Lo studio, pubblicato sulla rivista Emotion®, ha studiato gli effetti di sentimenti nostalgici sulla reazione al freddo e sulla percezione del calore. I volontari, studenti universitari Cinesi e Olandesi, hanno partecipato a uno dei cinque studi effettuati.
Nel primo studio veniva chiesto ai partecipanti di riferire i sentimenti nostalgici provati nell’arco di 30 giorni. I risultati indicano che che la nostalgia è più frequente nelle giornate più fredde. Nel secondo studio i partecipanti potevano trovarsi in una di tre sale con temperature diverse: fredda (20 ˚C), confortevole (24 ˚C) e calda (28 ˚C), veniva poi misurato quanto si sentivano nostalgici. Anche in questo caso la nostalgia era più frequente in chi si trovava nella stanza fredda, mentre non c’erano differenze in chi si trovava nelle due stanze più calde.
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Il terzo studio, condotto online, ha usato la musica per evocare nostalgia e verificarne un legame con sensazioni di calore. In questo caso i partecipanti che hanno riferito sentimenti nostalgici hanno anche sperimentato un maggiore calore corporeo in corrispondenza dei ricordi evocati dalla musica.
Il quarto studio ha testato l’effetto della nostalgia sulla sensazione di calore fisico mettendo i partecipanti in una stanza fredda e istruendoli a rievocare sia un evento nostalgico che uno ordinario del loro passato. Successivamente gli è stato chiesto di indovinare la temperatura della stanza nella quale si trovavano. Coloro che hanno ricordato un evento nostalgico riferivano anche temperature più alte.
Nel quinto e ultimo studio i partecipanti dovevano nuovamente rievocare un evento nostalgico e uno ordinario del loro passato e poi immergere la mano nell’acqua ghiacciata per vedere quanto tempo avrebbero potuto sopportarlo. Chi aveva provato sentimenti nostalgici riusciva anche a tenere la mano più a lungo immersa nell’acqua ghiacciata.
Questo studio mostra che la nostalgia non solo è in grado di provocare un conforto psicologico ed emotivo, ma anche fisico. Sembra che la nostalgia abbia una funzione omeostatica, che permette di elicitare stati mentali positivi vissuti nel passato, compresi gli stati di comfort del corpo, e questo fa sentire più caldi o aumenta la nostra tolleranza al freddo. Ulteriori ricerche sono ora necessarie per vedere se la nostalgia può combattere altre forme di disagio fisico, oltre alla bassa temperatura.
La Funzione Riflessiva nel Paziente e nel Terapeuta
La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione.
La funzione riflessiva, ossia la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, è stata descritta da Peter Fonagy e Mary Target (Fonagy et al., 1991; Fonagy, Target, 2001) e si è poi inscritta nel concetto di mentalizzazione(Fonagy et al., 2002; Fonagy, Target, 2003), col quale ci riferiamo alla capacità dell’individuo di rappresentarsi i propri comportamenti e quelli degli altri come frutto di intenzioni, desideri, scopi, più in generale come risultante di stati mentali specifici.
Se la relazione con le figure di attaccamento è povera di sintonizzazione emotiva, se i genitori non mentalizzano i bisogni del figlio e non riescono perciò a fornire risposte adeguate, il bambino viene esposto ad un’esperienza prolungata di mancato riconoscimento; in particolare, quando la relazione di attaccamento non coinvolge il bambino come individuo pensato pensante – dotato cioè di intenzionalità complessa nella rappresentazione del genitore – egli non sperimenta il rispecchiamento necessario alla costruzione della funzione riflessiva, poiché l’immagine che i genitori gli rimandano con i loro comportamenti e le loro reazioni non descrive un soggetto che ha scopi e vissuti psichici individuali, in grado di differenziarsi dalla mente dell’altro e di generare una rappresentazione autonoma dell’esperienza, bensì un bambino incapace di aderire alle richieste che gli vengono impartite e di adattarsi correttamente all’ambiente in cui vive.
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Si creano perciò categorie rigide e non mentalizzate, per le quali il bambino è semplicemente cattivo, stupido o disobbediente; tale processo è sia fonte di sofferenza emotiva, dalla quale il soggetto si difende elaborando a sua volta rappresentazioni rigide dell’esperienza in cui è assente l’attribuzione di stati mentali evoluti a sé e all’altro, sia fattore predittivo della successiva incapacità di reagire a vissuti dolorosi o traumatici adottando modalità di fronteggiamento efficaci.
Il fallimento della funzione riflessiva conduce infatti l’individuo a percepire eventuali maltrattamenti subiti o la carenza di cure genitoriali come conseguenza della propria indegnità; se l’abuso non viene ricondotto all’intenzionalità specifica di chi lo compie, i sentimenti di vergogna, di rabbia, l’identificazione con l’aggressore e lo sviluppo di modalità altrettanto violente nella vita adulta diventano elementi centrali nella descrizione clinica del trauma.
La funzione riflessiva può però fallire anche nel terapeuta, e in questo caso i rischi che coinvolgono il lavoro clinico sono molteplici. Baldoni (2008) ne sottolinea cinque: interpretazioni inappropriate o precoci; utilizzo difensivo della diagnosi; prescrizione impropria di farmaci; reazioni non mentalizzate del terapeuta (noia, ostilità, disinteresse, seduzione, umorismo); relazione sessuale o sentimentale con il paziente.
In questi casi il fallimento della funzione riflessiva nel terapeuta porta a non considerare gli stati mentali del paziente, il quale potrebbe non essere ancora pronto ad accogliere nella propria struttura di conoscenza le interpretazioni che il clinico narcisisticamente esibisce, oppure chiede diagnosi e farmaci sulla spinta di bisogni propri – essere rassicurato sulla controllabilità del disturbo, ricevere un rifiuto alla richiesta di terapia farmacologica così da sentirsi in grado di affrontare il malessere con le proprie risorse – che il clinico non coglie.
Per quanto attiene alle emozioni del terapeuta, l’assenza di un’efficace funzione riflessiva porta a non riconoscere né gli stati mentali elicitati dalla relazione terapeutica né quelli derivati dal proprio vissuto personale, e questo compromette la possibilità di utilizzare confini relazionali appropriati all’interno del setting; nei casi più gravi la seduttività del paziente, che costituisce in realtà un’infantile richiesta di tenerezza, trova come risposta la messa in atto da parte del clinico di comportamenti che esprimono un linguaggio sessuale adulto, e una distonia affettiva di simile intensità espone il paziente al riemergere dei contenuti traumatici.
Il training autogeno è un metodo di auto distensione mente-corpo che una volta acquisito, praticato ed allenato può essere di sostegno nelle situazioni di difficoltà.
In primis è un metodo, cioè significa che consta di precise regole per l’apprendimento e, in quanto tale, di applicazioni ripetute nel corso del tempo perché risulti efficace.Il training autogeno è un metodo, appunto, di auto-distensione, ciò significa che chiunque lo impari poi lo possa gestire in maniera autonoma in praticamente qualsiasi situazione e luogo. Ciò conferisce a colui o colei che lo apprende l’opportunità di avere un “asso nella manica” da utilizzare in estrema autonomia senza il bisogno di aiuto da parte di altre persone. Per apprendere ed utilizzare la tecnica ci vogliono diversi mesi ed è necessario inoltre mantenere fresca la tecnica nel corso del tempo una volta terminano il training di base.
Questo metodo, che non è il solo utilizzato, è stato introdotto per la prima volta negli anni trenta da Johannes Heinrich Schultz, psichiatra tedesco, e risulta essere il cugino delle ben più note meditazione ed ipnosi.
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Il training autogeno è risultato essere uno strumento estremamente versatile ed utile in molteplici situazioni problematiche. In particolare è di aiuto in situazioni di ansiae stressnelle quali avvengono molte attivazioni a livello fisico ed emotivo. La finalità degli esercizi è quella di riuscire ad esercitare una maggiore controllo per prevenire l’acutizzarsi di questo tipo di reazioni che possono, se non controllate, sfociare in attacchi di panico con le relative conseguenze.
Il training autogeno è inoltre indicato per problematiche legate all’insonniae in tutte quelle manifestazioni dolorose acute quali l’emicrania dove l’aspetto psicosomatico risulta estremamente rilevante.
Altro ambito di applicazione del training autogeno è il settore sportivo, questa tecnica viene infatti utilizzata per stimolare e facilitare la concentrazione alla vigilia di importanti eventi sportivi.
Risulta inoltre molto utile in casi di fobie specifiche come ad esempio la paura di volare ed è inoltre consigliato in casi di somatizzazioni quali disturbi gastrointestinali, disturbi della pelle e disturbi sessuali.
Pur essendo estremamente versatile il training autogeno non è adatto a tutti, è infatti fortemente sconsigliato nelle patologie depressive e psicotiche. Un occhio di riguardo va dato nella pratica alle donne in stato di gravidanza che possono comunque avvicinarsi alla tecnica con alcune dovute accortezze, è infatti necessario apporre alcune modifiche nell’esecuzione dell’esercizio del calore e della pesantezza a causa della presenza di eventuali cambiamenti nel sistema circolatorio. La pratica del training è inoltre controindicata per persone in fasi acute di cardiopatie, soprattutto in soggetti che hanno riportato infarti negli ultimi sei mesi.
La pratica del training autogeno necessità di abiti comodi e di un luogo preferibilmente protetto da rumori e luci intense. Gli esercizi si possono attuare in tre posizioni, la posizione sdraiata, la posizione seduta e la posizione del cocchiere. In genere la posizione privilegiata nella fase di apprendimento è quella distesa. Il soggetto deve sentirsi comodo e a proprio agio.
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Il primo passaggio è l’acquisizione della respirazione che generalmente è una respirazione diaframmatica e profonda che ossigenando i tessuti induce un primo stato di rilassamento psicofisiologico. Seguono poi i due esercizi di base chiamati: esercizio della calma, esercizio della pesantezza ed esercizio del calore. L’acquisizione e la padronanza di questi tre esercizi in aggiunta alla respirazione sono da considerarsi gli elementi base per la pratica del training.
A questi tre esercizi ne seguono altri tre che sono secondari ed aiutano a stabilizzare le sensazioni positive provocate dagli esercizi svolti precedentemente: l’esercizio della fronte fresca, l’esercizio del cuore e del plesso solare.
Al termine della sessione di training è inoltre buona prassi praticare degli esercizi di risveglio e recupero delle normali funzioni vitali, è consigliabile consentire a ciascun soggetto di prendersi il tempo necessario per quest’ultima fase.
Generalmente al termine di ciascuna sessione, svolta in sede di training o svolta a casa come esercitazione viene chiesto ai partecipanti un breve feedback riguardo all’esperienza appena conclusasi nella quali generalmente si approfondiscono le sensazioni fisiche e psichiche provate durante gli esercizi.
Per concludere questo metodo risulta essere efficace per la maggior parte delle persone e una volta applicato può essere interiorizzato come un utile e sempre disponibile strumento per far fronte ad alcune piccole o grandi difficoltà della vita quotidiana!
I messaggi negativi – come “la droga fa male” “con la droga danneggi il tuo organismo” – sembrano non avere effetto in questo senso. È’ quanto sostenuto dai ricercatori della Indiana University e della Wayne State University.
Utilizzando tecniche di neuroimaging, i ricercatori hanno esaminato l’impatto di diversi messaggi sul cervello individui dipendenti da droghe e sostanze e gli hanno comparati con gli effetti che hanno avuto gli stessi messaggi sul cervello di persone non dipendenti da droghe. Hanno anche cercato di determinare dove si inserisce il problema di comunicazione del messaggio nel circuito che si crea tra messaggio, cervello e comportamento. È nel rapporto tra attività cerebrale e comportamento o nell’impatto del messaggio sul cervello? Forse il cervello di persone dipendenti da droghe e sostanze è sensibile al rischio, ma la consapevolezza del rischio non guida il loro comportamento. O forse è proprio la percezione del messaggio ad essere distorta.
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Per rispondere a queste domande, i partecipanti hanno preso parte ad un gioco virtuale, l’Iowa Gambling Task, spesso utilizzato negli studi psicologici sul processo decisionale. Quattro mazzi di carte appaiono su uno schermo, e ai partecipanti viene detto che la vincita è condizionata dalla scelta del mazzo. Il gruppo di soggetti dipendenti mostravano una minore risposta cerebrale a scritte che indicavano la minore probabilità di vincita in relazione alla scelta di alcuni mazzi di carte. I messaggi negativi portavano addirittura a decisioni peggiori e più rischiose nei soggetti dipendenti da droghe rispetto a quelli non dipendenti.
Questi risultati suggeriscono che il livello di attività cerebrale nelle regioni del cervello che valutano il rischio è più basso nei soggetti dipendenti da droghe o alcol rispetto a quelli non dipendenti. Questi due gruppi elaborano i messaggi in modo diverso, in particolare quei messaggi che sottolineano la perdita o deboli prospettive di guadagno.
La ricerca contribuisce a una crescente mole di letteratura sulla informazione in materia si salute, che esamina l’impatto di particolari tipi di messaggi sui meccanismi neurali coinvolti nel prendere decisioni rischiose, oltre a fornire maggiori indizi su quali regioni del cervello si attivino in risposta al rischio e al pericolo. Una regione in particolare, la corteccia cingolata anteriore, è fortemente coinvolta in una serie di disturbi clinici, tra cui abuso di droghe, ADHD, autismo, schizofrenia e disturbo ossessivo-compulsivo.
Forse una risposta a questi risultati può essere l’uso di messaggi pubblicitari che evidenzino i vantaggi di una vita sana piuttosto che gli svantaggi dell’uso di droghe o alcol, ma i ricercatori sottolineano che ancora non sappiamo se i messaggi positivi sono effettivamente più efficaci nel ridurre il consumo di sostanze, perché il loro esperimento ha considerato le decisioni relative al denaro, e non quelle relative a sostanze.
Memorie Olfattive: una Base Scientifica alla Sindrome di Proust
Di Alessia Offredi
Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa.
(M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, 1913)
Gli odori sono in grado di richiamare alla memoria episodi autobiografici in modo estremamente vivido, dettagliato ed emotivamente connotato (Chu & Downes, 2000): si tratta della famosa Sindrome di Proust, dal nome dell’autore che per primo descrisse un evento simile in relazione all’odore di una “maddalena”.
L’olfatto sarebbe dunque una via d’accesso “privilegiata” rispetto agli altri canali sensoriali.
Diversi studi hanno dimostrato che nel disturbo post traumatico da stress, gli odori legati al trauma (come quelli di sangue o benzina) innescano nei pazienti memorie dettagliate, ancorate profondamente e durature nel tempo (Kline & Rausch, 1985; Vermetten & Bremner, 2003).
La vicinanza anatomica del sistema olfattivo alle strutture deputate alle emozioni (amigdala) e alla memoria (ippocampo) è stata vista come un’ulteriore prova a favore della Sindrome di Proust (Lombion, Bechtoille, Nezelof & Millot, 2010). Per verificare se gli stimoli olfattivi siano effettivamente evocativi di memorie più vivide, emotivamente cariche e dettagliate rispetto a stimoli provenienti da altri canali sensoriali, Toffolo e colleghi hanno condotto un nuovo studio, analizzando in particolare le memorie avversive.
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Al campione, composto da 70 donne, è stato chiesto di guardare un filmato contenente scene violente o spaventose, con la consegna di prestare massima attenzione al contenuto del video. Contestualmente alla visione del filmato, venivano diffuse nella stanza una fragranza, una luce colorata e una musica. Dopo la visione, veniva chiesto alle partecipanti di esprimere una valutazione sul film, riguardante l’aspetto emotivo, la vividezza delle immagini, la loro gradevolezza e il grado di attivazione provato durante la visione. Una settimana dopo i soggetti sono stati di nuovo intervistati sulle medesime scale, fornendo loro uno degli stimoli sensoriali percepiti durante il film.
Coloro a cui veniva riproposto lo stimolo olfattivo manifestavano un ricordo del video meno piacevole, più dettagliato e riportavano livelli più alti di arousal.
La sindrome di Proust non sembra essere apparentemente confermata in questo studio: i ricordi suscitati da stimoli olfattivi non sono stati descritti con parole prese in prestito dal lessico emotivo, o per lo meno non in modo significativamente differente dagli altri. Colpa del setting in laboratorio? Può essere.
Tuttavia, lo studio di Lang e colleghi (2000) riguardante l’umore ci permette di interpretare i risultati in maniera più scrupolosa. Secondo questi autori, l’umore è formato da una componente d’attivazione fisiologica e una di valenza edonica: nel presente studio si riscontra effettivamente una maggior attivazione dell’individuo in risposta a stimoli olfattivi e una minore piacevolezza dei ricordi innescati dagli odori.
In questa prospettiva, è lecito affermare che le memorie olfattive siano maggiormente connesse all’aspetto emotivo delle memorie visive o uditive, al contrario di quanto affermato precedentemente in letteratura (ad esempio, Sherer & Zentner, 2000). Si comprende bene dunque il motivo per cui Marcel Proust si sia immerso in ricordi dell’infanziadai toni caldi e affettuosi: una ninna nanna forse non avrebbe avuto lo stesso effetto. Merito della “maddalena”.
Sherer, K. R., & Zentner, M. R. (2001). Emotional effects of music: Production rules. In P. N. Juslin & J. A. Sloboda (Eds.), Music and emotion: Theory and research(pp. 361-392). New York, NY: Oxford University Press.
Vediamo quali sono le tre grandi tipologie di pretese:
Pretese pure: dipendono da un percorso di scarso allenamento alla frustrazione. Sono tipiche per esempio dei bambiniviziati o abituati ad aver tutto concesso. In questo modo il bisogno di essere educati ai limiti realistici, necessario per sviluppare una buona capacità di adattamento, non è sviluppato. I genitorisono tutori assoluti e il bambino non cresce nella necessaria abilità di sostenere i “no” e i rifiuti.
Le pretese pure non si sviluppano come tentativo di far fronte a ciò che l’individuo percepisce come una minaccia, ma come una naturale espressione del modo di essere e di rapportarsi con gli altri appreso durante l’infanzia(es: basta pretendere che poi la soddisfazione arriva). Allo stesso modo non si sviluppa l’attitudine a considerare gli stati mentali altrui, a negoziare con i bisogni altrui e accettare che in questa negoziazione nessuno vince tutto il banco.
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Pretese fragili: al contrario delle precedenti nascono come protezione da una minaccia. In questo caso, la pretesa ha lo scopo di evitare anche il minimo rischio di finire in un dolore (conosciuto o meno in passato), vissuto come terribile e che non si è più disposti a toccare. Si tratta per esempio di persone con tratti di narcisismo in cui l’aspetto grandioso e di pretesa di riconoscimento ha il solo scopo di tutelare la sensazione di inadeguatezza o deprivazione affettiva.
Pretese dipendenti: la costruzione delle pretese dipendenti è più complesso dei precedenti. In questa categoria si raccolgono tutte quelle pretese che nascono dalla percezione di essere a credito rispetto agli altri e al mondo. Alcuni individui possono aver scelto nella loro vita un piano di fatica e impegno per occuparsi degli altri, ottenere successo, soddisfare le aspettative dei genitori. Questo come un dovere autoimposto che li ha spinti a seguire regole assolute senza metterle mai in discussione. La conseguenza è vivere ciechi ai propri bisogni e desideri, schiacciati dai doveri e aspettative altrui. E dopo tutto questo la persona si mette a credito, in attesa della ricompensa giusta o dovuta.
Per esempio l’attesa è che gli altri (1) si sacrifichino allo stesso modo, seguendo cioè i medesimi doveri, (2) siano obbligati ad offrire il premio atteso per l’enorme sforzo profuso (riconoscimento costante, attaccamentoeterno, successo totale). Purtroppo però questa trasposizione dei propri doveri o delle proprie regole condizionate sulle altre persone (es: se io faccio X allora gli altri mi daranno Y) non funziona. Semplicemente perché gli altri possono (1) non vedere i propri sforzi, (2) non avere le medesime regole, (3) occuparsi legittimamente dei propri diritti.
Facciamo un piccolo esempio:
– Io sono più bravo, e mi sono impegnato. Avrebbe dovuto scegliere me per quel lavoro
– E cosa le dice che il suo capo avrebbe scelto in base alla bravura e all’impegno?
– Non è così?
– Possiamo fare qualche altra ipotesi? Mettiamo che sappia che lei è più bravo e si è impegnato di più. Come mai potrebbe aver scelto comunque l’altro?
– L’altro è un chiacchierone, gli è di certo più simpatico e gli da sempre ragione.
– Anche questi sono criteri che una persona può usare, nonostante per lei non siano corretti.
I telefoni cellulari sono utilizzati come parte di un rituale consumistico e hanno una funzione consolatoria sulle tendenze impulsive dell’utente, tanto da essere paragonate all’uso del ciuccio nei bambini piccoli!
Secondo un recente studio pubblicato sul Journal of Behavioral Addictions la dipendenza da cellulare e sms può essere paragonata allo shopping compulsivo con carta di credito; in entrambi i tipi di dipendenze sembrano avere un ruolo primario il materialismo, per cui alcuni oggetti di uso comune divengono degli status simbol, e l’impulsività, che ha un ruolo importante sia nelle dipendenze comportamentali che in quelle da sostanze.
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James Roberts, docente di marketing alla Baylor’s Hankamer School of Business, sostiene che i telefoni cellulari sono utilizzati come parte di un rituale consumistico e hanno una funzione consolatoria sulle tendenze impulsive dell’utente, tanto da essere paragonate all’uso del ciuccio nei bambini piccoli!
Studi precedenti hanno dimostrato che i giovani inviano una media di 109,5 messaggi di testo al giorno e circa 3.200 ogni mese; ne ricevono 113 e controllano il loro cellulare in media 60 volte in una giornata tipo; inoltre gli studenti universitari trascorrono circa 7 ore al giorno usando strumenti tecnologici di informazione e comunicazione.
Questo studio è il primo a occuparsi di come il materialismo giochi un ruolo nella dipendenza da telefono cellulare. I dati di questa ricerca provengono da self-report compilati da 191 studenti di economia presso due università statunitensi, in cui sono stati misurati materialismo, impulsività e l’uso di messaggistica istantanea.
Secondo Roberts, il materialismo è un valore importante che influenza molte delle decisioni che prendiamo come consumatori. Inoltre, l’uso, e l’uso eccessivo, del telefono cellulare sono diventati comportamenti così comuni che è importante avere una migliore comprensione di ciò che spinge a questi tipi di dipendenze tecnologiche.
I risultati indicano che i telefoni cellulari sono utilizzati da circa il 90% degli studenti universitari; sono accessibili in qualsiasi momento, anche durante le lezioni, e dotati di sempre più funzioni, il che rende il loro uso e abuso sempre più probabile, tanto che la maggioranza degli intervistati sostiene che perdere il telefono cellulare sarebbe, addirittura, disastroso per la sua vita sociale…
Terapia dinamica interpersonale breve – RECENSIONE
Recensione
“Terapia dinamica interpersonale breve”
Lemma, Target e Fonagy (2011)
Il tentativo della Lemma è costruire un modello interpersonale breve che fosse in grado di accettare gli inevitabili compromessi moderni con i modelli cognitivi e interpersonali (interessati agli stati mentali consapevoli e non transferali) e al tempo stesso di mantenere un grado accettabile di azione sulle componenti dinamiche: inconscio e transfert.
Questo libro presenta un interessante adattamento del modello psicodinamico alle necessità moderne di protocolli più brevi e flessibili e adattabili al servizio sanitario pubblico, nel Regno Unito come in Italia.L’autrice principale è Alessandra Lemma, che ha scritto il libro in collaborazione con Mary Target e Peter Fonagy. L’edizione italiana del libro è stata pubblicata da Raffello Cortina Editore (Milano).
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Per un terapeuta di formazione dinamica il termine “interpersonale” è sospetto, perché focalizza la terapia sulle difficoltà relazionali e non su quelle interiori. Inoltre il lavoro sulle componenti intrapsichiche tende a diventare, nei modelli interpersonali, inevitabilmente più cosciente e consapevole, e quindi più cognitivo e meno dinamico. Infine l’attenzione al cosiddetto transfertdiluisce e può addirittura scomparire, come è avvenuto nella cosiddetta Terapia Interpersonale di Klerman, che non è dinamica.
Il tentativo della Lemma è costruire un modello interpersonale breve che fosse in grado di accettare gli inevitabili compromessi moderni con i modelli cognitivi e interpersonali (interessati agli stati mentali consapevoli e non transferali) e al tempo stesso di mantenere un grado accettabile di azione sulle componenti dinamiche: inconscio e transfert.
Lemma, aiutata da Target e Fonagy, sostanzialmente ci è riuscita. Come? Il suo protocollo (che non vuole essere un nuovo modello) impacchetta in sedici sedute il lavoro, che potremmo chiamare interpersonale e quasi cognitivo, sugli stati mentali intenzionali (e quindi coscienti) del paziente secondo le tecniche già descritte abbondantemente da Fonagy per la sua terapia basata sulla mentalizzazione, ad aspetti dinamici.
Le tecniche fonagyane di sollecitazione della mentalizzazione si possono riassumere in un atteggiamento cortesemente incalzante (alla “tenente Colombo”, dice Fonagy) di incoraggiamento al paziente a chiarire al terapeuta e soprattutto a se stesso in seduta gli scopi e le ragioni delle sue azioni e dei suoi stati mentali.
Da un punto cognitivo è una tecnica che potremmo chiamare di chiarimento delle credenze distorte, con una leggera componente di disputa (chiedere “perché fai questo?” e “perché senti questo?” equivale a un accertamento e a una messa in discussione delle credenze cognitive che reggono azioni ed emozioni) ma senza espliciti inviti a ristrutturare, a vederla diversamente.
E la parte dinamica dov’è? Prima di tutto, Lemma Target e Fonagy dicono che in sedici sedute c’è il tempo per sviluppare in parte una relazione di transfert e analizzarla. Però essa va analizzata con una costante attenzione al qui e ora. Insomma il transfert diventa un’esposizione in vivo a un problema relazionale del paziente trattabile in seduta.
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In secondo luogo, lo stile terapeutico incalzante senza ristrutturazione di Lemma, Target e Fonagy consente di sviluppare un’atmosfera tipicamente psicodinamica di astinenza e frustrazione, sebbene gli autori ci tengano a dire che la loro è una frustrazione supportiva. Quest’ultimo aspetto probabilmente è quello che è più interessante per lettori di orientamento non dinamico.
Soprattutto i terapeuti cognitivisti possono imparare da questo libro a moderare l’atteggiamento accudente e accogliente che è tipico del nostro orientamento, che a volte rischia di essere collusivo.
Vita e Opere di Paola Luzzatto, la Sciamana dell’Arteterapia Italiana
Di Veronica Vincenzi e Gaspare Palmieri
Paola Luzzatto ha dato un considerevole contributo teorico e pratico all’arteterapia. I suoi insegnamenti, individuabili in numerose pubblicazioni scientifiche, sono preziosi elementi da assimilare per chiunque si interessi di questa disciplina.
Paola Luzzatto descrive la sua vita come “una treccia colorata”, composta da diversi percorsi che si sono uniti fino a costituire una figura di arteterapeuta dal percorso professionale ed esperienziale unico. Già dalla laurea in Filosofia, con una tesi in Estetica dal titolo Susanne Langer: Il simbolismo nell’arte e nella religione, si potevano intuire i suoi futuri ambiti d’interesse: l’arte e la spiritualità. Da sempre appassionata di cinemae cineamatrice, l’attenzione al simbolo e la sua analisi attraverso la cinepresa, erano manifestazioni del bisogno di individuare forme capaci di esprimere l’esperienza umana e magari di astrarre dal caos uno spazio più organizzato e dotato di senso nel quale poter condividere e comunicare. Questo prelevare frammenti di vita e rappresentarli in modo visivo ritornerà anni dopo nel lavoro clinico con i pazienti, a cui Paola Luzzatto chiederà di rappresentare la propria storia autobiografica attraverso delle immagini.
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Dopo la laurea, il Dottorato di Ricerca in Religioni Comparate a Ibadan in Nigeria, per studiare la religione e la psicologia del devoto, dove avviene l’incontro con Susanne Wenger, artista viennese trasferitasi nel 1949 a Oshogbo e divenuta sacerdotessa di alcuni culti Yoruba, di cui Paola ha recentemente pubblicato la biografia (Luzzatto 2009).
Nel 1981 si trasferisce a Londra, iscrivendosi alla School of Psychotherapy and Social Studies, che unisce l’insegnamento della psicoanalisi a quello delle psicoterapie cosiddette umanistiche (Rogers, Gestalt, Analisi Transazionale). L’incontro con l’arteterapia avviene frequentando questa scuola, durante la presentazione di un caso clinico. L’idea di poter usare le immagini (simboliche) in una terapia, unire il verbale al non verbale, “il concreto e il simbolico, come dice Susanne Wenger: la Terra e il Cielo”, la conquista a tal punto da iscriversi l’anno seguente al Goldsmith College e divenire lei stessa un’arteterapeuta.
Per dieci anni rimane a Londra occupandosi di pazienti psichiatrici prima al Tooting Bec Hospital e successivamente al St. Thomas’ Hospital, utilizzando inizialmente la tradizionale modalità arte terapeutica dello Studio Aperto e poi sperimentando al St. Thomas’ un nuovo intervento di carattere maggiormente interattivo: l’Open Session (Luzzatto 1997 ).
Successivamente si dedica di più a casi individuali, e approfondisce il ruolo dell’arte terapia nelle dipendenze e nei disturbi alimentari(tossicodipendenza; alcoolismo; anoressia), spesso utilizzando la Self-World Image, una tecnica d’ispirazione winnicottiana in cui guida i pazienti a rappresentare graficamente l’idea dell’Io, inserito nel mondo circostante (Luzzatto 1987; 1989; 1994a; 1994b). In questa tecnica il foglio bianco rappresenta il contenitore del mondo, che è a sua volta contenitore della persona.
Paola Luzzatto costruisce un percorso di cura lavorando sulle immagini in divenire, sulle loro successive modificazioni, proponendo delle ipotesi di irrealtà che danno il potere all’individuo di cambiare una situazione data partendo dall’immaginare la situazione stessa trasformata.
Risale a questo periodo anche l’elaborazione della teoria del setting triangolare dell’arte terapia: se fino a quel momento la comunicazione tra il paziente e il terapeuta era stata immaginata come una comunicazione lineare, da lì in avanti avrebbe assunto la forma tripolare caratteristica dell’arteterapia, dove il terzo polo è costituito dall’immagine che esternalizzata visivamente diventa concreta e di conseguenza più diretta ed efficace della parola (Luzzatto 1998).
Il punto fondamentale di questo concetto è che l’atto della visualizzazione sarebbe capace di modificare le proprietà spazio-temporali della comunicazione.Nel processo arteterapeutico non solo l’immagine assume una valenza metaforica, ma diviene “partner silenzioso” del terapeuta, determinando agevolazioni e complessita’ del setting. Il trasfert e il controtransfert si configurano in questi caso come “doppi”, in quanto rivolti anche all’immagine (Luzzatto 2009a).
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La celebrità di Paola Luzzatto è però dovuta soprattutto all’attività presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, dove dal 1995 si è occupata di pazienti oncologici. Come è noto tra i malati di cancro vi è un’alta percentuale di persone che reagiscono alla malattia con stati di ansia e di depressione. In questa tipologia di pazienti il lavoro psicologico non può prescindere dal corpo: un corpo malato, che ha subito interventi chirurgici, debole, talvolta estraneo al suo possessore.
A questo riguardo l’arteterapeuta ha ideato la tecnica del Contorno del Corpo (Luzzatto et al 2003), in cui viene utilizzato un foglio A4, con disegnata una sagoma corporea, che il paziente e’ invitato a riempire. Con questa tecnica è stato riscontrato come sia più semplice esprimere innanzitutto visivamente la presenza del dolore fisico, ma anche inserire il corpo in una situazione positiva o avvolgerlo in una sorta di protezione divino-spirituale.
Durante la sua attività in ambito oncologico ha inoltre messo a punto il Viaggio Creativo (Luzzatto & Gabriel 2000), un intervento in dieci tappe, rivolto a piccoli gruppi di pazienti che hanno appena terminato le cure (chirurgia, radioterapia, o chemioterapia). Lo scopo di questa tecnica è quello di aiutare ciascun paziente a non lasciarsi intimidire dalla pagina bianca (metaforicamente dall’incognita del futuro), sperimentare varie tecniche espressive per scoprire quelle più congeniali e trovare al termine di ogni incontro un’immagine significativa che rafforzi l’identità personale.
Una maggiore consapevolezza, la riscoperta di ricordi perduti, un differente approccio verso la negatività, una rinnovata empatia, sono solo alcuni dei risultati raggiunti da chi ha intrapreso il viaggio. Paola Luzzatto, in collaborazione con i suoi studenti, ha poi portato per la prima volta l’arte terapia in camera sterile, ai pazienti oncologici che si trovano in isolamento per settimane e mesi, per il trapianto di midollo, offrendo interventi che facilitano la comunicazione e aiutano ciascun paziente a ricontattare le sue risorse personali (Gabriel et al 2001).
Paola Luzzatto ha dunque dato un considerevole contributo teorico e pratico all’arteterapia. I suoi insegnamenti, individuabili in numerose pubblicazioni scientifiche, sono preziosi elementi da assimilare per chiunque si interessi di questa disciplina. Al momento attuale, tornata in Italia, si sta adoperando per dare maggiore “dignità” a una professione purtroppo non sempre riconosciuta in ambito accademico (Luzzatto 2002; 2010).
Luzzatto P. (1987) The internal world of drug-abusers projective pictures of self-object relationships ( a pilot study), B. J. Projective Psychology, 32 (2), pp. 22-33
Luzzatto P.(1989) Drinking problems and short-term art therapy: working with images of withdrawal and clinging, in A. Gilroy, T. Dalley, Pictures at an Exibition, Tavistock/Routledge, London, pp. 207-219
Luzzatto P. (1994a) Anorexia Nervosa and Art Therapy: The double trap of the anorexic patient in The Arts in Psychotherapy, 21(2), pp. 139-143
Luzzatto P. (1994b) Art therapy and anorexia. The mental double trap of the anorexic patient. The use of art therapy to facilitate psychic change, In D. Dokter, Arts therapies and clients with eating disorders: fragile boards,London, Jessica Kingsley Publishers, pp. 60-75
Luzzatto P. (1997) Short-term art therapy on the acute psychiatric ward: the open session as a psychodynamic development of the studio-based approach, INSCAPE journal of BAAT, 2 (1), pp. 2-10
Luzzatto P. (1998a) From psychiatry to psycho-oncology. Personal reflections on the use of art therapy with cancer patients,In Pratt M., Wood M., Art therapy in Palliative care: the creative response, Routledge, London, pp. 169-175
Luzzatto P. (1998b) L’approccio comunicativo in arte terapia e l’uso delle tre dimensioni: espressiva, cognitiva e analitica, In Belfiore M., Colli L. M., Tra il Corpo e l’Io: L’Arte e la Danza-Movimento Terapia ad orientamento psicodinamico, Pitagora, Bologna, pp. 59-69
Luzzatto P. (2002) L’intervento di arte terapia e Il ruolo dell’arte terapeuta. In: Bellani et al (eds) Psicooncologia. Masson, Milano. pp 933-941; 1093-1041.
Luzzatto P., Sereno V., Capps R., (2003) A communication tool for cancer patients with pain: The art therapy technique of the Body outline,in Palliative and Supportive Care, 1 (2), pp. 135-142
Nei casi in cui entrambi i partners avevano un’occupazione la violenza domestica è risultata raddoppiata rispetto a quando era solo il partner maschile ad avere un impiego.
La violenza domestica ha il doppio delle probabilità di verificarsi in nuclei familiari in cui entrambi i partners lavorano, rispetto a quando lavora solo un partner. È quanto emerso da un recente studio condotto alla Sam Houston State University.
Lo studio, condotto da Cortney A. Franklin e Tasha A. Menaker e sostenuto dal Crime Victims’ Institute, è partito dall’ipotesi che la violenza domestica e la vittimizzazione potessero essere correlate a differenze nel livello di istruzione e status lavorativo tra i partners.
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Invece da quanto emerso in questo studio le differenze nei livelli di istruzione sembrano avere poca influenza sulla violenza domestica, mentre è la variabile lavoro a risultare significativa: infatti nei casi in cui entrambi i partners avevano un’occupazione la violenza domestica è risultata raddoppiata rispetto a quando era solo il partner maschile ad avere un impiego.
Lo studio si è basato su interviste telefoniche fatte a un campione di 303 donne con un età compresa tra i 18 e 81 anni e sentimentalmente impegnate con un uomo: il 67 per cento di loro ha riferito una qualche forma di vittimizzazione fisica o psicologica da parte del partner durante i due anni precedenti; gli atti violenti si riferivano al lancio di oggetti, spinte e spintoni, essere afferrate, colpite, prese a calci o a morsi e l’essere state minacciate con una pistola o un coltello.
L’ipotesi dei ricercatori è che l’occupazione lavorativa femminile può rappresentare una sfida all’autorità e al potere maschile all’interno del rapporto di coppia.
Quando le donne sono costrette a casa nel ruolo di casalinghe, non godono dei contatti con colleghi di lavoro, di un salario proprio, del prestigio legato ad alcune posizioni lavorative e quindi più in generale di risorse che possono metterle in una posizione di autonomia e potere individuale all’interno della coppia;la condizione di dipendenza economica invece valorizza il partner lavoratore all’interno della coppia, valore che rischia di essere messo in crisi nei casi in cui questa dipendenza economica e sociale non esiste perchè anche la donna lavora.
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Altri fattori che possono contribuire alle dinamiche di vittimizzazione sono lo stressrelazionale e l’essere stati testimoni di atti di violenza domestica nell’infanzia.
Infine, lo studio ha trovato che le donne ispaniche avevano significativamente meno probabilità rispetto alle donne caucasiche di denunciare la violenza domestica e che le donne anziane di tutte le etnie avevano meno probabilità di essere vittimizzate rispetto a quelle più giovani.
A seguito di questi risultati, Franklin e Menaker raccomandano che chi si occupa professionalmente delle vittime di violenza domestica impari strategie specifiche per affrontare i fattori di rischio e le differenze culturali. In particolare le giovani che sono state testimoni di violenza domestica nell’infanzia dovrebbero essere aiutare con dei programmi ad hoc che le aiutino a sviluppare strategie efficaci di risoluzione dei conflitti che insorgono nelle relazioni di coppia.
In questi mesi ci concederemo il piacere di rivedere tutta la Serie TV In Treatment e pubblicare un commento di ogni puntata con i lettori di State of Mind.
Molti colleghi (e non colleghi) hanno visto o sentito parlare di In Treatment, serie televisiva americana prodotta dalla HBO dal 2008 al 2010. È una serie di particolare interesse per State of Mind. Il suo formato è quello della psicoterapia, i personaggi sono uno psicoterapeuta e i suoi pazienti.
In ogni puntata il protagonista, un terapeuta di formazione psicoanalitica (in termini più tecnici, dinamica e relazionale) affronta una seduta con un paziente, in un giorno fisso della settimana.
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Nella prima puntata il terapeuta tratta il paziente del lunedì, nella seconda il paziente del martedì, e così via. Finche la settimana si esaurisce e si inizia daccapo, col paziente (anzi, colla paziente) del lunedì. Unica eccezione, il venerdì, in cui invece è il nostro terapeuta che va in supervisione da un’analista più anziana. La struttura è ciclica, eppure anche drammatica: le sedute danno vita a una storia, le vicende si intrecciano e alcuni pazienti interagiscono parzialmente tra loro. Non proprio tutto accade nel chiuso dello studio del terapeuta.
L’idea è sicuramente intrigante e l’esecuzione ancor di più. Il terapeuta si chiama Paul Weston ed è interpretato da un Gabriel Byrne tormentato e depressivamente fascinoso. Paul è un terapeuta che ha qualche problema nel mantenere le distanze con i suoi pazienti e anche in bilico tra la formazione analitica classica e ortodossa e alcuni (anzi molti) slanci relazionali modernistici, per così dire. La supervisora si chiama Gina Toll (interpretata da Dianne West) ed è al tempo stesso materna e custode dell’ortodossia, a tratti sarcastica verso gli sviluppi relazionali della psicoanalisi.
La serie è, a parere della redazione di State of Mind, molto ben fatta e rappresenta la psicoterapia in maniera romanzesca ma anche credibile. La regia si è avvalsa di consulenze professionali. Inoltre, la serie americana si basa su una precedente serie israeliana (chiamata “BeTipul”, che in ebraico dovrebbe significare “In terapia”) di cui si dicono meraviglie e che a sua volta si era avvalsa di una consulenza professionale di terapeuti. Purtroppo, finora non siamo stati in grado di visionare l’originale israeliano.
Per consolarci, in questi mesi ci concederemo il piacere di rivedercela tutta e pubblicare un commento di ogni puntata con i lettori di State of Mind. Le commenteremo tutte, una per una fino alla 106esima. Stendiamoci dunque sul lettino, oppure sediamoci sul divano e accendiamo la TV. Anzi, accendiamo il computer e controlliamo: forse su State of Mind è apparso un commento a una puntata di “In treatment”.
ACT Monografia #1 – Acceptance and Commitment Therapy – Introduzione
ACT – Acceptance and Commitment Therapy – Introduzione
PARTE 1 di 7
Secondo il modello ACT ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio.
Secondo la visione di Steven Hayes, l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) fa parte di un movimento più ampio, basato e costruito su precedenti terapie comportamentali e cognitivo-comportamentali. Tuttavia, alcuni concetti presenti nella struttura corporea dell’ACT sono caratterizzati da istanze peculiari che costituiscono una nuova fase evolutiva, sia da un punto di visto teorico sia applicativo.
Le terapie cosiddette di “terza ondata” sono caratterizzate da strategie di cambiamento su basi contestuali ed esperienziali (oltre agli aspetti più didattico-direttivi) e da una forte sensibilità al contesto dei fenomeni psicologici e non alla loro forma o al loro contenuto. Insomma, il focus è concentrato sui processi mentali.
• Focus ciò che per l’individuo è importante nella vita (i valori).
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In un momento storico come quello del mondo scientifico attuale, sta emergendo sempre più la necessità di fornire una teoria di base, che spieghi il funzionamento psichico globale, fondata su chiari fondamenti teorici e, allo stesso tempo, strettamente connessa ai protocolli e alle tipologie di trattamento clinico. Potremmo, quindi, sostenere che l’ACT sia una moderna forma di terapia cognitivo-comportamentale disegnata per incrementare le capacità personali di perseguire obiettivi e valori individuali significativi.
L’ACT si basa su un modello teorico-filosofico noto come Relational Frame Theory. Secondo tale teoria, nell’essere umano, il linguaggio è basato sull’abilità appresa di mettere in relazione gli eventi in modo arbitrario (per derivazione di frame relazionali, di cornici relazionali, nucleo centrale del linguaggio e non necessariamente per esperienza diretta).
L’origine della sofferenza psicologica risiede nella normale funzione di alcuni processi del linguaggio umano (es. problem solving), quando applicati alla risoluzione di esperienze private/interne (es. pensieri, emozioni, ricordi, sensazioni corporee, ecc.), invece che alla risoluzione di eventi/situazioni del mondo esterno.
Riteniamo che questo sia un aspetto molto importante dell’ACT. Tali processi mentali portano l’individuo a dare significato e sperimentare il pensiero in modo letterale. Per questo motivo, se ho un pensiero di inadegatezza allora IO SONO INADEGUATO. L’eccesso di tale processo porta a quello che in ACT viene chiamato il sé concettualizzato (una maschera scomoda che indossiamo, di cui abbiamo già scritto su state of mind).
Di fatto l’ACT non utilizza come strumento principale gli interventi diretti su contenuti di pensiero, come ad esempio il disputing. Tale terapia, invece, cerca di favorire l’accettazione dei pensieri e delle emozioni per quella che è la loro natura (cioè “solo” pensieri e emozioni) e di stimolare la messa in atto di azioni che contribuiscano a vivere una vita appagante e soddisfacente.
Il fine ultimo dell’ACT è promuovere la flessibilità psicologica dell’individuo. Secondo il modello, la flessibilità psicologica si può raggiungere (o almeno promuovere) attraverso interventi su ciò che vengono considerati i sei pilastri del modello ACT.
I sei processi chiave, sottendono due macro-aree che, in sostanza, rappresentano la A e la C dell’ACT. Al posto della A possiamo leggere “processi di mindfulness e accettazione”, che includono accettazione, defusione, contatto con il momento presente e sé come contesto.
Al posto della C possiamo, invece, leggere “processi di modificazione comportamentale e azione impegnata secondo i valori”, che includono i valori, l’impegno nell’azione, il sé come contesto e il contatto con il momento presente.
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Insomma, secondo il modello ACT ciò che promuove il cambiamento e il benessere psicologico è un insieme di competenze di accettazione e impegno (commitment). Tali atteggiamenti, se mantenuti e sperimentati nel tempo, portano alla flessibilità psicologica, e quindi a stare meglio.
In questa monografia, composta da sette parti, cercheremo di illustrare i singoli processi implicati nell’ACT, considerandoli uno ad uno e integrandoli in una teoria complessa e multi-dimensionale.
Il modello della psicopatologia, quindi, è un modello di inflessibilità psicologica e di “blocco/incastro”, in cui se si lascia che i pensieri (intesi in senso molto ampio) vivano al posto nostro arriviamo a non avere chiaro cosa vogliamo della vita e che cosa sia importante per noi.
Un gruppo di ricercatori del UC Irvine’s Center for the Neurobiology of Learning & Memory hanno scoperto un breve e moderato esercizio fisico migliora il consolidamento dei ricordi sia in anziani sani che in quelli con decadimento cognitivo lieve.
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La maggior parte della ricerche si è concentrata sui benefici che l’attività fisica può avere nel tempo sulla salute e le funzioni cognitive degli anziani. Ma il lavoro dell’UCI è il primo a prendere in considerazione gli effetti immediati sulla memoria di una breve serie di esercizi fisici.
Sabrina Segal e i neurobiologi Carl Cotman e Lawrence Cahill hanno sottoposto un gruppo di persone con un età compresa tra i 50 e gli 85 anni, con o senza deficit di memoria, a un compito di visualizzazione di immagini piacevoli (foto di natura e di animali) al quale seguiva un breve periodo di attività fisica moderata (pedalare su una cyclette per 6 minuti al 70% della loro sforzo massimo); un’ora più tardi dovevano rievocare le immagini precedentemente visualizzate. I risultati indicano che il breve esercizio fisico portava a un notevole miglioramento nel compito di memoria, sia negli adulti sani che in quelli con problemi cognitivi, rispetto ai soggetti che non aveva praticato esercizio fisico. Questa correlazione era particolarmente forte nelle persone con disturbi della memoria.
Per comprendere in che modo un breve e intenso esercizio fisico produca effetti benefici sulla memoria i ricercatori stanno ora cercando di scoprire i fattori biologici che potrebbero sottendere a questo meccanismo.
L’ipotesi è che il miglioramento mnestico possa essere correlato rilascio di noradrenalina indotto dall’attività fisica; neurotrasmettitore noto per il suo importante ruolo nella modulazione della memoria. Ipotesi questa che si basa sui dati raccolti in una precedente ricerca che dimostrano come l’aumento della noradrenalina, indotto farmacologicamente, acuisca la memoria e mentre il blocco del neurotrasmettitore la peggiori.
Il fatto che un aumento di questo neurotrasmettitore possa essere indotto dal breve e moderato esercizio fisico offre un’ alternativa naturale e salutare all’uso di farmaci per il miglioramento della memoria; con una popolazione sempre più anziana questa sembra una grande risorsa a sostegno del miglioramento della qualità di vita e della prevenzione del declino mentale.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, il numero delle persone che ha riferito avvistamenti UFO (oggetti volanti non identificati) è aumentato drasticamente di anno in anno. La mancanza di prove incontrovertibili sull’esistenza degli UFO non può che suscitare l’interesse per il ruolo delle variabili psicologiche associate a questo fenomeno. Questo però non ci autorizza a etichettare tali testimonianze come assurde e folli a priori, semplicemente perché non ci sono altrettante prove che confermino la non esistenza di una forma di vita al di fuori del nostro sistema solare.
Anche se la ricerca sulle caratteristiche psicologiche delle persone che hanno riferito avvistamenti UFO si basa esclusivamente su aneddoti e leggende, per spiegare questi resoconti dal punto di vista psicologico, sono state formulate fondamentalmente due ipotesi generali. La prima semplice ipotesi suggerisce che le persone che hanno riferito avvistamenti UFO abbiano in realtà problemi psichici e che i racconti degli avvistamenti UFO non siano altro che il frutto di una infelicità patologica dei presunti testimoni. La seconda ipotesi sostiene invece che le persone che riferiscono avvistamenti UFO siano alla base delle persone molto fantasiose che, sotto condizioni di forte aspettativa e ridotto esame di realtà, confondano le loro vivaci fantasie con eventi esterni realmente accaduti.
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Ma andiamo con ordine e valutiamo gli studi fondamentali e gli autori più importanti che hanno segnato la storia dell’argomento.
Nel 1977, Lawson somministrò una procedura d’induzione ipnotica a soggetti che non avevano mai avuto un’esperienza di avvistamenti UFO e chiese loro di immaginare di essere rapiti dagli alieni. Al termine della procedura d’ipnosi, questi soggetti spesso riferivano una serie di racconti particolareggiati con numerose similitudini alle narrazioni riferite dai soggetti che sostenevano di essere stati realmente rapiti. Sulla base di queste somiglianze, Lawson suggerì che i soggetti che sostenevano con fermezza di essere stati rapiti dagli alieni erano in realtà vittime della loro stessa fervida immaginazione. Secondo questa ipotesi, gli individui che riferiscono di aver avuto un contatto con una forma di vita aliena sono probabilmente vittime di un’erronea interpretazione di stimoli sensoriali ambigui, siano essi interni o esterni al sé. In seguito a questa erronea attribuzione, entrerebbe in gioco un meccanismo di archiviazione in schemi e credenze cognitive congruenti con le proprie attese.
Allo stesso modo, la letteratura di tipo medico in questo settore, suggerisce che molte delle esperienze di questo tipo siano associate con le cadute durante l’addormentato, sognando, o mentre ci si sveglia dal sonno (Basterfield, 1981) e che alcune di queste esperienze possano essere spiegabili come esempi della cosiddetta paralisi del sonno (Hufford, 1982). La paralisi del sonno è accompagnata dalla sensazione di un peso opprimente sul torace ed è spesso accompagnata da vivaci e spaventose allucinazioni a carattere terrifico. I contenuti delle allucinazioni sembra variare in funzione delle credenze e delle aspettative del dormiente, e negli individui che credono negli extraterrestri, le allucinazioni possono assumere proprio la forma di queste credenze.
Nel 1985, Bloecher e colleghi, riportarono uno studio su dei soggetti che affermavano di essere stati rapite dagli alieni. Attraverso i test, i soggetti hanno dimostrato di avere un’intelligenza sopra la media. Sebbene i risultati dei test abbiano suggerito un certo livello di ansia e un lieve disturbo narcisistico in alcuni soggetti, non è stata trovata alcuna prova di una grave psicopatologia.
Allo stesso modo, Parnell (1988) somministrò l’ MMPI (Minnesota Multiphasic Inventory) e il Sixteen Factor Personality Questionnaire a 225 persone che avevano riferito avvistamenti UFO e non trovò prove di gravi disturbi psichici. Parnell trovò però che i soggetti che avevano sostenuto di aver avuto anche uno scambio d’informazioni con gli extraterrestri, avevano mostrato pensieri e sentimenti più insoliti rispetto alla popolazione media e avevano mostrato una maggiore tendenza al “pensiero divergente” (inteso come modalità di ragionare tipica degli individui creativi) e una condizione di isolamento sociale maggiore rispetto agli avvistatori di UFO che non avevano affermato di aver avuto alcuna tipo di comunicazione con questi.
Nel tracciare una sintesi di tutti questi risultati, sembra ci sia fondamentalmente un unico comun denominatore nelle credenze interne dell’individuo: il desiderio, la spinta e l’aspettativa di un qualcosa di diverso dal comune essere umano.
A questo punto potremmo chiederci: che non ci sia, alla base di queste attese, una profonda e radicata delusione nei riguardi dell’uomo e, nello specifico, delle persone vicine?
Basterfield, K. (1981). Can imagery explain certain UFO close encounters? Paper presented at the CUFOS Conference.
Bloecher, T, Clamar, A., & Hopkins, B. (1985). Summary report on the psychological testing of nine individuals reporting UFO abduction experiences. Mt. Ranier, MD: Fund for UFO Research.
Lawson, A. H. (1977). What can we learn from hypnosis of imaginary abductees? In MUFONUFO Symposium Proceedings (pp. 107-135). Seguin, TX: Mutual UFO Network. (READ FULL ARTICLE)
In the previous installment of this series I discussed studies that investigated attachment and the development of internalizing disorders. These studies used various methodologies including retrospective questionnaires and longitudinal data. Although they used sound methodologies, their findings collapsed the categories of avoidant, anxious/resistant and disorganized attachment styles into insecure attachment. Therefore, they ignored the specific characteristics of each of these attachment styles. In this article I will review two studies that examined the individual insecure attachment classifications in relation to the development of internalizing disorders in children, thus, establishing a more specific relationship between the variables.
Brumariu and Kerns (2008) assessed the attachment style of children during grade three (approximately nine years old) and again during grade five (approximately 11 years old). At the first time point, measures of attachment were taken using two questionnaires. The same questionnaires were completed at the second time point as well as a child completed questionnaire measuring their social anxiety. Longitudinal analyses showed that anxious/resistant attachment style was most consistently associated with social anxiety symptoms compared to other forms of attachment. Simultaneous measures, at grade five, showed that higher resistant attachment scores were related to higher social anxiety. Although attachment was not measured using the SSP, the association between anxious/resistant attachment and social anxiety symptoms has been replicated using the SSP.
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Bar-Haim, and colleagues (2007) examined the relationship between attachment style and anxiety in 136 infants and their parents. At 12 months of age, children’s attachment styles were assessed using the SSP. The Screen for Child Anxiety Related Emotional Disorders (SCARED) was completed by both parents and children at 11years of age to rate child anxiety. The results demonstrated that, compared to children who were securely attached in infancy, children with a resistant attachment had higher levels of school phobia.
Overall, compared to healthy control mothers, it appears that depressed and anxious mothers are more likely to have infants who have an insecure attachment style. Further, it appears that those children with an insecure attachment style are more likely to develop both internalizing and externalizing disorders. While some research points to a specific association between resistant attachment style and the development of anxiety disorders, this has not been conclusively established. Next I will discuss studies that have found results inconsistent with the findings described here.
“Meglio così che peggio” oppure “bene” sono alcune delle risposte alla domanda “come stai?” Rivolta alle persone con le quali intratteniamo rapporti amichevoli. Con questa richiesta cerchiamo di conoscere lo stato di benessere di qualcuno.
L’incremento del proprio benessere e di quello delle persone care è uno dei compiti in cui si è impegnati per tutta l’esistenza. Il concetto di benessere si distingue da quello di salute. Una buona salute migliora il benessere, ma si può essere del tutto sani e non sperimentare affatto con gradevolezza il proprio stare al mondo e al tempo stesso si può essere affetti da gravi disturbi e sentire di vivere una esistenza degna di essere vissuta.
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Sempre più spesso viene rivolta ai professionisti della salute mentale una richiesta di aiuto per promuovere e incrementare il proprio benessere sia da persone che intrattengono una sofferenza psicopatologica ma che non si accontentano della semplice risoluzione dei sintomi sia da persone che non presentano disagi specifici ma non sono pienamente soddisfatti del loro stare al mondo.
Abbiamo perciò immaginato un modello teorico che esamina il perché spesso non si gode di uno stato di benessere e che propone modalità di intervento per conquistarlo. Abbiamo, inoltre, messo a punto uno strumento di valutazione del benesseree una proposta terapeutica che può collocarsi sia come un modulo di una più ampia psicoterapia tradizionale sia essere autonomo e rivolto a persone senza specifiche psicopatologie.
In maniera sintetica possiamo definire il benessere un processo che si sviluppa temporalmente attraverso determinazioni del possibile all’interno del contesto in cui si agisce. Queste determinazioni sono scelte orientate da scopi-valori che guidano i piani di vita.
Esistono modalità generali ed universali di funzionamento psicologico che influenzano il processo e orientano in senso teleologico i piani d’azione verso il raggiungimento degli scopi. Gli elementi preminenti sono il senso della vita e la relazionalità.
L’organizzazione degli stati mentali ed emotivi e dei conseguenti comportamentali in specifici domini funzionali (trascendenza, consapevolezza e accettazione) consentono uno sviluppo qualitativo e quantitativo dei livelli di benessere.
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Le possibilità negative e positive di perseguire gli scopi esistenziali presuppongono un andare oltre, verso l’altro da sé e l’esternalizzazione può avvenire solo con livelli di consapevolezza metarappresentativi elevati che permettono di dare senso all’esperienza, nell’accettazione responsabile e impegnata del divenire.
Su questi presupposti teorici è stata messa a punto la scala di valutazione del benessere (SVB).
La scala di valutazione del benessere è stata costruita selezionando da altri strumenti validati gli item che compongono le cinque dimensioni che misura: senso della vita, relazionalità, consapevolezza, accettazione e trascendenza.
La ricerca sul Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) risulta spesso impersonale: i pensieri dei partecipanti, i sentimenti e i loro comportamenti sono ridotti a una lista di caselle da barrare su un questionario. Questo crea il rischio di non dare la giusta attenzione ai vissuti interni di coloro che soffrono di Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC), vissuti spesso non riferiti a nessuno.
Helen Murphy e Ramesh Perera-Delcourt hanno adottato un approccio diverso per lo studio del disturbo: hanno infatti intervistato 9 persone (otto uomini e una donna) con Disturbo Ossessivo Compulsivo, faccia a faccia, per circa un’ora ciascuno, in modo da comprendere cosa si prova a convivere con il disturbo e con i vari trattamenti ricevuti. I ricercatori hanno trascritto le interviste ed hanno così evidenziato i temi chiave.
Per quanto riguarda l’esperienza del Disturbo Ossessivo Compulsivo, i temi principali sono stati “il voler essere e il voler sentirsi normali”, “il non riuscire a vivere”, e “l’ amare e l’odiare il DOC”.
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I partecipanti trovano conforto nell’incontrare altre persone, spesso in terapie di gruppo, che riportano gli stessi vissuti. Dichiarano inoltre di preoccuparsi troppo di ciò che gli altri pensano di loro. Il DOC interferisce con lo studio, con le loro relazioni e con le carriere e spesso i partecipanti percepiscono la propria vita in una fase di stallo mentre la società continua a vivere normalmente. Sono state così approfondite le situazioni dolorose create dal DOC, quale per esempio quella di un uomo che, abitando in una casa con altri coinquilini, impiega tutti i giorni più di un’ora per lavare il bagno, prima di poterlo usare, con il prodotto di pulizia più igienizzante in commercio. “Vorrei poter controllare tutto questo, vorrei poter fermarmi”, riferisce il paziente ma dopo continua con “O forse no”. Nonostante il dolore derivante da certe situazioni, infatti, si ritrova una costante in tutti i partecipanti: la paura di perdere le proprie abitudini patologiche.
La ricerca ha toccato anche l’argomento “terapia”, i temi principali sono stati “ricercare una terapia”, “trovare le radici del problema”, e “migliorare se stessi”. I partecipanti hanno parlato del valore che ha per loro sentire i propri problemi riconosciuti e ascoltati. L’importanza del rapporto con i loro terapeuti è stato menzionato più volte, risultato in linea con ciò che è già noto circa l’importanza della relazione terapeutica.
Anche se gli aspetti della Terapia Cognitivo Comportamentale sono stati trovati utili da molti (“mi ha aiutato a concentrarmi su ciò che è importante per me nella vita”, ha detto uno dei soggetti), altri hanno lamentato la mancanza di interesse per le radici del disturbo. “E’ come tagliare una pianta al di sopra del suolo – le radici sono ancora lì”, ha detto un altro partecipante. Tuttavia, relativamente al migliorare se stessi, la Terapia Cognitivo Comportamentale sembra avere maggiore efficacia.
L’esame delle narrazioni delle persone può aiutare a capire l’esperienza vissuta e ridurre lo stigma sociale e personale. Dato il modo in cui i partecipanti hanno sottolineato il valore del rapporto in terapia, i ricercatori hanno messo in dubbio affermazioni come quelle che indicano la Terapia Cognitivo Comportamentale Computerizzata un valido sostituto nel trattamento del disturbo. I ricercatori inoltre concludono portandoci a riflettere su un altro punto: data l’importanza per le persone con DOC di capirne le origini, perché non dedicare più sedute della terapia alla scoperta delle radici del problema, in modo da diminuire notevolmente il rischio di una resistenza al trattamento? Chissà che il consiglio dei ricercatori non ci torni utile con qualche paziente particolarmente resistente!
The Bridge between Research and Practice – Exchange Program (BRP)
The Italian-Romanian Exchange Program
Il BRP Exchange Program è un progetto di collaborazione internazionale tra istituti di alta formazione e ricerca nel campo psicologia e della salute mentale.
La condizione professionale di psicologi e psicoterapeuti è una realtà difficile e complessa. Nel panorama nazionale è sempre maggiore il numero di psicoterapeuti di vari orientamenti che vengono diplomati ogni anno, basti pensare che i dati del MIUR riferiscono la presenza sul territorio di oltre 300 scuole di specializzazione post-laurea che vanno da grandi organizzazioni a piccole scuole locali con un numero esiguo di studenti. Un numero così alto di psicoterapeuti rende difficile l’ingresso stabile nel mondo del lavoro, specie se l’esito desiderato è lo scenario del tipico studio privato del singolo professionista. Nella società moderna questa è una possibilità abbastanza antiquata, al limite dell’impercorribile. Le spinte della sopravvivenza degli psicologi professionisti dovrebbero andare in due direzioni: (1) cooperazione di rete, (2) sviluppo e innovazione attraverso scienza e tecnologia. Il tutto in un clima di internazionalizzazione e garanzia scientifica dei servizi forniti. Questa esigenza di formazione professionale (futura) integra competenze prettamente cliniche e terapeutiche a competenze inter-disciplinari necessarie per lo sviluppo professionale. Non è di molti mesi fa la discussione entro i confini della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) su come le scuole di specializzazione possano e debbano porsi questa meta formativa e curare questo bisogno dei giovani psicologi italiani. Le scuole di specializzazione non possono offrire lavoro ma possono progettare opportunità.
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Un piccolo esempio che si muove in questa direzione è il progetto The Bridge between Research and PracticeExchange Program varato per il prossimo anno dalle scuole di specializzazione Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca e Scuola Cognitiva di Firenze. Il programma di studio offerto gratuitamente agli studenti rientra in un panorama di grandi progetti di questo circuito di scuole (entro cui rientra la collaborazione con State of Mind e il progetto ProYouth) che hanno lo scopo di fornire opportunità di cooperazione e sviluppo professionali per gli allievi che scelgono di collaborare.
Il BRP (Bridge between Research and Practice) Exchange Program è stato costruito per facilitare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze pratiche e di ricerca tra gli studenti di istituti di alta formazione e ricerca nel campo della psicologia e della salute mentale. Il BRP Exchange Program offre agli studenti una possibilità unica nello sviluppo professionale e nell’arricchimento della propria rete di collaboratori internazionali.
Il progetto BRP Exchange Program nasce dalla partnership tra Studi Cognitivi – Cognitive Therapy School and Research Institute (Milano, Italy) e Open Minds – Center for Mental Health Research (Cluji-Napoca, Romania).
Nel 2013 quattro studenti delle scuole affiliate al circuito Studi Cognitivi saranno selezionati per partecipare al progetto BRP e alle quattro settimane di formazione presso l’Istituto Open Minds.
I candidati selezionati parteciparanno a un mese di formazione gratuito con l’obiettivo di:
Sviluppare le proprie competenze di ricerca nel campo della salute mentale,
Acquisire la capacità di effettuare una revisione critica della letteratura scientifica,
Imparare a scrivere progetti e sottomettere domande per l’acquisizione di finanziamenti,
Ideare, organizzare e gestire progetti di ricerca, clinica e promozione della salute mentale
Le attività in cui saranno coinvolti i candidati del progetto saranno:
Workshop tecnici con lo scopo di sviluppare competenze trasversali nel campo della ricerca e della progettazione internazionale,
Assistenza step-by-step in metodologia, progettazione, analisi dei dati, scrittura scientifica e grant writing per uno dei progetti che saranno attivati da BRP.
Il principale obiettivo è la costruzione di progetti di ricerca in collaborazione con Open Minds sottoponibili a bandi per l’acquisizione di finanziamenti.
I temi di ricerca su cui si concentrerà il progetto nel 2013 sono i seguenti:
Improving knowledge of and access to psychotherapy
A metacognitive model of desire and craving (addiction)
Rumination and low self-esteem in eating disorders
Concern over mistakes, personal standards, social goals, and worry in social anxiety disorders
Therapeutic approaches to mental illness related self-stigma
Certo, progetti internazionali come il BRP non possono risolvere un problema ben più ampio e generale legato al mondo del lavoro, ma rappresenta un esempio di best practice nell’ambito della formazione per gli istituti che si occupano di psicologia clinica e psicoterapia.