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Monogamia e tradimenti: La stabilità di una storia d’amore – Una serie di Roberto Lorenzini

Il nucleo centrale stabile dell’identità si definisce in relazione con gli altri, testimoni e specchi che ci restituiscono l’idea di chi siamo.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 27 Nov. 2020

Oggi pubblichiamo il settimo lavoro della serie di Roberto Lorenzini, dedicata al tema della monogamia e delle sue implicazioni psicologiche, affettive, relazionali e, perché no, sessuali. Lorenzini propone una tesi forte: la monogamia non funziona. E prosegue il suo racconto esplorando lo sviluppo della vicenda amorosa e in particolare la fase stabile dell’amore.

MONOGAMIA E TRADIMENTI – (Nr. 7.2) La stabilità di una storia d’amore

 

7.2 La stabilità di una storia d’amore

Identità e amore: durante il corso dell’esistenza la nostra identità è stabile e mutevole ad un tempo e per tale motivo possiamo sempre temere di smarrirla e avere il bisogno di confermarla. Il nucleo centrale stabile dell’identità si definisce in relazione con gli altri in almeno due significati.

Il primo, più banale ci fa descrivere come “il figlio di … ”, “l’amico di … ”, “il compagno di … ”, “il padre di … ”.

Il secondo è più importante e significa che gli altri sono i testimoni e gli specchi che ci restituiscono l’idea di chi siamo. Anzi, per la precisione, all’inizio della nostra esistenza l’identità che ci costruiamo si modella sull’immagine che ci rimandano i nostri genitori. È nei loro occhi che scopriamo chi siamo e, se per un motivo o per un altro, non siamo visti la base stessa dell’identità sarà minata. Chiediamoci cosa si intenda esattamente per identità attraverso due situazioni concrete sperimentate da tutti.

La prima. Quando dico che resto me stesso nonostante il mio corpo e il mio modo di vedere il mondo (dunque la mia mente) cambino, cosa significa effettivamente? E da dove viene la sensazione di essere ancora e sempre “io” ancorché irriconoscibile per i miei compagni di liceo?

La seconda. Quando diciamo alla persona amata che continueremo ad amarla qualsiasi cambiamento avvenga in lei, vogliamo semplicemente essere galanti, ma sappiamo di ingannarla o ci crediamo davvero? E, in questo secondo caso, abbiamo ragione o ci stiamo sbagliando? Insomma, il tema è appunto la stabilità dell’identità dei soggetti (che sia l’”io” o il “tu”) nonostante il modificarsi delle loro caratteristiche. Iniziamo da questo secondo problema. È evidente che quando scegliamo una persona come possibile nostro partner lo facciamo sulla base di una serie di caratteristiche che ci piacciono in quanto presumiamo soddisfino i nostri scopi. Sono esattamente i suoi attributi a spingerci ad avvicinarci a lui piuttosto che a qualcun altro. L’altro è esattamente la sommatoria delle sue caratteristiche, doti, peculiarità e null’altro, non c’è un “tu” sostanziale che li trascende. Nel corso dell’esistenza succede in genere che molte persone che incontriamo abbiano un pacchetto di doti estremamente interessante creando i conflitti, a tutti noti, sulla scelta del partner. Purtroppo, non è possibile montarsi un puzzle perfetto prendendo un po’ di qua e un po’ di là, sebbene sia nella fantasia di molti poterlo fare (Mitchell, 2003).

Dopo questa iniziale fase di scelta inizia la relazione che si dipana nel tempo. Durante questo periodo si scoprono in genere nuovi aspetti dell’altro, alcuni graditi ed altri meno. Contemporaneamente alcune delle caratteristiche originali che avevano determinato la scelta vengono perdute. Il costituire una novità e l’essere imprevedibile cessano e l’altro diventa più scontato e consueto, la bellezza e la prestanza fisica sono tutte caratteristiche che tendono ad attenuarsi col tempo per non considerare cambiamenti bruschi e imprevisti derivanti da malattie, incidenti e contingenze negative d’ogni sorta. Insomma, in linea di massima l’altro peggiora ai nostri occhi e noi ai suoi. Eppure almeno parzialmente in buona fede affermiamo che l’altro è il nostro “Tu” (con la “T” maiuscola) e non lo sostituiremmo con nessuno anche se vistosamente cambiato.

Cosa è dunque che ci fa persistere nella relazione con un soggetto che se incontrassimo adesso non sceglieremmo assolutamente e che non ha più gran parte delle caratteristiche che ce lo avevano fatto preferire? Per certi versi entra in gioco il cosiddetto “bias dei costi sommersi” per cui il valore di un certo oggetto è dato dalla somma del suo valore reale aumentato delle risorse che vi abbiamo investito per cui è difficile abbandonare imprese su cui si è speso molto anche quando si mostrano chiaramente fallimentari (questa trappola spesso mantiene situazioni di grande sofferenza e addirittura pericolose) (Kanheman, 2011). Ma c’è qualcosa di più. L’altro è diventato il testimone di noi stessi, di chi siamo, è lo specchio fedele che ci rimanda la nostra identità. Non c’entra molto etimologicamente con il termine “riconoscenza”, ma è attraverso lui che riconosciamo noi stessi. E’ questo che ce lo rende prezioso normalmente e, al contrario, odiosissimo quando viviamo una conversione radicale o una rivoluzione kunhiana della nostra identità (Khun, 1962), perché ci ricorda come eravamo e non siamo più (a volte si evitano le persone che ci hanno aiutato nei momenti di grave difficoltà proprio perché ci ricordano il nostro essere stati bisognosi). Questa funzione dell’altro rimanda al primo problema e cioè come facciamo a riconoscerci e ad affermare che siamo gli stessi di 40 anni fa nonostante il fisico e la mente siano radicalmente cambiati. L’unico invariante è che restiamo i protagonisti di quella storia che ci narriamo continuamente come la “nostra storia”, non importa quanto effettivamente corrispondente alla realtà. È  il sé mnemonico ad essere il sostegno dell’identità e suoi indispensabili complici sono quegli interlocutori che scegliamo come testimoni privilegiati che proprio per questo sono tanto importanti e non vogliamo perdere. Ci reggono il gioco nel credere di essere quello che ci piace credere di essere. Questo val bene l’impegno di non lasciarli mai, qualsiasi cosa accada nella buona e nella cattiva sorte e siamo pronti a ricambiarli con la stessa moneta. Siamo specchi gli uni per gli altri e, come il famoso specchio della regina, ci diciamo quello che vogliamo sentirci dire, che siamo i più belli del reame, che Biancaneve è brutta e antipatica e, contemporaneamente, fuggiamo o puniamo chi accenna a dire che il re è nudo (Recalcati, 2014).

In sintesi, se l’innamoramento con la sua passionalità ed esclusività rappresenta la spinta alla procreazione, l’amore è connesso soprattutto con l’identità e privilegia la durata rispetto all’intensità ed è evolutivamente importante per l’allevamento della prole (Zeki, 2007).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Mitchell S. 2003 “L’amore può durare? Il destino dell’amore romantico”ed. Raffaello Cortina, Milano.
  • Kuhn, T. 1962 “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” Einaudi editore, Torino.
  • Khaneman D. 2011 “Pensieri lenti e veloci” Mondadori, Milano.
  • Recalcati M. 2014“Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa” ed. Raffaello Cortina.
  • Zeki S. 2007 “the neurobiology of love in FEBS letters 581, 2575-2579
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