Lo studio pilota ha avuto una durata di circa dieci anni ed è stato condotto da un gruppo di ricercatori della U-M Medical School, University of North Carolina e University of Maryland, guidato da Jon-Kar Zubieta, professore presso il Dipartimento di Radiologia e membro del Molecular and Behavioral Neuroscience Institute.
In questa ricerca cinquanta volontari sani, di età compresa tra i 19 e i 38 anni, sia di sesso maschile che di sesso femminile, sono stati sottoposti a test standard per la valutazione dei tratti di personalità.
Ai volontari fu detto che sarebbe stato loro iniettata una piccola quantità di soluzione salina ipertonica nei muscoli della mascella che avrebbe causato una sensazione dolorosa, e che a distanza di qualche minuto sarebbe stata loro somministrata una dose di antidolorifico – in realtà un placebo sottoforma di pillola di zucchero – della quale avrebbero dovuto valutare l’efficacia su un’apposita scala.
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In seguito, durante la sessione sperimentale, fu monitorata l’attività cerebrale dei soggetti attraverso le scansioni di tomografia a emissione di positoni (PET).
I risultati ottenuti mostrarono che circa il 25% dell’aumento dei livelli cerebrali di oppioidi endogeni – sostanze dotate di proprietà analgesiche naturalmente prodotte dal cervello, che si ritiene rappresentino i mediatori dell’effetto placebo, e la cui sintesi sarebbe stimolata dalle aspettative positive – e la concomitante riduzione dei livelli di cortisolo nel sangue, potrebbero essere attribuiti a specifici tratti di personalità.
Le aree principalmente interessate furono la corteccia cingolata anteriore (ACC) dorsale e subgenuale, la corteccia orbito frontale, l’insula, il nucleo accumbens, l’amigdala e la sostanza grigia periacqueduttale (PAG).
La risposta ai placebo sembra essere, quindi, in stretta connessione con i tratti di personalità come la resilienza (ovvero la capacità di affrontare le avversità), la semplicità, l’altruismo o piuttosto la rabbia e l’ostilità, mentre altri non sembravano essere influenti. Infatti, coloro che avevano una maggiore capacità di resistere e superare i fattori di stress o le situazioni difficili avevano una maggiore capacità di assumere informazioni ambientali – in questo caso il placebo – e convertirle in un cambiamento a livello biologico.
Contrariamente, il neuroticismo, vale a dire la tendenza a sperimentare emozioni negative, come ansia, rabbia, ostilità, depressione, impulsività, è risultato correlato in maniera negativa all’effetto placebo; l’ostilità in particolare è risultata il migliore predittore di una sua inefficacia.
Ciò nonostante i risultati sono importanti per le loro implicazioni nel rapporto medico-paziente e potrebbero aiutare i ricercatori a comprendere i meccanismi alla base dell’efficacia di una terapia in differenti persone. Tuttavia, i dati prodotti dovrebbero essere avvalorati su un campione più ampio.
Dietro la pretesa si nasconde sempre un bisogno umano. Ancora una volta il problema non è il bisogno ma il modo assoluto e rigido con il quale viene perseguito o richiesto agli altri.
Tra gli schemi cognitivi che sostengono il malessere psicologico le ‘pretese’ hanno un ruolo molto delicato. Si tratta dell’applicazione di un dovere assoluto al comportamento degli altri e del mondo. Una regola così rigida e assoluta ostacola l’adattamento a un ambiente così fluido com’è quello in cui viviamo. La pretesa ci rende vulnerabili a ciò che qualunque esistenza chiede di far fronte: la frustrazione.
E poi si aggiunga che le proprie pretese non son certo facili da riconoscere, tantomeno da accettare. Ogni pretesa sembra in sé un po’ sporca e ingiusta, così le persone hanno bisogno di raffinati percorsi mentali per sostenerla: (1) non è una mia pretesa, è una regola morale universale, (2) non è una mia pretesa, ma l’alternativa mi è fisicamente intollerabile, (3) non è una mia pretesa, me ne giunge il diritto per riconosciute doti, geni o natali, (4) non è una mia pretesa, è che ho dato così tanto che mi spetta come ricompensa.
Insomma, da un lato l’essere umano pretende e respinge l’idea d’essere pretenzioso aggiustandosi con qualche forma di pseudorazionalizzazione o credenza protettiva. Avere ‘pretese’ non ci piace, ma abbandonarle vuol anche dire uscire al freddo clima della frustrazione, e neanche quello piace.
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Ma cosa noi pretendiamo?
Pretese di gratificazione: la richiesta assoluta di immediata gratificazione che si può riassumere nella norma “devo ottenere ciò che voglio immediatamente” oppure “ogni mio desiderio dev’essere un ordine per gli altri”. La natura di una simile pretesa è primitiva, impulsiva, incapace di sostenere la mancanza, la fame o anche il solo il ritardo: “tutto e subito”.
Pretese di correttezza: la richiesta assoluta di adeguamento a norme di correttezza, coerenza, imparzialità e onestà. Spesso si accompagna a una forte propensione all’autocontrollo e ipercoscienziosità che impone la medesima rigida correttezza a sé stessi. Si può affiancare alla tendenza a considerare norme morali o etiche come assolute anche quando non lo sono. La persona può implicitamente aderire a un sistema di norme e considerarle assolute, non riconoscendo la possibilità per gli altri di riconoscersi in sistemi valoriali differenti.
Pretese di successo: l’imposizione di, piuttosto che la preferenza verso alti standard. La presenza di obiettivi ambiziosi non sono un problema per sé, lo divengono nel momento in cui sono associati ad autocriticismo (es: “se non raggiungo alti standard sono un fallito”) o nel momento in cui interagiscono con pretese di successo (es: “le persone non devono ostacolare la realizzazione del mio potenziale”).
Pretese di attenzione e riconoscimento: la richiesta assoluta di soddisfazione dei propri bisogni affettivi o di stima. L’altro deve soddisfare questi bisogni, non può permettersi di trascurarli anche qualora non fossero chiaramente espressi (es: “avresti dovuto capirlo“). Non appena la persona si sente messa in secondo piano, ignorata o messa in discussione si scatena la furia difensiva.
Pretese di libertà assoluta: la richiesta assoluta di libertà e indipendenza. All’opposto della precedente, la persona richiede assoluta assenza di aspettative nei propri confronti. L’amarezza dell’altro non può e non deve dipendere dal suo comportamento. In sintesi “l’altro non ha diritto di porsi aspettative né manifestare delusioni ma deve accogliere ciò che sono disposto a dargli“.
Si tratta di piccoli esempi. Molte altre pretese specifiche caratterizzano diverse persone. Se noi ora le rileggiamo forse vediamo un po’ di noi stessi in ciascuna pretesa, o meglio ne vediamo una versione distorta ed estrema che ne mette in luce la componente illogica o problematica.
Questo avviene perché dietro la pretesa si nasconde sempre un bisogno umano. Ancora una volta il problema non è il bisogno ma il modo assoluto e rigido con il quale viene perseguito o richiesto agli altri.
In fondo se considerassimo ciascuno di questi contenuti come delle preferenze piuttosto che come delle pretese avremmo modo di accettare le frustrazioni senza rinunciare totalmente ai nostri bisogni. Avremmo modo di comunicare le nostre richieste e necessità senza aspettarci che il mondo le debba riconoscere. Avremmo infine la possibilità, attraverso la negoziazione e la tolleranza del dolore, di approssimarci il più possibile alla realizzazione dei nostri obiettivi. E questo è ciò che gradualmente accade durante il cambiamento terapeutico.
Harrington, N. (2003). The development of a multidimensional scale to measure irrational beliefs regarding frustration intolerance. Unpublished doctoral thesis, University of Edinburgh, United Kingdom.
I lobi frontali sono noti da tempo per essere strutture fondamentali per la modulazione e la regolazione della condotta sociale, delle reazioni emotive e della personalità. Danni a queste strutture possono rendere difficoltosa la gestione delle interazioni sociali della vita quotidiana, a causa di profonde alterazioni del comportamento sociale ed emotivo e della personalità.
Il primo caso di disregolazione del comportamento e della personalità a seguito di un danno ai lobi frontali studiato in letteratura da Harlow nel 1868 è quello del celebre Phines Gage.
In seguito le ricerche sulle conseguenze dei danni frontali si sono fatte più sistematiche, come nel caso degli studi del neuropsicologo russo Aleksandr Lurija che alla fine degli anni 60 compì delle ricerche su un ampio gruppo di veterani della seconda guerra mondiale che evidenziarono l’associazione tra l’attività della regione prefrontale e numerose capacità cognitive e comportamentali, gettando la base per la formulazione del quadro clinico della “sindrome frontale”.
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Da allora l’assessment neuropsicologico dei pazienti frontali si è tradizionalmente basato su test che andavano a valutare le funzioni esecutive.A partire dagli anni ’90 in poi, sono stati implementati test più ecologici (ad esempio Iowa Gambling Task, Multiple Errands Test, Behavioural Assessment of the Dysexecutive Syndrome), in quanto diversi casi clinici, tra i più noti ricordiamo quello del sig. EVR, studiato da Damasio ed Eislinger, hanno messo in luce come alcuni pazienti frontali presentino un comportamento molto diverso nei compiti svolti in laboratorio rispetto alle attività della vita quotidiana.
Questo interesse verso strumenti con una maggior valenza ecologica ha portato a una crescente attenzione per gli aspetti comportamentali ed emotivi con il conseguente sviluppo di compiti di valutazione dei deficit di cognizione sociale, quel dominio cognitivo che raccoglie conoscenze ed abilità sociali ed emotive indispensabili per un adeguato comportamento sociale e per gestire in maniera appropriata e con successo le relazioni interpersonali.
Tra i test maggiormente utilizzati per indagare le funzioni sociali si trovano quelli che fanno diretto riferimento alla Teoria della Mente (ToM), spesso tratti da strumenti per la valutazione di deficit psichiatrici come la schizofrenia o psicopatologici come i disturbi dello spettro autistico e la sindrome di Asperger.
Un’altra importante abilità connessa alla cognizione sociale è l’empatia grazie alla quale le persone sono in grado di calarsi nei panni degli altri e di “sentire” e condividere gli stati emotivi altrui.
Le principali tecniche di valutazione della capacità empatica si basano su questionari self-report.
Altri strumenti utilizzati per indagare il funzionamento sociale consistono in compiti di riconoscimento delle espressioni emotive che vanno a valutare la capacità di cogliere gli stati emotivi delle persone attraverso stimoli statici o dinamici (espressioni facciali, intonazione vocale, posture).
Vi sono alcuni strumenti di valutazione dei disturbi di cognizione sociale nei pazienti con lesioni cerebrali che integrano differenti tecniche e approcci, ad esempio il The Awareness of Social Inference Test (McDonald et al., 2003) strumento clinico appartenente alla realtà d’oltreoceano, che si avvale di subtest composti da videoregistrazioni di scenette interpretate da attori che recitano interazioni in situazioni quotidiane, o il lavoro di Prior, Marchi e Sartori (2003) che hanno tradotto, adattato e tarato in italiano 4 test neuropsicologici proposti in origine da Blair e Cipolotti (2000) e basati sul modello “quadrifattoriale” di quest’ultimi, e su rifermenti teorici diversi quali la ToM o la teoria dello schema di conoscenza sociale.
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L’attuale stato dell’arte vede un utilizzo crescente di strumenti ecologici e tecniche di valutazione dei deficit di cognizione sociale, in particolare nei paesi anglofoni, ma da qualche anno anche nella realtà italiana, dove, tuttavia sono spesso utilizzati solo a livello sperimentale, tradotti e adattati dai test originali, ma senza una taratura e standardizzazione completa.
Poter contare su validi strumenti di assessment dei deficit di cognizione sociale ha una grande rilevanza in quanto questi disturbi, particolarmente pervasivi, rappresentano un grande ostacolo per la gestione dei rapporti interpersonali e delle attività quotidiane del paziente, per l’impostazione di un eventuale trattamento riabilitativo e costituiscono una fonte di profondo disagio per i familiari che sono coinvolti quotidianamente, per un periodo continuativo e ben maggiore rispetto a quello di cura e riabilitazione.
Ricevere un’offesa o una critica da qualcun altro, non essere apprezzati e valorizzati per un lavoro svolto, non ricevere alcun riconoscimento sono situazioni che, quasi sempre, suscitano rabbia. In questi casi, attenuare l’emozione della rabbia in chi la esperisce, è fondamentale per garantire l’armonia sociale e per evitare che la rabbia possa causare azioni estreme. Il modo più comune ed immediato per ottenere questo risultato è quello di rassicurare l’altro e di fornire delle scuse.
Ma le scuse possono essere sufficienti per eliminare i sintomi fisiologici e psicologici associati alla rabbia esperita dall’altro?
Le ricerche precedenti hanno messo in luce come le scuse possano essere efficaci nel sopprimere le espressioni fisiologiche della rabbia e possano ridurre la spinta all’aggressività.
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Ma questo ci consente di concludere che chiedere scusa per l’offesa o la critica arrecata elimini l’esperienza soggettiva della rabbia in chi l’ha ricevuta?
Per fornire una risposta a questa domanda, Kubo, Okanoya e Kawai hanno condotto uno studio su 48 studenti (24 donne e 24 uomini) provenienti da un’università locale del Giappone, ai quali è stato chiesto di scrivere le loro opinioni su alcuni problemi sociali (aumento delle tasse scolastiche, fumare in pubblico) e i loro saggi sono stati valutati da un partecipante fittizio, in un’altra stanza. Inizialmente, sono state raccolte informazioni fisiologiche, attraverso le registrazioni EEG e ANS ed esse sono state confrontate con quelle rilevate dopo aver generato l’emozione della rabbia. Ai partecipanti sono stati dati 10 minuti di tempo per scrivere il saggio e, successivamente, ciascun saggio è stato valutato, in modo standard, con dei punteggi piuttosto bassi rispetto alle dimensioni dell’intelligenza, interesse, logica, cordialità, rispettabilità e razionalità. A conclusione di ogni saggio è stato anche fornito un commento piuttosto offensivo, ma ad un gruppo sono state anche aggiunte delle scuse per il commento, ad un altro, invece, non è stata aggiunta alcuna nota. Ai partecipanti è stato detto di leggere i giudizi e di riflettere su di essi per 2 minuti, mentre venivano raccolte le registrazioni di EEG e ANS, per rilevare le alterazioni fisiologiche generate dall’offesa ricevuta. In seguito, tutti i partecipanti hanno completato due scale soggettive di valutazione della rabbia (PANAS e STAXI).
I risultati hanno messo in evidenza che se si ricevono delle scuse, dopo un commento offensivo, diminuiscono l’asimmetria dell’attività cerebrale e la frequenza cardiaca, mentre questo non avviene se non si ricevono delle scuse. Inoltre, le scuse riducono anche la probabilità che la persona arrabbiata abbia uno sfogo violento nei confronti di chi l’ha offesa.
Tuttavia, la rabbia non viene completamente annullata e continua ad essere esperita soggettivamente da chi è stato offeso. Infatti, i soggetti di entrambi i gruppi hanno riportato alti punteggi nella scala PANAS, che valuta l’intensità delle emozioni negative esperite.
I risultati ottenuti, dunque, confermano che la rabbia è un’emozione complessa, che presenta diverse componenti, le quali sono responsabili delle diverse reazioni fisiologiche e psicologiche, associate all’emozione della rabbia. Le scuse ricevute attenuano l’attivazione fisiologica, ma non annullano completamente l’esperienza psicologica soggettiva della rabbia.
Dunque, scusarsi non è sufficiente per annullare l’offesa arrecata.
A 50 anni dal processo in Israele a Adolf Eichmann, colui che è diventato il simbolo della banalità del male come definito dalla Arendt e sulle cui motivazioni indagò anche lo psicologio sociale Stanley Milgram nel suo famoso esperimento sull’obbedienza all’autorità, può essere utile rileggere la descrizione del test alla luce delle recenti acquisizioni sul ruolo dei neuroni specchio nella capacità di empatizzare.
Ricordiamo brevemente quali furono i termini di questa sperimentazione che il Prof. Milgram condusse all’Università di Yale su migliaia di persone e che è stato più volte oggetto di ripetizione. All’interno di un laboratorio un soggetto che si era reso disponibile a condurre esperimenti sulla memorizzazione doveva correggere un altro soggetto – un attore sotto le mentite spoglie di cavia – somministrandogli delle scosse a intensità crescente ogni volta che questi sbagliava a rispondere alle domande sottoposte dal dottore che conduceva l’esperimento. Lo scopo era vedere fino a che punto il soggetto avrebbe accettato di continuare a somministrare le scosse (che potevano arrivare anche fino a 450 V ed erano contrassegnate con diciture fino a “scossa pericolosa”) pur in presenza dei lamenti, delle proteste e infine degli urli e dei rantoli della “cavia”.
Milgram volle anche vedere non solo fino a dove la maggioranza degli esaminati poteva arrivare ma anche quali circostanze avevano maggiore o minore peso nella decisione di rivoltarsi all’autorità.
In particolare vi sono alcune varianti dell’esperimento poste in opera dallo stesso Milgram che ci permettono di isolare esattamente la dinamica empatica nell’esecuzione della tortura sperimentale e che potrebbero portare ad una visione più comprensiva e meno terrifica della “banalità del male”.
Tra le diverse variazioni dei fattori suscettibili di alterare il livello di obbedienza dei partecipanti Milgram si mostra particolarmente lungimirante introducendo più varianti relative alla “vicinanza della vittima”.
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Nell’osservare le varianti che a noi interessano partiamo dall’esperimento 1 “Reazione a Distanza (Remote Feedback)” dove la cavia si trova in un’altra stanza e non si odono i suoi lamenti fino a 300 volt, valore oltre il quale le pareti del laboratorio rimbombano dei suoi colpi di protesta.
L’esperimento 2 “Reazione vocale (Voice Feedback)” prevedeva invece che i lamenti fossero tutti chiaramente udibili attraverso le pareti del laboratorio.
La variante 3 ”Vicinanza (Proximity)” si realizza collocando la vittima nella stanza del somministratore di scosse, a meno di un metro da lui e con il “torturatore” in grado di vedere la vittima e ascoltare le sue richieste.
Infine nel caso 4 “Contatto fisico (Touch Proximity)” il soggetto esaminato doveva addirittura posizionare la mano della vittima su una piastra metallica.
I risultati del variare di questi fattori furono così determinanti che portarono Milgram a postulare che “il livello di obbedienza diminuisce in modo significativo in proporzione all’avvicinamento della vittima al soggetto”
Non solo infatti il livello dei soggetti obbedienti diminuiva fino a dimezzarsi, ma si abbassava considerevolmente anche il massimo livello di scossa somministrata: se nella Reazione a Distanza gli obbedienti erano il 65% del campione, nella Reazione Vocale si aveva uno scostamento invero leggero al 62,5% mentre con il primo livello di Vicinanza si crollava al 40%, percentuale che si abbassava ulteriormente al 30% nel Contatto Fisico.
Milgram attribuisce questo effetto a più fattori e tra questi per primo elenca proprio gli “stimoli empatici”. Richiamandosi al noto esempio di persona civile e perbene che in guerra non esiterebbe ad eliminare uno come lui o a sganciare una bomba dall’alto di un aereo, Milgram evidenzia subito lo smarcamento tra la comprensione concettuale, il capire, e il sentire. Non si ferma però qui e testualmente scrive: “E’ possibile che gli stimoli visivi associati con la sofferenza della vittima suggeriscano risposte empatiche nel soggetto facendolo partecipare più intensamente all’esperienza della vittima. E’ anche possibile che risposte empatiche siano di per sé spiacevoli e provochino nel soggetto impulsi tali da indurlo a desistere dalla prova. La diminuzione dell’obbedienza sarebbe in tal caso spiegata dall’aumento dell’intensità degli stimoli empatici nelle condizioni sperimentali 1,2, e 3.”
Tra gli altri fattori che Milgram considera separati dall’empatia ce ne sono alcuni che invece, a nostro avviso, non possono essere considerati autonomamente dal meccanismo empatico.
“Negazione e riduzione del campo cognitivo” rende conto del meccanismo del restringimento cognitivo messo in atto dal “torturatore” per escludere il pensiero della vittima che soffre. Milgram stesso nota che esso non può attuarsi nella condizione di vicinanza alla vittima a causa della sua inclusione nel campo visivo.
Il fattore “Campi Reciproci” si dedica invece non all’osservazione del somministratore sulla vittima ma, viceversa, sullo sguardo della vittima verso il soggetto. L’esposizione al campo percettivo della vittima “crea imbarazzo, vergogna e inibizioni a punirla”.
Tutti questi fattori ci ricordano, e ancora una volta ci suggeriscono, come per migliorare la sintonizzazione empatica sia fondamentale condividere con l’altro lo stesso spazio vitale; ancor più, il guardare negli occhi la persona che ci sta di fronte ci permette di cogliere meglio le sue espressioni emotive.
L’esperimento di Milgram oggi può essere confermato anche dagli studi sulla neurobiologia dell’empatia ed in particolare dagli studi che vedono nei neuroni specchio la base biologica dell’empatia. In uno studio (Singer et al, 2004) è stato infatti dimostrato che i neuroni specchio sono coinvolti sia nel rispecchiamento del dolore dell’altro sia nel rispecchiamento dell’emozione correlata al dolore dell’altro. L’autore ha studiato con la fMRI le risposte empatiche di donne mentre sia loro stesse che il proprio partner subivano una scossa elettrica attraverso un elettrodo posto sulla mano. Le donne nella fMRI non vedevano direttamente il marito mentre gli veniva data la scossa ma una freccia colorata che si accendeva sul loro monitor avvertendo chi dei due (la donna o l’uomo) avrebbe ricevuto la scossa. Ciò che questo esperimento ha mostrato è che quando le donne ricevevano le scosse elettriche si attivavano le aree somatosensoriali per l’elaborazione del dolore e le aree cerebrali (tra cui la corteccia del cingolo, ricca di neuroni specchio) che elaborano l’esperienza emotiva associata al dolore. Quando invece le donne vedevano nel monitor la freccia che indicava che il proprio partner stava per ricevere la scossa si attivavano nel cervello delle donne solo le aree affettive (tra cui quindi quelle con i neuroni specchio) e non quelle somatosensoriali implicate nell’elaborazione del dolore. Questo significa che anche senza vedere la “vittima” il nostro cervello è in grado di empatizzare con l’esperienza emotiva dell’espressione dolorosa.
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Da altri studi (Iacoboni, 2008) sappiamo che empatizzare con l’altro vuol dire creare nel nostro cervello una “simulazione incarnata” dell’espressione facciale dell’altro, meccanismo che coinvolge i neuroni specchio dell’area prefrontale e dell’insula e che implica il guardare o il sentire le espressioni emotive dell’altro. In base a questi dati provenienti dalle neuroscienze possiamo supporre che man mano che nell’esperimento di Milgram il “torturatore” si avvicina alla “vittima” si attiveranno non solo i circuiti che servono per rispecchiare l’esperienza emotiva del dolore ma sempre più anche quei circuiti neuronali relativi all’empatia che si attivano alla vista dell’espressione facciale dell’altro e all’udire la voce sofferente e terrorizzata della “vittima” e che questo aumento di rispecchiamento modifichi il suo comportamento verso la “vittima”.
Alla luce di queste osservazioni l’ipotesi suggestiva sarebbe quella di ripetere l’esperimento in presenza di sensori che rilevino il meccanismo di scarica dei neuroni specchio in modo da convalidare gli aspetti effettivamente legati all’empatia e definirne accuratamente l’ordine di grandezza ed importanza nel processo decisionale.
Abbiamo avuto il privilegio di essere stati invitati come relatori e musicanti a questo bel congresso che si è tenuto nella suggestiva Sala delle Edicole di Padova. Il congresso è stato organizzato dallo psichiatra Mario degli Stefani e dalla consulente in musicoterapia Manuela Guadagnini, entrambi del 2° Servizio di Psichiatria dell’USSL 16 di Padova e dal Prof. Biasutti dell’Università di Padova.
Già la domanda espressa nel titolo nel convegno è indubbiamente stimolante, in quanto forse più che di musicoterapia si potrebbe parlare di musicoterapie che vengono proposte nelle varie realtà cliniche. Anche il fatto che la figura del musicoterapeuta non sia ancora riconosciuta a livello istituzionale pone non pochi problemi per quanto riguarda la validità dei trattamenti musicoterapici e soprattutto le indicazioni precise per gli stessi, a seconda dei disturbi e della tipologia di utenti.
Ha aperto il convegno lo psicanalista Dr. Shön, presentando una relazione dal titolo veramente intrigante e con sapore aforistico “A tempo giusto. A tempo, giusto?” , che purtroppo abbiamo mancato per un soffio a causa della nostra sindrome da ritardo cronico (da musicanti). In compenso abbiamo avuto occasione di apprezzare l’eloquenza psicodinamica del Dr. Shön durante il dibattito.
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Successivamente è stato il turno della voce accademica del Prof. Biasutti, Associato al dipartimento FISPPA dell’Università di Padova e autore di alcune pubblicazioni interessantissime sulla psicologia della musica (Seddon e Biasutti, 2009; Biasutti e Frezza, 2009; Biasutti, 2012), che ha illustrato le strategie per la ricerca in musicoterapia. Il tema della ricerca e delle prove di evidenza in musicoterapia è assolutamente cruciale e, come per le altre artiterapie, gli studi in questo ambito sono spesso difficili da realizzare, ma sarebbero utilissimi per definire calibrare al meglio questi tipi di trattamento.
In passato l’attenzione si era soffermata maggiormente su elementi quali rendere noti gli effetti della musica sugli esseri umani e lo studio dei principi percettivi e discriminativi della musica e dei suoni, e più recentemente è emersa la necessità di ampliare lo studio verso elementi più marcatamente di verifica delle metodologie e delle tecniche impiegate.
Biasutti ha illustrato alcuni articoli usciti sulle principali riviste del settore, come ad esempio il Journal of Music Therapy, mostrando come negli studi di musicoterapia si faccia riferimento più a orientamenti psicologici che a teorie musicali. Gli orientamenti teorici influenzano gli obiettivi, le procedure di accertamento, le dinamiche di intervento, il processo del trattamento e la valutazione.
La musica è perlopiù considerata come un tramite per lo sviluppo di abilità esterne alla musica stessa, per attivare processi o capacità quali: competenze sociali, relazionali, sblocco di dinamiche interiori.
E’ stato evidenziato come il 65.95% degli studi pubblicati siano statisticamente significativi a favore dell’utilizzo della MT.
Oggi il momento pare maturo per lo sviluppo di ricerche di verifica dell’efficacia della musicoterapia e per il confronto per affinamento delle diverse tecniche per stabilire quelle più funzionali.
Il Dr. Verlato, Assessore alle politiche sociali di Padova, dopo aver fatto riferimento all’esperienza neozelandese di Christchurch dove la filodiffusione per la città della musica di Mozart ha ridotto di molto i tassi di criminalità, ha mostrato il Progetto Meeteen. L’iniziativa consiste nella promozione di attività extrascolastiche strutturate, tra cui la musica e il volontariato, per prevenire il disagio giovanile.
L’intervento della musicoterapista Laura Gamba, che lavora presso l’Azienda Ospedaliera di Cremona (Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, Psichiatria, Cure palliative e Hospice) ha portato l’attenzione della platea su una serie interessanti dati di fatto e riflessioni: innanzitutto sottolineando che in Italia non esiste un profilo professionale definito per il musicoterapista e nemmeno linee guida e protocolli codificati per l’intervento, come strumenti di valutazione standardizzati; ha ricordato, inoltre, l’importanza per il musicoterapista di costruire e verificare giorno per giorno strumenti operativi a partire dalla pratica clinica e dal confronto e dalla collaborazione con altre figure presenti all’interno del servizio (medico, psicologo, logopedista, fisioterapista, neuropsicomotricista, educatore, tecnico della riabilitazione psichiatrica, assistente sociale, assistente sanitario, infermiere) entrando così a pieno titolo all’interno dell’equipe multiprofessionale in funzione della costruzione e della verifica del progetto riabilitativo e terapeutico individuale.
La tecnica musicoterapica si va così declinando all’interno dei diversi ambiti di intervento e si diversifica e si specializza con riferimento alle diverse curvature del profilo diagnostico;l’invio da parte del medico può essere finalizzato sia al trattamento – una volta definito l’obiettivo dell’intervento all’interno del progetto riabilitativo e terapeutico – sia alla valutazione in vista di una definizione o ridefinizione del profilo diagnostico.
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La sua relazione è stata esplicativa, chiara e utile: ha condiviso con la platea la griglia di osservazione che utilizza in seduta che si articola in comportamenti che rientrano in 8 macrocategorie: motricità, relazione, consapevolezza delle proprie emozioni, funzioni cognitive, linguaggio, pensiero simbolico, l’utilizzo degli strumenti e l’ascolto. Per ognuno di questi temi ha costruito diversi item (ad esempiio per l’utilizzo degli strumenti “predilige strumenti piccoli“) e una scala da 0 a 4 da compilare a fine seduta. Il libro Musicoterapia per crescere (Carocci, 2012), del quale è autrice, offre un interessante spunto per l’utilizzo di strumenti di osservazione in seduta.
Infine ha raccontato dell’utilizzo del “letto sonoro” con bimbiche soffrono di paralisi cerebrale infantile: il letto sonoro che utilizza è costituito da un piano di legno sul quale si pone il soggetto e strumento è munito di un’arpa sottostante con due corde: un do # e un sol #. Il suono fondamentale agisce a livello acustico, quindi percepito dall’orecchio ed elaborato dalla psiche, mentre gli armonici (vibrazioni secondarie) agiscono su tutto il corpo; ciò avviene per la legge della risonanza, che consiste nella possibilità di porsi in vibrazione solo grazie all’investimento delle onde sonore, prodotte da un’altra fonte, che fa vibrare il corpo umano, della stessa frequenza naturale del corpo vibrante. Serve per creare stimolazioni sensoriali e a indurre, verificare uno stato di rilassamento nel soggetto, osservando una diminuzione della rigidità del tono muscolare.
Gli interventi sono stati inframmezzati da esperienze musicali proposte dalla Dr.ssa Guadagnini, che hanno coinvolto tutti i partecipanti al congresso (guarda il video qui sotto).
Il pomeriggio è stato scandito da brevi ma interessantissime testimonianze di diversi operatori che utilizzano la musica nei propri contesti clinici.
Lo psichiatra padovano dr. Da Re ha presentato un’esperienza di un gruppo di ascolto a orientamento psicodinamico nell’ambito di un Day Hospital per pazienti subacuti.
L’educatrice professionale e musicoterapista Simonetta Benetton ha presentato l’utilizzo della musicoterapia come strumento di comunicazione, integrazione e riabilitazione per i pazienti psichiatrici nell’ambito del Centro Diurno di Campodarsego (PD).
La psicologa e musicista Cristina Roveran ha illustrato l’esperienza del gruppo Collincanto, nato sempre nell’ambito della riabilitazione psichiatrica padovana, che è composto da una sezione corale e una strumentale per un totale di circa 25 elementi. Collincanto non è un coro ma un gruppo musicale-laboratoriale; sceglie in maniera “corale” i brani da mettere a repertorio facendosi guidare esclusivamente delle emozioni suscitate e dai ricordi e vissuti che ogni singola canzone muove dentro ciascun componente del gruppo.
La psicologa Dr.ssa Crivellin ha invece presentato l’esperienza di canto corale con il gruppo Armonicamente, che si è esibito in diversi contesti e rassegne, soprattutto legate al mondo del sociale.
Molto interessante anche l’esperienza presentata dalla psicologa Dr.ssa Costantini, che ha mostrato un videoclip musicale interamente girato da utenti di un centro diurno veneziano, con protagonisti gli stessi utenti che cantano una canzone da loro composta.
Last but not least, noi psicantrici abbiamo suonato quattro canzoni della Psicantria in un silenzio irreale e congressuale e abbiamo presentato l’esperienza della psichiatric band Solarium della Residenza psichiatrica Il Borgo e il gruppo di ascolto di canzoni d’autore presso un reparto dell’Ospedale Privato Villa Igea.
La condivisione rafforza i legami sociali, accresce le nostre conoscenze sul mondo e, fattore forse più importante, elicita il feedback degli altri, permettendoci in qualche modo di vedere e conoscere meglio parti di noi stessi.
Cosa hanno in comune l’uso di Facebook, il cibo e l’attività sessuale? Sembrerà strano, ma tutte e tre queste attività coinvolgono le stesse aree del cervello, quelle legate al senso di gratificazione.
Diversi studi hanno dimostrato che il 30-40% delle conversazioni umane ha come scopo principale quello di fornire agli altri informazioni su di sé o condividere esperienze vissute personalmente (Dunbar, Marriott & Duncan, 1997; Landis & Burtt, 1924). Le ricerche condotte recentemente riguardo all’uso di internet indicano che ben l’80% dei nostri aggiornamenti di stato su Facebook o Twitter consistono in esperienze personali appena vissute (Naaman, Boase, & Lai, 2010).
Questo tasso così alto di “apertura agli altri” (self-disclosure), tipico della nostra specie, deriverebbe da una motivazione molto forte negli esseri umani a condividere i propri pensieri e convinzioni sul mondo: il motivo di questa spinta alla condivisione è che questa viene da noi esperita come una potente fonte di gratificazione personale. In altre parole, raccontiamo volentieri qualcosa di noi perché questo, in qualche modo, ci soddisfa (Tamir & Mitchell, 2012).
Nei decenni precedenti, studi di neuroimaging hanno evidenziato i circuiti cerebrali connessi proprio a questo senso di gratificazione. Sia negli animali sia negli umani il sistema mesolimbico dopaminergico – che include il nucleus accubens (NAcc) e l’area tegmentale ventrale (VTA) – risponde fortemente a stimoli gratificanti primari, come il cibo o il sesso (Hernandez, & Hoebel, 1988), a stimoli secondari, come il denaro (Schott et al., 2008) e persino a gratificazioni sociali come l’osservare come gli altri condividano le loro opinioni, l’esperire l’humor, o ricevere lo sguardo interessato di un membro del sesso opposto (Sabatinelli, Bradley, Lang, Costa, & Versace, 2007; Aharon et al., 2001).
Tamir e Mitchell, del dipartimento di psicologia di Harvard, hanno condotto una serie di studi, combinando tecniche di neuroimaging e metodi comportamentali al fine di testare l’ipotesi che le stesse aree cerebrali componenti il circuito della gratificazione fossero coinvolte anche nel processo di self-disclosure.
Tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI) veniva analizzata l’attività cerebrale dei partecipanti allo studio durante due fasi: una prima fase in cui veniva chiesto ai soggetti di rivelare le proprie opinioni e i propri pensieri agli altri, ed una seconda fase in cui si chiedeva invece di speculare su ipotetiche opinioni o pensieri di un’altra persona.
Gli autori hanno inoltre elaborato un metodo “comportamentale” per rilevare il valore dato dai soggetti all’opportunità di parlare di sé: hanno sviluppato un questionario composto da domande suddivise in tre classi (domande “self”, “others” e “facts”). Ad ogni domanda è stato associato un piccolo guadagno in denaro (variabile da $ 0.01 a $0.04) che i partecipanti ricevevano alla fine dell’esperimento. Le domande di tipo “self” venivano associate ad un guadagno minore. Basandosi sull’ipotesi che dare informazioni personali fosse intrinsecamente gratificante, gli autori si aspettavano che i soggetti fossero disposti a rinunciare a somme di denaro maggiori per rispondere a domande su di sé (es. “Quanto ti piacciono gli sport invernali, come lo sci?”) rispetto che per rispondere a domande “others” (es. “Quanto pensi che a Barack Obama piacciano gli sport invernali, come lo sci?”) e a domande “facts” (es. “Leonardo Da Vinci ha dipinto la Mona Lisa?”).
Gli autori hanno così scoperto che non solo parlare di sé attivava il NAcc bilaterale e la VTA in modo molto più marcato rispetto al parlare di altri, ma anche che i soggetti erano disposti a rinunciare al 17% del guadagno che potevano ottenere per rispondere a domande relative a se stessi.
Il risultato forse più interessante è che il solo pensare introspettivamente a sé stessi era sufficiente a far provare ai soggetti un senso di gratificazione e ad attivare il loro sistema mesolimbico dopaminergico. Tuttavia, il comunicare agli altri i propri pensieri piuttosto che il tenerli per sé ne magnificava l’attivazione. In altre parole, condividere pensieri ed esperienze con gli altri è per noi tanto importante quanto gratificante, molto più di quanto non accada quando, per motivi di varia natura, non abbiamo l’opportunità di farlo. E questo non dovrebbe sorprendere, dal momento che la condivisione rafforza i legami sociali (Dindia, 2000; Collins & Miller, 1994), accresce le nostre conoscenze sul mondo e, fattore forse più importante, elicita il feedback degli altri, permettendoci in qualche modo di vedere e conoscere meglio parti di noi stessi.
Dindia, K. (2000). Sex differences in self-disclosure, reciprocity of self-disclosure, and self-disclosure and liking: Three meta-analyses reviewed. Balancing the Secrets of Private Disclosures, ed Petronio S (Lawrence Erlbaum Associates, Mahwah, NJ), pp. 21–36.
Landis, M. H., & Burtt, H. E. (1924). A study of conversations. Journal of arative Psychology, 4, 81–89.
Naaman, M., Boase, J., & Lai, C. H. (2010). Is it really about me?: Message content in social awareness streams. Proceedings of the 2010 ACM Conference on Computer Supported Cooperative Work (Association for Computing Machinery), Savannah, GA, pp. 189–192.
È in press sul Journal of Cognitive Psychology, un articolo di Gangemi, Mancini e Johnson Laird dal titolo Models and cognitive change in psychopathology. L’articolo è scaricabile dal sito APC.
I risultati dei tre esperimenti presentati nell’articolo modificano profondamente la concezione tradizionale dei rapporti tra emozioni, psicopatologia e ragionamento formale. Per illustrarli è opportuno, innanzitutto, chiarire la differenza fra razionalità formale e razionalità pratica. Credere nella esistenza di Dio è formalmente razionale se il bilancio degli argomenti e delle prove di cui si dispone sostengono la verità della affermazione “Dio esiste”. Credere nell’esistenza di Dio è razionale in senso pratico, invece, se è nel proprio interesse complessivo crederci. Come noto, ad esempio Pascal riconosceva l’irrazionalità formale della credenza in Dio ma sosteneva che è razionale in senso pratico crederci, infatti, l’errore di non credere in Dio, se Dio esiste davvero, è ben più costoso che l’errore inverso, ci si rimette la beatitudine eterna.
In secondo luogo è opportuno ricordare che la psicopatologia, o meglio larga parte di essa è caratterizzata da un mal adattamento che persiste nonostante che per il paziente sia vantaggioso e possibile cambiare. La psicopatologia, dunque, offre esempi evidenti di irrazionalità pratica.
Nella nostra cultura da Aristotele e Platone, fino all’attuale cognitivismo clinico, si ritiene che la irrazionalità pratica dipenda da irrazionalità formali. L’idea condivisa, anche dal senso comune, è che se si ragionasse in modo formalmente corretto, cioè rispettando la logica, non ci sarebbero irrazionalità pratiche.
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Da ciò deriva la domanda: perché gli esseri umani non rispettano la logica?La spiegazione tradizionale, da Aristotele e Platone in poi fino al senso comune attuale, fa riferimento all’intervento delle emozioni e delle passioni che disturberebbero il corretto funzionamento della ragione.
Il cognitivismo clinico suggerisce una risposta diversa, articolata in quattro punti:
Come dimostrato dalla psicologia generale, il ragionamento tende ad essere confirmatorio delle premesse da cui parte, il ben noto bias confirmatorio;
La tendenza alla conferma aumenta quanto più le premesse, vale a dire le credenze dell’individuo, sono per lui credibili e monolitiche, cioè non ha a disposizione credenze alternative;
Di conseguenza, quanto maggiore è la credibilità soggettiva e il monolitismo delle credenze tanto più ci si allontana dal rispetto della logica;
Di conseguenza più facilmente si persiste in condotte, reazioni emotive e linee di pensiero disfunzionali, cioè irrazionali in senso pratico
Il cognitivismo clinico condivide, con la visione Aristotelica e Platonica, l’idea che la irrazionalità pratica dipenda dalla irrazionalità formale, ma se ne differenzia perché ritiene che la irrazionalità formale dipenda da fattori strettamente cognitivi.
Che cosa dicono in proposito i risultati di Gangemi e colleghi?
Innanzitutto, le persone affette da depressione e da disturbi d’ansia, nel dominio sintomatico, compiono meno errori logici di quanto fanno loro stessi in altri domini e di soggetti non clinici. I risultati di Gangemi e colleghi dicono anche che nei pazienti affetti da disturbi dell’umore e d’ansia, il ragionamento, anche quando è formalmente corretto, tende a privilegiare conclusioni che confermano le credenze disfunzionali alla base dei sintomi e dunque contribuisce alla persistenza del mal adattamento, cioè alla irrazionalità pratica.
Una prima interessante conclusione, dunque, è che la razionalità formale può implicare irrazionalità pratica. Viene meno l’assunto tradizionale per il quale la irrazionalità pratica sarebbe riconducibile alla irrazionalità formale.
In altri esperimenti pubblicati in Johnson Laird, Mancini & Gangemi (2006) si è dimostrato che le emozioni facilitano la razionalità formale del pensiero, se il contenuto del ragionamento è congruo con il dominio intenzionale della emozione, come accade in psicopatologia.
Una seconda conclusione, dunque, è che emozione e ragione non sono necessariamente in conflitto ma addirittura l’emozione può migliorare le capacità logiche. Viene meno l’assunto tradizionale per il quale la fonte della irrazionalità formale sarebbero le emozioni.
I risultati di Gangemi e colleghi dimostrano un altro punto, interessante per i cognitivisti: il ragionamento che riguarda i domini sintomatici è confirmatorio delle credenze disfunzionali ma non per rispetto del confirmation bias. Non è quindi la coerenza dei significati a regolare i processi cognitivi e a rendere conto del mal adattamento psicopatologico e quindi della irrazionalità pratica.
Perché i pazienti compiono meno errori logici nel dominio sintomatico, di quanto facciano loro stessi in altri domini e i soggetti non clinici?
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Per la risposta è opportuna una premessa. Gli errori logici dipendono da una rappresentazione incompleta delle premesse. Più si è esperti di un dominio, più, invece, si riesce ad avere una rappresentazione completa delle premesse. I pazienti, con gli anni, diventano esperti del loro dominio problematico, di conseguenza riescono ad averne una rappresentazione più articolata e completa e perciò compiono meno errori logici. Ad esempio, immaginiamo un fobico sociale e una persona senza particolari timidezze. Il primo, per definizione, è molto preoccupato di fare brutte figure, dunque dedica grande attenzione ai modi con cui ciò può realizzarsi, diventerà quindi un esperto in materia e di conseguenza farà meno errori logici quando ragionerà sulle possibilità di fare brutte figure. Tuttavia ciò non gli impedirà di confermare le sue aspettative negative e continuare ad essere irrazionale in senso pratico cioè a mantenere un timore doloroso, costoso e non necessario. Il pensiero del fobico sociale, come degli altri pazienti, dunque, è orientato in senso confirmatorio sia se è formalmente razionale sia se è formalmente irrazionale. I risultati di Gangemi e colleghi ci dicono anche che la tendenza confirmatoria delle sue aspettative di brutta figura non dipende dall’alta credibilità ma da ragioni prudenziali.
Dalla psicologia cognitiva sappiamo che il pensiero è al servizio degli scopi dell’individuo ed è specificatamente orientato in senso prudenziale, cioè in modo da minimizzare il rischio di errori cruciali. Per i pazienti, nel dominio sintomatico, il costo di abbandonare erroneamente una credenza di pericolo è assai elevato, e per questo motivo il pensiero è orientato in senso confirmatorio, anche al costo di produrre effetti irrazionali da un punto di vista pratico.
Che si nasca nel centro dell’Africa subsahariana o nel cuore della City di Londra. Che si venga al mondo nel tepore di una clinica a cinque stelle con il sorriso del personale ben addestrato o con l’aiuto dell’anziana levatrice del paese di montagna che accorre la notte tra la neve, gli umani hanno affinato nel tempo di permanenza della specie sulla terra delle strategie efficacissime per farsi del male. Quantunque non consapevolmente ed anzi dichiarando esattamente l’opposto e cioè di cercare il proprio benessere.
In questo saggio sulla sofferologia generale (non so come chiamare una scienza che si occupi del dolore, ma questo termine non mi soddisfa affatto) proverò a descrivere i meccanismi più diffusi con cui l’obiettivo dichiarato di star bene e l’effetto di soffrire vengono perseguiti e il secondo sistematicamente raggiunto.
IL SENNO DI POI – Già sbagliare una scelta e perdere la posta in palio è motivo di rincrescimento in sè, ma si può fare molto di più rimproverandosi per essere stati degli stupidi, dei cattivi sceglitori, non tenendo conto che al momento della scelta non si avevano tutti i dati che si hanno in seguito e quindi un conto è che si è fallito rispetto all’obiettivo, altro che si è scelto malamente. Dopo la scelta, inoltre, non si tiene più conto dei criteri che avevano fatto preferire l’opzione A e scartare la B e dati per acquisiti i vantaggi di A ci si sofferma solo sui suoi difetti. Si era scelta l’alternativa con più pro rispetto ai contro ma, subito dopo i pro divengono acquisiti, scontati e si fa caso solo ai contro. In realtà si parte dal presupposto che una delle due opzioni sia perfetta e non semplicemente migliore dell’altra. Naturalmente se così davvero fosse non si tratterebbe neppure di una scelta: non c’è scelta tra una notte con la propria amata in un letto morbido e una notte dispersi nella neve sotto il fuoco dell’artiglieria nemica. La scelta si da tra due opzioni simili: una notte con l’amata o una festa tra amici e allegre signorine. Oppure la guerra di trincea sul Carso o la vita del sommergibilista.
Il risultato è che nell’inutile tentativo di fare scelte perfette gli uomini si macerano nell’indecisione e se la prendono con se stessi per errori che non hanno commesso e se aver perso la bambola premio è sgradevole, ancor peggio è ritenere che ciò sia accaduto per la propria dabbenaggine.
PORTAFOGLIO STRETTO – Non si intende in questa sede l’avarizia, che pure tanta tristezza e meschinità genera, quanto piuttosto il fare investimenti in un numero di campi risicato. Poiché il possibile fallimento in un settore è sempre in agguato e mai escludibile con certezza, è chiaro che maggiori saranno gli ambiti cui si da importanza e minore sarà il riverbero di un singolo insuccesso sull’assetto generale. Chi punta solo sull’amorerischia di affondare insieme al suo matrimonio che naufraga. Chi si identifica con il suo lavoro può fallire insieme alla sua attività. Quando la posta in palio è puntata tutta su un solo cavallo c’è costantemente ansia nel timore del possibile insuccesso e disperazione dopo che è avvenuto. La regola base degli economisti che suggerisce di differenziare gli investimenti dovrebbe essere sempre seguita.
HIC SUNT LEONES – Un altro modo per rendersi difficile il cammino dell’esistenza è di decretare assolutamente impraticabili certe zone. Mai da solo. Tutto piuttosto che omosessuale. Meglio morire che trasgredire una regola. Impensabile che qualcuno non sia contento di me.
Attenzione non si tratta di preferenze espresse in positivo che costituirebbero delle linee guida esistenziali, ma di divieti di “essere”, spesso di origine familiare o culturale. I tanti divieti finiscono per essere confinanti e il cammino diventa uno slalom tra paletti strettissimi, sempre con il terrore addosso di sconfinare in un’area proibita.
Il vero guaio che ciò comporta è la vita sacrificata come un piede in una scarpa troppo stretta che organizza un’esistenza di evitamenti e fughe. Una vita in difesa e la sorpresa e il rimpianto quando si scopre, finiti inavvertitamente in una zona proibita, che non succede proprio nulla e si è fuggiti inutilmente dimenticandosi di vivere per salvare la pelle. Si poteva allungare la mano e cogliere il frutto proibito senza alcuna cacciata, ma si è stati obbedienti. A chi poi?
NON CAMBIARE SCENARIO – Il tempo passa e con esso le situazioni cambiano. Non sempre ci si avvede di ciò e ci si continua a comportare come se il tempo si fosse arenato sulla sabbia dell’esistenza. Ma ciò che era utile e funzionava un tempo diventa dannoso, pesante, inutile. La stampella indispensabile per compiere i primi passi diventa un ostacolo per la piena ripresa e induce ad un andatura claudicante. Un bimbo deve ad ogni costo avere l’amore dei genitori per sopravvivere e per ottenerlo è disposto a tutto. Una volta cresciuto può continuare a ritenere indispensabile che tutti lo amino e sentire come una tragedia se ciò non avviene. Ciò complicherà enormemente le sue relazioni con i vicini di casa, i colleghi di lavoro, i fornitori, gli operai che prestano servizi a lui e il suo capo.
Persino se fosse la sua ragazza a lasciarlo improvvisamente la tragedia definitiva che fantastica sarebbe infondata. Non è più il bimbetto di tre anni che vede allontanarsi la mamma e si sente sperduto in un mondo estraneo che non domina e lo sovrasta. Non è Pollicino, né Hans e Gretel e intorno non c’è un bosco fitto e oscuro. Se si guardasse allo specchio vedrebbe un ingegnere trentacinquenne, solido, robusto, benestante e piuttosto bello. La perdita della ragazza, seppure spiacevole non è la tragedia ed anzi può aprire scenari nuovi ed interessanti. Intorno non c’è il bosco pieno di oscuri pericoli ma un brulicare di relazioni possibili a rincorrersi tra i fusti degli alberi. Comunque anche restare soli sdraiati sullo spiazzo erboso circondato di felci non sarebbe poi tanto male.
MIOPIA – Che sia meglio l’uovo oggi… è una diceria messa in giro dalle galline ma profondamente attecchita nell’animo umano.
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Così non si ha difficoltà a fare i conti a brevissimo termine cercando un profitto immediato mentre non si considera il costo complessivo di un’operazione che si prolunga nel tempo. Certo se non si prende l’aereo oggi non ci sarà sul giornale di domani il nostro ricordo da parte di parenti e amici colpiti dall’immane tragedia. Ma questo varrà anche per dopodomani e per ogni giorno successivo. Dunque sull’altro piatto della bilancia si affastellano via via, le vacanze in Asia, gli enormi affari nel sud dell’Africa e gli amori travolgenti dell’America Latina. Non perire in un incidente aereo ha un costo ben più alto che rinunciare al volo per Milano oggi preferendo il più sicuro Eurostar. Per non parlare del fatto che a ben guardare anche il treno ha i suoi rischi e l’auto è il mezzo più pericoloso che ci sia.
A ben vedere lo stesso uscire di casa ci mette in pericolo e i terremoti ci assediano anche sotto le coperte del nostro letto. Qualsiasi rischio non si accetti di correre ci costruisce intorno una prigione che spesso, seppur dilazionata e mutuabile costa molto di più della posta in palio. Vivere è un mestiere pericoloso e la vita stessa è una malattia sessualmente trasmessa ad esito infausto. Ma l’alternativa è non vivere. Si tenga poi conto che proprio le strategie preventive causano talvolta ciò che si vuole evitare secondo la regola delle profezie che si autoavverano. La signora gelosissima che per non perdere il marito lo controlla costantemente viene mollata proprio perchè soffocante.
RIMUGINARE – E’ normale pensare alle cose a cui teniamo e cercare di indirizzare gli eventi a favore dei nostri obiettivi ma spesso questo pensare non è altro che un avvoltolarsi di immagini e frasi smozzicate che non produce strategie di azione ma semplicemente una lamentela interiore senza scopo. Questo rotolarsi delle idee perfora la mente, gruvierizza l’anima e si ripete senza sosta. Il mostro viene rappresentato nel momento che ci aggredisce ma non per ipotizzare una difesa, per valutarne i punti deboli.
Si immagina il suo dilaniarci e poi sgomenti si ricomincia da capo. Eccolo laggiù in lontananza che si avvicina e ride della nostra paralisi. E’ a pochi passi. Alza gli artigli e ci dilania di nuovo.
PASSI LUNGHI E GAMBE CORTE – Uno dei modi più utilizzati per farsi del male è porsi degli obiettivi irraggiungibili. Non si pensi soltanto all’ambizione, non si immagini la competizione carrieristica di giovani manager rampanti. Lo può fare agevolmente il giovane tabaccaio del paesino di montagna che nelle mattine gelide di Gennaio lascia correre la fantasia dietro alla signora dagli occhi tristi che viene dalla frazione lontana a comprare i quaderni per il figlio che inizia le medie.
Lo facciamo quasi tutti quando non vogliamo lasciar andare via per sempre nella terra smossa i rimasugli corporei di chi abbiamo amato e non vogliamo renderci conto che non c’è più ne mai più ci sarà. Che non esiste più la sua mente, i suoi ricordi e se dimenticheremo anche noi, nessuno saprà più. Come nulla fosse mai stato.
Spesso l’ardimento è esaltato, le sfide difficili encomiate. Si guarda con ammirazione a chi lancia il cuore oltre l’ostacolo. Ma se al di là c’è solo un muro su cui il muscolo pulsante si spiaccica e scivola colante fino a terra, sarebbe stato meglio evitare il lancio.
CONFERME – Quando ci sarebbero le premesse per cambiare idea a nostro favore e abbandonare visioni negative che ci fanno soffrire sembriamo sfoderare capacità insospettate per trovare conferme alle nostre idee. Se sono affezionato all’idea di essere un buono a nulla noterò, con una accuratezza da farmacista, l’urto durante il parcheggio, la dimenticanza di passare all’edicola per il gadget che mio figlio colleziona, la bolletta della luce fatta scadere. La sera poi in attesa del sonno ricorderò solo questi episodi che richiameranno l’interrogazione di latino del terzo liceo quando presi 4 meno meno, la gaffe alla festa di laurea della Martina con la torta rovesciata per terra e nei dettagli tutti i concorsi persi e i libri rifiutati dagli editori. Tutto ciò che è contrario al paradigma del “buono a nulla” non viene notato, sminuito, giustificato altrimenti, dimenticato.
Gli amori avuti sono stati dovuti alla pena suscitata. I concorsi vinti alle raccomandazioni. I libri pubblicati a disattenzione dei selezionatori. Se anche una notte mi dovessero chiamare da Stoccolma per un premio che necessita dello smoking per il ritiro sarebbe certamente dovuto a Marte nel mio segno. La convinzione di essere un buono a nulla è protetta e coltivata come una piantina di marijuana sul balconcino di una giovane coppia di punkabbestia.
LA BASE LINE – Non si è felici o infelici in assoluto ci vuole un termine di confronto.
Immaginate un signore con metastasi ossee diffuse dolorosissime. Chi sta peggio di lui? Un signore con la stessa situazione ed anche un erpes zoster oculare. Ma quest’ultimo sta un fiore rispetto ad uno come lui cui il giorno prima è morto un figlio. Come stiamo può essere valutato solo con un termine di paragone. Questi riferimenti possono essere di due tipi: sincronici e diacronici. Nel primo caso il raffronto sono gli altri, i nostri vicini. Sta meglio soggettivamente chi guadagna 100 € in una comunità dove il guadagno medio è di 70€ che chi ne guadagna 10 mila in una comunità in cui il guadagno medio è di 15 mila. La follia sta nel fatto che più uno sta bene più si va a collocare in ambienti superiori in cui la sua posizione relativa scende in basso. Nel criterio diacronico il raffronto avviene con se stessi nel tempo. Per cui sta molto meglio chi è passato da 70€ a 100€ da colui che è passato da 15 mila a 10 mila. L’esempio sul reddito è stato scelto solo per la facilità di esprimerlo numericamente ma il concetto si applica a tutto: affetti, salute e a tutte le cose cui teniamo. Quando usiamo il concetto diacronico possiamo abilmente farci del male con quella deformazione mnesica che ci porta a ricordare del passato solo gli aspetti più piacevoli. Se non vi ricordate perchè vi siete lasciati con quella meravigliosa ragazza che amavate tanto, provate a uscirci di nuovo una sera e vi sarà tutto chiaro. Inoltre il confronto diacronico è viziato dal fatto che nel passato si era più giovani e dunque tutto andava necessariamente meglio o lo si affrontava meglio.
Insomma i confronti diacronici e sincronici per stabilire il nostro grado di soddisfazione li facciamo in modo da danneggiarci sistematicamente.
IERI E DOMANI – Il solo tempo che esiste è il presente ma su di esso si concentrano poco le nostre attenzioni. Siamo preoccupati per costruire un futuro splendido ed accumuliamo sacrifici e rinunce certe nel qui ed ora in vista di un’alba futura luminosa che spesso non arriva mai. Una vita passata a mangiare uova per salvaguardare la gallina per il domani e che non si assaggerà mai. Una vita passata a lavorare per il traguardo della pensione e poi l’infarto dopo la cena di addio con i colleghi.
Il Rimandare il godimento ci viene insegnato da piccoli “prima il dovere e poi il piacere”, “lasciati la cosa migliore per ultima così ti rifai la bocca” e intanto fatica e schifezze.
Quando non ci perdiamo con lo sguardo in un futuro che siamo certi, senza averne prova, nasconda il sole dietro la nebbia, possiamo rivolgerci al passato come all’età dell’oro, al tempo della spensieratezza, della vita piena. Quanto siano felici i bambini lo prova il tempo che passano a piangere. Certo lo fanno spesso per cose che a noi appaiono futili ma che sono tali solo ai nostri occhi. La disperazione assoluta per aver perduto il pallone di cuoio nella scarpata non è meno legittima della sofferenza per aver perduto il posto di lavoro o un appalto vantaggioso. Il timore per l’interrogazione su Foscolo è lo stesso del terrore che la propria tesi sia demolita al convegno internazionale cui si è lavorato per un anno. Le prime cotte e gli amori adolescienziali sono più drammatici e violenti dei divorzi e dei lutti adulti. In sintesi il passato è stato doloroso, il futuro probabilmente lo sarà e noi stiamo in un tempo presente che trascuriamo.
GLI ESAMI – Il diritto ad esistere ci è stato conferito dalla libidinosa passione di mamma e papà. Molti pensano invece di doverselo continuamente conquistare e stanno sempre a esaminarsi e a darsi dei voti ed in genere la promozione definitiva non arriva mai. Quando va bene si rimandano agli esami di riparazione.
La materia può essere diversa da una persona all’altra. Chi si presenta in bontà e disponibilità, chi sceglie bellezza e avvenenza. Altri portano all’esame forza e decisione. Chi si prepara in cultura e competenza può avvalersi della scuola. Ognuno fa le proprie scelte anche se spesso la materia è suggerita o imposta dalla famiglia d’origine perchè anche nonno ci teneva tanto…
Al di là delle diverse materie che siano sesso estremo e spregiudicatezza comparata o santità con elementi di ascesi, ciò che è identico è il meccanismo.
Il diritto ad esistere non è acquisito una volta per tutte ma con piccole comode rate di impegno. La partita non finisce mai neppure di fronte alla morte. Con la oscura signora già seduta sull’estremo letto ci si preoccuperà a seconda della materia. Dire qualcosa per consolare gli altri. Non mostrare timori e apparire forte e sprezzante come sempre. Essere ben curati, puliti e in un certo qual modo eleganti e belli. Dare consigli e insegnamenti. Ammiccare al Padreterno in attesa o alla carnosa realtà che si abbandona. Se l’ultimo esame va bene si può finalmente ottenere il diritto ad esistere morendo bene.
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SENTIRSI UNICI – Molti si chiedono. “Come è possibile che tutti per strada siano sereni e felici ed io invece porto dentro questo mostro divorante?”
Naturalmente questo modo di sentirsi ancora più soli e sfigati è evidentemente frutto di un errore di prospettiva. Ciascuno vede dal di dentro solo sé stesso, mentre degli altri vede la preziosa confezione esterna, il fiocco arricciato e la carta sgargiante.
Le persone che incontriamo per strada non sputano fiamme, non caricano la pistola puntata alla tempia, non annodano la corda insaponata, ma del loro animo che ne sappiamo? Cosa conosciamo del bambino malato? Le metastasi materne, la cassa integrazione, la compagna copulante con l’amico più caro non sono pesciolini guizzanti in una boccia di vetro, non si vedono. L’anima non è trasparente. Del resto anche noi appariamo agli altri come viandanti tranquilli e forse persino soddisfatti. Fate un buchino in quelle splendide apparenze e vedrete cosa colerà fuori. L’umanità ci accomuna tutti. La scelta è tra straordinari e unici, ma soli. Oppure umanamente sfigati, ma come tutti gli altri.
SI PUO’ FARE DI PIU’ – Questa affermazione ovvia perchè a qualsiasi quantità data si può aggiungere una ulteriore unità come in una serie matematica tendente all’infinito, può diventare uno strumento di sofisticata tortura. Si insinua nella mente quando tornando a casa con un 7 nella versione di latino ti smorzano il sorriso con un complimento che è insieme un rimprovero “uno come te può fare molto di più” progressivamente il “può si trasforma in un “deve” e, ciò che è peggio, te ne convinci tu stesso. Anzi il successo parziale è merito del talento che ti ha dato la natura e, nello specifico, di chi ti ha trasmesso i geni, quindi capisci che la parte del complimento è in realtà per loro. Il rimprovero invece è tutto per te che non fai fruttare il talento come dovrebbe. Questo tarlo del miglioramento del record personale ti fa rivisitare mentalmente le tue prestazioni per repertare tutte le incertezze, gli inciampi, i balbettii che dovranno essere eliminati la prossima volta per fare quell’indefinito di più. E infatti questo accade. Hai fatto effettivamente meglio. Questa è la prova certa che non ti impegnavi abbastanza e che è nelle tue possibilità fare di più. Il processo può ricominciare daccapo. Ogni successo è paradossalmente dimostrazione della tua colpa e innesco di una nuova ansia per una gara con te stesso che ti vede ogni volta vincente e sconfitto dal tuo te successivo.
PRENDERSI SUL SERIO – Quasi tutti vivono con una colonna sonora in mente che scandisce la cadenza dei gesti e spesso si guardano dal di fuori pensando all’effetto che fanno su un pubblico che non c’è o è distratto, ciascuno all’osservazione di sé stesso. Questo è pressochè normale e genera al massimo qualche sequenza al rallentatore. Il guaio si ha quando si pensa di recitare su un palcoscenico cosmico e definitivo. Quando si ritiene che la propria esistenza avrà conseguenze decisive. Gli errori saranno ricordati per generazioni che ne porteranno le dolorose conseguenze. I successi lasceranno segni indelebili nell’evoluzione umana e il proprio nome resterà indelebile negli annali. La colonna sonora in un caso e nell’altro è grandiosa. Drammatica o trionfale che sia. In verità meglio si adatterebbe all’esistenza un motivetto leggero da commedia che ricordi quanto tutto sia transitorio, ininfluente, senza conseguenze, obliato. Già abbiamo mal tollerato l’idea che la terra non fosse al centro dell’universo. Questo fu il vero peccato di Galileo. Come fare a tollerare di non essere noi il centro del mondo. Guadagnarne in leggerezza perdendo di importanza? Non è un cambio cui molti sono disposti.
Se potessimo vedere le feste che seguiranno nel tempo alla nostra dipartita. Se vedessimo amici, figli e vedove ballare, inseguire i cotillons più belli e svuotare i calici frizzanti capiremmo non solo che “tutti sono utili ma nessuno è indispensabile” ma che la maggior parte non sono neppure utili e lo show va avanti come e meglio di prima. Capito questo si potrebbe incominciare ad accennare passi di danza sul motivetto della commedia senza prendersi troppo sul serio.
LA CERTEZZA DEL DIAVOLO – Quello che costò ad Adamo ed Eva lo sfratto dall’Eden e fece la fortuna dei sindacalisti e dell’epidurale fu il tentativo di attingere all’albero della conoscenza. Nella smania di conoscere sta ancora il segno della tentazione per eccellenza, quella di sostituirsi a Dio stesso che è si buono e caro ma su queste faccende di lesa maestà mostra tutto il suo caratteraccio rancoroso e vendicativo.
Tra le circonvoluzioni dei lobi frontali che sembrano eccitarsi durante le rimuginazioni ossessive ancora si annida il demoniaco serpentello che ci dice di non accontentarci di essere abbastanza sicuri, ogni oltre ragionevole dubbio, ma di sforzarci di raggiungere la certezza assoluta. Accontentarsi di qualcosa di meno su una questione così importante non solo è imprudente ma anche colpevole. Ogni minuscolo dubbio deve essere fugato seppellito da una valanga di prove contrarie. Ma più la sabbia delle prove seppellisce il dubbio più inaspettatamente la sua punta fa capolino dal vertice del monte di sabbia. E’ piccolissimo d’accordo ma assolutamente inaccettabile. Forse nelle profondità degli inferi, negativo perfetto del paradiso alberga la certezza ma essa non è cittadina di questa terra e la sua ricerca è vana.
Ma il serpentello ci dice di cercare di dissolvere ogni ombra di dubbio. Sono escluse con certezza tutte le malattie? Siamo davvero sicuri che lei ci ami? Abbiamo fatto tutto quanto era in nostro potere? Poi il gioco prende la mano anche su questioni più periferiche. Mi sono comportato come si conviene? Sono ben pulito e inodore? La porta e il gas sono ben chiusi? Così alla ricerca della certezza assoluta ci costruiamo un pezzetto personale di inferno con la soddisfazione del padreterno ancora non pago di vendetta. Certo che nel suo caso non si può non parlare di eccesso di legittima difesa considerato che con la cacciata dall’Eden ci ha anche regalato l’unica cosa di cui, anche qui nella terra di mezzo, abbiamo certezza assoluta e che non serve ricordarvi.
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TRADIRE – E’ sotto gli occhi di tutti come gli umani siano disposti al tradimento. L’esempio più ricorrente riguarda i rapporti affettivi e sessuali. Dalla nascita alla tomba il flusso di affetto investe oggetti diversi e si sposta continuamente da uno all’altro nella illusoria convinzione di poter trovare un approdo definitivo e soddisfacente. Questa è una dinamica naturale ed evolutiva. Altrimenti saremmo tutti per sempre, appesi prima e chinati poi, sul seno di mamma. I rapporti che si concludono invece vengono spesso considerati fallimenti di cui rimproverarsi.
Un fallimento si ha quando una società si chiude e mancano i soldi quando invece di spartirsi gli utili i due soci debbono dividersi i debiti. Se più semplicemente si chiude per cessazione o cambio di attività non si può certo parlare di fallimento. Il vissuto doloroso del fallimento è solo il figlio dell’idea onnipotente del “per sempre” del “finchè morte non ci separi”. Con il paradosso che l’unico rapporto che non fallisce e quello in cui ci lasciamo le penne.
La storia dell’umanità ha fatto dei passi avanti ogni qualvolta qualcuno ha tradito la tradizione, ha messo un passo fuori dal solco. Sin da piccoli ci insegnano a guardare al penzolante Giuda con riprovazione ma non dobbiamo dimenticare che il tradito da Giuda aveva a sua volta tradito la consolidata tradizione da cui proveniva, ed anche lui fu condannato per questo a penzolare. Più in generale mi sembra che gli uomini si procurino sofferenza dal sapore della colpa e vissuti di indegnità, costringendosi ad una coerenza assoluta in termini ideali, affettivi, di gusti, che non ha ragion d’essere ed appare come l’esaltazione della staticità, mentre la vita è cambiamento.
Un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital e del Massachusetts Institute of Technology hanno indagato come il propofol, uno dei maggiori anestetici usati in medicina, conduca allo stato di incoscienza.
In questo studio è stata misurata l’attività delle reti neuronali in tre pazienti nel cui cervello erano precedentemente stati impiantati degli elettrodi per localizzare con precisione la lesione all’origine di una grave forma epilettica.
Durante la procedura di rimozione dei sensori veniva emesso periodicamente un suono ed ai soggetti era stato chiesto di premere un tasto ogni volta che lo sentivano.
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Il momento in cui ciascun paziente smetteva di rispondere allo stimolo sonoro rappresentava l’istante in cui il paziente perdeva coscienza.
I dati che sono stati ottenuti mostrano che dopo 30 secondi dalla perdita di coscienza, l’attività cerebrale complessiva diminuisce, in particolare l’attività elettrica comincia a mostrare oscillazioni regolari tra stati di attivazione e disattivazione. Questi periodi di attivazione e disattivazione avvengono in tempi diversi nelle differenti aree cerebrali, conducendo ad una compromissione della comunicazione tra esse. L’oscillazione evidenziata è riconducibile ad uno schema regolare ed è il segnale che indica il passaggio dallo stato di coscienza allo stato di incoscienza.
A validare l’ipotesi precedente, vi sono i dati ottenuti da un altro gruppo di ricercatori, diretti da Brian Pollard dell’Università di Manchester, che hanno effettuato un filmato in 3D delle modificazioni dell’attività di alcuni gruppi di neuroni che implicano la perdita di coscienza.
Il video è stato realizzato con una variante della tecnica di imaging della tomografia a impedenza eletrica (EIT), chiamata FEITER (functional electrical impedance tomography by evoked response), che permette la visualizzazione ad alta velocità e il monitoraggio in profondità dell’attività elettrica cerebrale.
In conclusione, la coscienza risulta quindi essere la manifestazione di una buona collaborazione tra i vari gruppi di neuroni cerebrali, che si modula in rapporto agli stimoli sensoriali che sono disponibili, ma anche alla crescita, umore, farmaci, ecc. L’anestesia generale inibisce la comunicazione tra le zone cerebrali, permettendo l’incoscienza.
Pim Cuijpers is Professor of Clinical Psychology at the Vrije Universitet in Amsterdam, and Head of the Department of Clinical Psychology. During his career, Prof. Cuijpers has published more than 450 peer-reviewed papers, chapters, reports and professional publications about prevention and psychological treatments of common mental disorders, especially depression and anxiety disorders. Much of his research is focused on the effectiveness of online psychotherapy and internet – based programs of prevention in the field of mental health. I asked him some questions about these issues, their feasible problems and developments.
Is online psychotherapy addressed to a particular target group (age, sex, scholarization, etc … )? Or, on the other hand, is there a target group for whom online psychotherapy is preferred?
Online therapies work just as good as other psychotherapies for common mental disorders. There is no reason to assume that they are less effective in depression, generalized anxiety disorder, panic, and social phobia. Many trials have shown that these online therapies work well. Whether or not people want to have Internet-based therapy mostly depends on the patients’ preference.
How can a psychologist be sure of his diagnosis in this kind of therapy?
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It is very well possible to do a telephone diagnostic interview if a therapist is not sure what the problem is. Furthermore, online assessment is also very well possible in most cases. In the Netherlands, many online clinics are active who use this kind of diagnostics.
Do you think that there are any problems for the working alliance?
This is complicated question. Research has shown that the working alliance is as good in online therapy than it is in ftf (face – to – face, ndr) therapy. Furthermore, the evidence that the working alliance is the essential part of therapy is not conclusive. In fact, we know very little about that. So, even when the working alliance would be worse, that would not be evidence that Internet-based therapy would be less effective.
Which are the most common hurdles during an online psychotherapy?
To keep people motivated. Because access is easy, people tend to drop out easier, for example when they feel better. But there are also methods to reduce drop-out (better arrangements about participation, etc)
Is there a disorder that you can define “ideal” to be treated with online psychotherapy?
Until now most research has been done with common mental disorders, such as depression, anxiety disorders, and substance-use disorders. But more and more pilot studies have focused on more complicated disorders, such as bipolar disorder, suicidality, psychotic disorders.
Are there any disorders that cannot be treated with this kind of support?
That is unknown. In fact, the internet is not more than one communication channel. It is not a goal or method in itself. It is used to apply a psychological treatment. Nothing more. In that sense I do not see any reason why disorders can not be treated through the internet.
You’ve worked on some programs for adolescents. What is, in your country, the normative for online psychotherapy with minors?
It is difficult to do research on online therapy with adolescents, because we need to have informed consent from the parents, and that is exactly what adolescents do not want (and why they participate in anonymous online treatment). So, in Holland we have online programs for adolescents, but it is almost impossible to examine them in research. We did a nice trial on an online chat-treatment for depression in adolescents and young adults which was found to be effective (in the young adults who participated).
What are future developments for online psychotherapy? Do you think that there are some areas not covered by this kind of support?
We are working hard to transform internet interventions to the mobile phone. This has the advantage that the sensors in smartphones can help in diagnosing the problem and developing personalized treatments. This will certainly change the field of internet-interventions but also the therapy field considerably in the next decade.
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What do you think about the development of online psychotherapy in Italy?
I do not know any researchers from Italy who are working with online interventions, and I do not know any Italian trials. If there are researchers, I would be happy if they would join the European Society for Research on Internet Interventions that was started this year. The next meeting will be later in 2013 in Sweden. Please come!
Do you think that, in the future, online psychotherapy could supersede the traditional therapy?
I think that the Internet will be part of giving people good help. Some things can be done completely online, others in part and some not at all. It is not a matter of choosing between one of the two. It is a matter of giving people who need treatment the best help there is, online or offline.
Il Complesso Monumentale di San Giovanni in Monte di Bologna apre le sue Aule agli esperti della salute mentale per un interessante confronto sul tema dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), in memoria del Prof. Maurizio Bellini, Direttore dell’Istituto di Psichiatria di Bologna e autore del volume dal quale l’evento prende il nome. L’organizzazione scientifica del convegno ha chiamato a partecipare il Prof. C. Fairburn, Direttore del Centro di Ricerca sui DCA presso l’Università di Oxford.
Il Professore ha presentato il suo modello transdiagnostico dei DCA, sottolineando come nella sua esperienza clinica e di ricerca non esistano della condizioni diagnostiche così chiaramente definite dal DSM IV, come la Bulimia Nervosa (BN), l’Anoressia Nervosa (AN) e il DCA-NAS, e come queste tendano invece ad avere elementi comuni identificabili in (1) condotte restrittive e/o compensative (2) alterazione dell’immagine corporea (3) presenza di abbuffate, soggettive e/o oggettive (4) fattori di rischio e di ricaduta comuni (5) età di esordio sovrapponibile.
La somiglianza di diversi fattori ha portato lo studioso inglese a considerare i DCA, come un’ unica condizione clinica “migrante” da stati in cui prevalgono le condotte restrittive a stati in cui prevalgono quelle espulsive, fatta eccezione per il Binge Eating Disorder (BED) che manterrebbe invece una sua indipendenza diagnostica.
Da questa concezione nascono gli studi condotti dal Professore sul trattamento Enhanced-Cognitive Behaviour Therapy (CBT-E), da lui stesso formulato, che deriva dal protocollo CBT standard per la BN, ormai largamente dimostrato efficace, e perfezionato grazie anche all’esperienza diretta dei pazienti “non responders” al fine di individuare un modello di intervento unico per la categoria trans-diagnostica da lui individuata (Fairburn 2010).
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Il primo studio presentato è stato condotto in due centri indipendenti (Fairburn 2009) su 154 pazienti con DCA e un BMI medio di 17.5. Il trial prevedeva l’erogazione del trattamento CBT-E in 20 sessioni per la durata di 20 settimane e un follow up a 60 settimane. Il trattamento è stato destinato a pazienti con BN e ED-NOS.
I risultati dello studio hanno dimostrato, in entrambi i centri coinvolti, un significativo miglioramento sintomatico alla fine del trattamento, dato che rimaneva stabile fino all’ultimo follow-up. Inoltre, i pazienti coinvolti rispondevano al trattamento allo stesso modo, a prescindere dalla categoria diagnostica. Il dato confermerebbe dunque (1) l’efficacia dell’intervento studiato e (2) una sostanziale sovrapponibilità della risposta nei pazienti con BN e ED-NOS, confermandone dunque la somiglianza diagnostica.
Ancora più sorprendentemente Fairburn ci presenta dei recentissimi dati di efficacia del modello CBT-E, ottenuti su pazienti con AN (Fairburn et al 2012). Lo studio multicentrico condotto in Inghilterra e in Italia su pazienti adulti con un BMI medio di 16 ha mostrato un miglioramento clinico significativo dopo 40 settimane di trattamento, con un buon mantenimento della remissione al follow up di 60 settimane, nel 60% del campione. Il dato è stato replicato con risultati sovrapponibili su una popolazione di adolescenti (Dalla Grave et al 2012).
Il Professore ha sottolineato la rilevanza scientifica dei dati, soprattutto per quanto riguarda l’AN, condizione diagnostica sulla quale ad oggi c’è una drammatica carenza di studi di efficacia su interventi specifici.
L’ultimo studio presentato da Fairburn e condotto recentemente a Copenhagen (Poulsen S., in press) su un campione clinico con DCA confronta il trattamento CBT fornito in 20 sessioni per la durata di 5 mesi e un trattamento di matrice psicoanalitica della durata di 2 anni. I risultati mostrano come il braccio al quale viene destinata la CBT vada incontro ad una remissione sintomatologica significativa entro i 5 mesi del trattamento, dato che si mantiene al follow up, condotto dopo 24 mesi dall’inizio dell’intervento. Nel gruppo di pazienti con Psicoterapia Psicoanalitica il miglioramento è notevolmente inferiore a quello ottenuto con la CBT, sia dopo 5 mesi, sia dopo 2 anni di intervento.
Lo studio anticipato dal Professore e non ancora disponibile in rete, rappresenterà una fonte preziosa, dove saranno messi a confronto i due interventi, per la prima volta con un certo rigore scientifico.
Gli applausi finali interrompono il silenzio con il quale la sala aveva ascoltato l’intervento.
Un sentito grazie al Prof. Fairburn per la ricchezza scientifica del suo contributo!
Il nostro stato emotivo influenza le nostre decisioni, anche in ambito finanziario. Una nuova ricerca condotta da un team di ricercatori della Harvard Kennedy School of Government e della Columbia University ha studiato in che modo l’impazienza causata dalla tristezza può produrre notevoli perdite finanziarie.
Utilizzando i dati raccolti dall’Harvard Decision Science Laboratory e dal Center for Decision Sciences at Columbia, gli autori hanno scoperto che l’emozione di tristezza, indotta dalla visione di un video, induceva i soggetti sperimentali a scelte finanziarie impazienti e miopi: i loro guadagni aumentavano nell’immediato ma diminuivano sul lungo periodo producendo una sostanziale perdita finanziaria.
Chi invece era stato assegnato alla visione di un video neutro non andava incontro alle stesse reazioni e i loro guadagni risultavano complessivamente maggiori. L’effetto osservato è attribuibile a quello che i ricercatori definiscono “bias del presente”, in cui le decisioni vengono prese per ottenere una gratificazione immediata, ignorando le possibilità di guadagno differite nel tempo.
Lerner e i suoi collaboratori sostengono che i risultati hanno implicazioni importanti per la progettazione di politiche pubbliche – in settori quali la gestione del patrimonio e i regolamenti della carta di credito. Secondo loro la progettazione e l’attuazione di politiche pubbliche dovrebbe essere basata sulla considerazione di tutta la gamma dei processi psicologici attraverso i quali vengono prese le decisioni; la comprensione di questi processi può anche aiutare a risolvere i problemi economici associati con la dipendenza crescente da carte di credito.
Lerner, J. S., Li, Y., & Weber, E.U. (2012). The Financial Costs of Sadness. Psychological Science. DOI:10.1177/0956797612450302.
Femminicidio, il Ruolo dell’Impulsività
L’informazione sui segnali di impulsività rabbiosa prima delle tragedie deve viaggiare insieme al discorso sociale e politico, completarlo renderlo pratico e concreto nella vita quotidiana delle donne e degli uomini.
Dall’inizio dell’anno sono morte 100 donne uccise da compagni, mariti, ex fidanzati o estranei. Le motivazioni sociali e politiche e storiche dell’emergenza femminicidio sono molte e variegate.
L’amore visto come possesso e la violenza contro le donne sono un vecchio tema al centro dell’attenzione della riflessione femminista, fin dal suffragettismo, durante il femminismo degli anni settanta e più che mai ora.
Molti sono i motivi sociali e storici di questa emergenza.
La crescita delle donne, la loro spinta all’autonomia economica e all’indipendenza, la crisi dei modelli tradizionali nelle società occidentali, il bisogno di due stipendi in famiglia che hanno portato molte donne a lavorare fuori casa, hanno reso sempre più discusso e meno condiviso il modello tradizionale di possesso e dedizione esclusiva alla famiglia.
La reclusione in casa, l’intenzione di possesso da parte dell’uomo, sono vissute dalla maggior parte delle donne come illegittime, pretestuose, assurde. Le donne si vedono come autonome, indipendenti e come persone con il diritto a scegliere e a vivere la vita che preferiscono e desiderano. Questo aumento di libertà porta anche aumento di libertà nelle relazioni affettive e sentimentali.
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Questo passaggio culturale, sociale e psicologico è in atto e spesso incontra ostacoli. Adattarsi a cambiamenti di questo tipo richiede tempo e non viene subito assorbito dalla società come un dato di fatto.
Nelle coppie dove non sia presente follia questi ostacoli divengono motivo di discussioni, approfondimenti, confronti anche serrati. Dove si va a vivere, dove lavora l’uomo? O dove lavora la donna? Chi sceglie i tempi della convivenza? Chi e perché lascia l’altro? Chi dedica più tempo alla casa? O ai figli? L’idea della parità a implicazioni nella quotidianità importanti e non tutte facili da gestire.
Se il sentimento presente nell’uomo è non solo amare qualcuno ma anche volere il suo bene, desiderare la sua felicità e soddisfazione oltre che la propria, si riescono a costruire punti di vista comuni, ciascuno cede, si confronta, cambia mutuando il cambiamento nella condivisione affettiva e del progetto di vita comune.
Ma se l’amore diviene volere l’altro come possesso e dominio esclusivo allora nascono problemi che in condizioni normali portano alla separazione; se c’è follia, invece, possono portare alla violenza e al femminicidio.
Nel femminicidio impulsivo, visto dal punto di vista degli psicoterapeuti, possiamo trovare alcune caratteristiche che andiamo a descrivere.
L’inizio è spesso il sentimento di minaccia di un uomo che si rende conto che la “sua” donna lo vuole abbandonare, vuole separarsi, vuole fare una vita indipendente, vuole vivere con un altro.
Arriva allora la disperazione, il senso della propria piccolezza, del fallimento, della solitudine. Un uomo sano è capace di accettare il tema doloroso della solitudine con consapevolezza e strazio, accettandone l’ineluttabilità e sentendosi capace di uscirne con il tempo e l’accettazione di ciò che è accaduto. Ma alcune persone non hanno questa capacità matura di accettare la sofferenza di una separazione. Per non entrare in contatto con queste emozioni tristi la cosa più facile è dare la colpa all’altro, alla sua crudeltà, alla sua ingiusta tendenza alla fuga, al tradimento. Se si è di fronte a un abbandono è più facile vedere la colpa nell’altro che vedere se stessi.
Arriva allora la rabbia, con emozioni violente e contrastanti di passione e di rabbia contro l’altro che fa male, trascura, si allontana. La rabbia è contro l’altro che si desidera avere vicino, possedere e che invece si muove in modo indipendente.
La rabbia è un’emozione importante, la sensazione di avere subito dall’altro un torto ingiusto. È un segnale emotivo che nelle comunità umane serve a segnalare che si deve fare i conti con un’ingiustizia, che si soffre, che si vorrebbe venisse riparato il danno subito. Ma è un’emozione forte che andrebbe governata, gestita in modo non cruento, messa al servizio della propria corteccia.
Ma le persone che hanno scatti di rabbia non sanno governarla, metterla al servizio di un discorso, ma sanno solo farla esplodere e gettarla sull’altro come violenza. Mentre picchiano o urlano o attaccano si sentono disperati e impotenti e spesso anche vittime.
L’impulsività e la rabbia sono collegate da un filo potente. Non esiste emozione rabbiosa disregolata che non abbia come esito comportamenti impulsivi. L’impulsività è il comportamento della rabbia. E qui accadono le tragedie.
Gli ingredienti sono quindi il senso di minaccia per la perdita di qualcosa che appartiene, la rabbia esplosiva e l’impulsività che trasforma la rabbia in comportamenti di attacco e di violenza espressa.
Ovviamente non tutte le crisi di rabbia generano femminicidi, possono generare schiaffi, spintoni, insulti urlati, oggetti gettati contro il muro. Ma quando ci si trova in questa area si è in ogni caso in un area pericolosa. Dove tutto può accadere. Dove una donna può morire perché uccisa consapevolmente in una crisi di rabbia incontrollata, o per sbaglio, perché ha sbattuto la testa contro il muro con una spinta troppo forte.
Ultimo ingrediente che non smetto di citare. Gli uomini sono più forti delle donne dal punto di vista dell’apparato muscolare. Accade ovviamente anche alle donne di arrabbiarsi ed essere impulsive ma è molto difficile e molto più raro che possano uccidere un uomo picchiandolo.
Che fare? Dal punto di vista sociale e politico dare voce al problema del femminicidio, renderlo un problema di cui non si possa fare a meno di occuparsi. Sensibilizzare gli uomini e renderli consapevoli e partecipi della tragedia che tocca tutti (noino.org)
Dal punto di vista psicologico per le donne la prevenzione non è tutto ma è moltissimo. Si deve insegnare alle donne a chiudere i rapporti con uomini che abbiano comportamenti violenti di qualsiasi tipo, i segnali devono essere colti prima che si trasformino in tragedie. Gettare un cellulare contro un muro è già un comportamento rabbioso disregolato e impulsivo che deve segnalare alla donna che vi è allarme rosso e che è ora di chiudere una storia che non può portare che a esiti dolorosi se non tragici.
Domenica Barbara Stefanelli si chiedeva sul Corriere della Sera: perché le donne continuano ad avere rapporti con uomini violenti? La sua risposta è: il rovesciamento estremo di un amore. “qualcosa esplode nella coppia e brucia l’amore, lo capovolge, lo profana fino all’estremo, rivela che la relazione non era fondata sulla meraviglia e sulla cura l’uno dell’altra, ma sulla costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna”. Questa risposta solo sociale però rimanda a troppo tardi le soluzioni.
Vogliamo dare un vero contributo da psicoterapeuti? Gli uomini violenti hanno disturbi di personalità che non impediscono di intendere e di volere ma che vanno individuati, diagnosticati, curati prima del danno fatale. I segnali di rabbia e impulsività ci sono anche prima, vanno colti, dalle famiglie, dalle ragazze, dalle famiglie delle future vittime, dalle persone che assistono agli scatti, dagli amici e dalle amiche. I maschi violenti hanno imparato a leggere la violenza in famiglie dove era presente dolore e violenza.
E le donne che stanno con uomini violenti? La responsabilità ha radici familiari. Le madri non devono considerare accettabile o tollerare la violenza in famiglia, gli insulti dei mariti, che le figlie imparano a considerare come eventi ineluttabili che è loro compito gestire, sopportare, accettare. Le ragazze che accettano uomini violenti sono spesso ragazze che hanno accettato e che hanno visto la violenza nelle loro vite, fin da piccole. Con genitori sofferenti, fragili, impulsivi, discontrollati.
L’informazione sui segnali di impulsività rabbiosa prima delle tragedie devono viaggiare insieme al discorso sociale e politico, completarlo renderlo pratico e concreto nella vita quotidiana delle donne e degli uomini.
100 Morte che non contano – Contro la violenza sulle donne
Plutchik, R., Van Praag, H. M.,Hollander, E. (1995) The nature of impulsivity: Definitions, ontology, genetics, and relations to aggression. In (Ed) Stein, Dan J. (Ed), Impulsivity and aggression. John Wiley & Sons,
Se prendiamo per buona l’affermazione che ciascuno di noi è vittima della propria mente, allora sarà molto meglio imparare, sin da ora e sin da subito, a vedere il famigerato bicchiere mezzo pieno.
Stando a Tali Sharot, neuroscienziata israeliana ricercatrice all’University College di Londra, infatti, una visione del mondo rosea e ottimista è l’arma in più che ci consente di vincere le sfide quotidiane. Ma, soprattutto, che ci può aiutare a guadagnare di più. Le ricerche condotte e analizzate dalla stessa Sharot sono riuscite a “quantificare” il valore aggiunto di un atteggiamento positivo nella vita quotidiana.
“Il livello di ottimismo di una persona al primo anno degli studi di giurisprudenza ha permesso di predire il suo reddito un decennio più tardi: un piccolo punto in più sulla scala dell’ottimismo valeva 33 mila dollari di più all’anno” scrive la dott.ssa Sharot nel suo ultimo saggio “Ottimisti di natura”, che le è valso la copertina del Time pochi mese fa.
La tesi della Sharot, supportata da risonanze magnetiche che mostrano come funziona il cervello quando semplicemente immaginiamo di agire in modo ottimistico, illustra come gli esseri umani siano naturalmente portati a rifuggire il pessimismo.
“Si è tentati di ipotizzare– scrive infatti – che l’ottimismo sia stato selezionato nell’evoluzione proprio perchè le aspettative positive aumentano le probabilità di sopravvivenza. Il fatto che gli ottimisti vivano più a lungo e godano di una salute migliore, Insieme con le ricerche che collegano l’ottimismo a geni specifici, danno un forte sostegno a questa ipotesi”.
Quasi a dire che l’ottimismo funge da velo che protegge l’essere umano dal cogliere sino in fondo la propria condizione, pena l’estinzione.
In effetti il ragionamento sembra non fare una piega: “Per definizione, gli ottimisti sono persone che hanno aspettative positive per il futuro. Poiché si aspettano di cavarsela meglio e di essere più sani, hanno meno ragioni soggettive per preoccuparsi e disperarsi e di conseguenza sono meno ansiosi e si adattano meglio a fattori di stress”. Questo li aiuta ad essere più pronti alle richieste dell’ambiente, sociale o lavorativo che sia.
Un circolo virtuoso che genera a sua volta condizioni positive che a loro volta consentono alla persona di vivere in modo soddisfacente.
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In psicologia, questo circolo virtuoso (che naturalmente può divenire vizioso e sfociare nel suo opposto) ha un nome curioso e suggestivo: “Profezia che si autoavvera”.
Ne fece un uso magistrale Pat Riley, l’allenatore di basket dei Los Angeles Lakers, che dopo aver vinto l’Nba nel 1987, annunciò pochi secondi dopo che la sua squadra avrebbe senz’altro vinto anche l’anno successivo (evento decisamente raro nella storia dell’NBA), innescando così una spirale di motivazioni, impegno e fiducia che effettivamente portò al raggiungimento dell’obiettivo.
Senza scomodare stelle del basket o presidenti americani, anche noi, nel nostro piccolo, possiamo cercare di realizzare le nostre profezie.
Credere in noi stessi aiuta sicuramente a raggiungere gli obiettivi prefissati. Ma, ancor più importante, consente di sopravvivere ad eventi avversi che – in misura maggiore o minore – siamo chiamati ad affrontare. Come a dire che tra le tante risorse di cui l’essere umano dispone, la condanna all’ottimismo è quella che consente di preservare la specie, a dispetto di tutto.
L’ottimismo neurologico, come dimostrato dalle ricerche della dott.ssa Sharot, porta anche ad una modificazione misurabile della percezione della realtà. Il cervello umano, infatti, adotta dei piccoli trucchi per far apparire la vita migliore di quella che è in realtà.
I lobi frontali del cervello degli ottimisti sembrano elaborare i dati, utilizzati per prevedere il futuro, selezionando solo quelli positivi, e ignorando quelli negativi. In questo modo i lobi frontali inducono gli ottimisti a pronosticare un futuro migliore. I nostri neuroni, dunque, hanno forzato un po’ la mano per consentirci di evolvere.
Tali Sharot si è occupata di analizzare cerebralmente le differenze e i cambiamenti tra “ottimisti” e “pessimisti”, su come l’attività neuronale sia diversa quando si immagina un futuro positivo o negativo.
La corteccia cingolata anteriore e l’amigdala sembrano essere le parti cerebrali più coinvolte dall’ottimismo o dal pessimismo. L’amigdala è un’area molto importante, deputata anche alla processazione delle emozioni. Non stupisce dunque un’ennesima conferma di una stretta interdipendenza tra emozioni, pensieri e decisioni.
L’ottimismo, o pessimismo, infatti orientano il pensiero umano.
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“Il cervello e la mente umana sono orientati a non prevedere il peggio, ma questo è comprensibile perché ci vuole davvero tanto ottimismo per vivere. Se guardiamo la vita per quello che è non c’è molto da stare allegri: si nasce, ci si confronta abbastanza presto con i guai e le difficoltà, si corrono rischi di rimanere ammalati, menomati, morire precocemente e poi comunque alla fine la nostra vita finisce”. Parola del Prof. Bottaccioli, docente universitario e presidente della SIPNEI (Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia). E come dargli torto, in fondo.
L’ottimismo sembrerebbe scritto nei nostri geni, abbiamo detto.
Sorge dunque spontanea la domanda: come è possibile, allora, che esistano i Giacomo Leopardi di turno?
Eventi o circostanze esterne (condizione socio economica, organizzazione famigliare etc.) o fasi della vita particolari (adolescenza e vecchiaia, ad esempio) possono minare l’ottimismo innato e spingere i circuiti cerebrali a lavorare più duramente per mantenere una visione rosea del futuro.
E’ probabile che una visione positiva del futuro sia scritta in qualche modo nel nostro codice genetico, ma che tale “diktat” possa essere poi modificato da circostanze esterne, che possono avere un impatto più o meno profondo sul nostro modo di vivere e sentire.
Sembrerebbe quasi che la Natura abbia pensato in fondo al posto nostro, lasciandoci più che altro la libertà di scegliere di quanto discostarci dal nostro ottimismo di fondo.
La maggior parte dei bambini sperimentano paure notturne ad un certo punto del loro sviluppo, e se la maggior parte di loro riesce a risolverli senza alcun intervento professionale, altri lottano a lungo con queste paure, con in rischio di sviluppare disturbi d’ansia più tardi nella vita.
Come parte di un grande progetto sul pavor nocturnus finanziato dall’Israeli Science Foundation, il Prof. Avi Sadeh della Tel Aviv University’s School of Psychological Sciences, sta esplorando come queste paure si inseriscono nel normale processo di sviluppo e quando diventano problematiche. Insieme ai suoi collaboratori ha scoperto che la capacità del bambino di distinguere la realtà dalla finzione ha un impatto enorme sul superamento del terrore di ciò che si può incontrare nella notte.
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Nel loro studio i ricercatori hanno scoperto che bambini in età prescolare con persistenti pavor nocturnus erano molto meno in grado di distinguere la realtà dalla fantasia rispetto ai loro coetanei.
Per i bambini piccoli, che stanno che stanno ancora sviluppando la capacità di distinguere la realtà dalla fantasia, andare a letto può essere una sfida importante. Infatti, in molti casi è l’unico momento della giornata in cui sono lasciati soli ad affrontare i loro pensieri, sentimenti e le paure; ed è proprio in questi momenti che l’immaginazione corre.
Per testare l’ipotesi che la confusione tra fantasia e realtà ha un forte impatto sulle paure notturne, i ricercatori hanno valutato bambini di quattro-sei anni – 80 con diagnosi di grave pavor nocturnus e 32 con sviluppo più normale – rispetto alla loro capacità di separare la realtà dalla finzione, sulla base delle dichiarazioni dei genitori e di un’intervista standardizzata.
I risultati indicano che i bambini con paure notturne (pavor nocturnus) più intense erano significativamente meno in grado di distinguere la realtà dalla fantasia. Come previsto sulla base della fase di sviluppo dei bambini, i bambini più piccoli raggiungevano un punteggio più basso rispetto a quelli più grandi. Più basso era il punteggio, i più gravi erano gli episodi di pavor nocturnus del bambino.
Secondo il Prof. Sadeh, la confusione tra fantasia e realtà può essere utilizzata anche per aiutare i bambini a superare le paure. I genitori e i medici possono utilizzare questa affinità con l’immaginario a beneficio del bambino.
“Mandiamo ai bambini segnali contrastanti dicendo loro che i mostri non sono reali, ma allo stesso tempo gli raccontiamo della fatina dei denti”, spiega il Prof. Sadeh.
Dire a un bambino che la sua paura non è realistica non basta a risolvere il problema: Sadeh consiglia di utilizzare la fervida immaginazione del bambino come risorsa nel trattamento, per esempio aiutandolo ad immaginare un mostro apparentemente minaccioso come una figura bonaria con la quale è possibile interagire amichevolmente, o inducendolo a prendersi cura e a rassicurare un cucciolo, un peluche per esempio, triste e spaventato. Poiché questo intervento dipende dalla possibilità del bambino di credere alla storia del cucciolo e assumere un ruolo compassionevole, funziona meglio per i bambini con maggiore immaginazione.
L’ ACT o Acceptance and Commitment Therapy, è una forma di psicoterapia definita di “terza ondata” della Terapia Cognitivo Comportamentale, con solide basi scientifiche (Hayes, 2004). L’ACT è basata sulla Relational Frame Theory (RFT): un programma di ricerca sulle modalità di funzionamento della mente umana (Hayes, Barnes-Holmes, e Roche, 2001). Questa ricerca suggerisce che molti degli strumenti che le persone utilizzano per risolvere i problemi, conducono in una trappola che crea sofferenza. E’ un approccio terapeutico innovativo e con solido fondamento scientifico, basato sulla mindfulness, diretto a sviluppare la “flessibilità psicologica” che consente di superare i momenti critici e di vivere pienamente il presente muovendosi nella direzione tracciata dai propri valori.
L’ACT prende in considerazione i seguenti concetti:
• La sofferenza psicologica è normale, è importante ed accompagna ogni persona.Ne consegue che la felicità può essere vista nell’accezione di vivere una vita ricca, piena e significativa; non è dunque una sensazione fugace, bensì un senso profondo di una vita ben vissuta nella quale esperiamo l’intera gamma delle emozioni umane.
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• Non è possibile sbarazzarsi volontariamente della propria sofferenza psicologica, anche se si possono prendere provvedimenti per evitare d’incrementarla artificialmente.
• I processi psicologici normali sono connotati dalla realtà del dolore e della sofferenza, che si configura pertanto come stato dell’essere. Combattere contro pensieri ed emozioni negative significa ingaggiarsi in una battaglia persa in partenza, dato che il controllo che abbiamo in situazioni simili è in realtà infinitamente meno di quanto la nostra cultura voglia farci credere. .
• Non bisogna identificarsi con la propria sofferenza. La vita comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. In quanto esseri umani dobbiamo tutti prendere atto che presto o tardi diventeremo deboli, ci ammaleremo e moriremo. Presto o tardi tutti perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni, lutti. Presto o tardi tutti dovremo affrontare crisi, delusioni e insuccessi. Questo significa che, in un modo o nell’altro, tutti avremo pensieri e sentimenti dolorosi. Non possiamo evitare questo dolore ma possiamo imparare ad affrontarlo molto meglio, a fargli spazio, a ridurre i suoi effetti e a crearci una vita che valga ugualmente la pena di essere vissuta.
• Si può vivere un’esistenza basata su propri valori. Spesso i pazienti poiché incastrati nelle maglie della psicopatologia li perdono di vista, senza saper più riconoscere cosa sia davvero significativo per la propria vita e senza riuscire più a scegliere e ad agire come ritengono sia meglio per sé stessi.
In definitiva, ciò che viene richiesto dall’ACT, è un cambiamento di prospettiva della propria esperienza personale. I metodi di cui si avvale forniscono nuove modalità per affrontare le difficoltà di natura psicologica e cercano di cambiare l’essenza dei problemi psicologici e l’impatto che essi hanno sulla vita.
“Non c’è motivo di continuare ad aspettare che la vita cominci. Il gioco dell’attesa può finire. Adesso. Come un leone rinchiuso in una gabbia di carta, gli esseri umani sono generalmente intrappolati dalle illusioni della loro mente. Ma nonostante le apparenze, la gabbia non rappresenta di fatto una barriera in grado di tenere imprigionato lo spirito umano” (Steven C. Hayes, PhD- inventore dell’ACT –università del Nevada).
L’Acceptance and Commitment Therapy si basa su tre punti fondamentali:
Mindfulness: è un modo di osservare la propria esperienza.Recenti ricerche nella psicologia occidentale, hanno provato che praticare la mindfulness può avere benefici psicologici importanti (Hayes, Follette, & Linehan, 2004). Attraverso tali tecniche si impara a guardare al proprio dolore, piuttosto che vedere il mondo attraverso di esso.
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Accettazione: si basa sulla nozione che, spesso, tentando di sbarazzarsi del proprio dolore si arriva solamente ad amplificarlo, intrappolandosi ancora di più in esso e trasformando l’esperienza in qualcosa di traumatico. Accettare non significa essere rassegnati, passivi né tollerare o sopportare, bensì abbandonare tutti i tentativi di soluzione inutile e accogliere ciò che la vita comporta se riconosciamo che stiamo andando nella direzione ci ciò che vogliamo dalla nostra esistenza.
Impegno e vita basata sui valori: quando si è coinvolti nella lotta contro i problemi psicologici spesso si mette la vita in attesa, credendo che il proprio dolore debba diminuire, prima di iniziare nuovamente a vivere. L’ACT invita a uscire dalla propria mente ed entrare nella propria vita intraprendendo azioni impegnate in direzione di quelli che sono i propri valori.
Popolo, R. et al. (2012). Schizofrenia e Terapia Cognitiva. Alpes Italia.
Schizofrenia e Terapia Cognitiva è un libro che si pone nel solco della ricerca scientifica per il trattamento della schizofrenia.
Schizofrenia e Terapia Cognitiva è un libro che si pone nel solco della ricerca di quanto ci sia oggi di migliore e scientificamente supportato per il trattamento di una condizione così complessa, cronica e invalidante, qual è la schizofrenia.
L’aspetto che gli autori tengono a sottolineare e a portare all’attenzione del lettore è la presenza del deficit metacognitivo nel paziente schizofrenico e la sua correlazione con interazioni sociali problematiche. Metacognizione, infatti, è il termine che permea le pagine di questo volume e che viene definita come l’insieme di quelle abilità che permettono all’individuo di: avere una rappresentazione dei propri stati mentali (pensieri, sentimenti, ricordi, desideri, scopi) e riflettere su di essi; riflettere sugli stati mentali degli altri; usare tali informazioni psicologiche per affrontare in modo efficace situazioni soggettivamente problematiche, sia da un punto di vista emotivo, che cognitivo o comportamentale.
Partendo da un’aggiornata revisione della letteratura che documenta la compromissione di tali capacità già prima dell’esordio sintomatologico, il volume propone, dapprima, un modello teorico esplicativo dei diversi sintomi e prosegue con la presentazione del modello d’intervento che ha come bersaglio, appunto, il malfunzionamento metacognitivo.
Gli autori regalano al lettore pagine inedite sulla descrizione del ruolo giocato dai fattori interpersonali nella genesi della sintomatologia psicotica, sia di quella positiva, con particolare riferimento al delirio di persecuzione e alle allucinazioni verbali uditive (AVU), che di quella negativa.
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Lo stile adottato è quello del confronto con altri modelli teorici che, seppur validi, lasciano diverse questioni aperte alle quali il libro cerca di dare risposta e il contributo offerto è davvero originale!
Particolarmente interessante, a tale proposito, è l’introduzione del concetto di disaderenza al contesto intersoggettivo che si ritrova, come denominatore comune, nella spiegazione dei sintomi schizofrenici. Si tratta di una disfunzione nella sintonizzazione, ovvero dell’incapacità, da parte del paziente, di selezionare pre-riflessivamente tra le molteplici ipotesi sul significato degli atti comunicativi dell’altro, quella più adeguata che lo guiderebbe rapidamente nella comprensione del significato sovraordinato della transazione in corso. Detto in altri termini, il paziente percepisce che gli altri stanno cercando di comunicare con lui, ma non riesce a comprendere chiaramente e rapidamente il contenuto essenziale del messaggio.
È un concetto che, per chi abbia avuto la possibilità, almeno per una volta, di imbattersi come clinico in questa tipologia di pazienti, rispecchia fedelmente l’essenza dell’esperienza psicotica.
Lo schizofrenico è sperduto in patria, estraneo tra i suoi cospecifici e brancola nel buio delle relazioni che diventano un rompicapo in cui è difficile orientarsi. Ciò che dovrebbe essere spontaneo, naturale, automatico quando ci si trova in una relazione, si trasforma per il paziente in un impegno gravoso, in un lavorìo mentale che crea rallentamento, goffaggine oltre che uno stato di sofferenza, di fronte al quale la rinuncia e il ritiro dalla transazione risultano la scelta migliore.
Le difficoltà descritte e i vissuti del paziente trovano ulteriore chiarezza nelle esemplificazioni cliniche che cementano nel lettore l’acquisizione di un concetto così utile per riuscire a sintonizzarsi con una mente tanto diversa dalla propria. Un concetto che, tra le altre cose, porta a riflettere su quanto spesso il primo contesto intersoggettivo nel quale il paziente manifesta questa difficoltà a “disambiguare” i segnali comunicativi dell’altro, sia proprio quello della relazione terapeutica che merita, pertanto, un’attenzione particolare.
E gli autori, di certo, non gliela negano, dedicando ad essa un capitolo nel quale esplorano, dapprima, i possibili ostacoli che rendono problematica la relazione terapeutica; si interrogano, poi, circa gli aspetti che sottendono questa difficoltà e concludono col dare indicazioni su come riparare le rotture che di volta in volta si vengono a determinare.
La regolazione della relazione terapeutica rappresenta, dunque, una costante nel trattamento della schizofrenia e la sua importanza viene ribadita quando gli autori presentano il loro modello d’intervento, la Metacognitive Interpersonal Therapy (MIT) che concettualizza la psicoterapia individuale come un contesto relazionale che offre al paziente la possibilità di mettere in atto, esercitare e sviluppare le abilità necessarie per effettuare le diverse operazioni metacognitive secondo un livello di complessità progressivamente crescente, in modo da poterle ristabilire per quanto possibile.
2. Intervento sulle funzioni autoriflessive di base;
3. incremento delle funzioni autoriflessive;
4. Validazione dell’esperienza del paziente;
5. Intervento sulla funzione autoriflessiva e sulla comprensione della mente altrui;
6. Intervento sulle funzioni di Mastery,
attraverso un linguaggio che risulta comprensibile, scorrevole, didattico.
Anche in questo caso, l’informazione teorica è supportata costantemente da esemplificazioni cliniche che contribuiscono a chiarire il razionale degli interventi di ogni singolo step e forniscono al clinico gli strumenti per intervenire prontamente sulle funzioni metacognitive compromesse.
Articolo Consigliato: Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi.
Si apprezza molto lo stile comunicativo che contrassegna queste pagine e che sembra riveli l’intento degli autori di favorire, e tra i clinici e tra i ricercatori, un clima di condivisione, un terreno comune per la comprensione e il trattamento di una patologia tanto eterogenea.
In questa direzione si muovono anche i capitoli dedicati alla Terapia Cognitivo-Comportamentale (Cognitive Behavioural Therapy, CBT), ormai riconosciuta come parte del trattamento evidence-based per la schizofrenia. Nello specifico, gli autori propongono un’integrazione tra il proprio modello e quello cognitivo standard, sostenendo che, in molti pazienti, la possibilità di utilizzare la ristrutturazione cognitiva o altre tecniche CBT richiede che prima sviluppino un livello di capacità metacognitiva sufficiente a mettere in discussione le proprie credenze. Ciò renderebbe l’applicazione di tecniche CBT meno stressante e più efficace, ma, soprattutto, favorirebbe il mantenimento della remissione sintomatologica nel medio-lungo termine.
Il volume termina affrontando la terapia farmacologica delle psicosi, la cui combinazione con la Terapia Cognitiva si prospetta come quanto di meglio oggi si possa offrire, e presentando un protocollo di Social Skills Training (SST) a orientamento metacognitivo (Metacognitive Oriented Social Skills Training, MOSST) che vuole essere un esempio originale di come sia possibile rileggere le consuete attività gruppali nei termini di un esplicito impegno allo sviluppo della capacità di mentalizzare dei pazienti psicotici.