angeles Lakers, che dopo aver vinto l’Nba nel 1987, annunciò pochi secondi dopo che la sua squadra avrebbe senz’altro vinto anche l’anno successivo (evento decisamente raro nella storia dell’NBA), innescando così una spirale di motivazioni, impegno e fiducia che effettivamente portò al raggiungimento dell’obiettivo.
Senza scomodare stelle del basket o presidenti americani, anche noi, nel nostro piccolo, possiamo cercare di realizzare le nostre profezie.
Credere in noi stessi aiuta sicuramente a raggiungere gli obiettivi prefissati. Ma, ancor più importante, consente di sopravvivere ad eventi avversi che – in misura maggiore o minore – siamo chiamati ad affrontare. Come a dire che tra le tante risorse di cui l’essere umano dispone, la condanna all’ottimismo è quella che consente di preservare la specie, a dispetto di tutto.
L’ottimismo neurologico, come dimostrato dalle ricerche della dott.ssa Sharot, porta anche ad una modificazione misurabile della percezione della realtà. Il cervello umano, infatti, adotta dei piccoli trucchi per far apparire la vita migliore di quella che è in realtà.
I lobi frontali del cervello degli ottimisti sembrano elaborare i dati, utilizzati per prevedere il futuro, selezionando solo quelli positivi, e ignorando quelli negativi. In questo modo i lobi frontali inducono gli ottimisti a pronosticare un futuro migliore. I nostri neuroni, dunque, hanno forzato un po’ la mano per consentirci di evolvere.
Tali Sharot si è occupata di analizzare cerebralmente le differenze e i cambiamenti tra “ottimisti” e “pessimisti”, su come l’attività neuronale sia diversa quando si immagina un futuro positivo o negativo.
La corteccia cingolata anteriore e l’amigdala sembrano essere le parti cerebrali più coinvolte dall’ottimismo o dal pessimismo. L’amigdala è un’area molto importante, deputata anche alla processazione delle emozioni. Non stupisce dunque un’ennesima conferma di una stretta interdipendenza tra emozioni, pensieri e decisioni.
L’ottimismo, o pessimismo, infatti orientano il pensiero umano.
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“Il cervello e la mente umana sono orientati a non prevedere il peggio, ma questo è comprensibile perché ci vuole davvero tanto ottimismo per vivere. Se guardiamo la vita per quello che è non c’è molto da stare allegri: si nasce, ci si confronta abbastanza presto con i guai e le difficoltà, si corrono rischi di rimanere ammalati, menomati, morire precocemente e poi comunque alla fine la nostra vita finisce”. Parola del Prof. Bottaccioli, docente universitario e presidente della SIPNEI (Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia). E come dargli torto, in fondo.
L’ottimismo sembrerebbe scritto nei nostri geni, abbiamo detto.
Sorge dunque spontanea la domanda: come è possibile, allora, che esistano i Giacomo Leopardi di turno?
Eventi o circostanze esterne (condizione socio economica, organizzazione famigliare etc.) o fasi della vita particolari (adolescenza e vecchiaia, ad esempio) possono minare l’ottimismo innato e spingere i circuiti cerebrali a lavorare più duramente per mantenere una visione rosea del futuro.
E’ probabile che una visione positiva del futuro sia scritta in qualche modo nel nostro codice genetico, ma che tale “diktat” possa essere poi modificato da circostanze esterne, che possono avere un impatto più o meno profondo sul nostro modo di vivere e sentire.
Sembrerebbe quasi che la Natura abbia pensato in fondo al posto nostro, lasciandoci più che altro la libertà di scegliere di quanto discostarci dal nostro ottimismo di fondo.
La maggior parte dei bambini sperimentano paure notturne ad un certo punto del loro sviluppo, e se la maggior parte di loro riesce a risolverli senza alcun intervento professionale, altri lottano a lungo con queste paure, con in rischio di sviluppare disturbi d’ansia più tardi nella vita.
Come parte di un grande progetto sul pavor nocturnus finanziato dall’Israeli Science Foundation, il Prof. Avi Sadeh della Tel Aviv University’s School of Psychological Sciences, sta esplorando come queste paure si inseriscono nel normale processo di sviluppo e quando diventano problematiche. Insieme ai suoi collaboratori ha scoperto che la capacità del bambino di distinguere la realtà dalla finzione ha un impatto enorme sul superamento del terrore di ciò che si può incontrare nella notte.
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Nel loro studio i ricercatori hanno scoperto che bambini in età prescolare con persistenti pavor nocturnus erano molto meno in grado di distinguere la realtà dalla fantasia rispetto ai loro coetanei.
Per i bambini piccoli, che stanno che stanno ancora sviluppando la capacità di distinguere la realtà dalla fantasia, andare a letto può essere una sfida importante. Infatti, in molti casi è l’unico momento della giornata in cui sono lasciati soli ad affrontare i loro pensieri, sentimenti e le paure; ed è proprio in questi momenti che l’immaginazione corre.
Per testare l’ipotesi che la confusione tra fantasia e realtà ha un forte impatto sulle paure notturne, i ricercatori hanno valutato bambini di quattro-sei anni – 80 con diagnosi di grave pavor nocturnus e 32 con sviluppo più normale – rispetto alla loro capacità di separare la realtà dalla finzione, sulla base delle dichiarazioni dei genitori e di un’intervista standardizzata.
I risultati indicano che i bambini con paure notturne (pavor nocturnus) più intense erano significativamente meno in grado di distinguere la realtà dalla fantasia. Come previsto sulla base della fase di sviluppo dei bambini, i bambini più piccoli raggiungevano un punteggio più basso rispetto a quelli più grandi. Più basso era il punteggio, i più gravi erano gli episodi di pavor nocturnus del bambino.
Secondo il Prof. Sadeh, la confusione tra fantasia e realtà può essere utilizzata anche per aiutare i bambini a superare le paure. I genitori e i medici possono utilizzare questa affinità con l’immaginario a beneficio del bambino.
“Mandiamo ai bambini segnali contrastanti dicendo loro che i mostri non sono reali, ma allo stesso tempo gli raccontiamo della fatina dei denti”, spiega il Prof. Sadeh.
Dire a un bambino che la sua paura non è realistica non basta a risolvere il problema: Sadeh consiglia di utilizzare la fervida immaginazione del bambino come risorsa nel trattamento, per esempio aiutandolo ad immaginare un mostro apparentemente minaccioso come una figura bonaria con la quale è possibile interagire amichevolmente, o inducendolo a prendersi cura e a rassicurare un cucciolo, un peluche per esempio, triste e spaventato. Poiché questo intervento dipende dalla possibilità del bambino di credere alla storia del cucciolo e assumere un ruolo compassionevole, funziona meglio per i bambini con maggiore immaginazione.
L’ ACT o Acceptance and Commitment Therapy, è una forma di psicoterapia definita di “terza ondata” della Terapia Cognitivo Comportamentale, con solide basi scientifiche (Hayes, 2004). L’ACT è basata sulla Relational Frame Theory (RFT): un programma di ricerca sulle modalità di funzionamento della mente umana (Hayes, Barnes-Holmes, e Roche, 2001). Questa ricerca suggerisce che molti degli strumenti che le persone utilizzano per risolvere i problemi, conducono in una trappola che crea sofferenza. E’ un approccio terapeutico innovativo e con solido fondamento scientifico, basato sulla mindfulness, diretto a sviluppare la “flessibilità psicologica” che consente di superare i momenti critici e di vivere pienamente il presente muovendosi nella direzione tracciata dai propri valori.
L’ACT prende in considerazione i seguenti concetti:
• La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona.Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa; non è dunque una sensazione fugace, bensì un senso profondo di una vita ben vissuta nella quale esperiamo l’intera gamma delle emozioni umane.
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• Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
• I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza, dato che il controllo che abbiamo in situazioni simili è in realtà infinitamente meno di quanto la nostra cultura voglia farci credere. .
• Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. In quanto esseri umani dobbiamo tutti prendere atto che presto o tardi diventeremo deboli, ci ammaleremo e moriremo. Presto o tardi tutti perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni, lutti. Presto o tardi tutti dovremo affrontare crisi, delusioni e insuccessi. Questo significa che, in un modo o nell’altro, tutti avremo pensieri e sentimenti dolorosi. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
• Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire come ritengono sia meglio per sé stessi.
In definitiva, ciò che viene richiesto dall’ACT, è un cambiamento di prospettiva della propria esperienza personale. I metodi di cui si avvale forniscono nuove modalità per affrontare le difficoltà di natura psicologica e cercano di cambiare l’essenza dei problemi psicologici e l’impatto che essi hanno sulla vita.
“Non c’è motivo di continuare ad aspettare che la vita cominci. Il gioco dell’attesa può finire. Adesso. Come un leone rinchiuso in una gabbia di carta, gli esseri umani sono generalmente intrappolati dalle illusioni della loro mente. Ma nonostante le apparenze, la gabbia non rappresenta di fatto una barriera in grado di tenere imprigionato lo spirito umano” (Steven C. Hayes, PhD- inventore dell’ACT –università del Nevada).
L’Acceptance and Commitment Therapy si basa su tre punti fondamentali:
Mindfulness: è un modo di osservare la propria esperienza.Recenti ricerche nella psicologia occidentale, hanno provato che praticare la mindfulness può avere benefici psicologici importanti (Hayes, Follette, & Linehan, 2004). Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso.
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Accettazione: si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione ci ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.
Impegno e vita basata sui valori: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori.
Popolo, R. et al. (2012). Schizofrenia e Terapia Cognitiva. Alpes Italia.
Schizofrenia e Terapia Cognitiva è un libro che si pone nel solco della ricerca scientifica per il trattamento della schizofrenia.
Schizofrenia e Terapia Cognitiva è un libro che si pone nel solco della ricerca di quanto ci sia oggi di migliore e scientificamente supportato per il trattamento di una condizione così complessa, cronica e invalidante, qual è la schizofrenia.
L’aspetto che gli autori tengono a sottolineare e a portare all’attenzione del lettore è la presenza del deficit metacognitivo nel paziente schizofrenico e la sua correlazione con interazioni sociali problematiche. Metacognizione, infatti, è il termine che permea le pagine di questo volume e che viene definita come l’insieme di quelle abilità che permettono all’individuo di: avere una rappresentazione dei propri stati mentali (pensieri, sentimenti, ricordi, desideri, scopi) e riflettere su di essi; riflettere sugli stati mentali degli altri; usare tali informazioni psicologiche per affrontare in modo efficace situazioni soggettivamente problematiche, sia da un punto di vista emotivo, che cognitivo o comportamentale.
Partendo da un’aggiornata revisione della letteratura che documenta la compromissione di tali capacità già prima dell’esordio sintomatologico, il volume propone, dapprima, un modello teorico esplicativo dei diversi sintomi e prosegue con la presentazione del modello d’intervento che ha come bersaglio, appunto, il malfunzionamento metacognitivo.
Gli autori regalano al lettore pagine inedite sulla descrizione del ruolo giocato dai fattori interpersonali nella genesi della sintomatologia psicotica, sia di quella positiva, con particolare riferimento al delirio di persecuzione e alle allucinazioni verbali uditive (AVU), che di quella negativa.
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Lo stile adottato è quello del confronto con altri modelli teorici che, seppur validi, lasciano diverse questioni aperte alle quali il libro cerca di dare risposta e il contributo offerto è davvero originale!
Particolarmente interessante, a tale proposito, è l’introduzione del concetto di disaderenza al contesto intersoggettivo che si ritrova, come denominatore comune, nella spiegazione dei sintomi schizofrenici. Si tratta di una disfunzione nella sintonizzazione, ovvero dell’incapacità, da parte del paziente, di selezionare pre-riflessivamente tra le molteplici ipotesi sul significato degli atti comunicativi dell’altro, quella più adeguata che lo guiderebbe rapidamente nella comprensione del significato sovraordinato della transazione in corso. Detto in altri termini, il paziente percepisce che gli altri stanno cercando di comunicare con lui, ma non riesce a comprendere chiaramente e rapidamente il contenuto essenziale del messaggio.
È un concetto che, per chi abbia avuto la possibilità, almeno per una volta, di imbattersi come clinico in questa tipologia di pazienti, rispecchia fedelmente l’essenza dell’esperienza psicotica.
Lo schizofrenico è sperduto in patria, estraneo tra i suoi cospecifici e brancola nel buio delle relazioni che diventano un rompicapo in cui è difficile orientarsi. Ciò che dovrebbe essere spontaneo, naturale, automatico quando ci si trova in una relazione, si trasforma per il paziente in un impegno gravoso, in un lavorìo mentale che crea rallentamento, goffaggine oltre che uno stato di sofferenza, di fronte al quale la rinuncia e il ritiro dalla transazione risultano la scelta migliore.
Le difficoltà descritte e i vissuti del paziente trovano ulteriore chiarezza nelle esemplificazioni cliniche che cementano nel lettore l’acquisizione di un concetto così utile per riuscire a sintonizzarsi con una mente tanto diversa dalla propria. Un concetto che, tra le altre cose, porta a riflettere su quanto spesso il primo contesto intersoggettivo nel quale il paziente manifesta questa difficoltà a “disambiguare” i segnali comunicativi dell’altro, sia proprio quello della relazione terapeutica che merita, pertanto, un’attenzione particolare.
E gli autori, di certo, non gliela negano, dedicando ad essa un capitolo nel quale esplorano, dapprima, i possibili ostacoli che rendono problematica la relazione terapeutica; si interrogano, poi, circa gli aspetti che sottendono questa difficoltà e concludono col dare indicazioni su come riparare le rotture che di volta in volta si vengono a determinare.
La regolazione della relazione terapeutica rappresenta, dunque, una costante nel trattamento della schizofrenia e la sua importanza viene ribadita quando gli autori presentano il loro modello d’intervento, la Metacognitive Interpersonal Therapy (MIT) che concettualizza la psicoterapia individuale come un contesto relazionale che offre al paziente la possibilità di mettere in atto, esercitare e sviluppare le abilità necessarie per effettuare le diverse operazioni metacognitive secondo un livello di complessità progressivamente crescente, in modo da poterle ristabilire per quanto possibile.
2. Intervento sulle funzioni autoriflessive di base;
3. incremento delle funzioni autoriflessive;
4. Validazione dell’esperienza del paziente;
5. Intervento sulla funzione autoriflessiva e sulla comprensione della mente altrui;
6. Intervento sulle funzioni di Mastery,
attraverso un linguaggio che risulta comprensibile, scorrevole, didattico.
Anche in questo caso, l’informazione teorica è supportata costantemente da esemplificazioni cliniche che contribuiscono a chiarire il razionale degli interventi di ogni singolo step e forniscono al clinico gli strumenti per intervenire prontamente sulle funzioni metacognitive compromesse.
Articolo Consigliato: Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi.
Si apprezza molto lo stile comunicativo che contrassegna queste pagine e che sembra riveli l’intento degli autori di favorire, e tra i clinici e tra i ricercatori, un clima di condivisione, un terreno comune per la comprensione e il trattamento di una patologia tanto eterogenea.
In questa direzione si muovono anche i capitoli dedicati alla Terapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT), ormai riconosciuta come parte del trattamento evidence-based per la schizofrenia. Nello specifico, gli autori propongono un’integrazione tra il proprio modello e quello cognitivo standard, sostenendo che, in molti pazienti, la possibilità di utilizzare la ristrutturazione cognitiva o altre tecniche CBT richiede che prima sviluppino un livello di capacità metacognitiva sufficiente a mettere in discussione le proprie credenze. Ciò renderebbe l’applicazione di tecniche CBT meno stressante e più efficace, ma, soprattutto, favorirebbe il mantenimento della remissione sintomatologica nel medio-lungo termine.
Il volume termina affrontando la terapia farmacologica delle psicosi, la cui combinazione con la Terapia Cognitiva si prospetta come quanto di meglio oggi si possa offrire, e presentando un protocollo di Social Skills Training (SST) a orientamento metacognitivo (Metacognitive Oriented Social Skills Training, MOSST) che vuole essere un esempio originale di come sia possibile rileggere le consuete attività gruppali nei termini di un esplicito impegno allo sviluppo della capacità di mentalizzare dei pazienti psicotici.
Gli esseri umani sono molto più inclini a cooperare tra loro di quanto lo siano i loro più stretti parenti evolutivi. La teoria prevalente sul perché questo avvenga si è focalizzata sul concetto di altruismo, ma le moderne teorie del comportamento cooperativo suggeriscono che agire in modo disinteressato e altruistico è vantaggioso in termini evolutivi perché porta a una ricompensa personale.
Secondo un recente studio di Tomasello e colleghi, pubblicato su Current Anthropology, l’uomo ha sviluppato la capacità di cooperare, perché lavorare bene con gli altri portava a un beneficio individuale, oltre che collettivo. In altre parole, la collaborazione non nasce dall’altruismo, ma dal vantaggio in termini di sopravvivenza individuale che questa comporta: dobbiamo cooperare per sopravvivere, aiutiamo gli altri perché abbiamo bisogno di loro.
Questo studio fornisce un resoconto completo sull’evoluzione del comportamento cooperativo come un processo in due fasi, che inizia in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori e diventa in seguito più complesso e culturalmente determinato nelle grandi società.
La premessa è la teoria della cooperazione mutualistica, che si basa sul principio di interdipendenza: gli autori ipotizzano che, ad un certo punto della nostra evoluzione, si sia reso necessario per gli esseri umani provvedere al foraggiamento insieme, il che significa che ogni individuo ha un interesse diretto per il benessere dei suoi compagni.
In questo contesto di interdipendenza, gli esseri umani hanno sviluppato particolari abilità cooperative che altri primati non possiedono, per esempio dividere equamente il raccolto, comunicare obiettivi e strategie, considerare il proprio ruolo nell’attività comune come equivalente a quello di un altro. Coloro che sono stati in grado di coordinarsi adeguatamente con i loro compagni durante il foraggiamento e che hanno fatto loro parte nel gruppo hanno avuto più probabilità di successo.
Quando la società è cresciuta in dimensioni e complessità, i loro membri sono divenuti ancora più interdipendenti gli uni dagli altri. Nella seconda fase evolutiva, le abilità cooperative si sono sviluppate su più ampia scala, un esempio è la concorrenza tra gruppi umani. Le persone sono diventate più gregarie, identificandosi con gli altri all’interno della società anche senza una conoscenza personale e diretta. Questo nuovo senso di appartenenza ha generato convenzioni culturali, norme e istituzioni che hanno a loro volta incentivato e strutturato il sentimento di responsabilità sociale.
Il rimuginio è un pensiero ripetitivo e astratto riguardante predizioni di possibili eventi negativi futuri. Esso è considerato una delle componenti principali dell’ansia, in particolare del disturbo d’ansia generalizzato, in cui il soggetto più che preoccuparsi rimugina, ripete mentalmente a sé stesso che gli eventi andranno male o che qualcosa di spiacevole potrebbe capitargli da un momento all’altro, in una sorta di dialogo con se stessi, definito dialogo interno.
In base all’esperienza clinica è possibile rilevare nei pazienti due tipi di rimuginio:
evitante, in cui il paziente tende ad individuare una possibile strategia di fuga (più legato all’ansia generalizzata);
controllante, in cui si vorrebbe ambire ad esercitare un controllo rispetto alla situazione temuta (legato al disturbo ossessivo compulsivo).
Entrambe le strategie messe in atto permetterebbero di ridurre l’ansia (Sanderson, Rapee e Barlow, 1989). Questa sensazione di padroneggiamento dell’ansia rinforza e mantiene il rimuginio stesso, impedendo di dedicare le risorse cognitive ad altri pensieri o attività.
La letteratura in merito a tale argomento è scarsa e per questo ci siamo chiesti se fosse possibile classificare il rimuginio in base al proprio scopo (controllante e evitante) e se esista una relazione tra tipo di rimuginio e patologia.
Lo studio ha coinvolto 99 adolescenti di età compresa tra i 14 e i 19 anni, bilanciati per sesso: la scelta di tale campione è stata dettata dal bisogno di indagare questo meccanismo nel momento in cui inizia a delinearsi in modo più marcato (Waller e Rose, 2011; Burwell et al., 2012).
Sono stati somministrati dei questionari volti a misurare l’ansia di tratto, i pensieri ossessivi, la depressione, il livello di ruminazione e il rimuginio (in particolare il questionario sul rimuginio è stato diviso in due parti, separando gli item che trattano tematiche più centrate sull’evitamento e dall’altra quelli che riguardano il controllo).
Dall’analisi dei dati è emerso che esiste una relazione positiva tra rimuginio controllante e i sintomi ossessivi e tra rimuginio evitante e i sintomi dell’ansia.
Si tratta di risultati importanti che confermano funzionamenti noti all’occhio di ogni clinico esperto, ma mai corroborati da dati empirici. Alla luce di questi risultati, è possibile stabilire anche ipotesi di interventi terapeutici che siano più mirati e specifici a seconda del processo cognitivo che si trova alla base.
La Neuroscience Based Cognitive Therapy aiuta il paziente a aumentare il livello di padroneggiamento della sofferenza psichica.
Tra le varie nuove proposte di orientamento cognitivo che cercano di affrontare il problema del paziente “difficile”, ovvero del paziente che padroneggia con particolare difficoltà i suoi stati mentali e che non riesce ad assumere un atteggiamento auto-osservativo di esplorazione e messa in discussione dei suoi pensieri disfunzionali, c’è la Neuroscience Based Cognitive Therapy (NBCT). Esso si può definire uno dei molti orientamenti di “terza ondata” della Terapia Cognitiva, è stato sviluppato da Tullio Scrimali, presso la Clinica Psichiatrica della Università di Catania, e recentemente sistematizzato in una monografia pubblicata da Wiley (Scrimali, 2012).
La NBCT addestra il paziente a aumentare il suo livello di consapevolezza e padroneggiamnto dei suoi stati di sofferenza psichica utilizzando tecniche di neuro-biofeedback.
Scrimali ha sviluppato una sorta di laboratorio portatile (il MindLAB Set per leggere la mente e misurare il processo terapeutico!) che facilita l’esecuzione e ha descritto una interessante serie di protocolli che permettono al paziente di “vedere” nel qui e ora le sue attivazioni emotive espresse in forma di indici quantitativi e, contemporaneamente, agire sui suoi stessi stati mentali in modo da normalizzare questi valori quantitativi. Una sorta di allenamento alla disciplina interiore. Scrimali ha sviluppato il metodo per i paziente psicotici e molto gravi, ma sarebbe interessante vederene l’applicazione a pazienti meno difficili.
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Si tratta di un orientamento di “terza ondata” perché, come in altri casi, esso rende meno fiducia all’elaborazione verbale e razionale e privilegia metodi di autocontrollo emotivo che non passano attraverso il pensiero esplicito e ponderato, ma piuttosto attraverso un canale che potremmo chiamare esperienziale e neo-comportamentale. Il legame con il modello cognitivo standard si indebolisce ma in qualche modo si mantiene attribuendo al termine cognizione un significato più ampio ed elastico.
Il modello NBCT ha i suoi punti di forza e si sta diffondendo all’estero. In questi ultimi anni Scrimali lo ha presentato ai congressi della società asiatica di CBT (cognitive behavioural therapy) e alla Asia University di Taichung (Taiwan) dove Scrimali è “Faculty Member”. Poche settimane fa Scrimali è tornato alla Asia University di Taiwan per condurre un workshop. Le reazioni sono state positive.
Come mi ha raccontato Tullio Scrimali in persona con il suo caratteristico stile entusiastico: “A Taichung, anche se si mangia riso e piccoli pezzettini carne o pesce con le bacchettine, mi sento ormai a casa. Gli studenti mi conoscono e questo anno ho tenuto lezioni e workshop su schizofrenia e disturbi della alimentazione. Il messaggio passa, i colleghi cinesi si interessano e, al party di commiato, mi diverto da matti. A fine serata suono, con una Telecaster prestatami, insieme alla band degli studenti della Asia University. Il pezzo è “Volare” di Domenico Modugno”.
Monogamia & Ossitocina: sembra che gli uomini sentimentalmente impegnati, sotto effetto di ossitocina, tendano a tenere a distanza le donne.
I risultati di un nuovo studio pubblicato in The Journal of Neuroscience suggeriscono che l’ossitocina può contribuire alla fedeltà nelle relazioni di monogamia. Sembra infatti che gli uomini sentimentalmente impegnati, sotto l’effetto di questo ormone, tendano a tenere a “distanza di sicurezza” donne sconosciute giudicate attraenti e mantenendo quindi la condizione di monogamia.
L’ossitocina svolge un ruolo fondamentale nello scatenare il parto e facilitare l’allattamento; prodotta nell’ipotalamo, è anche coinvolta nella formazione dei legami sociali. Negli esseri umani e in altri animali è nota nel promuovere legami tra genitori e figli, e tra le coppie. Inoltre, studi precedenti hanno dimostrato che l’ossitocina aumenta la fiducia tra le persone. Tuttavia, il suo ruolo nel mantenere i legami monogami negli esseri umani fino ad ora non era ancora stato studiato.
Grazie a questo studio, condotto alla Universität Bonn, i ricercatori hanno scoperto che l’ossitocina è efficace nel rinforzare l’evitamento di donne attraenti negli uomini impegnati in una relazione sentimentale, mentre non avrebbe nessun effetto sugli uomini single.
I ricercatori hanno somministrato ossitocina o placebo attraverso uno spray nasale a un gruppo di maschi eterosessuali; quarantacinque minuti più tardi a ciascuno è stato chiesto di valutare la distanza ideale alla quale collocare una sperimentatrice, giudicata successivamente come attraente per il soggetto. L’ossitocina ha indotto gli uomini impegnati sentimentalmente, ma non i single, a mantenere una maggiore distanza con la donna. In un secondo esperimento, inoltre, i ricercatori hanno scoperto che l’ossitocina non ha avuto alcun effetto nella regolazione la distanza interpersonale tra uomini.
Questi risultati replicano quelli di un precedente studio condotto sui roditori, che ha identificato l’ossitocina come la chiave principale nella formazione del legame di coppia e nella fedeltà monogamica di questi animali. I dati suggeriscono che il ruolo dell’ossitocina nel promuovere comportamenti di monogamia è conservato dai roditori all’uomo.
Scheele, D., Striepens, N., Gunturkun, O., Deutschlander, S., Maier, W., Kendrick, K. M., & Hurlemann, R. (2012). Oxytocin Modulates Social Distance between Males and Females. Journal of Neuroscience, 32(46): 16074. DOI:10.1523/JNEUROSCI.2755-12.2012
Disputing dell’ Ansia Generalizzata. Il tratto principale è la presenza di un vecchio amico della psicopatologia cognitiva: il rimuginio.
Il disputing cognitivo del disturbo d’ ansia generalizzato (GAD) coincide in buona parte con il disputing generale dell’ ansia. Questo dipende dal fatto che il GAD è definito proprio dalla semplice presenza di ansia e preoccupazione eccessiva per almeno sei mesi consecutivi, riguardo a un’ampia quantità di eventi o di attività (come prestazioni lavorative o scolastiche). Sono naturalmente presenti tra i criteri diagnostici gli aspetti fisiologici dell’ ansia come irrequietezza, affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, irritabilità, tensione muscolare e alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno inquieto e insoddisfacente). Come si vede, il GAD finisce per identificarsi con l’ ansia.
Non basta. Clinicamente, il tratto principale del GAD è la presenza di un vecchio amico della psicopatologia cognitiva: il worry. Il “worry”, nella letteratura cognitiva, comprende qualcosa in più dell’ ansia persistente, e questo qualcosa in più in italiano lo si può esprimere con il termine rimuginio. Per ora diciamo che l’attesa apprensiva (tensione psichica, preoccupazione) con anticipazione pessimistica di eventi disastrosi per sé o per i propri familiari rappresenta il sintomo cardine del disturbo, a cui si accompagnano segni di tensione fisica, iperattività neurovegetativa e disturbi cognitivi come scarsa concentrazione e facile distraibilità.
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I pazienti affetti da questo disturbo appaiono cronicamente ansiosi ed apprensivi, versano in uno stato di eccessiva preoccupazione per le circostanze quotidiane che comporta una condizione di allarme ed ipervigilanza. Pur in assenza di gravi, ma soprattutto realistiche motivazioni, riferiscono sentimenti di apprensione circa la salute e l’incolumità fisica dei familiari, la situazione finanziaria, le capacità di rendimento lavorativo o scolastico.
Il soggetto GAD intende conoscere in dettaglio tutte le possibilità negative per evitarle, e in quanto evitante non si ritiene in grado di controllarle, manipolarle e neutralizzarle attivamente. L’intolleranza dell’incertezza è un costrutto cognitivo tipico del GAD. La persona GAD sembra non tollerare l’intrinseca incertezza degli eventi, e ritiene che la possibilità di un esito negativo, sia pur minima, sia in sé insopportabile. In altre parole, solo la certezza assoluta della sicurezza viene ritenuta un criterio accettabile per tranquillizzarsi e l’incertezza dell’esito è di per sé un motivo sufficiente per preoccuparsi.
P. – Il mondo non è pericoloso, però io lo vedo pericoloso nelle piccole cose! Pericoloso neanche poi tanto per le azioni umane, pericoloso perché tutto può capitare da un momento all’altro
T. – Teme forse l’incertezza delle cose?
P. – Esatto!
Il “rimuginio” (“worry”) è un’attività mentale ripetitiva e pervasiva, prevalentemente in forma verbale ed espressione di eccessiva ansia ed apprensione, i cui contenuti consistono, prevalentemente, in previsioni e valutazioni negative. Il tema del controllo è dominante nel contesto del GAD: il soggetto rimuginatore, infatti, è convinto che solo il completo controllo degli eventi, peraltro mai conseguibile, possa consentirgli di evitare il danno irreparabile temuto, motivo per cui è ipervigile verso gli stimoli minacciosi esterni ed interni (Borkovec et al., 1998).
La componente specifica del disputing del GAD sono le credenze che il paziente riferisce per giustificare la sua tendenza all’iperpreoccupazione. Queste credenze sono state distinte da Wells (2000) in convinzioni positive e negative sul rimuginio. Le prime attribuiscono al rimuginio una funzione positiva. Con esse il paziente risponde alla domanda
T.: ma insomma, a che le serve essere così preoccupato/a? A che le serve rimuginare tanto?
sostenendo che rimuginare gli è utile. Nel primo tipo di risposta il paziente sostiene molto semplicemente che rimuginate gli serve a pensare –e quindi ad affrontare e risolvere- i suoi problemi.
P.: Rimuginare mi aiuta a gestire meglio le situazioni. Se mi preoccupo posso evitare che accadano cose terribili. Rimuginare mi aiuta a risolvere i problemi.
La migliore risposta di partenza è quella logica ed empirica. Dal punto di vista logico è chiaro che il paziente confonde il rimuginio, che è il puro continuare a mantenere l’attenzione fissa sui problemi senza però elaborare soluzioni e strategie di gestione, con il pensiero produttivo, che invece elabora strategie. La risposta migliore è chiedere al paziente di chiarire in che senso le sia utile rimuginare. C’è l’idea errata che essere allerta sia protettivo.
T.: Mi spiega il rapporto tra ciò che teme e il suo stato di preoccupazione?
Il paziente potrebbe rispondere che, di fatto, pensare a un problema implica preoccuparsene. Plausibile, ma si può rispondere che però, nel suo caso, c’è solo la preoccupazione senza il pensiero che risolva le situazioni. A questo punto si passa dal logico all’empirico: si incoraggia il paziente a fornire esempi di questa supposta efficacia pratica del rimuginio.
T.: Ma oggettivamente, quali soluzioni le sono venute in mente rimuginando? Ci sono altre circostanze in cui lei previene le cose pensandoci su?
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A questo punto una possibile risposta è di tipo magico, in cui la paziente riferisce che il rimuginio le da un sollievo immediato, una sensazione di “come se”: come se il problema fosse risolto. Qui possono essere utili due interventi: i costi e il contratto terapeutico. I costi, ovvero i danni che il paziente subisce standosene sempre a preoccuparsi.
T.: D’accordo, sul momento, ovvero a breve termine, ha dei benefici. Ma se lei è qui da me vuol dire che tutto questo rimuginare non le dà solo vantaggi. Le da sollievo sul momento, ma a lungo termine cosa le succede?
E così si torna alla domanda pragmatica. A che cosa le serve la preoccupazione?
T.: Ma lei, quando ci pensa tutto il tempo, la aiuta? E quali sono gli svantaggi, i costi di questo stare sempre preoccupato?
In questo modo il paziente può iniziare a prendere in considerazioni i costi del suo rimuginare. Lo spreco di tempo libero, i danni alle relazioni e al rendimento lavorativo.
Una possibile risposta più sensata è il cosiddetto scudo emozionale. Ovvero il paziente riferisce che sa che non gli serve a nulla, ma almeno dal punto di vista emotivo gli serve a soffrire di meno.
P.: Se mi preoccupo soffrirò meno che se fossi preso alla sprovvista
A pensarci bene questa risposta è simile alla risposta magica. Anche la risposta magica, sia pure in maniera più coperta, riposa in realtà su un vantaggio emotivo: non mi serve a nulla ma mi da una sensazione di sollievo. Tuttavia nella risposta dello scudo emozionale c’è più consapevolezza. Il sollievo non è un fatto scaramantico, ma è frutto di auto-osservazione consapevole. Il/la paziente semplicemente nota che il preoccuparsi da una sensazione illusoria di sollievo. Il percorso del disputing, quindi, è simile al precedente.
Le risposte negative in teoria dovrebbero aiutare il paziente a smettere. In sé sono dei motivi per comprender la dannosità del rimuginio. Tuttavia, almeno nei pazienti, diventano a loro volta contenuti di pensiero negativo rimuginativo. Il pazienti, insomma, traggono nuove inferenze negative su se stessi.
P.: spreco il mio tempo a rimuginare. Questa è l’ennesima prova di quanto io sia un poveraccio. Un altro a mio posto se ne fregherebbe. Vede che sono pieno di problemi?
Il soggetto coglie la natura psicologica della preoccupazione, ma arriva a una definizione di sé negativa come persona “che si fa impressionare troppo”, “che non riesce a fregarsene”, “che ci pensa troppo” e costruendo una teoria della persona “non psicologicamente debole” come una persona che non ha mai esperienza di episodi di insicurezza, ansia, timore, paura, e così via.
Oppure il soggetto può preoccuparsi di possibili danni derivati dal rimuginare:
P.: Non ho il controllo del mio rimuginio. Rimuginare è pericoloso.
Ancora peggio:
P.: Potrei non riuscire più a smettere di rimuginare. Potrei essere sopraffatto dalle rimuginazioni
E infine:
P.: Rimuginare può condurre alla follia.
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Le inferenze negative di tipo catastrofico e auto-svalutativo vanno contrastate con un disputing logico ed empirico simile a quello raccomandato nel trattamento del panico. Non vi sono prove empiriche che il preoccuparsi troppo porti a impazzire né che si perda il controllo della propria preoccupazione. Vero è semmai il contrario: il timore della perdita di controllo e la pretesa di controllare il pensiero.
Egli esercita il suo controllo attraverso il suo rimuginio, da lui giudicato uno strumento che può concretamente o magicamente influenzare gli eventi ed impedirne la realizzazione catastrofica.
T. – Che succede se perde il controllo?
P. – Panico! Quando sul lavoro abbiamo traslocato e mi hanno fatto mettere tutto nelle scatole e hanno detto “adesso voi le lasciate qui e andate in vacanza”; e quando siamo tornati c’erano tutte le cose in disordine. Per me è stato difficile da digerire. Però questa è la mia fissa anche in casa. Da un lato è molto utile perché altrimenti avremmo il caos. Però è vero che sto male! se non c’è quella sensazione che in cantina nello scaffale c’è quella cosa lì. Andando avanti così uno vorrebbe controllare il mondo! Voglio sapere come si muove tutta la mia famiglia. In realtà non è vero che nella pratica ragiono così, ma immagino che un po’ ci sia anche questo, e allora vorrei sapere che gli eventi vanno in un certo modo così li controllo.
Chi legge le avventure del protagonista di Pennac impara con lui a distinguere malinconia, inquietudine, tristezza, rabbia, stanchezza noia.
Ironico, timido, tagliente, scanzonato e soprattutto molto umano è il viaggio raccontato nell’ultimo libro di Pennac, “Storia di Un corpo”. Una raccolta di sensazioni fisiche, di fatti e di persone visti dal punto di vista del corpo (e mi raccomando solo lui!) del protagonista che le vive. E’ il corpo che parla attraverso un diario, mentre le emozioni sono evitate come una malattia mortale: è il corpo a prendersi l’onere di sentire, provare e descrivere le emozioni del protagonista, che solo raramente gliele suggerisce, mentre il diario diventa via via suo “ambasciatore”. Una grande paura segna l’inizio della storia, che farà urlare il corpo, prima che la voce riesca finalmente ad uscire dalla bocca. Questa paura diventerà l’unità di misura delle successive e non solo.Tutte le emozioni provate dal corpo da lì in poi, saranno più intense o meno intense di quella paura, più comprensibili o meno, più accettabili o meno, più umilianti o meno, più inaspettate o meno, … indici di forza o estrema debolezza!
Insomma, a “12 anni, 11 mesi e 18 giorni” il nostro protagonista inizierà un intensissimo dialogo con il suo corpo, che durerà tutta la vita, al grido di: “Non avrò più paura, Non avrò più paura, Non avrò più paura, Non avrò più paura, Non avrò mai più paura”. Il corpo diventerà l’unico oggetto del suo interesse: lo difenderà, lo fortificherà, si occuperà di lui ogni giorno, si interesserà a tutto quello che sente.
In cambio il suo corpo gli spiegherà tutto che gli accade!
13 anni, 1 mese, 9 giorni: “Ripensando a tutte le mie paure, ho fatto un elenco di sensazioni: la paura del vuoto mi fa strizzare le palle, la paura delle botte mi paralizza, la paura di avere paura mi angoscia, l’angoscia mi provoca le coliche, l’emozione (anche piacevolissima) mi fa venire la pelle d’oca, la nostalgia (ad esempio pensando a papà) mi inumidisce gli occhi, la sorpresa mi fa sobbalzare, il panico può farmi fare la pipì, la rabbia mi soffoca, la vergogna mi rattrappisce. Il mio corpo reagisce a tutto. Ma non so mai in che modo reagirà”.
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Nelle diverse fasi della vita mente e corpo vivranno insieme, litigheranno, si prenderanno in giro, prevarranno l’uno sull’altro, ma mai il legame si interromperà. Solo la guerra li porterà ad una rottura: il corpo deve pensare a correre e a salvarsi, la mente fa lo stesso, non c’è tempo per le emozioni. E’ ormai noto il ruolo vitale che la dissociazione dalle proprie emozioni può avere in situazioni di pericolo e l’importanza – anch’essa vitale – del recuperarle una volta che il pericolo è passato.
il 14 Luglio del ’45, a 21 anni, 9 mesi, 4 giorni: “..durante la cerimonia ho pianto ininterrottamente, la prima cosa che voglio annotare qui sono proprio queste lacrime. […] In effetti questa mattina ho versato proprio tutte le lacrime che avevo in corpo. Sarebbe più giusto dire che il corpo ha versato tutte le lacrime accumulate dalla mente nel corso di questa inverosimile carneficina. La quantità di sé che viene eliminata con le lacrime! Una volta che l’anima si è liquefatta, si può celebrare il ricongiungimento con il corpo. Stanotte il mio dormirà.”.
Il nostro viaggiatore prosegue senza sosta, il suo corpo gli darà di nuovo gioia, tristezza, malinconia, ansia, ma sarà sempre più facile per lui riconoscerle ed esserne meno sopraffatto.
Chi legge le avventure del protagonista di Pennac impara con lui a distinguere malinconia e inquietudine, tristezza e rabbia, stanchezza e noia, vuoto e nostalgia. Più volte la linea di confine tra il corpo e la psiche viene avvicinata e sfiorata, gli anni di cambiamento sono sempre un buon motivo per questo inevitabile avvicinamento.
E così:
a 44 anni, 9 mesi, 26 giorni, scopre che si passa “dal panico di essere troppo giovane al terrore di essere troppo vecchio, passando per la malattia dell’impotenza […], la mente e il corpo si accusano a vicenda di impotenza, in un processo in cui regna un silenzio spaventoso”.
Negli anni che seguono il corpo sarà attaccato, colpito e messo a dura prova dalle malattie e dalla vita, ma le paure saranno via via addomesticate, la tristezza più amica, la nostalgia meno disturbante, la liberazione dall’intensità giovanile un sollievo.
L’incredibile ricchezza di “Storia di un corpo”, tutt’altro che disinteressato alle emozioni, è la prospettiva.
La capacità di raccogliere tutte le emozioni che dominano le diverse fasi del ciclo della vita e i pensieri che le accompagnano, fino a prenderne lentamente le distanze per osservarle meglio.
Vedere le evoluzioni del nostro viaggiatore e guardare, come in un film, le proprie è invece la parte più divertente e sorprendente del viaggio.
I ricercatori della Thomas Jefferson University e dell’Università di San Paolo in Brasile, hanno analizzato il flusso ematico cerebrale (CBF) di 10 medium brasiliani mentre praticavano la psicografia, un tipo di scrittura in cui si crede che una persona deceduta o uno spirito scriva con le mani del medium. I risultati dello studio rivelano che l’attività cerebrale dei medium è ridotta durante la scrittura in stato di trance.
I medium avevano tutti tra i 15 e i 47 anni di esperienza di scrittura automatica, praticata con una frequenza di 18 psicografie al mese. Tutti destrorsi e in buona salute mentale, nessuno di loro stava assumendo psicofarmaci. Nel corso dello studio i medium hanno riferito di essere stati in grado di raggiungere l’abituale stato di trance durante la psicografia, mentre durante l’attività di controllo erano in uno stato di coscienza normale e abituale.
Ai medium, esperti e meno esperti nella pratica psicografica, è stato iniettato un tracciante radioattivo per rilevare l’attività cerebrale sia durante la scrittura normale che durante la pratica psicografica. I soggetti sono stati sottoposti a scansione utilizzando la SPECT (Tomografia a Emissione di Fotone Singolo) che ha evidenziato le aree cerebrali attive e quelle inattive durante la scrittura.
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Durante lo stato di trance i medium esperti hanno mostrato minore attività cerebrale nel sistema limbico, nel giro temporale superiore, nelle regioni frontali della corteccia cingolata anteriore sinistra e del giro precentrale dell’emisfero destro. Sulla base di queste rilevazioni i ricercatori ipotizzano che la bassa attivazione delle aree del lobo frontale – associate con il ragionamento, la pianificazione, la generazione del linguaggio, il movimento e il problem solving – possa riflettere l’assenza di concentrazione, di auto-consapevolezza e l’alterazione del normale stato di coscienza raggiunto durante la psicografia.
I medium meno esperti, al contrario, hanno mostrato durante la psicografia un aumento di attivazione nelle stesse aree frontali rispetto alla scrittura normale. Questo dato può essere correlato allo sforzo significativo compiuto dai medium meno esperti nello svolgere la pratica psicografica.
L’assenza di disordini mentali nei due gruppi è in linea con l’evidenza che le esperienze dissociative sono comuni nella popolazione generale e non necessariamente correlate a disturbi mentali, in particolare in gruppi religiosi / spirituali. Secondo i ricercatori ulteriori ricerche dovrebbero occuparsi di definire i criteri di distinzione tra esperienze dissociative sane e patologiche nell’ambito dell’attività medianica.
Il dato più interessante riguarda i campioni di scrittura prodotti: i medium più esperti hanno mostrato punteggi di maggiore complessità del contenuto, elemento che in genere richiederebbe una maggiore attività nei lobi frontali e temporali, contrariamente a quanto rilevato.
Diverse ipotesi sono state formulate per spiegare i risultati: una prima ipotesi è che quando l’attività del lobo frontale diminuisce – come nell’improvvisazione musicale o durante il consumo di alcol o droghe – l’attività delle aree cerebrali coinvolte nella scrittura medianica è disinibita e maggiormente creativa. Il fatto, però, che i soggetti abbiano prodotto contenuti complessi in uno stato di trance dissociativo suggerisce che non fossero semplicemente rilassati; il relax dunque sembra una spiegazione insufficiente a giustificare il decremento di attivazione cerebrale in connessione con il processo cognitivo in corso.
Secondo i ricercatori questa prima valutazione neuroscientifica degli stati di trance medianica rivela alcuni dati interessanti per migliorare la comprensione della mente e il suo rapporto con il cervello. Questi risultati meritano ulteriori approfondimenti sia in termini di replica che per la formulazione di ipotesi esplicative.
“Si, ma al paziente che gli dico?” può sembrare una domanda rozza, che tradisce inesperienza e ingenuità. È una domanda che si pongono molti giovani aspiranti terapeuti, e molti la formulano apertamente, attendendosi una risposta. Un silenzio sorridente e carico di saggezza può essere una buona risposta. Un modo -come si dice- per non colludere con il giovane affamato di facili soluzioni, un modo per somministrare una cortese e necessaria frustrazione allo specializzando. E tuttavia, parafrasando il detto di uno scrittore, in questo silenzio da “venerato maestro” si può nascondere il tradimento del “solito stronzo” (Arbasino, riportato in Berselli, 2007). Il tradimento di chi se la cava sempre e comunque indossando la maschera di chi la sa lunga (ed è il solito stronzo, appunto) tirando fuori la scusa che certe cose non si possano insegnare, ma vanno apprese col tempo e con la crescita.
Che è anche vero. Ma non del tutto. Anche la psicoterapia ha una sua tecnica esplicita, delle procedure che si possono comunicare. Ed essendo la psicoterapia una talking cure, una cura parlata, questa tecnica è una tecnica del colloquio. E quindi qualcosa si può rispondere alla domanda dell’allievo. Soprattutto la psicoterapia cognitiva, che nasce da una felice semplificazione della tecnica del colloquio terapeutico e che si è sviluppata a partire da problemi clinici pratici, dovrebbe avere i mezzi per rispondere alla domanda “Si, ma al paziente che gli dico?”
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Il colloquio psicoterapeutico cognitivo, sia in Albert Ellis che in Aaron T. Beck, ha dei principi tecnici chiari e operativi. Esso si fonda sull’incoraggiare il paziente ad apprendere tre abilità base: 1) riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva consapevole ed esplicita, ovvero quello che sento e quello che penso e che posso esprimere verbalmente; 2) mettere in discussione la validità di questi pensieri, il loro valore di verità e di utilità; 3) costruire nuovi pensieri, più veri e soprattutto più utili, che andranno a sostituire quelli vecchi nelle situazioni quotidiane della vita e che quindi generanno emozioni e azioni differenti, emozioni e azioni a loro volta in grado di generare maggiore benessere e maggiore capacità di affrontare o almeno di sopportare le situazioni. Tutto questo corrisponde a cose che diciamo ai nostri pazienti. E questo libro tenta di indicare quali sono queste cose. In altre parole, questo è un libro di tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva.
Il libro è organizzato in due parti. La prima parte tratta la tecnica e la pratica delle tre fasi del colloquio cognitivo classico: accertamento, disputa e ristrutturazione. A cui si aggiunge un aspetto empatico di validazione. In questi primi capitoli si espone la migliore tradizione razionalista alla Albert Ellis e cognitiva alla Aaron T. Beck integrata, com’è tipico dell’originale impostazione del cognitivismo italiano, con tecniche di accertamento e ristrutturazione costruttiviste mutuate dal modello di George Kelly. Il quarto capitolo integra, all’interno della disputa cognitiva ortodossa, tecniche di validazione emotiva che tentano di formalizzare il concetto, a volte un po’ generico, di empatia. Il quinto capitolo tratta le applicazioni speciali ai maggiori disturbi bersaglio della terapia cognitiva: ansia, depressione e bulimia. La prima parte si conclude con un capitolo dedicato al colloquio cognitivo clinico con il bambino ansioso.
La seconda parte, costituita da altri sette capitoli, tratta i possibili sviluppi futuri, cosiddetti di terza ondata, del colloquio clinico cognitivo: l’attenzione alla storia di vita e agli schemi evolutivi, il modello cognitivo-evoluzionista e quello post-razionalista, la metacognizione, il narrazionismo, la mindfulness, e un protocollo specifico di “video-based cognitive therapy” che riesce a integrare nel colloquio cognitivo gli aspetti percettivi ed esperienziali.
Il libro comprende moltissime esemplificazioni cliniche utili a comprendere la natura e le modalità del colloquio in psicoterapia cognitiva. Ma non si ferma qui. L’idea degli autori è stata quella di esplicitare non solo le modalità di tecnica terapeutica ma anche frasi e interventi così come vengono detti ai pazienti in seduta. Questo rende il volume chiaro, esplicito e comprensibile e permette al lettore di disporre di uno strumento da consultare.
Le frasi prototipiche degli interventi terapeutici sono evidenziate in grassetto e incorniciate in box che catturano l’attenzione del clinico interessato.
Ciò rende il volume non solo uno strumento clinico ma anche un compendio della psicoterapia cognitiva recentissimo e calato nella realtà clinica della relazione terapeutica.
Hanno contribuito alla stesura dei capitoli del volume Giancarlo Dimaggio, Raffaele Popolo, Carmelo La Mela, Linda Tarantino, Piergiuseppe Vinai, Gabriele Caselli, Maurizio Speciale, Andrea Bassanini e Gianluca Frazzoni.
Insecure attachment has been investigated as a predictor of internalizing behavior in children. Specifically, anxious/resistant children may be at a higher risk for the development of anxiety disorders.
Costa and Weems (2005) investigated the association between child attachment and anxiety symptoms. Eighty-eight children between the ages of six and 17 years participated with their mothers. Two questionnaires were completed by the childrenand the Anxiety Symptoms Checklist was completed by mothers.
The results demonstrated that children’s anxiety was significantly associated with child insecure attachment belief. This finding provides evidence for the association between insecure attachment and the development of anxiety. However, the questionnaire used to measure attachment in this study did not allow for examination of the association between children’s anxiety and the different subtypes of insecure attachment. Therefore, the findings are limited by the sole reliance on questionnaire reports.
Racommended: Insecure attachment and internalizing behavior problems.
Several studies have found an association between insecure attachment and internalizing behavior problems using longitudinal methodology. Lewis, Feiring, McGuffog and Jaskir (1984) examined infant attachment predicting later child psychopathology. One-hundred and thirteen children’s attachment styles were assessed using the strange situation procedure (SSP) at 12 months of age. Five years later, the mothers completed the Children Behaviour Profile (CBP). The results demonstrated different behavioral outcomes for males and females. Most notably, male with a resistant attachment scored significantly higher on the internalizing scale than both avoidant and securely attached males. The same effect was not show found in females.
In addition to finding an association between externalizing behavior and anxious/avoidant children, Erickson et al. (1985) additionally found that anxious/resistant children were less confident and assertive in the school environment and showed lower overall social skills than securely attached children.
As part of the Minnesota project, a 20 year longitudinal study, Warren, Huston, Egeland and Sroufe (1997) investigated 172 infants’ attachment style and their behavioral outcomes. Infant attachment style was assessed at 12 months of age using the SSP. Diagnostic assessments were conducted at age 17.5.
The results demonstrated that more anxious/resistant infants developed anxiety disorders in adolescents than expected by chance. Of children with an anxious/resistant attachment style, 28% developed an anxiety disorder compared to 13% of those with all other insecure attachment styles. Also, more children with other disorders (i.e. any non-anxiety disorder) were classified as having and anxious/avoidant attachment style than expected by chance.
In the next installment I will discuss more recent studies investigating insecure attachment and the development of internalizing disorders. I will also summarize the result of each of the studies I have discussed so far.
La Dipendenza da Videogiochi è un fenomeno mediatico. Una recente ricerca esamina se la dipendenza da Videogiochi si può risolvere da sé.
La Dipendenza da Videogiochi è una delle patologie, assieme alla Dipendenza da Internet (Internet Addiction), di cui i media spesso ci parlano. Quando l’utilizzo smoderato dei Videogames può definirsi dipendenza è difficile dirsi, ma la maggior parte dei professionisti ammette di riconoscere subito quando il caso è ormai patologico.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato, nei primi periodi in cui si cominciava a parlare di dipendenza da videogiochi, che in realtà l’uso eccessivo del computer e dei videogames non fosse un vero disturbo, quanto piuttosto un comportamento adattivo dell’essere umano verso stimoli nuovi e sconosciuti, quali, per l’appunto, i moderni passatempi tecnologici. Le ultime ricerche suggeriscono che questo potrebbe essere vero. Sarà forse una buona notizia? In un recente studio, per esempio, si è voluto esaminare se la dipendenza da Videogiochi si può risolvere da sé, semplicemente col passare del tempo.
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A questo scopo sono state condotte delle analisi di tipo longitudinale su un campione di giovani adulti. I ricercatori hanno inizialmente somministrato un questionario on line a 393 partecipanti, è stato poi chiesto loro di compilare le indagini di follow-up a 6 e a 18 mesi. I partecipanti che hanno compilato tutti i questionari sono stati in totale 117.
Attraverso i questionari on line sono state raccolte informazioni di carattere demografico, sono stati indagati i tipi di comportamento di gioco ai videogames e sono stati posti dei test per comprendere la problematicità dell’utilizzo di Videogames, ovvero la dipendenza da videogiochi. Si sono inoltre analizzati la presenza di despressione e di disturbi d’ansia e il livello di stress dell’individuo. I ricercatori hanno osservato che, tra i partecipanti, 37 si sono definiti giocatori problematici e 80 si sono invece definiti normali giocatori. Le “auto-diagnosi” sono state confermate da alcuni criteri di validità stabiliti in precedenza dai ricercatori.
Dallo studio è emerso che entrambi i gruppi (giocatori problematici e giocatori normali) hanno registrato un calo significativo del problema durante un periodo di 18 mesi, sia sul piano comportamentale che su quello sintomatologico.
In altre parole, chi si è auto-identificato giocatore problematico all’inizio dello studio, ha ridotto significativamente il proprio problematico comportamento di gioco 18 mesi più tardi. Nell’ultima compilazione del questionario, infatti, le loro risposte sembravano delineare proprio il “sano” giocatore, ormai fuori dalla dipendenza da videogiochi.
Una spiegazione di questo calo generale, in entrambi i gruppi, dei sintomi della dipendenza da videogiochi è dovuta all’età, cosa questa non nuova ai professionisti: il concetto di maturazione nel corso del tempo è infatti ben consolidato nella letteratura sulla dipendenza.
Tuttavia, giungere a conclusioni così affrettate è un po’ imprudente, ciò che per il momento si cerca di consigliare è che se la dipendenza da videogiochi è così invalidante da non poter aspettare che il tempo faccia il suo corso (pensiamo alle ripercussioni sul lavoro, sullo studio o sulle relazioni interpersonali), non fa male richiedere l’aiuto di un professionista.
Un terapeuta possiede gli strumenti idonei a trattare problemi di questo tipo, anche laddove non esiste ancora una diagnosi formale del disturbo.
Oliver Sacks: che cosa le allucinazioni rivelano delle nostre menti (TED Talk)
Il neurologo e autore Oliver Sacks porta la nostra attenzione sulla sindrome di Charles Bonnet — persone con problemi visivi che hanno allucinazioni nitide. Descrive le esperienze dei suoi pazienti con dettagli appassionati e ci conduce all’interno della biologia di questo fenomeno poco riportato.
Vediamo con gli occhi. Ma vediamo anche con il cervello. Il vedere con il cervello si chiama spesso immaginazione. E abbiamo familiarità con i paesaggi della nostra immaginazione, i nostri ‘paesaggi interiori’. Ci abbiamo convissuto per tutta la vita. Ma esistono anche le allucinazioni. E le allucinazioni sono completamente diverse: non sembrano essere una nostra creazione. Non sembrano sottostare al nostro controllo. Sembrano venire dall’esterno, e [sembrano] imitare la percezione.
Così parlerò delle allucinazioni. E di un particolare tipo di allucinazione visiva che vedo tra i miei pazienti. Alcuni mesi fa ho ricevuto una telefonata da una casa di cura per anziani in cui lavoro. Mi hanno detto che una delle ospiti, un’anziana signora ultra novantenne, vedeva delle cose. E si chiedevano se avesse perso qualche rotella. O, dato che era una signora anziana, se avesse avuto un ictus, o se soffrisse di Alzheimer.
Così mi hanno chiesto se potevo andare a visitare Rosalie, l’anziana signora. Sono andato a trovarla. Era immediatamente evidente che era perfettamente sana, lucida e con una buona intelligenza. Ma era molto allarmata, e molto sconcertata, perché vedeva delle cose. E mi disse — le infermiere non mi avevano menzionato questa cosa — che era cieca, che era completamente cieca, a causa della degenerazione maculare, da cinque anni. Ma ora, negli ultimi giorni, stava vedendo delle cose.
Così le chiesi: “Che tipo di cose?” E lei mi disse: “Persone con vestiti orientali, con drappi, che salgono e scendono le scale. Un uomo che si volta verso di me e sorride. Ma ha dei denti enormi in un lato della bocca. Anche animali. Vedo un edificio bianco. Sta nevicando, una neve soffice. Vedo questo cavallo, con i finimenti, che trascina via la neve. Poi, una notte, la scena cambia. Vedo gatti e cani che vengono verso di me. Arrivano fino ad un certo punto e poi si fermano. Poi cambia ancora. Vedo tanti bambini. Stanno salendo e scendendo le scale. Indossano [vestiti] di colori sgargianti, rosa e blu, come i vestiti orientali.”
A volte, mi disse, prima che la gente entri può avere un’allucinazione di quadrati rosa e blu sul pavimento, che sembrano salire fino al soffitto. Dissi: “È come un sogno?” E lei mi disse: “No, non è come un sogno, è come un film.” Disse: “C’è il colore. C’è il movimento. Ma è completamente silenzioso, come un film muto.” E mi disse che era un film piuttosto noioso. Mi disse: “Tutte queste persone con vestiti orientali, che vanno su e giù: molto ripetitivo, molto limitato.” (Risate)
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La signora ha senso dell’umorismo. Sapeva che era un’allucinazione. Ma era spaventata. Aveva vissuto per 95 anni e non aveva mai avuto allucinazioni prima. Disse che le allucinazioni non erano legate a niente di ciò che stava pensando o sentendo o facendo. Che sembrava che venissero da sole, o scomparissero [da sole]. Non le controllava. Disse che non riconosceva nessuna delle persone o dei luoghi che vedeva nelle allucinazioni. E che nessuna delle persone o degli animali, bene, sembravano tutti incuranti di lei. E non sapeva cosa stesse succedendo. Si chiedeva se stesse diventando matta, o perdendo la testa.
Bene, l’ho visitata accuratamente. Era un’anziana signora brillante. Perfettamente sana. Non aveva problemi di salute. Non stava assumendo nessuna medicina che potesse causare allucinazioni. Ma era cieca. E allora le dissi: “Penso di sapere che cos’ha.” Dissi: “C’è una forma speciale di allucinazione visiva che può accompagnare il deterioramento della vista, o la cecità.” “È stata originariamente descritta,” dissi, “nel Diciottesimo secolo, da un uomo chiamato Charles Bonnet. Lei ha la sindrome di Charles Bonnet. Non c’è niente che non va nel suo cervello. Non c’è niente che non va nella sua mente. Lei ha la sindrome di Charles Bonnet.”
Era molto sollevata, di non avere niente di serio, e anche molto curiosa. Chiese: “Chi è questo Charles Bonnet?” Disse: “L’aveva anche lui?” E disse: “Dica a tutte le infermiere che ho la sindrome di Charles Bonnet.” (Risate) “Non sono pazza, non sono demente. Ho la sindrome di Charles Bonnet.” Così lo dissi alle infermiere.
Ora, questa per me è una situazione comune. Lavoro per lo più in ospizi. Vedo molte persone anziane che sono audiolese o videolese. Circa il 10 per cento delle persone audiolese hanno allucinazioni musicali. E circa il 10 per cento delle persone videolese ha allucinazioni visive. Non è necessario essere completamente ciechi, è sufficiente avere la vista compromessa.
Ora, secondo la descrizione originale del 18mo secolo, Charles Bonnet non aveva queste allucinazioni: ma suo nonno ne aveva. Suo nonno era un magistrato, una persona anziana. Era stato operato di cataratta. La sua vista era molto scarsa. E nel 1759 descrisse a suo nipote varie cose che stava vedendo.
La prima cosa che disse fu che vedeva un fazzoletto sospeso a mezz’aria. Era un grande fazzoletto blu con quattro cerchi arancioni. E sapeva che era un’allucinazione. Non ci sono fazzoletti sospesi a mezz’aria. Poi vide una grande ruota a mezz’aria. Ma a volte non era sicuro se le sue visioni fossero o meno allucinazioni, perché le allucinazioni si potevano adattare al contesto della visione. Ad esempio una volta, quando le sue nipoti li stavano visitando, disse: “Chi sono questi bei ragazzi che sono con voi?” E loro risposero: “Ahimè, nonno, non ci sono bei ragazzi.” E allora i bei ragazzi scomparvero. È tipico di queste allucinazioni che possano comparire in un lampo e scomparire in un lampo. Di solito non aumentano e non si affievoliscono in modo graduale. Arrivano all’improvviso. E cambiano all’improvviso.
Charles Lullin, il nonno, vedeva centinaia di figure diverse, paesaggi diversi di ogni tipo. Una volta vide un uomo in accappatoio che fumava una pipa, e si rese conto di vedere se stesso. Questa fu l’unica figura che riconobbe. Un’altra volta, mentre stava camminando per le strade di Parigi, vide — e questa era reale — un’impalcatura. Ma quando tornò a casa vide una miniatura dell’impalcatura alta sei pollici, sul tavolo del suo studio. Questo ripetersi di una percezione a volte viene chiamato palinopsia.
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Con lui, e con Rosalie, cosa sembra stia accadendo? — anche Rosalie chiedeva: “Che cosa sta succedendo?” — Io le dissi che quando si perde la vista, quando le parti del cervello preposte alla vista non ricevono più nessun input, diventano iperattive ed eccitabili. E iniziano ad accendersi spontaneamente. E si comincia a vedere delle cose. Le cose che si vedono possono essere davvero molto complicate.
Con un’altra delle mie pazienti, che, [come Charles Lullin, ancora] vedeva qualcosa, le visioni che aveva potevano essere inquietanti. Una volta disse che aveva visto un uomo con una camicia a strisce al ristorante. Che si era girato. E quindi si era diviso in sei figure identiche con la camicia a righe, che avevano cominciato ad andare verso di lei. E poi le sei figure si erano ricomposte di nuovo, come una piccola fisarmonica. Una volta, mentre stava guidando, o meglio, suo marito stava guidando, la strada si era divisa in quattro. E si era sentita come se stesse percorrendo simultaneamente le quattro strade.
Aveva delle allucinazioni molto mobili. Molte di esse avavano a che fare con una macchina. A volte poteva vedere un ragazzino seduto sul cofano dell’auto, era molto tenace e si muoveva in modo piuttosto aggraziato quando l’auto voltava. E quando si fermavano, il ragazzo poteva improvvisamente muoversi in verticale, fino ad un’altezza di 100 piedi, e poi scomparire.
Un’altra delle mie pazienti aveva un diverso tipo di allucinazioni. Questa donna non aveva problemi agli occhi, ma, nella parte preposta alla vista del suo cervello, aveva un piccolo tumore, nella corteccia occipitale. E, soprattutto, vedeva dei cartoni animati. Questi cartoni erano trasparenti e coprivano metà del campo visivo, come uno schermo. Vedeva specialmente cartoni di Kermit la Rana. (Risate) Ora, io non guardo il Muppet Show. Ma lei puntualizzò: “Perché Kermit?” disse: “Kermit la Rana non significa niente per me. Sa, stavo pensando ai determinanti freudiani. Perché Kermit? Kermit la Rana non significa niente per me.”
Non le importava molto dei cartoni. Ciò che la disturbava era che aveva immagini o allucinazioni molto persistenti di volti e come con Rosalie, i volti erano spesso deformati, con denti molto grandi, o occhi molto grandi. E questi [volti] la spaventavano. Bene, che cosa sta succedendo a queste persone? Come medico, devo cercare di definire ciò che sta succedendo, e rassicurare le persone. Devo specialmente rassicurarle sul fatto che non stanno diventando pazze.
Qualcosa come il 10 per cento, come ho detto, delle persone videolese ha queste allucinazioni. Ma non più dell’un per cento delle persone lo riconosce. Perché hanno paura di essere considerati pazzi, o qualcosa di simile. E se ne parlano con i loro dottori possono avere una diagnosi errata.
In particolare, l’idea è che se vedi delle cose o senti delle cose, stai impazzendo. Ma le allucinazioni psicotiche sono molto diverse. Le allucinazioni psicotiche, sia quelle visive che quelle auditive, si rivolgono a te. Ti accusano. Ti seducono. Ti umiliano. Si prendono gioco di te. Tu interagisci con loro. Non c’è questa caratteristica dell’essere rivolte alla persona, nelle allucinazioni di Charles Bonnet. C’è un film. State vedendo un film che non ha niente a che vedere con voi. Così è come le persone le percepiscono.
C’è anche una cosa rara chiamata epilessia del lobo temporale. E a volte, se una persona ne soffre, si può sentire trasportata indietro ad un tempo ed un luogo nel passato. Siete ad un particolare incrocio. Sentite profumo di castagne arrostite. Sentite il traffico. Tutti i sensi sono coinvolti. E state aspettando la vostra ragazza. Ed è quel giovedì sera del 1982. Le allucinazioni del lobo temporale sono allucinazioni multi-sensoriali, piene di sentimenti, piene di cose familiari, ubicate nello spazio e nel tempo, coerenti, coinvolgenti. Le allucinazioni di Charles Bonnet sono molto diverse.
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Così nelle allucinazioni di Charles Bonnet, avete ogni tipo di livello, dalle allucinazioni geometriche, i quadrati rosa e blu che vedeva quella donna, fino ad allucinazioni molto elaborate con figure, e soprattutto volti. I volti, a volte deformati, sono una delle cose più comuni in queste allucinazioni. E la seconda cosa più ricorrente sono i cartoni.
Ma allora, cosa sta succedendo? In modo affascinante, negli ultimi anni, è stato possibile ricostruire l’immagine funzionale del cervello, fare la risonanza magnetica funzionale alle persone che stavano avendo delle allucinazioni. E trovare infatti che si attivano parti diverse del cervello visivo mentre stanno avendo le allucinazioni. Quando le persone hanno queste semplici allucinazioni geometriche, si attiva la corteccia visiva primaria. Questa è la parte del cervello che percepisce i confini e gli schemi. Non si formano immagini con la corteccia visiva primaria.
Quando si formano le immagini, è coinvolta una parte superiore della corteccia visiva nel lobo temporale. E in particolare, un’area del lobo temporale che è chiamata la circonvoluzione fusiforme. È noto che se le persone hanno la circonvoluzione fusiforme danneggiata, possono perdere la capacità di riconoscere i volti. ma se c’è un’attività anomala nella circonvoluzione fusiforme, si possono avere allucinazioni di volti. Questo è esattamente ciò che si trova in alcune di queste persone. C’è un’area nella parte anteriore di questa circonvoluzione in cui si formano le immagini dei denti e degli occhi. Questa parte della circonvoluzione si attiva quando la gente ha allucinazioni di volti deformati.
C’è un’altra parte del cervello che si attiva specialmente quando una persona vede dei cartoni animati. Si attiva quando si riconoscono i cartoni, quando si disegnano i cartoni, e quando si vedono nelle allucinazioni. È molto interessante che ciò sia così specifico. Ci sono altre parti del cervello che sono coinvolte specificamente con il riconoscimento e le allucinazioni di edifici e paesaggi.
Intorno al 1970 si è scoperto che non c’erano solo particolari parti del cervello [coinvolte], ma particolari cellule. le “cellule volto” furono scoperte intorno al 1970. Ora sappiamo che ci sono centinaia di altri tipi di cellule, che possono essere molto molto specifiche. Così non solo si possono avere cellule “auto”, ma anche cellule “Aston Martin”. (Risate) Ho visto una Aston Martin questa mattina, dovevo inserirla nel discorso. Ed ora è qui da qualche parte. (Risate)
Ora, a questo livello, in quella che è chiamata circonvoluzione temporale inferiore, ci sono solo immagini visive, o invenzioni o frammenti. È solo ad un livello più alto che intervengono gli altri sensi e ci sono le connessioni con la memoria e le emozioni. Nella sindrome di Charles Bonnet non si arriva a questi livelli più alti. Siamo in quei livelli della corteccia visiva inferiore in cui ci sono migliaia e decine di migliaia e milioni di immagini, o immagini di fantasia o frammenti di immagini di fantasia, tutte codificate a livello neurale, in cellule particolari o in piccoli agglomerati di cellule.
Normalmente queste sono tutte parti del flusso integrato della percezione, o dell’immaginazione. E non se ne è consci. È solo se una persona è videolesa, o cieca, che il processo è interrotto. E invece di avere una normale percezione, si ha un’anarchica, convulsa stimolazione, o rilasco, di tutte queste cellule visive, nella circonvoluzione temporale inferiore. Così, improvvisamente, vedete una faccia. Improvvisamente vedete una macchina. Improvvisamente questo e improvvisamente quello. La mente fa del suo meglio per organizzare, e dare una qualche coerenza a tutto ciò. Ma senza un grande successo.
Quando queste [allucinazioni] furono descritte per la prima volta si pensò che potessero essere interpretate come sogni. Ma di fatto le persone dicevano, “Non riconosco le persone. Non riesco a fare nessuna associazione.” “Kermit non significa niente per me.” Non si arriva da nessuna parte considerandole come sogni.
Bene, ho più o meno detto quello che volevo. Penso di voler solo riassumere e dire che ciò è comune. Pensate al numero delle persone cieche. Devono esserci centinaia di migliaia di persone cieche che hanno queste allucinazioni, ma hanno troppa paura di parlarne. Così questa cosa ha bisogno di essere portata alla luce, per i pazienti, per i dottori, per il pubblico. Infine, penso che siano infinitamente interessanti, e preziose, perché ci danno un quadro di come lavora il cervello.
Charles Bonnet disse, 250 anni fa — si chiedeva come, pensando a queste allucinazioni, come, per dirlo con le sue parole, “il teatro della mente potesse essere generato dal macchinario del cervello”. Ora, 250 anni dopo, penso che stiamo cominciando a intravvedere come ciò viene fatto. Grazie mille!
Chris Anderson: È stato magnifico. Molte grazie. Ha parlato di queste cose con così tanta profondità ed empatia per i suoi pazienti. Ha sperimentato qualcuna delle sindromi di cui scrive?
Oliver Sacks: Temevo che me lo chiedesse. (Risate) Beh, sì, molte. In realtà sono un po’ videoleso. Son cieco in un occhio, e l’altro non vede molto bene. Ed ho le allucinazioni geometriche. Ma si fermano qui.
C.A.: E non la disturbano? Dato che lei sa cosa le causa, ciò non la preoccupa?
O.S.: Bene, non mi disturbano più del mio acufene. Che ignoro. A volte mi interessano. Ed ho molti loro disegni nei miei taccuini. Ho fatto una risonanza magnetica funzionale per vedere come la mia corteccia visiva prende il controllo. E quando vedo questi esagoni e cose complesse, che ho anche, nell’emicrania visiva, mi chiedo se tutti vedono cose come queste, e se cose come l’arte preistorica, o l’arte ornamentale possano derivarne in parte.
È stato un discorso molto affascinante. Grazie mille per averlo condiviso