Gli esseri umani sono molto più inclini a cooperare tra loro di quanto lo siano i loro più stretti parenti evolutivi. La teoria prevalente sul perché questo avvenga si è focalizzata sul concetto di altruismo, ma le moderne teorie del comportamento cooperativo suggeriscono che agire in modo disinteressato e altruistico è vantaggioso in termini evolutivi perché porta a una ricompensa personale.
Secondo un recente studio di Tomasello e colleghi, pubblicato su Current Anthropology, l’uomo ha sviluppato la capacità di cooperare, perché lavorare bene con gli altri portava a un beneficio individuale, oltre che collettivo. In altre parole, la collaborazione non nasce dall’altruismo, ma dal vantaggio in termini di sopravvivenza individuale che questa comporta: dobbiamo cooperare per sopravvivere, aiutiamo gli altri perché abbiamo bisogno di loro.
Questo studio fornisce un resoconto completo sull’evoluzione del comportamento cooperativo come un processo in due fasi, che inizia in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori e diventa in seguito più complesso e culturalmente determinato nelle grandi società.
La premessa è la teoria della cooperazione mutualistica, che si basa sul principio di interdipendenza: gli autori ipotizzano che, ad un certo punto della nostra evoluzione, si sia reso necessario per gli esseri umani provvedere al foraggiamento insieme, il che significa che ogni individuo ha un interesse diretto per il benessere dei suoi compagni.
In questo contesto di interdipendenza, gli esseri umani hanno sviluppato particolari abilità cooperative che altri primati non possiedono, per esempio dividere equamente il raccolto, comunicare obiettivi e strategie, considerare il proprio ruolo nell’attività comune come equivalente a quello di un altro. Coloro che sono stati in grado di coordinarsi adeguatamente con i loro compagni durante il foraggiamento e che hanno fatto loro parte nel gruppo hanno avuto più probabilità di successo.
Quando la società è cresciuta in dimensioni e complessità, i loro membri sono divenuti ancora più interdipendenti gli uni dagli altri. Nella seconda fase evolutiva, le abilità cooperative si sono sviluppate su più ampia scala, un esempio è la concorrenza tra gruppi umani. Le persone sono diventate più gregarie, identificandosi con gli altri all’interno della società anche senza una conoscenza personale e diretta. Questo nuovo senso di appartenenza ha generato convenzioni culturali, norme e istituzioni che hanno a loro volta incentivato e strutturato il sentimento di responsabilità sociale.
Il rimuginio è un pensiero ripetitivo e astratto riguardante predizioni di possibili eventi negativi futuri. Esso è considerato una delle componenti principali dell’ansia, in particolare del disturbo d’ansia generalizzato, in cui il soggetto più che preoccuparsi rimugina, ripete mentalmente a sé stesso che gli eventi andranno male o che qualcosa di spiacevole potrebbe capitargli da un momento all’altro, in una sorta di dialogo con se stessi, definito dialogo interno.
In base all’esperienza clinica è possibile rilevare nei pazienti due tipi di rimuginio:
evitante, in cui il paziente tende ad individuare una possibile strategia di fuga (più legato all’ansia generalizzata);
controllante, in cui si vorrebbe ambire ad esercitare un controllo rispetto alla situazione temuta (legato al disturbo ossessivo compulsivo).
Entrambe le strategie messe in atto permetterebbero di ridurre l’ansia (Sanderson, Rapee e Barlow, 1989). Questa sensazione di padroneggiamento dell’ansia rinforza e mantiene il rimuginio stesso, impedendo di dedicare le risorse cognitive ad altri pensieri o attività.
La letteratura in merito a tale argomento è scarsa e per questo ci siamo chiesti se fosse possibile classificare il rimuginio in base al proprio scopo (controllante e evitante) e se esista una relazione tra tipo di rimuginio e patologia.
Lo studio ha coinvolto 99 adolescenti di età compresa tra i 14 e i 19 anni, bilanciati per sesso: la scelta di tale campione è stata dettata dal bisogno di indagare questo meccanismo nel momento in cui inizia a delinearsi in modo più marcato (Waller e Rose, 2011; Burwell et al., 2012).
Sono stati somministrati dei questionari volti a misurare l’ansia di tratto, i pensieri ossessivi, la depressione, il livello di ruminazione e il rimuginio (in particolare il questionario sul rimuginio è stato diviso in due parti, separando gli item che trattano tematiche più centrate sull’evitamento e dall’altra quelli che riguardano il controllo).
Dall’analisi dei dati è emerso che esiste una relazione positiva tra rimuginio controllante e i sintomi ossessivi e tra rimuginio evitante e i sintomi dell’ansia.
Si tratta di risultati importanti che confermano funzionamenti noti all’occhio di ogni clinico esperto, ma mai corroborati da dati empirici. Alla luce di questi risultati, è possibile stabilire anche ipotesi di interventi terapeutici che siano più mirati e specifici a seconda del processo cognitivo che si trova alla base.
La Neuroscience Based Cognitive Therapy aiuta il paziente a aumentare il livello di padroneggiamento della sofferenza psichica.
Tra le varie nuove proposte di orientamento cognitivo che cercano di affrontare il problema del paziente “difficile”, ovvero del paziente che padroneggia con particolare difficoltà i suoi stati mentali e che non riesce ad assumere un atteggiamento auto-osservativo di esplorazione e messa in discussione dei suoi pensieri disfunzionali, c’è la Neuroscience Based Cognitive Therapy (NBCT). Esso si può definire uno dei molti orientamenti di “terza ondata” della Terapia Cognitiva, è stato sviluppato da Tullio Scrimali, presso la Clinica Psichiatrica della Università di Catania, e recentemente sistematizzato in una monografia pubblicata da Wiley (Scrimali, 2012).
La NBCT addestra il paziente a aumentare il suo livello di consapevolezza e padroneggiamnto dei suoi stati di sofferenza psichica utilizzando tecniche di neuro-biofeedback.
Scrimali ha sviluppato una sorta di laboratorio portatile (il MindLAB Set per leggere la mente e misurare il processo terapeutico!) che facilita l’esecuzione e ha descritto una interessante serie di protocolli che permettono al paziente di “vedere” nel qui e ora le sue attivazioni emotive espresse in forma di indici quantitativi e, contemporaneamente, agire sui suoi stessi stati mentali in modo da normalizzare questi valori quantitativi. Una sorta di allenamento alla disciplina interiore. Scrimali ha sviluppato il metodo per i paziente psicotici e molto gravi, ma sarebbe interessante vederene l’applicazione a pazienti meno difficili.
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Si tratta di un orientamento di “terza ondata” perché, come in altri casi, esso rende meno fiducia all’elaborazione verbale e razionale e privilegia metodi di autocontrollo emotivo che non passano attraverso il pensiero esplicito e ponderato, ma piuttosto attraverso un canale che potremmo chiamare esperienziale e neo-comportamentale. Il legame con il modello cognitivo standard si indebolisce ma in qualche modo si mantiene attribuendo al termine cognizione un significato più ampio ed elastico.
Il modello NBCT ha i suoi punti di forza e si sta diffondendo all’estero. In questi ultimi anni Scrimali lo ha presentato ai congressi della società asiatica di CBT (cognitive behavioural therapy) e alla Asia University di Taichung (Taiwan) dove Scrimali è “Faculty Member”. Poche settimane fa Scrimali è tornato alla Asia University di Taiwan per condurre un workshop. Le reazioni sono state positive.
Come mi ha raccontato Tullio Scrimali in persona con il suo caratteristico stile entusiastico: “A Taichung, anche se si mangia riso e piccoli pezzettini carne o pesce con le bacchettine, mi sento ormai a casa. Gli studenti mi conoscono e questo anno ho tenuto lezioni e workshop su schizofrenia e disturbi della alimentazione. Il messaggio passa, i colleghi cinesi si interessano e, al party di commiato, mi diverto da matti. A fine serata suono, con una Telecaster prestatami, insieme alla band degli studenti della Asia University. Il pezzo è “Volare” di Domenico Modugno”.
Monogamia & Ossitocina: sembra che gli uomini sentimentalmente impegnati, sotto effetto di ossitocina, tendano a tenere a distanza le donne.
I risultati di un nuovo studio pubblicato in The Journal of Neuroscience suggeriscono che l’ossitocina può contribuire alla fedeltà nelle relazioni di monogamia. Sembra infatti che gli uomini sentimentalmente impegnati, sotto l’effetto di questo ormone, tendano a tenere a “distanza di sicurezza” donne sconosciute giudicate attraenti e mantenendo quindi la condizione di monogamia.
L’ossitocina svolge un ruolo fondamentale nello scatenare il parto e facilitare l’allattamento; prodotta nell’ipotalamo, è anche coinvolta nella formazione dei legami sociali. Negli esseri umani e in altri animali è nota nel promuovere legami tra genitori e figli, e tra le coppie. Inoltre, studi precedenti hanno dimostrato che l’ossitocina aumenta la fiducia tra le persone. Tuttavia, il suo ruolo nel mantenere i legami monogami negli esseri umani fino ad ora non era ancora stato studiato.
Grazie a questo studio, condotto alla Universität Bonn, i ricercatori hanno scoperto che l’ossitocina è efficace nel rinforzare l’evitamento di donne attraenti negli uomini impegnati in una relazione sentimentale, mentre non avrebbe nessun effetto sugli uomini single.
I ricercatori hanno somministrato ossitocina o placebo attraverso uno spray nasale a un gruppo di maschi eterosessuali; quarantacinque minuti più tardi a ciascuno è stato chiesto di valutare la distanza ideale alla quale collocare una sperimentatrice, giudicata successivamente come attraente per il soggetto. L’ossitocina ha indotto gli uomini impegnati sentimentalmente, ma non i single, a mantenere una maggiore distanza con la donna. In un secondo esperimento, inoltre, i ricercatori hanno scoperto che l’ossitocina non ha avuto alcun effetto nella regolazione la distanza interpersonale tra uomini.
Questi risultati replicano quelli di un precedente studio condotto sui roditori, che ha identificato l’ossitocina come la chiave principale nella formazione del legame di coppia e nella fedeltà monogamica di questi animali. I dati suggeriscono che il ruolo dell’ossitocina nel promuovere comportamenti di monogamia è conservato dai roditori all’uomo.
Scheele, D., Striepens, N., Gunturkun, O., Deutschlander, S., Maier, W., Kendrick, K. M., & Hurlemann, R. (2012). Oxytocin Modulates Social Distance between Males and Females. Journal of Neuroscience, 32(46): 16074. DOI:10.1523/JNEUROSCI.2755-12.2012
Disputing dell’ Ansia Generalizzata. Il tratto principale è la presenza di un vecchio amico della psicopatologia cognitiva: il rimuginio.
Il disputing cognitivo del disturbo d’ ansia generalizzato (GAD) coincide in buona parte con il disputing generale dell’ ansia. Questo dipende dal fatto che il GAD è definito proprio dalla semplice presenza di ansia e preoccupazione eccessiva per almeno sei mesi consecutivi, riguardo a un’ampia quantità di eventi o di attività (come prestazioni lavorative o scolastiche). Sono naturalmente presenti tra i criteri diagnostici gli aspetti fisiologici dell’ ansia come irrequietezza, affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, irritabilità, tensione muscolare e alterazioni del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno, o sonno inquieto e insoddisfacente). Come si vede, il GAD finisce per identificarsi con l’ ansia.
Non basta. Clinicamente, il tratto principale del GAD è la presenza di un vecchio amico della psicopatologia cognitiva: il worry. Il “worry”, nella letteratura cognitiva, comprende qualcosa in più dell’ ansia persistente, e questo qualcosa in più in italiano lo si può esprimere con il termine rimuginio. Per ora diciamo che l’attesa apprensiva (tensione psichica, preoccupazione) con anticipazione pessimistica di eventi disastrosi per sé o per i propri familiari rappresenta il sintomo cardine del disturbo, a cui si accompagnano segni di tensione fisica, iperattività neurovegetativa e disturbi cognitivi come scarsa concentrazione e facile distraibilità.
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I pazienti affetti da questo disturbo appaiono cronicamente ansiosi ed apprensivi, versano in uno stato di eccessiva preoccupazione per le circostanze quotidiane che comporta una condizione di allarme ed ipervigilanza. Pur in assenza di gravi, ma soprattutto realistiche motivazioni, riferiscono sentimenti di apprensione circa la salute e l’incolumità fisica dei familiari, la situazione finanziaria, le capacità di rendimento lavorativo o scolastico.
Il soggetto GAD intende conoscere in dettaglio tutte le possibilità negative per evitarle, e in quanto evitante non si ritiene in grado di controllarle, manipolarle e neutralizzarle attivamente. L’intolleranza dell’incertezza è un costrutto cognitivo tipico del GAD. La persona GAD sembra non tollerare l’intrinseca incertezza degli eventi, e ritiene che la possibilità di un esito negativo, sia pur minima, sia in sé insopportabile. In altre parole, solo la certezza assoluta della sicurezza viene ritenuta un criterio accettabile per tranquillizzarsi e l’incertezza dell’esito è di per sé un motivo sufficiente per preoccuparsi.
P. – Il mondo non è pericoloso, però io lo vedo pericoloso nelle piccole cose! Pericoloso neanche poi tanto per le azioni umane, pericoloso perché tutto può capitare da un momento all’altro
T. – Teme forse l’incertezza delle cose?
P. – Esatto!
Il “rimuginio” (“worry”) è un’attività mentale ripetitiva e pervasiva, prevalentemente in forma verbale ed espressione di eccessiva ansia ed apprensione, i cui contenuti consistono, prevalentemente, in previsioni e valutazioni negative. Il tema del controllo è dominante nel contesto del GAD: il soggetto rimuginatore, infatti, è convinto che solo il completo controllo degli eventi, peraltro mai conseguibile, possa consentirgli di evitare il danno irreparabile temuto, motivo per cui è ipervigile verso gli stimoli minacciosi esterni ed interni (Borkovec et al., 1998).
La componente specifica del disputing del GAD sono le credenze che il paziente riferisce per giustificare la sua tendenza all’iperpreoccupazione. Queste credenze sono state distinte da Wells (2000) in convinzioni positive e negative sul rimuginio. Le prime attribuiscono al rimuginio una funzione positiva. Con esse il paziente risponde alla domanda
T.: ma insomma, a che le serve essere così preoccupato/a? A che le serve rimuginare tanto?
sostenendo che rimuginare gli è utile. Nel primo tipo di risposta il paziente sostiene molto semplicemente che rimuginate gli serve a pensare –e quindi ad affrontare e risolvere- i suoi problemi.
P.: Rimuginare mi aiuta a gestire meglio le situazioni. Se mi preoccupo posso evitare che accadano cose terribili. Rimuginare mi aiuta a risolvere i problemi.
La migliore risposta di partenza è quella logica ed empirica. Dal punto di vista logico è chiaro che il paziente confonde il rimuginio, che è il puro continuare a mantenere l’attenzione fissa sui problemi senza però elaborare soluzioni e strategie di gestione, con il pensiero produttivo, che invece elabora strategie. La risposta migliore è chiedere al paziente di chiarire in che senso le sia utile rimuginare. C’è l’idea errata che essere allerta sia protettivo.
T.: Mi spiega il rapporto tra ciò che teme e il suo stato di preoccupazione?
Il paziente potrebbe rispondere che, di fatto, pensare a un problema implica preoccuparsene. Plausibile, ma si può rispondere che però, nel suo caso, c’è solo la preoccupazione senza il pensiero che risolva le situazioni. A questo punto si passa dal logico all’empirico: si incoraggia il paziente a fornire esempi di questa supposta efficacia pratica del rimuginio.
T.: Ma oggettivamente, quali soluzioni le sono venute in mente rimuginando? Ci sono altre circostanze in cui lei previene le cose pensandoci su?
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A questo punto una possibile risposta è di tipo magico, in cui la paziente riferisce che il rimuginio le da un sollievo immediato, una sensazione di “come se”: come se il problema fosse risolto. Qui possono essere utili due interventi: i costi e il contratto terapeutico. I costi, ovvero i danni che il paziente subisce standosene sempre a preoccuparsi.
T.: D’accordo, sul momento, ovvero a breve termine, ha dei benefici. Ma se lei è qui da me vuol dire che tutto questo rimuginare non le dà solo vantaggi. Le da sollievo sul momento, ma a lungo termine cosa le succede?
E così si torna alla domanda pragmatica. A che cosa le serve la preoccupazione?
T.: Ma lei, quando ci pensa tutto il tempo, la aiuta? E quali sono gli svantaggi, i costi di questo stare sempre preoccupato?
In questo modo il paziente può iniziare a prendere in considerazioni i costi del suo rimuginare. Lo spreco di tempo libero, i danni alle relazioni e al rendimento lavorativo.
Una possibile risposta più sensata è il cosiddetto scudo emozionale. Ovvero il paziente riferisce che sa che non gli serve a nulla, ma almeno dal punto di vista emotivo gli serve a soffrire di meno.
P.: Se mi preoccupo soffrirò meno che se fossi preso alla sprovvista
A pensarci bene questa risposta è simile alla risposta magica. Anche la risposta magica, sia pure in maniera più coperta, riposa in realtà su un vantaggio emotivo: non mi serve a nulla ma mi da una sensazione di sollievo. Tuttavia nella risposta dello scudo emozionale c’è più consapevolezza. Il sollievo non è un fatto scaramantico, ma è frutto di auto-osservazione consapevole. Il/la paziente semplicemente nota che il preoccuparsi da una sensazione illusoria di sollievo. Il percorso del disputing, quindi, è simile al precedente.
Le risposte negative in teoria dovrebbero aiutare il paziente a smettere. In sé sono dei motivi per comprender la dannosità del rimuginio. Tuttavia, almeno nei pazienti, diventano a loro volta contenuti di pensiero negativo rimuginativo. Il pazienti, insomma, traggono nuove inferenze negative su se stessi.
P.: spreco il mio tempo a rimuginare. Questa è l’ennesima prova di quanto io sia un poveraccio. Un altro a mio posto se ne fregherebbe. Vede che sono pieno di problemi?
Il soggetto coglie la natura psicologica della preoccupazione, ma arriva a una definizione di sé negativa come persona “che si fa impressionare troppo”, “che non riesce a fregarsene”, “che ci pensa troppo” e costruendo una teoria della persona “non psicologicamente debole” come una persona che non ha mai esperienza di episodi di insicurezza, ansia, timore, paura, e così via.
Oppure il soggetto può preoccuparsi di possibili danni derivati dal rimuginare:
P.: Non ho il controllo del mio rimuginio. Rimuginare è pericoloso.
Ancora peggio:
P.: Potrei non riuscire più a smettere di rimuginare. Potrei essere sopraffatto dalle rimuginazioni
E infine:
P.: Rimuginare può condurre alla follia.
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Le inferenze negative di tipo catastrofico e auto-svalutativo vanno contrastate con un disputing logico ed empirico simile a quello raccomandato nel trattamento del panico. Non vi sono prove empiriche che il preoccuparsi troppo porti a impazzire né che si perda il controllo della propria preoccupazione. Vero è semmai il contrario: il timore della perdita di controllo e la pretesa di controllare il pensiero.
Egli esercita il suo controllo attraverso il suo rimuginio, da lui giudicato uno strumento che può concretamente o magicamente influenzare gli eventi ed impedirne la realizzazione catastrofica.
T. – Che succede se perde il controllo?
P. – Panico! Quando sul lavoro abbiamo traslocato e mi hanno fatto mettere tutto nelle scatole e hanno detto “adesso voi le lasciate qui e andate in vacanza”; e quando siamo tornati c’erano tutte le cose in disordine. Per me è stato difficile da digerire. Però questa è la mia fissa anche in casa. Da un lato è molto utile perché altrimenti avremmo il caos. Però è vero che sto male! se non c’è quella sensazione che in cantina nello scaffale c’è quella cosa lì. Andando avanti così uno vorrebbe controllare il mondo! Voglio sapere come si muove tutta la mia famiglia. In realtà non è vero che nella pratica ragiono così, ma immagino che un po’ ci sia anche questo, e allora vorrei sapere che gli eventi vanno in un certo modo così li controllo.
Chi legge le avventure del protagonista di Pennac impara con lui a distinguere malinconia, inquietudine, tristezza, rabbia, stanchezza noia.
Ironico, timido, tagliente, scanzonato e soprattutto molto umano è il viaggio raccontato nell’ultimo libro di Pennac, “Storia di Un corpo”. Una raccolta di sensazioni fisiche, di fatti e di persone visti dal punto di vista del corpo (e mi raccomando solo lui!) del protagonista che le vive. E’ il corpo che parla attraverso un diario, mentre le emozioni sono evitate come una malattia mortale: è il corpo a prendersi l’onere di sentire, provare e descrivere le emozioni del protagonista, che solo raramente gliele suggerisce, mentre il diario diventa via via suo “ambasciatore”. Una grande paura segna l’inizio della storia, che farà urlare il corpo, prima che la voce riesca finalmente ad uscire dalla bocca. Questa paura diventerà l’unità di misura delle successive e non solo.Tutte le emozioni provate dal corpo da lì in poi, saranno più intense o meno intense di quella paura, più comprensibili o meno, più accettabili o meno, più umilianti o meno, più inaspettate o meno, … indici di forza o estrema debolezza!
Insomma, a “12 anni, 11 mesi e 18 giorni” il nostro protagonista inizierà un intensissimo dialogo con il suo corpo, che durerà tutta la vita, al grido di: “Non avrò più paura, Non avrò più paura, Non avrò più paura, Non avrò più paura, Non avrò mai più paura”. Il corpo diventerà l’unico oggetto del suo interesse: lo difenderà, lo fortificherà, si occuperà di lui ogni giorno, si interesserà a tutto quello che sente.
In cambio il suo corpo gli spiegherà tutto che gli accade!
13 anni, 1 mese, 9 giorni: “Ripensando a tutte le mie paure, ho fatto un elenco di sensazioni: la paura del vuoto mi fa strizzare le palle, la paura delle botte mi paralizza, la paura di avere paura mi angoscia, l’angoscia mi provoca le coliche, l’emozione (anche piacevolissima) mi fa venire la pelle d’oca, la nostalgia (ad esempio pensando a papà) mi inumidisce gli occhi, la sorpresa mi fa sobbalzare, il panico può farmi fare la pipì, la rabbia mi soffoca, la vergogna mi rattrappisce. Il mio corpo reagisce a tutto. Ma non so mai in che modo reagirà”.
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Nelle diverse fasi della vita mente e corpo vivranno insieme, litigheranno, si prenderanno in giro, prevarranno l’uno sull’altro, ma mai il legame si interromperà. Solo la guerra li porterà ad una rottura: il corpo deve pensare a correre e a salvarsi, la mente fa lo stesso, non c’è tempo per le emozioni. E’ ormai noto il ruolo vitale che la dissociazione dalle proprie emozioni può avere in situazioni di pericolo e l’importanza – anch’essa vitale – del recuperarle una volta che il pericolo è passato.
il 14 Luglio del ’45, a 21 anni, 9 mesi, 4 giorni: “..durante la cerimonia ho pianto ininterrottamente, la prima cosa che voglio annotare qui sono proprio queste lacrime. […] In effetti questa mattina ho versato proprio tutte le lacrime che avevo in corpo. Sarebbe più giusto dire che il corpo ha versato tutte le lacrime accumulate dalla mente nel corso di questa inverosimile carneficina. La quantità di sé che viene eliminata con le lacrime! Una volta che l’anima si è liquefatta, si può celebrare il ricongiungimento con il corpo. Stanotte il mio dormirà.”.
Il nostro viaggiatore prosegue senza sosta, il suo corpo gli darà di nuovo gioia, tristezza, malinconia, ansia, ma sarà sempre più facile per lui riconoscerle ed esserne meno sopraffatto.
Chi legge le avventure del protagonista di Pennac impara con lui a distinguere malinconia e inquietudine, tristezza e rabbia, stanchezza e noia, vuoto e nostalgia. Più volte la linea di confine tra il corpo e la psiche viene avvicinata e sfiorata, gli anni di cambiamento sono sempre un buon motivo per questo inevitabile avvicinamento.
E così:
a 44 anni, 9 mesi, 26 giorni, scopre che si passa “dal panico di essere troppo giovane al terrore di essere troppo vecchio, passando per la malattia dell’impotenza […], la mente e il corpo si accusano a vicenda di impotenza, in un processo in cui regna un silenzio spaventoso”.
Negli anni che seguono il corpo sarà attaccato, colpito e messo a dura prova dalle malattie e dalla vita, ma le paure saranno via via addomesticate, la tristezza più amica, la nostalgia meno disturbante, la liberazione dall’intensità giovanile un sollievo.
L’incredibile ricchezza di “Storia di un corpo”, tutt’altro che disinteressato alle emozioni, è la prospettiva.
La capacità di raccogliere tutte le emozioni che dominano le diverse fasi del ciclo della vita e i pensieri che le accompagnano, fino a prenderne lentamente le distanze per osservarle meglio.
Vedere le evoluzioni del nostro viaggiatore e guardare, come in un film, le proprie è invece la parte più divertente e sorprendente del viaggio.
I ricercatori della Thomas Jefferson University e dell’Università di San Paolo in Brasile, hanno analizzato il flusso ematico cerebrale (CBF) di 10 medium brasiliani mentre praticavano la psicografia, un tipo di scrittura in cui si crede che una persona deceduta o uno spirito scriva con le mani del medium. I risultati dello studio rivelano che l’attività cerebrale dei medium è ridotta durante la scrittura in stato di trance.
I medium avevano tutti tra i 15 e i 47 anni di esperienza di scrittura automatica, praticata con una frequenza di 18 psicografie al mese. Tutti destrorsi e in buona salute mentale, nessuno di loro stava assumendo psicofarmaci. Nel corso dello studio i medium hanno riferito di essere stati in grado di raggiungere l’abituale stato di trance durante la psicografia, mentre durante l’attività di controllo erano in uno stato di coscienza normale e abituale.
Ai medium, esperti e meno esperti nella pratica psicografica, è stato iniettato un tracciante radioattivo per rilevare l’attività cerebrale sia durante la scrittura normale che durante la pratica psicografica. I soggetti sono stati sottoposti a scansione utilizzando la SPECT (Tomografia a Emissione di Fotone Singolo) che ha evidenziato le aree cerebrali attive e quelle inattive durante la scrittura.
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Durante lo stato di trance i medium esperti hanno mostrato minore attività cerebrale nel sistema limbico, nel giro temporale superiore, nelle regioni frontali della corteccia cingolata anteriore sinistra e del giro precentrale dell’emisfero destro. Sulla base di queste rilevazioni i ricercatori ipotizzano che la bassa attivazione delle aree del lobo frontale – associate con il ragionamento, la pianificazione, la generazione del linguaggio, il movimento e il problem solving – possa riflettere l’assenza di concentrazione, di auto-consapevolezza e l’alterazione del normale stato di coscienza raggiunto durante la psicografia.
I medium meno esperti, al contrario, hanno mostrato durante la psicografia un aumento di attivazione nelle stesse aree frontali rispetto alla scrittura normale. Questo dato può essere correlato allo sforzo significativo compiuto dai medium meno esperti nello svolgere la pratica psicografica.
L’assenza di disordini mentali nei due gruppi è in linea con l’evidenza che le esperienze dissociative sono comuni nella popolazione generale e non necessariamente correlate a disturbi mentali, in particolare in gruppi religiosi / spirituali. Secondo i ricercatori ulteriori ricerche dovrebbero occuparsi di definire i criteri di distinzione tra esperienze dissociative sane e patologiche nell’ambito dell’attività medianica.
Il dato più interessante riguarda i campioni di scrittura prodotti: i medium più esperti hanno mostrato punteggi di maggiore complessità del contenuto, elemento che in genere richiederebbe una maggiore attività nei lobi frontali e temporali, contrariamente a quanto rilevato.
Diverse ipotesi sono state formulate per spiegare i risultati: una prima ipotesi è che quando l’attività del lobo frontale diminuisce – come nell’improvvisazione musicale o durante il consumo di alcol o droghe – l’attività delle aree cerebrali coinvolte nella scrittura medianica è disinibita e maggiormente creativa. Il fatto, però, che i soggetti abbiano prodotto contenuti complessi in uno stato di trance dissociativo suggerisce che non fossero semplicemente rilassati; il relax dunque sembra una spiegazione insufficiente a giustificare il decremento di attivazione cerebrale in connessione con il processo cognitivo in corso.
Secondo i ricercatori questa prima valutazione neuroscientifica degli stati di trance medianica rivela alcuni dati interessanti per migliorare la comprensione della mente e il suo rapporto con il cervello. Questi risultati meritano ulteriori approfondimenti sia in termini di replica che per la formulazione di ipotesi esplicative.
“Si, ma al paziente che gli dico?” può sembrare una domanda rozza, che tradisce inesperienza e ingenuità. È una domanda che si pongono molti giovani aspiranti terapeuti, e molti la formulano apertamente, attendendosi una risposta. Un silenzio sorridente e carico di saggezza può essere una buona risposta. Un modo -come si dice- per non colludere con il giovane affamato di facili soluzioni, un modo per somministrare una cortese e necessaria frustrazione allo specializzando. E tuttavia, parafrasando il detto di uno scrittore, in questo silenzio da “venerato maestro” si può nascondere il tradimento del “solito stronzo” (Arbasino, riportato in Berselli, 2007). Il tradimento di chi se la cava sempre e comunque indossando la maschera di chi la sa lunga (ed è il solito stronzo, appunto) tirando fuori la scusa che certe cose non si possano insegnare, ma vanno apprese col tempo e con la crescita.
Che è anche vero. Ma non del tutto. Anche la psicoterapia ha una sua tecnica esplicita, delle procedure che si possono comunicare. Ed essendo la psicoterapia una talking cure, una cura parlata, questa tecnica è una tecnica del colloquio. E quindi qualcosa si può rispondere alla domanda dell’allievo. Soprattutto la psicoterapia cognitiva, che nasce da una felice semplificazione della tecnica del colloquio terapeutico e che si è sviluppata a partire da problemi clinici pratici, dovrebbe avere i mezzi per rispondere alla domanda “Si, ma al paziente che gli dico?”
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Il colloquio psicoterapeutico cognitivo, sia in Albert Ellis che in Aaron T. Beck, ha dei principi tecnici chiari e operativi. Esso si fonda sull’incoraggiare il paziente ad apprendere tre abilità base: 1) riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva consapevole ed esplicita, ovvero quello che sento e quello che penso e che posso esprimere verbalmente; 2) mettere in discussione la validità di questi pensieri, il loro valore di verità e di utilità; 3) costruire nuovi pensieri, più veri e soprattutto più utili, che andranno a sostituire quelli vecchi nelle situazioni quotidiane della vita e che quindi generanno emozioni e azioni differenti, emozioni e azioni a loro volta in grado di generare maggiore benessere e maggiore capacità di affrontare o almeno di sopportare le situazioni. Tutto questo corrisponde a cose che diciamo ai nostri pazienti. E questo libro tenta di indicare quali sono queste cose. In altre parole, questo è un libro di tecnica del colloquio in psicoterapia cognitiva.
Il libro è organizzato in due parti. La prima parte tratta la tecnica e la pratica delle tre fasi del colloquio cognitivo classico: accertamento, disputa e ristrutturazione. A cui si aggiunge un aspetto empatico di validazione. In questi primi capitoli si espone la migliore tradizione razionalista alla Albert Ellis e cognitiva alla Aaron T. Beck integrata, com’è tipico dell’originale impostazione del cognitivismo italiano, con tecniche di accertamento e ristrutturazione costruttiviste mutuate dal modello di George Kelly. Il quarto capitolo integra, all’interno della disputa cognitiva ortodossa, tecniche di validazione emotiva che tentano di formalizzare il concetto, a volte un po’ generico, di empatia. Il quinto capitolo tratta le applicazioni speciali ai maggiori disturbi bersaglio della terapia cognitiva: ansia, depressione e bulimia. La prima parte si conclude con un capitolo dedicato al colloquio cognitivo clinico con il bambino ansioso.
La seconda parte, costituita da altri sette capitoli, tratta i possibili sviluppi futuri, cosiddetti di terza ondata, del colloquio clinico cognitivo: l’attenzione alla storia di vita e agli schemi evolutivi, il modello cognitivo-evoluzionista e quello post-razionalista, la metacognizione, il narrazionismo, la mindfulness, e un protocollo specifico di “video-based cognitive therapy” che riesce a integrare nel colloquio cognitivo gli aspetti percettivi ed esperienziali.
Il libro comprende moltissime esemplificazioni cliniche utili a comprendere la natura e le modalità del colloquio in psicoterapia cognitiva. Ma non si ferma qui. L’idea degli autori è stata quella di esplicitare non solo le modalità di tecnica terapeutica ma anche frasi e interventi così come vengono detti ai pazienti in seduta. Questo rende il volume chiaro, esplicito e comprensibile e permette al lettore di disporre di uno strumento da consultare.
Le frasi prototipiche degli interventi terapeutici sono evidenziate in grassetto e incorniciate in box che catturano l’attenzione del clinico interessato.
Ciò rende il volume non solo uno strumento clinico ma anche un compendio della psicoterapia cognitiva recentissimo e calato nella realtà clinica della relazione terapeutica.
Hanno contribuito alla stesura dei capitoli del volume Giancarlo Dimaggio, Raffaele Popolo, Carmelo La Mela, Linda Tarantino, Piergiuseppe Vinai, Gabriele Caselli, Maurizio Speciale, Andrea Bassanini e Gianluca Frazzoni.
Insecure attachment has been investigated as a predictor of internalizing behavior in children. Specifically, anxious/resistant children may be at a higher risk for the development of anxiety disorders.
Costa and Weems (2005) investigated the association between child attachment and anxiety symptoms. Eighty-eight children between the ages of six and 17 years participated with their mothers. Two questionnaires were completed by the childrenand the Anxiety Symptoms Checklist was completed by mothers.
The results demonstrated that children’s anxiety was significantly associated with child insecure attachment belief. This finding provides evidence for the association between insecure attachment and the development of anxiety. However, the questionnaire used to measure attachment in this study did not allow for examination of the association between children’s anxiety and the different subtypes of insecure attachment. Therefore, the findings are limited by the sole reliance on questionnaire reports.
Racommended: Insecure attachment and internalizing behavior problems.
Several studies have found an association between insecure attachment and internalizing behavior problems using longitudinal methodology. Lewis, Feiring, McGuffog and Jaskir (1984) examined infant attachment predicting later child psychopathology. One-hundred and thirteen children’s attachment styles were assessed using the strange situation procedure (SSP) at 12 months of age. Five years later, the mothers completed the Children Behaviour Profile (CBP). The results demonstrated different behavioral outcomes for males and females. Most notably, male with a resistant attachment scored significantly higher on the internalizing scale than both avoidant and securely attached males. The same effect was not show found in females.
In addition to finding an association between externalizing behavior and anxious/avoidant children, Erickson et al. (1985) additionally found that anxious/resistant children were less confident and assertive in the school environment and showed lower overall social skills than securely attached children.
As part of the Minnesota project, a 20 year longitudinal study, Warren, Huston, Egeland and Sroufe (1997) investigated 172 infants’ attachment style and their behavioral outcomes. Infant attachment style was assessed at 12 months of age using the SSP. Diagnostic assessments were conducted at age 17.5.
The results demonstrated that more anxious/resistant infants developed anxiety disorders in adolescents than expected by chance. Of children with an anxious/resistant attachment style, 28% developed an anxiety disorder compared to 13% of those with all other insecure attachment styles. Also, more children with other disorders (i.e. any non-anxiety disorder) were classified as having and anxious/avoidant attachment style than expected by chance.
In the next installment I will discuss more recent studies investigating insecure attachment and the development of internalizing disorders. I will also summarize the result of each of the studies I have discussed so far.
La Dipendenza da Videogiochi è un fenomeno mediatico. Una recente ricerca esamina se la dipendenza da Videogiochi si può risolvere da sé.
La Dipendenza da Videogiochi è una delle patologie, assieme alla Dipendenza da Internet (Internet Addiction), di cui i media spesso ci parlano. Quando l’utilizzo smoderato dei Videogames può definirsi dipendenza è difficile dirsi, ma la maggior parte dei professionisti ammette di riconoscere subito quando il caso è ormai patologico.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato, nei primi periodi in cui si cominciava a parlare di dipendenza da videogiochi, che in realtà l’uso eccessivo del computer e dei videogames non fosse un vero disturbo, quanto piuttosto un comportamento adattivo dell’essere umano verso stimoli nuovi e sconosciuti, quali, per l’appunto, i moderni passatempi tecnologici. Le ultime ricerche suggeriscono che questo potrebbe essere vero. Sarà forse una buona notizia? In un recente studio, per esempio, si è voluto esaminare se la dipendenza da Videogiochi si può risolvere da sé, semplicemente col passare del tempo.
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A questo scopo sono state condotte delle analisi di tipo longitudinale su un campione di giovani adulti. I ricercatori hanno inizialmente somministrato un questionario on line a 393 partecipanti, è stato poi chiesto loro di compilare le indagini di follow-up a 6 e a 18 mesi. I partecipanti che hanno compilato tutti i questionari sono stati in totale 117.
Attraverso i questionari on line sono state raccolte informazioni di carattere demografico, sono stati indagati i tipi di comportamento di gioco ai videogames e sono stati posti dei test per comprendere la problematicità dell’utilizzo di Videogames, ovvero la dipendenza da videogiochi. Si sono inoltre analizzati la presenza di despressione e di disturbi d’ansia e il livello di stress dell’individuo. I ricercatori hanno osservato che, tra i partecipanti, 37 si sono definiti giocatori problematici e 80 si sono invece definiti normali giocatori. Le “auto-diagnosi” sono state confermate da alcuni criteri di validità stabiliti in precedenza dai ricercatori.
Dallo studio è emerso che entrambi i gruppi (giocatori problematici e giocatori normali) hanno registrato un calo significativo del problema durante un periodo di 18 mesi, sia sul piano comportamentale che su quello sintomatologico.
In altre parole, chi si è auto-identificato giocatore problematico all’inizio dello studio, ha ridotto significativamente il proprio problematico comportamento di gioco 18 mesi più tardi. Nell’ultima compilazione del questionario, infatti, le loro risposte sembravano delineare proprio il “sano” giocatore, ormai fuori dalla dipendenza da videogiochi.
Una spiegazione di questo calo generale, in entrambi i gruppi, dei sintomi della dipendenza da videogiochi è dovuta all’età, cosa questa non nuova ai professionisti: il concetto di maturazione nel corso del tempo è infatti ben consolidato nella letteratura sulla dipendenza.
Tuttavia, giungere a conclusioni così affrettate è un po’ imprudente, ciò che per il momento si cerca di consigliare è che se la dipendenza da videogiochi è così invalidante da non poter aspettare che il tempo faccia il suo corso (pensiamo alle ripercussioni sul lavoro, sullo studio o sulle relazioni interpersonali), non fa male richiedere l’aiuto di un professionista.
Un terapeuta possiede gli strumenti idonei a trattare problemi di questo tipo, anche laddove non esiste ancora una diagnosi formale del disturbo.
Oliver Sacks: che cosa le allucinazioni rivelano delle nostre menti (TED Talk)
Il neurologo e autore Oliver Sacks porta la nostra attenzione sulla sindrome di Charles Bonnet — persone con problemi visivi che hanno allucinazioni nitide. Descrive le esperienze dei suoi pazienti con dettagli appassionati e ci conduce all’interno della biologia di questo fenomeno poco riportato.
Vediamo con gli occhi. Ma vediamo anche con il cervello. Il vedere con il cervello si chiama spesso immaginazione. E abbiamo familiarità con i paesaggi della nostra immaginazione, i nostri ‘paesaggi interiori’. Ci abbiamo convissuto per tutta la vita. Ma esistono anche le allucinazioni. E le allucinazioni sono completamente diverse: non sembrano essere una nostra creazione. Non sembrano sottostare al nostro controllo. Sembrano venire dall’esterno, e [sembrano] imitare la percezione.
Così parlerò delle allucinazioni. E di un particolare tipo di allucinazione visiva che vedo tra i miei pazienti. Alcuni mesi fa ho ricevuto una telefonata da una casa di cura per anziani in cui lavoro. Mi hanno detto che una delle ospiti, un’anziana signora ultra novantenne, vedeva delle cose. E si chiedevano se avesse perso qualche rotella. O, dato che era una signora anziana, se avesse avuto un ictus, o se soffrisse di Alzheimer.
Così mi hanno chiesto se potevo andare a visitare Rosalie, l’anziana signora. Sono andato a trovarla. Era immediatamente evidente che era perfettamente sana, lucida e con una buona intelligenza. Ma era molto allarmata, e molto sconcertata, perché vedeva delle cose. E mi disse — le infermiere non mi avevano menzionato questa cosa — che era cieca, che era completamente cieca, a causa della degenerazione maculare, da cinque anni. Ma ora, negli ultimi giorni, stava vedendo delle cose.
Così le chiesi: “Che tipo di cose?” E lei mi disse: “Persone con vestiti orientali, con drappi, che salgono e scendono le scale. Un uomo che si volta verso di me e sorride. Ma ha dei denti enormi in un lato della bocca. Anche animali. Vedo un edificio bianco. Sta nevicando, una neve soffice. Vedo questo cavallo, con i finimenti, che trascina via la neve. Poi, una notte, la scena cambia. Vedo gatti e cani che vengono verso di me. Arrivano fino ad un certo punto e poi si fermano. Poi cambia ancora. Vedo tanti bambini. Stanno salendo e scendendo le scale. Indossano [vestiti] di colori sgargianti, rosa e blu, come i vestiti orientali.”
A volte, mi disse, prima che la gente entri può avere un’allucinazione di quadrati rosa e blu sul pavimento, che sembrano salire fino al soffitto. Dissi: “È come un sogno?” E lei mi disse: “No, non è come un sogno, è come un film.” Disse: “C’è il colore. C’è il movimento. Ma è completamente silenzioso, come un film muto.” E mi disse che era un film piuttosto noioso. Mi disse: “Tutte queste persone con vestiti orientali, che vanno su e giù: molto ripetitivo, molto limitato.” (Risate)
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La signora ha senso dell’umorismo. Sapeva che era un’allucinazione. Ma era spaventata. Aveva vissuto per 95 anni e non aveva mai avuto allucinazioni prima. Disse che le allucinazioni non erano legate a niente di ciò che stava pensando o sentendo o facendo. Che sembrava che venissero da sole, o scomparissero [da sole]. Non le controllava. Disse che non riconosceva nessuna delle persone o dei luoghi che vedeva nelle allucinazioni. E che nessuna delle persone o degli animali, bene, sembravano tutti incuranti di lei. E non sapeva cosa stesse succedendo. Si chiedeva se stesse diventando matta, o perdendo la testa.
Bene, l’ho visitata accuratamente. Era un’anziana signora brillante. Perfettamente sana. Non aveva problemi di salute. Non stava assumendo nessuna medicina che potesse causare allucinazioni. Ma era cieca. E allora le dissi: “Penso di sapere che cos’ha.” Dissi: “C’è una forma speciale di allucinazione visiva che può accompagnare il deterioramento della vista, o la cecità.” “È stata originariamente descritta,” dissi, “nel Diciottesimo secolo, da un uomo chiamato Charles Bonnet. Lei ha la sindrome di Charles Bonnet. Non c’è niente che non va nel suo cervello. Non c’è niente che non va nella sua mente. Lei ha la sindrome di Charles Bonnet.”
Era molto sollevata, di non avere niente di serio, e anche molto curiosa. Chiese: “Chi è questo Charles Bonnet?” Disse: “L’aveva anche lui?” E disse: “Dica a tutte le infermiere che ho la sindrome di Charles Bonnet.” (Risate) “Non sono pazza, non sono demente. Ho la sindrome di Charles Bonnet.” Così lo dissi alle infermiere.
Ora, questa per me è una situazione comune. Lavoro per lo più in ospizi. Vedo molte persone anziane che sono audiolese o videolese. Circa il 10 per cento delle persone audiolese hanno allucinazioni musicali. E circa il 10 per cento delle persone videolese ha allucinazioni visive. Non è necessario essere completamente ciechi, è sufficiente avere la vista compromessa.
Ora, secondo la descrizione originale del 18mo secolo, Charles Bonnet non aveva queste allucinazioni: ma suo nonno ne aveva. Suo nonno era un magistrato, una persona anziana. Era stato operato di cataratta. La sua vista era molto scarsa. E nel 1759 descrisse a suo nipote varie cose che stava vedendo.
La prima cosa che disse fu che vedeva un fazzoletto sospeso a mezz’aria. Era un grande fazzoletto blu con quattro cerchi arancioni. E sapeva che era un’allucinazione. Non ci sono fazzoletti sospesi a mezz’aria. Poi vide una grande ruota a mezz’aria. Ma a volte non era sicuro se le sue visioni fossero o meno allucinazioni, perché le allucinazioni si potevano adattare al contesto della visione. Ad esempio una volta, quando le sue nipoti li stavano visitando, disse: “Chi sono questi bei ragazzi che sono con voi?” E loro risposero: “Ahimè, nonno, non ci sono bei ragazzi.” E allora i bei ragazzi scomparvero. È tipico di queste allucinazioni che possano comparire in un lampo e scomparire in un lampo. Di solito non aumentano e non si affievoliscono in modo graduale. Arrivano all’improvviso. E cambiano all’improvviso.
Charles Lullin, il nonno, vedeva centinaia di figure diverse, paesaggi diversi di ogni tipo. Una volta vide un uomo in accappatoio che fumava una pipa, e si rese conto di vedere se stesso. Questa fu l’unica figura che riconobbe. Un’altra volta, mentre stava camminando per le strade di Parigi, vide — e questa era reale — un’impalcatura. Ma quando tornò a casa vide una miniatura dell’impalcatura alta sei pollici, sul tavolo del suo studio. Questo ripetersi di una percezione a volte viene chiamato palinopsia.
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Con lui, e con Rosalie, cosa sembra stia accadendo? — anche Rosalie chiedeva: “Che cosa sta succedendo?” — Io le dissi che quando si perde la vista, quando le parti del cervello preposte alla vista non ricevono più nessun input, diventano iperattive ed eccitabili. E iniziano ad accendersi spontaneamente. E si comincia a vedere delle cose. Le cose che si vedono possono essere davvero molto complicate.
Con un’altra delle mie pazienti, che, [come Charles Lullin, ancora] vedeva qualcosa, le visioni che aveva potevano essere inquietanti. Una volta disse che aveva visto un uomo con una camicia a strisce al ristorante. Che si era girato. E quindi si era diviso in sei figure identiche con la camicia a righe, che avevano cominciato ad andare verso di lei. E poi le sei figure si erano ricomposte di nuovo, come una piccola fisarmonica. Una volta, mentre stava guidando, o meglio, suo marito stava guidando, la strada si era divisa in quattro. E si era sentita come se stesse percorrendo simultaneamente le quattro strade.
Aveva delle allucinazioni molto mobili. Molte di esse avavano a che fare con una macchina. A volte poteva vedere un ragazzino seduto sul cofano dell’auto, era molto tenace e si muoveva in modo piuttosto aggraziato quando l’auto voltava. E quando si fermavano, il ragazzo poteva improvvisamente muoversi in verticale, fino ad un’altezza di 100 piedi, e poi scomparire.
Un’altra delle mie pazienti aveva un diverso tipo di allucinazioni. Questa donna non aveva problemi agli occhi, ma, nella parte preposta alla vista del suo cervello, aveva un piccolo tumore, nella corteccia occipitale. E, soprattutto, vedeva dei cartoni animati. Questi cartoni erano trasparenti e coprivano metà del campo visivo, come uno schermo. Vedeva specialmente cartoni di Kermit la Rana. (Risate) Ora, io non guardo il Muppet Show. Ma lei puntualizzò: “Perché Kermit?” disse: “Kermit la Rana non significa niente per me. Sa, stavo pensando ai determinanti freudiani. Perché Kermit? Kermit la Rana non significa niente per me.”
Non le importava molto dei cartoni. Ciò che la disturbava era che aveva immagini o allucinazioni molto persistenti di volti e come con Rosalie, i volti erano spesso deformati, con denti molto grandi, o occhi molto grandi. E questi [volti] la spaventavano. Bene, che cosa sta succedendo a queste persone? Come medico, devo cercare di definire ciò che sta succedendo, e rassicurare le persone. Devo specialmente rassicurarle sul fatto che non stanno diventando pazze.
Qualcosa come il 10 per cento, come ho detto, delle persone videolese ha queste allucinazioni. Ma non più dell’un per cento delle persone lo riconosce. Perché hanno paura di essere considerati pazzi, o qualcosa di simile. E se ne parlano con i loro dottori possono avere una diagnosi errata.
In particolare, l’idea è che se vedi delle cose o senti delle cose, stai impazzendo. Ma le allucinazioni psicotiche sono molto diverse. Le allucinazioni psicotiche, sia quelle visive che quelle auditive, si rivolgono a te. Ti accusano. Ti seducono. Ti umiliano. Si prendono gioco di te. Tu interagisci con loro. Non c’è questa caratteristica dell’essere rivolte alla persona, nelle allucinazioni di Charles Bonnet. C’è un film. State vedendo un film che non ha niente a che vedere con voi. Così è come le persone le percepiscono.
C’è anche una cosa rara chiamata epilessia del lobo temporale. E a volte, se una persona ne soffre, si può sentire trasportata indietro ad un tempo ed un luogo nel passato. Siete ad un particolare incrocio. Sentite profumo di castagne arrostite. Sentite il traffico. Tutti i sensi sono coinvolti. E state aspettando la vostra ragazza. Ed è quel giovedì sera del 1982. Le allucinazioni del lobo temporale sono allucinazioni multi-sensoriali, piene di sentimenti, piene di cose familiari, ubicate nello spazio e nel tempo, coerenti, coinvolgenti. Le allucinazioni di Charles Bonnet sono molto diverse.
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Così nelle allucinazioni di Charles Bonnet, avete ogni tipo di livello, dalle allucinazioni geometriche, i quadrati rosa e blu che vedeva quella donna, fino ad allucinazioni molto elaborate con figure, e soprattutto volti. I volti, a volte deformati, sono una delle cose più comuni in queste allucinazioni. E la seconda cosa più ricorrente sono i cartoni.
Ma allora, cosa sta succedendo? In modo affascinante, negli ultimi anni, è stato possibile ricostruire l’immagine funzionale del cervello, fare la risonanza magnetica funzionale alle persone che stavano avendo delle allucinazioni. E trovare infatti che si attivano parti diverse del cervello visivo mentre stanno avendo le allucinazioni. Quando le persone hanno queste semplici allucinazioni geometriche, si attiva la corteccia visiva primaria. Questa è la parte del cervello che percepisce i confini e gli schemi. Non si formano immagini con la corteccia visiva primaria.
Quando si formano le immagini, è coinvolta una parte superiore della corteccia visiva nel lobo temporale. E in particolare, un’area del lobo temporale che è chiamata la circonvoluzione fusiforme. È noto che se le persone hanno la circonvoluzione fusiforme danneggiata, possono perdere la capacità di riconoscere i volti. ma se c’è un’attività anomala nella circonvoluzione fusiforme, si possono avere allucinazioni di volti. Questo è esattamente ciò che si trova in alcune di queste persone. C’è un’area nella parte anteriore di questa circonvoluzione in cui si formano le immagini dei denti e degli occhi. Questa parte della circonvoluzione si attiva quando la gente ha allucinazioni di volti deformati.
C’è un’altra parte del cervello che si attiva specialmente quando una persona vede dei cartoni animati. Si attiva quando si riconoscono i cartoni, quando si disegnano i cartoni, e quando si vedono nelle allucinazioni. È molto interessante che ciò sia così specifico. Ci sono altre parti del cervello che sono coinvolte specificamente con il riconoscimento e le allucinazioni di edifici e paesaggi.
Intorno al 1970 si è scoperto che non c’erano solo particolari parti del cervello [coinvolte], ma particolari cellule. le “cellule volto” furono scoperte intorno al 1970. Ora sappiamo che ci sono centinaia di altri tipi di cellule, che possono essere molto molto specifiche. Così non solo si possono avere cellule “auto”, ma anche cellule “Aston Martin”. (Risate) Ho visto una Aston Martin questa mattina, dovevo inserirla nel discorso. Ed ora è qui da qualche parte. (Risate)
Ora, a questo livello, in quella che è chiamata circonvoluzione temporale inferiore, ci sono solo immagini visive, o invenzioni o frammenti. È solo ad un livello più alto che intervengono gli altri sensi e ci sono le connessioni con la memoria e le emozioni. Nella sindrome di Charles Bonnet non si arriva a questi livelli più alti. Siamo in quei livelli della corteccia visiva inferiore in cui ci sono migliaia e decine di migliaia e milioni di immagini, o immagini di fantasia o frammenti di immagini di fantasia, tutte codificate a livello neurale, in cellule particolari o in piccoli agglomerati di cellule.
Normalmente queste sono tutte parti del flusso integrato della percezione, o dell’immaginazione. E non se ne è consci. È solo se una persona è videolesa, o cieca, che il processo è interrotto. E invece di avere una normale percezione, si ha un’anarchica, convulsa stimolazione, o rilasco, di tutte queste cellule visive, nella circonvoluzione temporale inferiore. Così, improvvisamente, vedete una faccia. Improvvisamente vedete una macchina. Improvvisamente questo e improvvisamente quello. La mente fa del suo meglio per organizzare, e dare una qualche coerenza a tutto ciò. Ma senza un grande successo.
Quando queste [allucinazioni] furono descritte per la prima volta si pensò che potessero essere interpretate come sogni. Ma di fatto le persone dicevano, “Non riconosco le persone. Non riesco a fare nessuna associazione.” “Kermit non significa niente per me.” Non si arriva da nessuna parte considerandole come sogni.
Bene, ho più o meno detto quello che volevo. Penso di voler solo riassumere e dire che ciò è comune. Pensate al numero delle persone cieche. Devono esserci centinaia di migliaia di persone cieche che hanno queste allucinazioni, ma hanno troppa paura di parlarne. Così questa cosa ha bisogno di essere portata alla luce, per i pazienti, per i dottori, per il pubblico. Infine, penso che siano infinitamente interessanti, e preziose, perché ci danno un quadro di come lavora il cervello.
Charles Bonnet disse, 250 anni fa — si chiedeva come, pensando a queste allucinazioni, come, per dirlo con le sue parole, “il teatro della mente potesse essere generato dal macchinario del cervello”. Ora, 250 anni dopo, penso che stiamo cominciando a intravvedere come ciò viene fatto. Grazie mille!
Chris Anderson: È stato magnifico. Molte grazie. Ha parlato di queste cose con così tanta profondità ed empatia per i suoi pazienti. Ha sperimentato qualcuna delle sindromi di cui scrive?
Oliver Sacks: Temevo che me lo chiedesse. (Risate) Beh, sì, molte. In realtà sono un po’ videoleso. Son cieco in un occhio, e l’altro non vede molto bene. Ed ho le allucinazioni geometriche. Ma si fermano qui.
C.A.: E non la disturbano? Dato che lei sa cosa le causa, ciò non la preoccupa?
O.S.: Bene, non mi disturbano più del mio acufene. Che ignoro. A volte mi interessano. Ed ho molti loro disegni nei miei taccuini. Ho fatto una risonanza magnetica funzionale per vedere come la mia corteccia visiva prende il controllo. E quando vedo questi esagoni e cose complesse, che ho anche, nell’emicrania visiva, mi chiedo se tutti vedono cose come queste, e se cose come l’arte preistorica, o l’arte ornamentale possano derivarne in parte.
È stato un discorso molto affascinante. Grazie mille per averlo condiviso
Lo psicologo continua ad essere nella maggior parte dei casi l’unico professionista all’interno di un’equipe sanitaria a vivere di carità e non di una regolare assunzione, il che si ripercuote negativamente sul professionista non soltanto in ovvi termini economici ma anche sulla sfera del riconoscimento e rispetto della propria professionalità, autorevolezza e appartenenza al proprio gruppo di lavoro.
Lo scorso 16 novembre a Lodi si è tenuto un convegno organizzato da CIPOMO (Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri) dal titolo evocativo: “Le Fil Rouge: appropriatezza e sostenibilità della psico-oncologia nei dipartimenti oncologici”, dove per fil rouge si intendeva la preziosa funzione di collante e di garante della continuità assistenziale assunta dallo psicologo che opera nei reparti oncologici.
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Il clima tra i medici relatori presenti e la platea di psicologi era quindi (stranamente) molto amichevole, condito forse addirittura da un tantino di melassa di troppo in certe ridondanti manifestazioni di reciproca stima. Comunque, per fortuna, non il solito desolante parapiglia tra gli psicologi da una parte che rivendicano un’umanizzazione delle cure e i medici dall’altra che pretendono di utilizzare i fondi per un ciclo di chemioterapia in più piuttosto che destinarli ai pazienti che vogliano “fare quattro chiacchere” con uno specialista di dubbia utilità.
Un concetto fondamentale era insomma assodato e condiviso: il supporto psicologico offerto ai pazienti oncologici e ai loro famigliari, nonché la formazione e supervisione delle equipe curanti coinvolte è un servizio il cui valore e la cui irrinunciabilità sono ormai riconosciuti a livello regionale, nazionale e istituzionale.
Peccato che su questa rassicurante presa di posizione gravi una pesantissima anomalia, ben nota alla stragrande maggioranza di chi voglia operare in ambito psicologico: per quanto sia gradito il contributo dello psicologo, puntualmente mancano i fondi affinché alla sua prestazione corrisponda una (dignitosa) retribuzione.
I dati provvisori del censimento SIPO (Società Italiana di Psico-oncologia) sui servizi di psico-oncologia fotografano un panorama desolante, da cui emerge che la maggior parte degli psicologi operanti nel settore sono sostenuti economicamente da associazioni di volontariato, e che a questi più “fortunati” si affianca il solito sottobosco di borse di studio da fame e a rapida scadenza, tirocini gratuiti, collaborazioni volontarie.
Lo psicologo continua ad essere nella maggior parte dei casi l’unico professionista all’interno di un’equipe sanitaria a vivere di carità e non di una regolare assunzione, il che si ripercuote negativamente sul professionista non soltanto in ovvi termini economici ma anche sulla sfera del riconoscimento e rispetto della propria professionalità, autorevolezza e appartenenza al proprio gruppo di lavoro.
Al di là delle buone intenzioni manca insomma quel cambiamento culturale che spinga le istituzioni a considerare il supporto psicologico non più solo come un costo (se necessario prescindibile) bensì come un investimento; si continua a sottostimare il fatto che pazienti, famigliari e operatori sanitari che sviluppano sindromi psicopatologiche gravano pesantemente sul sistema sanitario in termini di comorbilità, accessi al pronto soccorso, abuso di psicofarmaci, assenze dal lavoro, senza considerare l’ovvio deterioramento della qualità di vita.
Ed è un’anomalia squisitamente italiana che la sostenibilità del lavoro psicologico sia garantita quasi esclusivamente dalle associazioni di volontari, che spesso si sostituiscono alle istituzioni nella gestione dei professionisti pur magari non avendo al proprio interno un adeguato comitato scientifico che diriga le scelte e monitori i progetti.
Insomma, ci si congedava dal convegno con un po’ di amaro in bocca, con la sensazione di aver insistito in coro sull’importanza del proprio ruolo, forse proprio perché un ruolo non lo si ha.
Cosa potrebbero fare gli psicologi per tentare di invertire questa tendenza, soprattutto in tempi di spending review e di imminente, ulteriore contrazione delle risorse destinate al servizio sanitario?
Un buon punto di partenza potrebbe essere un’analisi e individuazione documentata dei bisogni e del disagio psicologico nei reparti oncologici, al fine di motivare con dati accertati e accuratamente censiti la necessità del proprio intervento; con il rischio però, ahimè, di trovarsi a dover fare tutto il lavoro gratis.
Psicoterapia Online: una nuova Modalità di Supporto. Intervista al Prof. Pim Cuijpers
Di Alessia Offredi
Abbiamo chiesto al Prof. Cuijpers di rispondere ad alcune domande sulla Psicoterapia Online, analizzando le possibili problematiche e le prospettive di sviluppo.
Pim Cuijpers è docente di Psicologia Clinica presso la Vrije Universitet ad Amsterdam, ed è a capo del dipartimento di Psicologia Clinica. Durante la sua carriera, il Prof. Cuijpers ha pubblicato più di 450 scritti, tra ricerche su riviste indicizzate, contributi a testi di settore, reports e pubblicazioni scientifiche riguardanti la prevenzione e il trattamento dei più comuni disturbi mentali, in particolar modo depressione e ansia. Gran parte della sua ricerca si focalizza sull’efficacia della psicoterapia online e di programmi sviluppati sul web per la prevenzione di disturbi mentali. Abbiamo chiesto al Prof. Cuijpers di rispondere ad alcune domande su questo argomento, analizzando le possibili problematiche e le prospettive di sviluppo.
La psicoterapia online si rivolge a un target di persone specifico (ad esempio una particolare fascia di età, un certo livello di scolarizzazione, etc)? O, d’altro canto, vi è un target di persone che preferisce usufruire di questo tipo di supporto?
P.C. : Le terapie online sono tanto efficaci quanto le altre psicoterapie per i comuni disturbi mentali. Non c’è alcuna ragione per affermare che siano meno valide nel trattamento di depressione, disturbo d’ansia generalizzata, panico o fobia sociale. Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia delle terapie online. Che le persone scelgano o meno di intraprendere un percorso terapeutico tramite internet dipende fondamentalmente dalle preferenze del paziente.
Come può un professionista che opera attraverso internet essere sicuro della propria diagnosi?
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P.C.: È possibile effettuare un’intervista telefonica per l’accertamento della diagnosi, se il terapista non è sicuro di aver compreso quali siano le problematiche del paziente. Tuttavia, nella maggior parte dei casi è possibile effettuare processi di valutazione attraverso internet. In Olanda esistono diverse strutture che conducono in questo modo il procedimento diagnostica.
Pensa che possano esserci delle problematiche per quanto riguarda l’alleanza terapeutica?
P.C. : Questa è una questione complessa. Le ricerche hanno dimostrato che l’alleanza terapeutica è tanto valida nelle psicoterapie online quanto nelle psicoterapie tradizionali. Inoltre, non è ancora stato stabilito con certezza che l’alleanza terapeutica sia la parte essenziale della terapia. In realtà, non sappiamo molto a tal proposito. Quindi, anche supponendo che l’alleanza terapeutica fosse più debole in questo tipo di terapia, ciò non costituisce una prova del fatto che la psicoterapia online sia meno efficace rispetto a quella tradizionale.
Quali sono gli ostacoli più frequenti in una psicoterapia online?
P.C. : Mantenere i pazienti motivati. L’accesso a questo tipo di supporto è semplice e allo stesso modo è molto semplice anche l’abbandono della terapia, come ad esempio accade non appena ci si sente meglio. Ma ci sono diversi modi per ridurre l’abbandono della terapia (come stabilire chiari accordi riguardo alla partecipazione al programma, etc.).
C’è un disturbo che si può definire “ideale” per il trattamento psicoterapico via web?
P.C. : Finora sono state condotte diverse ricerche riguardanti i più comuni disturbi mentali, come la depressione, le problematiche relative all’ansia e la dipendenza da sostanze. Ma nascono in continuazione nuovi studi che indagano l’efficacia della psicoterapia online su disturbi più complessi, quali il disturbo bipolare, le tendenze suicidarie o i disturbi psicotici.
Ci sono invece disturbi che non possono essere trattati con queste tecniche?
P.C. : Questo non si sa. Internet non è altro che un mezzo di comunicazione. Non è un protocollo di per sé. Esso viene utilizzato per applicare un trattamento psicologico. Niente di più. In questa prospettiva, non mi sembra ci sia alcuna ragione perché un disturbo non possa essere trattato attraverso internet.
Lei ha lavorato ad alcuni programmi su Internet per adolescenti. Qual è la normativa, in Olanda, riguardo alla psicoterapia online con i minori?
P.C. : È piuttosto difficile fare ricerca in questo ambito, poiché non è possibile richiedere il consenso informato da parte dei genitori ed è esattamente quello che viene richiesto dagli adolescenti (per questo motivo partecipano a trattamenti online totalmente anonimi). In Olanda esistono programmi online per gli adolescenti, ma è praticamente impossibile utilizzare i dati di questi programmi a scopi di ricerca. Abbiamo effettuato uno studio sull’efficacia del trattamento via chat per la depressione tra adolescenti e giovani adulti: i risultati hanno mostrato la validità del programma (tra i giovani adulti che hanno partecipato).
Quali sono le prospettive future della psicoterapia online? Ci sono delle aree non ancora raggiunte da questo tipo di supporto?
P.C. : Stiamo lavorando intensamente per adattare gli interventi sul web ai telefoni cellulari. Il vantaggio degli smartphones è che alcune applicazioni possono essere d’aiuto nel procedimento diagnostico e nello sviluppo di interventi personalizzati. Questo apporterà senza dubbio dei cambiamenti negli interventi basati su internet, ma anche in generale nel campo delle terapie, durante il prossimo decennio.
Cosa pensa dello sviluppo dei programmi di psicoterapia online in Italia?
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P.C. : Non conosco nessun ricercatore italiano che stia lavorando in quest’ambito, né conosco ricerche effettuate in Italia. Se ci fossero professionisti interessati a quest’ambito, mi piacerebbe che si unissero alla European Society for Research on Internet Interventions, nata quest’anno. Il prossimo meeting si terrà nella seconda metà del 2013 in Svezia. Venite!
Pensa che, in futuro, la psicoterapia online potrà soppiantare quella tradizionale?
P.C. : Penso che internet possa essere d’aiuto nell’offrire alle persone un valido supporto. Ci sono cose che possono essere svolte totalmente via web, cose che possono essere fatte solo in parte e cose che non possono essere fatte tramite internet. Non è una questione di scelta tra una delle due. La questione è di offrire a chi lo necessita il miglior trattamento possibile, online o offline.
Omicidi, suicidi, violenze sessuali, catastrofi naturali sono notizie ormai all’ordine del giorno e di cui i mass media ci mettono continuamente al corrente. Queste notizie negative e stressanti, pur non riguardando noi in prima persona, possono avere un impatto sulla nostra salute e generare delle reazioni.
Quando il cervello percepisce una minaccia, sia essa reale o implicita, si attivano il sistema simpatico e l’ippocampo e vengono secreti ormoni corticoidi, i quali promuovono un mantenimento nella memoria di queste informazioni anche a lungo termine, soprattutto se si tratta di eventi emozionali. Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: l’esposizione, attraverso i media, ad eventi drammatici e stressanti reali, che non ci coinvolgono in prima persona, può ugualmente generare sintomi fisiologici negli spettatori e avere effetti sui processi di ritenzione delle informazioni?
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Per fornire una risposta a questo quesito, Marin e colleghi hanno reclutato 56 soggetti (14 uomini e 14 donne per la condizione relativa alle notizie neutre e altrettanti per la condizione delle notizie negative) francofoni di età compresa tra i 18 e i 35 anni, i quali sono stati esposti alla visione e alla lettura di notizie neutrali o negative. Le notizie sono state estratte da giornali francofoni della regione di Montreal e sono state selezionate 12 notizie neutrali e 12 negative. Ciascuna notizia consisteva in un titolo e in un breve stralcio dell’articolo. A ciascun gruppo, le notizie sono state presentate in modo casuale su uno schermo per circa 25 secondi ed è stato comunicato ai partecipanti che il loro compito consisteva nel leggere attentamente le notizie recentemente riportate dai media. Lo studio prevedeva una fase iniziale di 10 minuti, in cui i soggetti fornivano il consenso e veniva raccolto un campione di saliva per ciascun partecipante, per poter testare la loro condizione fisiologica iniziale. Seguiva la fase sperimentale della durata di 10 minuti in cui venivano presentate le notizie e dopo circa 10 minuti veniva nuovamente raccolto un campione di saliva per ciascun soggetto, per verificare la presenza di eventuali alterazioni fisiologiche dovute alla presentazione di notizie negative o neutrali. Successivamente, ai partecipanti è stato somministrato il Trier Social Stress Test per indagare lo stato di tensione provocato dall’esposizione alle notizie ed è stato loro chiesto di svolgere compiti verbali e aritmetici. Il giorno successivo, i partecipanti sono stati richiamati per una fase di follow-up, durante la quale è stato chiesto loro di ricordare le notizie lette il giorno precedente, riportando il maggior numero di dettagli possibile e successivamente dovevano indicare su una scala da 1 a 5 quanto fosse stato emozionale ciascuno stralcio letto e quanto si fossero sentiti coinvolti.
Gli autori, nello specifico, si sono proposti di verificare se l’esposizione ad eventi negativi reali: 1) fosse fisiologicamente stressante anche per gli spettatori, 2) potesse aumentare la reattività a successivi eventi stressanti, 3) potesse avere un impatto sulla ritenzione a lungo termine.
I risultati hanno evidenziato che la lettura di notizie neutrali o negative non comporta un aumento dei livelli di cortisolo sia negli uomini che nelle donne, ma l’esposizione a notizie negative determina nelle donne, ma non negli uomini, un aumento della reattività fisiologica di fronte ad un successivo evento stressante e questo non accade nel momento in cui si è esposti a notizie neutrali. Inoltre, le donne, nel momento in cui leggono notizie negative reali, le ricordano meglio e più a lungo degli uomini e, dunque, è presente una differenza di genere nella tendenza alla ruminazione e nella propensione all’elaborazione cognitiva delle informazioni emozionali.
Concludendo, questo studio mostra che l’esposizione, attraverso i media, ad eventi negativi reali influenza i processi fisiologici e psicologici degli spettatori e, nello specifico, determina nelle donne un aumento della reattività allo stress e una maggiore ruminazione. La ricerca futura potrebbe verificare se, oltre alla variabile del genere, vi siano anche fattori socio-culturali o generazionali, in grado di determinare una diversa risposta allo stress generato da notizie drammatiche trasmesse dai media.
The visual system needs to determine the color of objects in the world. In this case the problem is to determine the gray shade of the checks on the floor. Just measuring the light coming from a surface (the luminance) is not enough: a cast shadow will dim a surface, so that a white surface in shadow may be reflecting less light than a black surface in full light. The visual system uses several tricks to determine where the shadows are and how to compensate for them, in order to determine the shade of gray “paint” that belongs to the surface.
The first trick is based on local contrast. In shadow or not, a check that is lighter than its neighboring checks is probably lighter than average, and vice versa. In the figure, the light check in shadow is surrounded by darker checks. Thus, even though the check is physically dark, it is light when compared to its neighbors. The dark checks outside the shadow, conversely, are surrounded by lighter checks, so they look dark by comparison.
A second trick is based on the fact that shadows often have soft edges, while paint boundaries (like the checks) often have sharp edges. The visual system tends to ignore gradual changes in light level, so that it can determine the color of the surfaces without being misled by shadows. In this figure, the shadow looks like a shadow, both because it is fuzzy and because the shadow casting object is visible.
The “paintness” of the checks is aided by the form of the “X-junctions” formed by 4 abutting checks. This type of junction is usually a signal that all the edges should be interpreted as changes in surface color rather than in terms of shadows or lighting.
As with many so-called illusions, this effect really demonstrates the success rather than the failure of the visual system. The visual system is not very good at being a physical light meter, but that is not its purpose. The important task is to break the image information down into meaningful components, and thereby perceive the nature of the objects in view.
Autore dello studio:
Edward H. Adelson. Professor of Vision Science Dept. of Brain and Cognitive Sciences, Massachusetts Institute of Technology
La Campania promuove la Proposta di Legge “Psicologo del Territorio”
Di Roberta De Martino
La Settimana per il Benessere Psicologico della Campania nasce proprio con l’intento di promuovere tale professionalità affinché possa essere diffusamente utilizzata come importante risorsa per la promozione del benessere individuale e sociale.
Un prete confessore, un mago, un amico, un confidente, uno strizzacervelli, un matto… queste alcune delle rappresentazioni che la gente comune ha dello psicologo. Ed è anche per tale ragione che l’Ordine degli Psicologi della Campania ormai da ben tre anni si sta impegnando attivamente per promuovere la professionalità dello psicologo con l’iniziativa “Città Amiche del Benessere Psicologico” che, giunta alla terza edizione, quest’anno si svolgerà dal 19 al 24 novembre. Tale iniziativa vuole rappresentare, infatti, un’ulteriore occasione per avvicinare i cittadini agli psicologi e per invitarli a ritagliarsi del tempo da dedicare alla coltura del benessere proprio e altrui.
“Gli psicologi sono considerati tipi strani” (Moderato, Rovetto, 2006, pag. 12), così ironicamente Felice Perussia e Renata Viano parlano della professione psicologica, per poi aggiungere: “lo psicologo professionista è una figura difficile da descrivere con esattezza, specie per quanto riguarda gli elementi che lo distinguono chiaramente da altre figure di professionisti i quali, pur utilizzando appunto costrutti che fanno parte della tradizione psicologica, si qualificano in termini differenti. L’insieme di tali attori, molto simili agli psicologi, comprende almeno due grandi categorie generali di professionisti: quelli che godono di credibilità sociale (ma non nel campo specifico della psicologia) e quelli maggiormente discussi come figure professionali. Al primo gruppo appartengono, per esempio, i sacerdoti, i medici, i counselor. Nel secondo gruppo si collocano invece, per esempio, gli astrologi, i chiromanti e in genere gli studiosi e gli utilizzatori della parapsicologia” (Moderato, Rovetto, 2006, pag 20-21).
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Nonostante di acqua sotto i ponti ne sia passata da quando Wihelm Wundt ha fondato il primo laboratorio di psicologia a Lipsia nel 1879, sancendo il riconoscimento della psicologia come disciplina scientifica, in effetti ancora molta confusione aleggia intorno alla figura professionale dello psicologo. La Settimana per il Benessere Psicologico della Campania nasce dunque proprio con l’intento di promuovere tale professionalità affinché possa essere diffusamente utilizzata come importante risorsa per la promozione del benessere individuale e sociale.
A tale scopo l’Ordine campano quest’anno ha coinvolto più di 150 comuni nelle sue iniziative che prevedono duecento conferenze di interesse scientifico e culturale gratuite su tutto il territorio regionale e quattrocento studi di psicologi professionisti aperti tutta la settimana per un primo colloquio di consultazione gratuita per chiunque fosse interessato. (l’elenco è consultabile sul sito www.psicamp.it).
Altra novità importante di quest’anno è la proposta di legge regionale per l’istituzione della figura professionale dello psicologo del territorio per promuovere il pieno e armonico sviluppo psicologico dell’individuo in relazione ai suoi contesti di vita. Fino al 22 novembre in Campania è possibile, infatti, recandosi presso l’Ufficio del segretario comunale del proprio comune di appartenenza, apporre la propria firma per sostenere tale proposta di legge a iniziativa popolare.
“E’ iniziata una raccolta di firme capillare in circa cento comuni campani per avanzare, nei primi giorni di dicembre, al consiglio regionale della Campania una proposta di legge che preveda come obbligatoria nei Servizi Sociali la figura dello psicologo”, spiega Raffaele Felaco, il vulcanico presidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania che, spalleggiato da altri appassionati consiglieri, ha dato vita in questi ultimi tre anni del suo mandato, a importantissime iniziative tutte tese a promuovere il benessere dei cittadini nei sistemi di convivenza, fronteggiando e prevenendo il disagio relazionale in famiglia, scuola e comunità il tutto con un linguaggio fortemente duttile e comunicativo (basti pensare che, tra le tante cose, ha dato vita ad un’ applicazione per gli smartphone per rendere ancora più diretta la comunicazione tra cittadini e professionisti).
Un’altra interessante iniziativa è, poi, quella delle “Isole del Benessere”, luoghi concreti d’incontro tra cittadini e psicologi in cui sarà possibile, in questa settimana, caldeggiare la su citata proposta di legge, raccogliere informazioni su quanto in programma durante la Settimana del Benessere e dire la propria sulla “precarietà”, parola oggi spesso abusata e poco pensata e che forse, per tale ragione, tanto malessere sta producendo nei cittadini campani e non solo.
A scegliere il tema delle “Isole” è stata Antonietta Bozzaotra, vicepresidente dell’Ordine degli Psicologi della Campania, che da tempo si sta battendo in modo attivo per allestire contesti in cui riflettere in gruppo sul lavoro precario, argomento di grande drammatica attualità. Le Isole, veri e propri inviti alla riflessione, saranno attive nei comuni di Poggiomarino, Caserta, San Giuseppe Vesuviano e a Napoli su iniziativa dell’Ordine degli Psicologi della Campania e in collaborazione con l’Associazione di Promozione Sociale “Pensare Più”.
“Brave”. La Principessa Ribelle e il Capro Espiatorio – Recensione
Brave (2012). Locandina
Il multistrato -quanto odio questa parola!- era il tema del capro espiatorio, del sacrificio e dell’orda sanguinaria che trova soluzione ai feroci conflitti interni trovando un nemico esterno da ammazzare.
SPOILER ALERT! NELL’ARTICOLO VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA DEL FILM
Come capita a molti genitori, accompagno i miei figli piccoli al cinema e mi costruisco un’estesa competenza sui film per bambini. Film di animazione, disegni o pupazzi (ma anche qualche volta “film a persone vere” come dicono i miei bambini). L’ultimo che abbiamo visto era “Brave” della Pixar.
La Pixar è stimata per la qualità dei suoi film, per la capacità di proporre più strati di lettura. Per la verità, a me degli strati multipli importa abbastanza poco. Mi basta che il film funzioni e piaccia ai bambini. E piaccia anche a me nella sua semplicità infantile, senza stare a raccontarmi che, come adulto, voglio vedere un film multistratificato e complesso. Ma chi se ne frega.
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Però devo ammettere che il multistrato di “Toy Story 3”, col pupazzo sadico rosa e la scena drammatica del quasi incenerimento dei giocattoli, mi era piaciuto. Già meno mi era garbato “Wall•e”, roba d’avanguardia noiosa e intellettuale da grandi rifilata ai piccoli (e infatti i miei bimbi a metà film si alzarono e se ne andarono, e fecero bene). Molto meglio “Cars”, efficiente e senza tante sofisticherie. Però con “Cars 2” la Pixar aveva fatto un film davvero troppo semplice, così semplice che anche i miei bambini lo avevano completamente dimenticato in men che non si dica. Nei giorni successivi nemmeno un commento, una rievocazione di una scena. Completamente cancellato, come se non l’avessero mai visto.
Andiamo a vedere “Brave”, con la critica cinematografica che già ci aveva ammaestrato in precedenza sul multistrato polisemantico e plurisignificante che ci attendeva inquietante: finalmente l’eroina donna invece che maschio e così via, il solito genere di cose che già conoscete tutti e bene, che siate maschi o femmine, è inutile aggiungere altre chiacchiere.
“Brave” è una principessa a cui piace la caccia e il tiro con l’arco, per niente contenta del destino che la aspetta: essere scelta in sposa da uno dei rampolli dei tre feudatari del padre, il re di un ridente e verde regno scozzese. La ragazza litiga con la madre, che le ricorda il suo dovere (politico) di principessa e inoltre la avverte che questi matrimoni combinati mantengono la pace nel regno. Ridente e verde il regno, ma pronto a incrudelirsi di stragi e farsi colorato in rosso. I feudatari son lì, desiderosi di imparentarsi col re ma anche pronti a scalzarlo. Il re è un simpatico panzone ed è anche un po’ un cazzone inconsapevole delle minacce che lo circondano. Dopo un po’ diventa chiaro che è la regina la vera mente politica che tiene tutto insieme il regno. E sua figlia, “Brave” che ama passare il tempo cacciando con l’arco nella foresta, ancora non ha capito nulla di tutto questo. Comprensibile il fastidio della ragazza per i matrimoni combinati, ma vediamo come va a finire.
Guardiamo “Brave”. Il film funziona, con qualche lentezza nella parte centrale. Chi lo dice? I miei bambini, che commentavano: “che noia questa parte”. Ed è la parte un po’ triste in cui la regina, madre della principessa, è stata tramutata da un incantesimo in orsa ed è costretta a nascondersi nella foresta, minacciata e inseguita dagli abitanti del castello in cui abitava e regnava. Inseguita anche dal marito, il re, disperato perché non la trova più (il poveraccio la ama e non vive senza di lei) e che la pensa morta ammazzata dall’orsa (la regina stessa!) che ha trovato nella sua camera.
Insomma è lei, la regina, il vero protagonista del film. Film che davvero mette al centro una donna, ma questa donna non è “Brave”, la principessa ribelle. Ribelle si, ma anche un po’ idiota. Perché è “Brave” che fa scattare idiotescamente l’incantesimo. Perché è “Brave” che casca nel tranello di una strega e fa mangiare alla madre il dolcetto che la tramuta in orso (“faglielo mangiare e tua madre farà quel che tu vuoi” dice più o meno la strega, cito a memoria). E passi, non lo sapeva. Ma la superficialità asinina con cui “Brave” minimizza e non capisce l’enormità di quel che accade dopo è raggelante: la madre tramutata in orsa e inseguita nella foresta dal marito e i suoi guerrieri per ucciderla, convinti –terribile equivoco- che l’orsa abbia ammazzato la regina! E il realismo psicologico (merito della Pixar) con cui è resa la tragedia della madre intrappolata nel corpo dell’orsa rende tutto ancora più sbalorditivo. A questo punto l’atteggiamento della principessa “Brave” è davvero incomprensibile: sembra solo infastidita da quel che accade. Roba da prenderla a schiaffi (e qui i miei bambini sbadigliavano alla grande, impossibilitati a identificarsi con una tale cretina; semmai erano in pena per la madre).
È stato a questo punto ho sospettato che lo sceneggiatore fosse un cripto-maschilista. Solo un misogino poteva aver concepito quello che era la principessa “Brave” a metà film: semplicemente una stupida sciocca viziata.Anzi, una vera cogliona. Vero è che anche i maschi guerrieri erano dipinti come una massa di assoluti imbecilli. Misantropo oltre che misogino, dunque, lo sceneggiatore. A questo punto mi chiedevo perché avevo portato i miei bimbi a vedere un film così nichilista. Maledizione al multistrato della Pixar. Era meglio “Cars”, e che i multistrato intellettuali vadano a farsi benedire.
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Dopo un po’, i maschi guerrieri del castello catturano la regina-orsa e per poco non la fanno fuori. Legata con mille corde al centro di un orribile e antichissimo cerchio sacrificale di pietre e circondata da un’orda urlante di guerrieri inferociti (mentre “Brave”, la piccola idiota, ha finalmente capito la gravissima portata della tragedia in atto) sembrava un agnello portato al macello. Una scena terribile.
A questo punto ho compreso dove fosse il multistrato. Ed era ben nascosto, per fortuna, e meno scontato e risaputo della quota rosa riservata all’eroina invece che all’eroe. Anche perché fino a quel momento l’eroina “Brave” aveva fatto la figura dell’idiota; parità si, ma nell’idiozia, che poi è il femminismo migliore. Il multistrato -quanto odio questa parola!- era il tema del capro espiatorio, del sacrificio e dell’orda sanguinaria che trova soluzione ai feroci conflitti interni trovando un nemico esterno da ammazzare (e poi da divinizzare in un totem: l’orsa; ovvero in una costellazione: l’orsa maggiore e minore). E infatti l’orda dei guerrieri era già segnata da conflitti interni che si erano infine scatenati in una rissa al castello. Come ho già scritto prima, il re è in difficili rapporti con i suoi tre vassalli, ognuno dei quali vorrebbe al tempo stesso imparentarsi con lui e sostituirlo.
Insomma, quelli della Pixar non sono stupidi. Un po’ tromboni e intellettuali, ma non stupidi. Si sono letti René Girard (1982) e Giuseppe Fornari (2006), i due grandi antropologi e studiosi della teoria del capro espiatorio. E ne ho la conferma a casa, leggendo il mito greco di Callisto (ahimè, lo leggo su Wikipedia e non in Ovidio) tramutata in orsa da Artemide, la dea della caccia che evita gli uomini e che è sdegnata perché Callisto è incinta e quindi ha violato la regola dell’orda delle terribili ninfe cacciatrici (tra le quali la stessa Callisto) che accompagnano la dea: che mai conoscano uomo e mai facciano prole. Una banda di femministe scatenate, immagine speculare dei maschilistissimi eroi greci.
La regina è Callisto. Chi è, infatti, la regina di “Brave” se non una donna che invece ha scelto di conoscere un uomo, quell’imbecille, ma simpatico e innamorato, di suo marito? E, particolare raggelante, chi è “Brave” se non Artemide, una donna che non vuole conoscere uomo e che passa le giornate dei boschi da sola a cacciare? Dunque Callisto è la madre di Artemide? E “Brave” è Artemide che ha voluto tramutare sua madre in orsa affinché fosse uccisa e sacrificata? Un Edipo donna. Forse si. Beh, il film è davvero complesso (anche se i miei bimbi però continuano a rimanere perplessi e un po’ annoiati di fronte a tanta cultura; meglio “Cars”).
Insomma, l’orda dei maschi può essere anche un’orda di femmine altrettanto crudeli e schiave di regole e pregiudizi. Lo sceneggiatore è davvero uno tosto che non fa sconti a nessuno, maschi o femmine che siano. Altro che quote rosa o quote azzurre. Non ce ne è per nessuno. Misogino e misantropo.
Però uno sconto lo fa: alla madre, regina e orsa. Che è quindi la vera grande protagonista, un Cristo donna destinata al linciaggio.
Poi, per fortuna, tutto si risolve. Sia pure a prezzo dell’uccisione di un altro orso. Intendiamoci, non un povero orso che passava di lì, ma una personificazione del male (e chi è questo qui? Ma non posso mica spiegarvi tutto, andate a vedervi il film!) E alla fine “Brave” finalmente rinsavisce e comprende le enormi sciocchezze che ha commesso per tutto il film. Ed è questa sua consapevolezza che fa sparire l’incantesimo e fa riprendere alla regina la sua forma umana. Per fortuna, perché è evidente che senza di lei il regno va a scatafascio.