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Skyfall – James Bond e la Depressione del Narcisista – Recensione –

 …finché ferve la lotta, finché siamo circondati da interni ed esterni nemici,
è sacro dovere il rimanere uniti e sacrificare ogni secondaria e privata considerazione,
alla causa cui ci siamo dedicati, 
al bene del paese, che ci ha affidato le sue sorti…
Camillo Benso Conte di Cavour, Lettere.  

 

Skyfall_James Bond. Locandina
Skyfall (2012). Locandina

James Bond è davvero solo un uomo che sta faticando a fare un passaggio generazionale?

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SPOILER ALERT! NELL’ARTICOLO VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA DEL FILM

Il film è bello con alcune scene nella prima mezz’ora che lasciano sbalorditi in una Singapore di neon e vetri che ci fa sentire antichi e obsoleti. Si il mondo è cambiato e il nemico non è più fuori, dai russi, e neanche dagli asiatici, ma all’interno, nella follia, nel dolore e dentro la stessa struttura. Combattere nel cyberspazio che i nemici hanno a disposizione è più difficile, i computer fanno esplodere bombe, rintracciano le persone in corso di inseguimento, inventano minacce per svuotare interi ambienti, e tutto diviene fluido, in real time, difficilmente comprensibile.

In questo mondo conta più un hacker ventenne geniale che le vecchie sapienze dei servizi.  E l’uomo? Serve ancora l’uomo che fa connessioni mentali, ha muscoli e testa e sentimenti? James Bond serve ancora all’Inghilterra? E conta ancora l’Inghilterra in questo mondo cinese, asiatico, tutto diverso dal mondo in cui Bond ha imparato il mestiere di 007?

La nuova tecnologia annulla le vecchie abilità che la corona inglese ha costruito nel corso della guerra fredda? E se i nemici sono ormai dentro di noi, vuol dire che non c’è più tragedia che arrivi dall’esterno? In questo film il cattivo è anche un personaggio in fondo vittima e capace di farci identificare con lui. Ci fa paura ma allo stesso tempo è terribilmente umano nelle sue ossessioni.

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"Amour", Storia d'Amore e Distruzione - RECENSIONE
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E James Bond come può cambiare? I vecchi James Bond erano uomini a tutto tondo, sempre belli, a posto, eleganti. Il loro mondo affettivo era anestetizzato, il narcisismo elegante e un po’ blasé, la loro seduttività si esibiva con le donne più belle del mondo che non avevano un anima complessa ma erano soprattutto ornamentali. Buone o cattive, ma soprattutto ornamentali.  E in quel mondo i cattivi erano veramente cattivi e i buoni interamente buoni.   Bond difendeva il mondo dei buoni contro il mondo dei cattivi. Ma ormai non è più così.

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James Bond in questo film rimane il vecchio narcisista che era, ma ha avuto un tradimento ed è invecchiato, acciaccato, triste e sfiduciato. Ha avuto un incidente, si dubita delle sue competenze. Forse lascia, va via, rinuncia.   Il film è pieno di dilemmi morali, sparare a due persone che si picchiano su un treno in corsa sapendo che si può uccidere l’amico e il collega, inseguire il nemico non soccorrendo il vecchio amico che sta morendo. Avere colpe, dubbi, depressione.  Tutta questa complessità morale e sentimentale fa bene al caro vecchio James Bond?

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Certo gli rimangono le certezze morali, la sua resistenza al sostegno delle sue idee e della  causa della corona inglese anche in momenti in cui tutto lo porterebbe a tradire. La sua resistenza, la sua forza sono basate sulla tenuta a un trauma infantile che poteva ucciderlo o renderlo un vinto ma lo ha reso invece più fiducioso in se stesso. La sua casa sono i servizi segreti, la sua unica casa, ed M, il suo capo donna, è la figura di riferimento sia sentimentale che morale. Al di là di tutti i dubbi, le durezze, i tradimenti.

Questo Bond malinconico, autoconsapevole dei suoi limiti, consapevole anche della relatività dei valori, disincantato e assuefatto alle seduzioni di donne sirene, che forse cominciano ad annoiarlo, ci piace perché ha fatto i conti con i suoi traumi e il suo passato (forse in modo un po’ troppo alcolico, ma qualche ausilio, diamine lasciamoglielo).

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Ma ci lascia qualche perplessità, proprio per questo. Come andrà a finire con Moneypenny? L’umanizzazione di Bond lo farà fermare, si accaserà? Sarà capace di amare, grazie alla consapevolezza della morte e del dolore? Ma non diventerà  troppo umano, non farà bambini guardando la televisione la sera mentre lei gli dice: svuota la lavatrice per favore? E noi come faremo senza il sogno della sua onnipotenza?

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Oppure Bond riuscirà a rimanere forte perché è capace di integrare il nuovo con la tragica consapevolezza della relatività di tutto.  Alla fine due sono i fattori fondamentali del suo successo: il primo è la forza morale che lo fa vincere perché è la bussola che lo conduce ad affrontare in modo acuto e innovativo i momenti di crisi anche nelle relazioni con i suoi capi;  il secondo è la capacità di affrontare in modo flessibile il suo trauma e i suoi problemi, una forza che si fa flessibile per adeguarsi al nuovo che altrimenti lo schiaccerebbe.

In questo film tutti i buoni vincono perché sono flessibili, non perché sono unicamente buoni.  Un certo coraggio morale insieme alla fedeltà ai vecchi principi  che ammiriamo, e una flessibilità consapevole molto adatta alla modernità. Dopo avere superato la depressione del narcisista,  James Bond ridiventa il superuomo che era e ci fa di nuovo sognare.

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BIBLIOGRAFIA:

Testosterone ed Elaborazione della Ricompensa

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il livello di testosterone nelle prime fasi di vita del feto influenza la successiva sensibilità di regioni cerebrali correlate all’elaborazione della ricompensa.

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Secondo uno studio, condotto da Michael Lombardo e Simon Baron-Cohen dell’Università di Cambridge, il livello di testosterone nelle prime fasi di vita del feto influenza la successiva sensibilità di regioni cerebrali correlate all’elaborazione della ricompensa, influenzando in questo modo la tendenza individuale ad attuare comportamenti, che in condizioni estreme, sono correlati a diverse condizioni neuropsichiatriche che colpiscono un sesso più dell’altro.

Anche se presente a livelli bassi nelle donne, il testosterone è uno degli ormoni sessuali che esercita un’influenza rilevante sull’emergere delle differenze tra maschi e femmine.

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Negli adulti e negli adolescenti, un livello elevato di testosterone ha dimostrato di ridurre la paura, indurre minore sensibilità alla punizione, aumentare il rischio, e migliorare l’attenzione alla minaccia.

Questi effetti interagiscono con il contesto nell’influenzare il comportamento sociale, in particolare l’equilibrio tra i comportamenti di avvicinamento e di evitamento, che sono intensificati negli anni dell’adolescenza e appaiono estremi in molte malattie neuropsichiatriche, tra cui disturbi del comportamento, la depressione, l’abuso di sostanze, l‘autismo, e la psicopatia.

Gli scienziati sanno da tempo che le differenze sessuali influenzano molti aspetti dei disturbi psichiatrici, tra cui l’età di esordio della malattia, l’incidenza e la suscettibilità individuale. Ad esempio, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la depressione è due volte più comune nelle donne rispetto agli uomini, mentre la dipendenza da alcol mostra la tendenza inversa. Oltre a molti altri fattori, i livelli degli ormoni sessuali possono essere fattori importanti che contribuiscono alle differenze di sesso in psicopatologia.

La ricerca fino ad oggi si è focalizzata principalmente sui livelli degli ormoni sessuali durante l’adolescenza e l’età adulta, cioè quando sono più alti; tuttavia anche durante i periodi critici dello sviluppo del cervello del feto i livelli degli ormoni sessuali sono accentuati, nonostante questo poca attenzione è stata dedicata all’impatto di questi picchi ormonali in fase prenatale sul cervello adulto e sullo sviluppo comportamentale successivo.

Questo studio è il primo a esaminare se il testosterone nello sviluppo fetale è in gradi di predire comportamenti sociali di avvicinamento in adolescenza o in età adulta (ad esempio, il cercare divertimento, l’impulsività, la risposta alla ricompensa) e anche come può influenzare il successivo sviluppo del cervello legato a questi comportamenti.

I ricercatori hanno testato un gruppo di bambini di 8 anni, il cui livello di testosterone era stato misurato precedentemente nel liquido amniotico a 13 settimane di gestazione. I bambini sono stati esaminati con la risonanza magnetica funzionale per valutarne i cambiamenti nell’attività cerebrale durante la visualizzazione di immagini di volti con espressioni negative (paura), positive (felicità), neutre, o scrambled (strapazzate???).

I risultati indicano che a più elevati livelli di testosterone fetale corrisponde una maggiore reattività del sistema di ricompensa verso i target facciali positivi, rispetto a quelli a valenza negativa; questa corrispondenza non è stata invece osservata nel caso di livelli bassi di testosterone fetale. I livelli fetali di testosterone non sono risultati essere correlati ai comportamenti di evitamento.

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Un innalzamento dei livelli di testosterone fetale, attraverso la sua influenza sul sistema di ricompensa del cervello, prevedeva anche una maggiore tendenza all’avvicinamento nel corso della vita. Secondo Lombardo “Questo lavoro mette in evidenza come il testosterone nello sviluppo fetale agisca come un meccanismo di programmazione per modellare sensibilità del sistema di ricompensa del cervello nel corso della vita e per prevedere poi la tendenza a impegnarsi in comportamenti correlati. Queste intuizioni possono essere particolarmente rilevanti per una serie di condizioni neuropsichiatriche caratterizzate da perversioni sessuali e che influenzano il comportamento di avvicinamento legato e sistema di ricompensa del cervello. “

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BIBLIOGRAFIA:

Dalla Famiglia di Origine alla Scelta del Partner

 

Psicoterapia Sistemico-Relazionale: l’Approccio Trigenerazionale: Leggi la Monografia

Dalla Famiglia d'origine alla scelta del partner. - Immagine: © preto_perola - Fotolia.com

Dalla famiglia di origine alla scelta del partner: sistemi rigidi e potenziale evolutivo della coppia

Giorno per giorno, dalla nascita, i contesti in cui siamo inseriti, sia come attori che come spettatori, i contenuti delle interazioni, le modalità relazionali usate all’interno della famiglia modellano costantemente la nostra attività percettiva, imprimendo una direzione alla nostra attenzione selettiva.

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Mito e mandato familiare sono due concetti chiave di questo processo: il mito è un immagine idealizzata che funge da modello di interpretazione della realtà e ha una funzione prescrittiva in merito a i ruoli da ricoprire, i valori da perseguire, modalità di comportamento relazionale e le scelte da fare (tra cui la scelta del partner), definisce cioè il mandato familiare che ogni individuo è implicitamente chiamato a portare avanti (M Andolfi, 1987).

La scelta del partner è il risultato di una mescolanza tra il mito (con il suo relativo mandato) e ricerca di soddisfacimento di bisogni più personali; il prevalere dell’uno o dell’altro dipenderà dalla forza di ciascuno di questi elementi e dalla relazione che una persona ha con la sua famiglia di origine (C Angelo, 1999).

La triangolazione all'interno della famiglia.
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Il mito serve quindi anche a connotare, a volte mistificandola, la qualità del legame con le persone importanti, crea cioè delle aspettative rispetto a come una relazione dovrà, o potrà, evolvere e prescrive i comportamenti possibili in accordo con queste aspettative.

L’attenzione selettiva indotta dalla storia familiare all’ambiente esterno, diretta a cogliere specifici elementi di interesse nell’aspetto o nel comportamento dell’altro, si accompagna a una disattenzione, altrettanto selettiva, per tutti quegli aspetti dell’altro che potrebbero rendere problematica la relazione o contrastare con il mandato familiare.
Quanto più il mito è articolato e ricco tanto più saranno le possibilità di sviluppo e scelta per i membri della famiglia; quando invece una componente tende a prevalere sulle altre questa avrà un peso nell’indirizzare la scelta in un’unica o in poche direzioni; questo elemento è in rapporto al grado di differenziazione raggiunto dall’individuo e alla sua capacità di elaborazione del mito stesso, cioè con il suo grado di autonomia e individuazione.

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Come già detto la costruzione di una nuovo legame inizia nel luogo e nel tempo della separazione dalla relazione precedente, per questo ricerchiamo, nel nuovo rapporto, sia qualcosa che ce la ricordi sia qualcosa che la differenzi; la ricerca di somiglianze e di differenze non è mai casuale ma dipende dalla forma dei legami passati, è vincolata ad essi. Infatti accanto a caratteristiche ripetitive (e rassicuranti) è importante che il rapporto si dimostri adattabile ad accogliere fantasie compensatorie idealizzate, o che faccia sperare di riprendere le fila di una storia interrotta prematuramente o che non ha dato le risposte di sicurezza desiderate. È proprio la presenza di questi elementi di somiglianza con il passato che permette l’elaborazione delle aree di dipendenza relative ai rapporti originari: tanto più la relazione è condizionata da questi elementi tanto più costringerà al confronto  con il problema originario, nel tentativo di risolverlo o trasformarlo.

 Per Weiss e Sampson (Weiss, 1993) la coazione a ripetere non rappresenta un arresto dello sviluppo, ma il tentativo, ripetuto e strategicamente inefficace, di trovare una via di uscita alle difficoltà relazionali incontrate: l‘altro viene testato (dalle aree più sicure fino a quelle più insicure e pericolose) per verificare la correttezza delle proprie aspettative negative e soprattutto per trovare una via di uscita all’impasse; la disconferma delle aspettative da parte dell’altro permette il superamento del test e, nel migliore dei casi, un passaggio evolutivo verso una forma di legame diversa dalle precedenti.

Quanto più un legame significativo sopravvive sulla base di bisogni in parte o del tutto insoddisfatti, tanto più tenderà a ripetersi immodificato nei confronti delle nuove figure di riferimento, diventando un elemento di forte unione tra i partner; questo conferisce rigidità al legame, in quanto l’altro acquista valore e importanza per il ruolo e la funzione che assolve rispetto a bisogni e aspettative da soddisfare.Infatti quanto più una relazione deve garantire quella protezione e sicurezza di base che è mancata all’interno delle relazioni originarie, tanto più forte è il legame di dipendenza che si sviluppa tra i partner, tanto maggiore è la minaccia percepita rispetto a qualunque situazione lo metta in discussione.

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La confusione dei confini generazionali all’interno della coppia stessa è un problema comune a molte coppie che arrivano in terapia; in questi casi la relazione di coppia somiglia più a una relazione genitore-figlio che a una relazione tra adulti alla pari. In questi casi la (presunta) immaturità di uno dei partner è compensata dall’assunzione del ruolo genitoriale da parte dell’altro partner (comunemente un figlio già genitorializzato all’interno della sua famiglia di origine). Una relazione così strutturata su ruoli e funzioni complementari e rigide può andare avanti a lungo senza che insorgano motivi di crisi. La nascita di un figlio però può far esplodere il problema, perchè richiede una ristrutturazione dei ruoli che sia funzionale all’accudimento del bambino e questo è in conflitto con la relazione di accudimento che già esiste tra i due partner.

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In altri casi la relazione di accudimento tra i partner è reciproca: ciascun partner cerca nell’altro ciò che pensa di non avere, dando vita a una relazione di mutuo soccorso e assistenza. L’unione è spesso molto salda, ma due metà incomplete non fanno una persona intera e il rapporto è chiaramente molto penalizzante sia per la crescita di coppia che per quella individuale. Alla nascita di un figlio può succedere che la ricerca di sicurezza, rimasta chiaramente inappagata a livello di coppia, venga proiettata sul figlio assegnandogli un ruolo genitoriale nei confronti della coppia.

 Il reciproco di questo tipo di relazione simmetrica è rappresentato dalla coppia in cui entrambi i partner sono figli genitorializzati: in questi casi la relazione e la vita di coppia si regge sull’imponente sistema di doverizzazioni che entrambi hanno eletto a sistema di valori, come conseguenza della posizione di funzionamento assunta all’interno delle rispettive famiglie di origine. Il sistema può andare in crisi nel confronto con le problematiche evolutive dei figli, in particolare nel periodo dello svincolo: l’eccessiva rigidità e l’adesione a modelli astratti di comportamento impedisce una funzionale sintonizzazione affettiva con i loro bisogni. (Berrini e Cambiaso, 2001)

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Altre coppie ancora arrivano al deterioramento del rapporto perchè non hanno saputo difendere lo spazio di coppia dalle invasioni delle rispettive famiglie di origine; a tal proposito è bene sottolineare che è sempre una dipendenza eccessiva dell’adulto e la sua incapacità a separarsi dalla famiglia di origine che ne facilita e permette l’”intrusione” nella vita della coppia. Spesso sono proprio i bambiniad essere usati come compenso affettivo nella relazione tra gli adulti e i loro genitori: piuttosto che assumere una posizione di confronto maturo con i genitori, i figli vengono dati in “ostaggio” ai nonni, mantenendo inalterata la dipendenza affettiva dei genitori alla famiglia di origine (Andolfi, 2006).

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In altri casi la dipendenza affettiva dell’adulto dalla sua famiglia di origine ha l’effetto di permettere “l’adozione” della coppia da parte di una delle due famiglia di origine dei partner: a monte c’è l’idea, da tutti condivisa, che la coppia si troppo immatura per farcela da sola; i motivi possono attribuiti alle difficoltà economiche o ai bisogni della terza generazione, in ogni caso il mancato svincolo degli adulti non permette alla coppia di costruire un confine funzionale alla strutturazione dell’alleanza di coppia.

A volte l’intensità del legame è data proprio dai contenuti problematici provenienti dalle precedenti relazioni e separarsi dal passato, facendo qualcosa di nuovo e diverso, può voler dire veder svuotare di significato il legame attuale. Questo elemento è spesso causa di drop-out delle terapie di coppia, ma anche di quelle individuali che vanno a lavorare i problemi relazionali del paziente. È però solo accettando questo rischio la relazione può evolvere, senza che nessuno debba rinunciare a parti vitali di sé per assolvere a ruoli e funzioni rigidi.

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BIBLIOGRAFIA:

Gunther Von Hagens’ Body Worlds: alcune riflessioni.

 

Gunther Von Hagens’ Body Worlds, alcune riflessioni. - Immagine: © Gunther Von Hagens’ Body Worlds

Giocare con la morte (o con i suoi aspetti figurati), fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.

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Gunther Von Hagens’ Body Worlds – il vero mondo del corpo umano dal 3 Ottobre 2012 è approdato alla Fabbrica del Vapore di Milano.

Con più di 34 milioni di visitatori, di cui 11 milioni solo in Europa, i Korpsewelten (in inglese Body Worlds) del padre della plastinazione fanno capolino in un’altra tappa italiana, dopo quella record delle Officine Farneto a Roma lo scorso febbraio.

In cosa consiste, effettivamente questa mostra tanto visitata quanto controversa?

Della morte e del morire. Immagine - © goccedicolore - Fotolia.com
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Nel 1977, Von Hagens mise a punto, all’Università di Heidelberg, un procedimento innovativo, in grado di conservare perfettamente tessuti e organi, sostituendo ai liquidi corporei dei polimeri di silicone che rendono gli elementi organici rigidi, inodore e ne mantengono vividi i colori.

Un po’ come se, detto in parole povere, la formaldeide in cui all’epoca erano immersi i resti del corpo umano, venisse iniettata all’interno, consentendo così ai tessuti e alle parti del corpo di conservarsi senza l’utilizzo di barattoli.

Al di là del procedimento medico, sicuramente interessante ma che esula dalle competenze e dall’argomento dell’articolo, vale la pena soffermarsi a riflettere su un dato: dal 1982 l’Institute for Plastination cura il programma di donazione dei corpi, utilizzati per la realizzazione della mostra, e al momento conta oltre 13 mila donatori registrati. Un link all’Istituto e al modulo necessario per lasciare il proprio corpo nelle mani del team diretto da Von Hagens è reperibile direttamente sul sito italiano della mostra.

Un altro aspetto, altrettanto interessante, è lo spartiacque che l’invenzione dell’anatomopatologo ha creato all’interno del mondo scientifico: Von Hagens, infatti, ha sdoganato l’anatomia tradizionale, aprendola al grande pubblico (come dimostra l’elevato numero di visitatori, che l’ha resa l’esibizione scientifica più visitata al mondo).

Lo scopo della plastinazione – sostiene il medico – “E’ stato fin dal principio scientifico, ossia la formazione di studenti di medicina”, ma i suoi preparati sono usciti dalle aule di anatomopatologia per entrare nelle sale dei musei, in quelle cinematografiche (una scena di 007 Casinò Royale è stata girata all’interno della mostra) e persino in case private: i plastinati, infatti, sono venduti – a quanto pare – a cifre anche piuttosto sostenute.

MART Rovereto - Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990. - Immagine: © Victoria & Albert Museum
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La mostra Body Worlds, oltre a fornire un punto di vista preciso, puntuale e realistico (per ovvie ragioni) del nostro corpo “sottopelle”, consente anche di riflettere sulla morte e su come l’essere umano da sempre, in realtà, cerchi di contrastarla e di conservare in qualche modo non solo il ricordo, ma anche il corpo del defunto.

Molteplici tecniche di conservazione delle salme, infatti, si sono succedute nel mondo e in periodi storici differenti. In Australia, Nuova Guinea, Oceania e Africa i corpi erano esposti al sole ed essiccati. In Melanesia e Polinesia si usava esporre il cadavere in zone di marea per provocarne una mineralizzazione attraverso il sale. Presso i cinesi vi era l’usanza di riempire con il miele le cavità delle salme, mentre i colombiani usavano una resina vegetale specifica. La mummificazione – molto diffusa anche nell’America andina – raggiunse il massimo livello di perfezionamento presso gli antichi egizi.

Intervistato sulla ragione per cui così tante persone (si calcola una media di 5 donazioni al giorno) avrebbero donato il proprio corpo alla fondazione Von Hagens, per diventare delle “opere d’arte”, lo scienziato risponde così: «Per molti la plastinazione è il modo per secolarizzare la propria sepoltura e attenuare l’angoscia di perdere la vita, attraverso la possibilità di estendere la propria esistenza fisica dopo la morte».

Secondo i dati presentati, il 22% donerebbe il proprio corpo per la pubblica utilità; il 19% per il fascino della tecnica da lui messa a punto; il 13% per il desiderio di non essere né cremati né interrati. Lo stesso anatomopatologo ha dichiarato di voler fare del proprio corpo l’ultima sua opera, una volta che il Parkinson, malattia della quale soffre, avrà fatto il suo corso.

Von Hagens non è l’unico, certamente, a rendere in qualche modo la morte un’opera d’arte.

Anche l’artista Damien Hirst sembra aver scelto l’antitesti della vita come nucleo centrare delle sue esibizioni, che includono – tra gli altri – teschi umani coperti di diamanti.

 Un’altra mostra che ha raccolto numerosi visitatori a Chicago è “Morbid Curiosity”, allestita da Richard Harris, che ha collezionato più di 500 oggetti provenienti da tutto il mondo riguardanti l’iconografia della morte, compresi tavoli a forma di teschio, candelabri fatti di ossa. Il collezionista sembra mosso dall’idea di riavvicinare l’uomo moderno al concetto di morte, umanizzandola, e rendendola in qualche modo meno spaventosa se vissuta negli oggetti utilizzati quotidianamente.

Una teoria in qualche modo avvallata anche dalla psicologa americana Carolyn Kaufman, che si interroga sulla grande passione che la gente comune sembra avere per Halloween e i suoi personaggi, a cui – in qualche modo – si potrebbero avvicinare i plastinati di Von Hagens.

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La dottoressa sostiene che Halloween (esattamente come film e libri horror) consenta un “confronto sicuro” con le nostre paure esistenziali più profonde (quelle riguardanti la morte, per l’appunto, ma anche i nostri “lati oscuri” o aggressività che dir si voglia), senza metterci o farci sentire in pericolo.

Giocare con la morte (o con i suoi aspetti figurati), fa sentire potenti, e ci consente di maneggiare qualcosa che in realtà sconfigge tutti e in ogni caso.

Un altro meccanismo psicologico aiuta a comprendere come mai ciò che è terrifico o spaventoso a volte diviene una vera e propria passione. La così detta formazione reattiva consente di ribaltare un sentimento negativo (la paura) nel suo contrario positivo (la gioia). Tale meccanismo di difesa ci aiuta a fare i conti con ciò che non siamo in grado di affrontare perché, appunto, ci mette in difficoltà. Allontanando le emozioni negative trasformandole nel loro contrario, siamo in grado di maneggiarle e in qualche modo affrontarle.

Body Worlds, però, aggiunge un tassello: dal 1995 (anno della prima esposizione in Giappone) infrange il tabù del corpo funebre, di ciò che resta dopo la morte, conservandolo ma al contempo mettendolo a disposizione di tutti.

Qualcuno potrebbe pensare ad un lavoro macabro o morboso, ma la mostra – in realtà – sembra  rendere tridimensionali gli studi di Leonardo Da Vinci sul corpo umano (a cui, per altro, si ispira liberamente uno dei soggetti della mostra: Cavallo impennato con cavaliere).

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Le creazioni di Von Hagens sembrano inserirsi nel discorso moderno del “mettere in mostra” qualcosa che sino ad una decina di anni fa era rigorosamente appannaggio di ambienti o settori specifici. Ha quindi il pregio di aver aperto le porte dell’anatomia all’uomo di strada.

Sulla linea della divulgazione, sembra anche prestare il fianco ad una società in cui ormai l’informazione – se si vuole e la si ricerca – è reperibile ovunque e approfondita “sino all’osso” (per rimanere in tema).

E ancora, come sostengono Vincenzo Esposito e Simona Chiappero, del Dipartimento di Medicina Pubblica, Clinica e Preventiva della Seconda Università degli Studi di Napoli  – i Körperwelten (Body Worlds) sembrano essere uno dei tanti tentativi di narrazione performativa del corpo – e delle sue esperienze – da parte dell’immaginario collettivo.

La società moderna, definita da S. Bauman “liquida” (proprio perché non più incanalata, contenuta e gestita da grandi istituzioni quali la Famiglia, lo Stato e la Chiesa) registra un aumento dell’alterazione dell’immagine corporea, sia a livello di vissuti patologici (anoressia, bulimia ad esempio) o di espressione di vissuti agiti tramite e sul corpo (piercing, tatuaggi, body modification).

Credo anche si possa associare la mostra al discorso di una società in cui i limiti vengono sempre spostati “al di là”: che siano limiti fisici o psicologici, la mostra consente di vedere ciò che in realtà per tutta una vita rimane nascosto. Si ha la possibilità quasi di toccare con mano il proprio spazio fisico interiore, sia sano che malato. Si ha la possibilità  di dare un nome e un’immagine a ciò che in realtà sono solo fantasmi o parole difficili da comprendere, ma che in qualche modo condizionano la nostra vita (le diagnosi). Forse non è un caso che Il 63% dei visitatori ha indicato che l’autenticità dei preparati esposti ha esercitato un influsso sostanziale sulla loro acquisizione di cognizioni che prima risultavano poco comprensibili.

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Sempre per rimanere in tema di dati, vale la pena riportare ciò che sostiene Von Hagens: “La mostra è un mezzo per divulgare al grande pubblico la complessità del corpo umano, educando sui temi della salute. Il successo è dimostrato dal fatto che, alla fine della visita delle mie esposizioni, il 68% dei visitatori intervistati ha ammesso di aver deciso di prestare maggiore attenzione alla propria salute, il 10% smette di fumare e il 30% diventa donatore di organi”.

Possiamo sicuramente pensare che il plastinato attivi il riconoscimento di noi stessi, del nostro funzionamento e della complessità del corpo umano; un riconoscimento e un rispecchiamento maggiore di quello attivato dall’illustrazione di polmoni malati di cancro sui pacchetti di sigarette.

In conclusione, credo che l’esibizione possa essere letta da angolature differenti: c’è chi potrebbe etichettarla come una macabra spettacolarizzazione del corpo umano, chi una trovata economica che ha trasformato un esperimento medico in arte, chi ancora una mostra- manifesto del nostro tempo, attaccato visceralmente all’immagine, al corpo e al suo voyeurismo.

Indipendentemente dagli occhiali che si usano per visitarla, o dalla lettura che una volta conclusa la mostra se ne darà, penso valga la pena visitarla, per dare uno sguardo più da vicino a ciò che siamo e a ciò che, in fondo, in qualche modo ci determina.

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Bibliografia

 

Cyberbullismo nei Luoghi di Lavoro

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

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Cyberbullismo nel luogo di lavoro – Otto lavoratori su dieci subiscono comportamenti di cyberbullismo, almeno una volta in sei mesi.

Fino ad oggi lo studio del cyberbullismo – l’uso delle moderne tecnologie di comunicazione, come email, testi o post, per compiere abusi sulla persona – si è principalmente focalizzato sui giovani in ambienti scolastico, piuttosto che sui lavoratori adulti. Tuttavia, il cyberbullismo sembra nascondersi insidiosamente anche nei luoghi di lavoro.

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Ad illuminarci sull’argomento sono i risultati di uno studio, che ha coinvolto ricercatori della University of Sheffield e della Nottingham University e che saranno presentati al Economic and Social Research Council’s (ESRC) annual Festival of Social Science che si terrà a novembre.

Lo studio ha incluso tre indagini distinte, effettuate sui i dipendenti in diverse università del Regno Unito, a cui veniva chiesto di parlare delle loro esperienze di cyberbullismo. Ai partecipanti allo studio è stato dato un elenco di ciò che può essere classificato come  bullismo – come l’essere umiliato, ignorato o vittima di pettegolezzi – e gli è stato chiesto se avessero vissuto un esperienza simile e con quale frequenza.

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La precarietà- nuova nevrosi?. - Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com
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Delle 320 persone che hanno risposto al sondaggio, circa otto su dieci aveva vissuto uno dei comportamenti elencati come cyberbullismo almeno una volta negli ultimi sei mesi. I risultati hanno anche mostrato che un 14-20 per cento li ha vissuti almeno una volta alla settimana – con un’incidenza simile al bullismo tradizionale.

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Il team di ricerca ha esaminato anche l’impatto del cyberbullismo sull’affaticamento mentale dei lavoratori e sul loro benessere. In generale, coloro che erano state vittime di cyberbullismo tendevano ad essere più affaticati mentalmente e ad avere minore soddisfazione professionale; addirittura in uno dei sondaggi, questa condizione è apparsa peggiore in seguito a cyberbullismo rispetto al bullismo convenzionale.

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 Il team di ricerca ha anche scoperto che essere testimoni di atti di cyberbullismo non provoca le stesse reazioni che sono state documentate nei casi di bullismo tradizionale, infatti mentre chi osserva atti di bullismo normalmente sperimenta un disagio e un calo del benessere personale, chi assiste a cyberbullismo rimane per lo più indifferente. I ricercatori ipotizzano che la “lontananza” del ciberspazio possa limitare la capacità delle persone di entrare in empatia con le vittime di cyberbullismo; questo influenzerebbe anche la reazione dei testimoni e le probabilità che arrivino a denunciare gli abusi osservati.

I ricercatori dispensano consigli su come datori di lavoro dovrebbero affrontare e prevenire il cyberbullismo sul posto di lavoro, convinti che questo tema diventerà sempre più importante vista la continua evoluzione  e diffusione delle tecnologie di comunicazione.

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BIBLIOGRAFIA:

L’Approccio Metacognitivo Evoluzionista alla Musicoterapia (MEM)

 di Sebastiano Alaimo*

L’Approccio Metacognitivo Evoluzionista alla Musicoterapia (MEM). - Immagine: © Gianni - Fotolia.com

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La musicoterapia oggi non è più considerabile come “scienza debole”, possedendo quei presupposti che l’accosterebbero alle “scienze forti” o comunque a quelle forme di intervento dimostrabili sperimentalmente.

La musicoterapia ha trovato, in questi ultimi anni, sempre più spazio all’interno di percorsi di cura con pazienti difficili. Negli ultimi quindici anni, il ruolo della musica come forma di terapia (o co-terapia) ha subito un viraggio radicale soprattutto grazie agli sviluppi degli studi di brain imaging, che hanno permesso di osservare il processamento dell’informazione da parte del cervello nel corso dell’ascolto di un brano musicale (Schon, Akiva-Kabiri & Vecchi, 2007).

Secondo una prospettiva evidence-based, la musicoterapia oggi non è più considerabile come “scienza debole”, possedendo ormai quei presupposti che l’accosterebbero alle “scienze forti” o comunque a quelle forme di intervento che possono dimostrare sperimentalmente gli obiettivi raggiunti.

In accordo con le più recenti acquisizioni scientifiche, da alcuni anni presso l’ISPEM (Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin”) di Caltanissetta, sono state realizzate una serie di esperienze e ricerche sulla percezione ed elaborazione delle produzioni sonoro-musicali ed il funzionamento correlato della mente umana (Alaimo in Barbagallo,  2010; Alaimo, 2008a, 2008b; Alaimo, Carollo & Costanza, 2008). Studi che si sono avvalsi anche della Elettroencefalografia ed Elettroencefalografia quantitativa (studiando soprattutto l’attività delle onde alfa, beta e teta) e del Monitoraggio della attività elettrotermica (Alaimo, 2008b).

L’ISPEM si è da sempre occupato dello studio delle capacità riflessive, portando avanti delle ricerche mirate proprio sui processi metacognitivi ed in modo particolare sui deficit metacognitivi e le organizzazioni di personalità patologiche, sviluppando una serie di strumenti per l’assessment delle funzioni metecognitive e individuando nuove strategie di cura per soggetti afflitti da Disturbi di personalità.

All’interno dell’ISPEM, le nostre prime esperienze di musicoterapia sono state orientate alla terapia dei pazienti difficili. Abbiamo volutamente tentato di usare le strategie della musicoterapia in ambiti storicamente “estranei” ad essa come per esempio per la co-terapia dei Disturbi di personalità.

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Creatività Musicale e Intelligenza. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
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Alla base della realizzazione del nuovo approccio Metacognitivo ed Evoluzionista alla Musicoterapia (MEM), che viene presentato in questo articolo, vi sono state alcune considerazioni di carattere generale:

– ritenere che psicoterapeuta, musicoterapeuta, insieme al paziente, debbano costruire progressivamente una rappresentazione condivisa degli stati mentali del paziente stesso e che tale rappresentazione possa essere compresa attraverso le loro narrazioni;

– per potere conoscere come il paziente sente, pensa ed agisce i terapeuti devono provare ad elicitare, attraverso passaggi emotivo-cognitivi, specifici episodi autobiografici ed esperenziali sui quali successivamente focalizzarsi;

– ulteriore passaggio, nel percorso terapeutico, deve consistere nell’identificare i nessi psicologici di causa-effetto circolare e complesso, vale a dire quel processo che permette ad un pensiero di elicitare un’emozione o viceversa ad un’emozione di innescare un comportamento.

Abbiamo pensato e sostenuto, quindi, che quando la conoscenza mentalistica diviene più ricca e profonda i pazienti passano da una inadeguata consapevolezza delle loro emozioni (e delle cause che determinano le loro azioni) ad una maggiore consapevolezza di come pensano, sentono ed agiscono in specifici contesti relazionali. Condizione quest’ultima (meglio ancora conditio sine qua non) che favorisce la possibilità di un reale e duraturo cambiamento in senso evolutivo.

La musicoterapia possiede delle straordinarie “corsie preferenziali” per potere fare emergere delle emozioni profonde e potere, in un secondo momento, fare accompagnare queste emozioni da crescenti livelli di autoconsapevolezza (si pensi, solo per fare qualche  esempio, alla scrittura di un testo da musicare, al trovare una canzone che rappresenti un momento autobiografico, al rilassamento attraverso l’ascolto di determinati brani musicali)

Report del Congresso di Neuromusicologia di Brescia. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Legato intimamente al funzionamento metacognitivo vi è poi la dimensione evoluzionista.

Relativamente alla chiave di lettura evoluzionista (ampiamente utilizzata all’interno del modello MEM) sarà bene ricordare brevemente che ogni soggetto è dotato di specifici Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) i cui processi si fondano su disposizioni innate e universali. Si tratta di una serie di “settaggi” che ogni persona impiega per meglio adattarsi e interagire con i propri consimili. Si può comprendere come sia importante conoscere e “guidare” l’attivazione di determinati SMI durante il lavoro terapeutico, considerato che in molti pazienti persiste una radicale e pregiudizievole attivazione di SMI come risposta ad una condizione temuta e non reale. Si consideri altresì che l’attivazione di alcuni SMI (per la conoscenza dei quali si rimanda il lettore ai contributi ampiamente riportati nella letteratura scientifica) pregiudica le capacità metacognitive (Liotti, Monticelli, 2008).

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Queste riflessioni insieme alla sperimentazione di modelli già consolidati di musicoterapia, nel tempo, ci hanno portato a sviluppare questo nuovo approccio definito MEM, che tenta di sfruttare le potenzialità della musicoterapia (spesso in associazione, parallelamente, ad un percorso di psicoterapia cognitiva). Approccio che ha già permesso di raccogliere una serie di evidenze sperimentali di efficacia in diversi ambiti applicativi (Barbagallo,  2010; Alaimo, 2008a, 2008b; Alaimo, Carollo & Costanza, 2008).

L’approccio Metacognitivo Evoluzionista alla Musicoterapia (Alaimo, 2011, Alaimo, 2008a, 2008b) può definirsi un modello strutturato di musicoterapia che si iscrive all’interno dell’epistemologia cognitivista ed evoluzionista. La cornice scientifica e operativa è, infatti, quella della psicologia cognitiva, costruttivista ed evoluzionista, coniugata con le più recenti acquisizioni delle neuroscienze (in modo particolare alle ricerche sui neuroni specchio di Rizzolatti e colleghi, 2006). 

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
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IL MODELLO MEM

L’approccio Metacognitivo ed Evoluzionista alla Musicoterapia, riassunto con l’acronimo MEM, nella sua applicazione clinica, può ritenersi come un processo sistematico di intervento nel quale lo psicoterapeuta insieme al musicoterapeuta (il primo indirettamente ma ricevendo e inviando costantemente feedback al musicoterapeuta) utilizzano l’esperienza sonora e tutti i suoi fondamenti fisico-emozionali, cognitivi, sociale, estetici, per promuovere processi funzionali, di benessere e/o co-determinare cambiamenti nel sistema di conoscenza del paziente attraverso la costante attenzione ai sui processi metacognitivi ed eco-evolutivi.

L’approccio metacognitivo ed evolutivo alla musicoterapia presuppone fin dall’inizio la pianificazione corale dei processi di cura, pensati e definiti cioè da più operatori (almeno due) che possano insieme ed in modo integrato individuare i principali obiettivi ed una scala di priorità.

La nostra attività di terapia e ricerca, nonché lo sviluppo di questo nuovo approccio MEM,  si sono basati sulla constatazione che l’uomo utilizza rappresentazioni mentali e processi mentali di computazione per organizzare e comprendere l’informazione sonoro-musicale, soffermandoci sulla costruzione del significato che viene attribuito ad una esperienza sonoro-musicale.

Secondo quanto emerso dai nostri studi e dalla nostra esperienza, il significato emozionale che viene attribuito all’esperienza sonoro-musicale dipende in parte dalla qualità dello stimolo ma in buona misura anche dalla situazione ambientale, dalla valutazione personale e dallo stato della mente di ciascun soggetto.

Dal nostro vertice prospettico nessuna esperienza sonoro-musicale avviene in assenza di una prospettiva più generale e complessa (che mai deve essere perduta e che rappresenta una delle topiche più importanti di questo nuovo approccio) che la co-determina e sostiene (funzionalmente o disfunzionalmente). In altri termini nessuna esperienza sonoro-musicale “cade” (come potrebbe fare, nella metafora, una goccia di inchiostro) su un “foglio bianco”; l’esperienza si iscrive sempre all’interno di uno stato mentale di un soggetto, stato mentale che, a sua volta, rappresenta la migliore risposta adattiva di quel soggetto al suo ambiente circostante, foresta o città metropolitana che sia.

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Riuscire ad apprezzare adeguatamente, capire emotivamemente, descrivere l’esperienza sonoro-musicale, soggettivamente co-costruita nel suo senso che possiede nell’hic et nunc, ha a che fare con moduli cerebrali e aspetti mentali che sono implicati con le funzioni metacognitive (Sloboda J.A., 1988).

Per queste ragioni i processi metacognitivi che l’esperienza sonoro-musicale stessa è in grado di attivare, opportunamente stimolati e guidati dal musicoteraputa, possono diventare degli strumenti di cambiamento e di co-evoluzione.

 Una particolare attenzione ed enfasi, come è stato già detto, è stata data parallelamente allo studio relativo alla attivazione di specifici SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali) durante le sedute di musicoterapia, puntando a promuovere i Sistemi Motivazionali del gioco e della cooperazione come condizione mentale e relazionale più favorevole per il miglior funzionamento e incremento delle funzioni metacognitive (Liotti , Monticelli, 2008). Proprio per l’individuazione e la quantificazione dei diversi SMI nel corso della seduta di musicoterapia sono state realizzate delle griglie finalizzate a rappresentare il succedersi degli SMI stessi, servendoci anche, a tal fine, delle parole guida del manuale AIMIT (Liotti, Monticelli, 2008).

Alla luce di quanto detto l’approccio MEM persegue due precipue finalità:

– implementare, attraverso tecniche di musicoterapia (opportunamente individuate), le funzioni metacognitive, tenendo conto degli SMI attivati e cercando di rendere il soggetto consapevole di alcuni processi (interni ed esterni a se) che sono stati selezionati in milioni di anni di evoluzione della specie, con l’obiettivo della migliore comunicazione, convivenza e cooperazione interpersonale (Alaimo, 2004 Cozolino, 2007);

– inquadrare sia il “senso” della “patologia” quanto quello della “fisiologia” all’interno della matrice ecologica ed intersistemica che connette l’individuo (in terapia) con il “pezzo” di rete o di “biosfera” che lo definisce come entità-di-un-insieme e lo iscrive all’interno della catena biologica (Bateson, 1984). 

Il gruppo di lavoro, diretto dall’autore di questo articolo, che in questi anni ha permesso di mettere a punto il modello MEM, oltre alla definizione teorica dell’approccio, ha realizzato (sempre a partire dall’esperienza sonoro-musicale) una serie di strumenti di diagnosi, delle griglie osservativo-valutative, nonchè dei protocolli mirati formulati per il raggiungimento di specifici obiettivi terapeutici (strumenti che sono oggetto di altre pubblicazioni in corso).

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
Articolo consigliato: Musica e Didattica Metacognitiva #1.

L’applicazione del modello MEM in ambito clinico ha permesso di individuare nuove strategie e percorsi terapeutici in grado di promuovere processi, integrati e multi-setting.  Le strategie e i protocolli sviluppati sono stati utilizzati anche in altri setting (riabilitazione, disturbi dell’apprendimento, etc.) offrendo delle prime evidenze relative all’efficacia dell’approccio.

Oggi l’approccio Metacognitivo Evoluzionista alla Musicoterapia appare un corpus metodologico e pratico capace di produrre cambiamenti evolutivi (anche in pazienti definibili come difficili) e valutabili con opportuni strumenti clinici, psicometrici e psicofisiologici per mezzo anche dell’applicazione di indici statistici atti a percepire e descrivere la misura del cambiamento promosso da un ciclo di sedute di musicoterapia.

Per quanto l’approccio MEM sembra avere raggiunto una sua forma definita e “matura” il gruppo dell’ISPEM rimane nell’ottica del work in progress, sperando di potere potenziare sempre di più l’approccio e di continuare a proporre studi di efficacia su campioni più ampi di pazienti.

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*Direttore Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin” (ISPEM) di Caltanissetta. Vedi sito personale del Dr. Alaimo 

[1] L’ISPEM, Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin”, che ha sede a Caltanissetta, è una organizzazione non lucrativa, costituito per la ricerca, diagnosi e cura dei Disturbi mentali e del disagio psichico.  

 

BIBLIOGRAFIA

  • Alaimo S.M., (2012a). La valutazione dei processi metacognitivi ed attentivi nei disturbi di personalità, Congresso: I  disturbi  di  personalità nella prospettiva cognitiva Modelli psicopatologici  e  protocolli  di trattamento, Catania.
  • Alaimo S.M., (2012b)., Attaccamento e conoscenza: deficit metacognitivi e Disturbi di personalità, relazione Seminari scientifici: I Disturbi di Personalità: Nuovi orientamenti per la diagnosi e la terapia, Palermo.
  • Alaimo S.M., Duminuco G., (2012). Disturbi di personalità: complessità, multisetting, neuroscienze e logiche radiali multiple, relazione Seminari scientifici: I Disturbi di Personalità: Nuovi orientamenti per la diagnosi e la terapia, Palermo.
  • Alaimo S.M., (2011). L’approccio metacognitivo ed eco-evoluzionista in musicoterapia (MEM), relazione Seminario: Musicoterapia e psicoterapia cognitiva, nuovi co-setting. ISPEM Caltanissetta.
  • Barbagallo S., (2010).  Musicoterapia e trattamento delle dipendenze psicologiche, Tesi di laurea, Università di Catania.
  • Alaimo S.M., Dimaggio G., Scrimali, T., (2009).  Assessment e trattamento dei disturbi di personalità secondo l’orientamento post-standard, costruttivista e complesso. Workshop all’interno del Congresso: Psicoterapia cognitiva post-standard – Congresso in onore di Vittorio F. Guidano, nel decennale della morte, Catania.
  • Alaimo S.M., (2008a). Musica, Arti Figurative e Narrativa nel Processo Terapeutico, relazione Congresso internazionale: Set, setting  e  terapia. Catania.
  • Alaimo S.M., (2008b). Co-arteterapia e cognitivismo, relazione Seminario: Co-arteterapia e strategie di espressione non verbale in Psicoterapia, Riabilitazione psichiatrica e neuropsicologia, secondo il modello cognitivo  costruttivista. Università kore di Enna.
  • Alaimo, S.M., (2006). I Disturbi di Personalità secondo un’ottica complessa, Seminario, Università degli Studi di Catania.
  • Alaimo, S.M.,  Carollo A., Costanza T.,  (2008) Psicoterapia ed esperienza sonoro musicale attiva e ricettiva: uno studio su 16 soggetti con disturbo d’ansia. Poster presentato al XIV Congresso Nazionale della Sezione di Psicologia clinica e dinamica, Associazione Italiana di Psicologia, Padova settembre 2008.
  • Alaimo, S.M. 2006, Mindfulness, stress reduction e patologie croniche, IL PENDOLO rivista trimestrale di psicoterapia & Riabilitazione cognitivo-comportamentale,  curata dal Centro di Psicologia clinica Editore Grafica80, Pescara.
  • Alaimo S. M. (2004) Le Storie della Mente, ISPEM, Caltanissetta, 2005.
  • Bateson G., (1984). Mente e natura. Milano: Adelphi edizioni.
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  • Bowlby J. (1969), Attaccamento e perdita Vol. 1, L’attaccamento alla madre, Tr. It. Boringhieri, Torino
  • Bowlby J. (1973), Attaccamento e perdita Vol. 2, La separazione dalla madre, Tr. It. Boringhieri, Torino
  • Bowlby J. (1980), Attaccamento e perdita Vol. 3, La perdita della madre, Tr. It. Boringhieri, Torino
  • Brennan KA, Clark CL, Shaver PR. (1998). Self-report measurement of adult attachment. In: Simpson JA, Rholes WS, eds. Attachment and close relationships. New York: Guilford Press 1998.
  • Cozolino L., (2008). Il cervello sociale. Neuroscienze delle relazioni umane. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Liotti G., Monticelli F. (a cura di) (2008). I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Macdonald Critchley, R. A. Henson, (1987), La musica e il cervello. Studi sulla neurologia della musica. Piccin Nuova Libraria: Padova.
  • Rizzolatti G, Sinigagli C. (2006). So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Schon, D., Akiva-Kabiri L., Vecchi, T. (2007). Psicologia della musica. Roma: Carocci editore.
  • Semerari A., (1999). Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Metacognizione e relazione terapeutica. Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Sloboda J.A. (1988). La mente musicale. Psicologia cognitivista della musica. Bologna: Il Mulino.
  • Scrimali T., Alaimo S. M., Grasso F. (2007). Dal sintomo ai processi- L’orientamento cognitivista e costruttivista in psicodiagnostica, Milano: Franco Angeli. 

“Amour”, Storia d’Amore e Distruzione – RECENSIONE (M. Haneke, 2012)

 

  Recensione del Film: Amour di Michael Haneke

 

“Amour” (2012) di Haneke. Storia d’Amore e Distruzione – RECENSIONE
Locandina di Amour (2012) di Michael Haneke.

L’ultima fatica di Michael Haneke è un film straordinario e disperato, nel quale il tema della morte, della malattia e della vecchiaia viene trattato con superba forza d’impatto e una lealtà interpretativa ai limiti del sostenibile.

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SPOILER ALERT!  L’ARTICOLO SVELA PARTI DELLA TRAMA DEL FILM

La pellicola sviluppa il percorso attraverso la sofferenza di un’anziana donna colpita da ictus, che viene accudita dal marito e da questi uccisa al termine di un’estenuante declino fisico e mentale.

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Sono molteplici gli aspetti narrativi che generano nello spettatore un crescente disagio, l’angosciosa discesa in un dolore che il regista vuole rendere inevitabile a chi lo osserva, percepibile nella mente e nelle viscere: la coppia di protagonisti è sorretta da un amore assoluto e totalizzante, che esclude il resto della famiglia dalla possibilità di partecipare al viaggio verso una morte che la donna desidera e richiede; il marito è appassionato nell’immolarsi al sacrificio di un accudimento che progressivamente lo svuota e che genera, venendone al tempo stesso generato, un sentimento di possesso quasi dispotico; l’inflessibilità di entrambi nell’affrontare la malattia come passaggio finale di un’intera vita condivisa fra le medesime risonanze culturali, concezioni esistenziali affini e movimenti complementari, produce un dialogo che gradualmente isola l’autoreferenzialità di ciascuno.

Della morte e del morire. Immagine - © goccedicolore - Fotolia.com
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La donna, impegnata nel rifiuto attivo di un’esistenza in cui non riesce più a riconoscere la propria dignità, mentre l’uomo si oppone alla resa e prosegue nel tentativo di rianimare parole di un tempo, ricordi sempre più inaccessibili alla coscienza e all’ineluttabilità del reale.

In Amour, Haneke compie, al solito, un ritratto asciutto del dolore, privando lo spettatore degli strumenti che potrebbero aiutarlo nell’avvicinarsi all’esperienza rappresentata nel film: non vi è compassione che possa autoalimentarsi, né la speranza che qualcosa di più consolante possa accadere, non esiste mediazione fra l’essere umano e la sofferenza.

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Le scene del lento tracollo sono distillate, dilatate non attraverso il tempo ma attraverso lo spazio mentale dell’osservatore, così l’anziano marito che prova con le poche energie rimaste a far camminare la donna, l’espressione di lei quando iniziano i rituali di una separazione irreversibile da sé – i pannoloni cambiati dall’infermiera, l’enuresi che conclude con rabbia muta la parabola dell’esistenza come ciclo non negoziabile di dipendenza dall’altro, esplorazione autonoma e di nuovo richiesta regressiva di cure – sono frammenti sui quali Haneke si sofferma ogni volta per pochi secondi, seminando la percezione nitida di un dramma che si annida più nell’anima che nel corpo dei protagonisti e non richiede perciò una narrazione prolissa, né una descrizione articolata dei dettagli concreti.

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All’interno del racconto si inserisce la figlia dei due coniugi, che condivide coi genitori l’inflessibilità nel concedersi una reale apertura al dolore e all’espressività emotiva, in un quadro globale che richiama l’idea di un’austera e colta borghesia parigina.

Solo negli ultimi istanti sembrano esplicitarsi dei conflitti, quando la coppia nega alla figlia, ora preda di un’angoscia che non può più controllare, la possibilità di vedere l’ultimo volto della malattia.

La scena finale di Amour, muta e immobile come in tutti i film di Haneke, arriva dopo la disperata eutanasia e dopo la rassegnata follia che si impadronisce dell’uomo per condurlo ad un destino che immaginiamo essere di abbandono della vita: la figlia seduta in salotto ad osservare qualcosa davanti a sé, è ciò che rimane di una storia consumatasi senza spazio per un ideale di speranza, senza temi morali o religiosi, nella quale il ricordo non porta quiete bensì testimonianza dell’inesorabilità del dolore.

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RIFERIMENTI:

 AMOUR (2012) TRAILER ITALIANO:

L’ Ipnosi Riduce i Sintomi della Menopausa?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La terapia di rilassamento ipnotico è in grado di ridurre le vampate di calore dell’80 %, e di indurre un miglioramento nella qualità della vita e una diminuzione di ansia e depressione.

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Secondo un nuovo studio condotto da ricercatori della Baylor University’s Mind-Body Medicine Research Laboratory l’ipnosi clinica può efficacemente ridurre le vampate di calore e sintomi associati alla menopausa.

I risultati dello studio indicano che la terapia di rilassamento ipnotico è in grado di ridurre le vampate di calore dell’80 %, e di indurre un miglioramento nella qualità della vita e una diminuzione di ansia e depressione.

Estrogeni Menopausa e Funzioni Cognitive - Immagine: © meletver - Fotolia.com
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Il campione, composto da 187 donne, è stato seguito per un periodo di cinque settimane durante il quale sono stati considerati sia i sintomi fisici delle vampate di calore, che le valutazioni soggettive da parte delle donne. Tutti i soggetti sono stati sottoposti a sedute settimanali di ipnosi e hanno anche praticato l’auto-ipnosi grazie a registrazioni audio e video.

Secondo Gary Elkins, Ph.D., professore di psicologia e neuroscienze al Baylor’s College of Arts & Sciences e direttore del Mind-Body Medicine Research Laboratory, l’uso dell’ipnosi ha permesso non solo una variazione nella capacità di tollerare o far fronte ai sintomi, ma una vera e propria diminuzione delle vampate di calore. Oltre a diminuire in frequenza, le vampate di calore sono diventate anche più lievi.

Per essere clinicamente significativa, la riduzione deve essere del  50 % o più: nello studio in questione già alla quarta sessione le vampate di calore sono diminuite di circa il 70% e nel follow-up a tre mesi si è registrata una  diminuzione media dell’80%; alcune donne hanno riferito addirittura una quasi totale scomparsa delle vampate di calore. 

Sul lungo termine, l’intervento ha il vantaggio di ridurre gli effetti collaterali dei normali trattamenti e i costi di assistenza sanitaria; i trattamenti comunemente usati prevedono l’impiego di ormoni – estrogeni o progestinici – che sono efficaci con un intervallo da 90 a 100% di riduzione delle vampate, ma sono anche associati ad un aumentato rischio di cancro al seno o malattie cardiache, gli antidepressivi, con una diminuzione nella gamma di 45 a il 60 %, ma con possibili effetti collaterali come secchezza delle fauci e calo del desiderio sessuale, e i rimedi a base di erbe, in genere risultano essere di benefici poco più che un placebo.

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I prossimi passi dei ricercatori saranno per determinare se l’intervento possa essere effettuato grazie all’impiego di registrazioni audio e video, in tal caso si potrebbe raggiungere un ampio utilizzo e potenzialmente aiutare milioni di donne. Altri studi dovranno essere fatti per vedere se questo tipo di trattamento possa essere benefico anche per il sistema immunitario e prevenire le malattie.

I risultati della ricerca sono in accordo con i risultati di un precedente studio di Baylor che ha utilizzato l’ipnosi per ridurre le vampate di calore in donne sopravvissute al cancro al seno.

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BIBLIOGRAFIA:

Psicoterapia: Il Disputing delle Idee Ossessive e delle Compulsioni

 

MONOGRAFIA: IL DISPUTING IN PSICOTERAPIA   LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

Il disputing delle idee ossessive e delle compulsioni. - Immagine: © fotocomo - Fotolia.com

Pare che gli ossessivi si considerino responsabili di qualsiasi evento negativo sul quale abbiano anche un remotissimo potere d’influenza sia nel determinarlo che nel prevenirlo.

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La letteratura scientifica ci dice che il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo deve prevedere una significativa componente comportamentale, ovvero di esposizione prevenzione della risposta (exposure and response prevention, ERP).

Il titolo indica due interventi che corrispondono ai due elementi della psicopatologia ossessiva. Il primo elemento sono le idee ossessive vere e proprie, pensieri e idee vissute dalla persona affetta da questo disturbo come estranee e intrusive, il che vuol dire che i pazienti giudicano i contenuti delle ossessioni senza senso e totalmente estranei al loro sistema di valori e ai loro princìpi morali.Queste idee sono percepite anche come incoercibili dai pazienti, i quali non riescono, malgrado si sforzino, a distogliere la loro mente da tali pensieri, che si impongono nella loro mente contro la loro volontà e senza alcuna possibilità di controllo. Infine queste idee ritornano continuamente ad occupare lo scenario mentale del paziente (Westphal, 1878).

Accanto alle idee ossessive troviamo i comportamenti compulsivi, comportamenti ripetitivi o azioni mentali che il paziente deve obbligatoriamente mettere in atto in risposta ad un’ossessione, seguendo regole rigide, allo scopo di prevenire o ridurre il disagio o alcuni eventi o situazioni temuti; i comportamenti o le azioni mentali sono eccessivi o non sono collegati in modo realistico a ciò che devono neutralizzare o prevenire.

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
Articolo consigliato: Storie di Terapie #5 – Simone l’Ossessivo.

Torniamo ora ai due elementi dell’ERP. Il primo elemento è l’esposizione alla situazione temuta rappresentata nell’idea ossessiva. Il secondo elemento è la prevenzione della risposta, e non è altro che l’astensione dal comportamento compulsivo. Appare chiaro però come esposizione e prevenzione della risposta siano strettamente collegati. Non ci può essere esposizione senza prevenzione della risposta, infatti.

Le compulsioni hanno proprio la funzione illusoria di impedire al paziente ossessivo di andare incontro allo scenario temuto. Alcune compulsioni hanno un legame sensato e pratico con le loro ossessioni: ad esempio, la compulsione di lavaggio evita che alla persona capiti, come teme, di contaminarsi e di sporcarsi. Molti rituali agiscono per invece grazie alla logica del pensiero magico: compio una certa sequenza di comportamenti perché essa mi permetterebbe di non ammalarmi di una certa malattia o di non compiere una certa azione malvagia. La situazione temuta può essere un danno concreto (l’esposizione a un agente contaminante, sporco) oppure, secondo la teoria cognitiva clinica di Paul Salkovskis, una credenza cognitiva di responsabilità esagerata: inflated responsibility.

Pare quindi che gli ossessivi si considerino responsabili di qualsiasi evento negativo sul quale abbiano anche un remotissimo potere d’influenza sia nel determinarlo che nel prevenirlo (Salkovskis, 1996; Salkovskis et al., 1997). Siccome le connessioni tra gli eventi se si vuole le si possono sempre trovare, per gli ossessivi diventa praticamente sempre possibile scoprire una spiegazione anche remotissima, a volte anche bizzarra, che riguardi la relazione tra sé e l’evento.

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L’esagerato senso di responsabilità non riguarda solo le azioni ma anche le eventuali omissioni, per cui non sforzarsi al massimo per prevenire un certo evento equivale a esserne ugualmente responsabili per omissione. Il profondo senso di responsabilità è accompagnato dal timore per una colpa che l’ossessivo immagina talmente grave da non essere affrontabile e sopportabile, se l’evento temuto si dovesse verificare. 

 È chiaro allora che qui è posizionato il primo aggancio per l’intervento più puramente cognitivo, ovvero il disputing delle idee ossessive. La domanda d’esordio del disputing

T.: Qual è il problema di cui vogliamo parlare?

Si adatta sia alle idee ossessive che alla compulsioni. Naturalmente nel primo caso la catena di pensieri negativi va verso la terribilizzazione.

P.: Vorrei parlare di certe idee che mi vengono in mente

T.: Quali, in particolare?

P.: Per esempio, cammino insieme a mio padre e mi viene in mente che potrei colpirlo.

Oppure:

P.: Ho mio figlio piccolo in braccio e mi viene in mente che potrei sbatterlo contro il muro

In questi casi l’evento negativo è chiaro. Il processo cognitivo che lo sostiene è la cosiddetta fusione pensiero-azione. Rachman (1993) è l’autore che ha sottolineato l’importanza di questo elemento. In questa modalità di pensiero il fatto di pensare qualcosa significa automaticamente farla, oppure assumersene la responsabilità. Come nell’esempio, pensare a una possibile disgrazia capitata al proprio figlio significa aumentare le probabilità che questo accada o meglio essere in parte responsabile del fatto che questo evento possa realmente accadere poiché, avendolo pensato, tale evento diventa più probabile di quanto sarebbe potuto essere se non fosse stato mai pensato. Analogamente l’aver pensato di aver investito qualcuno mentre si guida l’auto è quasi equivalente ad averlo realmente fatto. Ciò rappresenta una tipica credenza dei soggetti ossessivi  convinti che: “pensare una cosa equivale a farla”. 

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I Pensieri rigidi, le mani pulite e Amleto.
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Nei casi del timore di avere pensieri blasfemi o di pensare bestemmie la qualità tutta mentale delle preoccupazioni dell’ossessivo è ancora più evidente. Una bestemmia mentale, più che un timore di qualcosa di negativo, è in sé qualcosa di negativo da evitare. Di qui la pretesa  di assoluto controllo dei propri pensieri ed il tentativo irrealistico di non pensare quelli cattivi. Per gli ossessivi pensare un pensiero cattivo comporta la stessa responsabilità dal punto di vista morale di aver compiuto l’azione o di non aver fatto di tutto per evitare l’evento che ne conseguirebbe. La fusione pensiero-azione rappresenta una estensione del pensiero magico. 

La risposta del paziente ossessivo a cosa potrebbe accadere può essere quindi immediata. Il problema non è tanto che potrebbe accadere qualcosa. Il fatto di avere pensato già prova che il fatto accadrà.

T.: Quindi il suo problema è che potrebbe fare del male al suo bambino. Ma come fa a dire che lo farà.

P.: Beh, l’ho pensato e quindi potrei farlo.

Applicando l’equazione di Salkovskis, i parametri da valutare sono la tollerabilità del fatto e la reale probabilità. È chiaro che non è raccomandabile pensare di tollerare di fare del male al proprio bambino. Anzi, occorre essere cauti. Il paziente ossessivo, infatti, può raccontare di avere già tentato di mettere alla prova quanto una cosa sia probabile che avvenga, spesso in modi bizzarri.

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T.: Capisco che avere il pensiero di fare del male al proprio bambino è sgradevole. Però pensarlo non significa farlo davvero e tantomeno volerlo fare.

P.: Beh, l’ho pensato…

 T.: D’accordo, lo ha pensato. Ma ha anche pensato di volerlo fare? Ci pensi bene: pensare di fare una cosa è lo stesso che pensare di volerla fare?

Insistendo su questa strada occorre mettersi d’accordo che ciò che è da temere è qualcosa di solo mentale.

T.: Il suo problema non è fare del male, ma pensare di fare del male. Su questo occorre lavorare.

Ma prima di arrivare qui quasi sempre occorre liberarsi delle compulsioni. Occorre disputarle, ovvero mettere in discussione l’utilità (il paziente ossessivo pensa che seguendole terrà a bada i suoi pensieri ossessivi) e poi dichiarare con chiarezza che solo l’astensione dalle compuslioni fa andare avanti il trattamento.

T.: A che le serve toccare in sequenza questi oggetti? 

Spesso la compulsione è talmente automatizzata che il paziente ha letteralmente dimenticato perché la fa.

P.: Non saprei, devo farlo e basta. Se non lo faccio sono a disagio.

 In questi casi si può chiedere cosa accadrebbe se non lo facesse.

T: Per comprendere perché facciamo qualcosa possiamo pensare a che le serve. Nel caso di un’emozione d’ansia, cosa vuole evitare che accada facendolo.

In alcuni casi il paziente sostiene che ha la sensazione che facendolo prova sollievo e che i suoi timori non si avvereranno.

P.: Non so, mi sembra che se lo faccio non avverrà nulla di male a chi voglio bene.

T.: Ma che prove ha che sia proprio così?

P.: Non so. Ma non voglio correre il rischio.

Oppure più semplicemente:

P.: non so cosa temo, ma so che se lo faccio mi sento tranquillo. Devo farlo.

Più che rassicurare il paziente che non accadrà nulla, occorre convincerlo che conviene privarvi (??) per poter stare meglio.

T.: Capisco. Tuttavia a questo punto del trattamento è conveniente che lei si astenga dalle sue ossessioni. La terapia prevede proprio che lei apprenda a sopportare il malessere che si realizza. 

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Insomma, in tutti i tre casi (ovvero, che il collegamento tra compulsioni e ossessioni sia 1) nullo, ovvero semplicemente sto bene se la faccio; 2) magico, ovvero se lo faccio non accade; 3) o –a suo modo- logico, ovvero mi lavo le mani ed elimino il rischio di contaminarmi) si arriva a un punto in cui si prescrive l’astensione dalla compulsione e si disputa la base emotiva dei sintomi, sia compulsivo che ossessivo: la convinzione di non poter tollerare il malessere legato all’ossessione e all’astensione dalla compulsione. 

Il passaggio fondamentale è sempre identico: sfrondare tutte le possibilità concrete negative impossibili o almeno altamente improbabili, e poi accompagnare il paziente verso l’accettazione di un livello di frustrazione o di dolore morale significativo, anche intenso, ma non mai veramente insopportabile. Si persegue la riformulazione in termini sopportabili della sofferenza, la trasformazione dell’etichetta di “evento (o idea, nel caso dell’ossessivo) catastrofico insopportabile” in “evento negativo ma sopportabile”.

MONOGRAFIA: IL DISPUTING IN PSICOTERAPIA   LEGGI: INTRODUZIONE AL DISPUTING DEI DISTURBI D’ANSIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disturbo Borderline di Personalità (DBP): lettura magistrale di John Gunderson

Francesca Martino.

 

Disturbo Borderline di Personalità: dalle linee guida alla pratica clinica, 18-19 ottobre Cesenatico

Lettura magistrale di John Gunderson in video conferenza da Boston

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Prof. Gunderson - Disturbo Borderline di Personalità. 18 ottobre 2012. Cesenatico.LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’

Il comune di Cesenatico ospita la 5 edizione del Convegno Regionale sul Disturbo Borderline di Personalità che quest’anno vede intervenire John Gunderson, Psichiatra direttore del Centro per i Disturbi di Personalità presso il McLean Hospital dell’università di Harvard di Boston. La sessione è stata coordinata da Maria Elena Ridolfi, psichiatra presso la ASUR di Fano e allieva del professore durante la sua formazione negli Stati Uniti.

Il Prof. Gunderson ha diviso il suo intervento in 4 parti: la diagnosi, l’eziopatogenesi, il decorso clinico e il trattamento. 

1- La diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità. Nel primo segmento, Gunderson ha fatto un accenno alla diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità, prevista nel DSM-5. Il nuovo manuale fornirà ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantirà, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato. 

Il Disturbo Borderline di Personalità sarà determinato da un criterio nucleare (A) definito da (1) una compromissione del funzionamento del sé, ovvero da un’immagine di sé instabile, sentimenti di vuoto/solitudine, instabilità negli scopi e assenza di progettualità e da (2) una compromissione del funzionamento interpersonale costituito dalla difficoltà di “vicinanza affettiva”caratterizzata da una pervasiva preoccupazione di essere rifiutati e abbandonati e allo stesso tempo dal timore che l’eccessiva intimità possa essere “minacciosa”.

XVI CONGRESSO NAZIONALE SITCC Roma 4 – 7 Ottobre 2012
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Il secondo criterio (B), indagato solo se viene soddisfatto il primo, riguarda: (1) affettività negativa, ovvero la labilità emotiva e la sintomatologia ansiosa e depressiva; (2) disinibizione, espressa con la tendenza all’impulsività e con i comportamenti rischiosi;  (3) antagonismo, ovvero la tendenza pervasiva all’ostilità.

Tali tratti devono  inoltre essere relativamente stabili nel tempo (C), non imputabili a caratteristiche socio-culturali (D) o all’alterazione dovuta all’effetto di sostanze (E). 

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La sessione si chiude con delle raccomandazioni cliniche. Gunderson sottolinea l’importanza di comunicare la diagnosi al paziente, in quanto quest’ “azione terapeutica” contribuisce a ridurre il senso di alienazione, il biasimo e la critica da parte dell’ambiente, a preparare le basi per un’alleanza di lavoro, primo passo nella cura dei pazienti “difficili”.  

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Come comunicare la diagnosi? chiedono dal pubblico. “Potremmo utilizzare un approccio più descrittivo, leggendo al paziente i criteri e chiedendogli quanto si sente rispecchiato da tale fotografia o seguire un approccio più narrativo spiegando che esistono delle persone più “sensibili” agli eventi interpersonali, dunque possiedono bisogni maggiori che necessitano di attenzioni particolari per essere soddisfatti, e che spesso l’ambiente non è in grado di comprendere tali bisogni e quindi di fornire le attenzioni richieste”.

2- L’eziopatogenesi del Disturbo Borderline di Personalità. Gli studi che si sono concentrati sul ruolo della componente genetica nello sviluppo di un Disturbo Borderline di Personalità ne hanno sostenuto una parziale ereditarietà, del 50% circa. Recentemente (Distel 2012) è stata ipotizzata invece la trasmissibilità solo di alcune componenti, come l’impulsività, ma non del disturbo nel suo complesso. Altri autori si sono invece soffermati sull’ impatto decisivo della variabile socio-ambientale nello sviluppo del disturbo. Da questa concezione si snodano una serie di orientamenti teorici che individuano l’ “origine” del disturbo nella presenza di un’esperienza traumatica precoce (Kernberg, 1994), nell’interazione di una vulnerabilità biologica e un ambiente invalidante (Linehan 1993), in una relazione di attaccamento fallimentare (Fonagy 2000).

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I modelli teorici individuano rispettivamente il core del disturbo in una mancanza di integrazione di componenti scisse dell’io, in una disregolazione emotiva o in una scarsa capacità di mentalizzazione. 

Gunderson sottolinea la robustezza teorica ed empirica di questi modelli, senza marcare una superiorità di uno sull’altro o ipotizzare una linea di integrazione degli stessi. Conclude con un commento personale: “A mio avviso, l’aspetto nucleare del Disturbo Borderline di Personalità sta nella “iper-sensibilità interpersonale”, ovvero nella  tendenza a interpretare i comportamenti come atteggiamenti di rifiuto e allontanamento e a reagire in maniera eccessiva alle risposte dell’altro”.

E’ interessante notare come il core evidenziato da Gunderson, che richiama il criterio nucleare proposto nel DSM-5,  ponga un certo accento sull’interpretazione cognitiva pervasiva e disadattiva del paziente e sulla sua conseguente risposta emotiva “eccessiva”.

3- Il decorso clinico del Disturbo Borderline di Personalità. Il terzo spazio si apre con la presentazione del Collaborative Longitudinal Personality Disorder Study (Gunderson 2011) dal quale si evidenzia come il Disturbo Borderline di Personalità vada incontro ad un significativo tasso di remissione sintomatica, pari al 45% dopo 2 anni dalla diagnosi e dell’85% dopo 10, con un tasso di ricadute del 15%. Nonostante gli esiti clinici favorevoli, però, i pazienti continuavano a presentare un funzionamento sociale scarso.Dallo studio si evidenzia inoltre che, a prescindere dal trattamento che il Disturbo Borderline di Personalità riceveva, si andava comunque incontro ad un miglior esito nel corso del tempo. La prognosi relativamente favorevole sostenuta dallo studio ha radicalmente cambiato, nella comunità clinica e scientifica, la visione di una condizione “cronica”, dunque stabile nel tempo e difficilmente trattabile.

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington http://faculty.washington.edu/linehan/
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La raccomandazione con la quale Gunderson conclude la sessione dedicata al decorso è rivolta dunque ai clinici, spesso sfiduciati nei confronti di questi pazienti. “Di fronte ad un paziente che non migliora nel corso dei primi mesi del trattamento chiedetegli qual è la sua percezione dell’andamento della terapia e quali possono essere le difficoltà dovute allo scarso miglioramento e soprattutto interrogatevi sulla vostra motivazione a lavorare con quel paziente e sulle aspettative che avete su di lui… Non esistono pazienti intrattabili, esistono però quelli che noi non riusciamo a trattare”.

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4- Il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. In ultimo Gunderson ha fatto un’overview sui modelli di trattamento evidence-based per il Disturbo Borderline di Personalità. Le tecniche, manualizzate e studiate in RCT, come la DBT (Linehan 1993), l’ MBT (Bateman 2004) e la TFP (Clarkin 1999) si sono dimostrate generalmente efficaci nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. E’ però vero che, ad oggi, esiste una sostanziale sovrapponibilità dei modelli e l’assenza quindi di una superiorità di uno sull’altro (Gabbard 2004).

La comunità scientifica si sta muovendo da qualche anno verso il tentativo di individuare quali potrebbero essere gli aspetti che accomunano questi modelli e che rappresenterebbero dunque gli elementi chiave nel determinare l’efficacia nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità.  Sembra ormai esserci un certo accordo, condiviso anche dalle linee guida inglesi del National Institute for Clinical Excellence (NICE 2009), sull’assunto che il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità debba essere costituito da (1) alta strutturazione degli interventi erogati dall’équipe che prende in carico il paziente (2), coerenza degli approcci teorici adottati dai professionisti (3), supervisioni regolari dell’équipe (4), contratto terapeutico per la definizione di regole e obiettivi condivisi (5), atteggiamento empatico e supportivo, ma attivo e orientato al problem solving. 

Il Prof. Gunderson ci presenta brevemente il suo modello di lavoro al McLean Hospital che segue i punti sopra elencati e le indicazioni delle linee guida americane (APA 2001). “Il General Psychiatic Management (GPM) è costituito da diversi interventi, generalmente di matrice psicoeducativa e psicodinamica, erogati da professionisti con esperienza sul disturbo, ma senza un orientamento tecnico specifico. Il GPM si articola in: interventi psichiatrici e farmacologici, psicoterapie individuali e gruppali, case management infermieristico, gruppi psicoeducativi sui familiari, altri interventi tagliati ad hoc per il paziente.

Gunderson rimarca dunque gli elementi comuni che sembrano avere una generale efficacia nel lavoro su questi pazienti, ma non fa accenno a quelli che potrebbero essere i fattori che mediano tra una tale organizzazione “strutturata, coerente e supportiva” e l’outcome positivo sul paziente. Lo stato dell’arte sembra aver dunque individuato abbastanza chiaramente la “struttura” che un buon trattamento debba avere, ma ancora poche informazioni ci vengono date sugli elementi chiave che potrebbero avere un impatto diretto sull’efficacia. 

Il collegamento si chiude con la domanda della coordinatrice “Cosa ti ha fatto scegliere di lavorare con questi pazienti e cosa ti restituisce questa esperienza di lavoro?

Bhè devo ammettere che non è stata una mia scelta! Dopo le prime esperienze ho iniziato ad essere “famoso” nel campo e quindi hanno iniziato a contattarmi e riferirsi a me come “esperto” nel settore, ancor prima che io avessi potuto scegliere con “certezza” se lavorare con il Disturbo Borderline di Personalità. Mi sono appassionato via via a questi pazienti, che continuano a restituirmi giornalmente gratificazioni a livello professionale e personale. In generale, credo che lavorare con i Borderline ti tenga continuamente “attivo” per il grado di iper-coinvolgimento che portano con loro… è un’altalena tra il tentativo cauto di avvicinamento e quello più affannoso di “difendersi” dall’inondazione delle loro richieste alle quali è necessario porre dei limiti. Credo che quando  impari a trattare un Borderline hai le armi per poter trattare chiunque”.

Salutiamo e ringraziamo il Prof. J. Gunderson con un lungo e caloroso applauso finale. 

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BIBLIOGRAFIA:

Dubbi Pre-Matrimoniali e Soddisfazione Coniugale

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il nervosismo pre-matrimoniale può essere segno di guai in vista nel futuro della coppia.

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Secondo i risultati di una ricerca condotta all’Università di Alberta le coppie in procinto di sposarsi dovrebbero prestare attenzione ai dubbi che le assillano prima del matrimonio. Questi dati sono in accordo con quelli di un altra ricerca pubblicata su Journal of Family Psychology nel  settembre 2012, secondo la quale il nervosismo pre-matrimoniale può essere segno di guai in vista nel futuro della coppia. 

soddisfazione matrimoniale- chi trova un marito, trova un tesoro. - Immagine: © Nuvola - Fotolia.com
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Lo studio, pubblicato di recente su Family Process, ha utilizzato tre gruppi dati di ricerca relativi un campione di 610 coppie eterosessuali appena sposate (1220 individui) per studiare il rapporto tra la fiducia coniugale, il tempo passato insieme e la soddisfazione di coppia; i dati sono stati raccolti ad intervalli di 18 mesi per un periodo di 4 anni. 

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I risultati indicano che le coppie che erano più sicure mentre si scambiavano i voti passavano anche più tempo insieme nei 18 mesi successivi al matrimonio e risultavano felicemente sposate tre anni dopo; inoltre la fiducia coniugale ha correlato positivamente con la quantità di tempo passato insieme a tre anni dal matrimonio, e questa a sua volta era associata alla soddisfazione coniugale rilevata nell’ultima tappa del periodo di osservazione.

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In un momento in cui il divorzio è molto comune, mettere da parte per un attimo il romaticismo e occuparsi dei problemi relazionali prima del grande passo sembra essere fondamentale; secondo gli autori, infatti, la tentazione di ignorare le preoccupazioni e “tirare avanti” è forte, ma le coppie hanno bisogno di riflettere sui dubbi che hanno, perchè questi sono indicatori importanti di qualcosa che non va e vanno ascoltati prima che sia troppo tardi.

In quest’ottica la consulenza pre-marimoniale può essere per le coppie una buona occasione per confrontarsi apertamente e onestamente con ciò che le preoccupa e per testare la loro fiducia nella capacità di affrontare le sfide future.

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BIBLIOGRAFIA:

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale

PSICHE & LEGGE #3

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale

 

Femminicidio & Codice Penale: Delitto Emotivo vs Delitto Passionale. - Immagine: © jedi-master - Fotolia.comPsiche e Legge: la Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

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“Un’altra donna uccisa: è allarme femminicidio”. “In vertiginoso aumento, la violenza omicida maschile”. Così, purtroppo, titolano, sempre più spesso, le cronache italiane. Ed è vero. Si tratta di un fenomeno in costante aumento.

Le percentuali che inducono a parlare di femminicidio. Le vittime sono per la gran parte donne, non c’è dubbio, ma sono stata chiamata ad occuparmi esclusivamente dei risvolti legali di un fenomeno tragico, come quello cui si assiste quotidianamente. Da avvocato, dunque, non userò il termine femminicidio – propriamente riferibile all’uccisione di un soggetto, motivata esclusivamente dall’appartenenza ad un determinato genere sessuale – ma, più tecnicamente, di omicidio d’impeto e passionale, seppur commesso, nell’80% dei casi, in ambito domestico, familiare, e nei confronti di vittime di sesso femminile.

Mi sia consentito, da donna, marcare quanto possa far male pensare che l’uomo di cui ci si innamora, al quale si rivolgono attenzioni e pensieri, con cui si condividono emozioni, o che si rende padre, possa poi inveire così crudelmente sulla partner o, ancor peggio, maturare nel tempo tanto rancore, rabbia o immotivata voglia di vendetta, da divenirne, un giorno, il carnefice. Così, la persona cui ci siamo affidate, si trasforma (in momenti di crisi del legame affettivo, o in fase di separazione/divorzio) in quella da cui difendersi e fuggire. E se la responsabilità, è stata attribuita talora alla società che esaspera la coppia, talaltra alle difficoltà economiche legate alla frattura di un matrimonio (dimenticando che le “morti rosa” avvengono in qualsiasi contesto socio-culturale), non si può non riflettere come il gesto omicida – prima che da fattori esterni – si formuli e si definisca nella “mente criminale”.

La Psicologia del Femminicidio. - Immagine: Unos Cuantos Piquetitos 1935 - Frida Kahlo. Collection of Dolores Olmedo Patiño Mexico City, Mexico
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Indaghiamo, dunque, su cosa accade nella psiche del reo nel momento in cui compie un gesto efferato. Quale è la differenza, sotto il profilo strettamente legale, tra raptus e omicidio passionale? Quanto incide, se incide, sull’imputabilità, l’aver agito in preda ad uno “stato emotivo e passionale”? Quanto pesa sulla condanna l’aver progettato l’omicidio? E quali sono le circostanze che potrebbero aggravare o alleggerire la pena?

Non c’è dubbio, che gli omicidi commessi in famiglia, nei confronti di una persona cui si è, o si è stati legati, si differenziano dagli assassinii freddi (scaturiti, ad esempio, a moventi venali) per la particolare crudeltà di esecuzione, indice del forte coinvolgimento personale.

Si parla, così, indifferentemente, di delitti commessi in preda a “raptus” e di “omicidi passionali”. Dal punto di vista giuridico, però, non va fatta confusione. A ben vedere, si tratta di delitti nettamente diversi tra loro. Ciò che li distingue, è il momento ideativo del crimine.

Ma andiamo per ordine. È evidente che nel tracciare la distinzione tra le due figure, non mi tratterrò, non avendone le competenze scientifiche, sugli aspetti prettamente medico-psichiatrici della questione.

 Mi limiterò, pertanto, a spiegare cosa – nell’ambito di un processo per omicidio – si intende per “delitto emotivo” e cosa, invece, vuol dire “delitto passionale” (contemplati entrambi dall’art. 90 del Codice Penale, su cui ci soffermeremo più avanti). Lo stato emotivo viene definito come stato mentale permeato dall’emozione, reazione transitoria ed intensa ad un determinato stimolo, fattore scatenante del cosiddetto raptus di follia. Il delitto emotivo, quindi, si ravvisa nel gesto omicida caratterizzato da impeto, impulsività e mancanza di premeditazione, solitamente legato al movente della gelosia (su cui torneremo).

La scena del delitto parlerà chiaro: ogni particolare sarà indice di scatti d’ira, disorganizzazione, assenza di complici, e nessuna tentata dissimulazione. Potrebbe essere accaduto, ad esempio, che il soggetto, intenzionato solo a minacciare o terrorizzare la vittima, l’abbia poi uccisa, mosso da una parola di troppo, o da una psicotica reazione dovuta all’evolversi della discussione.

Diversamente, lo stato passionale – dal greco “pathos”, sofferenza – è frutto di un’emozione che si cronicizza, che perdura nel tempo ed esplode nell’atto estremo. Tanto è vero, che omicidi del genere sono in qualche modo annunciati da una costellazione di fattori spia: gelosia ossessiva, bisogno compulsivo dell’altro, molestie, episodi di stalking.

Gli omicidi passionali, inoltre, si contraddistinguono per il luogo del crimine. Per lo più, avvengono in auto, in casa, e comunque in ambienti chiusi e “intimi”, teatro di un confronto (solitamente concordato per definire la fine di una relazione affettiva) che, troppo spesso, spegne per sempre lo sguardo alla vita della vittima. Gesto che, nella mente del reo, può assumere persino il significato del giusto “prezzo” pagato dalla donna che l’ha abbandonato, tradito o che, semplicemente, ha smesso di amarlo.

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Voglia di rivalsa, dunque, che accomuna sia l’omicida emotivo che quello passionale, e che si evince anche dalla modalità dell’aggressione, di sovente frontale, come attestato, in sede di ricostruzione del crimine, sia da specifiche indagini scientifiche che dall’impressionante concentrazione dei segni della colluttazione, sulle mani e sulle braccia della vittima, ad indicare il disperato tentativo di difendersi, proprio da un attacco frontale. Altro punto di contatto, parrebbe essere il profilo dell’omicida (soggetto apparentemente rassicurante, senza precedenti penali e ignoto alle forze dell’ordine) e il comportamento successivo al reato (egli è solito non opporre resistenza all’arresto, o confessare l’accaduto, seppur in maniera confusa).

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Tanto rilevato, ciò che interessa puntualizzare, è la differenza – a livello legale – tra omicidio emotivo e omicidio passionale, legata alla diversità dell’elemento soggettivo del reato. Può affermarsi, difatti, che nel caso del raptus, il soggetto sia mosso da dolo d’impeto, mentre il delitto passionale, in qualche maniera progettato, fa pensare ad un dolo di premeditazione.

Ma quale è l’esatto significato di tali termini? Come messo in luce nel  #1 di questa mia Rubrica, l’autore di un reato ne sarà ritenuto responsabile, solo ove si accerti che la sua azione sia frutto di condotta dolosa o colposa. Quanto al delitto doloso, oggi d’interesse, il Codice Penale, all’art. 43, lo definisce come reato commesso “secondo l’intenzione” del soggetto agente e, dunque, da questi preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”.

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Sarà necessario, perciò – non solo accertare la volontarietà dell’omicidio commesso – ma anche il “grado” di intenzione che abbia animato la mano assassina, chiedendosi “quanto” intensamente il criminale abbia voluto quel delitto. Analisi da compiere, prestando particolare attenzione alla fase dell’Ideazione del crimine nella psiche del reo, e a quella della Preparazione, intesa come organizzazione del reato, ravvisabile solo in relazione agli omicidi intenzionalmente commessi, vuoi per dolo d’impeto, vuoi per l’ancor più grave dolo di premeditazione.

La programmazione del crimine indica, difatti, una lucida pianificazione del gesto omicida che potrà, come rilevato, assumere i connotati del reato d’impeto o di quello premeditato. Nel primo caso, la decisione di compiere il crimine è improvvisa, o quasi immediata rispetto allo stimolo esterno. Nel secondo, più intenso, il reo disegna con accuratezza le modalità esecutive del delitto,  solitamente posto in essere trascorso un certo lasso di tempo dall’ideazione.

Di qui, l’esigenza di appesantire la pena per l’omicida che abbia agito con premeditazione, giacché colpevole non solo di aver formulato l’intento criminale, ma di averlo altresì mantenuto nel tempo, rafforzandolo nel suo animo.

Chiarita la distinzione tra delitto emotivo e passionale, occorre fare un passo in più e domandarsi: se in entrambe le tipologie di omicidio, il reo sarà punito (perché mosso dalla volontà di uccidere), l’alterazione dovuta ad uno stato emotivo e passionale, ne escluderà o diminuirà la capacità di intendere e volere? In linea di massima no.

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Del resto, l’art. 90 del Codice Penale parla chiaro quando recita che gli stati emotivi e passionali “non escludono, né diminuiscono l’imputabilità”. La logica seguita dal legislatore è: l’emozione e la passione sono condizioni psicologiche – e non psicopatologiche – che fanno parte del patrimonio di ciascuno. Non sarebbe, pertanto, accettabile l’idea di giustificare la condotta di chi, pur capace di controllare i propri sentimenti, se ne sia invece lasciato trasportare. Su quali basi scientifiche si fonderebbe una dichiarazione giudiziale di incapacità d’intendere e volere, atta a qualificare il reo come non imputabile (dunque non assoggettabile a pena) o parzialmente imputabile (destinatario di pena ridotta)?

Lo stesso art. 90 c.p., a ben vedere, venne introdotto nel sistema penale, come insegna la dottrina, proprio per stimolare il dominio della nostra volontà sulle emozioni e sulle passioni che proviamo. Ed ecco che detti stati, al più, potranno valere ad attenuare la pena inferta all’assassino, ove il giudice ravvisi un nesso tra l’insorgenza dell’emozione/passione, e la provocazione della vittima. I rilievi finora svolti circa l’ininfluenza degli stati emotivi e passionali sull’imputabilità, non devono però fuorviare. Occorre distinguere, in effetti, due diverse ipotesi:

a)    il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali “normali”, la cui intensità, pur variando da individuo ad individuo, rientra nel range della sana emozione e passione. Il reo, a fini penali, sarà ritenuto capace d’intendere e volere, e assoggettato alla pena prevista, per l’omicidio, dall’art. 575 c.p., salvo il riconoscimento dell’attenuante prima indicata. Usualmente, difatti, il reo che agisce sotto l’influenza di stati emotivi (alterazioni psichiche di breve durata) o passionali (rancore, vendetta, gelosia) non patologicamente rilevanti, mantiene intatta la sanità mentale, restando, per l’occhio della legge, un lucido omicida;

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b)    Il delitto è stato commesso in presenza di stati emotivi e passionali connotati da un’intensità e morbosità tali, da integrare una vera e propria infermità mentale: l’alterata coscienza diviene “vizio di mente” totale o parziale del reo. Ma l’improvviso turbamento della personalità può anche derivare da una “reazione a corto circuito”, che si traduce in un’azione incontrollabile, aliena da quelle che annoveriamo come normali, dunque patologica e riconducibile nell’ambito delle infermità penalmente rilevanti.

In altre parole, se gli stati emotivi e passionali, in linea di massima, sono ininfluenti sulla condanna penale – trattandosi di alterazioni dell’affettività inerenti un soggetto psicologicamente “normale” –  non può dirsi altrettanto in relazione ad una psiche malata. Non può escludersi, dunque, che – in capo a soggetti mentalmente instabili o affetti da disturbi psichiatrici – i medesimi stati emotivi e passionali, assumano la forma di patologie psicotiche atte a incidere sulla capacità d’intendere e volere del reo, che verrà dichiarato affetto da vizio, totale o parziale, di mente. Viene da sé l’esigenza che – in sede processuale penale – il criminale sia sottoposto ad apposita perizia, tesa ad accertare se il riscontrato stato emotivo e passionale, non sia, in realtà, rivelatore di un’infermità mentale.

 In via di principio, dunque – per vagliare l’incidenza di tali stati sull’imputabilità – si avrà riguardo alla concreta attitudine degli stessi a compromettere la capacità di percepire il disvalore del fatto commesso, e il significato del trattamento punitivo. Qualche parola in più, ritengo debba spendersi circa il movente principe degli omicidi emotivi e passionali: la “gelosia”, sete di malato possesso dell’altro.

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Memori di quanto appena affermato, è evidente che la gelosia pura e semplice, seppur radicata o fortemente sofferta, non inciderà sulla capacità d’intendere e volere dell’Otello di turno, che conserverà – nel processo, e ai fini della condanna – la veste di freddo criminale.

Sappiamo, però, che la Cassazione (a mezzo della nota sentenza n. 9163/05, emessa dalle Sezioni Unite Penali) ha cristallizzato la regola per cui i disturbi della personalità possono essere valutati quali causa di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, purché di consistenza e intensità tali, da aver inciso sulla capacità di autodeterminazione del reo. Così, ove la gelosia abbia oltrepassato i confini degli stati emotivi e passionali, ed assunto le caratteristiche di una vera e propria psicopatologia, la stessa potrà rilevare – previo accertamento peritale – quale vizio di mente.

Il riferimento, è ovvio, è alla sola gelosia catalogata come Disturbo Delirante di tipo Geloso, recante tratti comuni con il Disturbo Ossessivo Compulsivo. E se, come sosteneva Rochefoucauld, “il y a dans la jalousie plus d’amour-propre que d’amour», allora l’uccidere, per il Geloso delirante, sarà l’unica soluzione atta a tamponare la sete di rivalsa per la perdita della persona amata, o meglio, per la perdita di un “possesso”.

Il geloso compulsivo, in sostanza, si delinea come un soggetto calato in una sua personale realtà costruita dapprima su una rete di dubbi e d’incertezze sulla fedeltà del partner, e, di seguito, su una visione parallela del reale, basata non più su sospetti tradimenti, bensì sull’irremovibile certezza che l’infedeltà sia stata già consumata.

Nosografia del Femminicidio. - Immagine: © Photo_Ma - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Nosografia del Femminicidio.

Ad aggravare il quadro clinico, concorreranno altri disturbi, legati al sentimento di abbandono, alla perdita delle abilità sociali, o ad un sopraggiunto stato confusionale, nella cui ottica i ricordi si mescolano alle fantasie e l’immaginato – nella mente dello psicotico – diviene un doloroso vissuto. Un vissuto da rimuovere, se necessario, anche “eliminando” fisicamente la causa di tanto malessere. In costanza di una gelosia patologica, dunque, sarà possibile tentare la via di una perizia tesa a vagliare la consistenza del disturbo e la sua eventuale riconducibilità nell’alveo delle malattie consacrate dal DSM-IV.

Parimenti, potrà concludersi per il disturbo borderline di personalità, definito nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali come una “modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’affettività con impulsività notevole, comparsa entro la prima età adulta e presente in vari contesti”.

Ebbene, se la personalità del borderline si caratterizza per disturbi dell’umore, manie di persecuzione, alternarsi di atteggiamenti remissivi e violenti, percezioni di buona autostima seguite da sentimenti di svalutazione, sarà evidente che – a fronte di eventi stressanti, come separazioni e abbandoni affettivi – il soggetto possa spingersi fino a perpetrare condotte auto ed etero distruttive, quali il suicidio o l’omicidio passionale.

Anche in tal caso, sulla falsariga di quanto avviene per i disturbi della personalità, per le gelosie morbose o le nevrosi, anche la personalità del borderline influirà sulla capacità d’intendere e volere, ove abbia assunto una consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla sanità mentale dell’assassino.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Ferracuti, F. (1988), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol.7, Giuffrè, Milano.
  • Lusa, V. & Pascasi, S. (2011). La persona oggetto di reato. Torino: Giappichelli Editore.
  • Lusa, V., Pascasi, S. & Borrini, M., Sanity and Insanity in a Criminal Trial: The European Experience Seeks the American Experience, Proceedings 64th Annual Scientific Meeting of American Academy of Forensic Sciences, Global Research: The Forensic Science Edge, Atlanta-Georgia, February 20-25, 2012.

Nosografia del Femminicidio

 

Nosografia del Femminicidio. - Immagine: © Photo_Ma - Fotolia.com

 

Femminicidio: Nel concetto di raptus c’è una debolezza: Si pensa che gli uomini uccidano in momenti di follia improvvisi e imprevedibili.

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Il Femminicidio Paranoideo

Abbiamo deciso di parlare di “diagnostica o nosografia del femminicidio” perché non ci piace affatto che nei giornali si parli, quando vengono descritti episodi di femminicidio, di “raptus”. È vero che ormai il termine è virgolettato trattandosi spesso delle dichiarazioni auto-giustificatorie dell’aggressore. Però è anche vero che è bene non abbassare la guardia.

Nell’enciclopedia Treccani troviamo questa definizione di raptus: 

In psichiatria, impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti (fuga, aggressione, suicidio, atti distruttivi, ecc.): in preda a un r. omicida ha aggredito l’amico.

Inoltre la definizione di raptus secondo wikipedia è:

Il raptus è un improvviso impulso di forte intensità che può portare ad uno stato ansioso e/o alla momentanea perdita della capacità di intendere e di volere. Il raptus può spingere il soggetto ad effettuare gesti violenti od aggressivi, autolesivi o lesivi verso altri. Vi è anche una forma di raptus cosiddetto “ansioso”. Si palesa con una breve ed intensa manifestazione di profonda ansia e può spingere il soggetto a gesti imprevedibili quali il suicidio o, più di rado, l’aggressione. Il raptus può essere riconosciuto, nell’ambito del diritto penale, come condizione di momentanea incapacità di intendere e volere (cosiddetto “vizio di mente”), e quindi come attenuante per la commissione di gravi reati.

Come si vede nel concetto di raptus usato così spesso nei giornali c’è una debolezza: di solito si pensa che gli uomini uccidano per momenti di follia improvvisi e imprevedibili. Ma non è sempre così. I giornali usano una terminologia molto specifica che (1) implicitamente de-responsabilizza l’assassino, in parte lo giustifica, o comunque rischia di “ammorbidire” la sua posizione rispetto all’atto orribile che ha appena commesso, come quando viene tirata in ballo la gelosia o presunte mancanze della donna che è stata appena uccisa; e che (2) in molti casi è semplicemente non vera: moltissimi femminicidi sono premeditati o comunque non sono commessi durante un ‘raptus’, quindi i giornalisti commettono un errore nell’informazione dovuto a una certa superficialità e a mancanza di approfondimento.

La Psicologia del Femminicidio. - Immagine: Unos Cuantos Piquetitos 1935 - Frida Kahlo. Collection of Dolores Olmedo Patiño Mexico City, Mexico
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Vorremmo, negli articoli di State of Mind dedicati al femminicidio, occuparci di quegli aspetti più strettamente legati a problemi psicologici e psichiatrici, lasciando quindi da parte,volutamente, valutazioni sociali e politiche.

Partiamo dall’ennesimo caso di questi giorni: un ragazzo di 23 anni uccide la sorella della sua ex fidanzata, e ferisce lei con decine e decine di coltellate. Poi scappa.

Questa forma di femminicidio possiamo chiamarla: Paranoidea, lucida, intenzionale in un quadro persecutorio: ‘ho un piano di assassinio preparato da giorni: aspetto la mia ex donna che mi ha lasciato dietro un cespuglio, lei arriva e io l’ammazzo’. In termini legali: Dolosa.

Il commento dell’Ansa:

“(…) ha detto di aver agito in preda ad un raptus e di avere ”perso la testa”. Caruso non si sarebbe rassegnato alla fine della storia d’amore con la ex fidanzata e l’avrebbe perseguitata per settimane. Ieri l’ha aspettata sotto casa e l’ha accoltellata. Carmela ha cercato di mettersi in mezzo ed ha avuto la peggio (…)”

Chiamare “raptus” un atto che viene dopo che una ragazza è stata perseguitata per settimane, e attesa per del tempo con un coltello pronto, e poi accoltellata (in questo caso, è morta la sorella che ha tentato di difenderla) è falso, superficiale e può indurre fraintendimento: questo tipo di delitto è molto diverso dai delitti impulsivi. In queste storie troviamo una strategia ben organizzata, un lungo inseguimento, un’attesa, la fredda decisione di uccidere l’altro (e a volte anche di uccidere se stessi).

Ma quale è lo stato mentale di queste persone? La diagnostica psichiatrica parla di disturbo paranoideo. Detto in modo più semplice, il paranoico è una persona che pensa continuamente che le intenzioni dell’altro siano malevole, si vede costantemente vittima di macchinazioni, persecuzioni, fregature. Nella storia di questi assassini non troviamo impulsività, ma spesso è presente ruminazione rabbiosa e rabbia fredda, che solo al momento dell’omicidio può talvolta divenire calda e impulsiva. Se queste persone vengono lasciate, se la storia si chiude, non sono capaci di accettare questo evento, con il dolore che comporta, ma lo vedono come un fatto di cui sono vittime. L’altro è una persona crudele che ha tradito, deluso, attaccato, che si è approfittato della propria ingenuità o buona fede o generosità.

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Il coniuge che lascia ha dato una fregatura intenzionalmente. La risposta violenta e ben organizzata è vista come una vendetta, una punizione, il rimettere le cose a posto. Sostituisce nella testa di queste persone l’accettazione che porta sempre con sé il dolore. E’ evidente la povertà sentimentale ed emotiva all’origine di questa attitudine, che implica il sentirsi sempre minacciati e il pensare la violenza come unica uscita da un sentimento intollerabile di fragilità personale. Molti femminicidi sono originati da sensazioni intollerabili di vulnerabilità, umiliazione.

 Ma le modalità con cui si uccide sono ben diverse. Tornando al concetto iniziale del raptus, una cosa è l’improvvisa esplosione di rabbia incontrollata (più tipica della personalità borderline, che però raramente arriva all’aggressione omicida a conferma che questi atti estremi non sono frutto di raptus), una cosa è la costruzione paranoidea strategicamente pianificata a lungo termine della persecuzione dell’altro e della vendetta. Entrambe queste strategie servono ad allontanarci dal dolore volgendo lo sguardo sulla crudeltà dell’altro che va punito o cancellato, ma si esprimono in modo diverso. Entrambe queste strategie, pur essendo legate alla sofferenza mentale non sono un segno di follia, ma di una personalità che non riesce a fare i conti con la realtà, pur rimanendo vigile.

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Occorre anche riflettere sul riconoscimento di eventuali segni preliminari così da potersi difendere prima che le tragedie accadano.

Le donne devono, per esempio, guardarsi da chi descrive la propria vita come una collezione di fregature e tradimenti che altri hanno procurato. Chi racconta questa storia non vede se stesso e il proprio ruolo di coprotagonista nelle storie finite male. Poi bisogna essere consapevoli che le condizioni di benessere di una personalità paranoidea sono molto strette e limitate. Si sentono bene se hanno accanto una persona subordinata che acconsente sempre ed è sempre d’accordo con loro, che acconsente a dimenticare o ad allontanare la propria vita passata.

Donne che non lasciano il partner violento. - Immagine: © Warren Goldswain - Fotolia.com
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Questi uomini sono isolati, e tendono a isolare la donna dagli altri, i familiari, le amiche, il passato. Essi sostengono che la propria diffidenza è giustificata da brutte esperienze di vita. Che gli uomini sono tutti mascalzoni e le donne tutte inaffidabili. Che la diffidenza è il risultato di molte cattive esperienze. Ruminano depressivamente su tutto, sono pessimisti, controllanti, spesso presentano tratti ossessivi. In sintesi, alcuni campanelli di allarme possono essere: se si ha accanto un uomo che ha sempre ragione, che vede sempre intenzioni malevole nell’altro, che fa fatica a comprendere il punto di vista degli altri, che è sempre sulle difensive, cupo e isolato, che chiede fedeltà assoluta e ha gelosie su tutto, che tende a isolare e a volte diviene violento e insultante. Queste sono persone con le quali non ci si deve mai fidanzare.

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Se invece è già accaduto, se si viene perseguitate al telefono, sotto casa, con mail spedite ossessivamente, con sms, tra il vittimistico, l’amorevole estremo e l’accusatorio, allora occorre muoversi rapidamente con la propria rete familiare, con i centri antiviolenza, avvisare le forze dell’ordine che lentamente stanno divenendo maggiormente sensibili ai casi di violenza contro le donne, occorre una struttura forte e decisa a fare rete intorno alla donna minacciata, per salvarle la vita.

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– DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Autism in DSM-5

 

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Autism in DSM-5. - Immagine: © Pixel Memoirs Fotolia.comThe release of DSM-5 is right around the corner and some sections will see significant changes. One area subject to alterations is autism. In this article I will briefly explain how autism is currently defined in the DSM-IV and the proposed changes that will be implemented in DSM-5.  The main subject matter of this article is a letter submitted by the Autism Speaks Organization stating the concerns of the autistic community.

Currently autism is separated into three symptom categories including social interaction, communication and behavioral issues. Within each of these categories there are four individual symptoms, making a total of 12. In order to be diagnosed with autism an individual must show at least six of the 12 behaviors encompassed in a triad of symptoms. At a minimum, two symptoms from the social interaction category and at least one from the communication and the behavioral category must be shown.

DSM-5 collapses social interaction and communication into to a separate category.  The concern of the autistic community is that this change will exclude autistic people with fewer or milder symptoms. This exclusion may result in some people missing out on treatment options which may have otherwise been available.

Below is the letter stating the concerns of the Autism Speaks Organization:

 

Dear members of the DSM-5 Neurodevelopmental Disorders Work Group,

Autism Speaks is the world’s leading autism science and advocacy organization, representing hundreds of thousands of individuals and families affected by autism. We recognize the need for diagnostic criteria for autism spectrum disorders (ASD) that reflect our current scientific understanding and progress and define the wide range of symptom expression associated with this disorder. In the end, however, these are criteria about people who have symptoms that can be helped considerably by services aimed at improving their ability to function in the world. Thus, any revision of the diagnostic criteria must be made with great care. 

There is great concern by many members of the autism community, including parents and individuals with ASD, that some individuals with ASD might “lose” their diagnosis based on the revised criteria. Another concern is the impact of changes in diagnostic criteria on prevalence estimates and the ability to have accurate estimates of changes in prevalence over time. A number of published studies have reported that a percentage (ranging from 13-39%) of individuals, mostly with higher IQs and less severe symptoms, would no longer meet the criteria for ASD under the new DSM-5 guidelines. For the most part, these studies have used a retrospective design, with reexamination and review of charts from different sources. Field trials, which involve face to face evaluation, have not demonstrated such a disparity. Although the field trials are encouraging, the sample size used for the field trials is relatively small (N = 83 children with ASD) and only involved pediatric populations. Additional prospective research based on larger samples, diverse ethnic backgrounds, and a wider age range is clearly needed to provide more definitive answers. In this letter, we raise several issues which we respectfully ask the committee to consider:

         1.        Need for additional prospective data comparing DSM-IV and DSM-5 criteria.  Additional prospective data based on larger samples, diverse ethnic backgrounds, and wider age ranges are clearly needed to provide more definitive answers. We have very little information about the impact of the new DSM-5 criteria on diagnosis of very young children, adults, and individuals with different ethnic backgrounds.  The current criteria should be considered provisional and open for future revision until more definitive research is conducted. 

        2.        Need for clear guidance re: retention of previous ASD diagnosis of symptoms. We request that the committee make it clear that it is the opinion of the American Psychiatric Association (APA) and the Neurodevelopmental Disorders Work Group that all individuals who currently have a diagnosis of ASD (including all subgroups of DSM-IV pervasive developmental disorders) should retain their diagnosis for purposes of qualifying for needed clinical and educational services.

        3.        Need for clear guidance re: continued use of the diagnosis of Asperger syndrome. The committee has noted in previous communications that people with a current diagnosis of Asperger syndrome will be able to have that diagnosis indicated in their medical/educational record as part of the list of “specifiers.” This will allow persons to retain their identity as persons with Asperger syndrome and facilitate continued research on such individuals. We request that the APA and the Neurodevelopmental Disorders Work Group make it clear that this option is possible for people with Asperger syndrome. 

        4.        Need for more information for clinicians on use of specifiers. The clinical specifiers have enormous potential to be used to describe specific subtypes of ASD, including those with limited language function and intellectual disability, known etiologies, history of regression, and medical co-morbidities, such as seizures and GI disorders. We urge the committee to provide more specific instructions for clinicians on how specifiers should be defined and recorded. Without additional guidance, clinicians may not use these important specifiers that have clinical implications for persons with ASD.

        5.        Concern that the criteria are overly strict and may exclude those with an existing diagnosis. Multiple studies have reported the excellent construct validity of using a two “factor” model for autism symptoms, rather than the DSM-IV three “factor” model. However, we remain concerned that the requirement of three symptoms in the social communication category and two symptoms in the restricted repetitive behavior category may be overly strict and result in exclusion of persons with ASD. Studies in which specificity and sensitivity were evaluated indicate that relaxing the number of observed symptoms in either category has minimal effects on specificity while increasing sensitivity. For very young children, in particular, the requirement for two symptoms in the restricted repetitive behavior domain may be problematic. We request that the committee consider relaxing the criteria. We recommend that these criteria be considered provisional until more data has been collected to examine their impact on diagnosis.

        6.        Need for monitoring of the impact of the DSM-5 criteria in real world settings. As described above, there is a clear need for more information about the way that the DSM-5 will affect people’s lives in real world settings. We request that the committee recommend ways in which information regarding the impact of the DSM-5 on diagnosis and access to services can be broadly tracked. The ultimate reason for diagnostic criteria is to improve the lives of people with ASD. It is crucial that the impact of the proposed changes be closely monitored and assessed.

On behalf of people affected by autism and their families, we urge you to consider these issues in your deliberations as you finalize the revised criteria for diagnosis of autism spectrum disorder.

Sincerely,

Geraldine_Dawson_Autism_dsm_5 

 

 

Geraldine Dawson, Ph.D.

Chief Science Officer, Autism Speaks

 

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Cyberbullismo e Suicidio Adolescenziale: Esiste davvero una Relazione?

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

di Marina Morgese

Il termine Cyberbullismo è utilizzato per indicare il fenomeno che avviene quando bambini e/o adolescenti si avvalgono dell’utilizzo di internet, dei telefoni o di altri tipi di tecnologia per maltrattare e molestare ripetutamente i propri coetanei.

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Il verificarsi di episodi di Cyberbullismo è stato spesse volte positivamente correlato con gli aumentati tassi di suicidio adolescenziale.  

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Una recente ricerca ha cercato di studiare meglio il fenomeno del suicidio adolescenziale e se effettivamente l’associazione cyberbullismo – suicidio adolescenziale sia statisticamente significativa quanto si crede. Ai fini della ricerca, guidata da Wood e recentemente presentata ad un convegno organizzato dall’Associazione Americana di Pediatria (AAP), sono stati selezionati su Internet vari rapporti di suicidi adolescenziali in cui è menzionata la presenza di episodi di Cyberbullismo. Sono state inoltre raccolte informazioni demografiche sui protagonisti dei rapporti e sono state analizzate l’incidenza di malattia mentale pre-esistente negli adolescenti, la co-presenza di altre forme di bullismo e le caratteristiche dei mezzi elettronici associati a ciascun caso di suicidio.

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Lo studio ha identificato in totale 41 casi di suicidio (24 femmine, 17 maschi) avvenuti in un’ età compresa tra i 13 e i 18 anni,  negli Stati Uniti, in  Canada, nel Regno Unito e in Australia. Lo studio ha fatto luce su diversi aspetti del suicidio adolescenziale:

Il 24 per cento dei ragazzi è stato vittima di bullismo omofobico (di cui solo il 12 per cento è identificato come realmente omosessuale).

L’incidenza dei casi di suicidio, inoltre, è notevolmente aumentata nel corso del tempo: il 56 per cento dei suicidi si è  verificato dal 2003 al 2010, il restante 44 per cento si è verificato nel breve periodo dal gennaio 2011 all’aprile 2012.

Secondo lo studio, il 78 per cento degli adolescenti che hanno commesso suicidio sono stati vittime di bullismo sia a scuola che on-line, mentre solo il 17 per cento sono stati esclusivamente vittime di cyberbullismo.

– Malattie mentali pre-esistenti sono state rilevate: disturbi dell’umore sono stati riportati nel 32 per cento dei ragazzi, mentre sintomi depressivi sono presenti in un ulteriore 15 per cento.

Gli autori dello studio hanno così concluso che il Cyberbullismo è un fattore presente in alcuni suicidi, ma quasi sempre ci sono altri fattori come la malattia mentale o la presenza di altre forme di bullismo, come quello faccia a faccia. Il Cyberbullismo in genere rientra nel contesto del normale bullismo.

Oltre ad aver dimostrato la scarsa correlazione, sostenuta invece da tanti, tra cyber bullismo e suicidio adolescenziale,  lo studio in questione ha anche il merito di aver evidenziato le modalità più frequenti in cui avviene il Cyberbullismo: Formspring e Facebook specificamente sono i mezzi più utilizzati per molestare i coetanei, così come sms ed mms. 

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Conoscere il nemico è il primo passo per poterlo affrontare e, grazie anche a questa ricerca che ha fatto luce su numerosi aspetti del suicidio adolescenziale, potremmo avere in mano strumenti preziosi per capire cosa porta gli adolescenti a un atto così disperato.

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BIBLIOGRAFIA: 

  • LeBlanc, J. C. (2012). Cyberbullying and Suicide: A Retrospective Analysis of 41 Cases. Paper presented at the American Academy of Pediatrics (AAP) National Conference and Exhibition in New Orleans.

Il Drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare

di Alessia Zoppi,  Chiara Spinaci

Il-Fenomeno-del-drop-out-nei-DCA-un-Aspetto-da-Non-Sottovalutare!. - Immagine: © Tommaso Lizzul - Fotolia.com

Che cosa succede in terapia con pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare che li porta a “droppare” la terapia?

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Questo articolo intende analizzare il fenomeno del drop-out come aspetto rilevante nel trattamento terapeutico dei Disturbi del Comportamento Alimentare. All’interno di queste patologie il fattore “rischio d’abbandono terapeutico” è una realtà importante, che si manifesta spesso nelle primissime sedute. Con il termine drop-out ci si riferisce al fenomeno di interruzione precoce non concordata della terapia da parte del paziente.

Garfield (1994) identifica il fenomeno in quei casi in cui i pazienti hanno sostenuto almeno una seduta e hanno interrotto il trattamento di propria sponte non presentandosi alle successive sedute, attese dal terapeuta. Il problema del drop-out è molto sentito a livello pubblico e nei servizi psichiatrici: il fenomeno sembra essere presente a livello internazionale con una variabilità molto ampia, e viene classificato come “precoce” (early, very early drop-out), se avviene nelle prime fasi di contatto, o “tardivo” (late drop-out), se avviene dopo molto tempo dall’inizio della terapia.

Con pazienti che sono trattati da tempo la percentuale si riduce drasticamente. In una ricerca di Mazzotti et al. (2001) l’entità del fenomeno è stata stimata intorno al 13%. I motivi dell’interruzione del trattamento erano stati: l’insoddisfazione per il trattamento clinico e/o farmacologico (34%); una storia di numerosi trattamenti precedenti (24%); una diagnosi di disturbo borderline di personalità(24%); il ritenere di non aver più bisogno di trattamento (10%). 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com
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Le cause del fenomeno sono molte. Il drop-out precoce secondo alcuni autori sarebbe legato all’imprinting, ovvero al primo impatto avuto con il terapeuta e la terapia, e alla mancanza di fattori motivazionali e relazionali positivi, come la mancanza di un legame capace di contenere le ansie e i timori del paziente (Giusti & Sica, 2006). Il drop-out tardivo sembrerebbe maggiormente correlato all’instaurarsi di fenomeni legati alla tecnica o a errori terapeutici. 

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Garfield (1994) lo associa a fattori soggettivi come sesso, età, razza e scolarità, oltre che alla diagnosi psichiatrica. È inoltre accertata la tendenza di pazienti con alcune patologie psichiatriche ad uscire dalla terapia tramite drop-out. In uno studio di Fassone et al. (2003) si è riscontrato che i pazienti con gravi disturbi di personalità, soprattutto se con doppia diagnosi di disturbo borderline di personalità e disturbi di abuso di sostanze o alimentare, sarebbero maggiormente soggetti a tale fenomeno. Questi pazienti tenderebbero ad un fenomeno di drop-out precoce. Anche lo studio di Zanetti et al., (2005) conferma il fenomeno per soggetti con Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Sharf e colleghi (2010) hanno analizzato la correlazione tra alleanza terapeutica e drop-out per identificare i fattori che incidono su tale relazione. Lo studio includeva più di mille partecipanti. Le variabili che sono emerse,  correlate al fenomeno drop-out in situazioni di debole alleanza terapeutica, sono diverse: la storia educativa dei clienti, la lunghezza della terapia, il setting di trattamento, il livello di scolarità del soggetto. 

Le variabili che sembrano essere associate al drop-out sono dunque molte e possono riguardare paziente, terapeuta, relazione terapeutica; sembra però esistere una certa correlazione tra aspetti psicopatologici e tendenza al drop-out. Tra le tipologie di pazienti tendenti al drop-out troviamo anche i soggetti con Disturbi del Comportamento Alimentare. 

Che cosa succede in terapia con pazienti Disturbi del Comportamento Alimentare che porta questi a “droppare” la terapia?

 Fassino et al. (2009) attraverso una revisione della letteratura clinica analizzano quali fattori promuovono l’abbandono e il manifestarsi del drop-out durante la cura di pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare. Fassino et al. in questa revisione riprendono varie e precedenti pubblicazioni presenti in letteratura clinica. La premessa che viene fatta dagli autori è che il trattamento, di qualsiasi tipo, nei Disturbi del Comportamento Alimentare è una questione complessa e di interesse multidisciplinare e il fenomeno drop-out sarebbe un elemento predominante che caratterizzerebbe queste patologie più di altre. Ad incidere in maniera rilevante, aumentando i tassi e la frequenza del fenomeno, sarebbero due elementi: il rapporto con il corpo, protagonista assoluto e padrone della “legge del divieto” nell’Anoressia Nervosa, e l’evoluzione del trattamento.

Sono individuate due forme di drop-out in relazione al tempo: una forma “precoce” e una forma “tardiva”. La prima vede l’interruzione del trattamento da parte del soggetto Anoressico e Bulimico dopo già 2/3 sedute o entro il primo mese; mentre la seconda forma di drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare si presenta dopo il primo mese di trattamento.

Analizzando questi pazienti in diversi studi si è potuto vedere che in generale i pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare rispondono molto meglio alla terapia quando seguono un trattamento di tipo ospedaliero (tasso di abbandono che varia dal 20.2% al 51%) rispetto al trattamento ordinario esterno di tipo ambulatoriale (tasso di abbandono dal 29% al 73%) (Fassino et al. 2009).

Neurobiologia dell’Intersoggettivita’: Neuroni Specchio ed Empatia - SITCC 2012
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In particolar modo nella Bulimia Nervosa, la bassa autostima e la presenza di una severa sintomatologia auto-distruttiva, oltre che aspetti impulsivi, non aiuterebbero a far si che si instauri un’alleanza terapeutica; mentre nell’Anoressia Nervosa l’eventuale presenza del fenomeno “binge eating” e pratiche altamente rigide di purificazione fanno si che la paziente attui d’innanzi alla terapia una barriera difensiva riducendo motivazione e interesse.

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La stessa rabbia è un’emozione da dover tenere conto con pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare: riconoscerla, monitorarla e dare al paziente gli strumenti per gestirla fa si che essa non sfoci in aggressività verso il terapeuta e il trattamento stesso.

Un altro studio che sembra essere molto interessante è quello svolto da Kelly et al. nel 2012. Lo studio analizza il drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare, soffermandosi su stati emotivi autodiretti, quali l’ auto-compassione e la paura di auto-compassione. In particolar modo la ricerca indaga come questi interagiscono e ci permettano di prevedere come il paziente reagirà al trattamento. Ciò che emerge dalla ricerca è che l’auto-compassione e la paura di questa influenza la risposta al trattamento fino a compromettere in via definitiva la terapia, causando sentimenti di colpa e associandosi maggiormente con gli aspetti psicopatologici. Queste emozioni, in particolar modo la paura e la vergogna, renderebbero il paziente Disturbi del Comportamento Alimentare altamente vulnerabile all’abbandono terapeutico non riducendo la sintomatologia. Inoltre dalla ricerca è emerso che soggetti con una basso livello di auto-compassione sono quelli che tendono ad avere una soglia di autocritica molto elevata e presentano tassi elevati di vergogna, mostrandosi verso i propri confronti intransigenti e poco empatici. 

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Zanetti, et al., (2005), hanno indagato un campione di pazienti con Anoressia Nervosa che hanno abbandonato il percorso terapeutico; queste sono state ricontattate telefonicamente e intervistate sulla loro scelta. Gli Autori sostengono, infatti, che il fenomeno del drop-out nei Disturbi del Comportamento Alimentare ha avuto poca attenzione da parte dei ricercatori, ma questo ha invece un peso rilevante sulla patologia: “Infatti, i pazienti con drop-out sono più a rischio di diventare pazienti cronici e quindi più difficilmente trattabili, con una alta frequenza di gravi complicanze organiche e mortalità. Gli studi indicano, infatti, che un abbandono precoce della terapia costituisce un fattore di rischio per una ricaduta precoce e a sua volta una ricaduta precoce è il predittore principale di un decorso cronico” (p.150). Gli Autori differenziano il drop-out non per il momento in cui si manifesta (precoce/tardivo), quanto in rapporto al miglioramento rispetto al sintomo (aumento o meno di peso). 

Tra le variabili predittive del drop-out esisterebbero alcuni fattori primari. Nei soggetti che abbandonano dopo un miglioramento del peso, sono significativi:  

 – Comportamenti auto-aggressivi di tipo compulsivo e maggiore livello di depressione: il tratto della compulsione come fattore predisponente è comprensibile se si pensa al problema del controllo in queste pazienti; non è di facile comprensione invece il tratto della depressione, poiché secondo gli autori normalmente questo favorisce il trattamento. Considerando che il drop-out avviene dopo miglioramento, si può ritenere che una volta migliorate le pazienti perdano la motivazione iniziale al trattamento. 

 – Minore tendenza alla somatizzazione.

 Nei soggetti che abbandonano senza miglioramento è significativo:

  – Maggiore ostilità: questo dato conferma il peso dell’impulsività e della rabbia come fattori precipitanti rispetto alla terapia, e verranno indicati anche da Fassino et al. (2009). 

Indagate le cause dell’abbandono, i fattori predisponenti risultano essere (p.152): 

 – Incomprensione con il terapeuta 25%

 – Non accordo con il tipo di terapia 18%

 – Miglioramento 15%

 – Non volontà di guarire 15%

 – Ferie o cambiamento del terapeuta 9%

 – Distanza dall’ambulatorio 9%

 – Inefficacia della terapia 9%

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
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Sia, dunque, l’atteggiamento verso la malattia che verso la terapia hanno un peso rilevante: l’atteggiamento del paziente verso la malattia porta a fenomeni di drop-out e di resistenza al trattamento per via del rapporto che esiste tra sintomo e soggetto:

1- difendono fortemente il sintomo; 

2- vivono egositonia verso il sintomo e agiscono con negazione della malattia; 

3- non hanno consapevolezza della gravità della malattia. 

L’atteggiamento verso la terapia invece è ambivalente: infatti le pazienti dichiarano di aver abbandonato perlopiù per “incomprensioni con il terapeuta e non accordo verso la terapia” sia rispetto ad aspetti tecnici, la compilazione del diario alimentare (32%), che relazionali, la freddezza e il distacco del terapeuta (26%).  Riconoscono invece l’aspetto più positivo del trattamento proprio nella disponibilità e nell’interesse del terapeuta (nel 52% dei casi). Questo deve far pensare al fatto che le pazienti, pur fortemente difese nel sintomo, cercano uno spazio in cui poter proprio sperimentare una “comunicazione efficace che permetta di esprimere e verbalizzare le difficoltà, la delusione di aspettative e le resistenze al trattamento” (Zanetti, et al., 2005, p.155).

Il clinico che approccia questi disturbi dovrà dunque ripensare al peso di alcune variabili nel rischio di drop-out e considerare come iniziale obiettivo del trattamento la creazione di una relazione sufficientemente contenitiva entro la quale creare una forte alleanza e in cui sarà, poi, possibile intervenire con tecniche dirette a specifici obiettivi terapeutici.

Nei primi mesi sarà necessario lavorare proprio sull’esperienza soggettiva del paziente rispetto alla terapia, al sintomo, alla sua resistenza al trattamento per poi accedere, in un secondo momento, ad altri contenuti emotivi e narrativi. 

 

ARTICOLI SU: IN TERAPIA  

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Ambientale & Identità Ecologiche

 

Psicologia Ambientale & Identità Ecologiche. - Immagine: © Minerva Studio - Fotolia.comPsicologia Ambientale & Entità Ecologiche: Un ponte verso nuovi orizzonti sostenibili

«Si fa un gran parlare di come aiutare il nostro pianeta cambiando ciò che facciamo: usare la bicicletta al posto dell’automobile, montare le nuove lampadine fluorescenti a risparmio energetico, riciclare le bottiglie e adottare altri facili accorgimenti» (D. Goleman, p. 17).

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Sostenibilità e comportamenti ecologici sembrano argomenti sulla bocca di tutti ma, dopo anni di campagne informative, promozioni ed incentivi, la maggioranza degli italiani si è limitata ad incrementare la raccolta differenziata e a mangiare più cibi biologici (FISE – UNIRE, 2010; Coldiretti, 2012). Sicuramente meglio di niente ma la strada per diminuire le emissioni di carbonio è ancora lunga.

La paura di perdere il voto dei cittadini impedisce ai responsabili delle politiche per l’ambiente di operare soluzioni drastiche. Perciò, al momento, la ricerca si concentra sullo studio di nuovi meccanismi, non troppo invasivi, in grado di produrre cambiamenti ecologici sostanziali nella vita delle persone. Per esempio, in Inghilterra, il DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs) ha promosso delle indagini sui cosiddetti “comportamenti catalizzatori” (catalyst behaviours), prendendo come punto di riferimento un modello teorico sociale classico secondo cui l’adozione di un certo comportamento (per esempio, il riciclo) aumenta la probabilità che un soggetto ne accolga un altro simile (per esempio, il compostaggio) (Whitmarsh, 2010).

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Alcuni gruppi di psicologi studiano già da qualche anno questi comportamenti che vanno “a braccetto”. Barr e colleghi, per esempio, hanno identificato tre gruppi distinti di azioni ecologiche: “decisioni di acquisto” (shopping, compostaggio e riutilizzo), “abitudini” (risparmio domestico di acqua ed energia) e “riciclo”, che sembrano essere collegate a diversi stili di vita (come, per esempio, specifiche caratteristiche socio-demografiche o valori).

Quando le intenzioni non bastano: Il ruolo dei valori. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
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Tuttavia, la maggior parte di queste ricerche non è in grado di estendere i risultati alla totalità dei comportamenti sostenibili: le persone non agiscono in modo coerente e non sembrano esistere motivazioni comuni per le loro azioni ecologiche. Inoltre, gli studi non sono ancora capaci di spiegare fenomeni opposti come lo spill-over effect, per il quale l’assunzione di un certo comportamento comporta l’esclusione di un altro ad esso associato (per esempio, riciclo e prevenzione dello spreco). In particolare, sembrano essere sistematicamente esclusi i comportamenti legati al trasporto e alle politiche energetiche, per i quali, probabilmente, influiscono maggiormente i fattori esterni, come la disponibilità economica o l’esistenza di alternative accessibili.

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Lo scrittore ambientalista Derrick Jensen (2006) scrive che non è possibile creare una cultura della sostenibilità senza possedere un’anima ecologica. Da un punto di vista psicologico, questa affermazione racchiude uno spunto interessante. L’identità “green”, più che l’anima, potrebbe essere un valido punto d’appoggio per costruire un certo livello di coerenza nei nostri atteggiamenti e nelle nostre azioni. Quello che unisce una certa identità con la messa in atto di un particolare comportamento, infatti, è l’esistenza di significati comuni ai due elementi. In relazione ad una certa identità di sé, i comportamenti che condividono con l’identità in questione una serie di significati sociali hanno una probabilità maggiore di essere messi in atto. Per esempio, è possibile che coloro che si considerano dei “consumatori verdi” acquistino del cibo biologico, in quanto quest’azione è coerente, in termini di significato, con l’identità di sé come consumatori verdi (Sparks, Shepherd, 1992).

In particolare, sembra che ci siano almeno due livelli in cui identità può operare: rinforzare un comportamento ecologico specifico (per esempio l’identità del tipico riciclatore) o stimolare, in modo generico, una serie di sotto-azioni ecologiche (per esempio promuovere l’“eco-shopping”). Secondo gli studi più recenti, la prima potrebbe essere utile per spiegare la persistenza nell’eseguire uno specifico comportamento pro-ambientale (e quindi sarà strettamente legata al comportamento passato), mentre la seconda può chiarire le ragioni dell’effetto spillover (Whitmarsh, 2010).

 

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L’identità si qualifica quindi come ponte tra vari comportamenti ecologici, sottolineando la necessità di stimolare aspetti rilevanti di quest’ultima (ad esempio, attraverso informazioni mirate), o mirare a specifici gruppi (per esempio, tramite la segmentazione della popolazione), per ottenere dei cambiamenti durevoli nel tempo.

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DOCUMENTI PER APPROFONDIMENTI:

 

BIBLIOGRAFIA:

Tratti di Personalità & Suicidio

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Tratti di Personalità & Suicidio – Differenze tra atto tentato e compiuto. Ogni 40 secondi una persona nel mondo pone fine alla propria vita.

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I comportamenti suicidari costituiscono un problema decisamente non irrilevante al giorno d’oggi, a livello individuale, familiare e di sistema sanitario pubblico. A livello mondiale, negli ultimi vent’anni il tasso di suicidi è aumentato, a seconda del paese, da un minimo del 5% ad un massimo del 62%: ogni 40 secondi, una persona da qualche parte nel mondo pone fine deliberatamente alla propria vita (World Health Organization, 2012).

Intervista a Mauruzio Pompili.
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Il tentato suicidio (“un atto auto-distruttivo accompagnato dall’intento più o meno forte di procurarsi la morte”) viene stimato, in generale, come dalle 10 alle 40 volte più frequente dell’omicidio compiuto, ed è uno dei predittori più forti di suicidio conseguente (Tidemalm, Langstrom, Lichtenstein, & Runeson, 2008). Diversi studi hanno dimostrato come il tentato piuttosto che il compiuto suicidio, nonché la scelta del “mezzo”, possano differire in base a genere ed età (e.g. Hawton, 2000).

A partire da queste premesse Hirvikoski e Jokinen, dal Karolinska Institute di Stoccolma, hanno condotto uno studio longitudinale dal duplice scopo: indagare quali tratti di personalità potessero essere rilevati in soggetti che riportavano tentato suicidio a confronto con soggetti che sono successivamente deceduti per comportamenti suicidari, e valutare se i tratti di personalità trovati, i “mezzi” utilizzati ai fini del suicidio e il successo o meno degli atti stessi differissero in funzione del genere di appartenenza (Hirvikoski & Jokinen, 2011).

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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I ricercatori hanno reclutato in un periodo compreso tra il 1993 e il 2005 un totale di 181 pazienti (67 uomini, età media = 35,45 anni) della Suicide Prevention Clinic dell’Ospedale dell’Università di Karolinska, Stoccolma. Il principale criterio di inclusione nel campione prevedeva che i soggetti avessero compiuto recentemente un tentativo di suicidio (non più di un mese prima). Ogni paziente è stato intervistato tramite somministrazione di SCID I e SCID II (First, Spitzer, Robert, Gibbon, & Williams, 1996; First, Spitzer, Gibbon, Williams, & Benjamin, 1997) in modo che fosse possibile stabilire una diagnosi secondo il DSM-IV (APA, 1994).

È stato così rilevato che il 91% del campione riportava un disturbo in Asse I (75% disturbi dell’umore), mentre il 33% riportava un disturbo in Asse II (17% disturbo borderline di personalità).

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Al fine di identificare i tratti di personalità dei soggetti esaminati, è stato loro chiesto di compilare un questionario, il Karolinska Scales of Personality (Schalling & Edman, 1993), i cui item sono stati raggruppati in quattro aree di personalità: Neuroticismo (socializzazione, ansia somatica, ansia psicologica, tensione muscolare, psicastenia, inibizione dell’aggressività, irritabilità e colpa), Psicoticismo (distacco, diffidenza), Anticonformismo (desiderabilità sociale negativa, aggressività indiretta, aggressività verbale) e Estroversione (impulsività, evitamento della monotonia).

Tutti i pazienti sono stati seguiti dal momento del reclutamento al 2009; i pazienti deceduti nel corso di questo periodo sono stati registrati e sono state identificate le cause del decesso. In totale, 11 pazienti (4 donne e 7 uomini, 6% del campione) hanno commesso suicidio  nel periodo di follow-up.

 Ecco i risultati: gli uomini riportavano tentativi di suicidio di tipo più violenti (es. tramite arma da fuoco, impiccagione, salto da un luogo particolarmente alto) rispetto alle donne (che prediligevano metodi “meno rischiosi”, come l’overdose di farmaci). Era inoltre maggiore la probabilità che gli uomini, piuttosto che le donne, ritentassero con successo il suicidio in seguito ai primi tentativi. Si tratta di un risultato coerente coi dati epidemiologici relativi al fenomeno indagato, per cui gli uomini commettono più frequentemente il suicidio rispetto alle donne mentre quest’ultime riportano maggiori tentativi non riusciti, secondo un rapporto 2:1 (World Health Organization, 2012).

Per quanto riguarda i tratti di personalità, i soggetti che avevano utilizzato mezzi più violenti riportavano anche valori più alti di “psicoticismo”. Le donne riportavano punteggi lievemente più alti relativamente a questo tratto rispetto agli uomini, mentre gli uomini riportavano valori di “estroversione” significativamente maggiori. Infine, mentre gli uomini deceduti per suicidio riportavano livelli maggiori di “estroversione” rispetto agli uomini sopravvissuti, le donne decedute ne riportavano livelli minori rispetto alla controparte femminile (si tratta, in quest’ultimo caso, di dati da considerare con precauzione dato l’esiguo numero di donne decedute nel periodo di follow-up).

Si tratta di uno studio particolarmente interessante, poiché pochissime ricerche di follow-up sono state svolte in passato riguardo ai tratti di personalità di soggetti che hanno poi effettivamente commesso il suicidio. Sicuramente, studi futuri su campioni più ampi contribuiranno a chiarire il valore predittivo di alcuni tratti rispetto ad altri, magari anche approfondendo il ruolo (tuttora poco definito) di fattori genetici e ambientali.

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BIBLIOGRAFIA:

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