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Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia

In terapia quale è l’atteggiamento più opportuno da tenere? Il tema della giusta distanza da adottare nei confronti del paziente.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 09 Feb. 2012

O forse ridere è già una terapia?

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com - Nel riprendere un filone di articoli che affronta piccole scene da terapia, passando per la tecnica della bacchetta magica e arrivando fino alla monetina e al suo “testa o croce?”, vorrei introdurre una riflessione sull’uso dell’ironia con i nostri pazienti.

Spesso ci interroghiamo su quale sia l’atteggiamento più opportuno da tenere nel setting clinico, in particolare quando consideriamo il tema della giusta distanza da adottare nei confronti del paziente. Da un lato infatti esiste un ruolo, il nostro ruolo di terapeuti che deve nutrirsi di credibilità, autorevolezza e competenza professionale, dall’altro è indubbio che la relazione terapeutica sia in primo luogo una relazione umana e come tale si componga di molteplici elementi, fra i quali la condivisione di momenti più leggeri.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
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Il paziente non arriva da noi solo per ottenere un miglioramento sintomatico oppure, nel caso di soggetti dotati di maggiori risorse, una più profonda conoscenza di sé. Egli si rappresenta la terapia come uno spazio e un tempo nei quali essere accolto, riconosciuto: questa almeno è la nostra speranza nonché l’obiettivo al quale rivolgiamo parte del nostro lavoro. Uno dei nostri talenti deve essere la capacità di trasmettere a chi chiede il nostro aiuto il senso di un’esperienza in parte comune: se non manifestiamo mai un’emozione di fronte alle emozioni del paziente, se non sappiamo mai nulla degli interessi di cui ci parla, se rimaniamo seriosi anche di fronte al suo tentativo di sdrammatizzare alcuni passaggi della terapia, finiamo inevitabilmente per apparire ed essere lontani da lui.

Il Metodo della Monetina in Psicoterapia: Testa o Croce? - Immagine: © ra3rn - Fotolia.com
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Ciò non significa seguire gli stati emotivi del paziente come uno specchio piatto, né guardare tutte le sere il suo programma preferito se non riusciamo a digerirlo in alcun modo; può accadere però che una battuta del paziente, ad esempio una frase autoironica, ci dica molto del suo bisogno di condividere il contenuto di quell’istante. E mi sento di aggiungere che in queste parole riecheggia sia l’anima del terapeuta al lavoro sia quella del clinico in terapia personale; l’autoironia del paziente può comunicarci che è riuscito a mentalizzare uno stato emotivo problematico, a trasformarlo in un vissuto più tollerabile, mentre una frase che dileggia qualcuno che appartiene al suo contesto di vita attuale o alla sua storia non necessariamente corrisponde ad una svalutazione narcisistica. In alcuni casi avviene un depotenziamento delle tematiche fonte di sofferenza e noi possiamo avvertirlo anche grazie all’ironia; se il paziente ci racconta un episodio che ha visto protagonista il suo capo e la narrazione si arricchisce di commenti ironici, diversi dai toni cupi o dal sarcasmo rabbioso del passato, possiamo intuire che sta avvenendo una trasformazione nella quale ciò che prima era considerato ingestibile viene ora accompagnato da uno sguardo più consapevole.

Il capo del nostro paziente non è più il suo tiranno, colui che con i propri sbalzi d’umore definisce la scarsa amabilità della vittima ansiosa, bensì una figura che è possibile accettare nella bizzarria che la contraddistingue. Ironia come capacità di coping. E noi possiamo ascoltare le venature di tale umorismo, sentire se è un riso amaro col quale il paziente colpisce duramente la propria autostima oppure si sta verificando una catartica decatastrofizzazione; nel secondo caso, ritengo assai opportuno che sciogliamo per qualche istante la nostra ricerca di credibilità professionale per accedere ad una dimensione solo apparentemente diversa, nella quale l’intento terapeutico di creare una relazione col paziente e di fargli percepire che siamo dalla sua parte passa attraverso la condivisione dell’ironia. In altre situazioni possiamo invece essere noi a spostare il registro della comunicazione verso un piano più divertente, qualora la conoscenza del paziente ci suggerisca che si tratta di un’operazione realizzabile ed efficace. Possiamo prendere in giro noi il suo capo, essere noi a mostrare che esiste la via alternativa della presa di coscienza dei limiti altrui. Nulla di meglio dell’ironia, con alcuni pazienti ai quali lo spostamento del focus può solo giovare.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Come nel caso della bacchetta magica, anche questa strategia apre scenari più flessibili in cui riflettere insieme sulla reale utilità del dare sempre un significato assoluto ed autoriferito agli eventi. Naturalmente l’ironia non è la stessa con tutti i pazienti né si rivela con tutti praticabile, non solo per ragioni legate alle loro problematiche ma anche per fattori più semplici: soggetti diversi hanno un umorismo differente, alcuni possono esserne palesemente sprovvisti e, mai dimenticarlo, ognuno di loro ci ispira un livello peculiare di empatia, di simpatia e di partecipazione ironica. Un paziente con cui fatichiamo a relazionarci in modo spontaneo è certamente una montagna da scalare per il nostro intento di utilizzare l’ironia, ma anche quando ci sentiamo vicini possono presentarsi difficoltà da gestire con cura: un paziente che ci piace, con cui sentiamo un ottimo feeling rappresenta una situazione clinica nella quale la distanza potrebbe ridursi troppo, fino al generarsi di interazioni più simili ad uno scambio dialettico tra amici che ad una psicoterapia. La consapevolezza delle nostre reazioni presenti e di quelle potenziali può di conseguenza indurci a contenere l’ironia: torniamo così ad occuparci dell’interrogativo iniziale, come comportarci col paziente. E attenzione agli errori, c’è poco da ridere!

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