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La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?

 

La Tendenza alla Procrastinazione da Dove Origina?. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.comLEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

Quali aspetti della personalità favoriscono una tendenza alla procrastinazione distruttiva?

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La procrastinazione si riferisce all’atto di sostituire attività prioritarie e importanti con attività piacevoli o compiti meno rilevanti o urgenti. Il procrastinatore è colui che rimanda le cose importanti con l’intento di occuparsene in un altro momento e così rischia di chiudersi nella gabbia del domani.

Abbiamo discusso di come la procrastinazione possa essere una strategia pericolosa e di quanto si importante monitorare la propria tendenza a procrastinare. Il dubbio successivo è: quali aspetti della personalità favoriscono una tendenza alla procrastinazione distruttiva?

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Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com
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Un recente studio di Harrington (2005) considera il rapporto tra diverse componenti cognitive e la tendenza a procrastinare l’attività di studio in studenti universitari. Harrington ci mostra il ruolo di due componenti: intolleranza alla frustrazione e autovalutazione globale.

L’intolleranza alla frustrazione rappresenta la richiesta assoluta che le realtà sia esattamente come noi la desideriamo, una pretesa (es: la vita deve essere sempre facile e libera da ostacoli) e l’insostenibilità della sua frustrazione (es: non posso sopportare di fare cose difficili o di combattere contro ostacoli).

L’autovalutazione globale  rappresenta la definizione del proprio valore personale come dipendente dal raggiungimento di certe condizioni assolute (es: sono una persona di valore solo se ho sempre successo in quello che faccio).

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Queste due convinzioni estreme e assolute, spesso tanto radicate dall’essere implicite nella coscienza individuale, rappresentano un carico pesante sullo stato emotivo presente. Se la fatica è insopportabile e il fallimento implica l’essere totalmente inadeguato allora lo stress e la paura di fallire innanzi a un compito diventano molto più intense.

Certo questi piani pretenziosi o generalizzati ci illudono (1) che esista una vita senza fatica e dolori, che sia legittimo auspicarla e richiederla oppure che (2) esista la possibilità di ottenere la rassicurazione di essere persone di valore una volta per tutte. Abbandonare questi piani significa (1) abbracciare quella leggera malinconia dell’essere pulviscolo nell’universo, (2) capire che solo dolore, fatica e sfida conducono alla soddisfazione, (3) accettare che del valore personale nulla in fondo si può dire.

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BIBLIOGRAFIA:

Il Telefono Cellulare Non ci Aiuta a Lavorare Bene

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuando siamo impegnati in un’attività le brevi interruzioni – come i pochi secondi necessari a far tacere il cellulare che suona – hanno un effetto sorprendentemente grande sulla nostra capacità di portare a termine ciò che stiamo facendo.

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Lo studio, condotto alla Michigan State University, ha esaminato 300 persone mentre erano impegnate a eseguire una sequenza computerizzata e ha rivelato che le interruzioni di circa tre secondi raddoppiavano il tasso di errore.

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Le brevi interruzioni sono onnipresenti al giorno d’oggi: sms, notifiche di messaggi in entrata, o il collega di lavoro che ci distrae mentre lavoriamo. Ma, secondo i ricercatori, gli errori che ne derivano possono essere disastrosi per i professionisti impegnati in attività particolarmente difficili e impegnative, come ad esempio quelli che si occupano della meccanica degli aerei o i medici del pronto soccorso.

Il fattore determinante, spiega Altmann, non è la durata dell’interruzione – infatti anche brevissime interruzioni hanno avuto un grande impatto sulla prestazione ottenuta al compito dai partecipanti all’esperimento – ma il fatto che l’interruzione costringe il soggetto a spostare l’attenzione da un compito ad un altro, per questo anche brevissime interruzioni sono disturbanti quando si verificano nel corso di un processo che richiede una riflessione approfondita

Una soluzione, soprattutto quando gli errori hanno un costo, potrebbe essere quella di progettare un ambiente che protegga dalle interruzioni…a cominciare dall’obbligo di spegnere il cellulare!

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BIBLIOGRAFIA:

La Solitudine: Cartina Tornasole della Nostra Identità

 

Di Maria Laura Falduto e Pasquale Romeo

La Solitudine- Cartina Tornasole della Nostra Identità. - Immagine: © photowings - Fotolia.comLa solitudine è una spia indicatrice di una normale condizione di benessere specie se vissuta con equilibrio e in maniera sintonica con se stessi. La capacita di stare soli è un elemento fondante, come diceva Winnicott e non dipende dalla vicinanza fisica. Si può star soli anche in compagnia e sentirsi in compagnia essendo soli. 

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La solitudine riguarda più campi ed è fonte di studio e di confronto fra varie branche della filosofia, della letteratura, dell’antropologia e della psichiatria da secoli. Argomento intriso di molteplici significati, appare come una finestra sul mondo nel campo delle scienze umane e sociali, riflettendo uno spettro di condizioni che vanno dall’appartenenza e differenziazione dell’adolescente alla noia ed alla paura dell’anziano. La solitudine, condizione imprescindibile della nostra identità, definisce chi siamo per noi stessi e per gli altri, può fungere da fattore predisponente di alcune patologie come la depressione o al contrario essere altresì un potente cuscinetto specie in età adolescenziale tra l’accettazione di sé e quella dei propri pari.

Immagine: The Loneliness of a Sappy Man. © 2012 Marco Piunti. www.trattogrullo.com
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L’essere umano comincia a fare i conti con la solitudine proprio nella fascia di età che dalla pubertà si snoda verso l’età adulta, trovando il suo fulcro principale nell’adolescenza: in questa particolare fase, l’identità in formazione del ragazzo oscilla tra il bisogno di indipendenza, la ricerca dei propri spazi ed esperienze e quello di sicurezza-attaccamento verso le figure socio-affettive più prossime. E’ in questo periodo, caratterizzato da profondi cambiamenti sia fisiologici che strutturali che anche la dimensione affettiva e  cognitiva viene investita e caricata di significati molteplici.

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L’adolescente può vivere come un marchio d’infamia la condizione dell’essere solo e manifestare disagio in varie forme. E’ sorprendente, ma oltretutto preoccupante, scoprire da recenti studi nell’ambito della neuropsicologia, quali quelli condotti da U. Sabatello nel 2010 sulla devianza giovanile e sui disturbi della condotta, come molti dei pre-adolescenti autori di reati, ai test psicologici ottengano un alto punteggio nelle scale della depressione e dell’ansia. Ciò pone i clinici e gli esperti di fronte all’esigenza di valutare attentamente i loro ruoli per sostenere al meglio il ragazzo nel raggiungimento dei suoi compiti evolutivi.

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I teenagers percepiscono negativamente la solitudine e vi associano rabbia e tensione. Sembra una resistenza notevole alla crescita e quindi in senso lato al cambiamento, impedendo il gioco dei processi identificatori e il nascere della creatività. Elaborare e saper accettare il proprio senso di solitudine è una condizione imprescindibile per diminuire il proprio senso di separatezza: la sperimentazione della solitudine si rivela quel quid di svolta per l’affermazione della propria identità: stare con sé stessi, per sperimentarsi, diventa condizione preliminare al saper  stare con gli altri.

E’ come, se ad un tratto, si togliesse di dosso la coperta di Linus (o l’oggetto transazionale per dirla alla Winnicott) e  si facesse della solitudine sperimentata qualcosa di nuovo, una verità che non riscalda ma illumina! La gestione della solitudine in questa età può costituire un frutto prelibato, come la mela di Adamo, foriero di sofferenza ma anche di conoscenza.

Tuttavia, la capacità di avvertire la solitudine muta con la situazione contingente come se il nostro apparato psichico ne modificasse la soglia di percezione in base alle circostanze: nella condizione senile per esempio, la solitudine sembra maggiormente stigmatizzata, non per niente la depressione dell’anziano ha una prevalenza notevole divenendo patologico. Le perdite associate al normale decadimento legato all’età quali la perdita dell’udito per esempio, possono influire sulla percezione di solitudine e d’esclusione sociale, e conseguentemente limitare le interazioni sociali.

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Notevole importanza assumono senza alcun dubbio fattori sociali importanti quali il pensionamento e la perdita del ruolo sociale, la capacità d’essere utile agli altri, la mancanza di hobbies e la progressiva perdita delle performance cognitive e percettive che incidono sul vissuto del soggetto e sul suo usuale svolgimento delle azioni della vita quotidiana. Per tal motivo la vecchiaia diventa una malattia se non sufficientemente preparata in gioventù, se la vita non è stata prudentemente arricchita da ulteriori interessi oltre che da adeguati sostegni affettivi.

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Parallelamente alla solitudine sperimentata dall’anziano, quella del malato mentale è altresì invalidante: Borgna la definisce sia morale che sociale, sia endocentrica che esocentrica, poiché coinvolge il singolo nello stare con sé stessi ma anche con gli altri. Una solitudine che si esercita su sé stessi depauperandosi dei propri oggetti interni, in una vuotezza del presente ed una mancanza di progettualità futura. Una solitudine condizionata dal proprio deserto interiore, o dal popolamento di oggetti persecutori. Il malato intrattiene un monologo con sé stesso sempre più povero nel contenuto e nella forma, un monologo che si riduce al pronome personale Io. 

La solitudine è intimistica, cioè appartiene alla sfera del privatissimo “non è spesso condivisibile” suscitando dei sentimenti conflittuali di amore e di odio. E’ possibile parlare in un salotto, mentre si banchetta in compagnia, tra amici di un argomento così privato quale la solitudine? forse no! Nella solitudine vi sono le radici dell’essere, con la solitudine emerge ciò che c’è di più vero e profondo. Diventa un argomento salottiero se se ne sviscera la sua parte più estroversa vale a dire la riflessione di sé per stare meglio con gli altri. Se è possibile fare quello che dice Tibullo “Sii una folla per te stesso” allora è possibile anche stare con gli altri essendo soli (P. Romeo, 2008).

La solitudine è una spia indicatrice di una normale condizione di benessere specie se vissuta con equilibrio e in maniera sintonica con se stessi. La capacita di stare soli è un elemento fondante, come diceva Winnicott e non dipende dalla vicinanza fisica. Si può star soli anche in compagnia e sentirsi in compagnia essendo soli. 

Forse in quest’ultima definizione vi sta il segreto della sana solitudine vincendo l’usuale paradosso secondo cui non si può essere contemporaneamente con e senza l’oggetto.

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BIBLIOGRAFIA:

1. Borgna, E. (2001). Malinconia. Milano: Feltrinelli.

2. Gabbard, O. (1995). Psichiatria Psicodinamica. Milano: Raffaello Cortina.

3. Romeo, P. (2008).  Soli soli soli. Brescia: Bietti.

4. Sabatello, U. (2010). Lo sviluppo antisociale dal bambino al giovane adulto. Milano: Raffaello Cortina.

5. Winnicott, D. (1969). The capacity to be alone in the maturation processes and facilitating environment. Londra: Karnac.

Recensione: La Migliore Offerta di Tornatore- Ritratto di un Escluso

La Migliore Offerta

di Giuseppe Tornatore

Recensione

 

La-migliore-offerta_di Tornatore- Gennaio 2103 - Locandina

La Migliore Offerta – Recensione: Si rivela la fragilità del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione, perde la testa.

L’ ultimo film di Tornatore La Migliore Offerta si propone come un misurato mystery psicologico; non certo un thriller mozzafiato giocato su intrecci di complessità algoritmica, ma un intrigo dal sapore un po’ retrò costellato di enigmi (veri o immaginari) e presunte verità che si rivelano di volta in volta non essere mai tali.

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Organo propulsore di tutto l’impianto è la figura del protagonista, grazie anche alla lodevole interpretazione di Geoffrey Rush nei panni di Virgil Oldman, noto e ricchissimo battitore d’aste, imbattibile nello stimare e riconoscere capovalori d’arte ma umanamente indurito da tutta una serie di manie, superstizioni e piccole fobie che, benché non gli impediscano di eccellere nel suo mestiere, ne minano irrimediabilmente le competenze sociali e relazionali.

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All’inizio della vicenda la vita di Oldman sembra malgrado tutto scorrere tranquilla su binari ben oliati, impostata com è ad un rigido controllo (sic) delle potenziali intrusioni dal mondo esterno (guanti e fazzoletto sulla cornetta sono dettagli un po’ didascalici, ma servono a tratteggiare la psicologia del personaggio), fino a quando non entra in scena una giovane e misteriosa ereditiera che convoca il professionista per effettuare una stima del proprio patrimonio, custodito in una fatiscente e meravigliosa villa dalle atmosfere un po’ hitchcockiane.

Da questo momento in avanti ne La Migliore Offerta si rivela la fragilità psicologica del protagonista, che obbligato a confrontarsi con la passione per una donna reale (fino a quel momento si era limitato ad amare le donne dei dipinti che collezionava da una vita), perde immediatamente la bussola.

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Il confronto con l’esistenza vera (o presunta tale) compromette il suo faticoso e misurato distacco e ne smaschera l’ingenuità e la miopia; dal momento in cui non gli è più possibile nascondersi dietro un’ostentata sterilità affettiva, si dimostra sfacciatamente impacciato e vulnerabile.

Al di là quindi dei meriti (e demeriti) artistico-cinematografici della pellicola, credo sia interessante riflettere sull’evoluzione di questa personalità nevrotica e ossessiva, e sulla debolezza di certe strutture psicologiche all’apparenza granitiche e incontrastabili.

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L’atteggiamento iniziale del protagonista de La Migliore Offerta è improntato a un tipico, ineccepibile senso del dovere e a  un’altrettanto intransigente pretesa di impeccabilità nel comportamento altrui; quando la misteriosa committente insiste a non presentarsi agli appuntamenti, adducendo scuse sempre più inverosimili, Virgil ha una reazione violenta e disordinata, perché intuisce la minaccia alla sua abitudine di avere tutte le situazioni perfettamente sotto controllo.

In generale, il  suo coinvolgimento interpersonale è pressoché nullo, tant’è che lo sentiamo chiedere ad uno dei suoi più stretti collaboratori e con cui lavora da una vita se sia sposato, e da quanto tempo.

Non ha alcun senso del ludico; la scena del ristorante in cui siede solo, coartato (e con i guanti) di fronte ad una torta di compleanno offertagli dal titolare, che non assaggerà perché si dice molto superstizioso e mancano alcuni minuti alla mezzanotte, rappresenta bene l’estraneità siderale che lo separa dagli altri personaggi che invece si godono la cena, e la tonalità emotiva che ne deriva.

L’eccessiva pretesa d’impeccabilità lo rende disarmato anche di fronte alla critica più banale; l’ereditiera che gli fa notare, con tono un po’ sprezzante, di non sopportare gli uomini che si tingono i capelli attiva immediatamente in lui il bisogno disperato di ripristinare un’immagine positiva di sé correndo dal barbiere a farsi togliere la tintura per scongiurare il rischio che il disprezzo altrui si traduca in disgusto ai propri stessi occhi.

 Il regista accenna in maniera un po’ frettolosa al trauma infantile (che non si nega a nessuno) a cui lo spettatore può far risalire il bizzaro comportamento di Virgil: un’infanzia passata in orfanotrofio, vittima di suore che con sadico compiacimento lo punivano facendolo sgobbare nel negozio di un antiquario.

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Da questa esperienza originaria il grande amore per l’arte, ma anche le ombrosità emotive e relazionali; Virgil s’ illude di sostituire il proprio nulla sul piano affettivo con l’estasi che prova ad ammirare i suoi dipinti femminili, depositari quindi per lui non tanto di un incalcolabile valore economico (su cui in realtà il cinico spettatore prova a fare due rapidi e increduli calcoli, durante la bellissima scena all’interno del caveau) ma della miracolosa investitura di fargli sperimentare una qualche intimità sentimentale, che possa redimerlo da quella intimità repressa e deviata che sperimenta nella vita reale, di cui non capisce assolutamente nulla.

Un bell’esempio di come le persone sofferenti si sforzino di difendere dolorosamente il proprio limitato orizzonte cognitivo ed emotivo, e di come in questo pericoloso lavorio perdano però la capacità di sentire gli altri, di capirli e di interpretarne le reali intenzioni e motivazioni.

 

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RECENSIONI DI STATE OF MIND – RAPPORTI  INTERPERSONALI – OSSESSIONI – ESPERIENZE TRAUMATICHE

Gli Effetti Psicologici della “Politica del Figlio Unico” ( OCP ) in Cina

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Piccoli imperatori crescono: gli effetti collaterali psicologici della politica del figlio unico in Cina

Non solo effetti demografici ma anche psicologici per la controversa One Child Policy (OCP) – in italiano politica del figlio unico- cinese che dal 1979 mira a regolamentare le nascite in Cina.

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In una ricerca pubblicata il 10 Gennaio su Science sono state analizzate coorti di bambini nati immediatamente prima e immediatamente dopo l’introduzione della OCP, valutando alcune variabili psicologiche quali per esempio la fiducia verso gli altri e il risk-taking.

Dietro alle Teorie del Complotto, Cosa si Nasconde?. - Immagine: Costanza Prinetti - 2012
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Ritroviamo quindi nella ricerca due gruppi: il gruppo pre-OCP composto da soggetti che sono cresciuti con fratelli prima dell’introduzione della OCP, e il gruppo post-OCP costituito da individui cresciuti figli unici ma che avrebbero plausibilmente avuto fratelli se non fosse stato per la policy imposta. I ricercatori hanno coinvolto nello studio più di 400 soggetti sottoponendoli a compiti sperimentali nella forma di giochi a carattere economico.

Dalle analisi riportate risulta che gli individui cresciuti come figli unici a seguito della OCP erano significativamente meno fiduciosi, meno affidabili, meno pronti ad assumersi rischi, meno competitivi, più pessimisti e meno coscienziosi rispetto a coloro che, nati precedentemente all’introduzione della OCP, erano cresciuti al fianco di fratelli o sorelle. 

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Sono in gioco qui i fondamentali della relazione con l’altro. Sembrerebbe che tali effetti si mantengano anche in individui figli unici che durante l’infanzia abbiano avuto contatti significativi con i pari (siano essi amici o cugini o parenti).

A ragion veduta gli autori contemplano altri presumibili fattori come con-cause di tali differenze, tra cui l’età dei partecipanti allo studio (inevitabilmente diversa nei due gruppi) e l’incremento del capitalismo nel corso degli anni, anche se chiaramente la variabile maggiormente esplicativa di tali differenze psicologico-comportamentali sembra proprio l’essere nati prima o dopo l’introduzione della politica cinese del figlio unico.

Ci preme però ricordare ai lettori di non cedere alla facile generalizzare questi risultati agli altri figli unici del pianeta, ove non sia stata applicata una politica di controllo delle nascite e ove le differenze cross-culturali sono innegabili.

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BIBLIOGRAFIA:

In Treatment – Psicoterapia in TV. Recensione e Analisi del terzo episodio: S01E03 Sophie

In Treatment – Psicoterapia in TV

TERZA PUNTATA

LEGGI L’INTRODUZIONE

In Treatment S01 - Sophie - Immagine: Copyright HBO http://www.hbo.com/in-treatment/index.html#/in-treatment/episodes/1/03-sophie/index.htmlLo stato dissociativo di Sophie le permette di poter pensare di non avere bisogno di una terapia. Si è trattato solo di un incidente.

Nella terza seduta della settimana incontriamo quello che mi sembra il Paul migliore, finalmente rilassato e sorridente. È di nuovo una prima visita, ed è di nuovo un paziente non facilissimo, che pone una domanda terapeutica ambigua e sfuggente. Anzi, non c’è domanda terapeutica. Solo una richiesta di consulenza, un parere esperto. Ma il paziente è una giovane ragazza priva delle contorsioni mentali degli adulti. Il suo dolore è altrettanto complesso di quello di Laura e di Alex, ma la trattativa è molto meno subdola.

Sophie è un’adolescente che ha avuto un incidente stradale. La dinamica dell’incidente però non è chiara, è possibile che in qualche modo Sophie se lo sia procurato e quindi, in qualche modo, abbia cercato di suicidarsi. La ragazza non ricorda i dettagli dell’incidente e soprattutto non sa dire se veramente aveva l’intenzione di uccidersi.

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La richiesta di un parere psicologico, anzi psichiatrico, nasce da questa oscurità. Sophie era dissociata, ovvero ha agito in uno stato di coscienza disconnesso dal resto dell’attività mentale. Tecnicamente potrebbe essere un’amnesia dissociativa.

In Treatment - Psicoterapia in TV. Recensione di S01E02 Alex. - Immagine: © HBO
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Il caso è interessante sia nei suoi aspetti drammatici che psicologici. Una paziente del genere aggiunge un sapore da vecchia psichiatria viennese. Sophie per Paul è l’occasione di un percorso investigativo coinvolgente. Gli stati dissociativi sono un caso estremo di sofferenza mentale prodotta da gravi traumi reali in cui la persona è a rischio della sua vita. In questa situazione estrema di pericolo una risposta possibile è il “faint”, la brusca ed elevata riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. E’ una simulazione di morte. In questa situazione vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.

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Se questa condizione perdura a lungo non permette l’integrazione della memoria traumatica nel resto della vita mentale. Memoria che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo. Da questo processo deriva la frammentazione dissociativa (Liotti e Farina, 2011 LEGGI LA RECENSIONE SU STATE OF MIND). Vedremo in seguito come il caso di Sophie sia tagliato su questo modello teorico.

Lo stato dissociativo di Sophie le permette di poter pensare di non avere bisogno di una terapia. Si è trattato solo di un incidente.

Paul accetta la posizione diffidente di Sophie, ma al tempo stesso comprende il grande bisogno di accoglimento della ragazza e la sua sofferenza. È una puntata che allenta la tensione, dopo la ferocia sotterranea di Laura e di Alex. Riesce a convincere Sophie di avere bisogno di più incontri per poter stilare il suo parere e, in questo modo, aggancia la giovane paziente.

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BIBLIOGRAFIA:

Stereotipi Razziali e Mancanza di Creatività: un Processo Comune

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati di uno studio di follow-up dimostrano che il legame tra stereotipi razziali e la stagnazione della creatività può essere spiegata, almeno in parte, da un aumento della chiusura mentale.

Una nuova ricerca condotta alla Tel Aviv University suggerisce che gli stereotipi razziali e la mancanza di creatività hanno un meccanismo comune: il pensiero categorico.

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Anche se apparentemente molto diversi, questi due fenomeni hanno luogo perché ci si “fissa” su alcune categorie di informazioni e su un atteggiamento mentale convenzionale.

Stereotipi, Pregiudizi ed Euristiche
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I ricercatori hanno cercato di stabilire una relazione causale tra l’essenzialismo razziale – la convinzione che i gruppi razziali possiedono tratti di base e capacità stabili – e la creatività.

Hanno ipotizzato che, una volta attivata, la mentalità essenzialista porterebbe ad una certa riluttanza a prendere in considerazione punti di vista alternativi, con la conseguenza di una generalizzata chiusura mentale.

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I ricercatori hanno manipolato le credenze dei partecipanti sugli stereotipi razziale facendogli leggere uno di tre articoli: uno descriveva una falsa ricerca scientifica a sostegno degli stereotipi razziali, uno contrario allo stesso tema e uno sulle proprietà scientifiche dell’acqua.

I partecipanti hanno poi preso parte a un diffuso test sulla creatività chiamato Remote Associates Test durante il quale gli venivano date tre parole e loro dovevano trovare una nuova parola che le collegasse tra loro.

I risultati indicano che coloro che erano stati influenzati dalla visione essenzialista erano meno creativi, e risolvevano un numero significativamente minore di esercizi rispetto ai partecipanti degli altri due gruppi.

I risultati di uno studio di follow-up dimostrano che il legame tra stereotipi razziali e la stagnazione della creatività può essere spiegata, almeno in parte, da un aumento della chiusura mentale.

Insieme, questi studi suggeriscono che l’essenzialismo esercita i suoi effetti negativi sulla creatività modificando il modo di pensare delle persone, non tanto i contenuti del pensiero. 

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La ricerca suggerisce anche che gli stereotipi sono però abbastanza malleabili. Diversi aspetti che devono ancora essere esplorati, ma i ricercatori ipotizzano di utilizzare questi risultati per elaborare un programma di intervento in grado di ridurre gli stereotipi razziali, permettendo ai partecipanti non solo di diventare socialmente più tolleranti, ma anche di esprimere tutto il loro potenziale creativo.

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BIBLIOGRAFIA: 

“ Un segno invisibile e mio ” di Aimee Bender – Recensione

Recensione

“ Un segno invisibile e mio ”

Aimee Bender, 2011

 

Un-Segno-Invisibile-e-Mio-Beat, 2011
Un-Segno-Invisibile-e-Mio-Beat, 2011

 

Pubblicato nel 2001, questo romanzo di Aimee Bender offre la possibilità di viaggiare accanto alla sua protagonista, attraverso il groviglio interiore e personalissimo che la affanna e che lentamente riesce a sciogliersi quando finalmente incontra …la vita!

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Mona Gray è una bambina silenziosa, tenera, ottimista, fiduciosa nel mondo, grande osservatrice e molto molto responsabile! L’improvvisa e sconosciuta malattia che ‘ingrigisce’ il papà, la renderà tuttavia immobile e spenta, in cerca di una soluzione per salvare gli altri, il papà, se stessa.

Inizia a vivere in un mondo fatto di pensieri catastrofici che ci fanno da subito appassionare al suo bisogno di attenzioni, cure e spiegazioni sulle cose del mondo. Si affida così ai numeri, creando un sistema di credenze perfetto per risolvere ogni suo dubbio: numeri per strada, sui libri, sulle case..diventano la bussola che le permette di prevedere tutto.

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Pubblicato nel 2001, questo romanzo di Aimee Bender offre la possibilità di viaggiare accanto alla sua protagonista, attraverso il groviglio interiore e personalissimo che la affanna e che lentamente riesce a sciogliersi quando finalmente incontra …la vita!

Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com
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Durante tutto il racconto, ci muoviamo con Mona attraverso un mondo grigio e in cui l’atmosfera si fa a tratti tetra e carica di angoscia. Vien quasi voglia di “ticchettare” le dita sul libro, proprio come fa lei per annullare le paure che la assalgono!

Tra le molte letture possibili di questo romanzo, risulta interessante ovviamente quella psicologica.

Il quadro familiare freddo e anaffettivo, sembra aver creato nella piccola Mona una crescente paura verso tutto ciò che è emotivo, caldo, colorato. Le emozioni somigliano a mostri, terribili e fuori controllo. Manca nella protagonista un vero e proprio vocabolario delle emozioni, la capacità cioè di descriverle, esprimerle e raccontarle. La personalità di Mona è naif, bizzarra, a tratti crudele, ma è immediatamente facile leggere tra le righe le buone intenzioni celate dietro i suoi impiegabili (e a tratti inquietanti!) gesti quotidiani.

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Il modo in cui esplora il mondo è caratterizzato da paura e diffidenza, premonizioni catastrofiche e tentativi di contrastarle. La distanza dagli altri è necessaria e salvifica, ma estremamente dolorosa. Un senso di esclusione e di non appartenenza dominano nelle relazioni.

Ecco che si evidenzia in modo chiaro la parte più “sofferente” di Mona e contemporaneamente più “disturbante” per gli altri attori del romanzo: i pensieri catastrofici sul mondo (ossessioni e pensieri intrusivi di colpa) vengono annullati da rituali magici fatti di numeri e gesti ripetuti (compulsioni) e i suoi strani comportamenti allontanano e spaventano le persone che ha intorno.  

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Sebbene strani, questi comportamenti le permettono tuttavia di mettersi al sicuro, di sollevarsi dalla responsabilità che la insegue instancabile….Almeno finché il desiderio di una vita più colorata non inizia farsi pressante.

Il romanzo fa sperimentare molto da vicino questa parte sofferente e dolorosa di Mona con incredibile delicatezza e dettaglio. Può davvero insegnare, a chi vive vicino a qualcuno che soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo, ad andare oltre i faticosi comportamenti quotidiani per assumere un punto di vista più interno, più vicino alla sofferenza che li provoca.

Ad Aimee Bender il merito di essere riuscita a descrivere in modo così sottile e dinamico i pensieri di una mente apparentemente “congelata”, attraverso uno stile di scrittura efficace, rapido e sorprendentemente acuto.

Buona lettura!

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OSSESSIONI – DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO- OCD – 

ATTACCAMENTO

Terapia Cognitivo Comportamentale delle Psicosi – Recensione

Recensione:

Terapia cognitivo comportamentale delle psicosi

Hagen, Turkington, Berge & Gråwe

 

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI, ECLIPSI 2012
TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI, ECLIPSI 2012

 

Un manuale essenziale per ogni operatore sanitario interessato ad applicare i principi della terapia cognitivo comportamentale al trattamento dei pazienti psicotici.

 

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A lungo la terapia cognitivo comportamentale è stata ritenuta adatta solo ai pazienti con disturbi d’ansia e depressivi, ovvero pazienti capaci di una buona alleanza terapeutica e di concordare e rispettare un contatto terapeutico realistico. Da qualche tempo sono invece emersi modelli in grado di confrontarsi con pazienti meno propensi a un’alleanza terapeutica chiara e afflitti da sintomi molto invalidanti. Tra questi, i pazienti psicotici sono quelli messi peggio. Uno degli ultimi libri pubblicati in Italia è quello di Hagen, Turkington, Berge e Gråwe (2012).

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L’adattamento di questi autori mantiene i principi di base della terapia cognitivo comportamentale: l’analisi cognitiva dei sintomi, la loro sdrammatizzazione decatatrofizzante e l’utilizzo di esercizi comportamentali che rendano la ristrutturazione cognitiva più “incarnata” e meno astratta.

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Nel caso delle psicosi, la grande sfida è la normalizzazione dei deliri e delle allucinazioni. Entrambi questi fenomeni possono essere ridotti a interpretazioni cognitive distorte di vecchio stampo. Le allucinazioni, soprattutto uditive, sono distorsioni delle percezioni subvocaliche che chiamiamo “discorso interno”, insomma il soliloquio mentale che ognuno di noi intrattiene con se stesso (l’analisi cognitiva delle allucinazioni è una delle parti più interessanti del libro). I deliri a loro volta, non è necessario dirlo, sono naturalmente casi da manuale di distorsioni cognitive.

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L’idea di Hagen, Turkington, Berge e Gråwe è che le tecniche di disputa e ristrutturazione cognitive sono applicabile anche a questi errori cognitivi, in maniera molto simile a quello che si fa per le idee di pericolo e di scarsa efficacia personali nei pazienti ansiosi.

Naturalmente occorre essere molto più cauti, essendo l’esame di realtà in questi pazienti più gravemente compromesso che negli ansiosi. E inoltre la capacità di tollerare l’impegno emotivo della terapia è più scarso in questi pazienti, che così potrebbero reagire con rifiuti, fughe, tentativi di sottrarsi non solo alla terapia ma addirittura alla seduta se sottoposti a ritmi troppo impegnativi.

 È quindi necessario monitorare continuamente lo stato emotivo del paziente, osservandone l’espressione del viso, la postura e il grado di agitazione e tenersi pronti a operare un rilassamento della tensione terapeutica utilizzando lo strumento della validazione e della rassicurazione.

Il modello terapeutico è anche molto didattico. I pazienti sono istruiti sulla reale natura dei loro deliri e delle loro allucinazioni, sempre con il fine di normalizzarle. C’è anche una componente socio-relazionale di reinserimento del paziente nel mondo esterno e di istruzione e addestramento dei familiari a gestire il paziente in casa.

Infine non è trascurato il disturbo bipolare, concepito all’interno di un continuum psicotico e non più come entità separata dalla schizofrenia.

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In conclusione, un manuale essenziale per ogni operatore sanitario interessato ad applicare i principi della terapia cognitivo comportamentale al trattamento dei pazienti psicotici. 

 

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La Comunicazione Emotiva: un Ponte tra Linguaggio e Musica

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Musica e linguaggio condividono origini e funzione, permettendoci di comunicare ciò che proviamo.

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La comunicazione emotiva costituisce un aspetto delle interazioni sociali di cui facciamo  esperienza ogni giorno. Ogni nostra frase o discorso veicola significati emotivi precisi e fornisce perciò ai nostri ascoltatori informazioni importanti su come ci sentiamo in un dato momento (immaginate di ascoltare la voce di vostra madre al telefono: potete capire se è triste, arrabbiata o  tranquilla anche solo dalle caratteristiche puramente “acustiche” della sua voce).

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Esattamente come accade per il linguaggio, anche la musica è in grado di comunicare emozioni all’ascoltatore: chi di voi non ha mai definito una canzone “allegra” o “triste”?

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Per quanto possa sembrare incredibile, il primo ad avanzare ipotesi su una presunta origine comune tra musica e linguaggio fu Darwin, nel 1871. Il famoso ricercatore sosteneva che questi due domini costituissero l’evoluzione di un “protolinguaggio musicale”, utilizzato dai nostri antenati per difendere il territorio, in fase di corteggiamento e infine proprio per comunicare le emozioni (Fitch, 2006). Se la teoria del “protolinguaggio” fosse vera, potremmo predire con sufficiente certezza che una persona con capacità deficitarie nell’elaborazione e nell’interpretazione della musica mostrerà difficoltà anche nel comprendere le emozioni veicolate dal linguaggio (quella che dai linguisti viene definita “prosodia emotiva”).

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A tal proposito, William Thompson, Manuela Marin e Lauren Stewart (2012) hanno condotto un recente studio al fine di testare la sensibilità alla prosodia emotiva del linguaggio parlato di soggetti affetti da amusia congenita. A causa delle anomalie cerebrali causate dal loro disturbo, i soggetti amusici hanno difficoltà a cantare con intonazione corretta, a tenere il ritmo di una canzone, a distinguere le tonalità dei suoni e a riconoscere brani senza avere il testo a disposizione (Stewart, 2011). Dal momento che il loro stato emotivo non subisce variazioni con l’ascolto di un brano, non amano particolarmente ascoltare la musica, la quale finisce raramente per far parte della loro vita quotidiana (McDonald & Stewart, 2008).

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La loro condizione ha portato numerosi ricercatori a chiedersi se il danno fosse circoscritto solo al campo musicale: è stato così scoperto che gli amusici, incapaci di percepire le variazioni minime di intonazione tipiche della musica, sono invece in grado di distinguere le più “grossolane” variazioni di tonalità linguistica (quelle ad esempio che differenziano una domanda da una affermazione, la cosiddetta “prosodia linguistica”) (Patel, 2008; Patel, Foxton & Griffiths, 2005).

Lo studio di Thompson e colleghi ha impiegato un campione di 24 soggetti, 12 amusici e altrettanti soggetti di controllo, ad ognuno dei quali è stato fatto ascoltare un set di 96 frasi registrate dal significato “neutro” (ad esempio “Il cucchiaio è nel cassetto”). Le frasi erano state originariamente pronunciate con l’intento di comunicare sei diverse emozioni (felicità, tristezza, tenerezza, irritazione, paura e un’emozione “neutra”). Ogni partecipante doveva indicare l’emozione percepita scegliendo una tra le sei opzioni, mostrate sullo schermo di un computer.

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I risultati dello studio hanno confermato l’ipotesi iniziale: i soggetti amusici risultavano meno accurati dei controlli nel distinguere le emozioni di serenità, tenerezza, irritazione e tenerezza. Ammettevano inoltre di riscontrare le stesse difficoltà nella vita di tutti i giorni, ad esempio parlando al telefono, dimostrando consapevolezza del loro problema.

Si tratta di un’importante prova empirica a supporto della teoria di Darwin: musica e linguaggio condividono origini e funzione, permettendoci di comunicare ciò che proviamo (Brown, 2000; Fitch, 2010).

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MUSICA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea #2. - Immagine: © NLshop - Fotolia.com

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: La prima piaga: la sofferenza emotiva concettualizzata come una malattia fisica.

LEGGI LA PRIMA PARTE

 

Freud era un medico e praticò la medicina interna e poi la neurologia per molti anni, all’inizio della sua attività professionale. Utilizzò sempre nel suo lavoro le classificazioni dei disturbi psichici della psichiatria a lui contemporanea, e giunse ad influenzarla a sua volta (si pensi all’isteria d’angoscia, poi divenuta disturbo di panico nella classificazione DSM IV).

Le ricerche di Freud, tuttavia, non si focalizzarono sulle disfunzioni cerebrali. Grazie alla scoperta dell’inconscio Freud poté comprendere le forze psicologiche responsabili della genesi dell’isteria e di altre configurazioni emotive e comportamentali disfunzionali. Coerentemente con la consapevolezza che molti disturbi psichici hanno una base psicologica, Freud patrocinò l’ingresso di professionisti non medici nel campo della psicoterapia.

Nella prospettiva freudiana, dunque, la pratica psicoanalitica non ha una relazione necessaria con la medicina e la neurologia. Tuttavia, Freud non scisse mai del tutto i legami con la pratica medica in termini di concettualizzazione della sofferenza emotiva. Mentre apriva nuove vie applicando la teoria psicoanalitica a testi letterari, alle opere d’arte ed allo studio delle religioni, continuò a credere che il prestigio sociale della psicoanalisi dipendesse necessariamente dalla sua efficacia come strumento terapeutico capace di guarire varie sindromi cliniche.

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Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea. - Immagine: © hellotim - Fotolia.com
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La storia della psicoanalisi è ormai molto lunga. Gli obiettivi del lavoro psicoanalitico si sono molto ampliati. I benefici attesi da un trattamento psicoanalitico vanno molto oltre il miglioramento sintomatico. Già negli anni ’30 si è raggiunta la consapevolezza che lo specifico obiettivo di un trattamento psicoanalitico dovrebbe essere un cambiamento strutturale, un cambiamento permanente della personalità che includa il superamento del complesso di Edipo, lo sviluppo di meccanismi di difesa più maturi, il raggiungimento di un adeguato insight rispetto ai propri conflitti, un allentamento della rigidità del super io.

Da questo punto di vista, gli sviluppi del pensiero psicoanalitico al di fuori dell’ambito della psicologia dell’io hanno comportato un’estensione ancora maggiore degli obiettivi del trattamento. Obiettivi che oggi includono la riparazione di ferite narcisistiche, il raggiungimento dell’integrazione dell’identità, l’introiezione stabile delle imago parentali, la consapevolezza del dolore implicito nei processi di crescita e una maggiore capacità di contenere ed elaborare cognitivamente le emozioni negative.

La relazione degli obiettivi del trattamento psicoanalitico con il modello medico di malattia mentale è ormai molto debole. Un miglioramento sintomatico, per come è comunemente concettualizzato dalla psicopatologia descrittiva, può rappresentare tutt’al più un’auspicabile ricaduta positiva di cambiamenti che si realizzano a livelli più profondi. E tuttavia la psicoanalisi ha avuto molta difficoltà a sciogliersi da uno stretto legame con la nosografia psichiatrica. I clinici hanno continuato a credere che il valore sociale della psicoanalisi e la relativa possibilità di ricevere sostegno finanziario dalle istituzioni sanitarie dipenda in modo cruciale dalla percezione della psicoanalisi come uno degli strumenti terapeutici della medicina.

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 Tuttavia, la concettualizzazione nosografica della sofferenza emotiva non è del tutto idonea alle specifiche esigenze e mete del lavoro psicoanalitico. La psicoanalisi non è una terapia, e può essere più utilmente concettualizzata come un processo interpersonale finalizzato a realizzare cambiamenti profondi. Come dice il proverbio: “La farina del diavolo va tutta in crusca”. Ogni confusione tra conoscenza ed esigenze di supporto sociale è destinata a produrre una distorsione dei processi di organizzazione dell’informazione.

La psichiatria tratta le esperienze emotive dell’uomo come fatti obiettivi. E le classifica secondo valori ed aspettative. Giudica alcune sane, cioè auspicabili, appropriate e gradite, ed altre come patologiche, in quanto, inadeguate, socialmente sgradite e di ostacolo al funzionamento sociale e familiare. La psichiatria classifica i comportamenti, e di conseguenza gli esseri umani: sani, nevrotici, psicotici.

La psicoanalisi si rivolge alle emozioni ed ai desideri dell’uomo. E tuttavia la necessità di sintesi del materiale e la citata pressione per ottenere consenso ed apprezzamento nella realtà sociale tendono a promuovere generalizzazioni categoriali o dimensionali. Nel nostro lavoro quotidiano possiamo così parlare di struttura ossessiva, funzionamento psicotico, pazienti borderline.

Religione- Credenti e Non Credenti di fronte alla Guerra. - Immagine: © vladischern - Fotolia.com
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Impercettibilmente ma irresistibilmente cediamo così all’abitudine di classificare gli esseri umani. L’analizzando diventa un paziente. Un intreccio di relazioni oggettuali interne, paure e difese diventa una malattia. Un giudizio morale rispetto ai percorsi di sviluppo più meno adeguati dell’essere umano si insedia nel nostro pensiero e linguaggio psicoanalitici quotidiani, e sostituisce la necessaria neutralità rispetto ai fini ultimi dell’analizzando.

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Veniamo così a perdere la consapevolezza che il paziente si muove in un ambiente umano reale. Che la cosiddetta malattia mentale non è un fenomeno naturale o la distorsione di uno sviluppo fisiologico. Consiste invece in una complessa rete di strategie intrapsichiche ed interpersonali. Implica meccanismi di adattamento o reazione a relazioni oggettuali esterne spesso tragiche od estremamente primitive. Esprime frequentemente tentativi di controllo delle risposte degli oggetti di amore più intimi. E’ sempre in relazione con il fondamentale bisogno dell’uomo di comunicare e condividere le radici della sofferenza emotiva.

Non possiamo affidare il prestigio sociale della psicoanalisi ad un atteggiamento di imitazione del pensiero psichiatrico e della prassi medica. La percezione del contributo della psicoanalisi alla società contemporanea – un contributo che io ritengo vitale ed insostituibile – dipende in realtà dalla nostra capacità di mostrare come la psicoanalisi possa aiutare l’individuo a crescere, a costruire relazioni intime stabili, a tollerare il dolore.

La psicoanalisi non è una tecnologia medica, è una via per costruire speranza e realizzare processi di cambiamento.

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Lettura consigliata:

Lettera Aperta a Tutti i Matti

Carissimo compagno matto, svitato, lunatico, demente, scervellato, pazzerello, insensato, dopo trent’anni di lavoro a contatto con le sofferenze dei pazienti intrecciatesi indissolubilmente con le mie sento il desiderio di scrivere al matto prototipico, per rivelargli alcune cose che non ho raccontato a tutti perché non le avevo ancora capite o allora non c’è stato tempo.

Mi rivolgo, dunque, ai vari ansiosi. Agli spaventati in logorante attesa  di un abisso senza fondo dove si perderanno definitivamente. Aggrappati ad un sostegno qualsiasi la vita scorre senza che mai l’afferrino, le mani serrate sull’appiglio. Per non morire non vivono. A quelli rattrappiti dall’attesa della sentenza inappellabile di condanna alla solitudine e al disprezzo  che per non sbagliare somigliano a cadaveri di ineffabile perfezione. Ai fuggiaschi dalla derisione vergognosi di un esistere  che ingombra spazio nel mondo impegnati a scomparire ad occhi severi che non li lasciano mai. Alla grande schiera degli accerchiati da onde di minaccia, striscianti e inaspettati pericoli, malattie, rovesci e perdite che come minuscoli moscerini nel lavandino li trascineranno vorticosamente nello scarico.  In loro mai nessun potere, piccoli e tremanti, prima, o malfermi e stanchi, poi. Cappuccetti rossi nel bosco degli orrori o nonne divorate dal lupo.

Mi rivolgo inoltre ai cosiddetti depressi. Agli affaticati ogni mattina davanti alla grigia montagna brulla da scalare subito ai piedi dell’insonne letto. Tale è la nausea dei sapori e dei profumi della vita che hanno smorzato i sensi, non provano mai nulla tranne la noia. Non mancano di nulla, rimprovera il coro, eccetto forse se stessi.  Tutto è parimenti insensato  ripetitivo, già visto. In attesa di finirla vorrebbero solo dormire. Non hanno chiesto di esserci e, offesi, non sono mai entrati in gioco. Senza ricordi ne orizzonti annaspano in un livido dolente presente. Per giunta  sono arrabbiati convinti di aver firmato un contratto differente con Dio o un suo delegato. Somari svogliati alla scuola della vita. Deserti inariditi con una pozza asciutta e screpolata nel luogo dell’anima.    

Infine  anche a quelli che chiamiamo psicotici, anzi a loro soprattutto che mi fanno sempre battere il cuore. Ai diversi,  quelli strani, fatti male,  mancanti del software per gli incontri che decidono con la testa ogni mossa per sembrare normali. Non capiscono le bizzarre tradizioni degli umani. Come appena scesi dall’astronave senza il manuale di istruzioni per la terra. Ma  ognuno è diverso a modo suo, appunto. Non sono un’unica tribù.

Alcuni si avventurano in mondi privati senza altri condomini e vicini. Cancellano le tracce borbottando in compagnia di se stessi e smarriscono la strada del senso comune.

Altri costretti alla ribalta  per riempire lo specchio come attori ergastolani non possono scendere dal palco per fuggire un camerino vuoto, freddo con i fiori appassiti.

Certi stanno assediati tra gli agguati di inganni e  tradimenti. Sentinelle di tartari in perenne ritardo. Le braccia indolenzite dalla guardia sempre alta. In servizio permanente effettivo, impacciati dalla corazza sono i guerrieri professionisti che temono le conseguenze dell’amore.

Taluni, eterni orfani, si perdono alla vista delle spalle di chi va altrove mai rassegnati alla cacciata dall’originario utero.

Strani tra gli strani quelli che graffiano per abbracciare e s’imbrattano di sangue. La terra intorno sismicamente sobbalza. Pronti ad eruttare da un istante all’altro sono gli inghiottitoi carsici incolmabili dove tutto affonda e mai riempie il vuoto straziante e rabbioso della perduta perfezione unitaria.

All’orecchio di questi pellegrini della sofferenza sussurro che non sono soli, gli sembra soltanto guardando di se stessi il dentro e di tutti gli altri l’esterno rivestito di carta colorata e fiocchi, dentro anche i sorridenti pulsano dolore.

Siamo identici per oltre il 99% sia nei geni che nelle esperienze vissute. Tutto il vostro dolore  è propriamente umano, l’essenza stessa dell’umanità che ci accomuna. Diluite l’orgoglio ferito dell’”io” nella quiete comunitaria del “noi”. Immaginate la vostra vita come una dolorosa marcia dal nulla al nulla immersi in un popolo di ugualmente dolenti in faticoso cammino. Nessuno impegnato a trascinarsi avanti ha tempo e voglia di darvi la pagella.

Talvolta ci si appoggia l’un l’altro si mischia fiato e sudore. Ogni tanto brilla una stella, il gelo stiepidisce, il terreno si ammorbidisce. Rari momenti da collezionare, assaporare e conservare nella memoria. Per tutti gli altri raccontatevi una storia epica che gli dia, ingannandovi, un senso. Che la fantasia benevola addolcisca la realtà quando si fa più aspra (noi non lo chiameremo delirio). Per quanti errori vi riconosciate non avete combinato nulla di grave, siamo troppo ininfluenti per essere dannosi. I vostri nipoti stenteranno a rammentarvi il nome.

 

Perdonatevi e vogliatevi bene. Viziatevi di coccole come una madre che assiste il figlioletto leucemico agli ultimi giorni. Acchiappate tutto senza rinunce che questa non è la prova generale ma l’unica nostra vita.

Quando il dolore si fa più acuto pensate che non dura e tutto passa e dopo sarà pressappoco come prima di nascere che non era poi male.

Naturalmente continuate a venire da noi terapeuti per darci da mangiare, farci sentire sani e non lasciarci soli sul nastro trasportatore in attesa della caduta a fine corsa.

 

Roberto Lorenzini

L’ Autoconsapevolezza di Sé dipende da Network Neuronali

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

“L’ autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello. Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”

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L’autoconsapevolezza è un fenomeno complesso, ricco e integrato che fa parte della più estesa conoscenza di sé.

Il riconoscimento di sé stessi, a sua volta,  può essere brevemente definito come un “fenomeno qualitativo della psiche che si enuncia come l’essere coscienti di se stessi, di autoriferirsi, di esser coscienti del mondo e degli altri”[1.] .

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Questa capacità è stata lungamente considerata una qualità prettamente umana ed è stata profondamente analizzata. Gli studi di psicologia in questo campo hanno fatto uso di test classici, quali ad esempio il riconoscimento allo specchio.  Gli esiti prodotti hanno permesso l’allargamento dello spettro delle specie animali che sono in possesso di un certo grado della consapevolezza di sé, estendendolo così non solo alle scimmie antropomorfe, ma anche ai delfini, elefanti e polpi.

Negli esseri umani, i neuroscienziati ne hanno individuato il correlato neurologico in tre regioni: nella corteccia dell’insula, nella corteccia cingolata anteriore e nella corteccia prefrontale mediale. 

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Questi risultati, di una localizzazione precisa della consapevolezza di sé, vengono oggi messi in discussione da un recente studio condotto da gruppo di ricerca dell’Università dell’Iowa guidato da David Rudrauf e apparso sulle pagine della rivista PLOS ONE.

La ricerca è stata condotta su un singolo soggetto, definito “paziente R”, in cui tutte e tre le regioni cerebrali elencate precedentemente sono state danneggiate a causa dell’encefalite da Herpes Simplex. Secondo il modello in vigore, gli estesi danni cerebrali avrebbero dovuto compromettere la sua autoconsapevolezza. Invece il  soggetto, sottoposto a test, ne ha dimostrato una buona facoltà , seppur con gravi amnesie dovute al danno ai lobi temporali, i quali compromettono normalmente il sé autobiografico.

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Il paziente R ha dato prova di riconoscersi sia quando si guardava allo specchio, sia quando esaminava alcune fotografie realizzate in periodi differenti della sua vita. Inoltre, manifestava di percepire un’azione compiuta come la conseguenza delle proprie intenzioni. La somministrazione di test di personalità (tra i quali il Big Five Inventory, Modified Patient Competency Rating Scale e il Self-Consciousness Scale Revised)  ha messo  in luce che egli aveva una capacità stabile di pensare a se stesso e di auto percepirsi. Infine egli manifestò una profonda capacità d’introspezione, considerato  uno degli aspetti più sofisticati dell’autoconsapevolezza.

I dati ottenuti permettono un avanzamento delle conoscenze fino ad ora condivise, ipotizzando che il tronco encefalico, il talamo e la corteccia posteromediale possano sopperire alle mancanze funzionali delle tre regioni danneggiate.

In conclusione, riportando le parole di David Rudrauf, possiamo affermare che: “l’autoconsapevolezza corrisponde a processi neuronali che non possono essere localizzati in una o più regioni distinte del cervello. Con tutta probabilità, l’autoconsapevolezza emerge da interazioni molto più distribuite tra network di diverse regioni cerebrali”.

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BIBLIOGRAFIA: 

 

Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?

 

Psicoterapia Cognitiva e Relazioni Oggettuali: Dialogo Possibile?. - Immagine: © djama - Fotolia.comPuò la psicoterapia cognitiva dialogare con la teoria delle relazioni oggettuali? Possiamo pensare ad un possibile dialogo?

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Possiamo pensare, da terapeuti cognitivisti, che i pazienti riproducano con noi gli stessi schemi disadattivi che hanno imparato nelle loro relazioni familiari più significative? E soprattutto, possiamo credere che anche un lavoro terapeutico di impronta cognitivista possa orientarsi all’individuazione di conflitti che agiscono nell’organizzazione mentale del paziente?

A nostro avviso sì, con alcune precisazioni. In primo luogo, i pattern relazionali che Kernberg e collaboratori (2012) considerano inconsci e risultanti dall’applicazione di meccanismi difensivi rigidi, nella prospettiva cognitivista possono essere descritti come automatismi di processo che il paziente segue nel tentativo di preservare significati coerenti e controllabili su di sé e sul mondo; in seconda battuta, ciò che dal punto di vista psicoanalitico viene definito “conflitto” può essere riformulato in termini cognitivisti parlando di inflessibilità degli scopi o del progetto di vita. E questa rigidità che preclude al paziente l’esplorazione di possibilità alternative si forma in relazioni familiari – oggettuali? – che legittimano e consolidano una modalità univoca di lettura dell’esperienza.

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Elisa è una paziente affetta da sintomatologia ossessiva, con una famiglia gravemente criticista e squalificante; la sua passione più grande è la pittura, che durante il percorso terapeutico assume connotati sempre più precisi: attraverso l’arte Elisa cerca riscatto e consolazione dalla relazione coi genitori, tuttora incapaci di riconoscere le sue qualità umane (sensibilità, creatività) prima che pittoriche. Il costrutto fondamentale che regola l’esperienza di Elisa, “sono stupida”, le impedisce di abbandonare le ossessioni e coltivare serenamente l’attività artistica, per due motivi: da un lato la convinzione di non avere capacità le fa sovrastimare la possibilità di insuccesso in tutte le azioni che intraprende – fra le altre, realizzare nei suoi lavori le istruzioni dell’insegnante di disegno -, dall’altro la necessità di dimostrare il proprio valore ai genitori conduce ad un aumento sproporzionato degli standard perfezionistici, premessa di nuovi insuccessi. Lo scopo di Elisa, “devo convincere i miei genitori che non sono stupida”, è diventato un piano di vita inflessibile che non trovando mai risoluzione genera stati emotivi intollerabili; il funzionamento ossessivo – timore del contagio e lavaggio delle mani – rappresenta quindi il tentativo non mentalizzato di controllare l’emozione penosa.

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Leggendo questo caso secondo i tratti delle relazioni oggettuali e conservando un legame di senso con la teoria cognitivista, è possibile affermare che Elisa abbia elaborato il proprio tema di vita come logica conseguenza dell’esplicita invalidazione che i genitori hanno rivolto a lei e al suo scopo originario, diventare una pittrice.

Nella relazione col terapeuta Elisa riproduce lo schema conosciuto, definendosi a più riprese stupida e testando il clinico sulle reazioni che queste parole elicitano in lui. “Sarò stupida anche per il terapeuta?” sembra chiedersi quando racconta di sé; il lavoro sulla relazione assume un ruolo centrale affinché Elisa possa sperimentare un modello di accettazione emotiva credibile, superando i conflitti e le tematiche inflessibili che l’hanno portata a sviluppare il suo malessere.

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Sabrina sta per laurearsi in medicina, ma si è bloccata al penultimo esame; sostiene di aver frequentato l’università solo ed esclusivamente per accontentare i genitori e critica aspramente l’ambiente ospedaliero, che detesta. Nel tempo libero realizza bomboniere e oggettistica in decoupage, che poi rivende nei mercatini della sua zona; se fosse libera di scegliere opterebbe senza alcun dubbio per dedicarsi a tempo pieno a questa sua attività creativa, ma l’immagine dei genitori che scuotono la testa e si rammaricano di avere una figlia inetta che non riesce neanche a laurearsi la paralizza in una condizione di stallo su entrambi i fronti.

Il rapporto con i genitori, in particolare con il padre, è infatti una storia di umiliazioni e bisogni frustrati, in cui la paziente si ricorda oggetto, da una parte di irragionevoli pretese di eccellenza, e dall’altra di lamentele rabbiose per la pochezza delle sue doti intellettuali e le abilità ordinarie e scadenti.

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 Nella relazione terapeutica è molto accondiscendente: sempre puntualissima agli appuntamenti, non dimentica mai di svolgere con la massima cura un compito a casa, se le capita di dover rimandare un incontro lo fa con decine di messaggi infarciti di faccine e desolazione; spesso durante il colloquio chiede conferma di aver capito bene la domanda e di aver risposto adeguatamente. Non sembra orientata più di tanto a stabilire un rapporto collaborativo che l’aiuti a chiarirsi le idee e a capire il perché delle sue difficoltà, benché questa sia stata la sua domanda iniziale; quello che le preme prima di tutto è dimostrare di essere una brava bambina, esorcizzando così il rischio di poter essere criticata e malgiudicata. Lei per prima si affanna a definirsi pasticciona, distratta, smemorata, quasi a volermi scoraggiare dal prendermi la briga di essere io a farle delle osservazioni; la sua autosvalutazione è tale che non avrei spazio per rincarare la dose. In realtà però dagli aneddoti della sua giornata emerge poi il ritratto di una ragazza estremamente scrupolosa e competente, l’unica che possa vantare un buon repertorio di valori morali su un palcoscenico di lazzaroni, e a stento trattiene la rabbia all’idea che gli altri interpretino come pedanteria la sua diligenza. Si ha effettivamente la sensazione che la relazione terapeutica riattivi prepotentemente uno schema antico, innescando ogni volta nella paziente il conflitto tra il bisogno assoluto di dimostrarsi all’altezza ed essere apprezzata e il tentativo narcisistico di proteggere un’autostima massacrata da anni di rimproveri e svalutazioni. Tuttavia, dietro questa tendenza passiva a compiacere a tutti i costi, si intravede una rabbia latente che rischia di tradursi in un inaudito ultimo atto, con il sabotaggio a sorpresa del progetto esistenziale formulato per lei dai genitori: l’abbandono dell’università a un passo dal traguardo.

In conclusione si può ritenere che la teoria delle relazioni oggettuali, pur essendo concettualmente distante dall’impostazione cognitivista, fornisca spunti utili a interpretare la storia e l’evoluzione sintomatologica del paziente, la sua organizzazione poco flessibile; lavorare sul funzionamento psicologico, sulla struttura che determina il mantenimento degli aspetti problematici, significa in primo luogo instaurare dei legami fra il contesto attuale e i diversi apprendimenti disfunzionali, individuando nelle relazioni più significative il luogo in cui tali acquisizioni sono maturate.

LEGGI GLI ARTICOLI SU:

PSICOTERAPIA COGNITIVA – PSICOANALISI – 

RELAZIONI INTERPERSONALI  –IN TERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Gli Imperativi delle Pretese: Evitare di Complicarsi la Vita

 

Gli imperativi delle Pretese- evitare di complicarsi la vita. - Immagine:© Minerva Studio - Fotolia.com LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO

 

Questa prospettiva egocentrica non tiene conto della libera opportunità delle persone di essere in modo diverso da come noi le vorremmo o le pensiamo e può giustificare un tentativo di imposizione, anche violenta.

In precedenti articoli abbiamo definito le pretese e poi abbiamo cercato di descriverle in relazione alla loro natura nel processo evolutivo dell’individuo.

Ricordiamo brevemente che la pretesa implica (1) la presenza di regole o imperativi rigidi, assoluti e universali e (2) l’idea che ogni persona (o anche che il mondo in generale) debba assolutamente rispettarli (es: nessuno si deve permettere di mettere ostacoli tra me e il mio obiettivo, nessuno si deve permettere di criticarmi pubblicamente, le persone devono essere sempre presenti e attente ai miei bisogni).

Il punto vulnerabile di questa prospettiva è confondere una preferenza personale, più o meno rilevante, con un imperativo, aspettativa o norma che valga in termini assoluti. Questa prospettiva egocentrica non tiene conto della libera opportunità delle persone di essere in modo diverso da come noi le vorremmo o le pensiamo e può giustificare un tentativo di imposizione, anche violenta.

Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com
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Adesso proviamo a fare il punto su quali possono essere le conseguenze di un tema pretenzioso.

1. Innanzitutto l’incapacità di tollerare la frustrazione ci rende schiavi del momento presente. Raggiungere obiettivi a lungo termine richiede sofferenza, sacrificio e fatica. La pretesa può rendere incapaci di ritardare un premio o anche solo di sostenere le innumerevoli volte in cui un risultato non giunge nei tempi e nei modi che ci attendevamo.

2. La pretesa è un piano rabbioso che ci tiene con la fronte corrucciata, porta a ruminare sul comportamento corretto e rispettoso che gli altri ci hanno negato, a esprimere giudizi di valore. E in questa richiesta (più o meno silente) noi siamo bloccati nella rabbia. E la rabbia è un emozione negativa, di lotta contro un avversario. E stare in lotta corrode le nostre energie e il nostro benessere.

3. Quando questa rabbia non è silente e ruminante può diventare esplosiva e dirompente. Possiamo attaccare verbalmente o fisicamente le altre persone, ferirle, distruggere i rapporti. Talvolta questo è l’esito di una rabbia a lungo covata, l’impulso improvviso di chi soffre a tal punto da non poter contemplare, neppure per un attimo, il dolore senza versarlo in furia.

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4. Nel rapporto con gli altri la pretesa ci danneggia in diversi modi. Innanzitutto, può far sentire le persone ‘costrette’ (non sono libero di essere come voglio)  o esposte al rischio di biasimo e disprezzo (con lui mi sento sempre inadeguato). I pretenziosi hanno molte richieste, spesso implicite, e sono severi. Questo può indurre gli altri a una ribellione impulsiva per affermare il proprio diritto al libero pensiero oppure a sottomettersi o semplicemente ad allontanarsi. Tutte e tre le reazioni costruiscono relazioni problematiche, da quelle tempestose a quelle devitalizzate.

5. La pretesa blocca, nel senso che ostacola la produzione di alternative e la flessibilità dell’individuo. Se gli altri devono assolutamente qualcosa, allora questa è l’unica possibilità. Ogni altra soluzione diversa è scartata o non contemplata. L’uomo si trasforma in un rigido automa programmato da regole e incapace di mettere in discussione critica. E quando è frustrato gli resta sempre e solo la stessa carta: cercare di ripristinare e imporre il giusto dovere. La pretesa ostacola la capacità di disingaggiarsi dai propri scopi e esplorare nuovi modi per avvicinarsi all’orizzonte dei propri valori, che non implichino il tentativo atti di imposizione o violenza.

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In una vita in cui possiamo solo fare il massimo con i limiti e le risorse che ci vengono concessi, questo genere di  flessibilità ci aiuta a non chiudere il nostro percorso ai primi muri che l’esistenza ci offre. A riconoscere che non siamo onnipotenti. A vederci come esseri che possono muoversi splendidamente nel mondo nonostante i propri limiti, anzi forse anche proprio perché limitati. Stare fermi a guardare è difficile e doloroso ma così possiamo valutare altre possibilità, per esempio una lenta costruzione piuttosto che una feroce guerra.

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BIBLIOGRAFIA:

Fidarsi o Non Fidarsi? Quando Percepiamo un’Informazione come Vera

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Fidarsi o Non Fidarsi?

Un secolo di ricerche condotte al fine di indagare perché valutiamo le informazioni come vere piuttosto che false ha tuttavia dimostrato che anche queste decisioni “intuitive”, “di pancia”, non sono poi così semplici ed immediate come sembrano.

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Quante volte, leggendo una notizia sul giornale o ascoltando il discorso di un politico in tv, ci siamo chiesti: “Sarà vero? Posso fidarmi?”. E quante volte ci è stato consigliato, in assenza di prove concrete a sostegno dell’informazione letta o sentita, “Fidati semplicemente del tuo istinto”?

Un secolo di ricerche condotte al fine di indagare perché valutiamo le informazioni come vere piuttosto che false ha tuttavia dimostrato che anche queste decisioni “intuitive”, “di pancia”, non sono poi così semplici ed immediate come sembrano.

Essere Ottimisti Conviene! Il Ruolo delle Illusioni. - Immagine: © Time
June 6th, 2012 issue of Time Magazine
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Si tratta infatti di giudizi influenzabili da numerosi fattori, quali credenze generali, pregiudizi, aspettative, caratteristiche del contesto e aspetti di esperienze vissute nel passato, che interagiscono con la valutazione presente rendendo alcuni ricordi più disponibili rispetto ad altri (Bransford & Johnson, 1972; Henkel & Mather, 2007; Kunst-Wilson & Zajonc, 1980).

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Ma c’è di più. Immaginate per un momento di dover valutare come vera o falsa la frase “John Key è vivo”. È molto probabile che non abbiate idea di chi si tratti. In assenza di immagini o ricordi su chi sia questo personaggio, l’unica opzione che vi rimane è indovinare. La letteratura in campo cognitivo ha tuttavia dimostrato che siamo più propensi a giudicare un’affermazione di tale tipo come vera quando ci vengono date informazioni aggiuntive, anche se queste non forniscono alcuna prova della sua veridicità. In altre parole, se ci venisse mostrata una foto di John Key, saremmo più propensi a credere che è vivo realmente (nonostante questa, di per sé, non lo dimostri).

Eryn Newman e colleghi hanno recentemente condotto uno studio molto interessante proprio al fine di chiarire questo fenomeno (Newman, Garry, Bernstein, Kantner & Lindsay, 2012). In due sessioni iniziali venivano mostrati ai soggetti sperimentali nomi di celebrità famose o poco note, accompagnati dalla frase “è vivo” oppure “è morto” (metà delle celebrità riportate erano realmente vive). Ad alcune frasi veniva affiancata la foto del personaggio in questione, ad altre no. Come previsto dai ricercatori, nei caso di personaggi poco conosciuti la presenza della foto aumentava la probabilità che l’affermazione venisse considerata vera. È curioso il fatto che le foto promuovessero un “effetto verità” anche quando affiancate a frasi del tipo “Il personaggio X è morto” (si credeva inizialmente che le foto avrebbero portato più facilmente a considerare un personaggio ancora vivo, effetto che non si è verificato).

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In un ulteriore esperimento gli autori hanno dimostrato come fosse possibile ottenere un risultato del tutto analogo accompagnando le stesse affermazioni non con le foto dei personaggi, ma con delle informazioni aggiuntive, che ne elencassero le caratteristiche (es. “Ha i capelli corti e castani, gli occhi verdi, è un leader politico”). È stato così dimostrato come l'”effetto verità” fosse generalizzabile anche ad informazioni verbali che non fornissero alcuna prova all’affermazione da valutare.

Si tratta di risultati che vanno approfonditi, dal momento che vero meccanismo di funzionamento dell'”effetto verità” non è ancora stato chiarito. L’ipotesi principale avanzata dagli autori è che le fotografie o le informazioni verbali aggiuntive vengano inconsapevolmente adottate come contesto semantico dell’affermazione, fornendo così i dettagli necessari a generare “pseudoprove mentali” a suo sostegno.

Attendiamo approfondimenti, ora sicuramente più consapevoli degli errori in cui potremmo cadere nel valutare la veridicità delle informazioni che ci arrivano.

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LINGUAGGIO & COMUNICAZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Recensione: Curare Ridendo di Bernhard Trenkle

di Emma Fadda

Recensione: Curare Ridendo di Bernhard Trenkle.
Bernhard Trenkle (2009). Curare Ridendo. Roma: Alpes.

 

Recensione di “Curare Ridendo” di Bernhard Trenkle – Caro terapeuta hai mai pensato a come, a volte, sarebbe meglio non prenderti troppo sul serio?

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“Ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell’uomo a prendere troppo sul serio la propria persona”. Questa celebre frase di Hermann Hesse calza a pennello con il messaggio che Bernhard Trenkle, psicoterapeuta tedesco, tenta di mandare nel suo testo “Curare Ridendo”, una raccolta di barzellette e aneddoti di satira internazionale che l’autore propone in un’opera di ben 3 volumi, di cui quello disponibile in Italia rappresenta la traduzione del primo (che ha venduto solo 35.000 copie nella sua versione tedesca!).

La domanda è semplice: possono la comicità e il senso dell’umorismo essere utilizzati in psicoterapia? Potremmo aggiungere: possono essi avere una funzione terapeutica, di promozione del cambiamento? Bernhard Trenkle ne è convinto, e ci propone un nuovo modo di pensare al significato della comicità e della barzelletta dentro la stanza del colloquio, durante la psicoterapia con i nostri pazienti.

Attraversare le emozioni - recensione
Articolo Consigliato: Recensione – “Attraversare le Emozioni”. A cura di Fosha, Siegel e Solomon.

La risata è prima di tutto proposta come uno strumento che ci fa sembrare “reali”, che sa dare alla dinamica del colloquio, soprattutto in alcuni momenti visibilmente di disagio ed imbarazzo per il nostro paziente (e non di meno per noi), o in quelli più dolorosi e difficili da condividere, l’idea che “possiamo riderci su”, che possiamo alleggerirli, che ci possiamo avvicinare ad essi sollevandoci dal peso di doverci mantenere seri nel dirli perché non essere seri toglie valore alle cose. La risata è la distanza più corta tra le persone, ci consente di condividere, di sentirci con l’altro sulla stessa lunghezza d’onda, in fin dei conti, può aiutare (con la debita attenzione nel suo utilizzo) a coltivare quella famosa alleanza terapeutica che, come tutti noi terapeuti sappiamo, rappresenta uno dei fattori più rilevanti di buona riuscita della terapia. Come sottolinea l’autore, l’uso della battuta e del comico in generale nel setting clinico aiuta il buon terapeuta ad apparire meno serioso, fatto questo estremamente comune (soprattutto tra i colleghi di formazione analitica) che rischia di far dimenticare che se una faccia della sofferenza umana è costituita dal dolore e da quel quid di drammaticità, l’altra parte porta con sé un non so che di comico, che ha a che fare con tutti quegli aspetti di grandiosità ed esagerazione irrealistica che i nostri pazienti spesso attribuiscono ai significati che danno ai loro problemi.

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La risata in terapia può anche avere una funzione di per sé terapeutica: essa veicola una sorta di intensa (anche se apparente) caduta della tensione, un momento di rilassamento, un momento di pausa. Un’interruzione che però favorisce lo spostamento della tensione dalla relazione al sé più vulnerabile. Questo spostamento, spesso segnalato da un momento di vera e propria pausa, di silenzio nella conversazione può essere di grande utilità nel favorire la riflessione su di sé da parte del paziente, il raggiungimento di una nuova consapevolezza emotiva o di nuovi interrogativi. Tutti questi mutamenti non possono non essere considerati segnali di un movimento, di uno spostamento di prospettiva, di un cambiamento, nella misura in cui producono qualcosa di nuovo che può divenire nuovamente oggetto di conversazione e di lavoro clinico.

 Non solo, ma la barzelletta e le storielle raccontate ai nostri pazienti con debita scelta da parte del terapeuta del momento del colloquio e del processo terapeutico, possono essere molto utili al fine di favorire la comprensione di quei concetti, di quei fenomeni clinici, di quelle tecniche e di quei passaggi terapeutici chiave che spesso risultano a dir poco ostici e irreali ai pazienti, troppo distanti e slegati dalla loro esperienza emotiva così intensa e vera, perché sperimentata quotidianamente.  L’autore ci offre quindi una serie di brevi racconti e freddure che ci parlano di allucinazioni, di associazioni guidate ed ipnosi, di cognizioni e auto-verbalizzazioni, di stili comunicativi disfunzionali, di condizionamento e di dissociazione e spostamento come tecniche di controllo del dolore, di sistemi di credenze e visioni del mondo rigide, di specifiche tecniche terapeutiche, di cambiamento e molto altro ancora.

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia.

Tutto ha una chiave di accesso più semplice, direttamente accessibile, di facile intuizione sia per i pazienti che per i terapeuti che provengono da diversi orientamenti teorici. Il tutto accompagnato e arricchito da pertinenti e divertenti illustrazioni, a cura di Lorenzo Recanatini.

Se questi sono solo alcuni dei vantaggi che l’uso della comicità in terapia porta con sé non ne vanno dimenticati i rischi, come ben viene riassunto nella frase di Gino Bramieri nella prefazione del testo a cura di Camillo Loriedo: “il problema di raccontare una bella barzelletta è che inevitabilmente ne fa venire in mente una orribile a chi l’ascolta”.

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Resta, comunque, il fatto che Curare Ridendo rappresenta un buon spunto di riflessione per tutti quei clinici un po’ più “ingessati”, per quelli più “scettici” e per coloro che sono semplicemente curiosi di avvicinarsi ad una dimensione in cui terapia e comicità possono integrarsi, e dove la risata può essere utilizzata al servizio del percorso di guarigione. Il testo inoltre, per la sua brevità e scorrevolezza, è indicato anche per tutti i non clinici, che hanno la curiosità di avvicinarsi a dei concetti, anche complessi, del mondo psicologico con leggerezza e semplicità.

Un testo per ricordarci e farci riflettere su quanto è vero, in fin dei conti, come dice Pablo Neruda, che “ridere è il linguaggio dell’anima”.

 

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Le illustrazioni del libro sono opera di Lorenzo Recanatini. il libro è edito da Alpes

 

Non possiamo non dirci freudiani? Lettera aperta a Luciana Sica di Repubblica, infaticabile cronista della psicoanalisi italiana.

 

Non possiamo non dirci freudiani? Lettera aperta a Luciana Sica di Repubblica, infaticabile cronista della psicoanalisi italiana.

 

Lettera Aperta a Luciana Sica. - Immagine: © La Repubblica.it
Immagine dell’articolo di Repubblica: La svolta degli analisti italiani: La psicanalisi non è solo Freud – © La Repubblica.

Mi chiedo quanto faccia bene alla psicoanalisi italiana godere delle attenzioni scrupolose della stampa nazionale. In particolare le puntuali cronache psicoanalitiche di Luciana Sica nei paginoni culturali di Repubblica sono dettagliate, troppo dettagliate. Poco meno di un mese fa, il 18 dicembre 2012, la Sica aveva intervistato il nuovo presidente della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) Antonino Ferro.

LEGGI L’ARTICOLO DEL 18 DICEMBRE PUBBLICATO DA REPUBBLICA

Ferro aveva rilasciato un’interessante intervista che testimoniava il suo interesse per i nuovi sviluppi della psicoanalisi, la cosiddetta svolta relazionale (per chi ne voglia sapere di più raccomando il libro di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei, 2011, “La svolta relazionale, itinerari italiani”).

Questa svolta, che in realtà risale a circa 30 anni fa, significa per la psicoanalisi un distacco dal paradigma delle pulsioni freudiane, un paradigma che non ha aiutato la psicoanalisi a evolversi in scienza empirica, oscillando tra il biologico e il metapsicologico.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

Per Freud le pulsioni sono forze biologiche che però parlano, si esprimono in metafore, lapsus e associazioni di idee. Non del tutto sbagliato in linea generale, qualcosa di vero c’è. Molto qualcosa, però. E si tratta di un’ipotesi difficilmente verificabile nel caso singolo, nel lapsus che avviene nel qui e ora della seduta. Di qui si aprono le porte alle interpretazioni più audaci e selvagge.

A mio parere e -me ne rendo conto- semplificando, la relazione è qualcosa che ha a che fare più con l’attività mentale cosciente che con l’inconscio e le sue metafore. La sofferenza relazionale è una sofferenza umana del paziente bisognoso di contatto umano e affettivo, e non il prodotto di pulsioni che si vogliono scaricare. Il massimo teorico di questa svolta relazionale è stato Stephen Mitchell col suo classico “Relational Concepts in Psychoanalysis” (1988).

 

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Ieri però, 7 gennaio 2013, è arrivato un altro articolo su Repubblica dell’implacabile cronista della psicoanalisi, Luciana Sica. L’intento era lodevole: documentare il dissenso dei freudiani ortodossi contro la svolta relazionale andata al potere con la presidenza di Ferro. Il risultato però è deludente. L’impressione è che la Sica faccia la cronaca delle beghe interne della Società Psicoanalitica Italiana, scambiando queste beghe per un dibattito scientifico di importanza nazionale e forse internazionale.

 Già il rumoroso titolo dell’articolo (“Non possiamo non dirci freudiani”) sembrava rivolto al mondo intero, e invece a leggere l’articolo si rivelava un messaggio tutto interno alla Società Psicoanalitica Italiana. Dopo questo titolo così chiassoso, seguiva la cronaca dello scontro tra pulsionisti ortodossi freudiani e relazionalisti moderni. Alla fine dell’articolo la stessa Sica sembra involontariamente desolata dallo scarso spessore della vicenda.

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A questo punto qualcuno potrebbe pensare male di me e darmi dell’invidioso: piacerebbe anche a voi cognitivisti ricevere le attenzioni dei paginoni culturali dei quotidiani nazionali. Certo che sì, rispondo. Perché no? Sarebbe ora che il dibattito scientifico psicologico fosse riportato nella sua interezza sui quotidiani generalisti. Ma se questa attenzione dovesse esprimersi nella cronaca dettagliata, troppo dettagliata delle beghe interne e umane, troppo umane della società dei terapeuti cognitivisti o sistemici, allora rispondo: meglio di no. Iddio in cielo mi scampi da simili amici. Meglio che Luciana Sica continui a mantenere il suo telescopio puntato fisso sulla psicoanalisi.

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BIBLIOGRAFIA:

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