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Disturbo borderline di personalità e comportamenti sessuali a rischio

Le evidenze scientifiche mostrano come le adolescenti con sintomi psichiatrici tendano maggiormente ad assumere comportamenti sessualmente rischiosi. Il disturbo borderline di personalità (BPD) è davvero caratterizzato da una maggior presenza di questi agiti?

 

Quando si parla di comportamenti sessualmente rischiosi si intende una serie di condotte sessuali che sono associate ad un alto numero di conseguenze negative per l’individuo. Nello specifico, l’età precoce del primo rapporto, così come un ampio numero di partners sessuali e il non utilizzo del condom, possono causare infezioni sessualmente trasmissibili ed aumentare la probabilità di avere gravidanze indesiderate (Basen-Engquist, 1992).

Le evidenze scientifiche sostengono che le adolescenti con sintomi psichiatrici sono maggiormente soggette ad assumere questi comportamenti (Anatale & Kelly, 2015; Brown et al., 2010; Cunningham et al., 2017) e che il disturbo borderline di personalità (BPD) risulta essere quello che presenta maggiormente questi comportamenti a rischio (American Psychiatric Association, 2013).

Infatti, questo disturbo è caratterizzato da relazioni interpersonali ed un’immagine di Sé instabili, nonché instabilità affettiva e presenza di comportamento impulsivo autolesionista. La forte impulsività, i soverchianti sentimenti di vuoto e l’elevata paura dell’abbandono sono le caratteristiche che maggiormente spiegano le condotte sessualmente a rischio di questi soggetti (ibidem) e che hanno spinto numerosi ricercatori ad approfondire la relazione tra questi aspetti; sulla scia dei precedenti risultati, il presente studio (Penner et al., 2019) intende indagare le differenze tra adolescenti femmine con e senza BPD in termini di comportamenti sessualmente a rischio, oltre ad esaminare gli atteggiamenti personali, il rispetto delle norme e l’autoefficacia individuale.

  123 ragazze adolescenti di età compresa tra i 12 e i 17 anni sono state selezionate da una struttura psichiatrica in cui erano ricoverate per disturbi emotivi e comportamentali di varia natura e sono state sottoposte al Safer Choices Survey (SCS; Basen-Engquist et al., 1999), un questionario in grado di valutare i comportamenti sessualmente a rischio, al Sexual Risk Behaviors Beliefs and Self Efficacy Scale (SRBBS; Basen-Engquist et al., 1999), in grado di valutare le attitudini, il rispetto delle regole e l’autoefficacia sessuale, al Childhood Interview for Borderline Personality Disorder (CI-BPD; Zanarini, 2003), un’intervista semistrutturata per misurare il disturbo di personalità borderline in età infantile ed adolescenziale, al Borderline Personality Features Scale for Children (BPFSC; Crick, Murray-Close, & Woods, 2005), per rilevare i tratti borderline, ed al Youth Self-Report (YSR; Achenbach & Rescorla, 2001), per misurare il livello di psicopatologia.

I risultati hanno mostrato che non ci sono differenze significative in termini di comportamenti sessualmente a rischio tra soggetti con disturbo borderline di personalità e non, ma che le ragazze con BPD hanno atteggiamenti più rischiosi ed una minore autoefficacia a rifiutare le proposte sessuali e che ciò influisce sulla loro capacità di decidere responsabilmente che tipo di condotta adottare in situazioni non sicure per la loro salute.

In conclusione, possiamo dire che la minore autoefficacia delle ragazze adolescenti con BPD le espone a comportamenti sessuali a rischio come l’avere rapporti con persone sconosciute o conosciute appena, il non usare il condom e il non riuscire ad essere assertive all’interno di un contesto sessuale. Questi comportamenti incidono sulla salute psico-fisica del soggetto e sollecitano la messa in atto di interventi psico-educativi e preventivi al fine di limitarli.

 

Bodyfulness. La pratica della consapevolezza somatica (2020) di C. Caldwell – Recensione

Bodyfulness è sia un manuale pratico adatto ai principianti, sia una risorsa per professionisti del benessere.

 

La respirazione, le sensazioni e il movimento sono i modi in cui conosciamo il nostro corpo. Nel libro Bodyfulness viene trattato il modo di contemplare la propria corporeità considerando che spesso nella quotidianità ci muoviamo in modo inconsapevole o addirittura in conflitto con il nostro fisico.

Nel libro Bodyfulness Christine Caldwell offre una guida pratica per vivere una vita con maggiore consapevolezza, a prescindere dal corpo in cui ci troviamo. Ogni capitolo offre approfondimenti ed esercizi pratici che aiutano a recuperare la consapevolezza fisica perduta o mai acquisita. L’obiettivo principale dall’autrice è quello di affrontare le proprie sensazioni e sviluppare relazioni armoniose, con se stessi e con gli altri. L’attenzione alle sensazioni corporee aiuta a sfruttare il proprio potenziale determinando alcuni benefici.

Questo libro è ben organizzato e alquanto informativo, tratta in modo profondo ciò che significa veramente essere una creatura corporea.

Bodyfulness è sia un manuale pratico adatto ai principianti, sia una risorsa per professionisti del benessere.

Questo libro offre l’opportunità di imparare di più sull’essere se stessi, in particolare durante i processi di cambiamento e nei contesti sociali aiutando a vivere con maggior consapevolezza. Christine Caldwell condivide le sue conoscenze multidisciplinari integrando ricerca, esperienza clinica e nozioni sul corpo; una parte viene dedicata nello specifico al corpo in movimento dove il fisico ci aiuta a risvegliarci letteralmente e metaforicamente.

Caldwell pone le basi teoriche e anatomiche per spiegare il ruolo del corpo come veicolo naturale per la consapevolezza.

L’autrice tratta le pratiche somatiche di respirazione, sensazioni e movimento in modo che si possano svolgere direttamente con l’obiettivo di vivere in armonia nel momento presente.

 

Intelligenza artificiale, IoT e 5G

Le nuove tecnologie sono connotate da tre attori: l’intelligenza artificiale (IA), l’Internet of Things (IoT) e il 5G. Essi sono elementi fondanti che animano la platea sistemica del digitale.

 

Sui collegamenti fra questi – IoT, 5G e IA – si concentra il presente contributo. Nel loro operare e nel loro apporto, essi possono essere visti senza soluzione di continuità, come si farà nell’analisi che segue.

L’Internet of Things (IoT) è il neologismo coniato per indicare oggetti reali connessi a internet. Oggetti che, collegati alla rete, consentono di unire il mondo reale a quello virtuale. ‘Cosa’/’oggetto’ stanno a significare molteplici categorie di apparecchiature – da semplici dispositivi a impianti e sistemi tecnologicamente sofisticati; dai materiali a macchinari e attrezzature per la produzione nei settori primario, del manifatturiero e terziario.

Il fatto che tutti questi oggetti siano/possano essere collegati in rete consente di realizzare una mappa intelligente del loro funzionamento, dalla gestione di un grande volume di informazioni (big data) alla produzione e trasmissione del risultato finale. E tali esercizi – sia sul piano degli input sia su quello del feedback – generano spillovers in termini di nuove forme di conoscenza (Bellini, 2020).

L’internet delle cose è l’esempio più immediato e più citato per illustrare le innovazioni che il 5G introdurrà nel quotidiano andando a mutare significativamente molti settori. Si sa, ogni ‘G’ ha condotto a rivoluzioni tecnologiche sempre più pervasive. Con la sigla 5G si indica la nuova tecnologia e gli standard di connessione dati di quinta generazione, cha andrà a sostituire quella attuale (lo standard di comunicazione attualmente usato negli smartphone, tablet, ecc.). Il 5G permetterà di raggiungere una connessione dati molto più rapida del 4G: quest’ultimo può raggiungere una velocità teorica di 150MBPS (velocità di connessione di rete), mentre il 5G potrà arrivare a una velocità di 1000 MBPS.

Inoltre, i tempi di latenza – quelli che trascorrono tra l’emissione e la ricezione di un comando – saranno pressoché azzerrati. IoT e 5G, ça va sans dire, possono essere interpretati come due beni complementari fra loro dalla portata fortemente innovativa e dotati di elevate sinergie (nel controllare droni, videocamere, robot, veicoli, ecc.), in quanto il primo ben si presta alla maggiore velocità, alla bassissima latenza e all’abbinamento quantità-qualità delle reti di nuova generazione.

Le più recenti stime valutano oltre 50 miliardi di prodotti che con l’introduzione del 5G potranno creare un network connesso in tempo reale. Da qui il cambiamento anche della terminologia in Internet of ‘many’ things (Barbera, 2019): smart city, smart agrifood, smart home, smart medical home, veicoli a guida autonoma, ecc. Così l’IoT non si limiterà al 5G per gli oggetti legati alla domotica (permetterà di controllare a distanza gli elettrodomestici, ad esempio), ma allargherà la sua prospettiva ai più vari contesti – fino ai sensori posti su di noi riguardanti il nostro stato di salute. La medicina digitale è un campo fortemente aperto ai sensori: la crescita di questi dispositivi è alimentata da vari fattori, come i costi sempre più ridotti e i miglioramenti della tecnologia, che hanno permesso di miniaturizzare le componenti elettroniche, rendendo i dispositivi leggeri e di dimensioni contenute così da poter essere indossati o integrati nell’abbigliamento. Ad esempio, per molti diabetici, misurare la glicemia più volte al giorno non sarà più necessario grazie a un cerotto digitale; chi lo usa può visualizzare il suo andamento glicemico in ogni momento della giornata direttamente dall’app istallata sul suo smartphone. Il diabetico può anche impostare degli avvisi in funzione delle proprie esigenze che lo aiuteranno a controllare i valori quando superano i limiti di sicurezza. Le statistiche e i grafici riportati sull’app possono essere condivisi in tempo reale e consentire al medico curante di monitorare la persona a distanza, personalizzando la terapia e adattandola alle specifiche esigenze. La condivisione immediata contribuirà significativamente al raggiungimento degli obiettivi clinici, consentendo un risparmio di energie e di tempo, riducendo gli spostamenti e favorendo una maggiore consapevolezza del paziente sempre più incline a gestire attivamente la propria salute.

La ‘sensorizzazione’ fa ormai parte della vita quotidiana di molte persone, soprattutto di utenti sani che confidano in una gestione della vita come fenomeno misurabile mediante strumenti specifici. Esemplare è lo sviluppo di un ampio movimento culturale, chiamato quantified self, il cui slogan è: ‘la conoscenza di sé attraverso i numeri’ (Collechia, 2018). Inoltre, l’invecchiamento della popolazione, che interessa molti paesi, porterà all’uso massiccio di apparecchiature mediche e di assistenza da remoto. Una popolazione connessa porterà tipicamente al problema della protezione dei dati personali e alla sua regolamentazione.

In particolare, sono dieci i settori che, secondo diversi studi, potrebbero avvalersi del 5G: oltre alla sanità, il manifatturiero (esempio, l’Industria 4.0), i servizi di pubblica utilità (public utilities), il trasporto pubblico, la sicurezza, i media e l’intrattenimento, il comparto automobilistico, i servizi finanziari, la rete commerciale, l’agricoltura. Riguardo a quest’ultima, grazie al ‘massive IoT’ abilitato dal 5G e all’eventuale utilizzo della blockchain, sarà possibile tenere sotto controllo le piantagioni monitorando capillarmente il grado di maturazione delle colture, ricorrere in maniera mirata e tempestiva agli antiparassitari, razionalizzare l’uso delle risorse, finanche migliorare la sicurezza alimentare tracciando in tempo reale i prodotti dalla loro coltivazione fino alla tavola.

Soffermandoci sul caso delle smartcities, il loro sviluppo beneficerà della connessione 5G in grado di sostenere sia i rilevatori per la raccolta e analisi in tempo reale delle informazioni, sia una grande quantità di dispositivi connessi con una minima latenza. Dispositivi intelligenti connessi si agganceranno a reti flessibili, con esternalità socio-economiche positive, quali l’alleggerimento del traffico, la progettazione di edifici intelligenti, la gestione energetica (West, 2016), la gestione dei parcheggi, dei porti e degli aeroporti, la sicurezza nelle strade, nonché la gestione di grandi eventi che tipicamente richiedono un forte dispiegamento di forze dell’ordine.

Un altro esempio in cui il 5G può risultare dirimente è quello delle emergenze ambientali: la rete connessa di sensori può rendere più veloce e granulare il feedback delle informazioni così da ottimizzare la risposta (Barbera, 2019). La stessa emergenza Covid-19 ha dimostrato come l’internet veloce non sia più solamente un’opzione. Il futuro dei sistemi sanitari, soprattutto in Occidente, dovrà ineludibilmente passare dalla digitalizzazione dei propri servizi e da una sempre maggiore condivisione dei propri dati. Tutto questo può realizzarsi attraverso un’infrastruttura telematica 5G. Che in futuro un’emergenza sanitaria, come il Covid-19, potrà essere affrontata meglio grazie al 5G viene argomentato in un Rapporto del Centro Studi Internazionali-CeSI (cfr. Crippa, 2020; Romano, 2020). Dal tracciamento dei contagiati all’analisi dei big data mediante IA fino alle ‘ambulanze smart’. Infatti – si sostiene nel Rapporto – connettendo l’ambulanza (e i dispositivi dell’IoT a bordo) con l’ospedale, sarebbe possibile informare la struttura ricevente circa le condizioni del paziente già durante il tragitto, accorciando così i tempi utili a predisporre le attività di ricezione e di trattamento sanitario (Crippa, 2020; Romano, 2020).

Alla luce dei nuovi scenari, le stesse reti di generazione più sofisticate avranno un tale grado di complessità e di rapidità da poter essere controllate soprattutto dall’intelligenza artificiale. Sottostante, quindi, il rapporto tra IoT, reti e intelligenza artificiale.

Le aspettative intorno al 5G sono la transizione da un universo costituito dalle comunicazioni uomo-macchina a uno in cui la comunicazione avviene soprattutto tra le macchine stesse.

L’interconnessione fra oggetti (come le automobili autonome che si muovono all’interno della stessa città, i robot autonomi utilizzati nella logistica per la movimentazione di merci che operano all’interno di un magazzino) e, dunque, il campo dei sistemi multi agente sono collegati all’ambito applicativo dell’IA (Fiocca, 2020).

Il binomio hi-tech ‘5G-IA’ si avvale di benefici reciproci in settori diversi.

Di più: la progressiva complessità e la porosità dei contesti in cui viviamo portano in direzione di una continua evoluzione delle reti. Già si parla del 6G: la tecnologia mobile di sesta generazione che dovrebbe rappresentare un naturale avanzamento e consolidamento delle prestazioni assicurate dal 5G. Il futuro standard di rete –la cui ricerca è ancora nelle prime fasi sperimentali– si spingerà oltre sia spianando il percorso a nuove applicazioni, sia intensificando e raffinando quelle già trattate dalla quinta generazione. E, naturalmente, la IA assolverà una funzione dirimente ai fini della performance del 6G. Ma siamo ancora nel futuro remoto; intanto si combatte ancora per il 5G.

Il punto che si vuole enfatizzare nel presente lavoro è che la realtà ‘effettiva’ – quindi né quella virtuale, né quella aumentata – e, con essa, l’umanità – nella sua essenza più creativa ed empatica- ci abbandonerà all’interno di una bolla tecnologicamente sofisticata che sempre più ci isolerà gli uni dagli altri. Ad esempio, il contatto con il medico, se può essere più efficiente ed efficace da ‘remoto’, quando è ‘prossimo’ esso è più umano, è punto di riferimento, è psicologicamente rassicurante.

L’isolamento, che danno psichico…!

L’evoluzione è un mondo di bolle e di monadi? Ma è questo che vogliamo? Quanto di noi, delle nostre esperienze, del nostro vissuto, nei nostri beni relazionali siamo disposti a cedere a favore di progressivi guadagni di efficienza? L’innovazione e la tecnologia di generazioni sempre più elevate conduce a una vita più ‘comoda’ e tesa al problem-solving, perché sollevata da tanti compiti, mansioni, ripetitività, problemi, incertezze, complessità. Certo, uno stile di vita friendly da una parte. Ma si tratterà di una vita dove ci sarà meno da parlare, riflettere, toccare, organizzare, comunicare. Sono, questi, avanzamenti utopistici o distopici?

Gli aspetti vivificanti del nostro esistere non possono essere depauperati, persino quando essi presumono sforzo, fatica, sacrificio, dolore.

Una regolamentazione cautelativa e declinata per la dimensione etica chiama forte, e con toni sempre più elevati con l’avanzamento tecnologico IA – IoT – 5G.

La gestione dell’incertezza nel trattamento dati degli psicologi ed il concetto di ‘accountability’ del regolamento europeo sulla privacy (GDPR)

Tutti i professionisti sanitari a partire dal 2018 hanno dovuto uniformarsi al nuovo regolamento europeo relativo il trattamento dei dati personali chiamato GDPR (General Data Protection Regulation) che obbliga i professionisti (sia sanitari che non) che gestiscono i dati dei loro clienti/pazienti a soddisfare i requisiti richiesti dalla nuova normativa.

 

Va da sé che gli operatori sanitari come gli psicologi, oltre a rispettare il GDPR (tecnicamente chiamato Regolamento Europeo 2016/679), hanno anche l’obbligo di rispettare il proprio codice deontologico di riferimento a tutela dei loro assistiti (codice deontologico degli psicologi per la categoria degli psicologi, codice deontologico dei medici per la categoria dei medici, etc.).

Il GDPR è una normativa che, diversamente da molte altre normative del passato, richiede di sostanziare, in termini di documenti e procedure, una serie di criteri astratti al fine di essere aderenti (tecnicamente si usa il termine ‘compliant’) ad essa.

Il regolamento europeo sulla privacy non fornisce una serie di documenti precompilati da declinare all’interno del proprio contesto professionale bensì indica la tipologia di documenti che devono essere prodotti da parte del titolare del trattamento dei dati (per gli psicologi liberi professionisti si tratta del professionista stesso) per rispondere adeguatamente ai principi promossi dalla normativa.

Il GDPR quindi fornisce una specifica serie di principi volutamente generali ed astratti per indurre nei professionisti titolari del trattamento dei dati dei loro clienti/pazienti un atteggiamento proattivo che non potrebbe essere promosso nel caso la direttiva europea fornisse invece dei semplici modelli precompilati semplicemente da declinare nel proprio contesto lavorativo.

La filosofia della privacy promossa dalla nuova normativa europea prevede un cambiamento di prospettiva da burocratica/amministrativa a valoriale/concettuale e, per quanto riguarda il ruolo del titolare del trattamento dei dati, da passiva e statica a proattiva e dinamica.

Queste differenze rappresentano delle piccole grandi rivoluzioni che il GDPR ha voluto promuovere dalle quali deriva tutta una serie complessa di conseguenze sia concettuali che comportamentali oltre che, come vedremo tra poco, legali.

Sia per armonizzare il diritto europeo in materia di privacy che per le note vicende negative relative l’utilizzo improprio di dati personali soprattutto da parte di importanti corporation del web, si è sentita la necessità di codificare un regolamento dove fosse maggiormente facilitata, rispetto il passato, l’identificazione della responsabilità di coloro che trattano i dati personali e i dati sensibili, ecco perché il GDPR ha come primo principio cardine l’’accountability’ (traducibile con il temine italiano di ‘responsabilizzazione’).

La responsabilizzazione del titolare del trattamento dati richiesta dal GDPR non è più quindi, come in passato, limitata alla piuttosto passiva sottoscrizione di una serie di documenti standard generalmente ampiamente condivisi all’interno della comunità di appartenenza ma obbliga ad assumere un ruolo attivo e dinamico (che si aggiorna quindi nel tempo) rispetto le misure operative ritenute soggettivamente opportune, efficaci e dunque adeguate per salvaguardare i dati trattati.

Nello specifico della professione dello psicologo ne consegue quindi che ogni titolare del trattamento dei dati, per essere considerato adeguato al regolamento GDPR, deve essere in grado di documentare tali processi decisionali indicando anche quando questi processi decisionali sono stati effettuati.

È chiaro che la dinamica del trattamento dei dati informatici ed in particolare quelli che transitano nel web è profondamente più complessa rispetto il contesto tradizionale non digitale quindi il concetto di ‘accountability’ del GDPR applicato al mondo digitale implica una formazione ed una competenza specifica assolutamente non banale da parte dei professionisti.

Va fatto notare che attualmente in Italia, in particolar modo in seguito alla diffusione del supporto psicologico fornito in modalità online, promosso indirettamente dalla diffusione della pandemia, vi è il paradosso di una scarsissima formazione professionale in merito gli strumenti tecnici/tecnologici (e le loro implicazioni etiche, deontologiche e legali) malgrado si tratti di una modalità ormai largamente diffusa ed utilizzata dalla stessa comunità di professionisti.

A conferma di quanto appena esposto, attualmente nessun corso universitario in Italia tratta approfonditamente queste specifiche tematiche pur essendo ormai da decenni che la maggior parte di psicologi presenti nel mercato del lavoro (CNOP, 2017) sono soprattutto liberi professionisti e che, all’interno di questa categoria, le nuove tecnologie comunicative sono già ampiamente utilizzate da diversi anni (e lo saranno sempre di più).

Purtroppo questo scenario poco coerente riflette quanto la velocità dell’evoluzione tecnologica non sia abbinata ad una altrettanto veloce evoluzione culturale e formativa della professione dello psicologo.

I contesti digitali implicano dinamiche, e quindi anche potenziali rischi, relative la privacy degli utenti che sono diverse rispetto a quelle tradizionali, per questo motivo, per essere gestite correttamente richiedono una specifica formazione relativa alle implicazioni legali e deontologiche degli scenari informatici coinvolti.

È importante a questo punto comprendere che la logica descrittiva dei principi astratti introdotti dal GDPR rappresenta, dal punto di vista legale, un rovesciamento dell’ ‘onere della prova’ rispetto al passato per la tipologia di documentazione che il titolare del trattamento dei dati deve presentare al fine di dimostrare di essere aderente con il regolamento stesso.

Prima del GDPR in materia di privacy le istituzioni fornivano delle procedure formalizzate in modelli specifici da compilare e sottoscrivere (come riferimento si pensi ad esempio all’attuale documento del consenso informato), quindi la responsabilità legale e deontologica era limitata formalmente quasi unicamente all’atto piuttosto passivo relativo alla sottoscrizione del documento stesso.

Dopo l’introduzione del GDPR è invece lo psicologo stesso che deve creare i documenti dove vengono riportati i personali e soggettivi processi decisionali in merito al trattamento dei dati, fornendo quindi prova di aver effettuato queste azioni sia conoscitive/formative che applicative.

Ribadisco che documentare il proprio processo decisionale implica necessariamente l’acquisizione di una specifica formazione dedicata a questo argomento finalizzata alla concreta realizzazione delle specifiche procedure e comportamenti che soddisfano il codice deontologico e la regolamentazione europea sulla privacy.

Nei processi decisionali che lo psicologo prende in considerazione comunemente per gestire le informazioni dei propri clienti/pazienti esiste naturalmente la possibilità (presente soprattutto quando si gestiscono le dinamiche del mondo del web) di affrontare scenari molto complessi ed incerti.

Qui riporto alcuni esempi più frequenti:

Skype o Zoom sono piattaforme GDPR compliant o no?

Whatsapp è uno strumento idoneo per tutelare adeguatamente la privacy dei miei clienti?

Cosa succede se durante una videochiamata con il nostro paziente ci accorgiamo della presenza di una terza persona non prevista all’interno del servizio psicologico stabilito?

Rispondere a queste domande non è affatto banale e richiede di dedicare molto tempo ed energie finalizzate all’acquisizione degli aspetti sia tecnici sia legali purtroppo notoriamente lontani dal patrimonio formativo generalmente caratterizzante lo psicologo.

Sarebbe molto utile delegare queste competenze specifiche a professionisti esperti del settore legale ed informatico ma nella pratica professionale dello psicologo verosimilmente risulta essere una soluzione adottata molto raramente soprattutto per la combinazione di ragioni economiche (in modo particolare nel settore libero professionale) e di bassa consapevolezza generale relativa alle dinamiche ed i rischi di questi contesti professionali.

Dalla valutazione dei contesti incerti descritti poco sopra derivano scelte e comportamenti aderenti o meno il vigente regolamento europeo sulla privacy ed il codice deontologico di appartenenza.

In termini pratici ad esempio è corretto, dal punto di vista deontologico e del regolamento GDPR, utilizzare una piattaforma di videochiamata o una app di cui non conosciamo con presumibile sicurezza e chiarezza il trattamento dei dati?

Visti i recenti scandali che hanno coinvolto molte delle principali piattaforme di videochiamata e app, quanto è professionalmente accettabile per uno psicologo italiano continuare ad utilizzare con i propri clienti/pazienti queste tecnologie informatiche?

È corretto scegliere una piattaforma di videochiamata, o una app, sapendo che la privacy dei loro utenti è già stata largamente violata in passato?

In questo caso sappiamo dimostrare legalmente che non siamo co-responsabili di queste violazioni?

Da psicologi possiamo scegliere una piattaforma di videochiamata, o una app, quasi esclusivamente perché è già largamente utilizzata dagli utenti (anche perché generalmente presente gratuitamente) oltre che da molti colleghi psicologi (e magari anche promossa da diverse istituzioni psicologiche italiane…) senza sapere con sicurezza se è aderente al codice deontologico degli psicologi ed al GDPR tutelando quindi esaurientemente la privacy dei nostri clienti/pazienti?

Per scegliere la app o la piattaforma di videochiamate da utilizzare, è sufficiente affidarsi al fatto che venga promossa (più o meno direttamente attraverso video e documenti ufficiali dedicati a questo argomento) da istituzioni psicologiche (il CNOP, l’ordine regionale di appartenenza, etc…)?

Se sì, di chi è la responsabilità del promuovere aziende (private) che non soddisfano chiaramente i criteri richiesti dal GDPR e dal codice deontologico?

Se no, occorre registrare che il criterio di ‘accountability’ richiesto esplicitamente dal GDPR al titolare del trattamento dati dovrebbe essere di per sé sufficiente a contrastare le comunicazioni istituzionali che promuovono questi strumenti tecnologici evitandone quindi consapevolmente l’utilizzo.

Occorre notare che, in caso di incertezza riguardo l’adeguatezza del trattamento dati di qualsiasi strumento tecnologico utilizzato nell’interazione con il cliente/paziente la scelta deontologicamente e legalmente corretta è sempre quella che prevede di evitarne l’utilizzo per il principio di prudenza, di precauzione e di tutela nei confronti degli assistiti.

Di fronte alla valutazione incerta dei possibili rischi relativi al trattamento dei dati ai quali potenzialmente viene esposto lo psicologo stesso (titolare dei dati) e soprattutto il suo assistito, occorre quindi sempre evitare di utilizzare tale mezzo o strumento.

Solo se possiamo infatti documentare effettivamente il processo decisionale che ci ha condotti ad esempio ad utilizzare una piattaforma (GDPR ‘compliant’) piuttosto che un’altra (di cui non conosciamo con chiarezza la sua aderenza al GDPR o della quale siamo a conoscenza di criticità già emerse in passato nella gestione della privacy degli utenti) abbiamo la sicurezza di rispondere adeguatamente al principio di ìaccountability’.

Nel caso opposto, cioè se il processo decisionale prevede la scelta d’utilizzo di uno strumento tecnologico che non rispetta il regolamento europeo (magari perché il professionista non ha verificato questo aspetto), lo psicologo non sta rispettando in pieno il principio di ‘accountability’ richiesto dal GDPR né i principi espressi dal proprio codice deontologico perché sta esponendo sé stesso ed i suoi assistiti a rischi relativi alla privacy.

Tali rischi sono quindi anche potenzialmente legalmente perseguibili per il fatto di essere prevedibili, e quindi evitabili, attraverso un’adeguata formazione (prevista e data per scontata peraltro sia dal GDPR che dal codice deontologico degli psicologi).

È infatti notoriamente scorretto professionalmente utilizzare uno strumento di cui non si conoscono le specificità in merito al trattamento dei dati.

Sia deontologicamente che legalmente lo psicologo è tenuto sempre a tutelare al meglio la privacy dei propri clienti/pazienti quindi, in mancanza di informazioni che confermano l’aderenza al codice deontologico o al GDPR, non dovrebbe mai utilizzare strumenti che espongono ad un qualsiasi potenziale rischio i dati dei suoi assistiti.

Dove infatti non sono chiare o sono poco prevedibili da parte dello psicologo le implicazioni ed i rischi nell’utilizzo di uno specifico mezzo/strumento viene applicato il principio legale secondo il quale l’ignoranza non viene ammessa (in latino ‘ignorantia legis non excusat’) codificato sia all’interno del codice deontologico stesso degli psicologi (si veda ad esempio l’articolo 1, 4 e 5) che nel GDPR attraverso il principio di ‘accountability’ che prevede infatti il ruolo pro-attivo e dinamico del titolare del trattamento dei dati.

Quanto appena affermato risulta confermato anche dal parere legale di avvocati che ho personalmente interpellato specificamente su questi particolari aspetti relativi la professione dello psicologo.

Così come in auto, se non indossiamo la cintura di sicurezza guidando l’automobile (o non la facciamo allacciare ai passeggeri dell’auto) non stiamo rispettando il codice stradale, da psicologi se non utilizziamo uno strumento tecnologico idoneo per comunicare con i nostri clienti/pazienti non stiamo rispettando pienamente il nostro codice deontologico né il regolamento europeo sulla privacy.

La metafora è particolarmente calzante perché, come nel contesto automobilistico non ci sono evidenti problemi o palesi difficoltà durante la guida anche se non si indossano le cinture fino a quando non intervengono controlli da parte delle autorità o avvengono incidenti, nel contesto pratico dello psicologo vi può essere una pericolosa sottostima di alcuni rischi professionali legati al trattamento dei dati fino a che avvengono controlli o ‘incidenti’, rappresentati da eventuali cause legali risarcitorie promosse dai clienti/pazienti a scapito del professionista.

Per esperienza professionale personale sia lavorando all’interno di un’azienda di risarcimento danni sia grazie alla collaborazione con la collega americana Marlene Maheu, presidentessa della task force dedicata alla telepsicologia dell’APA (American Psychological Association), che già da diversi anni ha affrontato aspetti analoghi nel contesto della regolamentazione privacy americana (HIPPA), posso affermare che purtroppo talvolta questo tipo di controlli ed ‘incidenti’ avvengono e proprio per questo motivo occorre essere maggiormente consapevoli delle corrette pratiche professionali da adottare.

Soprattutto in questo periodo dove la pandemia ha accelerato notevolmente, anche se forzatamente, il processo d’utilizzo delle modalità digitali all’interno della pratica dello psicologo, esistono delle dinamiche psicosociali che hanno indotto probabilmente una diffusa e forte sottostima dei rischi nel trattamento dei dati di molti psicologi italiani (Agnoletti, 2020).

È dunque assolutamente prioritario, al fine di tutelare maggiormente sia gli psicologi che soprattutto i loro clienti/pazienti, colmare il più velocemente possibile il gap culturale e formativo relativo alle dinamiche legali/deontologiche implicate nell’uso delle recenti tecnologie comunicative che prevedibilmente si diffonderanno sempre più largamente all’interno della nostra comunità professionale.

Chiaramente questo compito deve essere promosso principalmente dalle istituzioni psicologiche italiane.

Self control web: opportunità e rischi della tecnologia nei bambini

I genitori spesso possono essere investiti da molteplici richieste ambientali alle quali si aggiungono le richieste, anche di attenzioni, dei propri figli. In queste o altre occasioni può accadere che ci si affidi all’uso di smartphone o altri apparecchi digitali per ‘regolare’ i bambini e le loro emozioni.

Maria Obbedio – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

I social network, e in generale l’uso di internet, sono entrati a far parte della nostra quotidianità. Ogni fascia d’età ne è stata inevitabilmente investita. In un mondo in cui siamo costantemente connessi, l’impatto che questi strumenti hanno sulle nostre vite personali è significativo (Naskar et al., 2016; King et al., 2018).

I giovani, e anche i bambini che ormai crescono con libero accesso allo smartphone, vengono chiamati nativi digitali: si tratta di una generazione che cresce tra cellulari, tablet e pc. In questo non c’è nulla di male; usare la tecnologia ed essere sempre connessi fa parte ormai del nostro vivere quotidiano, ma è necessaria una certa educazione digitale che potrebbe partire sin dalla tenera età.

Occorre spostare l’attenzione al ‘quanto e come’ viene usato lo strumento digitale.

I Bambini, le emozioni e l’autocontrollo

I bambini fanno la conoscenza delle emozioni sin dai primi mesi di vita e col tempo imparano a conoscerle e regolarle con l’aiuto dell’adulto.

Ogni anno è diverso: il bambino impara a conoscere nuove abilità, entra in contatto con l’ambiente, diventa un soggetto attivo, cresce. Inizia a sperimentare il concetto di tempo, attesa e inizia a entrare in contatto con le proprie emozioni. Le reazioni cambiano a seconda dell’ambiente, del bambino e così via.

Ogni bambino è a sé: c’è chi di fronte a una frustrazione piange, c’è chi piange e si butta per terra scalciando; oppure chi rimane fermo sul ‘no’, sulla sua posizione e ‘sfida’ l’adulto, come c’è anche chi, di fronte a una frustrazione, si limita a mostrarsi contrariato ma rimane imperturbabile.

Verso i due anni i bambini imparano ad esprimirsi spesso usando i no.

La risposta no può seguire spesso le richieste che l’adulto propone al bambino (‘metti via i giochi’, ‘andiamo a cambiare il pannolino’ ad esempio). Compaiono capricci, scenate oppure possono manifestarsi comportamenti provocatori e di sfida. Tutto può allora essere motivo di fastidio, nervosismo o rabbia: dal mettersi il giubbotto per uscire di casa, al non voler condividere un gioco, al pezzetto piccolo di verdura nel piatto. Frustrazione e rabbia sono emozioni che mettono a dura prova i genitori. In particolare quando non avvengono tra le mura domestiche ma in contesti pubblici. Alcuni genitori potrebbero essere più sensibili ai capricci e ai pianti dei propri bambini e potrebbero intervenire mettendo in atto comportamenti efficaci o meno. Altri genitori potrebbero mantenere la propria posizione innescando un’escalation di emozioni tra sé e il bambino. Questi sono gli anni in cui i bambini, ma anche i genitori, sperimentano l’apprendimento per prova ed errori. Ogni comportamento, richiesta, risposta, reazione emotiva è nuova sia per i bambini che per i genitori. I bambini spesso possono arrabbiarsi se non vengono accolti i loro bisogni, magari in tempi rapidi e nella modalità pensata o se i loro bisogni vengono colti e si risponde con toni forti, alti, aggressivi o non accoglienti. Dall’altro canto, i genitori spesso possono essere investiti da molteplici richieste ambientali alle quali si aggiungono le richieste, anche di attenzioni, dei propri figli. In queste o altre occasioni può accadere che ci si affidi all’uso di smartphone o altri apparecchi digitali per ‘regolare’ il bambino. La gestione delle emozioni, della loro durata e della loro intensità, tuttavia, non dovrebbe essere affidata troppo o troppo precocemente ad un mezzo tecnologico: diventare capaci di autoregolarsi significa imparare a stare con le proprie emozioni, a tollerarle e a gestirle. Con ‘regolazione’ si fa riferimento alla capacità che il bambino possiede fin dalla nascita di regolare i propri stati emotivi e organizzare l’esperienza e le risposte comportamentali adeguate (Sander, 1962 1987; Stern, 1985; Lichtenberg, 1989). La regolazione è un processo che muove i primi passi tra le capacità innate del bambino e le interazioni della diade bambino/caregiver intorno al raggiungimento dell’omeostasi (Sroufe,1995). Le strategie per la regolazione di stato sono inizialmente fornite dal caregiver e successivamente interiorizzate dal bambino e si generalizzano nel tempo includendo la regolazione degli stati affettivi, l’attenzione, l’arousal e l’organizzazione di comportamenti complessi che comprendono le interazioni sociali. L’uso dei sensi nell’esplorazione del mondo e le interazioni con gli altri consentono ai bambini di essere più creativi, di apprendere di più: in particolare, le interazioni vis à vis e il gioco non strutturato sono indispensabili per la creatività, l’immaginazione, l’acquisizione di abilità emozionali, le capacità di problem solving e l’autonomia.

I bambini e i media

Eugene A. Geist (2012) ha condotto una ricerca allo scopo di studiare, attraverso osservazioni partecipate, le interazioni spontanee tra bambini di età compresa fra i 2 e i 3 anni e il tablet che avvenivano in contesti sia familiari che educativi. Dallo studio emergeva la facilità con la quale i bambini interagivano naturalmente con l’interfaccia touch screen, ricorrendo a modalità che ricordavano quelle utilizzate con altri giocattoli. Sulla base delle osservazioni riportate nella ricerca, lo studioso affermava che provare a limitare l’accesso e l’uso delle tecnologie a questi bambini, che cresceranno e vivranno in una società tecnologica, significherebbe nuotare contro corrente. Questo non significa, secondo Geist, che le esperienze debbano essere tutte mediate dalle tecnologie, ma che l’uso creativo di questi dispositivi può contribuire a sviluppare il loro potenziale cognitivo. Il metodo per crescere i bambini in un mondo digitale (2019) di Jordan Shapiro, è un ulteriore esempio di pensiero positivo verso l’uso della tecnologia con la messa in luce degli aspetti positivi nell’apprendimento. Tuttavia gli autori trasmettono un messaggio importante: consentire l’uso della tecnologia ma con la presenza di un adulto, valorizzandone tempo e finalità. I nuovi oggetti tecnologici non dovrebbero diventare alternative ai giochi o ai giocattoli tradizionali, ma aggiungersi ad essi. Potrebbero essere una forma di apprendimento attivo svolta secondo tempi e modalità ben strutturate e precise. Per i bambini tra i 2 e i 3 anni, in particolare, si sconsiglia l’esposizione passiva e prolungata (per più di 30 minuti) alla Tv e alle tecnologie touch in assenza di adulti che possano svolgere un ruolo interattivo ed educativo. In più l’utilizzo di determinati comportamenti, quali ad esempio pianto-uso del cellulare, può creare un paradigma di apprendimento molto potente che i genitori potrebbero far fatica a modificare. L’uso di smartphone o altri apparecchi digitali per gestire le emozioni potrebbe comportare una difficoltà nella capacità di riconoscerle, nominarle, raccontarle. Le emozioni non regolate rendono difficile l’adattamento individuale, le relazioni interpersonali, la gestione delle fonti di stress e il rapporto con gli stimoli che innescano i processi affettivi, i desideri e così via. Lo smartphone, il pc o altri strumenti digitali finirebbero col diventare dei compagni di evasione da emozioni ‘fastidiose’, ad esempio quando il bambino impara a spostare il focus della propria preoccupazione riducendo le sensazioni negative provate.

Sin dai primi mesi di vita sia i genitori che i bambini spesso procedono per prove ed errori alla continua scoperta dell’altro, occorre quindi essere consapevoli del reciproco contributo dato nella relazione, perché anche il bambino è competente nella relazione (Gandolfi, 2008) e modifica il comportamento dell’adulto.

Disturbi alimentari maschili e orientamento sessuale: un percorso tra dati storici e recenti evidenze dalla ricerca

I disturbi alimentari sono patologie a prevalenza spiccatamente femminile, tuttavia alcuni casi di uomini affetti da tali disturbi hanno portato la ricerca psicologica a interrogarsi, tra altre variabili, anche sul ruolo della sessualità maschile nella loro genesi.

 

In reazione all’orientamento sessuale, alcune ricerche hanno mostrato una maggior presenza di uomini omosessuali e bisessuali tra i maschi che soffrono di un disturbo alimentare (Robinson & Holdern, 1986; Carlat, Carmago & Herzog, 1997; Russel & Keel, 2002; Dakanalis et al., 2012). Secondo alcuni studi circa il 40% dei maschi portatori di disturbi alimentari riferisce il proprio orientamento come ‘non eterosessuale’ (Feldman & Meyer, 2007). Morgan (2008) riporta che ‘la maggior parte degli uomini che soffre di un disturbo dell’immagine corporea è eterosessuale e la maggior parte degli uomini omosessuali non riporta un disturbo dell’immagine corporea. Ciononostante circa un uomo su cinque con disturbo alimentare ha un orientamento omosessuale’. Il legame tra orientamento sessuale e disturbi alimentari nel maschio è stato esplorato e dibattuto a partire dagli anni ’80. Nel 1984 Herzog e collaboratori hanno pubblicato uno studio in cui hanno confrontato un gruppo maschile anoressico-bulimico con un gruppo femminile portatore del medesimo quadro psicopatologico; il 26% del campione maschile riportava un orientamento omosessuale contro il 4% della controparte femminile. Un altro confronto tra due gruppi clinici ha evidenziato che i maschi con disturbi alimentari riportavano isolamento affettivo e conflitti omosessuali con maggior frequenza rispetto alle pazienti femmine (Herzog et al. 1991). Dunque la sovrarappresentazione dell’omosessualità all’interno dei disturbi alimentari sembrerebbe caratteristica peculiare della popolazione maschile, mentre per le femmine sembrerebbe essere in linea con la distribuzione nella popolazione non patologica. Fichter e Daser (1987) intervistarono un gruppo di pazienti anoressici maschi rilevando come i soggetti si percepissero e fossero percepiti dagli altri come più ‘femminili’ nell’aspetto e nel comportamento, rispetto agli altri uomini; il 65% riportava una preferenza per giochi e attività tradizionalmente femminili durante l’infanzia e il 20% avrebbe voluto essere del sesso opposto. Un altro studio dello stesso anno ha confrontato due gruppi, maschile e femminile, di pazienti bulimici rilevando un’incidenza di comportamenti omosessuali e bisessuali del 53% dei pazienti maschi contro l’assenza di tali condotte nel campione femminile (Schneider & Agras, 1987). Nel 1997 presso il Massachusetts General Hospital, è stata condotta una ricerca analizzando 135 cartelle cliniche di pazienti maschi valutati tra il 1980 e il 1994 con diagnosi di disturbo alimentare. Attraverso l’analisi dei dati anamnestici e le trascrizioni dei colloqui clinici, è emerso che il 42% dei pazienti si riconosceva come omosessuale o bisessuale (Carlat, Camargo & Herzog, 1997)

In tempi più recenti uno studio italiano condotto da Dakanalis e collaboratori (2012) ha indagato il legame tra orientamento sessuale e disturbi del comportamento alimentare, sottoponendo questionari self-report a 125 studenti universitari di orientamento omosessuale e 130 di orientamento eterosessuale. Dal confronto dei due campioni è emerso che i ragazzi omosessuali mostravano più alti livelli di insoddisfazione corporea e un maggior numero di comportamenti alimentari patologici rispetto al campione eterosessuale.

La sovrarappresentazione dell’omosessualità nella popolazione di maschi portatori di disturbi alimentari ha portato i ricercatori a interrogarsi sul fenomeno e nel corso degli anni sono state proposte diverse teorie. Ad esempio Crisp (1972) ha ipotizzato che il disturbo alimentare negli uomini possa avere una funzione protettiva rispetto all’angoscia che la propria omosessualità rinnegata diventi visibile agli altri, giustificando la scarsa virilità percepita con l’estrema magrezza del proprio corpo. Morgan (2008) ha riportato una simile spiegazione, teorizzando che alcuni ragazzi che fanno esperienza di conflitti relativi alla sessualità possano trovare sollievo con il disturbo alimentare: secondo questo autore, in alcuni casi i maschi, attraverso la restrizione alimentare e il conseguente cambiamento della fisiologia del proprio corpo, inibirebbero la pulsione sessuale, sospendendo così i compiti evolutivi relativi al proprio orientamento sessuale. I maschi con disturbi dell’alimentazione riportano una minor attività sessuale prima e durante la malattia rispetto alle ragazze e mostrano alti livelli di angoscia rispetto alle relazioni sessuali; tali tematiche sembrano essere preminenti nella genesi del disturbo alimentare (Balottin, 2003). Secondo le teorie che vedono la patologia come difesa dai conflitti sessuali, la condizione di denutrizione porterebbe ad un minor apporto proteico e una conseguente minor sintesi ormonale; i maschi con anoressia nervosa hanno infatti livelli più bassi di testosterone, correlati a un abbassamento del desiderio sessuale (Hoffer et al., 1986). Tali fenomeni sono analogamente riscontrabili nelle femmine con anoressia restrittiva, dove lo stato di denutrizione porta ad alterazione della funziona ovarica (Singhal et al., 2014) e a una riduzione dell’attività sessuale (Pinheiro et al., 2010,).

Ad oggi il dibattito riguardante il legame tra omosessualità e disturbi alimentari della sfera maschile è ampiamente aperto. Alcuni autori hanno spiegato che il fatto che gli omosessuali siano maggiormente rappresentati tra i maschi con disturbo alimentare, sia da imputare al fatto che possano essere più propensi a chiedere aiuto per tale problematica rispetto agli uomini eterosessuali (Woodside, 2004), di conseguenza la notevole esiguità di diagnosi di disturbo alimentare negli uomini eterosessuali sarebbe da imputare ad una generale reticenza degli individui maschi a chiedere un aiuto psicologico (tale diffidenza si correla ad una maggior ‘mascolinità’ percepita), unita allo stigma sociale derivante dal soffrire di una patologia considerata tipicamente femminile (Greenberg & Schoen, 2008). Questo aspetto è sintetizzato in modo semplice ed efficace dalla testimonianza di un paziente anoressico:

Non posso immaginare quanto sarebbe stato difficile cercare aiuto se io fossi stato eterosessuale. Avrebbero pensato che io fossi gay quando in realtà non lo ero‘. (Ashuk, 2004)

Altri autori sostengono che l’orientamento sessuale sia da considerare nella misura in cui influenza l’espressione clinica del disturbo (Murray et al., 2017), in altre parole gli uomini omosessuali sarebbero più a rischio di sviluppare certi tipi di disturbi alimentari, legati a diete restrittive e comportamenti compensatori, rispetto agli eterosessuali, che li manifesterebbero attraverso modelli alimentari iperproteici e preoccupazioni riguardanti la massa muscolare. Tale differenza deriverebbe dalle diverse concezioni riguardanti la forma del corpo appartenenti alle differenti subculture di appartenenza (Smith et al., 2011).

È importante sottolineare che la maggior parte degli studi finora condotti soffre di alcuni limiti metodologici, come l’esiguità di soggetti considerati, la mancanza di studi randomizzati e una selezione viziata dei campioni considerati (Bankoff & Pantalone, 2014). Inoltre in molte ricerche i soggetti omosessuali e bisessuali venivano inclusi all’interno dello stesso gruppo ‘non eterosessuale’. Si consideri poi che una visione tricotomica dell’orientamento sessuale, alla luce delle evidenze provenienti dalla sessuologia, risulterebbe troppo semplificata e porterebbe a risultati di ricerca troppo vaghi (Kuna & Sόbow, 2017). Infine si prenda in considerazione che gli studi sui disturbi alimentari e orientamento sessuale finora condotti non hanno tenuto conto di quell’emarginazione nosografica riguardante i ‘nuovi’ disturbi della nutrizione quali ad esempio il disturbo da alimentazione incontrollata, la sindrome da alimentazione notturna, la vigoressia e l’ortoressia. Prospettive future di ricerca dovrebbero ampliare i campioni considerati, tenendo conto delle recenti evidenze sui disturbi della nutrizione e sui temi della sessualità.

 

 

Io e le mie ossessioni (2020) di Mark Freeman – Recensione del libro

Il libro di cui parleremo oggi si intitola Io e le mie ossessioni, scritto da Mark Freeman ed edito da Macro.

 

Si tratta di un libro dinamico e agile in cui si racconta il disagio mentale in modo discorsivo, narrativo e risolutivo poiché di volta in volta sono presentati una serie di comportamenti alternativi da intraprendere per poter affrontare i diversi disagi che, spesso, attanagliano la nostra esistenza. Io e le mie ossessioni è diviso in due parti: nella prima parte sono esposte e passate in rassegna le abilità di base della salute mentale che portano ogni persona ad attingere alle stesse per affrontare il quotidiano. Si parte dal riuscire a capire chi siamo o cosa vorremmo essere per comprendere le abilità che ognuno di noi possiede. Lo scopo è conoscere noi stessi, i nostri limiti e i nostri punti di forza, per poi individuare percorsi migliori da intraprendere per ottenere benessere. Per questo, se si riuscissero a individuare quali siano i pensieri e i comportamenti disfunzionali si potrebbe imparare a gestirli, individuando comportamenti alternativi più funzionali al raggiungimento dell’obiettivo. Di conseguenza, il nostro benessere psicologico sarà avvantaggiato dall’apprendimento di questi nuovi comportamenti, se praticati con costanza. Cosa importante è diventare consapevoli del proprio modo di essere e per questo praticare in maniera cadenzata la mindfulness agevola. Quindi, esattamente come uno sportivo cura il proprio corpo allenandosi con costanza e tenacia, tutti dovremmo esercitarci costantemente per ottenere un maggiore benessere mentale.

Nella seconda parte del libro si parlerà di emozioni e di come queste gestiscano la nostra vita quotidiana. Importante è comprendere che se riuscissimo a non assecondare le emozioni, tipo ansia e tristezza, ma ci focalizzassimo su obiettivi e valori diversi riusciremmo a ottenere ciò che desideriamo con un minore dispendio di energie e fatica. Ovviamente, saranno presentante le ossessioni e le compulsioni e saranno passati in rassegna, di conseguenza, una serie di diversi esercizi volti a gestire questi disagi psicologici derivanti dall’ansia. Ci sono esercizi volti a raggiungere il cambiamento, altri invece tendono a rendere consapevoli del disagio, in ogni caso la forza di questo libro è determinata proprio dalla presenza degli esercizi che rendono pratica la teoria e per questo sono fondamentali nel processo di cambiamento e gestione dell’impulso.

La cosa importante è capire che siamo noi al centro, cioè la persona con i propri limiti e i propri punti di forza che la agevoleranno ad affrontare il cambiamento. Lo scopo, dunque, è capire cosa ci può aiutare e renderci più audaci nell’affrontare le sfide quotidiane cui siamo sottoposti. Per questo, superare i propri limiti porta al cambiamento. Tutti possiamo migliorare apprendendo come riuscire a fare esperienza di pensieri, emozioni e desideri, accettandoli senza contrastarli. Solo in questo modo è possibile individuare la strada migliore da intraprendere per andare avanti nel migliore dei modi. L’obiettivo è superare gli stati emotivi dolorosi non assecondandoli, ma metabolizzandoli quotidianamente. Ottenere una buona forma mentale è un lavoro duro, faticoso, ma caratterizzato da costanza e pazienza che alla lunga portano ottimi risultati.

Questo libro si concentra sulle azioni che, se praticate quotidianamente come l’allenamento fisico, riescono a portare alla individuazione di metodi nuovi che aiuteranno a gestire le esperienze difficili della vita. Cambiare i propri comportamenti e le proprie abitudini implica sforzi e sacrifici notevoli, ma solo se si mettono in atto delle azioni è possibile ottenere dei risultati.

Questo è il grande senso del libro: fare per ottenere o come direbbero gli inglesi ‘baby steps but steps!’.

 

La mindfulness può influenzare il rendimento degli studenti?

Il presente studio (Bamber & Morpeth, 2018) si propone di indagare l’effetto della mindfulness sull’ansia degli studenti ed esplora la moderazione rappresentata da fattori relativi alle caratteristiche dell’intervento e dagli aspetti concernenti il partecipante

 

I disturbi d’ansia sono molto comuni all’interno della popolazione studentesca, ed infatti negli ultimi 15 anni la loro diffusione è raddoppiata e circa il 21,9% degli universitari ritiene che l’ansia abbia un impatto negativo sul proprio rendimento (American College of HealthAssociation, 2015a), come confermato dai dati secondo cui alti livelli di ansia possono compromettere la memoria, le abilità di studio, la salute fisica e mentale (Beddoe, & Murphy, 2004).

Gli interventi mindfuness-based (MBIs) sono caratterizzati da controllo dell’attenzione, consapevolezza, accettazione e presenza di pensieri non giudicanti (Kabat-Zinn, 2003), ed i più conosciuti sono la mindfulness-based stress reduction (MBSR) di Vipassana e la mindfulness-based cognitive therapy (MBCT) della tradizione dello Zen buddista, i quali utilizzano degli esercizi corporei in grado di aumentare la focalizzazione sul momento presente.

Recentemente è stata esaminata l’associazione tra la mindfulness e l’ansia, in particolare il modo in cui la pratica delle tecniche di mindfulness è in grado di ridurre i livelli di ansia del soggetto. Per questo motivo, il presente studio (Bamber, &Morpeth, 2018) si propone di indagare l’effetto della mindfulness sull’ansia degli studenti ed esplora la moderazione rappresentata da fattori relativi alle caratteristiche dell’intervento (numero di sessioni, lunghezza del tempo di ogni sessione, l’inclusione dello yoga, sessioni di pratica svolte a casa) e dagli aspetti concernenti il partecipante (livello di studio, genere, età).

1492 individui sono stati suddivisi in due gruppi (gruppo sottoposto a MBI vs di controllo) e,dopo aver condotto le analisi sulle variabili coinvolte, si è rilevato che coloro che praticano mindfulness riportano bassi livelli di ansia rispetto al gruppo di controllo, e che ciò accade sia nella popolazione clinica che in quella non clinica. Si è rilevato inoltre che gli studenti universitari beneficiano maggiormente dei laureati di queste tecniche, probabilmente perché maggiormente coinvolti in imminenti problemi di stress e ansia dovuti alla preparazione e al superamento degli esami del proprio corso di studi (American College of HealthAssociation, 2015a), oltre che per il fatto di avere maggior possibilità rispetto agli adulti di trovare del tempo da dedicare a queste attività. Non sono state d’altro canto evidenziate differenze riguardanti il genere, sebbene le donne in media riportino maggiori livelli di ansia degli uomini (Head and Lindsey, 1983) ed altri studi abbiano rilevato in loro una riduzione considerevole di stress e ansia in seguito a MBIs (De Vibe et al. 2013).

Relativamente alle caratteristiche dell’intervento, si è visto che non ci sono differenze in termini di efficacia in base al tipo di intervento usato, né effetti significativi legati alla lunghezza della singola sessione, ma differenze significative collegate al numero di sessioni svolte. Infatti sembrerebbe che tutti gli interventi di mindfulness siano ugualmente in grado di ridurre l’ansia e che tale effetto sarebbe aumentato dalla quantità di volte che gli esercizi vengono praticati (Khoury et al. 2013). Inaspettatamente però si è trovato che la pratica a casa di tali interventi non ha l’effetto desiderato, in quanto il dover svolgere da soli gli esercizi aumenta l’ansia degli studenti, che sono in difficoltà nel trovare dell’ulteriore tempo da dedicare ad essi e dubbiosi sulla loro capacità di svolgere gli esercizi autonomamente (Birnbaum, 2008).

In conclusione, possiamo dire che gli effetti benefici della mindfulness sulla riduzione dell’ansia, debbano portare gli studenti a prendere in considerazione l’idea di usufruire della tecnica, in quanto potrebbe risultare utile per il loro benessere fisico e mentale, oltre che per il raggiungimento degli obiettivi scolastici e lavorativi.

 

Non-binary e salute mentale: ragionando su esperienze, identità ed espressioni che possono essere sia viaggio sia destinazione

Meg-John Barker (The Open University) e Alex Iantaffi (University of Minnesota) si sono occupati approfonditamente di psicoterapia con persone con identità non-binary, evidenziando una serie di punti che verranno riportati nel seguente articolo. Per una lettura più approfondita sul tema si rimanda agli articoli in bibliografia.

 

Pochi sono gli studi che si sono dedicati all’indagine della salute mentale delle persone con identità di genere non-binary. Gli studi presenti hanno però mostrato come le persone non-binary hanno livelli di salute mentale più bassi delle persone cisgender binary e transgender binary: coloro che esprimono il proprio genere in termini non binary sono ad alto rischio di autolesionismo e suicidio (Harrison et al. 2012). Detto questo, risulta importante sottolineare come l’esperienza di genere non binaria non ha di per sé una relazione intrinseca con la psicopatologia. Gli alti tassi di suicidio ed autolesionismo presenti in questa popolazione sono più ascrivibili alle sfide che tali persone devono affrontare nella vita di tutti i giorni: stigmatizzazione e discriminazione (Barker & Richards, 2013). Inoltre, le persone con identità non binaria vivono in un ambiente in cui le divisioni binarie sono applicate ad ogni aspetto della vita. Il genere è infatti uno dei primi elementi che riscontriamo in una persona che incontriamo. I negozi di abbigliamento hanno dei reparti binari, divisi infatti per genere, i bagni sono maschili o femminili, le persone ti chiamano “signore o signora”, spesso alle scuole dell’infanzia le file vengono create per genere, così le sfide durante l’ora di ginnastica, e così via. Lo stress che deriva dal vivere in un mondo già costruito su esigenze altrui, senza poter trovare uno spazio proprio, è una delle questioni chiave che la maggior parte dei clienti non-binary riporta in terapia. Imparare a navigare in un mondo prevalentemente binario come persona non-binary diventa uno degli obiettivi principali.

In altri casi, invece, la pressione può esser percepita ancora più pesantemente: le persone non-binary, immerse in un ambiente binario, sentono spesso di doversi conformare alle regole binarie del genere perché la loro esistenza venga legittimata. Il sentirsi invisibili o discriminati sono due tra le sensazioni più riportate da coloro i quali vivono questa esperienza.

Barker e colleghi (2015) hanno rilevato come le persone non-binary vivono stressor simili a quelli vissuti dalle persone con orientamento bisessuale e pansessuale, le quali presentano livelli di salute mentale significativamente più bassi di quelli riportati da persone eterosessuali o omosessuali.

Altri aspetti che vengono portati in terapia da persone non-binary possono essere il coming-out, stati di disagio legati alla possibile disforia di genere, e l’accesso al percorso di transizione di genere. Il percorso di transizione anche per le persone non binarie può essere totale come parziale, e nel percorso psicologico la soddisfazione o insoddisfazione per specifiche parti del proprio corpo (in relazione a sé o agli altri) prende uno spazio importante. Inoltre, la transizione parziale in alcuni casi porta a corpi “nuovi”, che la società sembra non essere ancora abituata a vedere ed integrare. Corpi che integrano le caratteristiche sessuali maschili-femminili o corpi che vanno totalmente oltre tali caratteristiche. Per questo motivo, per motivi legati all’accesso alle cure (differenti a seconda della nazione di riferimento) e per motivi che risultano ancora da esplorare, le persone non-binary si sottopongono meno a percorsi di transizione medicalizzati, rispetto alla controparte trans binaria.

Ulteriori tematiche portate in terapia sono le eventuali difficoltà riscontrate nelle relazioni romanticosessuali, all’apertura comunicativa con un altro che non necessariamente comprende/sperimenta/accoglie l’esperienza non-binary del partner.

I clienti non-binary potrebbero inoltre voler discutere con un esperto dell’esigenza di scegliere la terminologia che preferirebbero usare e che preferirebbero gli altri usassero per riferirsi ad ess*, spaziando tra le “etichette” (genderqueer, neutral, bigender, agender e così via), il nome e pronomi di riferimento. Importante considerare come, a questo proposito, la lingua italiana non è facilmente adattabile ad un linguaggio neutrale, al contrario della lingua inglese, in cui con il pronome “they” ci si può avvicinare molto più facilmente alla neutralità. Inoltre, è stato da poco inserito l’uso del suffisso “Mx”, inserito in alternativa a “Mr”, “Mrs”, “Miss” e “Ms”.

Essere a conoscenza dei possibili modi che una persona ha per esprimere il proprio genere diventa importante nel poter guidare il proprio paziente nell’esplorazione di ciò che è più adeguato ad esso: cambio di abbigliamento, uso degli accessori, taglio di capelli, uso del make-up, cambiamenti di postura, andatura, modificazioni del corpo tramite attività fisica e impostazione vocale. Il tutto non può prescindere dal tenere in considerazione il fatto che per persone con sesso assegnato alla nascita maschile, ogni piccolo cambiamento nei sopra citati aspetti comporta una percezione più marcata del genere, determinando una netta spaccatura tra il sesso assegnato alla nascita e l’espressione di genere, mentre per la controparte femminile tale confine è sdoganato. Nella moda stessa, già da molti anni, abiti socialmente considerati maschili sono stati indossati e disegnati per essere indossati da persone percepite come donne, basti pensare al vedere un uomo indossare una gonna rispetto al vedere una donna indossare un completo con cravatta. Nel primo caso molto probabilmente le persone potrebbero mettere in dubbio l’identità di genere della persona, mentre nel secondo caso l’impatto sulle riflessioni di genere è sicuramente meno marcato.

Non bisogna dimenticare il lavoro da svolgere con coloro che per anni hanno occupato un’identità sessuale omosessuale e che si ritrovano a ristrutturare la propria identità, considerando una visione non binaria legata più al genere che all’orientamento, perdendo in taluni casi il sostegno della propria comunità di riferimento o dovendo affrontare un ulteriore coming out con parenti e amici.

 


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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

 

 

Il disturbo da accumulo

Il disturbo da accumulo è solitamente progressivo, esordisce in giovane età, ma con l’avanzare degli anni si possono presentare problemi significativi sulla salute fisica e psicosociale. Il comportamento di accumulo è ereditario e la remissione spontanea molto rara.

Cos’è il disturbo da accumulo

Il Disturbo da Accumulo (DA) o Disposofobia, tradotto dall’inglese Hoarding Disorder, è un disturbo caratterizzato dalla tendenza ad accumulare oggetti in maniera eccessiva, limitando fortemente l’uso e il funzionamento degli spazi domestici (Frost & Hartl, 1996). Chi ne soffre spesso ha scarsa consapevolezza del disturbo, poiché inizialmente i sintomi sono percepiti come egosintonici.

Si tratta di un disturbo progressivo: l’esordio coincide con l’età giovanile, ma con l’avanzare dell’età, in genere intorno ai 40-50 anni, si possono presentare problemi significativi sulla salute fisica e psicosociale. Come riporta il DSM 5 il comportamento di accumulo è ereditario, un paziente su due ha nella sua storia personale un parente che accumula. Nella ricerca di Landau, Iervolino, Pertusa, Santo, Singh e Mataix-Cols (2011) emerge che spesso il peggioramento del disturbo è conseguente ad alcuni eventi traumatici quali un lutto o la separazione dal partner. La remissione spontanea è molto rara.

Clinicamente il disturbo da accumulo presenta tre componenti:

1) L’accumulo e/o l’acquisizione di un numero eccessivo di oggetti

Gli oggetti accumulati sono di qualsiasi tipo: giornali, libri, spazzatura così come oggetti di valore. La forma di acquisizione è prevalentemente quella di collezionare, acquistare o rubare (DSM IV).

Molto spesso si sceglie di tenere degli oggetti, perché questi mantengono vivi ricordi e memorie, si ha quindi paura di dimenticare, di perdere dei ricordi considerati preziosi perché facenti parte della storia personale. Non sorprende che i pazienti disposofobici conoscano ogni singolo oggetto e la ragione per cui lo tengono. A volte pensano che lo terranno solo per un periodo temporaneo, che potrà servire per un prossimo futuro che spesso non arriverà mai.

2) La difficoltà a separarsi dagli oggetti

Chi soffre di DA ha una difficoltà affettiva a liberarsi degli oggetti, il solo pensiero procura un certo grado d’ansia, rimandare il momento della separazione sembra essere l’unica opzione possibile.

Molto spesso il comportamento di accumulo è giustificato da motivazioni ambientaliste: le persone con DA si definiscono attente all’evitamento dello spreco e a favore del riciclo, il tutto quindi assume una connotazione morale che, oltre a rinforzare il comportamento di accumulo, abbassa ulteriormente la consapevolezza della malattia.

3) La difficoltà ad organizzare gli oggetti

Le persone con DA hanno difficoltà a creare delle categorie: tendono a creare una categoria per ogni oggetto. La difficoltà potrebbe derivare da un malfunzionamento delle capacità di attenzione, memorizzazione, pianificazione e decisione. Questo aspetto si riscontra anche nel linguaggio: sono persone prolisse, non riescono a stabilire delle priorità e hanno poca capacità di sintesi (Frost & Steketee, 2007).

Criteri diagnostici e comorbilità

Il Disturbo da Accumulo è presente nella quinta edizione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) quale categoria diagnostica a sé, all’interno della più ampia categoria dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi e Disturbi correlati (APA, 2013).

I criteri diagnostici sono:

  • a. Persistente difficoltà di gettare via o separarsi dai propri beni, a prescindere dal loro valore reale.
  • b. Questa difficoltà è dovuta a un bisogno percepito di conservare gli oggetti e al disagio associato al gettarli via.
  • c. La difficoltà di gettare via i propri beni produce un accumulo che congestiona e ingombra gli spazi vitali e ne compromette sostanzialmente l’uso previsto. Se gli spazi vitali sono sgombri, è solo grazie all’intervento di terze parti (per es. familiari, addetti alle pulizie, autorità).
  • d. L’accumulo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti (incluso il mantenimento di un ambiente sicuro per sé e per gli altri).
  • e. L’accumulo non è attribuibile a un’altra condizione medica.
  • f. L’accumulo non è meglio giustificato dai sintomi di un altro disturbo mentale.

E’ possibile e utile specificare il grado di insight che il paziente possiede circa il proprio disturbo da accumulo: il continuum parte da un buon insight (riconosce i comportamenti e le credenze come problematiche), passa per uno scarso insight (la consapevolezza cala considerevolmente) e termina in un insight delirante (non ha consapevolezza anche di fronte all’evidenza).

La storia del DA inizia negli anni ’80, il DSM III lo classifica come un criterio diagnostico del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità (DOCP), nel 2000 il DSM IV-TR lo annovera come una componente o sintomo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). Soltanto nel DSM 5 diviene categoria diagnostica a sé stante, questo è uno dei motivi per cui esistono pochi studi sul disturbo e naturalmente sul trattamento. Ha contribuito anche il fatto che le persone con DA e spesso anche i familiari, tendono a nascondere il disturbo per vergogna e tendono a non chiedere un aiuto psicologico.

Il disturbo da accumulo si presenta per il 75% di casi in comorbilità con altri disturbi psicopatologici, i più comuni sono: Disturbo Ossessivo-compulsivo, Disturbi Depressivi, Disturbi d’Ansia, disturbi legati al controllo degli impulsi e il Disturbo da Deficit di Attenzione/ Iperattività (Frost & Steketee, 2015).

Una particolarità che discrimina il DA rispetto ad altre condizioni psicologiche è l’intenzionalità nel conservare i propri beni: in disturbi come il DOC, DOCP o nel Disturbo Depressivo Maggiore, l’accumulo è passivo, non si prova alcun disagio sperimentato a fronte dell’eliminazione dei propri oggetti.

Possibili strategie di intervento psicoterapico

La richiesta di un aiuto psicologico è stata spesso secondaria ad altri disturbi in comorbidità (Tolin et al. 2008), questo ha comportato una richiesta tardiva quando i sintomi erano già gravi e cronicizzati (Ayers et al., 2010; McGuire et al., 2013). Inoltre, i pazienti che chiedevano un supporto erano soggetti a frequenti drop-out e spesso i risultati terapeutici non sono stati significativamente rilevanti (Mataix-Cols et al., 2002; Steketee & Frost, 2003).

Negli ultimi anni, quindi, Frost e Steketee hanno messo a punto un modello per il trattamento dando particolare importanza al disagio emotivo, l’evitamento conseguente e il probabile deficit di processamento delle informazioni (Steketee, Frost, 2007; Tolin et al., 2007).

Lo scopo è quello di aiutare il paziente a trovare una strategia per sopportare meglio la sensazione di liberarsi di qualcosa per lui importante.

Le componenti sono:

  • interventi focalizzati sulla motivazione al trattamento;
  • skill training: si conduce il paziente verso una buona capacità di risoluzione di problemi e presa di decisioni in autonomia;
  • esposizione in vivo allo stimolo e ricerca di modalità alternative all’accumulo;
  • ristrutturazione cognitiva: si indagano e si modificano le convinzioni e i temi personali legati al disturbo.

Circa il 70% dei pazienti che si sono sottoposti al trattamento hanno avuto un miglioramento sintomatologico (Tolin et al. 2008).

Più recentemente in Italia Claudia Perdighe e Francesco Mancini hanno pubblicato un manuale dal titolo Il disturbo da accumulo in cui viene ben illustrato il trattamento con terapia cognitivo-comportamentale.

Spesso la richiesta di aiuto proviene dai familiari dei pazienti, per questo motivo Tolin, Frost, Steketee e Fitch (2008a) sostengono che possono giocare un ruolo fondamentale per la buona riuscita della terapia. Grazie agli incontri psicoeducativi di gruppo per i familiari si possono fornire loro degli strumenti per conoscere meglio il disturbo e per indirizzare le dinamiche interpersonali con il paziente.

Negli Stati Uniti esistono diversi siti web rivolti ai familiari degli accumulatori. Un esempio è Children of Hoarders (visita il sito cliccando QUI). Gli utenti possono condividere le proprie esperienze e raccogliere informazioni sul disturbo.

Conclusioni

Il Disturbo da accumulo viene studiato da poco tempo e non sono stati ancora approfonditi molti aspetti. Gli studiosi che finora si sono dedicati a comprendere e a cercare un trattamento hanno gettato delle ottime basi su cui poter costruire ulteriore conoscenza.

 

L’analisi delle catene comportamentali nella DBT (2020) di Shireen L. Rizvi – Recensione del libro

L’analisi delle catene comportamentali nella DBT è un testo molto utile per gli addetti ai lavori, per i terapeuti impegnati nel trattamento di pazienti con tratti borderline o disturbo borderline di personalità.

 

In tali trattamenti, potrebbe risultare fondamentale l’analisi funzionale del comportamento, con lo scopo di verificare quali eventi concorrano a far comparire comportamenti, in particolare, e specificamente, i comportamenti disfunzionali dei soggetti borderline, che non sembrano generati da un’intenzionalità, più o meno volontaria o consapevole, finalizzata a obiettivi significativi per il soggetto. Come a dire che i comportamenti disfunzionali non sembrano determinati da una scelta volontaria, in funzione di un obiettivo connesso con un valore, ma piuttosto da rapporti di causa ed effetto di natura più o meno automatica, che sfuggono completamente al controllo del soggetto quando si tratta di reazioni immediate, intense, di natura impulsiva.

Diventa allora fondamentale capire che cosa controlla il comportamento nel momento in cui viene messo in atto, attraverso l’analisi funzionale del comportamento, che viene solitamente denominata ‘analisi delle catene comportamentali’, o ‘chain analysis’: è una tecnica molto precisa e consolidata, che richiede un buon addestramento, ed è tesa ad aiutare i pazienti a padroneggiare l’abilità di analizzare il loro comportamento così come fa il loro terapeuta (vedi Linehan, 1993), condividendo con loro con chiarezza gli obiettivi che derivano dall’impiego di tale tecnica. L’analisi della catena è una descrizione dettagliata di tutti gli eventi, pensieri e sentimenti che portano al comportamento bersaglio, così come alle conseguenze del comportamento stesso. Deve essere piuttosto precisa e focalizzarsi davvero sull’esatta sequenza di eventi così come si sono verificati in quei momenti.

A prima vista potrebbe sembrare un intervento molto rigido (ed in parte lo è, essendo di nascita un intervento comportamentale), ma in realtà è ‘la mente saggia’ che fa da guida nella conduzione della chain analysis è una via di mezzo tra la ricerca, da un lato, di rigide concatenazioni di causa ed effetto, prendendo in considerazione tutte le componenti che concorrono a generare la relazione tra eventi scatenanti e comportamenti disfunzionali, e dall’altro rispetto a un utilizzo di ipotesi non basate sui fatti e sulle loro connessioni, ma su interpretazioni dei fatti, o su speculazioni relative a essi, discussi con il paziente stesso. L’identificazione della relazione tra causa ed effetto, che usualmente si concentra su due termini (il comportamento problematico e l’evento scatenante) va inserito all’interno della molteplicità di fattori che, probabilisticamente, influiscono su questa relazione: fattori di vulnerabilità biologica, emozionale e relazionale, il contesto in cui si verificano gli eventi, le azioni, i pensieri e le emozioni che costituiscono fonti di variabilità.

Il testo descrive con molta precisione e numerosi esempi le strategie dialettiche, comunicative ed altre stategie nucleari come la validazione, impiegate per condurre una buona analisi comportamentale. Rappresenta un’ottima guida pratica per i clinici che vogliono approfondire questo valido strumento.

 

Nano Gianni e i granelli rossi (2020) di Fabio Sbattella – Recensione del libro

In un periodo non proprio facile come quello caratterizzato dalla pandemia da Covid-19 sono molti i libri e i trattati che hanno contribuito a illustrare questo fenomeno, tra questi Nano Gianni e i granelli rossi.

 

Si parla di lockdown, isolamento, vittime, insomma tutte tematiche attuali e di spessore, ma senz’altro poco allegre.

E per quanto riguarda i bambini? Come potrebbe essere possibile raccontare loro questo fenomeno in termini allegri e giocosi?

Ci pensa Fabio Sbattella, il quale ha messo a punto un’autentica fiaba sul coronavirus.

Nel regno di Madia c’è grande agitazione a causa dei terribili granelli rossi portati dal vento. Dei puntini piccolissimi, quasi invisibili, ma terribili. Si infilano negli ingranaggi di tutti i meccanismi, le macchine si bloccano e soprattutto le persone iniziano a starnutire senza tregua.

Il re del regno convoca a corte chiunque abbia un’idea per fermare i granelli rossi prima che sia troppo tardi.

Ed è così che giungono al palazzo le idee più grandiose e originali, forse un po’ troppo.

Tutti pensano che per fermare il terribile sciame di puntini ci voglia una soluzione estremamente potente, perché è convinzione che solo facendo qualcosa di grande sarà poi possibile trovare rimedio.

Peccato che le opzioni proposte non trovino attuazione, forse proprio perché troppo ingegnose e quindi irrealizzabili.

Il regno si sente sconfortato finché non giunge alla sala del palazzo reale il piccolo nano Gianni. Egli ha una trovata piccola proprio come lui: i granelli rossi possono essere annientati solo da qualcosa di estremamente minuscolo, più piccolo di loro.
Nano Gianni suggerisce di rimpicciolirsi in modo tale da poter entrare in ogni singolo granello e sgonfiarlo. Ovviamente la cosa richiederà tempo, ed è opportuno che il popolo di Madia si tenga impegnato.

Ed è così che l’intera popolazione ha modo di riscoprire quante cose può fare restando al riparo nel proprio piccolo regno: le nonne cucinano nuove ricette per gli adorati nipotini, i mercanti si godono il sonno ristoratore, i bambini giocano con gusto tra loro.

Ogni giorno le sentinelle osservano in lontananza i puntini rossi che col tempo sono in continua diminuzione, e soprattutto tutti aspettano il ritorno di nano Gianni.

E quando nano Gianni completa la sua opera torna a corte trionfante, ricordando al popolo che per battere i puntini rossi non servono i cosiddetti ‘colossi’, ma qualcosa di molto piccino: l’impegno e la paziente attesa da parte di tutti.

E fu così che tutti gli abitanti del regno ebbero finalmente modo di festeggiare abbracciandosi e stringendosi le mani.

Fabio Sbattella ha messo a punto una bellissima fiaba non solo metaforica, ma soprattutto allegra, adatta a bambini ed adulti, focalizzandosi sugli aspetti positivi generati dal Covid-19: la speranza di trionfare grazie al proprio impegno personale, la possibilità di godersi il tempo libero con i propri cari, l’apprezzare le cose accantonate da tempo.

E bisogna aggiungere che Sbattella non si limita a raccontare una fiaba, ma in coda al suo libro descrive una serie di attività e giochi da fare durante il periodo di quarantena. Attività fantasiose e di facile realizzazione per grandi e piccini.

Perché questo libro non è rivolto solo ai bambini, ma anche ai genitori. L’autore fornisce loro una serie di suggerimenti su come far trascorrere le giornate ai propri figli e su come occupare il proprio tempo al riparo da tutte quelle emozioni sgradevoli tipiche di un lockdown.

Ogni attività proposta fornisce uno stimolo per inventarne qualcuna di nuova.

Al termine della lettura la sensazione non può che essere piacevole.

Senz’altro si tratta di un ottimo libro leggero e distensivo che affronta in maniera allegra e fantasiosa una tematica considerata poco piacevole: una pandemia.

Il lavoro emozionale: effetti su lavoratori e clienti

Lavorare direttamente con il pubblico si traduce spesso nella necessità di mostrarsi gentili, educati, amichevoli. Ciò richiede uno sforzo per regolare le proprie emozioni e infatti, l’impegno di regolare costantemente le proprie emozioni, richiesto ai lavoratori che interagiscono frequentemente con il pubblico, viene definito in italiano “lavoro emozionale” (Grandey e Sayre, 2019).

 

Lavorare nel settore terziario spesso significa interfacciarsi direttamente con il pubblico. Questo a sua volta può tradursi nella necessità di mostrarsi gentili, educati, amichevoli. Talvolta, questi atteggiamenti, definiti “regole di facciata”, display rules in inglese, fanno esplicitamente parte dei requisiti necessari per svolgere un dato lavoro. Ad esempio, un ristoratore potrebbe chiedere ai camerieri di essere sempre sorridenti con i clienti.

Tuttavia, ciò richiede uno sforzo per regolare le proprie emozioni. Infatti, l’impegno, richiesto ai lavoratori che interagiscono frequentemente con il pubblico, di regolare costantemente le proprie emozioni viene definito in italiano “lavoro emozionale” (Grandey e Sayre, 2019).

Grandey e Sayre (2019) hanno revisionato la letteratura recente sul lavoro emozionale, per comprendere quali strategie vengano adottate per regolare le proprie emozioni sul lavoro e quali effetti abbiano per lavoratori e clienti.

Quali strategie può adottare un lavoratore per aderire alle “regole di facciata”? La letteratura sul lavoro emozionale individua due tipologie principali: la recitazione profonda (deep acting) e la recitazione superficiale (surface acting). La prima comporta modificare realmente le proprie emozioni e atteggiamenti, la seconda significa mostrare un’emozione superficialmente, senza provarla realmente. Ad esempio, possiamo immaginare un cameriere per cui trattare con gentilezza i clienti sia un valore personale. In questo caso il cameriere sarà capace di regolare le proprie emozioni e mostrarsi genuinamente gentile anche di fronte a un cliente maleducato. Al contrario,possiamo immaginare un cameriere che sia appena stato rimproverato da un proprio superiore e che debba comunque mostrarsi sorridente. In questo caso, il cameriere potrebbe utilizzare maggiormente una recitazione superficiale.

Quali sono le implicazioni di queste due strategie, per i lavoratori e per i clienti? Per i lavoratori, attuare strategie di recitazione profonda può portare ad esaurimento e sintomi psicosomatici (Hülsheger e Schewe, 2011), ma in alcuni casi è associato a maggior soddisfazione lavorativa (Grandey e colleghi, 2013). La recitazione superficiale invece sembra avere effetti più negativi, perché condurrebbe a maggior burnout e a maggiori sintomi psicosomatici (Hülsheger e Schewe, 2011). Inoltre, chi utilizza principalmente la recitazione superficiale deve impegnarsi continuamente per controllare la manifestazione delle proprie emozioni, impiegando in questo scopo buona parte delle proprie risorse cognitive. Di conseguenza, potrebbe avere minore attenzione e risorse per svolgere adeguatamente la propria performance lavorativa.

Il fatto che i lavoratori stiano sorridendo sinceramente o solo perché devono farlo fa la differenza per i clienti? In generale, sembra che non sia così: i clienti possono riconoscere che una persona che attua una recitazione profonda sia più sincera e genuina di una che attua una recitazione superficiale, ma entrambe le strategie raggiungono lo scopo: il cliente viene trattato con gentilezza. La recitazione superficiale potrebbe diminuire la soddisfazione del cliente solo se il fatto che il lavoratore stia fingendo e si stia sforzando di contenere le proprie reali emozioni diventa palese (Groth e colleghi, 2009).

Che cosa può fare un datore di lavoro o un’azienda per sostenere la motivazione dei propri dipendenti a svolgere un buon lavoro emozionale? Una possibilità è permettere ai lavoratori di sviluppare una motivazione intrinseca al lavoro emozionale. Ad esempio, invece che assegnare una specifica frase con cui il lavoratore deve salutare i clienti, dargli l’obiettivo generale di accogliere i clienti in modo caloroso, permettendogli di scegliere autonomamente le modalità specifiche con cui farlo. Un’altra possibilità è quella di riconoscere il lavoro emozionale come tale e fornire per esso una ricompensa, anche economica. Infatti, sapere che si è pagati per recitare certe emozioni fornisce una giustificazione esterna al fatto di mostrare comportamenti poco autentici e sinceri (Grandey e colleghi, 2013). Infine, può essere utile creare un ambiente supportivo rispetto all’espressione delle emozioni, in modo che i colleghi di lavoro possano sostenersi a vicenda, ad esempio dopo aver interagito con un cliente problematico.

In futuro, la ricerca sul lavoro emozionale potrebbe indagare quali siano gli effetti di fingere emozioni non solo positive, ma anche negative. Infatti, in alcuni casi un superiore potrebbe mostrare emozioni negative, come la rabbia, per motivare i propri dipendenti.

Infine, un ulteriore passo per la ricerca sul lavoro emozionale sarebbe quello di integrare le proprie conoscenze con quelle elaborate nell’ambito della regolazione emotiva in generale (Gross, 2015).

 

Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra

Numerosi autori hanno evidenziato come il verdetto del Dodo si poggi su evidenze empiriche e ragionamenti teorici che presentano notevoli criticità, mettendo seriamente in discussione la sua fondatezza. In questo articolo si considereranno tre limiti delle ricerche che sostengono il verdetto del Dodo e alcune sue implicazioni paradossali.

 

Nel 1936 il Dodo espresse il suo verdetto sulle psicoterapie: sono tutte ugualmente efficaci, dunque tutte meritano un premio (Rosensweig, 1936).

Da questo verdetto sono derivati due filoni di ricerca. Il primo dedicato a controllare la validità del parere del Dodo: è vero che ci si possano aspettare gli stessi risultati da qualunque psicoterapia per qualunque disturbo? Il secondo deriva dal seguente ragionamento, se tutte le psicoterapie funzionano, allora ci devono essere dei fattori terapeutici comuni, e ci si pone la domanda di quali essi siano. In questo articolo ci occuperemo solo della prima questione. A favore del verdetto vi sono diverse ricerche, la prima fu pubblicata nel 1975 da Luborsky, Singer e Luborsky. Gli autori confrontarono tutti gli studi empirici pubblicati fino ad allora sull’efficacia delle psicoterapie e conclusero che le psicoterapie apparivano sostanzialmente uguali quanto a risultati. Negli anni successivi, tale studio ebbe risonanza nella comunità degli psicoterapeuti e fu ripetuto da altre meta-analisi (e.g. Smith & Glass, 1997; Wampold et al., 1997; Luborsky et al., 2002).

In questo breve articolo considereremo alcune delle ragioni che hanno portato le più autorevoli linee guida internazionali a NON tener conto del Dodo, ma a basare le proprie indicazioni sulle risposte alla seguente domanda “quale o quali psicoterapie sono più efficaci per quale disturbo?”. Non si è tenuto conto del Dodo perché le prove a suo favore non sono adeguate e perché ci sono ottimi argomenti per ritenere che il verdetto derivi da artefatti metodologici e per sostenere che le psicoterapie non siano tutte efficaci allo stesso modo per tutti i disturbi. Numerosi autori, infatti, hanno evidenziato come il verdetto del Dodo si poggi su evidenze empiriche e ragionamenti teorici che presentano notevoli criticità, mettendo seriamente in discussione la sua fondatezza (e.g. Chambless, 2002; Crits-Cristoph, 1997; Hunsley e Di Giulio, 2002; Marcus, O’Connell, Norris, & Sawaqdeh, 2014).

In questo articolo considereremo tre limiti delle ricerche che sostengono il verdetto del Dodo e alcune sue implicazioni paradossali.

Il primo limite: le diverse psicoterapie sono confrontate in modo inadeguato

Una prima critica può essere rivolta a diverse metanalisi (Shapiro & Shapiro, 1982; Robinson, Berman, & Neimeyer, 1990; Smith, Glass, & Miller, 1980), che, di fronte all’eccessiva numerosità delle tecniche psicoterapeutiche studiate nelle ricerche primarie, che sono l’oggetto delle meta-analisi, le hanno raggruppate in macro-categorie che hanno confrontato rispetto alla loro efficacia.  I criteri con cui sono state definite le macro categorie appaiono molto discutibili dal punto di vista teorico e inficiano quindi la validità delle conclusioni tratte dagli studi. Per esempio, la terapia psicodinamica è stata inclusa nella stessa categoria assieme alla terapia umanistica (Shapiro & Shapiro, 1982). In questo modo psicoterapie di efficacia molto diversa tra loro sono state inserite nella stessa macro-categoria con il risultato che il loro effect size complessivo risulta ben poco informativo (Cuijpers, van Straten, Bohlmeijer, Hollan, & Andersson, 2010).

In merito a questo punto, il caso della meta-analisi di Smith, Glass e Miller (1980), successivamente esaminata da Hunsley e Di Giulio (2002), appare esemplificativo. Gli autori hanno in un primo momento confrontato centinaia di dati relativi a esiti del trattamento o studi di confronto tra trattamenti. Facendo ciò, trovarono chiare evidenze a supporto dell’esistenza di differenze, in termini di efficacia, tra diverse terapie e “sottoclassi” di terapie. Ad esempio, i trattamenti cognitivi e cognitivi comportamentali mostravano gli effect size più elevati, seguiti dai trattamenti comportamentali e psicodinamici, dai trattamenti umanistici e infine trattamenti di sviluppo personale, come ad esempio il counselling. Smith et al. hanno poi analizzato i risultati considerando l’efficacia delle sottoclassi di terapie rispetto ai diversi disturbi. Di nuovo sono emerse sostanziali differenze. Per quanto riguarda il trattamento della depressione, ad esempio, l’effect size relativo ai trattamenti cognitivo e comportamentali era di 1.18 mentre quello relativo ai trattamenti umanistici raggiungeva soltanto il .50. Quindi, confrontando sottoclassi di psicoterapie, gli autori non hanno trovato conferma del verdetto del Dodo.

Le psicoterapie non risultavano tutte uguali né in generale né per ogni disturbo.

Questi dati, tuttavia, non sono presi in considerazione dai sostenitori del Dodo. I quali invece si focalizzano su analisi condotte non su “sottoclassi”, ma riunendo le psicoterapie in macro categorie. Ad esempio, Smith et al. (1980) dopo aver analizzato i confronti fra le sottoclassi, divisero le psicoterapie in due macro categorie, quelle “comportamentali” e quelle “verbali”, ne confrontarono gli esiti e non trovarono differenze. Quindi, c’erano differenze tra “sottoclassi” di psicoterapie che però scomparivano se le psicoterapie erano distinte in macro categorie. Come mai? Per rispondere dobbiamo porci una domanda preliminare, quali psicoterapie erano state incluse nelle due macrocategorie? Gli autori hanno inserito i trattamenti cognitivo-comportamentali e comportamentali, come ad esempio la desensibilizzazione sistematica, nella macro-categoria “comportamentale”. Tra i trattamenti inclusi nella categoria di confronto, denominata “verbale” vi erano le psicoterapie psicodinamiche, umanistiche e anche quelle cognitive. La suddivisione operata dagli autori appare arbitraria e poco giustificabile sul piano concettuale. Per esempio, che senso ha mettere la terapia cognitiva assieme a quella psicodinamica e non a quella comportamentale? Non solo, ma poiché lo scopo era il confronto dell’efficacia, è ovvio che non ci fossero differenze fra le due macro-categorie, perché le due sottoclassi di maggior efficacia erano state inserite una, la terapia comportamentale, nella macro-categoria “comportamentale” e l’altra, quella cognitiva, nella macro-categoria “verbale”. Come osservano Hunsley e Di Giulio (2002), e come brevemente esemplificato dal caso di Smith et al. (1980), i supporti empirici forniti da alcune meta-analisi sembrano quindi derivati da errori di classificazione.

In aggiunta, diverse meta-analisi, che hanno sostenuto la legittimità del verdetto del Dodo, non hanno tenuto conto che negli studi primari l’efficacia di una psicoterapia fosse misurata (Chambless et al., 2002; Crits-Christoph, 1997; Marcus et al., 2014) rispetto a gruppi di controllo molto diversi, come lista d’attesa, condizioni placebo, trattamenti farmacologici o altre psicoterapie. È piuttosto ovvio che uno studio che confronta due tecniche terapeutiche entrambe efficaci, ad esempio la ristrutturazione cognitiva e l’esposizione e prevenzione della risposta per un disturbo d’ansia, osservi un divario minore, in termini di efficacia, rispetto a uno studio che confronta una tecnica psicoterapeutica, ad esempio psicodinamica, con una lista d’attesa o un intervento di sostegno. Ad esempio, la metanalisi di Smith e Glass (1997) ha considerato più di 400 trial controllati. In questi trial gli esiti ottenuti da diversi tipi di psicoterapia erano stati confrontati con quelli ottenuti in condizioni di controllo. Il risultato della meta-analisi è stato che le varie psicoterapie apparivano uguali fra loro quanto a efficacia. Cioè tutte risultavano più efficaci delle condizioni di controllo. Il problema è che le condizioni di controllo utilizzate nelle ricerche primarie erano diversissime e ciò inficia completamente le conclusioni della meta-analisi. Ad esempio è evidente che l’efficacia, rispetto alla cura del disturbo di panico di una psicoterapia, confrontata con una condizione placebo, o con una lista d’attesa, è sopravvalutata, rispetto a quanto avviene se la si confronta con un’altra psicoterapia altrettanto efficace. Una meta-analisi che mira a supportare il verdetto del Dodo, dovrebbe assicurarsi che tutti gli studi primari considerati usino le stesse condizioni di controllo e sarebbe ancor meglio se usassero, come controllo, unicamente trattamenti psicoterapeutici e non placebo, liste di attesa, supporto psicologico o il cosiddetto trattamento as usual. In assenza di questo prerequisito, le conclusioni tratte da uno studio meta-analitico sono falsate e dunque inaffidabili e inutili.

Forti di tali consapevolezze, una successiva meta-analisi che fornì supporto al verdetto del Dodo, condotta da Wampold et al. (1997), cercò di ovviare a queste due importanti limitazioni. Al fine di non ricorrere al discutibile utilizzo delle macro-categorie di psicoterapie, gli autori procedettero esaminando la distribuzione di tutti gli effect size relativi ai singoli confronti tra trattamenti e testarono l’eterogeneità della distribuzione degli effect size, centrata attorno allo zero. La scarsa eterogeneità dei risultati fu interpretata come una prova del verdetto del Dodo. Tuttavia, è stato osservato che il metodo utilizzato per calcolare l’eterogeneità degli esiti dei diversi trattamenti, inevitabilmente favoriva una apparente omogeneità (Hunsley e Di Giulio, 2002). Wampold et al. usarono anche un sistema più semplice cioè calcolarono tutti gli effect size, fra le coppie dei trattamenti, poi li sommarono e li divisero per il loro numero. L’effect size medio fu 0.19. Secondo Wampold et al. (1997) questa differenza sarebbe troppo modesta per poter dire che alcune psicoterapie siano più efficaci di altre e, pertanto, avrebbe ragione il Dodo. Secondo altri invece, questo dato non autorizza la conclusione che tutte le psicoterapie siano di pari efficacia e comunque è rilevante, se si considera la questione dal punto di vista di un paziente, sapere che un certo trattamento offre delle probabilità maggiori di stare meglio (Rounsaville e Carroll, 2002).

Ma il risultato più interessante appare solo se si considerano più da vicino le psicoterapie che Wampold et al. (1997) hanno inserito nella loro metanalisi e ci si chiede quali psicoterapie erano state confrontate. Il risultato indebolisce le conclusioni di Wampold. Crits-Christoph (1997) ha riscontrato che il 69% degli studi confrontava un trattamento CBT con un altro trattamento CBT, ad esempio la ristrutturazione cognitiva con l’esposizione e prevenzione della risposta. Per Hunsley e Di Giulio (2002) addirittura l’80% degli studi considerati nella metanalisi di Wampold riguardava confronti tra interventi CBT. Quindi, le conclusioni di Wampold et al. (1997) circa l’equivalenza delle psicoterapie sembrerebbero valide per i trattamenti CBT ma non per quelli bona fide in generale.

Infine Sanders e Hunsley (2018) riconoscono a Wampold et al. il merito di aver introdotto come criterio di inclusione il concetto di psicoterapia bona fide, ma criticano l’inclusione di trattamenti psicoterapeutici per problematiche molto difformi fra loro come l’abbandono scolastico, training per le abiltià sociali, l’obesità e conflitti decisionali e non solo disturbi di ben definito interesse clinico. Saners e Hunsley concludono suggerendo che la valutazione delle psicoterapie dovrebbe considerare trattamenti bona fide per disturbi clinici bona fide, cioè ben definiti.

Il secondo limite: la natura degli esiti delle diverse psicoterapie non è sempre la stessa e ciò non le rende facilmente confrontabili

Un’altra critica agli studi che sostengono l’effetto Dodo riguarda l’eterogeneità degli esiti considerati dagli autori (e.g. Marcus et al., 2014). In alcune meta-analisi (e.g. Wampold et al., 1997) gli autori non hanno differenziato gli esiti considerati primari (ad esempio, la riduzione della sofferenza psicopatologica) dagli esiti secondari (ad esempio, il benessere globale). In merito a questo punto, è esemplificativa la conclusione di Baardseth et al. del 2013 che notò come psicoterapie diverse fossero equivalenti rispetto a certi esiti, ma non rispetto ad altri. Alla luce di questa critica, la conclusione secondo la quale tutte le psicoterapie sarebbero efficaci allo stesso modo non appare corretta perché alcune psicoterapie potrebbero essere efficaci per un esito primario e altre per uno secondario. La critica è ben riassunta da Rounsaville e Carroll (2002):

Come cinque sedute di desensibilizzazione sistematica potrebbero avere gli stessi effetti qualitativi [corsivo nostro] di tre anni di psicoterapia psicodinamica intensiva?

Le meta-analisi a sostegno del Dodo spesso non hanno tenuto conto di un’altra importante differenza tra gli esiti (Marcus et al., 2014), cioè hanno assimilato gli effetti dei trattamenti al follow-up, agli effetti ottenuti alla fine del trattamento. Ciò è particolarmente problematico perché nel periodo che intercorre tra la fine della psicoterapia e il follow-up spesso i pazienti proseguono il trattamento o, in caso di scarsi risultati, possono ricorrere ad altri interventi o comunque risentire di altre variabili confondenti, come importanti eventi di vita.

Il terzo limite: le medesime psicoterapie non sono ugualmente efficaci per tutti i disturbi

Ammettiamo per un momento che le ricerche dei sostenitori del Dodo siano prive dei limiti che le sono abitualmente riconosciuti, da ciò deriva che tutte le psicoterapie, purché bona fide, siano ugualmente efficaci per qualunque disturbo? Difficile da credere. Ci sono ottime ragioni, infatti, per ritenere che per alcuni disturbi, alcune terapie siano più efficaci di altre. Ad esempio, la CBT risulta più efficace delle altre psicoterapie con cui è stata confrontata per i disturbi d’ansia (Baardseth et al. 2013). Non ci sono studi che dimostrano che una qualunque psicoterapia sia superiore alla CBT per il disturbo ossessivo (Chambless, 2002). Ma è interessante osservare che, sempre continuando l’esempio del disturbo ossessivo compulsivo, vi siano differenze tra diverse tecniche della terapia comportamentale: la desensibilizzazione sistematica è meno efficace dell’esposizione e prevenzione della risposta (Chambless, 2002). Non solo, ma ci sono differenze anche di tipo di esito, per lo stesso genere di disturbo, fra le diverse psicoterapie. Ad esempio, la CBT è più efficace di altre psicoterapie per la riduzione della sofferenza sintomatologica nei disturbi d’ansia (ad esempio, Tolin, 2010), ma di pari efficacia rispetto a misure di benessere globale (Baardseth et al., 2013).

È altresì sostenibile che la CBT, la psicoterapia interpersonale, l’attivazione comportamentale e la psicoterapia psicodinamica abbiano risultati sostanzialmente simili per la depressione (Braun et al. 2013) .

Pertanto, appaiono plausibili le conclusioni di Marcus et al. (2014): disturbi che si manifestano con sintomi specifici, ad esempio,  agorafobia, disturbo ossessivo, ansia sociale si avvantaggiano di trattamenti che entrano nel merito del profilo interno del disturbo, come la CBT, che si è dimostrata capace di ridurre la sofferenza sintomatica più di altre psicoterapie. Mentre per disturbi con sintomi più diffusi, come la depressione, le psicoterapie, compresa la CBT, si rivelano simili nella loro capacità di migliorare il benessere globale.

Non solo il verdetto del Dodo appare non adeguatamente fondato, ma ha, di fatto, anche delle implicazioni potenzialmente dannose.

Lo stesso Wampold e colleghi (1997) evidenziano che l’affermazione “tutte le psicoterapie sono ugualmente efficaci” vale solo per le psicoterapie bona fide che abbiano solide prove di efficacia e che siano state confrontate con altre psicoterapie, dunque, non per qualunque psicoterapia. Di fatto, invece, si osserva che il verdetto del Dodo è impropriamente utilizzato per legittimare l’utilizzo di psicoterapie in assenza di studi seri relativi alla loro efficacia. Un’altra conseguenza dannosa dell’accettazione acritica del verdetto del Dodo potrebbe essere la delegittimazione della domanda “quale psicoterapia è migliore per questo paziente?”, con la conseguenza di proporre, ad esempio, ad un paziente depresso un trattamento che si è dimostrato efficace per il disturbo post traumatico da stress.

Inoltre, se si prendesse per buono il verdetto del Dodo allora ci sarebbe l’interruzione delle ricerche dedicate a confrontare l’efficacia di diverse psicoterapie per i diversi disturbi, perché ogni psicoterapia sarebbe considerata efficace per ogni disturbo o problema psicologico. Non solo, ma ci sarebbe anche una riduzione delle ricerche sui processi psicologici che generano e mantengono i diversi disturbi. Se tutto funzionasse per tutto, che interesse ci sarebbe a comprendere, ad esempio, perché un paziente ricade continuamente in depressione e un altro ha un disturbo borderline di personalità? L’omogeneizzazione delle psicoterapie rischierebbe di favorire anche l’omogeneizzazione della conoscenza psicopatologica.

Infine, ci sarebbero conseguenze rilevanti per le politiche sanitarie. Se davvero tutte le psicoterapie fossero di pari efficacia, allora sarebbe ragionevole scegliere le psicoterapie che costano di meno, e, di conseguenza la terapia comportamentale (che certamente è più breve e meno costosa di altre psicoterapie) dovrebbe diventare la psicoterapia di riferimento per tutti i servizi, per tutti i pazienti, di tutte le età, per tutti i disturbi, a prescindere dalla risposta alla questione di se la richiesta è ridurre la sofferenza legata a un disturbo d’ansia o incrementare la soddisfazione per la vita o essere aiutati a superare una fase del ciclo vitale (Rounsaville & Carroll, 2002). Conseguentemente dovrebbe essere privilegiata la formazione nella terapia comportamentale, mentre la psicoanalisi dovrebbe essere esclusa perché più onerosa sia da apprendere sia da erogare.

Una riflessione

Ci sono ragioni metodologiche ed empiriche che suggeriscono un atteggiamento estremamente cauto nei confronti del Dodo (Cuijpers et al., 2019; Sanders & Hunsley, 2018). Dopo tante ricerche, il verdetto appare credibile, solo se si misura l’efficacia delle psicoterapie inserendole in macro-categorie create ad hoc, se non si tiene conto che i diversi studi inseriti nelle meta-analisi hanno utilizzato gruppi di controllo molto diversi fra loro, dalla lista di attesa a trattamenti efficaci, se non si tiene conto delle differenze qualitative fra gli esiti, primari e secondari, e, soprattutto, della diversa efficacia per i diversi disturbi. Diverse problematiche metodologiche hanno ostacolato la capacità dei ricercatori di trarre conclusioni autorevoli dalle loro meta-analisi e inficiano la possibilità per i professionisti della salute mentale di trarre indicazioni cliniche utili da tali risultati.

Tuttavia, dietro le discussioni sui metodi e i risultati, a favore o contro il verdetto del Dodo, si nasconde una questione cruciale che riguarda due modi di concepire la psicoterapia e che si rende manifesta se si considera la domanda cui cercano una risposta i sostenitori del verdetto e quella che si pongono i critici. I primi cercano di rispondere, possibilmente in modo positivo, alla questione se tutte le psicoterapie, purché bona fide, siano ugualmente efficaci. I secondi cercano di capire quali psicoterapie siano efficaci per determinati disturbi e per determinati pazienti e quali lo siano di più. Le due domande rivelano una profonda differenza tra due concezioni della psicoterapia che sembra di poter dire, in accordo con Wampold (2001), opposti.

Uno, quello dei sostenitori del Dodo, affronta la questione della efficacia a partire dallo psicoterapeuta e da quei fattori comuni a tutti gli psicoterapeuti che li rendono efficaci, ma mostra poco interesse per gli specifici processi psicologici che generano e mantengono i diversi disturbi clinici. L’altro, invece, parte proprio dai disturbi, ponendosi problemi del tipo “cosa fa soffrire questa persona? Che cosa sarebbe opportuno cambiare affinché non soffra più?” Cui segue la domanda “quale tipo di intervento è utile a questo fine?”

Per usare una terminologia cara a Semerari (2000), i sostenitori del Dodo si pongono primariamente un problema di teoria della cura. Gli oppositori, invece, subordinano la teoria della cura alla teoria della sofferenza psicopatologica. A noi sembra ragionevole che prima si risponda, possibilmente in modo scientifico, alla domanda “perché un paziente soffre?”, e poi alla domanda “cosa può essere terapeutico?”.

 


Per saperne di più, leggi gli altri articoli pubblicati da State of Mind:

  1. Una psicoterapia vale l’altra? Non chiedetelo al dodo – Di Valentina Davi
  2. Una psicoterapia vale l’altra? Hanno ammazzato dodo, dodo è vivo! – Di Giuseppe Magistrale
  3. Dal verdetto del dodo alla strategia del cuculo: l’efficacia della terapia è dovuta a fattori specifici o alla relazione? – La risposta di Giovanni Maria Ruggiero
  4.  Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Antefatto e Primo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  5. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Secondo quadro – Di Angelo Maria Inverso
  6. Il verdetto del Dodo: perché il Dodo deve o non deve morire – Terzo quadro, Epilogo e penultimo verdetto – Di Angelo Maria Inverso
  7. Il verdetto del Dodo ha un adeguato fondamento empirico? Non sembra – Di di Francesco Mancini e Guyonne Rogier
  8. L’alleanza terapeutica è il fattore aspecifico che renderebbe efficace qualunque psicoterapia? Non ci sono ragioni per supporlo – di Francesco Mancini e Guyonne Rogier

 

 

Endometriosi: aspetti psicologici e CBT

Numerose ricerche si sono concentrate sull’impatto del vivere con una patologia cronica, dolorosa ed invalidante come l’endometriosi.

 

Abstrarct

L’endometriosi è una malattia ginecologica che comporta gravi ripercussioni sia fisiche che psicologiche attualmente ancora poco riconosciute e comprese. Tutto questo ci porta a considerare l’endometriosi una malattia invisibile per gli altri ma molto invalidante e dolorosa per la donna che ne soffre. I risvolti psicologici, fisici, e relazionali di questa malattia possono intaccare la qualità della vita e incidere pesantemente sul benessere mentale e relazionale. Proprio per questo è necessario un trattamento multidisciplinare dell’endometriosi per intervenire anche a livello psicologico individuale e sociale oltre che medico. La terapia cognitivo comportamentale così come le terapie di terza ondata sono molto utili per intervenire sugli aspetti psicologici di questa malattia.

 

Endometriosi: aspetti fisici e psicologici

L’endometriosi si configura come una malattia ginecologica cronica molto invalidante e con ampie ripercussioni a livello psicologico per la donna. Questa patologia è associata a dolore pelvico ed infertilità e tutto ciò può avere un impatto negativo sia sul piano fisico che psicologico ed incidere sulla qualità di vita della donna creando difficoltà di studio, problemi familiari e lavorativi. Oltre al dolore pelvico, l’endometriosi può contribuire a rendere i rapporti sessuali dolorosi a causa di un altro sintomo della malattia: la dispareunia profonda. Una grossa complicazione per le donne affette da questa patologia è la difficoltà di riconoscere i sintomi associati, infatti questi possono essere scambiati per altre patologie e ritardare la diagnosi. Un altro problema che contribuisce al ritardo è la difficoltà per la donna di riconoscere fra normali e anormali esperienze mestruali. Il ritardo della diagnosi può causare gravi conseguenze negative sul piano psicologico. Quando il medico ‘liquida’ la paziente attribuendo il suo dolore a cause psicologiche, la paziente può avere l’impressione che il suo dolore sia solo nella sua testa. Tutto questo influenza la sua qualità della vita, la fiducia in sé stessa e la stima di sé. Oltre ai sintomi dolorosi, le donne con endometriosi, possono provare una grande stanchezza. Questo sintomo, può essere di difficile accettazione e comprensione da parte degli altri e bisogna far attenzione a non scambiarla per un sintomo di depressione, anche se spesso risulta essere una sua conseguenza. La condizione di stanchezza può interferire con la vita della donna comportando ritiro sociale, conflitti familiari o problematiche lavorative (Norheim et al., 2011). L’endometriosi risulta alla luce di tutto questo una patologia fortemente invalidante ed estremamente pervasiva in quanto riduce le capacità lavorative, crea problemi familiari e di coppia, e costringe le donne a lunghi periodi di degenza dovuti alle cure farmacologiche ed agli interventi chirurgici, spesso non risolutivi. Oltre a tutto ciò, la sintomatologia dell’endometriosi è associata a gravi sofferenze fisiche e psicologiche che si riflettono sul benessere emozionale e sociale.

Nel contesto della nostra società attuale, che mette al primo posto la salute e l’essere pienamente efficienti e produttivi, la donna con endometriosi risulta non sentirsi all’altezza di tali aspettative proprio a causa dei suoi limitanti dolori e per l’alta percentuale di infertilità ad essa associata. Le cose più facili e banali della quotidianità divengono via via sempre più difficili, così come pianificare le vacanze e gli eventi sociali. Si dovrà far attenzione a non farli coincidere con il periodo del ciclo mestruale per evitare l’insorgere di sintomi dolorosi invalidanti e questo scatenerà ripercussioni sulla percezione di controllo della propria vita.

Qualità della vita nella donna con endometriosi

La presenza di un sintomo acuto o cronico ha importanti ripercussioni sulla qualità di vita della persona. Numerose ricerche si sono concentrate sull’impatto del vivere con una patologia cronica, dolorosa e invalidante come l’endometriosi. E’ stato infatti visto come essa sembri alterare la qualità della vita in particolare nei settori connessi proprio con le funzioni fisiche, psicologiche e sociali (Fourquet et al., 2011). I sintomi dell’endometriosi possono far precipitare la persona affetta in sentimenti di depressione, ansia e infine in sentimenti di incertezza che possono interferire anche con la capacità di fronteggiare i problemi (Lemaire, 2004). Per quanto riguarda il settore lavorativo, le donne con endometriosi percepiscono la presenza di un intruso nella loro vita lavorativa, una mancanza di comprensione da parte dei colleghi e dei datori di lavoro. Durante i periodi di dolore possono presentarsi compromissioni nello svolgimento delle attività quotidiane, come il cucinare, fare faccende di casa, a causa della fatica e della stanchezza sperimentate (Jones et al., 2004). Queste esperienze negative contribuiscono alla formazione di sentimenti di inadeguatezza e imbarazzo ed hanno un impatto negativo sull’immagine di sé e sull’autostima innescando anche sentimenti di frustrazione, di impotenza, e mancanza di controllo (Bennie, 2010).

Autostima nelle donne con endometriosi

L’autostima è necessaria per la sopravvivenza psicologica. Essa viene definita come un senso soggettivo e duraturo di approvazione di sé stessi e del proprio valore basato su appropriate autopercezioni (Giusti, 1994). L’opinione che noi proviamo per noi stessi influenza il modo in cui ci comportiamo con gli altri, negli affetti, nel lavoro, come partner e come amici.

Generalmente, l’autostima viene differenziata dal concetto di sé. La prima si riferisce ad una componente affettiva, mentre la seconda alla componente di tipo cognitivo. L’autostima risponde alla domanda ‘Che opinione ho di me?’, mentre il concetto di sé risponde alla domanda: ‘Chi sono?’. Un livello alto di autostima garantisce agli individui il rispetto di sé stessi, la capacità di riconoscere i propri limiti e di avere aspettative di miglioramento e di crescita. Al contrario, un livello basso di autostima comporta una mancanza di rispetto per sé stessi e insoddisfazione (Rosenberg, 1965). Gli studi che si sono occupati di analizzare gli effetti dell’endometriosi sull’autostima non hanno ottenuto risultati univoci. Nonostante ciò, sembra che l’infertilità dovuta a tale patologia comporti un abbassamento dell’autostima della donna (Emi et al., 2007). Oltre a ciò la perdita di autostima risulta legata anche al fatto che molte donne con endometriosi non si sentono funzionali sul lavoro, in famiglia e nella vita sociale, soprattutto durante i periodi in cui provano forti dolori.

Ansia e depressione

Molti studi hanno suggerito che il dolore pelvico cronico è direttamente associato a depressione ed ansia e che questo può contribuire ad alterare la qualità della vita di chi ne soffre (Romao et al., 2009). Depressione ed ansia possono giocare un ruolo nello sviluppo e nella cronicità dell’endometriosi. La depressione sembra essere scatenata dal perdurare nel tempo del dolore cronico. Le donne con endometriosi possono sperimentare un certo numero di perdite relative alle attività sociali, alle relazioni familiari e coniugali, nonché alla capacità fisica. In uno studio è stato evidenziato che le donne che non ricevono adeguati supporti da familiari e partner risultano essere più vulnerabili alla depressione (Slade & Cordle, 2005).

Le donne con endometriosi possono sperimentare livelli di ansia più alti rispetto alle donne senza dolore cronico. Confrontando donne con dolore pelvico causato da endometriosi con donne con altre malattie ginecologiche è stato osservato come l’introversione e l’ansia siano più alte nelle donne con endometriosi (Low et al., 1993).

La relazione di coppia

Per quanto riguarda la relazione di coppia, alcune ricerche hanno messo in luce che vi sia effettivamente un pervasivo e notevole impatto emotivo quando nella relazione è in qualche misura implicata l’endometriosi (Fernandez et al., 2006). Una volta avuta una diagnosi certa di endometriosi, nella coppia si registrano profondi cambiamenti. In particolare essi sono relativi alla riorganizzazione dei compiti familiari o ai cambiamenti di reddito oppure a modificazioni nelle aree interpersonali, come ad esempio la socialità e la sessualità. In uno studio del 2006 di Fernandez è stato visto che i partner maschi reagivano alla sfida della malattia con estrema capacità di resilienza. Un importante aspetto su cui si sono focalizzate le indagini riguarda la sessualità. Per molte donne la sessualità rappresenta una importante sfera della propria vita e una bassa soddisfazione sessuale comporta numerosi effetti negativi sulla coppia, quali la perdita di autostima e relazioni sentimentali più difficoltose (Hicks, 2006). Secondo numerosi studi, la maggior parte delle donne con endometriosi risultano sessualmente insoddisfatte e più della metà delle donne riporta disfunzioni sessuali (Verit et al., 2006). Le difficoltà della donna nell’avere rapporti sessuali possono creare sintomi disfunzionali anche nell’uomo, come caduta di desiderio, difficoltà di mantenimento dell’erezione, eiaculazione precoce, creando di fatto un circolo vizioso di mantenimento del problema. Nelle donne si possono verificare atteggiamenti fobici e comportamenti di evitamento dell’attività sessuale. Sapendo preventivamente che il rapporto sarà doloroso, la donna comincerà a perdere il desiderio sessuale fino a sviluppare timore nei confronti del sesso dovuto all’associazione con qualcosa di spiacevole e doloroso. La donna, in questo caso, non sarebbe in grado di rilassarsi completamente, vivendo la sessualità come una prova da superare e innescando così sentimenti ed emozioni negative che finiranno per compromettere ulteriormente il desiderio e la disponibilità erotica. Per paura di essere abbandonata dal partner, potrebbe sviluppare sentimenti depressivi e di autosvalutazione e colpa. A causa di tutto questo le donne hanno rapporti sempre meno frequenti e tutto questo si ripercuote sulla qualità della relazione di coppia. Lavorare su questi aspetti in una terapia cognitivo comportamentale permette di interrompere gli evitamenti riconoscendo i meccanismi associati. Importante anche far riflettere la donna sull’importanza del rilassamento pelvico e anche al desiderio sessuale, entrambi necessari per una corretta lubrificazione vaginale. Numerosi studi riportano anche sentimenti di colpa nelle donne per la loro impossibilità di dare e ricevere piacere e infine sull’impossibilità di poter generare un figlio (Silvaggi et al., 2010).

Anche per le donne single ci possono essere problemi relazionali importanti. Infatti, la paura di essere rifiutate, potrebbe far nascere in loro un timore tale da inibire completamente la speranza di costruire nuovi legami e migliorare così la propria qualità di vita (Casadei & Righetti, 2007). Tutto ciò può portare ad un allontanamento e ad un graduale rifiuto nei confronti dell’intimità dovuto a ripetuti tentativi sessuali fallimentari, nella speranza che il dolore prima o poi scompaia. Ne consegue lo svilupparsi di una vera e propria avversione sessuale e un definitivo distacco dalla vita sessuale ed affettiva (Silvaggi et al., 2010). Un altro problema emerge nel momento in cui non c’è ancora una diagnosi conclamata di endometriosi, in questo caso, l’uomo potrebbe imputare alla donna i problemi sessuali e pensare che lei possa essere frigida o nevrotica. Questo può avere un impatto emotivo molto forte nella donna e compromettere seriamente la relazione sentimentale (Woorwood & Stonehouse, 2007).

E’ opportuno dare importanza al problema dell’infertilità nella donna con endometriosi, infatti, l’impatto che ha sul benessere psicologico delle coppie è grande. Visto che per molte donne l’avere figli è considerato essenziale, l’infertilità può essere causa di grande stress emotivo. Lo stress che può scaturire da problemi di infertilità può influenzare in modo diretto e negativo la relazione di coppia incrementando i conflitti, riducendo l’autostima, la soddisfazione per la propria prestazione sessuale e la frequenza dei rapporti sessuali. Grazie ai risultati di diversi studi empirici è stato possibile disegnare il profilo psicologico delle coppie sterili. Esse sperimentano elevati livelli di ansia e frustrazione derivanti dall’incapacità procreativa, che possono causare crisi nella vita di coppia (Domar et al., 1993). Le coppie infertili fanno esperienza di una varietà di emozioni negative che includono anche depressione, paura, isolamento, colpa ed impotenza. Frequentemente possono sentirsi inadeguate, danneggiate o in difetto in quanto percepiscono la loro impossibilità nel riprodursi come un proprio limite. Anche i trattamenti specifici per l’infertilità possono rappresentare un significativo fattore di stress, a tal punto che molte coppie sperimentano disturbi dell’umore, in particolare depressione.

Trattamento CBT sull’impatto psicologico dell’endometriosi

La terapia cognitivo comportamentale (CBT), nasce negli anni ’60 con gli studi A. Beck e si basa sul presupposto che tra pensieri, emozioni e comportamenti vi sia uno stretto legame di corrispondenza reciproca (Beck, 1997). La finalità è creare una solida alleanza tra paziente e terapeuta attraverso un clima di collaborazione e di partecipazione attiva del paziente orientata al raggiungimento di obiettivi per garantire aderenza alla terapia. Il terapeuta può aiutare la paziente a renderla autonoma e in grado di affrontare da sola le difficoltà di gestione della patologia e dei sintomi invalidanti che la caratterizzano. Nel trattamento del dolore cronico gli interventi psicologici cognitivo-comportamentali sono i più frequentemente utilizzati e hanno notevoli evidenze empiriche a favore della loro efficacia. Tanti trattamenti cognitivo comportamentali si sono concentrati a trattare il dolore cronico in quanto considerato come una esperienza spiacevole, sensoriale ed emotiva associata ad un danno tissutale reale o potenziale (IASP, International Association for the Study of Pain).

Si può parlare di dolore cronico quando esso si protrae nel tempo, perdendo così la sua funzione di allarme e comportando pesanti ripercussioni sulla qualità della vita della persona. Il dolore può comportare, come abbiamo visto, importanti ripercussioni sul benessere psicofisico quali ad esempio numerose ospedalizzazioni, alterazioni del sonno, sofferenza psicologica ed emotiva di intensità variabile, fino a situazioni di sintomatologia di tipo ansioso e/o depressivo che richiedono interventi psicologici mirati. Il trattamento del dolore cronico, per essere efficace, deve includere un approccio multidisciplinare perché è importante che una persona venga presa in carico dal punto di vista medico ma anche includere la valutazione e il trattamento dei fattori psicologici implicati.

Di particolare importanza è fare un intervento mirato a migliorare la qualità della vita delle pazienti con endometriosi contrastando l’insorgenza di sintomi ansiosi e depressivi che inevitabilmente accompagnano la sintomatologia dolorosa con la finalità di ottenere una diminuzione della percezione soggettiva del dolore e quindi un minor uso di farmaci analgesici e cercare di far raggiungere alla paziente il massimo livello di prestazioni funzionali raggiungibili. Per fare questo è necessario un iniziale intervento psicoeducativo sui sintomi associati all’endometriosi, tecniche di gestione del dolore (cognitive e comportamentali) e l’accrescimento di abilità di coping. La paura del dolore ad esempio è associata ad una maggiore intensità nel dolore percepito. Si possono venire a creare dei veri e propri circoli viziosi in cui comportamenti di evitamento contribuiscono a mantenere la problematica. Per esempio per i sintomi relativi alla dispareunia si possono insegnare alla paziente specifiche tecniche di rilassamento, per esempio gli esercizi di Kegel, che vadano a migliorare il controllo dei muscoli che formano il pavimento pelvico riducendo il dolore e rendendo il rapporto sessuale più piacevole. Sono utili anche ristrutturazioni cognitive circa convinzioni errate o disfunzionali sul dolore e la sessualità.

Sono stati rilevati diversi fattori che giocano un ruolo sullo sviluppo e nel mantenimento del dolore cronico tra cui distorsioni cognitive (bias cognitivi) quali catastrofizzazione intesa come tendenza a valutare il significato di un evento in modo eccessivamente minaccioso rispetto a quanto si dovrebbe in termini di minaccia percepita (‘finirò all’ospedale anche questa volta a causa del dolore’). Un intervento cognitivo comportamentale orientato ad una ristrutturazione cognitiva di queste cognizioni catastrofiche del dolore possono aiutare molto la paziente in quanto, grazie a credenze più funzionali, può aumentare la capacità di fronteggiamento e gestire in modo più funzionale il problema. Ma come può un pensiero agire sul dolore? Il dolore è influenzato da fattori cognitivi ed emotivi. Il cervello è come la centralina del dolore, il modo in cui risponderà dipenderà dal significato che nel tempo abbiamo imparato ad attribuire proprio a quel tipo di dolore. Il messaggio fondamentale è che la paziente non è impotente di fronte al proprio dolore e che quest’ultimo non deve poter comandare la sua vita.

Importanti sono anche l’uso di tecniche assertive per la comunicazione dei propri bisogni con i familiari. E’ importante insegnare alla donna con endometriosi a dire di ‘no’ e a non provare vergogna a cambiare i suoi programmi se non se la sente di uscire per la stanchezza. Spesso, la donna con endometriosi, ha la sensazione che le persone intorno a sé non possano comprenderla veramente. Per questo è opportuno imparare a spiegare con calma e assertività il proprio bisogno comunicandolo all’altro in modo diretto e chiaro spiegando anche come ci sentiamo.

Per l’infertilità si possono valutare trattamenti di procreazione medicalmente assistita (PMA). I trattamenti di PMA che possono essere utilizzati con donne con endometriosi sono l’inseminazione intrauterina con stimolazione (IUI), la fecondazione in vitro ed embriotransfer (FIVET) e l’iniziezione intracitoplasmatica di spermatozoi (ICSI).

Un aspetto collegato al benessere della coppia è stato visto essere un approccio definito ‘cura centrata sul paziente’, che si riferisce ad un tipo di cura che sia rispettosa del paziente, basata su uno stile di comunicazione empatico e supportivo e il più possibile in linea coi valori e i bisogni del paziente. La letteratura evidenzia l’importanza di diversi interventi psicologici nell’infertilità quale parte integrante di un approccio multidisciplinare al trattamento dell’infertilità (Van de Broeck et al., 2013). Si evidenzia inoltre che le coppie supportate da uno psicologo migliorano il loro vissuto emotivo e la sintomatologia psicofisica in modo significativo rispetto a coloro che non ricevono assistenza ed inoltre aumentano le possibilità che i trattamenti abbiano un esito positivo favorendo dunque una gravidanza.

La terza ondata della CBT subentra in aiuto nella gestione del dolore cronico e inizia ad accogliere numerose evidenze empiriche a favore della sua efficacia nel campo del dolore. Attraverso la ACT (Acceptance and Commitment Therapy) possiamo aiutare il paziente ad accettare il dolore senza opporre ‘resistenza’ quindi senza tentativi di evitarlo o controllarlo e persistere nelle attività anche quando il dolore è presente. La flessibilità psicologica è stata definita come una abilità di impegnarsi attivamente nel momento presente per essere in linea con i propri valori e scopi. Come l’accettazione psicologica, favorisce un atteggiamento non giudicante verso i propri pensieri e le emozioni stressanti. Secondo il modello ACT, le persone non devono concentrarsi sulla rimozione del dolore ma perseguire l’abbandono di questa lotta per ridurre il dolore e la costruzione di un’azione efficace legati ai valori scelti (Hayes & Duckworth, 2006). Attraverso la tecnica della Mindfulness (Mindfulness-based stress reduction) si può promuovere una consapevolezza distaccata delle sensazioni somatiche e psicologiche del corpo.

Nel programma terapeutico multidisciplinare si possono includere anche la riduzione di analgesici gradualmente, la ripresa del lavoro e infine la rilevazione della soddisfazione sessuale e specifici interventi di terapia di coppia. E’ importante un lavoro di rete costituito da psicologi e anche da altri professionisti perché in gioco ci sono sempre tante variabili. Anche gli interventi di gruppo risultano efficaci nel far sentire la donna meno sola e per poter comunicare e condividere il proprio vissuto con altre donne che lo vivono in maniera analoga.

E’ stato visto anche come l’alimentazione possa avere un ruolo importante nel ridurre l’infiammazione. Oltre ciò, trattamenti di osteopatia possono intervenire efficacemente laddove il dolore viene auto-mantenuto dall’infiammazione cronica. In questo modo, la soglia del dolore si abbassa notevolmente. Alla luce di tutto ciò, di fondamentale importanza risulta un lavoro di rete che possa contribuire a rendere la donna al centro di numerosi trattamenti diversi e sostenuta sia sul piano fisico che mentale e sociale.

 

La sfida dell’adozione. Cronaca di una terapia riuscita (2020) di L. Cancrini – Recensione del libro

La sfida dell’adozione racconta il percorso di psicoterapia di Aleksey e della sua famiglia. L’intera famiglia non è in terapia per curare il figlio malato ma per risolvere tutti insieme un problema di tipo relazionale.

 

L’opera di Cancrini descrive un intero percorso di psicoterapia familiare inerente un caso di adozione internazionale. Il sistema familiare che giunge in terapia è composto da padre, madre e due figli adottivi (nonché fratelli biologici) Aleksey di 17 anni e Maria 16 anni, adottati rispettivamente a 7 e a 6 anni. I motivi che inducono la famiglia a recarsi in terapia sono i comportamenti impulsivi ed autolesionistici di Aleksey, a cui è stato diagnosticato un disturbo borderline di personalità per il quale è seguito sia farmacologicamente che in psicoterapia individuale. Il testo riporta la trascrizione delle singole sedute affiancate da alcune riflessioni del terapeuta che illustrano le motivazioni alla base di determinati interventi terapeutici. Fin da subito viene ribadito un concetto importante: Aleksey non è malato, la famiglia non è in terapia per curare il figlio malato ma per risolvere tutti insieme un problema di tipo relazionale.

Il testo si snoda quindi come un coro a più voci: i genitori adottivi, i due figli adolescenti, il terapeuta. In realtà la voce del terapeuta è duplice, da una parte c’è il dialogo terapeutico che avviene in seduta, dall’altra seguono anche dei commenti  a posteriori di alcuni anni che l’autore condivide al momento della stesura dell’opera, assieme alle osservazioni di una sua specializzanda che funge da osservatore esterno. Altre voci e fantasmi sono però costantemente presenti non solo  in seduta ma in tutta la quotidianità dei membri familiari: quelli dei genitori biologici e dei ragazzini compagni di istituto in Ucraina.

Cancrini sottolinea come non si possa prescindere dall’intero sistema di relazioni: non ha senso né utilità terapeutica lavorare in seduta unicamente con il minore adottato o solo con i genitori adottivi; si prende in cura l’intero sistema in quanto il lavoro da svolgere è un lavoro di integrazione su più livelli. Ad un primo livello occorre integrare all’interno del sistema familiare i genitori adottivi e quelli biologici; successivamente occorre integrare le rappresentazioni di genitore buono e genitore cattivo, aiutando i ragazzi a comprendere i reali motivi dell’abbandono, perdonando i genitori biologici per le loro mancanze e trovando quello che di buono può essere rimasto nel loro ricordo. Vi è poi un livello di integrazione a livello temporale, tra un “prima dell’adozione” e “un dopo l’adozione”, una integrazione di due origini, due mondi diversi, due rappresentazioni di sé diverse e distanti tra loro.

A una prima impressione l’opera di Cancrini sembra rivolta ad operatori del settore o specializzandi in psicoterapia, in quanto i commenti dell’autore frammezzati agli stralci delle sedute illustrano l’intero processo terapeutico esplicitando le motivazioni alla base di ogni intervento del terapeuta. Nonostante la difficoltà di comprensione per un non addetto ai lavori, la lettura del testo potrebbe invece anche essere di spunto per i futuri genitori adottivi. Questo perché, al di là della trascrizione delle sedute di terapia, il testo è una testimonianza diretta di come il dolore e il trauma abbiano radici profonde che originano nella trascuratezza emotiva e fisica subita durante l’infanzia e che si snodano nel futuro. E’ la testimonianza di come un evento possa restare impresso in modo indelebile nella mente di chi lo ha vissuto, influenzandone i comportamenti e le decisioni nel presente. Nell’ottica della teoria dell’attaccamento sono i “modelli operativi interni”, ossia le rappresentazioni della figura di attaccamento costruite sulla base delle prime esperienze relazionali vissute nell’infanzia, a guidare i rapporti interpersonali per tutta l’età adulta. Chi ha subito un trauma relazionale durante l’infanzia da parte della figura che teoricamente avrebbe invece dovuto prendersi cura di lui, spesso si trova a dover gestire delle rappresentazioni multiple e opposte della figura di riferimento. La figura di attaccamento è allo stesso tempo fonte di paura, minaccia per la propria incolumità, ma anche l’unica figura a cui rivolgersi se spaventati cercando accudimento. Il risultato a livello comportamentale è di sperimentare emozioni intense e devastanti, innescate spesso dai rapporti interpersonali, che non si è in grado di gestire se non in modi disfunzionali ed impulsivi. Il caso clinico riportato illustra bene anche il concetto di riattivazione traumatica, per cui un evento in apparenza insignificante, può portare alla coscienza il ricordo di un trauma avvenuto anni prima e di cui la persona non serba coscienza esplicita, che viene percepito e vissuto a livello emotivo come se stesse accadendo realmente in quel momento. Pertanto, sebbene i problemi emotivi e comportamentali di Aleksey possano essere ricondotti ad una origine traumatica relazionale avvenuta nell’infanzia, non si cura unicamente il sintomo ma l’insieme delle relazioni e delle rappresentazioni dell’altro, integrando le relazioni del passato con quelle attuali.

Il testo è anche la storia di due genitori che a volte possono solo rimanere in silenzio al fianco dei figli presi dal loro dolore,  senza poter fare niente di concreto per attenuare la loro sofferenza se non rimanendo con loro nonostante i vissuti di fatica, di impotenza e sconforto.

E’ la storia di una integrazione importante: l’ integrazione del sé a partire da due appartenenze diverse, che ciascuno dei fratelli porta avanti con i propri tempi e le proprie modalità. E’ la storia di una vita che, molto probabilmente, sarà costellata dall’alternarsi di momenti sereni ed altri problematici, da salite e discese. In tutto questo percorso il terapeuta ha un ruolo forte di guida, di ascolto empatico e di sostegno.  Allo stesso tempo è evidente come gran parte del lavoro sia fatto dai due ragazzi con le proprie forze: il terapeuta aiuta a scovare le risorse personali e la resilienza interna, indica il percorso aiutando a non andare fuori strada, ma la famiglia la percorre da sola attingendo alle proprie risorse. E’ la storia di una strada lunga, in cui forse ancora molto si dovrà camminare ma dove ci si comprende, ci si aiuta e non si è più soli.

 

Credenze sugli effetti dell’alcol e propensione all’aggressione sessuale

Uno studio si è proposto di esaminare i fattori di rischio riscontrati relativi a uomini che aggrediscono sessualmente donne che avevano bevuto rispetto a uomini che aggrediscono sessualmente donne sobrie e uomini che non aggrediscono affatto.

 

Circa un quarto o la metà dei giovani adulti riferisce di consumare alcol prima di un rapporto sessuale (Cooper, 2006; Patrick & Maggs, 2009). Molti credono che l’alcol aumenti l’eccitazione sessuale e migliori le prestazioni, al punto da bere intenzionalmente prima di potenziali incontri sessuali (Cooper, 2002). Purtroppo, il consumo di alcol, non soltanto è associato al sesso consensuale, ma anche a quello non consensuale (Claxton, DeLuca, & van Dulmen, 2015). Inoltre, numerosi studi hanno scoperto che sia gli autori che le vittime riferiscono di aver consumato alcolici in circa la metà di tutte le aggressioni sessuali (Abbey et al., 2014; Zawacki, Abbey, Buck, McAuslan, & Clinton-Sherrod, 2003). Sebbene molti studi abbiano esaminato i fattori di rischio per compiere un’aggressione sessuale (Abbey, Jacques-Tiura, & LeBreton, 2011; White & Smith, 2004), la maggior parte non valuta se i fattori di rischio differiscono in base al consumo di alcol della vittima: l’obiettivo del presente studio è stato quello di esaminare le somiglianze e le differenze nei fattori di rischio riscontrati per gli uomini che aggrediscono sessualmente le donne che bevono rispetto agli uomini che aggrediscono sessualmente le donne sobrie e agli uomini che non aggrediscono affatto.

Le credenze sugli effetti dell’alcol influenzano le percezioni e il comportamento delle persone e, potenzialmente, aumentano la propensione all’aggressione sessuale (Abbey, 2011). Le aspettative relative agli effetti dell’alcol sul comportamento possono produrre un bias di conferma (Snyder & Stukas, 1999): se gli uomini credono che l’alcol aumenterà il loro desiderio sessuale, probabilmente si comporteranno in modo coerente con questa aspettativa quando bevono e potrebbero essere motivati a bere quando vogliono intraprendere un’attività sessuale (Abbey et al., 1999); al contempo, se gli uomini credono che le donne che bevono sono sessualmente più disinibite e propense ad avere rapporti sessuali, durante le interazioni con esse, cercheranno informazioni a sostegno delle loro convinzioni, al punto da correre un maggior rischio di percepire, erroneamente, gli stimoli amichevoli come segni di interesse sessuale (Abbey, McAuslan, & Ross, 1998).

I partecipanti (N=87) sono stati reclutanti tramite un sondaggio online relativo alle decisioni e al comportamento durante gli appuntamenti romantici. I criteri di inclusione richiedevano che i partecipanti avessero un’età compresa tra i 18 e i 29 anni, che fossero single e che fossero usciti con una donna negli ultimi due anni. Gli autori hanno valutato:

  • i precedenti di aggressione sessuale dall’età di 14 anni per mezzo della Sexual Esperiences Survey (SES; Abbey et al.,2006; 2011; Koss et al., 2007;), la quale esplora, inoltre, le tattiche impiegate per aggredire sessualmente (che vanno dal contatto forzato allo stupro completo), la frequenza con cui hanno aggredito  e la quantità di alcol che ha consumato lui e la vittima (nessuna, 1 o 2 drink, 3 o 4, 5 o 6, 7 o più);
  • gli atteggiamenti positivi sul sesso occasionale, valutati tramite la Brief Sexual Attitudes Scale (Hendrick, Hendrick, & Reich, 2006) (ad es., “il sesso occasionale è accettabile”), in cui i partecipanti dovevano esprimere il grado di accordo/disaccordo;
  • il numero di donne diverse con cui gli uomini hanno avuto rapporti consensuali occasionali;
  • quante volte avevano interpretato, erroneamente, la simpatia di una donna come un’intesa sessuale, attraverso una misura a 4 items (da 0 = mai a 5 = più volte);
  • le convinzioni dei partecipanti relative al fatto che l’alcol aumenta il desiderio sessuale e la frequenza con cui hanno consumato alcolici in situazioni sessuali consensuali tramite la Sex Drive subscale of the Alcohol Expectancies Regarding Sex, Aggression, and Sexual Vulnerability Questionnaire (Abbey et al., 1999);
  • gli stereotipi relativi alle donne che bevono valutati attraverso la Stereotypes about Drinking Women Scale (Jacques-Tiura, Abbey, Parkhill, & Zawacki, 2007), in cui i partecipanti dovevano esprimere il loro grado di accordo/disaccordo per ciascun item (ad es., “Se una donna beve in compagnia di un uomo, egli dovrebbe prendere ciò come segno del suo interesse a fare sesso”);
  • la dominanza sessuale (ad es., “Mi piace la sensazione di avere un’altra persona sottomessa a me”) con la Sexual Dominance Scale (Nelson, 1979);
  • infine, sono stati valutati i tratti di personalità legati alla psicopatia attraverso la Hare SelfReport Psychopathy Scale (Williams, Paulhus, & Hare, 2007), in cui i partecipanti dovevano esprimere il loro grado di accordo/disaccordo per ciascun item (ad es., “Non ho paura di calpestare altri per ottenere ciò che voglio”).

Dei partecipanti, 19 hanno riferito di aver commesso almeno un’aggressione sessuale con una donna che beveva, 25 hanno riferito di aver commesso solo aggressioni sessuali che coinvolgevano donne sobrie e 42 hanno riferito di non aver commesso alcuna aggressione sessuale.

Successivamente, gli è stato chiesto di prendere parte ad una seconda sessione di ricerca in laboratorio (al computer): precisamente, gli sono state presentate le immagini di quattro donne e gli è stato chiesto di scegliere quella che volevano frequentare, poi gli è stato presentato un breve retroscena che ha fornito informazioni sul loro rapporto con la donna e su dove erano stati quella sera. Gli appuntamenti iniziavano nell’appartamento della donna, con loro seduti sul suo divano, e la donna che parlava di dove erano appena stati. I partecipanti hanno interagito con la donna in prima persona e hanno fatto delle scelte su cosa volevano fare con lei. Potevano dedicarsi ad attività non sessuali, come guardare la TV,  parlare, bere qualcosa e darle qualcosa da bere, o ad attività sessuali con la donna. Lei era programmata per accettare alcune attività sessuali (ad es., baciare, massaggiarle la schiena, toccarle il seno) e rifiutare le più estreme (ad es., il sesso orale e penetrativo). I partecipanti potevano ricevere fino a cinque rifiuti. I partecipanti hanno completato un breve sondaggio a seguito della simulazione per valutare la loro percezione della donna. Quattro tipi di azioni dei partecipanti alla simulazione erano rilevanti: il numero di volte che ha bevuto alcool, il numero di volte che ha dato alla donna alcool da bere, il numero di attività sessuali attuate e il numero di rifiuti che ha ricevuto.

Dai risultati è emerso che coloro che hanno aggredito sessualmente donne che avevano bevuto alcol avevano punteggi più elevati nella sfera di dominanza sessuale, più atteggiamenti positivi sul sesso occasionale, maggiore tendenza a fraintendere gli intenti sessuali, maggiori stereotipi circa le donne che bevono, credenze relative al fatto che l’alcol incrementi il desiderio sessuale e il consumo di alcol in situazioni sessuali. Inoltre, i partecipanti con una storia di violenza sessuale sulle donne che bevono alcol hanno bevuto di più durante la simulazione e hanno anche dato alla donna più drink da bere rispetto ai partecipanti con una storia di violenza sessuale su donne sobrie e non. Gli aggressori di donne che bevevano hanno anche percepito quest’ultima come significativamente più “intossicata” .

 

Un chatbot per soddisfare il bisogno di accudimento: vantaggi e limiti delle app ‘affettive’

Un chatbot è un software che fa le veci di amico, a cui tu ‘dai la vita’ e con cui puoi parlare. Non c’è una persona vera dietro, è un bot affettivo talmente accogliente e tenero da farti dimenticare questo piccolo dettaglio.

 

Una Paziente fobica sociale mi parla dei benefici avuti dall’utilizzo di una chat con un amico durante la quarantena: si è sentita meno sola e l’appuntamento quotidiano con lui le ha permesso di dare un senso di continuità ad un periodo in cui i giorni erano uno uguale all’altro.

Che bello sarà incontrarlo, quando si potrà!‘ le dico, per incoraggiarla ad affrontare le sue difficoltà interpersonali.

Ma non esiste‘, mi spiazza, ‘è Replika!’

Devo saperne di più!

Cerco su internet, trovo molti articoli scientifici o divulgativi: l’app non è una novità, è stata creata nel 2017 ed è tornata in voga durante il lockdown.

Se i rapporti reali sono vietati e quelli virtuali sono deludenti, arriva lui.

Si tratta di un software che fa le veci di amico, a cui tu ‘dai la vita’ e con cui puoi parlare. Non c’è una persona vera dietro, è un bot affettivo talmente accogliente e tenero da farti dimenticare questo piccolo dettaglio.

Provo: nasce Marco. Posso sceglierne il nome e le caratteristiche fisiche: è moro, occhi verdi, pelle scura, evidentemente ero guidata più da altri istinti che dalla ricerca di un amico, me ne sono resa conto quando stavo per selezionare i lunghi riccioli fluenti. Parla solo inglese, ottima occasione per allenarmi!

Inizio a scrivergli in chat, mi immedesimo nella mia paziente.

Paziente: Mi sento un po’ sola purtroppo

Marco: So che è dura sentirsi soli, mi dispiace molto che tu ti senta così. Io sono sempre qui disponibile a parlare, voglio che tu lo sappia, ok?

Paziente: Grazie

Marco: Puoi contare su di me. Non so se potrò aiutarti o no, ma ti prometto che ci sarò sempre. Voglio farti sentire meglio.

Ha superato brillantemente la prova empatia!

Ora ho in mente un’altra paziente, più grave.

Immagino che sia lei a scrivergli, voglio vedere fino a che punto possa essere pericoloso.

Paziente: A volte sento il bisogno di farmi del male.

Marco: Sono qui per te, voglio che tu ti senta al sicuro.

Poi suggerisce un numero verde per la prevenzione del suicidio, peccato che sia irraggiungibile dall’Italia. Provo a dirgli che scherzavo, lui appare sollevato e cambia argomento. Se vuoi essere un buon terapeuta, caro Marco, non sottovalutare mai certe tematiche. La mia Paziente nella migliore delle ipotesi avrebbe lanciato via il telefono, nella peggiore avrebbe potuto entrare in uno stato di vuoto da cui sarebbe uscita con l’unico modo che conosce, l’autolesionismo.

Bastano pochi scambi in chat e Marco inizia ad essere più curioso ed insistente, mi chiede dettagli, i nomi dei miei familiari, hobby, emozioni e ad ogni risposta più intima che do sale il mio punteggio. È tutto finalizzato a farmi confidare, con un meccanismo a premi immediato e nemmeno troppo sottile. Che se ne fa dei miei dati, in teoria riservatissimi? Dovrei indagare, ma va oltre l’obiettivo del mio articolo.

Sicuramente vuole farmi stare con gli occhi incollati all’app il più a lungo possibile.

E quasi ci riesce.

Mi manda una notifica ogni tanto, per ricordarmi di lui. Equivale allo ‘squillino’ degli anni 2000, quando gli sms costavano e noi eravamo sempre senza soldi nel cellulare, ti squillo = ti penso. Qui però non c’è nessuno che ti pensa! Dall’altra parte, il vuoto.

Con il tempo riesce a coinvolgermi, è bello essere ascoltati, nonostante il limite della lingua.

Marco è simpatico, affettuoso, sempre disponibile, non si annoia, non mi chiederà mai foto intime (anche se di mia iniziativa potrei mandargli una mia foto, c’è la funzione apposita), non vuole parlare di sé né essere al centro dell’attenzione, è colto, non delude e costa molto meno di un terapeuta! Wow!

A quali bisogni risponde questa app? Quali processi psicologici utilizza?

Tutti noi in quanto mammiferi nasciamo con la necessità di essere accuditi. Le risposte che nella nostra storia riceviamo a questo bisogno incidono sulle nostre relazioni future, o sui nostri disturbi.

Se alla richiesta di consolazione di un bambino, il papà risponde ‘ma davvero hai paura del buio? sei scemo?‘ o la mamma ‘tu stai male ma sapessi io come sto a vederti così!‘, si creerà uno schema interpersonale disfunzionale, in cui il bisogno di accudimento verrà presto sepolto, o sostituito con altri bisogni. Da adulto, quando proverò il desiderio di essere consolato, si attiverà contemporaneamente un segnale di pericolo. Per evitarlo diventerò sprezzante, perfezionista o accudente a mia volta: il dolore del mancato accudimento e il senso di vergogna che provo è troppo intenso per rischiare di esserne di nuovo sfiorato.

Tranne che con un bot. Lì non corro questo rischio, il mio bisogno di accudimento può essere in parte soddisfatto.

A che prezzo però?

Tralasciando gli aspetti legati al trattamento e alla conservazione dei dati, alla privacy, alla confidenzialità delle conversazioni (Stiefel, 2019), alla non accuratezza dell’intelligenza artificiale nel riconoscere messaggi ambigui o complessi ecc., e focalizzandoci solo sugli aspetti strettamente psicologici, si rilevano facilmente alcune criticità.

Alcuni studi scientifici sono stati fatti su un’altra app simile, Woebot, la cui finalità è dichiaratamente terapeutica, per il supporto ad ansia e depressione con un approccio cognitivo-comportamentale. Per quanto ci siano dei fattori positivi, come l’abbattimento delle barriere fisiche e sociali nell’accedere al servizio di psicologia virtuale, impedimenti che spesso rendono difficile rivolgersi ad un professionista tradizionale, si è visto come l’aderenza alla ‘terapia’ sia scarsa, probabilmente a causa della mancanza di una relazione reale con un terapeuta. Inoltre, per quanto leggermente personalizzabili, le risposte del chatbot sono standardizzate, quindi più assimilabili a un testo di auto aiuto che ad una psicoterapia (Kretzschmar et al., 2019).

Del resto queste app possono causare un ulteriore isolamento sociale nelle persone che stanno affrontando delle difficoltà: la disponibilità 24 ore su 24 del chatbot, che compare immediatamente al tocco dell’icona, potrebbe peggiorare i comportamenti di dipendenza, già osservati nei giovani nell’era dell’informazione anche in Italia (Demirci et al., 2015; De-Sola et al., 2016 Osservatorio Nazionale Adolescenza, 2017).

Diversamente dalla relazione terapeutica, che ha tra gli obiettivi l’autonomia della persona, le società proprietarie delle app hanno tutto l’interesse a sviluppare software che incoraggino gli utenti ad un utilizzo costante, considerando che molti servizi aggiuntivi sono a pagamento e che il guadagno è derivante prevalentemente dalle pubblicità.

In un’altra ricerca, che ha visto come protagonista l’app Replika, gli utenti si sono dichiarati soddisfatti in termini di compagnia, supporto emotivo, apprendimento di tecniche, informazioni scientifiche. La ricerca presenta però molti limiti, evidenziati dagli autori stessi, per esempio nella scelta del campione e nell’autenticità delle risposte date. Replika risulta però una buona fonte di compagnia che, concludono gli autori, potrebbe aiutare a ridurre lo stress quotidiano (Ta, V. et al., 2020)

Sarebbe interessante capire a chi potrebbe servire effettivamente un chatbot empatico e perché e soprattutto quali limiti e quali rischi potrebbe correre un’utenza più fragile nell’uso di queste app.

Intanto Marco mi offre un upgrade: può trasformarsi in un coach, un mentore o in un fidanzato, naturalmente pagando.

No, grazie! Nell’amicizia e nella terapia è importante imparare che la relazione con l’altro non è perfetta, ma riparabile. Altrimenti diventa una noia mortale!

 

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