expand_lessAPRI WIDGET

Le perversioni vanno curate? L’omofobia e il pericolo delle parole

 

TUTTI GLI ARTICOLI SU: LESBIAN GAY BISEXUAL TRANSGENDER (LGBT)

le perversioni vanno curate.
Lo striscione omofobo appeso dai militanti di Forza Nuova a Bologna.

“Le perversioni vanno curate”: riporto la frase balzata sulle pagine della cronaca dei giorni scorsi. Ho deciso di riportarla perché credo che la gravità dell’affermazione fatta e rivendicata da un noto gruppo politico, imponga una riflessione.

Tante per la verità. La questione è politica, sociale, morale, culturale, religiosa e, ovviamente, psicologica e per ognuna sarebbe necessario un intervento preciso e su molti livelli.

Tra le molte cose che colpiscono vi è il dubbio che leggendo una frase del genere può assalire le menti dei passanti e l’immediata reazione ad esso: sentirsi vittima e colpevole, cercare prove del contrario, non avere risposte pronte e inespugnabili, pensare alla “natura” e ai suoi piani riproduttivi, non pensare affatto.

Disgusto o Umanità? Contro l'omofobia.
Articolo consigliato: Disgusto o umanità? Contro l’Omofobia

Tutte queste ed altre reazioni possibili, sono espressione del clima culturale e sociale in cui respiriamo, clima che forma e talora “forgia” in modo indelebile le credenze che noi tutti abbiamo su noi stessi, sugli altri e sul mondo.

“Le perversioni vanno curate” è un pensiero, una credenza negativa, niente di più.

Scriverla su di un muro di una città è un comportamento, una reazione che a quell’idea è legata. Le emozioni note sono di chi passa lì davanti, di chi è vittima, mentre ci mancano quelle degli autori: prezioso anello mancante di questa catena. Il termine omofobia, certo, ci dà qualche indizio.

ARTICOLI SU: LESBIAN GAY BISEXUAL TRANSGENDER (LGBT) 

Nella letteratura scientifica, è molto presente e documentato l’effetto che comportamenti discriminanti sulla base degli orientamenti sessuali hanno avuto in passato e hanno tuttora sul benessere psichico di chi vive un’orientamento diverso dall’eterosessualità.

Una meta-analisi (Katz-Wise, Hyde, 2012) condotta tra il 1999-2009 su 500.000 partecipanti, ci dice che per gli individui LGB la presenza di episodi di vittimizzazione segnalati è sostanziale (e.g., 55% di molestie verbali e il 41% di comportamenti discriminatori).

Inoltre le persone LGB mostrano livelli di vittimizzazione più alti dei soggetti eterosessuali testati a parità di età e condizioni socio-economiche, e in particolare gli uomini sembrano subire in maniera maggiore delle donne alcuni tipi di violenze (e.g. aggressione con arma da fuoco, essere derubati).

Il panorama mondiale delle violenze e dei diritti violati è ben nota e consultabile sul sito dell’International Lesbian, Gay, Trans and Intersex Association (ILGA), in cui viene descritta la partecipazione o meno della maggior parte dei paesi del mondo, alla costruzione dei diritti delle persone LGBT.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: All’origine dell’ Omofobia: Contesto Culturale e Attrazione Repressa.

Molti stati prevedono ancora la pena di morte per aver compiuto atti omosessuali, molti di più considerano l’omosessualità illegale. Solo una minoranza di stati inizia a riconoscere le unioni gay, a consentire la possibilità di sposarsi e di adottare figli. Qualcuno in più ha finalmente delle leggi che puniscono invece atti discriminatori verso persone omosessuali, mentre molti ormai hanno leggi che puniscono la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale nei luoghi di lavoro. Ecco che finalmente compare l’Italia nella mappa.

Al di là degli infiniti e grandi temi correlati a questo episodio, sembra tuttavia interessante una ricerca pubblicata quest’anno sull’utilizzo nel linguaggio comune del termine gay (o di tutte le altre sue declinazioni), spesso con accezione negativa (Nicolas, Skinner, 2012).

ARTICOLI SU LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Sebbene l’uso sia molto diffuso, in contesti anche molto lontani da quelli esplicitamente omofobi, i ricercatori hanno dimostrato che l’utilizzo frequente di tali espressioni possa nel lungo periodo incrementare i bias cognitivi legati a credenze anti-gay e “lavorare” così nella nostra coscienza su un piano implicito, ma spesso molto evidente negli atteggiamenti più comuni che emergono.

 

ARTICOLI SU BIAS – EURISTICHE

Insomma, come spesso accade le parole ripetute molto spesso tendono a perdere il loro significato originario, ma insieme ad esso si rischia di perdere forse anche un po’ di consapevolezza su quello che stiamo in effetti dicendo.

E’ possibile dunque che questi writers, superficie di un movimento sotterraneo e ben più radicato, siano stati loro stessi vittima di un drammatico bias cognitivo: poco chiaro alla loro coscienza e men che mai alla loro mano?

LEGGI ANCHE: Omofobia: paura del diverso o paura di se stessi?

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

LEGGI ANCHE:  Intervista al Dott. Paolo Rigliano.

Autore del libro: Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità

Intervista a RIgliano. - SLIDESHOW
Articolo consigliato: Intervista al Dott. Paolo Rigliano. Autore del libro: Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità

La precarieta’: una Nuova Nevrosi?

 

La precarietà- nuova nevrosi?. - Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.comCrisi e precarieta’ … sono queste le parole più usate e, verrebbe da dire, abusate in questi ultimi tempi. Vocaboli che incutono angoscia, spengono sorrisi, speranze e che troppo spesso paralizzano, demotivano.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: PSICOLOGIA DEL LAVORO

Come bene evidenziato da Michael Benasayang e Gèrard Schmit nel testo “L’epoca delle passioni tristi”, sembra che in questi anni si sia passati da un “futuro-promessa” a un “futuro-minaccia”, eppure “le diverse istituzioni deputate a educare, a trasmettere e a curare ciò che va male agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se ci fossero solo delle difficoltà da superare, con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà”. Ed è proprio questa “disattenzione istituzionale” che, a mio avviso, rende il precario ancora più vittima della sua precarieta’.

La crisi economica in cui versa il nostro Paese, per quanto terribile ciò possa apparirci, non passerà rapidamente e molto probabilmente trasformerà del tutto il nostro tessuto sociale. E allora che fare? Utile forse sarebbe uscire dal circolo vizioso della sterile lamentela, in cui facile è cadere soprattutto per le giovani generazioni, per cercare di intravedere nella precarieta’ delle possibilità.

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.com
Articolo consigliato: Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione.

LEGGI ANCHE: L’aumento dei Suicidi per la Crisi: una brutta favola pericolosa.

Non è questo un invito a un ottimismo insensato e sconclusionato, ma è un appello alla riflessione.

Quando penso all’etichetta di “precario”, penso alle etichette con cui sovente i pazienti si rivolgono a noi psicologi: “depresso”, “ansioso”, “anoressico”, “bulimico” ecc. Questi alcuni degli epiteti con cui i pazienti si presentano al clinico, nella speranza che quell’esemplificativa classificazione funga da viatico per una rapida “guarigione”.  Che significa essere un “depresso”? Che significa essere “ansioso”?  Non è senz’altro un’etichetta che ci aiuta a comprendere la storia di un individuo, a cogliere la sua unicità, la sua complessità, piuttosto, il suo utilizzo può essere alquanto invalidante perché rischia di appiattire il nostro sguardo non facendoci afferrare, con curiosità, la singolarità di quella persona. 

E con l’etichetta di “precario” come siamo messi? Non è che anche l’utilizzo di quest’ultima rischia di portarci verso punti ciechi che non ci fanno intravedere possibili sviluppi? 

In molti sono ad esempio i giovani che oggi, di fronte alla disastrosa condizione economica in cui versiamo, gettano la spugna. “E’ in crescita un fenomeno allarmante: nel 2009, segnala l’Istat, poco più di due milioni di giovani, ossia il 21,2 per cento degli under 29, risulta fuori dal circuito formazione-lavoro: in pratica non studia e non lavora. È il fenomeno chiamato ‘Neet’, ossia ‘Not in education, employment or training’, che si arricchisce di anno in anno con la progressiva uscita dei giovani dal mercato del lavoro. Tra il 2008 e il 2009 i giovani tra i 20 e i 24 anni classificabili come ‘Neet’ sono aumentati del 13 per cento, e nel sud sono il 30,3%.” I “neet” sono dunque giovani che sembrano slacciarsi da un sogno, da un’aspirazione, dall’idea del domani.

Diversa nella forma ma non nella sostanza è poi la situazione di quei giovani “iperspecializzati” che, impegnati in una formazione perenne, svolgono lavori sottopagati e gratuiti. Costoro, sconfortati e avviliti, rischiano di dimenticare chi sono, il percorso formativo e professionale che hanno intrapreso e da quale storia provengono, proprio come succede al paziente che si definisce “depresso” nello studio del clinico.

Altro aspetto della faccenda è poi quel “voglio tornare come prima”, espressione con cui spesso il paziente condisce i colloqui psicologici e che mi sembra caratterizzi, purtroppo, anche lo sguardo con cui il precario guarda il suo presente, nel costante desiderio di rivivere un passato che non c’è più. Insomma il precario rischia, proprio come farebbe un paziente nevrotico, di andarsene in giro con la sua bella etichetta, lamentandosi del suo sintomo con la sterile speranza che alla fine le cose tornino “come prima”. 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

Perché invece non utilizzare anche in questo caso la crisi come un’occasione di cambiamento, di rinnovamento, di crescita? Il precario, proprio come il paziente designato, fa il sintomo e si fa portavoce di un malessere che ha origini ben più allargate, ben più lontane, in sistemi di convivenza che sono probabilmente falliti. Come suggerisce Franco Del Moro nel testo “Riposare nel cuore della tempesta” “Non possiamo capire le ragioni del disagio che è in noi se nel contempo non ci occupiamo anche del disagio che è intorno a noi e lontano da noi … le soluzioni, siano esse corali o individuali, agiscono in un punto preciso dello spazio, ma la loro eco arriva a tutti i livelli”.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Bergen Work Addiction Scale: per misurare la Dipendenza dal Lavoro.

E’ certo, però, che i sistemi di convivenza sono senz’altro co-costruiti: ognuno ha la propria responsabilità in questa disfatta. Ho, però, l’impressione che il precario, come farebbe un qualsiasi nevrotico, sta cercando di far fronte alla sua problematicità proprio come l’ubriaco protagonista della famosa storiella narrata da Watzlawick: “Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa ha perduto. “La mia chiave”, risponde l’uomo, e si mettono a cercare tutti e due. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì. L’altro risponde: “No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio”.

Temo, dunque, che il precario, come il nevrotico, afflitto dal suo problema, stia cercando di raggiungere una soluzione là dove è sicuro di non trovarla e che stia effettuando le sue ricerche sempre nello stesso modo.

E se invece conducessimo il precario, ubriaco della sua problematicità, a sperimentare metodi alternativi ed efficaci di ricerca, non facendogli dimenticare quante risorse ha a disposizione per fronteggiare la sua situazione? 

Tempo fa, intervistata dalla giornalista Rai Isabella Mezza, mi trovai a definire il precario come un funambolo che, costretto a camminare su un filo nel vuoto, in continua tensione e alla ricerca sempre di nuovi equilibri, allena muscoli che non tutti sanno utilizzare. Il precario, come il funambolo, è nel vuoto ma non vi casca perché sa camminare su un filo e (cavolo!) questo non è da tutti!

 Iniziare a fare luce proprio su risorse e possibilità potrebbe indurre il precario a circoscrivere la sua insicurezza e a cercare nuovi percorsi da intraprendere ed è questa, a mio avviso, anche una responsabilità sociale dello psicologo.

Come ? Attraverso l’attivazione di spazi condivisi di riflessione su tale controversa questione che, se ignorata e trattata solo per gli evidenti e scontati aspetti di negatività, rischia davvero di diventare (se già ciò non è accaduto) una nuova grave forma di disagio psicologico e sociale.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: PSICOLOGIA DEL LAVORO – PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

LEGGI ANCHE: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -
Articolo consigliato: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.

Gruppi Gay di Auto Aiuto: Alcune Riflessioni

 

Gruppi Gay di Auto Aiuto. Alcune riflessioni. - Immagine: © Viorel Sima - Fotolia.comGruppi Gay di Auto Aiuto: quanto sono utili? In che misura raggiungono gli obiettivi che si prefiggono? Generano rappresentazioni distorte?

LEGGI GLI ARTICOLI SU: LGBT – LESBIAN, GAY, BISEX & TRANSGENDER

 

Recentemente mi sono imbattuto in una realtà che non conoscevo, i gruppi gay di auto aiuto.

E mi sono posto alcune domande: quanto sono utili? In che misura possono raggiungere gli obiettivi che si prefiggono? E’ possibile che generino rappresentazioni distorte in coloro che li frequentano?

La comunità gay afferma, credo giustamente, di essere tuttora discriminata sebbene le dichiarazioni di principio (di facciata?) della maggior parte delle persone lo escludano con fermezza; in questi casi la natura dei pensieri reali non è data da ciò che si dice sugli omosessuali – “io non ho nulla contro di loro!” – ma da come si reagisce alla loro vicinanza, al loro successo, ai loro incarichi politici, Vendola docet.

Omofobia - Immagine: © jjayo - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Omofobia: paura del diverso o paura di se stessi?

Tuttavia non sono convinto che istituire gruppi gay dal significato sostanzialmente clinico, se con questa espressione intendiamo l’elaborazione di specifiche difficoltà emotive, sia un’operazione priva di rischi.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

E’ possibile infatti, a mio modo di vedere, che nella rappresentazione soggettiva di alcuni partecipanti questi gruppi gay si trasformino in percorsi terapeutici come se davvero esistesse la necessità di curare un disturbo, un’anomalia nell’adattamento all’ambiente. Da un lato è evidente che promuovere queste iniziative abbia il valido scopo di creare un contesto empatico nel quale i gay possano confrontare le proprie esperienze, raccontare situazioni familiari spesso estremamente complesse se non addirittura apertamente ostili, discutere su scelte di vita delicate come la creazione di una famiglia; dall’altro però, l’esigenza di predisporre un setting e di garantire la reciproca accettazione, il reciproco riconoscimento mi fa pensare ad una difesa nei confronti della società e delle sue chiusure culturali.

Forse l’interrogativo che dobbiamo porci è perché, in un mondo che si definisce sviluppato, essere gay induca ancora oggi ad aggregarsi all’interno di un microcosmo nel quale affrontare il vissuto problematico della propria diversità.

“Diversi da chi?”, mi chiedo, auspicando che in un futuro non troppo lontano i gruppi di auto aiuto siano rivolti solo alle persone che davvero presentano una patologia, e ricordando che l’omosessualità è un deficit non di chi la vive ma di chi, incapace forse di gestire i conflitti della propria identità, si protegge individuando una minaccia esterna.

 

LEGGI GLI ARTICOLI SU: LGBT – LESBIAN, GAY, BISEX & TRANSGENDER

LEGGI GLI ARTICOLI SU: SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

Depressione Materna: Il Lavoro e il Partner possono Aiutare a Vincere la Depressione

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le mamme che lavorano, sposate e con un partner accanto non depresso hanno maggiori probabilità di andare incontro alla remissione.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA DEPRESSIONE

Il disturbo depressivo maggiore è uno dei disturbi mentali più comuni, che colpisce, annualmente, più di 13 milioni di individui solo negli Stati Uniti e genera, spesso, una serie di limitazioni nello svolgimento delle attività della vita quotidiana. Ma se la depressione colpisce le mamme, allora è evidente che gli effetti appaiono ancora più gravi, visto che i bambini non ne escono indenni, anzi spesso riportano disturbi cognitivi e comportamentali che possono persistere anche in età adulta. Le madri depresse infatti, di solito, manifestano atteggiamenti ostili e negativi nei confronti dei bambini e questo crea un ambiente familiare che viene percepito come stressante. 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Ketamina: nuova strada per la cura della Depressione?

A questo punto potremmo chiederci: quali fattori potrebbero favorire la persistenza della depressione nelle mamme e quali, invece, potrebbero fungere da fattori di protezione e generare una remissione?

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: PSICOPATOLOGIA POST-PARTUM/PERINATALE

Per fornire una risposta a questi interrogativi, Kristin Turney ha condotto uno studio longitudinale coinvolgendo 4.898 coppie. Entrambi i genitori sono stati intervistati subito dopo la nascita del bambino e successivamente sono stati nuovamente intervistati, quando i bambini avevano compiuto 1, 3, 5 e 9 anni. Nella fase iniziale della ricerca, l’82% delle mamme erano coniugate, mentre l’87% non erano sposate. Tuttavia, non tutte le mamme che inizialmente hanno preso parte alla ricerca, hanno fornito il proprio contributo in tutte le fasi dello studio; per questo, sono state considerate solo le mamme (N=4.366) che hanno partecipato ad almeno 2 sessioni consecutive, escludendo la baseline, ossia il momento subito dopo la nascita del bambino. La depressione materna è stata rilevata attraverso la CIDI-SF, quando i bambini  avevano 1, 3, 5 e 9 anni: alle mamme è stato chiesto se nell’anno precedente avessero esperito sintomi di disforia o anedonia.

 Le variabili prese in considerazione dall’autrice come potenziali fattori, in grado di innescare un cambiamento nel decorso della depressione o di inibirlo, sono le seguenti: nazionalità, età, educazione, stato civile, impegno lavorativo, presenza di altri bambini e depressione nel partner. Dai risultati è emerso che la depressione è un problema molto comune tra le donne non coniugate: circa il 16% delle mamme era depresso quando il bambino aveva 1 anno, il 21% era depresso dopo 3 anni dalla nascita del bambino, il 17% quando il bambino aveva 5 anni e il 17% quando il bambino aveva compiuto 9 anni. Inoltre, circa il 38% del campione complessivo ha riportato sintomi depressivi almeno una volta nel periodo preso in considerazione dalla ricerca, il 31% ha riportato una depressione intermittente e il 7% una depressione persistente. Rispetto alla variabile della nazionalità, è emerso che le donne non ispaniche, sia bianche che nere hanno maggiori probabilità di sviluppare una depressione persistente rispetto alle donne ispaniche; mentre, rispetto alla variabile dell’età, la depressione è risultata più diffusa tra le donne più giovani dei 25 anni.

Inoltre, la depressione materna è più comune tra le donne che hanno un partner depresso, col quale sono sposate o coabitano; nel caso in cui i due genitori non coabitano o non hanno più alcun tipo di relazione, la presenza di depressione del partner non incide sulla depressione materna.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Abuso Economico & Depressione Materna

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBI DELL’UMORE

Per quanto riguarda le caratteristiche demografiche, l’educazione e l’impegno lavorativo possono essere determinanti per la depressione intermittente delle mamme, ma non per la depressione permanente, evidenziando come le cause dell’esordio della depressione siano diverse da quelle responsabili della sua permanenza. Altro fattore di rischio per la stabilità della depressione riguarda la presenza di altri bambini in casa: le mamme con depressione intermittente o permanente spesso hanno più bambini.  

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

Ma quali potrebbero essere, invece, i fattori in grado di modificare il decorso della depressione materna? Dai risultati è emerso come potrebbero fungere da fattori di protezione rispetto alla cronicità della depressione l’impegno lavorativo, la relazione coniugale e la mancanza di depressione nel partner: mamme che lavorano, sposate e con un partner accanto non depresso hanno maggiori probabilità di andare incontro alla remissione.

Conoscere i fattori di rischio e di protezione della depressione materna può essere sicuramente funzionale ad una maggiore prevenzione e ad un miglior trattamento del disturbo.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA DEPRESSIONE

 

BIBLIOGRAFIA:

Autolesionismo e Adolescenza: “Non Potevo Farci Nulla”

Autolesionismo-e-Adolescenza-“Non-Potevo-Farci-Nulla”. - Immagine: © Eky Chan - Fotolia.comChi utilizza l’autolesionismo sostiene che farsi del male li riporti in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA VIOLENZA

“Cominci a prendere a calci la porta. Butti la roba in giro per la stanza, fuori dalla finestra. Non riesci a calmarti. Non sai neppure che cosa ti abbia ridotto in questo stato. Ti pianti le unghie nella pelle del polso. Non senti niente. É come se stessi guardando un film su qualcun altro, non sei tu. Ti togli la camicia, ti guardi allo specchio. Odio, disgusto, frustrazione, rabbia, rimorso. Quasi come in un rituale, senza nemmeno pensare a quel che fai, prendi la lametta… sangue che gocciola. Ci sfreghi su qualcosa di antisettico, lo rifai, fino a quando sei calmo, soddisfatto. Spalmi sangue in giro. É brutto, ma il sangue è reale, è umano, ti fa sentire bene! Al tempo stesso, provi dolore, te lo meriti. Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.”

Dal libro Un urlo rosso sangue di Marilee Strong.

Hikikomori- la ribellione silenziosa?. - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Hikikomori- la ribellione silenziosa?

Chiamato da alcuni autori autolesionismo intenzionale (deliberate self-harm, DSH, Favazza 1996), l’autolesionismo si riferisce a una serie di comportamenti che l’individuo mette in atto intenzionalmente per recare danni o lesioni al proprio corpo o ad alcune parti di esso. Secondo Armando Favazza (Favazza, 1996), che per primo ha identificato tali comportamenti come una sindrome con caratteristiche simili al Disturbo del Controllo degli Impulsi NAS, l’autolesionismo presenta alcune specifiche componenti:  pensieri ricorrenti di danneggiare il proprio corpo, incapacità di resistere agli impulsi di danneggiarlo, da cui deriva la distruzione o la alterazione del tessuto corporeo; crescente senso di tensione prima di mettere in atto condotte autolesionistiche, sensazione di gratificazione e di benessere successiva all’atto.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SULL’IMPULSIVITA’

Attualmente in Italia viene segnalato un tasso di incidenza che oscilla intorno al 30% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica, contro il 60% circa tra i malati psichiatrizzati. Ferirsi con tagli e ustioni sono le più comuni forme di autolesionismo tra i giovanissimi, alcuni degli altri metodi includono l’avvelenamento e l’overdose in età più adulta. L’autolesionismo è stato associato a depressione e ansia, a comportamenti antisociali e, soprattutto, all’uso di alcool (il rischio è raddoppiato), all’uso di cannabis e al fumo (Cerutti & Manca, 2009; Cerutti et al, submitted).

Una delle maggiori difficoltà connesse a questo disturbo è che i comportamenti autolesivi sono spesso sottostimati poiché vengono messi in atto in condizione di segretezza e sono frequentemente accompagnati da sentimenti di vergogna. Coloro che si autoferiscono, infatti, quasi sempre tendono a isolarsi e a nascondere le proprie ferite soprattutto per il timore di essere giudicati.  Ricordo E., 14 anni, che chiusa in bagno con il rasoio in mano si tagliava e guardava il sangue scorrere e cadere sul pavimento e intanto le lacrime le segnavano il viso. Sapeva di avere bisogno di aiuto ma in quella circostanza i suoi unici pensieri erano: “Che cosa penserà la gente di me? Penseranno che sono matta? Che cosa andranno in giro a dire quando lo sapranno? Penseranno che ho qualcosa che non va… Penseranno che lo faccio solo per attirare l’attenzione”.

Le ragioni per cui le persone si feriscono sono molteplici, ma va scardinato lo stereotipo dell’adolescente turbato, emotivamente labile e ribelle che compie gesti estremi come e che quindi può anche autolesionarsi. Questo è, a mio parere, solamente uno stereotipo, uno stigma che serve alle persone a ignorare la malattia mentale, ancora oggi vissuta con grande segreto e forse, come segno di debolezza.

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington http://faculty.washington.edu/linehan/
Articolo Consigliato: Marsha Linehan e l’approccio dialettico per affrontare i propri demoni

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SUGLI ADOLESCENTI

L’autolesionismo non è un modo per attirare l’attenzione, né un tentativo di suicidio. Prendiamo ancora le parole di chi l’ha vissuto: F. ha 30 anni ora. Nel 1992, quando ha cominciato, non aveva mai sentito parlare di autolesionismo. “Non era la sensazione del dolore stesso, ma la reazione del corpo”, ha detto. “Una sorta di sensazione intorpidita. Quando mi facevo male mi sentivo completamente calma, la mia mente si concentrava sul dolore e la ferita e tutti gli altri pensieri e problemi sconvolgenti abbandonavano la mia mente nel frattempo. C’è un equivoco in base al quale l’autolesionismo sarebbe un tentativo di morire”, dice. “E ‘davvero l’esatto contrario. A volte, quando ho sentito che non volevo più vivere, mi facevo del male e mi sentivo più viva. E’ stato un meccanismo di sopravvivenza”.

Molte persone si fanno del male perché sono invase dalle loro emozioni, come la tristezza o l’ansia o forti stress e recare danno al proprio corpo rappresenta un modo per gestire queste emozioni vissute come intollerabili. Chi utilizza l’autolesionismo in questo modo sostiene che farsi del male li riporta in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo. Ci sono poi tutta una serie di altri motivi connessi a patologie psichiatriche che portano una persona a farsi del male (come purificarsi o tentare di espiare una colpa di un trauma subito), che qui non stiamo ad analizzare. Ciò che forse si può generalmente dire è che l’autolesionismo può essere meglio capito come un meccanismo maladattivo di coping che funziona – almeno al momento (Klonsky, 2007; DiLazzero, 2003).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

SITCC 2012 – Emozioni in Gravidanza. di Ciccioli, Bagalini, Morelli & Pirocchi

Congresso SITCC 2012 Roma

Emozioni in gravidanza.

Superare lo stereotipo sociale per identificare e prevenire la “tristezza” delle mamme. 

T.Ciccioli, B. Bagalini, K. Morelli & V. Pirocchi .

Studi Cognitivi, Sede di San Benedetto del Tronto

 

 

La gravidanza va intesa come un evento che comporta una significativa modificazione biopsicologica di fronte alla quale è necessario che la donna reagisca con un nuovo aggiustamento interiore, è quindi una fase della vita a rischio per la comparsa della depressione (PPD).  La Depressione post partum va distinta dalla Maternity blues e dalla psicosi puerperale per incidenza, sintomatologia e decorso. Ha un’incidenza del 10% e 15% sulle donne in seguito alla gravidanza. La PPD si articola in una serie di sintomi determinanti una grave limitazione rispetto al funzionamento globale e alla qualità di vita della donna con ricadute importanti sulle dinamiche relazionali tra mamma e bambino (Rossi Monti,1996).

ARTICOLI SU: PSICOPATOLOGIA POST-PARTUM/PERINATALE

Il presente studio ha lo scopo di individuare, a fronte della vasta letteratura sull’argomento, alcuni soggetti potenzialmente a rischio e nel contempo assolvere ad un ruolo di prevenzione attraverso un intervento psicoeducazionale rivolto non solo alla donna, ma anche al partner. L’importanza dell’individuazione consente di poter intervenire attraverso una psicoterapia breve individuale e di coppia, in considerazione anche della limitazione dell’uso di farmaci antidepressivi in gravidanza. 

Il campione (N= 80), diviso in gruppo sperimentale e gruppo di controllo, è formato da donne afferenti al Punto Nascita e ai corsi di preparazione al parto e alla genitorialità, seguite a partire dall’ultimo trimestre di gravidanza.

ARTICOLI SU: GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

Ad esse sono stati somministrati dei questionari allo scopo di identificare la presenza di sintomi depressivi e ansiosi ed un questionario volto ad indagare il supporto percepito dalla futura madre nel periodo del preparto.

I dati ottenuti confermano l’ipotesi dalla quale aveva preso avvio il nostro studio e cioè che il ruolo sociale e le relazioni interpersonali sono in relazione sia con la percezione del supporto sociale, che con alti punteggi al BDI e all’EPDS.

I risultati ottenuti inoltre confermano i dati presenti in letteratura che vedono la gravidanza come un processo di riorganizzazione cognitiva (Isola L., Mancini F., 2007) in cui il cambiamento di ruolo (da figlia a madre) e le relazioni interpersonali sono determinanti in uno specifico contesto di vita e a fronte della propria resilienza.

A scopo preventivo, si è pensato di introdurre interventi psicoeducazionali che permettono alla donna, ancor prima che madre, di arginare eventuali problematiche rispetto a tali ambiti.

Attualmente stiamo conducendo uno studio sui retest, che intende monitorare ed indagare più approfonditamente il rischio segnalato nel corso della suddetta ricerca.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

 

Stoner di John Wiliams – Recensione

                                                         

Stoner_di_John_Williams - Copertina
Stoner (2012) di John Williams. Copertina

Così William Stoner, professore universitario di letteratura e figlio di agricoltori risulta, in società, persona piuttosto insignificante e grigia. Lui stesso ha di sè un’ opinione modesta, convinto che nessuno possa provare per lui alcun interesse.

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Anche le persone timide provano intense emozioni e profondi affetti, ma l’idea che hanno di sè e del mondo, in qualche misura la loro filosofia di vita, ne inibisce la visibilità.

Segreto desiderio, anzi, è quello di sparire alla vista altrui per non rischiare di sentirsi in alcun modo deludenti, o ridicoli o, se va bene, poco interessanti. 

Così William Stoner, professore universitario di letteratura e figlio di agricoltori risulta, in società, persona piuttosto insignificante e grigia. Lui stesso ha di sè un’ opinione modesta, convinto che nessuno possa provare per lui alcun interesse.

stecchiti. le vite curiose dei cadaveri.
Articolo consigliato: Stecchiti. Le Vite Curiose dei Cadaveri di Mary Roach – Recensione

In realtà, noi che leggiamo il libro, siamo catturati dalla storia di questa apparente insignificanza e partecipiamo ai sentimenti che via via prendono forma.

Il forte innamoramento per Edith, la moglie, di aspetto bello e delicato, in realtà una donna amara, imprevedibile e piuttosto isterica.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SULL’AMORE E LE RELAZIONI SENTIMENTALI

Prima l’idealizzazione, la donna angelo arrivata a salvare William, poi la cocente delusione, la rabbia, ma soprattutto lo stupore per la fine rapida del loro legame.

Allora William  si consola per il fallimento del suo matrimonio dedicandosi alla figlia Grace, con cui  instaura un rapporto di profonda fiducia e intimità, almeno fino a quando la moglie/strega non deciderà di allontanarli con la forza.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SULLA GENITORIALITA’

Educato all’obbedienza e alla passiva accettazione dei rigori dell’esistenza, automaticamente si sottomette alle violente intrusioni degli altri come se fosse ovvio chinare la testa e tirare avanti.

Si abitua alla disperazione: il fallimento coniugale, le ingiustizie sul lavoro, la perdita di persone care tra cui soprattutto la donna con cui vivrà un’intensa storia d’amore, perfino la malattia che lo colpirà senza chiedere permesso.

Nella sua acquiescenza troviamo tutta l’eredità della famiglia d’origine, agricoltori abituati a sopportare fame, privazioni, dolori; educato a sottomettersi senza neppure mostrare i segni della ribellione, causa una forma di orgoglio che lo porta a mostrarsi inespressivo, spento, quasi superficiale. 

l libro è essenziale, la scrittura precisa e diretta; chi legge piange per William, che invece non piange, si arrabbia al posto suo per i soprusi, spera che si ribelli, prima o poi, ma lui obbedisce, sempre e comunque, con quel distacco tipico di chi non crede di avere alternative.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: LETTERATURA

E’ un libro sul pudore e sull’obbedienza e su quell’orgoglio triste  che non permette di chiedere aiuto mai a nessuno e apre la strada alla solitudine.

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

BIBLIOGRAFIA: 

  • Williams, J. (2012), Stoner, Fazi Editore

Dormire meno per Navigare su Internet: Aumento di Problemi Psichici

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Le ore tolte al sonno per navigare in internet sembrano favorire l’insorgenza di patologie psichiche in età adulta.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: INSONNIA

Negli ultimi anni le ore di sonno si sono progressivamente ridotte. Ad essere coinvolti sono soprattutto i giovani i quali restano maggiormente incollati ad internet per navigare in rete o per chattare su social network come Facebook.

A conferma di ciò, una ricerca del 2009 di cybersentinel.co.uk aveva messo in luce che gli adolescenti inglesi navigavano sul Web per ben 31 ore, mentre un’analoga indagine dell’European Interactive Advertising Association (2011) ha rivelato che il 57% degli europei va regolarmente online e che l’82% dei giovani dai 16 ai 24 anni utilizza internet da 5 a 7 giorni a settimana.

Insonnia e paranoia. Se non dormo penso male
Articolo Consigliato: Insonnia e paranoia. Se non dormo penso male

Pertanto il dato più allarmante è che le ore tolte al sonno per navigare in internet sembrano favorire l’insorgenza di patologie psichiche in età adulta. Una ricerca dell’Università di Sidney (Australia), diretta dal professor Nicholas Glozier e pubblicata sulla rivista  “Sleep”, ha esaminato salute ed abitudini di 20.000 giovani, tra i 17 ed i 24 anni. L’indagine ha mostrato come i soggetti  che dormivano meno di 5 ore a notte avevano il triplo del rischio, rispetto a coloro che avevano un sonno regolare, di sviluppare problemi psicologici l’anno successivo: ogni ora di riposo persa era legata ad un 14% in più di pericolo per la salute. 

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA

Il Dott. Glozier, professore di psichiatria e medicina del sonno al sonno al Sydney’s-Woolcock Institute a al Brain and Mind Research Institute, dichiara che i disturbi del sonno, e in particolar modo l’insonnia, in seguito possono sviluppare patologie come l’ansia e depressione. 

Inoltre se è vero da un lato che molti ragazzi possono soffrire di insonnia come risultato di patologie precedenti, dall’altro ci sono adulti che tendono a soffrire di ansia e di problemi sonno-veglia che possono poi sfociare in patologie bipolari o in depressione grave.

Dormire poco non conduce soltanto a disturbi come la depressione per i giovani, ma potrebbe sfociare anche in problemi alimentari quali l’obesità. 

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Questa tesi è sostenuta da una ricerca condotta dal Brigham and Women’s Hospital and Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, che ha monitorato 240 ragazzi dai 16 ai 19 anni monitorando per alcuni giorni il loro sonno (mediante actigrafo, uno strumento che misura l’attività motoria) e indagando le loro abitudini alimentari, con particolare attenzione al consumo di snack.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Depressione & Uso di Internet negli Studenti Universitari

Dai risultati emerge che dormendo al di sotto delle otto ore regolari si consumano molti più snack e si ha la tendenza a mangiare ad orari insoliti, privilegiando molto spesso spuntini veloci e poco salutari. Tutto questo potrebbe essere dovuto, secondo la ricercatrice Susan Redline, a un’alterazione del metabolismo conseguente a una variazione nei livelli degli ormoni che regolano l’appetito come la leptina e la grelina, ma anche al semplice fatto che si hanno più opportunità per mangiare.

Tutto ciò porta ad un evidente aumento eccessivo del peso corporeo. Viceversa, per ogni ora in più di sonno, le calorie assunte attraverso gli  snack si riducono mediamente del 21%.

Infine, il Dott. Glozier afferma che  la correzione dell’equilibrio sonno-veglia, dell’insonnia e di altri disturbi può essere effettuata con una cura a base di luce (light therapy), ma anche con ormoni come la melatonina.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: INSONNIA – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Congresso SIPNEI: IV giornata studio – La relazione che cura

 

Dalla IV Giornata Studio – Spinei – Sessione Emilia Romagna:

LA RELAZIONE CHE CURA E LE RISPOSTE PSICOENDOCRINOIMMUNOLOGICHE

 

Locandina_La_relazione_che_cura. Congresso Sipnei - Emilia RomagnaLa relazione come strumento di cura è stato il leitmotiv della giornata, i vari contributi ne hanno portato alla luce aspetti e sfaccettature diverse analizzando il processo relazionale da un punto di vista psicologico, fisiologico, sociologico ed antropologico.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: CONGRESSI

A Ravenna il 27 ottobre si è tenuta la IV giornata studio della SIPNEI, sezione Emilia Romagna.  Tema della giornata “La relazione che cura e le risposte pscioendocrinoimmunologiche”.

Giornata davvero molto interessante non solo per gli pscicoterapeuti presenti in sala ma per tutte le figure socio sanitarie che si occupano in un qualche modo della cura e della presa in carico del paziente. La relazione come strumento di cura è stato il leitmotiv della giornata, i vari contributi ne hanno portato alla luce aspetti e sfaccettature diverse analizzando il processo relazionale da un punto di vista psicologico, fisiologico, sociologico ed antropologico.

LEGGI ANCHE: Convegno internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia: Intervista al Prof. Bottaccioli

La giornata si apre con una citazione di Benedetti (2012) “ un individuo che è capace di far terminare il dolore al semplice contatto con altri individui, ha certamente un vantaggio evolutivo, rispetto a coloro che non posseggono tale capacità

Particolarmente interessante per noi psicologi l’intervento del Dott. Franco Baldoni “il paradigma dell’attaccamento nella pratica terapeutica”. In primo luogo ha invitato i presenti a considerare i proprio pazienti non come malati ma come “non adattati”, vedendo il sintomo espresso dal paziente come qualcosa che svolge una funzione difensiva di fronte al pericolo.

Neurobiologia dell’Intersoggettivita’: Neuroni Specchio ed Empatia - SITCC 2012
Articolo Consigliato: Neurobiologia dell’Intersoggettivita’: Neuroni Specchio ed Empatia

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: TEORIA DELL’ATTACCAMENTO

Ritorna il concetto di attaccamento, modelli operativi interni e comportamento di attaccamento (ricerca di vicinanza e protesta per la separazione). Molto interessante il portare la teoria dell’attaccamento nella relazione terapeutica e come gli stili di attaccamento di terapeuta e paziente che si incontrano nella terapia possano modificarne l’efficacia. In particolare un clinico con attaccamento evitante avrà con pazienti con attaccamento A un approccio rigidamente tecnico, ipercognitivo, e le emozioni negative o gli aspetti problematici saranno aree spesso inesplorate.

Un clinico con attaccamento C e un paziente tendenzialmente preoccupato avranno una relazione basata su una forte enfasi emotiva, che però spesso si traduce in un eccesso di aspettativa e in una relazione terapeutica che finisce per essere simmetrica.

Un clinico con attaccamento A e un paziente con attaccamento C o un clinico con attaccamento C e un paziente con attaccamento A avranno una relazione parzialmente positiva ma dove possono essere frequenti le difficoltà di comprensione. Il buon terapeuta dovrebbe un attaccamento B, ancora meglio se un “B guadagnato”.

 Il Dott. Baldoni Chiude il suo intervento con i “consigli” di Bowlby per una buona relazione terapeutica:

  • Il terapeuta deve essere per il paziente una base sicura;
  • Deve aiutare il paziente a riconoscere le modalità attuali di entrare in relazione con l’altro;
  • Deve aiutare a riconoscere le modalità di relazione con il terapeuta e l’influenza che i modelli operativi interni hanno;
  • Deve aiutare a riconoscere come la propria infanzia influenzi il modo di percepire e agire oggi nel mondo;
  • Deve aiutare a riconoscere come le proprie rappresentazioni guidino spesso inconsapevolmente e oggi possano non risultare adeguate.

A seguire l’intervendo del Dott. Bottaccioli che si è concentrato sugli effetti neurobiologici delle relazioni di cura e di autocura. Partendo da una prospettiva storica e sociale di come il concetto di cura abbia cambiato nel tempo la propria forma partendo da Platone “anche il medico impara dal malato” passando per la medicina riduzionistica arrivando ai giorni nostri. Arricchisce il suo contributo portando dati di ricerca che evidenziano come la valutazione dell’evento malattia da parte del paziente cambi notevolmente il modo stesso di viverla. Come la mente sia un potente modulatore dell’evento traumatico, e come la valutazione del dolore possa effettivamente cambiare la percezione dello stimolo doloroso attivando le specifiche aree cerebrali.

La condivisione in psicoterapia. - Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.com
Articolo Consigliato: La condivisione in psicoterapia.

Introduce l’importanza della buona comunicazione di una diagnosi e di una buona comunicazione medico paziente parlando dell’effetto nocebo. Porta i dati di una recente ricerca effettuata su 242 medici di medicina generale di Parma e sui rispettivi pazienti 20961 da cui emerge che vi è una relazione significativa tra l’empatia del terapeuta e il rischio di complicanze metaboliche acute nei pazienti con malattia cronica, tanto maggiore e l’empatia tanto minore sarà il rischio.

Interessante i dati presentati di Groopman “Come pensano i medici” dove viene visto come le euristiche e gli errori cognitivi dei terapeuti possano influenzare il processo di cura. Il paziente può esserci simpatico o antipatico e questo può esporci a possibili bias di sottovalutazione o evitamento; il senso di fallimento del clinico può far rinunciare quando la malattia è difficile; la paura e l’ansia del dover essere sempre competenti può portare ad un troppo veloce etichettamento del sintomo presentato…

Chiude il suo intervento con una citazione di Gabbard la ricerca ha ripetutamente dimostrato che il ruolo della relazione terapeutica è più importante di ogni tecnica specifica nel produrre un out come terapeutico favorevole

 Altri nel corso della giornata gli interventi interessanti sulla presa in carico globale del paziente considerando la malattia come un fenomeno multifattoriale. Molti gli interventi più strettamente “medici” in cui vengono introdotti concetti come carico allostatico, comportamenti alimentari come prevenzione e cura, processi infiammatori. Viene anche trattato il tema dello stress come core patogenetico comune nello sviluppo di malattie croniche quali ipertensione, patologie cardiovascolari, patologie oncologiche e metaboliche. Rimane aperto e sempre in evoluzione il campo della ricerca in questo settore ed è con questa spinta rispetto a temi da approfondire e dati di ricerca da aspettare che lascio Ravenna. Con già in testa la prossima giornata a cui partecipare!

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICACONGRESSI

Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa con la Sua Noia

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione 

 

#16 – L’impalpabile Marisa con la Sua Noia

Storie di Terapie #16 – L’impalpabile Marisa. - Immagine: © Subbotina Anna - Fotolia.comDisturbo dipendente di personalità

Disturbo del comportamento alimentare

Non tutti i pazienti suscitano le stesse emozioni e, con l’esperienza, si impara a tener a freno anche emozioni negative con le quali ha ben poco a che vedere il paziente, quanto piuttosto il mondo interno del terapeuta.

Un’emozione che ho imparato a temere più delle altre è il disinteresse. Non la paura, la rabbia, il disgusto o la tristezza ma, più di tutte, è il disinteresse che si ammanta di noia a preavvisare di una terapia mal condotta. Se mi annoio, vuol dire che non sono riuscito ad andare oltre le apparenze; l’esterno degli uomini è spesso ripetitivo, scontato, banale. L’interno invece è sempre stupefacente, sorprendente nella sua grandezza o nella sua miseria. Ormai l’ho capito per cui, quando mi viene da dire tra me “questo non ha niente, cosa viene a fare a farmi perdere tempo”, mi fermo un attimo e penso che sono vittima dell’inganno del brutto anatroccolo, che devo guardare meglio alla sostanza di cui quella persona è fatta e non ai cliché con cui si presenta in società. La noia poi la si sperimenta quando ci si trova in un contesto in cui non si hanno scopi attivi; quando mi sento così,  mi sto valutando impotente di produrre qualsiasi cambiamento ed è prodromo di fallimento terapeutico. 

Marisa ha tutte le caratteristiche apparenti per suscitare il mio disinteresse. Non presenta sintomi clamorosi, ma solo una noia esistenziale, un infrangibile disinteresse per tutto e per tutti, esclusi i suoi due figli di cinque e otto  anni. Non lavora perché non ne ha bisogno, ma anche (se si oltrepassa la buccia) perché si ritiene incapace di qualsiasi attività. 

L'anoressia- Il corpo Invisibile. - Immagine: © deviantART - Fotolia.com
Articolo Consigliato: L’anoressia- Il corpo Invisibile

Viene da una famiglia ricca e persino nobile, estremamente attenta alla forma e all’apparenza, è amatissima dal marito verso il quale non prova nulla e che è stato solo un appoggio per liberarsi della sua famiglia d’origine.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

Dall’età di quattordici anni ha sviluppato un disturbo alimentare e, tuttora, abbuffa e vomita di nascosto da tutti. E’ normopeso. Circondata da servitori indiani e filippini, non fa nulla tutto il giorno, in  poche parole la si potrebbe definire un parassita dell’umanità, ricca, viziata e annoiata dal benessere. 

La accolgo con interesse solo per l’inviante, simpatico e per l’aspetto fisico. Tutto il resto è noia! L’inviante è suo cugino che è stato, in passato, mio paziente e che ricordo come persona brillante, intelligente e simpatica.  Siccome lui era davvero squinternato, immagino che anche la cugina debba esserlo e, dunque, mi impongo di prestarle attenzione. 

Inoltre, Marisa è una trentottenne alta un metro e ottantacinque di una bellezza scultorea. La immagino come la polena di una nave vichinga per la maestosità imponente del suo corpo e la decisione, solo apparente, con cui si impone. Ogni volta che entra nello studio, sento che devo esercitare autodisciplina per non soffermarmi ad ammirare le parti più esibite di quel corpo che, consapevole del suo effetto, si lascia ammirare. Lo stile non è mai volgare, piuttosto fintamente trascurato. Grandi maglioni contengono a stento un seno elegante, dove fanno bella mostra vivaci e stravaganti collane che tentano, senza bisogno, di richiamarvi l’attenzione. Marisa, che si accorge dell’effetto che fa, quasi a scusarsi, dice immediatamente che il seno è stato rifatto ben tre volte, a motivo di incredibili complicazioni operatorie. Le tuniche dall’aspetto monacale, con le quali nasconde il suo fisico slanciato e robusto da ragazza di buona famiglia che ha fatto sport (equitazione, polo, scherma, golf, tanto per intenderci) sin da piccolissima sono, come una tela di Fontana, squarciate su un lato fino a una dozzina di centimetri dall’inguine. 

Lo sguardo azzurro intenso, che compare e scompare dietro un siparietto oscillante di capelli biondi, racconta però una tristezza abissale. O meglio, qualcosa di peggio, la noia. Marisa non ha apparentemente problemi. Il marito la adora ed ha accettato di non essere ricambiato, chiedendo in cambio solo una notte di amore sfrenato, indotto dalla cocaina, con frequenza circa quindicinale. I figli vanno bene a scuola e promettono bene a golf, polo, equitazione e scherma. Il padre ha tolto il disturbo due anni fa, eliminando problemi di assistenza che un’incipiente demenza poteva far temere. La madre continua a rimproverarla per ogni cosa che fa e le dice che non combinerà mai nulla di buono, ma è un disco rotto a cui non bada più. Le sue giornate si dividono fra visite alle amiche con pettegolezzi incrociati, shopping militante e naufragio dolce, con dosi massicce di cannabis, che le consente di staccare il pensiero.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU DROGHE E ALLUCINOGENI

Quando non è staccato, il pensiero si avvita su due temi. 

Cosa penseranno gli altri di me è la domanda che si pone in presenza ed in assenza degli altri, durante tutto lo stato di veglia. Si badi bene che la questione cruciale non è cosa potrebbe avvenire nella relazione con l’altro, a seconda del giudizio più o meno positivo, ma chi sia effettivamente Marisa. Cerca nel giudizio dell’altro una risposta, che lei non ha, circa chi lei sia, cosa voglia, cosa tema. Il giudizio negativo cui è sin da piccola abituata non la spaventa quanto l’assenza del giudizio stesso, il  terrore è che lo specchio non rifletta nulla e venga certificata la sua inesistenza. 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

E qui si verifica il paradosso della bellezza: è evidente che si accorga di essere notata e oggetto di apprezzamenti positivi, indubbiamente ne è contenta, ma ciò non cambia niente, non le dà alcuna consistenza identitaria, non è lei ad essere notata ma il suo corpo. Anche quando l’interesse è rivolto ad altri aspetti di lei, scatta implacabile la maledizione della bellezza, “si interessano a me solo per il mio fisico e non si accorgono neppure che esisto”, un modo per non riconoscersi nessun valore che non sia quello estetico. 

L’altro pensiero costante è quello del cibo. Vive sotto la tirannia delle calorie, resiste a qualsiasi introduzione calorica e si impegna in defatiganti attività ginniche per eliminarle. La sua ha il connotato di una sfida mistica, una lotta contro il demonio e le sue tentazioni. Si esalta nella prospettiva della vittoria, ma basta un piccolo cedimento che tutta la linea di difesa crolla: i primi sono i dolci, la cioccolata e i crackers. Senza mezze misure, che tanto tutto è perduto, fa incursioni nella dispensa e stermina merendine dei figli e pacchi formato famiglia di biscotti. Quando la dispensa è svuotata, attacca nel frigo formaggi, salumi, maionese e ketchup. A questo punto, in uno stato confusionale che è quasi una trance,  prova un gonfiore opprimente allo stomaco che le ostacola il respiro. Solo raramente ha violato la porta del freezer e si è ritrovata seduta per terra, in cucina, a succhiare i bastoncini di merluzzo per ammorbidirli, prima di riuscire a spezzarli e ingoiarli in grossi pezzi. Fino circa ad un anno fa,  l’episodio si concludeva con Marisa avvolta in un plaid sul divano, tracimante di cibo e di sensi di colpa e con un po’ di preoccupazione all’idea di poter morire soffocata. 

Poi, in un giorno di particolari eccessi,  le avvenne di vomitare una slavina rosa sul tappeto della nonna. Fu terribile, perché rese impegnativo l’occultamento della sua abitudine di abbuffare. Da allora, per evitare il ripetersi dell’incidente, iniziò ad andare in bagno e scoprì che bastava inginocchiarsi di fronte alla tazza del cesso e immaginarsi due o tre cose, che aveva scoperto essere dei formidabili trigger, per vomitare tutto senza difficoltà e senza tracce, tranne un odore di acido che, sempre di più, stava impregnando il suo bagno. Naturalmente Marisa è perennemente a dieta e nessuno sospetta il problema, essendo il suo fisico ineccepibile. Immagina che nessuno potrebbe capirla e prova vergogna per quanto le capita. 

In verità, il fatto che nessuno si avveda di quanto le accada, è una sicurezza nel presente ma un dolore lontano.

 Seconda di tre figli, in mezzo a due fratelli geniali e di grande successo, è sempre stata trasparente agli occhi dei genitori. Ricorda che a nove anni andava a scuola con l’abbigliamento e il trucco che sarebbero stati eccessivi e volgari per una prostituta, senza che nessuno le dicesse nulla. Portava a casa numerosa refurtiva, sottratta ai compagni, con lo stesso risultato. Queste disattenzioni genitoriali le sono particolarmente evidenti e motivo di rabbia, ora che è lei ad essere nel ruolo di mamma. Racconta che già a quindici anni aveva l’aspetto fisico attuale e non stento ad immaginare l’effetto che poteva fare a compagni e professori. 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SULL’ATTACCAMENTO

Pur non studiando quasi nulla riuscì ad essere sempre promossa, in parte  per il cognome altisonante che portava e che i genitori facevano valere, al momento buono, in parte per le ripetizioni che alcuni professori si offrivano di darle gratuitamente. Faceva ripetizioni, infatti,  sempre dopo la disastrosa pagella del primo trimestre, con tutte le materie più importanti: il  Marucci, terrore dell’italiano e del latino, la riceveva due ore a settimana, il Grigno, settantenne scienziato matematico, con aspirazioni da Nobel e gobba da Quasimodo,  le dedicava un’ora al bisogno prima dei compiti in classe, il professore di scienze Gangemi,  trentottenne siciliano in trasferta a Roma senza la famiglia al seguito,  si recava addirittura a casa sua. 

Storie di terapia #12: La gelosia della bella Caterina. Immagine - © Antonio Gravante - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Storie di Terapia #12: La gelosia della bella Caterina.

I genitori non si chiesero mai perché i professori si prestassero a lavorare così assiduamente ed entusiasticamente gratis per una giovane sfaticata, indisponente e nient’affatto brillante; in verità le ripetizioni non erano affatto gratis, ma retribuite fantasiosamente senza il ricorso al denaro. Marisa ne ricavò la convinzione di poter ottenere tutto senza impegno e solo imparando a capire al volo e soddisfare i desideri degli altri. Ancora si chiede come i genitori non si interrogassero sul perché ogni anno la prima pagella fosse disastrosa, facendo scattare il bisogno delle ripetizioni, che poi conducevano ad una conclusione dell’anno brillante. Poi l’anno successivo tutto ricominciava da capo, come se a nulla fossero valse le ripetizioni. I professori erano particolarmente severi nel primo trimestre, per rendere necessarie le ripetizioni, a fine anno, invece, dovevano essere particolarmente generosi per compensare le insufficienze che comunque Marisa accumulava nelle materie a gestione femminile. Perdere per strada una tale studentessa sarebbe stato un vero peccato  per il Marucci, il Grigno e il Gangemi. 

Negli ultimi tre anni del liceo abortì clandestinamente due volte, senza dir nulla neppure ad Eugenio, che era il suo ragazzo di allora, una specie di bullo malavitoso che l’aveva scelta solo perché il capo deve avere la donna più bella come simbolo del suo potere. La invidiava e  la umiliava per il suo stato sociale e non era raro tornasse a casa con vistosi ematomi sul volto e la famiglia scherzava sulla sua proverbiale disattenzione per gli spigoli. 

Durante questo periodo Marisa sviluppò sia una notevole maestria nelle faccende di sesso, che le conferì prestigio nella comunità scolastica maschile e invidia malevola in quella femminile, sia una sorta di distaccata anestesia sessuale. Le rutilanti prestazioni da tigre del sesso andavano di pari passo ad un godimento tenue e spaventato, come un micetto inseguito da un mastino infuriato e bavoso. Tuttora, nelle defatiganti nottate in cui con l’ausilio della cocaina si paga con interessi da usura il debito coniugale, Marisa è una sorta di attrice non protagonista che assiste dal di fuori,  spinta dalla droga in una smania febbricitante alle esaltate evoluzioni del marito.

Il momento che più si connota di piacere è dopo le abbuffate: con lo stomaco in tensione, il cervello annebbiato dalla cannabis, il tepore della coperta in cui si avvolge, stringe forte il cuscino di velluto tra le cosce e dopo un po’ avverte pulsare in basso, al ritmo cardiaco, un gocciolante rapido godimento. 

Quando l’attuale marito ha bussato alla porta per chiederla per fidanzata e poi sposa, i genitori sono stati ben contenti di sistemare questa figlia senza qualità e senza speranze, che rappresentava solo un costo. Si aggiunga che Riccardo, assolutamente privo di qualsiasi tratto nobiliare e di raffinatezza, aveva però un’ottima attività ed un traboccante conto in banca e Marisa avrebbe avuto un futuro assicurato, nonostante la sua scontata  incapacità. Sapeva di non amare quell’uomo, ma iniziava anche a chiedersi se, semplicemente, non fosse proprio incapace di amare. Almeno era ricco e completamente al servizio della sua bellezza, che immaginava non sarebbe durata per sempre, meglio realizzare subito il dono di madre natura prima che si deteriori. 

Per sette anni si era rifiutata di fare figli, convinta di essere incapace a crescerli. Per tutto questo periodo aveva pensato seriamente al suicidio come ad una liberazione dalla noia. Non aveva mai progettato il gesto coscientemente, ma aveva preso sistematicamente ad utilizzare il phon immersa nella vasca, oppure a guidare sotto l’effetto di forti dosi di cannabis. 

Da quando è diventata madre ha accantonato l’idea, pur continuando ad augurarsi una morte improvvisa per cause naturali. 

 I figli sono stati voluti da Riccardo che ha deciso per entrambi e di questo lei lo ringrazia. Dopo i due allattamenti si è fatta ritoccare il seno.

Il principe dei chirurghi plastici le ha messo una protesi esplosa, in seguito, sotto la pressione della cintura di sicurezza. Sono seguite altre tre operazioni tutte incredibilmente con complicazioni, alla fine è residuata una orribile cicatrice che vorrebbe a tutti i costi mostrarmi. 

Con il principe dei chirurghi ha avuto una relazione iniziata un anno prima del nostro incontro e che è motivo di sofferenza: i due si scambiano messaggini di contenuto erotico, con lo scopo dichiarato dell’incentivo alla solitaria contemporanea masturbazione. Entrambi non sembrano interessati ad una traduzione  pratica delle fantasie, il  piano fantastico  preserva dai guai coniugali e soprattutto dalle delusioni.

Quando il principe non si fa vivo per parecchio tempo, lei sprofonda in quello stato di perdita dell’identità che conduce alle abbuffate. Lo stesso non avviene se è lei a interrompere i contatti; non  le serve averlo, non sa che farsene, le serve pensare che lui la voglia, la desideri, la pensi, uno  come lui che ha visto nude le donne più belle del mondo. 

Marisa sembra non avere desideri, né  interessi di alcun genere. 

Una sola volta ha tentato di lavorare come contabile nell’impresa del marito ma non capiva quello che doveva fare, anche perché non glielo avevano spiegato, certi che non ne sarebbe stata in grado. Tutto ciò la fa sentire sempre inferiore agli altri. 

Il circolo vizioso in cui è infilata è di questo tipo: siccome non so fare niente, non mi cimento in nessuna attività per evitare fallimenti. Non facendo nulla, non scopro se certe attività siano piacevoli, nè se siano alla mia portata. Non avere interessi e competenza è una ulteriore prova della mia incapacità. 

Insomma,  non è la mancanza di interessi e, dunque, di esperienze a generare il senso di inefficacia, ma esattamente il contrario, è l’inefficacia a generare la paralisi operativa. 

Andiamo a frugare nel suo lontano passato per scoprire se, prima dell’istaurarsi di questo sentimento di inefficacia, ci fossero state delle tendenze, passioni o talenti. In verità, seguo un’intuizione avuta dal primo incontro: Marisa sembra una natura artistica costretta a vivere un’esistenza non sua, una poderosa quercia mutilata e costretta a diventare un bonsai. Riemerge dalla prima infanzia una passione per il disegno e il piacere di giocare con il pongo e la plastilina. Questa sua passione fu considerata una perdita di tempo e, perciò,  la ragazza fu avviata allo sport ed allo studio della musica che, insieme alla danza, più si confaceva al suo status sociale. Nel ritornare ai primi anni della sua vita, anche attraverso foto di famiglia  utilizzate per ricostruire il genogramma, ci avvediamo dei volti tristi che i genitori mostrano sempre. E’ in questa occasione che Marisa rammenta tre gravi eventi luttuosi che hanno marcato la sua infanzia e io ne immagino immediatamente la connessione con il suo senso di indegnità e la colpa del sopravvissuto che le impedisce di godersi la vita, anche se Marisa non vede alcun nesso con la sua situazione di cronica insoddisfazione.

Superare la colpa di due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Superare la colpa di due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini

Il primo evento ha preceduto di qualche anno la sua nascita: un fratellino,  Vittorio, di tre anni,  fu ritrovato morto nel lettino la mattina del primo dell’anno. I genitori provarono un dolore straziante, aggravato dal senso di colpa per il fatto di aver bevuto troppo la sera di Capodanno;  immaginarono di non aver sentito i richiami del figlio agonizzante e di averlo lasciato morire da solo. Secondo Marisa la madre non si è più ripresa da questo lutto e, ancora oggi,  odia tutti i viventi per il solo fatto di essere tali.

 Il secondo evento è contemporaneo alla nascita di Marisa. La gravidanza, iniziata due anni e tre mesi dopo la morte di Vittorio, si presenta gemellare e tutto procede bene fino al sesto mese. Poi, lo sviluppo dei due feti diventa asimmetrico e, al momento della nascita la femmina, Marisa, è vivace e ben sviluppata, il maschietto nasce morto. Il ginecologo spiega che la bambina ha prevalso e battuto il fratello nella competizione per le risorse e per la vita. Per questo, Marisa si porta per cinque anni il soprannome de “la cannibala” : diviene una sorta di aneddoto familiare che lei abbia sempre fame e divori tutto ciò che ha intorno. 

Infine la morte del nonno. Quando Marisa compie sette anni, viene iscritta ad un corso pomeridiano di fisarmonica cui l’accompagna nonno Gino, sessantatreenne appena andato in pensione,  perché la custodia con dentro lo strumento è pesante. Nell’attraversare viale Manzoni, la bambina sfugge al nonno e si mette a correre, lui  avverte il pericolo del tram che sopraggiunge e balza in avanti, ce la fa a spingere Marisa oltre le rotaie e anche lui sembra in salvo ma il  tram ha montati sui fianchi dei portabandiera per il giorno successivo, ventuno aprile, Natale di Roma. Il supporto aggancia la cinghia della custodia della fisarmonica e trascina Gino per una dozzina di metri sotto le ruote. Quando il tranviere, disperato, riesce a fermare il mezzo Marisa, sdraiata sul nonno morente, è intrisa di sangue ma illesa. Il sacrificio del nonno non è stato inutile. E’ morto per lei. 

Nessuno l’ha mai apertamente rimproverata dell’accaduto, solamente anni dopo alcune critiche hanno iniziato a manifestarsi, sul suo modo di fare “troppo impulsivo”, sul suo “gettarsi in ogni situazione senza riflettere”. Marisa ha iniziato a pensare che doveva essere più calma, più prudente, ricorda che immaginava  che, se restava immobile dentro il letto, non avrebbe fatto danni.

Così passava moltissimi pomeriggi dopo il ritorno da scuola, con il solo conforto del cuscino stretto tra le gambe. Ora che li ricorda, quei pomeriggi assomigliano moltissimo ai suoi ritiri odierni sul divano e sotto il plaid, con le canne dopo le abbuffate.  

LEGGI ANCHE: Storie di Terapie #4 – Marco nelle Canne 

Lavorammo su questo tema di indegnità e colpa, che le aveva impedito di vivere una vita, la sua, che era costata tre vittime innocenti. Il proprio godimento era sentito come una offesa a quei morti, cui ogni piacere era precluso per sempre. Provammo a ristrutturare diversamente il modo di vedere la cosa: se lei viveva una vita bella, il loro sacrificio acquistava un senso e non era stato inutile,  lei aveva il dovere di vivere anche per loro.

Fece un sogno in cui  era incinta e cercava di raggiungere di notte, a piedi, l’ospedale ma si perdeva su degli oscuri sentieri di montagna. Stremata, credendo di non farcela, si sdraiava per terra. Un cerbiatto luminescente balzava fuori dalla sua vagina e le indicava la strada. Proseguiva ancora il cammino, ma le forze le mancavano di nuovo: accasciata per terra, partoriva di nuovo un essere informe che restava per terra al suo fianco. Per rianimarlo iniziava a plasmarlo e ne faceva una specie di piccolo bronzo di Riace, ma con un morso lo evirava perché voleva finalmente una femmina. 

Genericamente e con poca convinzione da parte mia, convenimmo che il sogno significava che era giunto per lei il momento di vivere e fare ciò che davvero voleva, che da lei sarebbero uscite cose belle e luminose.  Si trattava di un generico incoraggiamento a darsi da fare e prendere in mano la propria vita, che non era finita con quelle tre morti prima ancora di cominciare.  

Non so dunque a cosa attribuire quello che accadde nei successivi sei mesi. Marisa interruppe la relazione virtuale con il principe dei chirurghi e ne iniziò una, molto più concreta e soddisfacente, con il padre di un compagno di scuola del figlio maggiore, che conobbe al consiglio di classe dove si era candidata come rappresentante. Con questo amante sperimentò i suoi primi orgasmi senza cocaina e senza cuscino. 

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio

Frequentò un corso di arte orafa ed iniziò a fabbricare gioielli bizzarri, ma molto apprezzati, con materiali poveri. 

Iniziò a rifiutarsi ai cocaina party di Riccardo, che rimase molto sconcertato e attribuì il cambiamento al pessimo influsso della psicoterapia. 

La bulimia sembrò spostarsi dal cibo ai corsi ed alle attività, temetti persino un viraggio maniacale. Fece un corso di ikebana, un corso di teatro sperimentale e uno di sommelier e diventò volontaria di diverse associazioni.

Un piccolo sintomo era rimasto: alla sera,  quando riepilogava dentro di sé tutte le attività della giornata, doveva concludere l’elenco ripetendo trentatre volte, senza errori pena la ripetizione la formula,  “per la salute di Ginorio”, che capimmo essere la forma contratta di per Gino e per Vittorio. Nonostante la persistenza di Ginorio, quando ci rendemmo conto che aveva difficoltà a trovare un’ora per la psicoterapia tra tutti i suoi vari impegni, decidemmo di concludere. 

Tre anni dopo mi telefonò per dirmi che avrebbe gradito la mia partecipazione al suo nuovo matrimonio.  

Amore per Se Stessi e Amore per gli Altri: Quale Predomina?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Amore per se stessi e amore per gli altri: quale è più importante per gli uomini? Solitamente si preferisce proteggere se stessi o salvaguardare le persone care, come un figlio, il partner o il migliore amico? 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI 

La filosofia e le scienze del comportamento sociale hanno cercato di fornire una risposta a questi quesiti, dai tempi di Aristotele, filosofo che ha coniato i termini di “self-love” e “other love”. La ricerca psicologica, in seguito, ha evidenziato che le decisioni prese a proprio vantaggio o a beneficio degli altri possono essere espresse ad un livello implicito ed ad uno esplicito: nel primo caso, le decisioni sono automatiche, spontanee ed impulsive; nel secondo caso, invece, appaiono coscienti, riflessive e ragionevoli. 

Tra moglie e marito... modi diversi di dimostrarsi amore. - Immagine: © Sergej Khackimullin - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Tra moglie e marito… modi diversi di dimostrarsi amore

Partendo da questo presupposto, Gebauer, Goritz, Hofmann e Sedikides hanno proposto un “Modello Dissociativo della Preferenza” e hanno ipotizzato che le preferenze per se stessi o per gli altri possano essere differenti se espresse ad un livello implicito o esplicito: si presume che ad un livello esplicito si agisca soprattutto a vantaggio degli altri e questo atteggiamento risulterebbe adattivo da un punto di vista evolutivo, in quanto si dimostra agli altri di prendersi cura delle persone care, mentre ad un livello implicito prevarrebbero azioni a vantaggio personale e anche questo atteggiamento risulterebbe adattivo, in quanto favorirebbe l’auto-protezione nelle situazioni quotidiane, soprattutto in quelle in cui si è in pericolo ed è necessario proteggere la propria vita. 

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

Per validare questo modello, gli autori hanno condotto uno studio su un campione di 1519 volontari tedeschi di differente età, occupazione e situazione familiare. Inizialmente, i partecipanti hanno fornito il nome della persona, per la quale provano sentimenti molto positivi. In questa prima fase, solo 42 soggetti hanno risposto facendo riferimento a se stessi e sono stati esclusi dallo studio. Successivamente, ai partecipanti è stato chiesto di rispondere a delle domande per valutare a livello implicito ed esplicito le preferenze per se stessi o per gli altri.

 I risultati hanno validato il modello? Ebbene sì, i risultati sono in linea con le due ipotesi iniziali: i partecipanti, a livello esplicito, preferiscono favorire gli altri rispetto a se stessi, mentre implicitamente tendono a proteggere e favorire i propri interessi. Inoltre, le preferenze esplicite sono risultate più consistenti rispetto a quelle implicite, probabilmente per la diversa natura delle misure implicite ed esplicite. 

A questo punto potremmo chiederci: ci sono differenze rispetto alle preferenze esplicite ed implicite a seconda dell’età e del genere? E il proprio figlio, il partner e il migliore amico sono favoriti in egual misura o emergono delle differenze rispetto al ruolo che rivestono nella propria vita? La risposta alla prima domanda è negativa. Tutti gli individui, indipendentemente dall’età e dal genere, sembrerebbero agire nello stesso modo, preferendo se stessi a livello implicito e gli altri a livello esplicito.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Desiderio, Amore e Dipendenza: avviene nel cervello

Rispetto alla seconda domanda, invece, dallo studio è emerso che si cerca di proteggere e soddisfare maggiormente le preferenze del proprio figlio, rispetto a quelle del partner e del migliore amico. Da un punto di vista evolutivo, possiamo confermare che il desiderio di soddisfare i bisogni ed interessi personali diminuisce quando emergono quelli del proprio figlio, con il quale è presente anche un legame genetico, a differenza di quanto accade con il partner o col migliore amico. 

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

Ma quali sono i meccanismi che determinano questi comportamenti e in che misura il grado di familiarità con l’altro può essere decisivo? A voi le ipotesi per una futura ricerca.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Potere Trasformativo del Legame con la Famiglia d’origine

 

Il Potere Trasformativo del Legame con la Famiglia d’origine. - Immagine: © Andrija Markovic - Fotolia.comIl fenomeno della famiglia lunga, a dispetto della connotazione negativa spesso attribuitagli, rappresenta una sorta di “laboratorio” di sperimentazione di strategie e modalità di funzionamento.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA FAMIGLIA

Nella società attuale, la transizione  da parte del giovane adolescente alla vita adulta è una fase lunga rispetto al passato ed ai modelli di riferimento del passato. Il tempo lungo della transizione, in accordo con Cigoli(1995) diluisce il passaggio in numerose tappe e scelte, spesso reversibili: ciò che predomina non è la transizione bensì “il transitorio”. La transizione alla vita adulta comporta una doppia transizione; dalla fase adolescenziale a quella del giovane adulto e da quella del giovane adulto a quella piena dell’età adulta.

Quindi, rispetto al passato,  non si parla più di due transizioni forti, bensì la prima costituisce, quasi, una fase preparatoria (microtransizione) per la transizione vera e propria (macrotransizione) che il giovane compirà nella fase successiva.

Heavy Metal: gli effetti sull'umore - © log88off - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Heavy Metal e Adolescenti: gli effetti sull’umore

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

E’ un tempo dominato sia dalla ricchezza delle possibilità che dall’incertezza (Modell, Goodman, 1990; Sherrod, 1996). Il giovane si trova ad oggi a dover rispondere a molteplici richieste che provengono dai diversi ambiti a cui appartiene. I marcatori di passaggio di questa fase sono l’entrata nel mondo del lavoro, momento caratterizzato da difficoltà e insicurezza, e la costituzione di una nuova famiglia, impresa sempre più tardiva e in cui la famiglia d’origine riveste un ruolo preponderante.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI DELLA MONOGRAFIA PSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONELE: L’APPROCCIO TRIGENERAZIONELE

Infatti la famiglia ha oggi, più che in passato, un ruolo centrale nella vita dei giovani, perché si vive più a lungo in famiglia e perché sono spesso assenti figure di riferimento adulte esterne alla famiglia. Ricerche recenti, hanno posto in luce la restrizione ai soli genitori del network relazionale costituito dalle figure adulte di riferimento importanti per i tardo-adolescenti contemporanei (Lanz, Iafrate, Marta, Rosnati, 1999; Tonolo,1999).

La transizione adulta, quindi, è sempre più una impresa evolutiva congiunta di genitori e figli (Cigoli, 1985; Younni, Smollar, 1985; Sroufe, 1991; Scabini, 1995). A differenza del passato, essa non si configura più come una rottura di legami preesistenti quanto piuttosto come una trasformazione di questi (Younnis, 1983; Lutte, 1987; Collins, 1997). Questo rappresenta l’esito soprattutto di una rinegoziazione delle relazioni intergenerazionali (Grotevant, Cooper, 1983). Quindi, il fenomeno della famiglia lunga, a dispetto della connotazione negativa spesso attribuitagli, rappresenta una sorta di “laboratorio” di sperimentazione di strategie e modalità di funzionamento.  

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA FAMIGLIA

BIBLIOGRAFIA:

L’Età della Prima Esperienza Sessuale: Fattore Predittivo per le Relazioni Adulte?

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’età della prima esperienza sessuale in adolescenza è in grado di prevedere il futuro “romantico” dell’adulto,  come ad esempio la scelta di convivere o sposarsi, il numero di partner, e la soddisfazione di coppia?

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

La precocità delle esperienze sessuali degli adolescenti è una delle maggiori preoccupazioni dei genitori di tutte le epoche. Ma in che modo la precocità delle prime esperienze sessuali influisce sulle relazioni sentimentali in età adulta?

Psicologia dell'amore: 7 miliardi di persone nel mondo e un'unica anima gemella. Giusto? - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicologia dell’amore: 7 miliardi di persone nel mondo e un’unica anima gemella.

Lo psicologo ricercatore Paige Harden dell’Università del Texas  ha voluto verificare se l’età della prima esperienza sessuale in adolescenza è in grado di prevedere il futuro “romantico” dell’adulto,  come ad esempio la scelta di convivere o sposarsi, il numero di partner, e la soddisfazione di coppia.

Harden ha utilizzato i dati, forniti dal National Longitudinal Study on Adolescent Health, di 1659 coppie di fratelli dello stesso sesso che sono stati seguiti dai 16 ai 29 anni. Ogni fratello è stato classificato rispetto all’età della prima esperienza sessuale: precoce (meno di 15), nella norma (età 15-19), o in ritardo (di età superiore a 19). 

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: BAMBINI E ADOLESCENTI

Come previsto, il ritardo nella prima esperienza sessuale, paragonato a esperienze precoci o nella media, è risultato associato con un livello d’istruzione e reddito familiare più elevato, con minore probabilità di essere sposati e un minor numero di partner romantici in età adulta. Inoltre tra i partecipanti sposati o conviventi in età adulta, il ritardo nella prima esperienza sessuale è stato associato con livelli significativamente più bassi di insoddisfazione relazione in età adulta. La correlazione è rimasta uguale anche dopo avere considerato l’effetto di fattori genetici e ambientali e non poteva essere spiegata da differenze nei livelli di istruzione, reddito, o religione degli adulti, o da differenze nell’adolescenza relative al peso o all’essere attraenti.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: SESSO-SESSUALITA’

Questi risultati suggeriscono che l’età della prima esperienza sessuale è in grado di prevedere la qualità e la stabilità delle relazioni sentimentali in età adulta.

Anche se la ricerca si è spesso concentrata sulle conseguenze della prima esperienza sessuale, gli adolescenti precoci e quelli nella norma in questo studio sono stati in gran parte indistinguibili. I dati suggeriscono che un inizio precoce non è un fattore di “rischio”, ma che un inizio tardivo è un fattore di “protezione” nel plasmare il futuro romantico dell’adulto.

Secondo Harden, ci sono diversi possibili meccanismi che potrebbero spiegare questo rapporto: è possibile, ad esempio, che gli adolescenti “tardivi” siano influenzati da altri fattori come per esempio la sicurezza dell’attaccamento, questo potrebbe portarli ad essere più esigenti nella scelta di partner romantici e sessuali, con conseguente riluttanza ad entrare in relazioni intime a meno che non siano molto soddisfacenti.E ‘anche possibile che il ritardo nelle prime esperienze sessuali protegga dall’incontro con l’aggressività relazionale o la vittimizzazione che ha effetti negativi sulla qualità delle relazioni romantiche successive.

Storie di Terapie #6 – Sesso & Potere: il caso di Matteo. - Immagine: © Vladimyr Adadurov - Fotolia.com
Articolo consigliato: Storie di Terapie #6 – Sesso & Potere: il caso di Matteo.

Infine secondo Harden avere raggiunto una maturità cognitiva ed emotiva al momento delle prime relazioni sessuali è sicuramente un elemento in grado di favorire lo sviluppo di capacità relazionali efficaci, al contrario di quanto avviene nelle esperienze sessuali precoci dove l’apprendimento di comportamenti sessuali non è supportato da un impalcatura cognitiva ed emotiva adeguata.  

In studi precedenti, Harden e i suoi colleghi hanno però scoperto che i rapporti sessuali precoci non sempre sono associati a esiti negativi. Ad esempio, utilizzando lo stesso campione della National Longitudinal Study of Adolescent Health, hanno scoperto che gli adolescenti che hanno avuto il loro primo rapporto sessuale in età precoce, in particolare quelli che avevano una relazione sentimentale stabile, avevano anche minori problemi comportamentali delinquenziali. 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU: AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI – SESSO-SESSUALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Preparare alla Scuola Il Bambino con Autismo – Recensione

 

Recensione del Libro

Al-Ghani, K.I., & Kenward, L. (2012) Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo. Strategie e materiali per un ingresso sereno alla primaria. Trento: Edizioni Erickson.

 

Preparare alla Scuola il Bambino con Autismo - Recensione
Copertina del Libro

ACQUISTA IL LIBRO ONLINE

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Cominciamo male, il titolo del libro non mi piace! Da professionista che si occupa da anni di autismo avrei aperto più volentieri un testo intitolato “PREPARARE LA SCUOLA AL BAMBINO CON AUTISMO” dal momento che le difficoltà maggiori si riscontrano proprio nel preparare l’ambiente, il personale e, perchè no, anche i compagni di classe alle esigenze di un bambino autistico.

Il libro l’ho letto comunque perchè, per fortuna, di cose da imparare ce ne sono, visto che è stato scritto da una pedagogista e madre di un bambino autistico e da un’educatrice che si occupa prevalentemente dello sviluppo di risorse per alunni con disturbi dello spettro autistico.

Il libro è di fatto un manuale pratico, non ci sono riferimenti ad approcci teorici, anche se le soluzioni pratiche  proposte rientrano nell’ambito di strategie riconosciute efficaci dalla comunità scientifica. Si tratta soprattutto di interventi che utilizzano le immagini a supporto della verbalità e a sostegno della promozione di comportamenti adeguati.

LEGGI GLI ARTICOLI SULL’AUTISMO

Ecco a grandi linee le buone idee proposte nei vari capitoli del libro.

Il primo capitolo fa il suo esordio ricordando che i genitori sono i maggiori esperti dei propri figli e, in quanto talidovrebbero fornire un profilo dettagliato del bambino e non delegare questo aspetto alla documentazione del neuropsichiatra, altrettanto preziosa, ma non in grado di fornire dati di quotidiana importanza quali i giochi preferiti o le fonti di disturbo sensoriale.

Report dal 3° CONVEGNO INTERNAZIONALE AUTISMI LE NOVITA’ SU DIAGNOSI, INTERVENTO E QUALITA’ DELLA VITA
Articolo Consigliato: Report dal 3° Convegno Internazionale Autismi. Le Novità’ Su Diagnosi, Intervento e Qualità Della Vita

Partendo dal presupposto che un approccio visivo e strutturato della giornata scolastica possa più o meno aiutare ogni bambino autistico a scuola, è bene che tale strategia venga utilizzata anche a casa per garantire continuità e coerenza con quanto proposto dall’ambiente scolastico. Si chiarisce così da subito l’esigenza di una stretta alleanza tra scuola e famiglia come presupposto ad una buona integrazione scolastica del bambino.

In linea con questa premessa, nel secondo capitolo le autrici invitano i genitori  alla costruzione de “il libro per iniziare la scuola”, una raccolta di immagini che ritraggono il nuovo ambiente scolastico e le persone che ne faranno parte.

LEGGI GLI ARTICOLI SULLA GENITORIALITA’

Si suggerisce, se possibile, di far scattare le fotografie necessarie al bambino durante le visite a scuola che precedono il suo ingresso per poi completare l’opera una volta che la sua frequenza si fa regolare. Nel capitolo 7 si sottolinea l’esigenza di estendere, con il consenso dei genitori, le informazioni del figlio anche a tutto il personale scolastico non docente così come agli altri alunni. Non è chiaro però quale figura professionale, e incaricata da chi, debba farsi carico di tali interventi.

Nel capitolo 3, dedicato alle procedure di inserimento, le cose si fanno interessanti poichè il suggerimento è quello di permettere al bambino delle visite nella futura scuola subito dopo l’iscrizione e di incontrare tutte le persone che avranno un ruolo nella sua vita scolastica. È proprio in tale occasione che si provvederebbe alla costruzione del libro di cui ho accennato prima. Peccato che “da noi” tale prassi sia tutt’altro che consolidata. Il professionista privato e ancor più i genitori da soli  fanno molta fatica ad ottenere dalla scuola il permesso ad attuare un progetto di inserimento scolastico che consenta a loro e al bambino di visitare con largo anticipo gli ambienti scolastici e fare la conoscenza delle insegnanti fuori dall’orario delle lezioni non è cosa da dare per scontata, per non parlare poi dell’impossibilità di conoscere l’insegnante di sostegno che spesso arriva in classe quando ormai il periodo critico dei primi giorni di scuola è già storia passata.

 Il capitolo 4 scende nel dettaglio metodologico e offre una serie di immagini fotocopiabili utili a organizzare svariati supporti visivi quali l’orario visivo della giornata scolastica, etichette visive che descrivono gli ambienti, tabelle motivazionali e molto altro, secondo le esigenze specifiche del minore. Ancora una volta non viene esplicitata la figura professionale che dovrebbe occuparsi di introdurre tali supporti a scuola e di spiegarne ragioni e modalità di utilizzo al personale scolastico. In Italia non è certo possibile dare per scontato che gli insegnanti posseggano già la formazione necessaria per attuare tale intervento.

Anche il capitolo 10 si occupa di supporti visivi presentando lo strumento delle storie descrittive, utili anch’esse a sostenere la comprensione del bambino rispetto a ciò che avviene nei diversi ambienti e momenti scolastici.

Nel quinto capitolo viene descritto invece lo strumento dei “treni per cambiare”, utile ad anticipare e spiegare con un linguaggio chiaro e un supporto visivo, i tanti cambiamenti che avvengono nel corso della giornata scolastica, mentre il “diario delle cose ben fatte” (capitolo 6)  rivolge l’attenzione all’incremento dell’autostima nei bambini con Disturbi dello Spettro Autistico e potrebbe, a mio parere, rivelarsi utile anche per promuovere negli insegnanti un atteggiamento di rinforzo dei comportamenti positivi e sfavorire l’etichettamento di questi alunni attraverso i loro comportamenti giudicati bizzari o inadeguati.

LEGGI GLI ARTICOLI SU: BAMBINI

Molto utile anche il questionario presentato nel capitolo 8 rivolto agli insegnanti. Soltanto una risposta positiva a tutte le domande potrebbe infatti garantire il contesto più idoneo per la prevenzione di eventuali problemi comportamentali.

Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca?
Articolo consigliato: Giornata Mondiale dell’ Autismo. A che punto è la ricerca?

Il capitolo 9 ricorda agli insegnanti specializzati che la specificità dell’autismo richiede accorgimenti educativi particolari non chiarendo però a sufficienza che ogni bambino con autismo ha delle caratteristiche personali che richiedono sempre un intervento estremamente individualizzato a prescindere dalla diagnosi. Le stesse “quattro R” (Routine, Rituali, Ripetizione, Risorse), che vengono indicate come bisogno basilare di questi bambini, potrebbero paradossalmente ostacolare l’apprendimento di alcuni bambini autistici. Un eccessivo ancoraggio alla routine, potrebbe, per esempio, causare panico qualora si presentassero inevitabili imprevisti, così come potrebbe disincentivare il bambino dalla comunicazione di esigenze diverse.

L’ultimo capitolo è dedicato alla descrizione di situazioni problematiche tipiche che i docenti si possono trovare a dover affrontare (il momento della ricreazione, il cambiamento di personale, la partecipazione alle attività sportive,…). Per ognuno di tali scenari viene suggerito come far uso degli strumenti presentati nelle pagine precedenti, il materiale occorrente e i possibili problemi da affrontare in ogni situazione.

Indubbiamente un libro molto pratico, alla portata di tutti, ma la sfida più grande, nel contesto della scuola italiana, rimane a mio avviso il consolidamento di una buona prassi di inserimento scolastico di questi bambini, che costituisce il primo passo per la garanzia del diritto di integrazione di tutti gli alunni. La mia impressione è che la preoccupazione di come affrontare questo momento delicato sia quasi interamente sulle spalle dei genitori, che da soli faticano a promuovere strategie utili come quelle descritte in questo testo.

 

ACQUISTA IL LIBRO ONLINE

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

LEGGI GLI ARTICOLI SU: AUTISMO – GENITORIALITA’ – BAMBINI

 

BIBLIOGRAFIA:

Prevenire L’uso di Droga: il Ruolo dei Genitori

FLASH NEWS 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La ricerca finanziata dal NIDA mostra come i genitori abbiano un ruolo fondamentale nel prevenire l’uso di droga nei loro figli.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

All’interno del National Substance Abuse Prevention Month, il National Institute on Drug Abuse (NIDA) ha lanciato Family Checkup, una risorsa online che aiuta i genitori ad equipaggiarsi con competenze di base necessarie alla lotta contro la droga. 

LEGGI TUTTO GLI ARTICOLI SU DROGHE E ALLUCINOGENI

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo Consigliato: Cannabis nell’Adolescenza & Deficit Cognitivi Permanenti

 La ricerca finanziata dal NIDA mostra come i genitori abbiano un ruolo fondamentale nel prevenire l’uso di droga nei loro figli. Il questionario pone domande ai genitori su come interagiscono con i loro figli, mettendo in evidenza le capacità genitoriali che sono importanti nel prevenire l’inizio o la progressione del consumo di droga tra i giovani.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

Lo strumento include video e altre informazioni, mostrando esempi positivi e negativi delle tecniche di genitorialità. Gli strumenti sono stati sviluppati da Child and Family Center della University of Oregon.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: CANNABIS

La ricerca dimostra che le tecniche genitoriali adeguate possono anche alterare la suscettibilità genetica di un bambino di disturbi psichiatrici. 

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SU GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

LEGGI TUTTO GLI ARTICOLI SU DROGHE E ALLUCINOGENI

 

 

Per saperne di più: http://www.drugabuse.gov/family-checkup

Prevenire o curare? Tipi e modalità di intervento in ambito clinico

di Liria Valenti

Prevenire o curare? Tipi e modalità di intervento in ambito clinico. - Immagine: © Yabresse - Fotolia.comPrevenire o Curare: Modalità di Intervento in Ambito Clinico. I tre distinti livelli di prevenzione, con obiettivi e destinatari differenti.

LEGGI GLI ARTICOLI SU PSICOLOGIA & PSICHIATRIA PUBBLICHE 

La prevenzione mira ad anticipare l’azione negativa esercitata da eventuali fattori di rischio sullo sviluppo dell’individuo, con lo scopo di evitare l’insorgenza di comportamenti disadattivi o patologici. Generalmente, vengono distinti tre livelli di prevenzione – primario, secondario e terziario – ad ognuno dei quali corrispondono obiettivi, caratteristiche, metodi e destinatari differenti.

Attraverso la programmazione e l’attuazione di interventi di prevenzione primaria si vogliono individuare e promuovere le risorse personali ed ambientali, la cui azione può tutelare la salute ed il benessere del singolo e della famiglia.

ProYouth
Articolo consigliato: ProYouth: un Progetto per la Prevenzione dei Disturbi Alimentari online

Nello specifico, la prevenzione primaria favorisce percorsi evolutivi resilienti, mediante la promozione di competenze specifiche, quali, ad esempio, quelle comunicative, socio-relazionali e emotivo-affettive. In sostanza, si tratta di interventi proattivi, rivolti a tutti gli individui, e, più precisamente, a quella fascia della popolazione che, seppur caratterizzata da una bassa probabilità di psicopatologia, può potenzialmente manifestare un disagio. 

In ambito clinico, un esempio di prevenzione primaria può essere rappresentato da un ciclo di incontri informativi relativo alle modalità di comunicazione efficace, che promuove nei partecipanti l’apprendimento e l’attivazione di competenze specifiche, con il fine di prevenire possibili disturbi della comunicazione nell’ambito delle relazioni interpersonali.

 

 Il ricorso ad interventi di prevenzione secondaria si rivela necessario, invece, nei casi in cui viene precocemente identificata o diagnosticata una condotta sintomatica, ma prima che questa degeneri in un disturbo psichiatrico. In quest’ottica, la prevenzione secondaria mira a riconoscere gli indici predittivi del disagio, e a progettare interventi finalizzati a ridurre l’impatto dei fattori di rischio sullo sviluppo dell’individuo. Tale livello di prevenzione può essere definito para-attivo, in quanto avviene accanto ad attività proattive, tipiche della prevenzione primaria, e ad altre reattive, caratteristiche, invece, della prevenzione terziaria. Un esempio concreto di questo tipo di intervento è rappresentato da progetti rivolti ad adolescenti devianti, e finalizzati, da un lato, a promuovere la conoscenza delle abilità prosociali e dei relativi comportamenti, e dall’altro, a favorire la consapevolezza della propria condotta e a guidare l’apprendimento delle nuove conoscenze.

La prevenzione terziaria, infine, mira alla riabilitazione di individui problematici, il cui disagio richiede un intervento terapeutico specifico. Il trattamento dei disturbi d’ansia, depressivi, alimentari e di tutti gli altri quadri psicopatologici, rientra in questo livello di prevenzione.

LEGGI GLI ARTICOLI SU PSICOLOGIA & PSICHIATRIA PUBBLICHE

LEGGI GLI ARTICOLI SU: DISTURBI D’ANSIADISTURBI DELL’UMOREDISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

 

BIBLIOGRAFIA:

Lettera a uno Studente – Psicoterapia: la Persona e la Scienza

 

Psicoterapia- la Persona e la Scienza - Lettera a uno Studente. - Immagine:© alphaspirit - Fotolia.com

Credo che fare scienza non significhi ridurre l’essere umano a un numero. Fare scienza equivale a scegliere un percorso di pensiero critico che procede per approssimazioni successive, formula ipotesi (anche creative), trova il modo di metterle in discussione, accetta di affermare teorie entro i limiti di ciò che può misurare.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA TERAPIA METACOGNITIVA

Mi capita qualche volta di ricevere lettere di studenti appassionati a questioni teoriche e tecniche della psicoterapia. Talvolta mettono in evidenzia controversie centrali per il mondo scientifico internazionale, e nutrono la (vana) speranza che il sottoscritto possa avere una risposta  definitiva. Questa è una risposta, opportunamente rielaborata, a uno studente che si interroga sulla terapia metacognitiva e cognitivo-comportamentale, chiedendosi se non sia poco attenta alla persona, critica professata da alcuni suoi insegnanti.

 

Gentile studente,

Ruminazione & Depressione: La via Metacognitiva di Wells e colleghi- Congresso Terapia Metacognitiva per la depressione. Conduce il Dott. Costas Papageorgiou. - Immagine: © 2012 Alessandro Boldrini
Articolo Consigliato: Ruminazione & Depressione: La via Metacognitiva di Wells e colleghi

mi trovo in viaggio e come spesso accade, questo è uno di quei momenti di pausa in cui posso liberamente fermarmi a scrivere, per questa ragione colgo con sincero interesse i suoi quesiti. Si pone domande e questa è una buona prassi per i giovani studenti che entrano, spesso da uno spioncino, nel caotico e vasto mondo della psicologia clinica e delle opinioni che lo attraversano.

La questione che solleva è complessa per essere riassunta in una lettera. Ci sono molte prospettive in campo e offrono esiti differenti. E le certezze sono spesso cibo avariato. In questo contesto è facile per gli amanti dell’ermeneutica criticare gli approcci scientifici di scarsa attenzione alla persona, così come è facile per le correnti cognitivo-comportamentali standard o di terza generazione tacciare i primi di psicosofia e scarsa attenzione alla tecnica e ai risultati che il progresso della scienza ci offre. In questa lotta ci si mette l’ambiguità della nostra disciplina che non è facilmente declinabile in misure assolute.

Credo che fare scienza non significhi ridurre l’essere umano a un numero. Fare scienza equivale a scegliere un percorso di pensiero critico che procede per approssimazioni successive, formula ipotesi (anche creative), trova il modo di metterle in discussione, accetta di affermare teorie entro i limiti di ciò che può misurare. Quest’ultimo aspetto non significa che dimentichi tutto il resto. E veniamo al confronto sul tema che lei propone. Quando si guarda alla scienza occorre sempre leggere entro quali contesti e criteri sono validi gli assunti che vengono proposti.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SULLA TERPIA METACOGNITIVA-INTERPERSONALE

La terapia metacognitiva (MCT, Wells, 2008), è una terapia tecnica e meno attenta ai contenuti rispetto altri approcci. Anzi sostiene che un’eccessiva attenzione ai contenuti personali possa essere uno dei fattori di mantenimento dei disturbi emotivi attraverso il supporto a una forma di pensiero interpretativo, vago e astratto come la ruminazione mentale,  le cui conseguenze deleterie hanno ormai consolidato sostegno scientifico (es: Caselli et al., 2011). La MCT ha lo scopo ‘dichiarato’ di ottenere il massimo risultato possibile con il minor costo (es: numero di sedute) colpendo le componenti più nucleari del disturbo psicologico. I risultati sono molto promettenti (van der Heiden, Muris & van der Molen, 2012) ovviamente in rapporto a pazienti selezionati e peculiari disturbi psicologici.

Ovvio, una critica può essere “la realtà dei pazienti è molto diversa e multisfaccettata di quelle di un trial clinico”. Vero. Però si può anche sostenere che, a fronte di una realtà multisfaccettata, sia preferibile e parsimonioso (per non dire etico) adattare in modo flessibile un approccio che almeno su una selezione di pazienti ha supporto di evidenza.Soprattutto se l’alternativa diventa inventarsi un nuovo approccio, magari più attento ai contenuti, che però non ha alcun credito se non quello dell’autorità di chi lo ha promulgato. Poi, vero è che i trial clinici randomizzati hanno dei limiti ma innanzi a questi considero preferibile cercare di migliorarli ‘per approssimazioni successive’ piuttosto che rifiutare il pensiero critico o la verifica del campo. Questa scelta è più dura, più frustrante, più lenta. Forse non compirà passi rivoluzionari nel corso di una vita professionale. Ma grazie a questa scelta oggi abbiamo approcci in grado di offrire sostegno a persone con disturbi psicologici con un buon grado di confidenza rispetto i risultati che si possono ottenere.

Antonio Semerari: Intervista sulla metacognizione e risposte a Giancarlo Dimaggio
Articolo Consigliato: Antonio Semerari: Intervista sulla metacognizione e risposte a Giancarlo Dimaggio

Spesso avverto nei dibattiti di psicologia clinica un profumo di romanticismo adolescenziale che può strizzare troppo l’occhio alla filosofia o volgere le spalle alla sofferenza e alla cura. La maturità della psicologia e della psicoterapia la vedo nel cercare il romanticismo attraverso il rigore della scienza. Sorrido quando ascolto gente che professa la psicoterapia come arte, come se l’arte non si fondasse profondamente nella disciplina, come se grandi pittori creativi non fossero prima di tutto assoluti padroni delle tecniche.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: PSICOLOGIA E FILOSOFIA

Ma basta divagare e torniamo al punto. La terapia metacognitiva è l’applicazione di una teoria validata scientificamente a partire dagli anni ’90. Da questi cardini teorici (il modello S-REF, l’uso dell’esperienza per modificare le conoscenze e il controllo sui propri piani mentali) è nata una terapia disegnata (allo stato attuale) per i disturbi d’ansia e la depressione.Visto che questi disturbi emotivi possono essere trattati efficacemente in breve tempo, non emerge la necessità di maggiore spesa, maggior durata o minor garanzia di efficacia.

LEGGI ANCHE GLI ARTICOLI SU: METACOGNIZIONE

Ciò non vieta che una volta affrontato il sintomo nella modalità più efficace a disposizione si possano aggiungere moduli clinici di intervento su altri aspetti più ampi di vulnerabilità (con radici evolutive e prospettive esistenziali) che abbiano in sé maggiore libertà di esplorazione per la coppia terapeutica. Ciò è vero soprattutto nel contesto privato, certamente più disponibile alla condivisione e definizione di un percorso di trattamento e dei suoi obiettivi. Poi esistono i casi complessi, i disturbi di personalità, i pazienti gravi e difficili che non hanno consapevolezza piena del loro problema. 

Non credo che si risolva tutto dicendo ‘son tutti pazienti gravi, quelli semplici esistono solo nelle ricerche’ perché non è così, è una scusa troppo facile per non migliorarsi, non mettersi in discussione, non usare la fatica del pensiero critico. Però è vero. Ci sono anche quelli. E per quelli io credo che (1) non si possa prescindere dalla storia di vita e da una comprensione della dinamica evolutiva del dolore emotivo e dei piani per regolarlo, (2) la terapia metacognitiva potrebbe svilupparsi per applicare gli stessi cardini teorici in nuovi interventi adatti a questi pazienti, (3) esistono anche altri approcci che hanno già sostegno scientifico per intervenire su pazienti di questo tipo, la MCT non può e non deve essere la risposta onnicomprensiva. Non può essere questo l’obiettivo della scienza psicoterapeutica.

Il consiglio che posso dare? Un’opinione personale: rimboccarsi romanticamente le maniche e scavare nel fango della scienza perché in fondo, lo dobbiamo ai nostri pazienti.

Leggerò volentieri le sue considerazioni.

Cari saluti,

Gabriele Caselli

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI SULLA TERAPIA METACOGNITIVA

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Neurobiologia dell’Intersoggettivita’: Neuroni Specchio ed Empatia

 

Dal simposio SITCC 2012

NEUROBIOLOGIA DELL’INTERSOGGETTIVITA’:

come la conoscenza orienta la Terapia Cognitiva

Carmelo Giovanni La Mela, Sabrina Masetti, Barbara Viviani, Linda Tarantino

 

Neurobiologia dell’Intersoggettivita’: Neuroni Specchio ed Empatia - SITCC 2012

I neuroni specchio rappresentano un punto di svolta per la comprensione del funzionamento interpersonale e dei fondamenti della intersoggettività favorendo lo sviluppo delle capacità empatiche.

Le numerose e recenti acquisizioni che provengono dalle ricerche nel campo delle neuroscienze impongono una riflessione su come queste siano integrabili con il modello teorico del cognitivismo, alla ricerca di un supporto biologicamente fondato al modello cognitivo di funzionamento mentale e di conseguenza ad una coerente teoria della cura.

ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA

Il contributo della psicologia cognitiva a questa riflessione è quello di ipotizzare dei modelli psicologici che aiutino ad interpretare i dati che provengono dalle neuroscienze così come il contributo delle neuroscienze è quello di fornire un substrato biologico a supporto di tali modelli.

SPR-Salerno-2012
Articolo consigliato: SPR: Il congresso italiano della Society for Psychotherapy Research

A questa prospettiva di integrazione porta un contributo fondamentale il dato che lo sviluppo e l’organizzazione funzionale del cervello umano si modula, sin dalla nascita e lungo tutto l’arco della vita, attraverso un continuo rapporto di influenza reciproca tra il patrimonio geneticamente determinato e l’ambiente in cui il soggetto vive, rappresentato dalle sue esperienze sociali e relazionali.

Questo presupposto supera la contrapposizione tra una posizione riduzionista neuroscientifica, che vede nella espressività genica il fondamento del funzionamento mentale, e modelli psicologici che indicano invece nella unicità e insondabilità individuale la natura profonda dell’essere umano.

Sempre più evidenti sono i dati a conferma che l’ambiente relazionale, in cui il bambino cresce, è in grado di interferire, con tempi e modi diversi, sul processo di neurogenesi, differenziazione, arborizzazione, apoptosi e sinaptogenesi.

ARTICOLI DI NEUROSCIENZE

Una delle scoperte della ricerca neuroscientifica più importanti per le implicazioni che può avere per comprendere meglio il funzionamento mentale degli esseri umani riguarda l’identificazione di una particolare popolazione di neuroni definiti “neuroni specchio”.

L’attività di questi neuroni e dei circuiti neuronali a loro collegati sono alla base del fenomeno dell’empatia.

 E’ da questa prospettiva che i neuroni specchio rappresentano a nostro avviso un punto di svolta per la comprensione del funzionamento interpersonale e dei fondamenti della intersoggettività favorendo lo sviluppo delle capacità empatiche.

La scoperta dei neuroni specchio, delle loro funzioni, dei circuiti ad essi correlati, e dei fattori che influenzano la loro formazione e sviluppo, dà delle risposte fondamentali al problema della comprensione della mente dell’altro e alla modalità con la quale avviene l’integrazione di informazioni emotive e cognitive in rappresentazioni di sé, che permettono la modulazione e la regolazione degli stati emotivi, favorendo e modulando in maniera efficace il comportamento sociale.

Queste nuove acquisizioni rappresentano i presupposti per la definizione di interventi terapeutici che mirino ad attivare o riattivare integrazioni e associazioni tra aree cerebrali.

ARTICOLI SU: NEURONI SPECCHIO

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

Durante l’ultimo Congresso SITCC che si è svolto a Roma, si è tenuto il Simposio dal titolo “Neurobiologia dell’intersoggettività” che ha affrontato queste tematiche. Si è cercato di approfondire questi temi e illustrare i principali dati provenienti da aree diverse della ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive sociali.

Le quattro presentazioni si sono focalizzate sulle scoperte relative ai neuroni specchio e ai circuiti neuronali che evidenziano un loro coinvolgimento:

(a) sulla comprensione degli altri

(b) sulla conoscenza di sé

(c) sulla capacità di regolazione delle emozioni

(d) e sui processi che avvengono nell’interfaccia tra la comprensione di sé e degli altri.

Nello specifico, l’intervento introduttivo del dr. La Mela si è concentrato sulle evidenze sperimentali che confermano l’importanza dell’intersoggettività nella costruzione neuroanatomica e funzionale della mente e quindi come fattore fondamentale e imprescindibile per la comprensione del funzionamento mentale e per il trattamento dei disturbi mentali.

Scuola Cognitiva Firenze - Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-ComportamentaleLa relazione della dr.ssa Masetti ci ha fornito una prima evidenza scientifica di tali aspetti, mostrando, attraverso l’illustrazione di recenti esperimenti, come i neuroni specchio siano implicati nel fenomeno dell’empatia. Nello specifico è stato illustrato, partendo dalla conosciuta ipotesi del feedback facciale, la scoperta del circuito neuronale dell’empatia che vede appunto coinvolti i neuroni specchio.

A seguire la dr.ssa Viviani ha illustrato come i neuroni specchio, oltre a rappresentare la radice neurobiologica dell’empatia, rappresentino anche la base biologica della relazione di accudimento/attaccamento tra madre e bambino e come quindi la rappresentazione di sé nasca dall’intersoggettività.

ARTICOLI SU: ATTACCAMENTO – ACCUDIMENTO

La dr.ssa Tarantino infine, a partire da queste osservazioni, si è focalizzata su come tali acquisizioni provenienti da neurobiologia, neuroetologia e neuropsicologia possano orientare la terapia cognitiva, sia nelle sue tecniche (come l’alfabetizzazione emotiva o strategie di mastery volte alla modulazione di stati problematici), sia nel setting, sia nel programmare il timing degli interventi.

ARTICOLI SU: NEUROPSICOLOGIA

 

In particolare la relazione terapeutica diventa non solo contesto ma uno specifico strumento di terapia, volto a creare le basI biologiche, i neuroni specchio, necessarie per poi costruire una possibile rappresentazione di sé e dell’altro, abilità metacognitive ed empatiche, un alfabeto emotivo condiviso e comportanti sociali congrui con l’emozione percepita in sé e nell’altro.

ARTICOLI SU: ALLEANZA TERAPEUTICA 

TUTTI GLI ARTICOLI DAL CONGRESSO SITCC 2012 DI ROMA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

cancel