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La triade abuso emotivo-freezing-anoressia nella individuazione degli eventi traumatici nascosti

La triade abuso emotivo-freezing-anoressia è molto frequente e rimanda ad esperienze traumatiche precoci, correlate a stili comunicativi patologici delle figure parentali. In particolare, l’alternanza fra manipolazione psicologica e neglect attuata durante l’infanzia produce effetti devastanti sull’alimentazione e sul corpo delle bambine.

 

Caratteristiche dell’abuso emotivo

L’abuso emotivo, secondo la National Association of Adult Survivors of Child Abuse, è una delle forme di “abuso all’infanzia” (Montecchi, 1998). Essa prevede l’utilizzo sistematico di comportamenti in grado di dominare la sfera affettiva e di influire negativamente sulle emozioni e sull’autostima,  privando il bambino delle cure e della protezione di cui necessita. I genitori, anziché offrire vicinanza ed empatia, negano i bisogni affettivi e costantemente invadono gli spazi psicologici e fisici del figlio. Si può parlare di “traumi nascosti” (Lyons-Ruth et al., 1999) qualora si creino condizioni invisibili di trascuratezza rispetto ai bisogni fondamentali del bambino di sicurezza, di riconoscimento, accompagnate da disregolazione comunicativa da parte delle figure parentali.

I danni allo sviluppo cognitivo ed affettivo sono, purtroppo, sottostimati, in quanto la prevaricazione psicologica è comunemente considerata molto meno grave rispetto alla violenza fisica.

L’abuso emotivo avviene prevalentemente attraverso accuse, insulti e critiche, minacce, svalutazione e manipolazione e mediante forme di trascuratezza nei confronti dei bisogni psicologici, accompagnate da rifiuto dichiarato e da isolamento fisico del bambino, soprattutto in caso di disobbedienza (neglect).

A questo proposito, la Psicoanalista J. G. Goldberg, nella sua opera The dark side of love (1993), ha analizzato le tendenze autoaggressive precoci, in particolare nella bambina, come una forma di reazione alla manipolazione psicologica messa in atto sistematicamente da parte di uno o di entrambi i genitori, mediante stili di comunicazione patologici.

L’azione manipolativa è esercitata in tre tempi, secondo un modello di comportamento ripetitivo e continuativo. In un primo momento viene intenzionalmente provocata rabbia attraverso la continua frustrazione delle richieste di ascolto; in un secondo momento viene bloccata l’espressione della ostilità, determinata dalla frustrazione, attraverso il linguaggio verbale oppure attraverso il linguaggio non verbale (sguardi, espressioni del viso, pianto), paralizzando qualsiasi forma di protesta emotiva, con la conseguenza di favorire, in un terzo momento, il progressivo spostamento dell’ira, indirizzata originariamente al genitore o ai genitori maltrattanti, sul corpo.

La “invalidazione emotiva” è, quindi, il vero focus del problema (Waller, 2007): chi subisce abuso emotivo percepisce la condizione psicologica personale minimizzata o trattata con indifferenza e, pertanto, si abitua a percepire sempre meno i propri bisogni fisici e a considerare il corpo come luogo scenico di rappresentazione dell’abuso emotivo, mediante la diafanizzazione anoressica come strategia per la sopravvivenza.

Secondo J. G. Allen (2008),

la fin troppo comune copresenza di abuso e di trascuratezza (indisponibilità psicologica) è traumatizzante perché lascia il bambino emotivamente solo con stati emotivi insopportabili che egli non è in grado di regolare.

Abuso emotivo e trauma

L. Terr divide le esperienze traumatiche  in  Tipo I e Tipo II e Tipo Misto I e II.

Per trauma di Tipo I si intendono episodi di solito causati da eventi circoscritti e inaspettati, come terremoti o disastri ambientali.

Fanno parte dei traumi di Tipo II gli abusi fisici, sessuali, emotivi prolungati nel tempo: dopo il primo episodio traumatico inaspettato, il succedersi di altri episodi crea una predisposizione mentale che mobilita tentativi di preservare la mente mediante particolari difese e strategie di coping come negazione, rimozione, dissociazione, identificazione con l’aggressore e aggressione rivolta contro di sé, con conseguenze drammatiche sullo sviluppo emotivo ed affettivo. A queste difese psicologiche si aggiunge una modalità di reazione fisica definita freezing (congelamento), frequente nei rettili e nei mammiferi superiori, in presenza di un grave pericolo. Essa provoca un distacco dalle modalità di comportamento attacco/fuga e può indurre perfino amnesie dissociative rispetto ai vissuti che accompagnano gli eventi traumatici, con conseguente difficoltà nella elaborazione dell’esperienza (Liotti-Farina, 2011).

Secondo la Teoria Polivagale di S. Porges (2018), il circuito dorsovagale del sistema nervoso autonomo responsabile del freezing è collegato con la regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto del diaframma (stomaco, intestino tenue, colon e vescica). Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione è collegata a perdita del senso di controllo ed a ottundimento mentale, accompagnati da tristezza, disgusto, imbarazzo e paura. Quando il circuito dorsovagale è attivo, si produce un rallentamento delle risposte muscolari e scheletriche, con riduzione dell’apporto di ossigeno. Inoltre lo stato dorsovagale si associa frequentemente a condizioni depressive.

Il passaggio inverso da uno stato dorsovagale ad una attivazione del sistema simpatico (dall’immobilizzazione alla mobilizzazione del corpo) è difficile: il sistema nervoso autonomo è configurato per abbassarsi rapidamente in caso di necessità, non altrettanto facilmente per risalire qualora subentri uno stato di sicurezza. Il sistema nervoso di una bambina che ha subito un trauma emotivo rimane intrappolato nello stato continuo di allerta dorsovagale, come se il pericolo fosse sempre imminente, con conseguenze inevitabili per quanto concerne la percezione dello stimolo della fame e la ricerca del cibo.

Incidenza dell’abuso emotivo nel disturbo del comportamento alimentare

Le ricerche condotte in tempi recenti a livello internazionale affrontano sempre più frequentemente la correlazione fra abuso infantile e comparsa di DA (Disturbo Alimentare), spesso a carattere recidivante.

A. Vajda (2013) si è  particolarmente interessata al ruolo esercitato dall’abuso emotivo e dal neglect nella genesi dei disordini alimentari (anoressia e bulimia). La psicologa ha lanciato un segnale d’allarme sulla possibilità che la disregolazione emotiva, conseguente al trauma, diventi nel tempo una modalità comunicativa abituale del malessere.

Secondo M. Teicher (2003), il neglect o altri maltrattamenti psicologici determinano una cascata di risposte allo stress che organizzano il cervello secondo uno specifico assetto selezionato per facilitare la sopravvivenza in un ambiente pericoloso, caratterizzato dalla deprivazione e dalla lotta. Tale sviluppo alterato è costoso poichè viene associato ad un incremento del rischio di sviluppare seri disordini psichiatrici ed è comunque portatore di disadattamento in situazioni maggiormente favorevoli.

Inoltre stress conseguenti ad eventi traumatici provocano una riduzione volumetrica della porzione ippocampale sinistra che comporta un difetto nella codifica e nell’immagazzinamento di informazioni spaziali, temporali e semantiche nella memoria esplicita (Zennaro, 2011).

Nei casi più gravi si determina una vera e propria dissociazione somatoforme, vale a dire una disgregazione della memoria, della coscienza e dell’identità corporea, al punto che le stesse funzioni corporee possono essere sottoposte a dissociazione.

In alcune bambine, la tendenza autodistruttiva mediante la restrizione alimentare dovrebbe essere diagnosticata non solo come DCA, ma anche come precoce DTS (Disturbo traumatico dello sviluppo) (Van Der Kolk, 2014), da collocare nell’area di ricerca che ultimamente sta indagando le conseguenze a lungo temine dei traumi psicologici sulla maturazione di alcune strutture cerebrali e sull’affettività.

Abuso emotivo ed anoressia

Secondo R. Matrullo, (2005)

il corpo si colloca al confine tra gli oggetti esterni e gli oggetti interni, è un mezzo comunicativo e relazionale essenziale, è il luogo dove si situa la costruzione dell’immagine di sé, ma è anche il luogo dell’Altro, il rappresentante dei genitori dell’infanzia.

Secondo Kestemberg (1972), alla formazione dell’assetto psicologico del figlio contribuisce in maniera preponderante l’organizzazione psichica dei genitori. Così la qualità delle interazioni di cui il bambino è stato oggetto si riflette nelle modalità di investimento della bambina sul proprio corpo (Jeammet e Corcos, 2002). L’abuso emotivo interrompe la costruzione della relazione di fiducia con la coppia parentale e il corpo, oggetto di neglect da parte dei genitori, viene sempre meno amato dalla bambina che disinveste progressivamente la cura di sé, a vantaggio di più opportune reazioni difensive.

La anoressica ha paura di essere metaforicamente inghiottita (e, per questo, non riesce ad inghiottire); può unicamente difendersi bloccando qualsiasi reazione (freezing) per diventare un bersaglio minuscolo e lasciando totalmente ai genitori l’occupazione di uno spazio fisico che prima lei stessa occupava.

Anche gli studi transculturali di H. Ullrich (2017) considerano la passività femminile come fattore di protezione nei contesti familiari di abuso fisico e psicologico, in particolare per le donne che vivono nell’India meridionale.

L’anoressia potrebbe essere parzialmente superata dopo l’adolescenza, grazie ad un parziale distacco dalla famiglia e ad un aumento degli spazi esterni di autonomia, ma è spesso recidivante perché le anoressiche mantengono i loro conflitti a livello latente. Solo poche ragazze riescono ad orientarsi precocemente verso un partner che sia l’opposto del genitore abusante, cioè capace di provare tenerezza e sentimenti profondi.

Poiché si tratta di un “trauma interpersonale”, la probabilità che permanga o si ripeta anche in nuovi e diversi contesti, in particolare nella scelta di partner disfunzionali, come coloro che presentano problemi di narcisismo,  è quindi considerevolmente elevata e deve essere tenuta in seria considerazione. Lo Psicoanalista S. Ferenczi (1932), a questo proposito, cita una interessante metafora sugli effetti dei maltrattamenti:

Viene da pensare a quei frutti che la beccata di un uccello ha fatto maturare troppo in fretta e reso troppo dolci…

Infatti il Narcisista è stato spesso vittima, a sua volta, dei medesimi stili di abuso emotivo e di neglect da parte delle figure parentali, ma con l’interessamento di modalità di difesa opposte, come l’identificazione con l’aggressore. La compresenza degli stessi traumi emotivi in entrambi i partners predispone al ripetersi delle condizioni di abuso, con alto rischio di ritraumatizzazione e di ricomparsa/esacerbazione dei sintomi per l’anoressica.

Psicoterapia dell’anoressia conseguente ad abuso emotivo traumatico

I gravi traumi sono stati considerati da S. Ferenczi come eventi tragici che predispongono l’individuo alla ricerca di soluzioni estreme di adattamento, per evitare la morte.

Si tratta di comportamenti che hanno lo scopo di aiutare la persona ad uscire dalla condizione di pericolo: da una parte vi è la soluzione alloplastica che interviene per modificare le condizioni esterne al sé e dall’altra la soluzione autoplastica che spinge il soggetto a modificare se stesso, mediante la dissociazione di parti del Sé o attraverso tentativi di autodistruzione. Secondo l’Autore, le parti dissociate possono essere proiettate su una figura immaginaria, modellata sulla personalità del soggetto, che assume il nome di Orpha. Orpha è una figura soccorritrice dei bambini abusati che si assume il difficile compito di

sostituire la morte con la follia. (Ferenczi, 1932)

La follia può diventare una soluzione conservativa che tende a ricercare un parziale adattamento all’interno di una situazione senza via uscita.

Nei momenti di forti difficoltà, a cui il sistema psichico non è preparato, o in presenza di grave distruzione di organi particolari (nervosi o psichici) o delle loro funzioni, si risvegliano forze psichiche primitive che cercano di assumere il controllo della situazione perturbata. Nei momenti in cui il sistema psichico viene meno, l’organismo comincia a pensare. (ibidem, p. 52)

Nel caso dell’abuso emotivo, l’esclusione dei sentimenti originari di ostilità e il divieto genitoriale di piangere il dolore di sentirsi maltrattati lasciano spazio ad un corpo che vive profondamente il trauma e ad una mente che si rifiuta di mentalizzare la sofferenza per non impazzire.

L’abuso psicologico, fra tutte le diverse tipologie,

incide forse più direttamente sulla mentalizzazione, in quanto si tratta di un attacco diretto alla mente. (J.G. Allen, 2008)

Per l’anoressica, che ha subito un attaccamento traumatico, diventa indispensabile riportare alla luce ed accettare gli impulsi ostili indirizzati originariamente verso le figure parentali, allo scopo di interrompere le azioni distruttive fino a quel momento deviate sul corpo.

Tale abilità deve essere insegnata da un terapeuta capace di mentalizzare i propri vissuti e di fornire al paziente un attaccamento sicuro, compito difficile per le resistenze messe in atto, nel transfert, dalla paziente non abituata alla disponibilità psicologica dell’Altro.

Ricostruire il trauma: Trauma Recovery Model di J. Herman

Si tratta di un percorso che identifica specifiche modalità di trattamento sintonizzate con i tempi di autoregolazione della paziente. L’intervento psicoterapeutico sul trauma e sull’anoressia viene attuato secondo un modello a tre stadi. (v. tab.1 – in Italiano) oppure (Fig. 1 – in inglese).

Tabella 1 – Modello a tre stadi

Figura 1 – Modello a tre stadi

Stadio 1 – Stabilire una condizione di sicurezza

In seguito ad insieme di traumi emotivi, l’anoressica ha sviluppato una neurocezione alterata, nel senso che possiede una percezione inappropriata dell’ambiente a livello corporeo e ha sempre l’impressione di essere in pericolo. Anche un semplice cambiamento nel tono di voce del terapeuta può essere scambiato per disapprovazione. E’ importante considerare la prosodia come importante indicatore di accettazione, al fine di generare un senso di sicurezza e condurre la paziente verso la calma e il lento abbandono della modalità di freezing.

Attraverso il “limited reparenting”, il terapeuta cerca di contrastare l’influenza negativa dello stile genitoriale mediante il contatto oculare che diventa uno strumento essenziale per soddisfare i bisogni inappagati dell’infanzia e per la costruzione di un relazione terapeutica di fiducia. E’ importante operare un costante confronto fra la situazione traumatica e la nuova situazione di cura, attraverso un graduale ascolto empatico. Nel setting, occorre dare spazio alla trasmissione di sensazioni corporee che favoriscano un processo di co-regolazione degli stati emotivi.

Training autogeno (Schultz, 1932) ed esercizi di respirazione migliorano la neurocezione e la percezione del corpo in stato di rilassamento. S. Porges sottolinea l’importanza di riportare il paziente a sintonizzarsi con i propri vissuti somatici e con le emozioni ad essi collegate per uscire dallo stato dorsovagale ed iniziare a percepire diversamente il bisogno di nutrimento, primo step per una adeguata cura di sé. E’ opportuno far fluire l’energia dirigendola verso l’alto e l’esterno (far alzare in piedi la persona, farla spingere o afferrare qualcosa, stimolare braccia e gambe, assecondare i movimenti, anche molto piccoli, di reazione attiva).

Stadio 2 – Ricordo ed elaborazione del trauma

Si tratta di uno stadio estremamente delicato da affrontare, in particolare per la possibile comparsa di pensieri intrusivi e di trigger durante l’arco della giornata. Il temine “trigger” indica il grilletto metaforico che scatta di fronte a determinati stimoli in grado di risollevare un ricordo traumatico, sotto forma di fotogramma, che sollecitano sofferenza e dolore già provati durante l’infanzia. Il rischio di interruzione della terapia in questa seconda fase è veramente elevato, per la sofferenza alla quale la paziente è nuovamente esposta. Lo Psicoanalista S. Bolognini (2008) sostiene che chi è stato vittima di neglect possa tentare di trasferire i propri vissuti di inadeguatezza e di indegnità sul terapeuta, attraverso un meccanismo di difesa definito ”identificazione con l’esclusore”, in modo da impedire l’accesso al trauma e far percepire “da dentro” tutta la sofferenza provata nella relazione con le figure parentali.

a) Schema Therapy e Imaginery Rescripting

Nella Schema Therapy di J. Young, (2004), indicata come psicoterapia cognitiva anche per l’anoressia, viene approfondita l’analisi di schemi maladattivi precoci (Mode), intesi come insieme di ricordi, pensieri, emozioni e sensazioni, appresi durante l’infanzia a contatto con figure parentali maltrattanti.

Nel caso di abuso emotivo, agli schemi disfunzionali di abbandono, deprivazione, dipendenza e sottomissione corrispondono specifiche credenze disfunzionali che orientano la crescita verso la percezione di un mondo negativo dal quale difendersi.

Nella vita adulta, di fronte a determinati stimoli, si riproducono automaticamente i medesimi schemi disfunzionali che innescano, a loro volta, determinati stili di coping.

Quindi, l’obiettivo della Schema Therapy  sarà quello di correggere e di trasformare uno schema maladattivo in uno schema più adeguato, con l’intento di facilitare anche l‘apprendimento di nuove strategie di adattamento e di stili di coping più consoni. Per raggiungere questo obiettivo, occorre riportare alla luce le memorie d’abuso mediante la rivisitazione degli eventi e la ricostruzione del trauma.

La tecnica di esposizione “Imagery Rescripting”  è una strategia esperienziale della Schema Therapy che facilita il recupero dei ricordi e la riscrittura/ridefinizione di un nuovo finale da attribuire all’evento traumatico. Lo stesso Psicoterapeuta si inserisce nella scena evocata mediante opportuni stimoli verbali, aiutando e difendendo la bimba rispetto agli attacchi genitoriali, in modo da attribuire un finale positivo e, soprattutto, diverso a quanto accaduto. Così la paziente recupera la presenza di un supporto emotivo e si allontana dalla propria immagine di vittima impotente.

b) Enactive Trauma Therapy

Secondo l’approccio di Ellert R.S. Nijenhuis, alcune persone sottoposte durante l’infanzia a gravi maltrattamenti e trascuratezza emotiva generano tre sottosistemi dissociativi prototipici denominate “parti”: Parte Apparentemente Normale, Parte Emotiva Fragile, Parte Emotiva Controllante. Le fobie che vengono sviluppate dalle parti dissociate l’una dalle altre mantengono i sintomi. La Enactive Trauma Therapy si fonda sull’assunto secondo il quale paziente e terapeuta rappresentano due sistemi organismo-ambiente che co-creano un mondo comune e si impegnano attivamente per curare e superare la dissociazione somatoforme, senza tuttavia far riferimento alla cognizione e all’elaborazione delle informazioni. Si prediligono le tecniche ipnotiche ispirate alle analogie e alle metafore di M. Erickson, con l’obiettivo di guidare la paziente anoressica verso la progressiva integrazione e simbolizzazione degli episodi traumatici, anche attraverso contatti fisici indiretti nel corso delle sedute (Nijenhuis, 2017). Il Terapeuta, definito Testimone tollerante, accompagna con calore empatico la sofferenza della paziente, aiutandola a rimanere nel tempo presente e a ristabilire una connessione emotiva con se stessa, con gli altri e con il mondo rappresentato nella traumatizzazione (Van Der Hart-Nijenhuis, 1999).

Fase 3 – Riconnessione

Qualora sia stata possibile la rielaborazione delle memorie traumatiche, nell’ultima fase della terapia il Terapeuta solleciterà la paziente a riconciliarsi con se stessa ed a provare sentimenti positivi rispetto alla propria cura, attraverso una psicoeducazione che consideri il corpo degno di amore. Il raggiungimento di una intimità con il proprio Sè predispone alla identificazione e alla trasformazione del proprio mondo emotivo, rendendo possibili nuove relazioni sane ed improntate ad una ritrovata fiducia.

 


 

 

Questo matrimonio non s’ha da fare (2019) di M. Morretta – Recensione del libro

Il testo Questo matrimonio non s’ha da fare di Mattia Morretta ci lancia uno schiaffo in faccia e un pugno nello stomaco e ci risveglia peggio di una doccia fredda.

 

L’autore ci racconta verità scomode sulla famiglia e sulla genitorialità, non ha parole buone per nessuno, non gli importa dell’identità o orientamento sessuale del lettore. Totalmente politically correct. Ognuno può sbagliare.

Con tono provocatorio, satirico, nero, descrive cosa accade oggi alle coppie etero e omosessuali nella società che cambia col tempo, e non in meglio. Difficile leggere più di due pagine non provando emozioni intense. Una volta può essere la tristezza, una la rabbia, poi la malinconia e forse l’ansia, per poi spesso sorridere anche. Ma questo è possibile per chi sa apprezzare le citazioni, i doppi sensi, la scrittura ironica. Per chi non ha paura di ammettere “cavolo forse le cose vanno un po’ così”. Il linguaggio è forte, la matrice psicoanalitica ben presente e bisogna essere forti di stomaco per stargli dietro e bisogna aver accettato e fatto pace con le proprie vulnerabilità del tutto umane. Questo perché è un saggio che distrugge ciò che stiamo portando avanti, costruendo però poco di concreto.

L’amore dell’autore verso l’arte, la letteratura, la cultura in generale, è presente in ogni pagina. Tante le citazioni e anche di grande interesse. Credo però che, leggendo la realtà da questa prospettiva “alta”, si possa incorrere nel rischio di sottovalutare la natura umana e le dinamiche di vita quotidiana, fatte di paure, compromessi, liti, egoismi e tanto altro ancora.

Un paio di anni fa visitai Haworth, villaggio inglese dove vissero le sorelle Brontë. Un tuffo emotivo nel mio passato adolescenziale in cui cercavo di capire cosa significasse amare. Per anni ho creduto che quello fosse il vero amore: gli sguardi rubati tra Mr. Rochester e Jane Eyre, i tormenti interiori, l’unica forza in grado di cambiare le persone, l’unico motore per raggiungere la felicità. Se avessi continuato a ricercare tra quelle righe il senso della vita forse avrei vissuto a metà, in angosce profonde e frustrazione, alla ricerca di un ideale impossibile.

Abbiamo bisogno di essere accettati, abbiamo bisogno che ci venga riconosciuto il nostro valore personale, abbiamo bisogno di non sentirci troppo diversi o sbagliati. E per raggiungere tutto questo spesso seguiamo le spinte della famiglia, della comunità, della tradizione. Possiamo sposarci anche se non sentiamo le famose farfalle nello stomaco perché semplicemente “è arrivato il momento di accasarci”. Il nostro passato evolutivo ci ha lasciato (in sottofondo) il timore della morte se veniamo esclusi dal gruppo. E secondo queste basi comprendo e accolgo l’esigenza di alcuni individui (etero ed omosessuali) di volersi “omologare” a determinate richieste della società.

Sull’argomento genitorialità (tema sempre molto delicato) Morretta, con coraggio, evidenzia come l’essere genitori biologici non fa di quei genitori i migliori sulla piazza:

non è padre chi è donatore di seme e non è madre chi ha portato in grembo, a distanza di anni si vedrà chi davvero lo è diventato.

Restituisce a figure esterne alla coppia genitoriale biologica l’importanza del loro ruolo per la crescita della discendenza perché, come lui scrive, “la procreazione è mortale, la cultura immortale”. Avremmo goduto delle opere di Giotto, Michelangelo, Canova, Verdi (giusto per citarne una piccola parte) senza il supporto dei loro mecenati? Probabilmente no. Ma sicuramente no, se non fossero proprio nati. Questo è il punto di incontro tra la natura umana più istintuale e l’importanza della cultura e di un ideale più alto. L’equilibrio lo troviamo nella mescolanza e non nella separazione.

 

Odio online: i predittori psicologici del comportamento degli haters

L’atteggiamento dispregiativo è da tempo identificato come un grave problema sociale. Non sorprende che, insieme alla crescita della popolarità di Internet, tali comportamenti siano stati osservati anche nei setting online (Blaya, 2019; Gauducheau, 2019; Johnson et al., 2019; Mathew et al., 2019) e quindi identificati come odio online.

 

L’odio online non consiste necessariamente nell’esprimere un’opinione denigratoria su un gruppo sociale. Esso, infatti, può essere dispregiativo senza fare riferimento alla posizione sociale di una data persona od oggetto e/o mirare a sminuire la posizione sociale di un gruppo (Nockleby, 2000).

Nonostante la crescente letteratura sull’odio online (Blaya, 2019), attualmente si sa ancora poco sulle caratteristiche personali delle persone – gli online haters – che si impegnano abitualmente in tali comportamenti.

Uno studio recente (Sorokowski et al., 2020) ha cercato di identificare i predittori psicologici di chi abitualmente invia commenti di odio online, concentrandosi sui seguenti tratti: la Triade Oscura (narcisismo, psicopatia e machiavellismo), il livello di frustrazione esperita, il livello di invidia vissuta e la soddisfazione nella vita. Per fare questo sono state confrontate le caratteristiche di persone che pubblicano commenti di odio e non odio su Internet nei confronti di atleti polacchi durante i Giochi Olimpici invernali a Pyeongchang del 2018, arrivando così a dividere il campione in due gruppi: haters e non haters. Novantaquattro utenti (41% donne) hanno partecipato allo studio, tra i quali 46 erano stati individuati per aver pubblicato commenti di odio (haters).

Dopo un mese dalla loro identificazione e assenso alla partecipazione allo studio, gli utenti sono stati invitati a sottoporsi a un’indagine psicologica, compilando una serie di questionari: il Dark Triad Questionnaire (Jonason & Webster, 2010) per la valutazione dei livelli di narcisismo, psicopatia e machiavellismo; la Scale of Frustration (costruita appositamente per lo studio) per la misurazione dei livelli di frustrazione; la Scale of Envy (Tandoc et al., 2015) per la misurazione dei livelli di invidia e la Satisfaction with Life Scale (Diener et al., 1985) per valutare la soddisfazione nella vita.

I risultati hanno mostrato che i punteggi più alti nei tratti psicopatici erano predittori significativi della pubblicazione di commenti di odio online; livelli di invidia più alti erano marginalmente significativi. Per le altre scale non si sono registrate differenze sensibili.

Questi risultati forniscono una prova iniziale che le persone che si impegnano in comportamenti sprezzanti online sarebbero caratterizzati da alti livelli di tratti psicopatici, ma, contrariamente a studi precedenti, non hanno fatto registrare livelli elevati di altri tratti comunemente associati a comportamenti distruttivi.

Questo studio è uno dei primi a stabilire un background psicologico per gli online haters e si auspica che la ricerca futura possa continuare a far luce su un fenomeno sempre più diffuso, le cui contromisure sono ancora evidentemente poco efficaci.

 

Psicologo e salute mentale: a che punto siamo?

Mai come in questo periodo si sente parlare dell’importanza della salute mentale e si invoca alla presenza dello Psicologo nei vari punti strategici della nostra società.

 

Sicuramente questo periodo che stiamo vivendo poteva (e può) diventare uno stimolo a fare davvero qualcosa in più, a incidere meglio sul favorire una cultura del benessere mentale e psicofisico a 360 gradi.

Ma cosa si intende per salute mentale? Secondo l’OMS è ‘uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di realizzare i propri bisogni a partire dalle proprie capacità cognitive ed emozionali, esercitare la propria funzione nella società e nella vita di comunità costruendo e mantenendo buone relazioni, far fronte alle esigenze della vita quotidiana, superando le tensioni e gestendo ed esprimendo le proprie emozioni e le proprie capacità di cambiamento per raggiungere una soddisfacente qualità di vita, operare le proprie scelte ed esprimere la propria creatività lavorando in maniera produttiva‘ (Ministero della Salute, 2020).

In realtà non è il Covid-19 che ha fatto emergere questa necessità, perchè sono anni che se ne parla ed esiste una presa di consapevolezza da parte di organi ed enti italiani, europei e mondiali che auspicano un avanzamento nel portare nuove proposte e nuove pratiche per promuovere e favorire la salute mentale nelle popolazioni. Ad oggi ovviamente, nel periodo che stiamo vivendo, appare ancora più pressante questa necessità e, fortunatamente, si comincia a darle più importanza. Perché, certamente, implica una sorta di ‘rivoluzione culturale’ rispetto a come viene vista la figura dello Psicologo e come viene pensata la salute mentale e questo richiede tempo e impegno, ma implica anche la volontà da parte delle istituzioni e della politica di investire nella salute mentale in termini sia di cura e prevenzione dei disagi psichici che di promozione delle risorse necessarie a tutelarla questa salute. Nel piano d’azione per il ‘Rilancio Italia’ (2020), viene sottolineato come il nostro Paese, fino ad oggi, è tra quelli che investono meno in salute mentale.

Il motivo di tanta importanza per la salute mentale è sempre più sotto agli occhi di tutti, poiché la sua mancanza ha conseguenze deleterie per l’individuo ma anche per la collettività e la tenuta dei Paesi. Già nell’ormai 2013, il Piano d‘azione europeo per la salute mentale (un piano che nasce dalla collaborazione tra gli Stati Membri e l’OMS per l’Europa e che propone obiettivi e azioni efficaci per migliorare la salute e il benessere mentale) riportava che:

I problemi di salute mentale, tra cui figurano la depressione e l’ansia, sono la principale causa di invalidità e pensionamento precoce in diversi paesi, rappresentano un peso grave per l’economia e richiedono un intervento politico.

Questo significa che il benessere della popolazione dovrebbe essere un tema centrale per i governi perché si possano attuare delle politiche volte a migliorare il benessere mentale e ridurre l’esposizione ai fattori di rischio. Infatti, in un periodo caratterizzato, nel nostro Paese, da difficoltà economiche, dalla disoccupazione, dall’incertezza lavorativa e dall’invecchiamento demografico, a cui vi si aggiunge una crisi sanitaria ancora in corso, è fondamentale concentrarsi su come mantenere e massimizzare il benessere in tutte le fasi della vita.

Il benessere mentale migliora la resilienza, rafforza la fiducia nel futuro, incrementa la capacità di adattarsi ai cambiamenti e di affrontare le difficoltà.(…) Il tenore di vita si ripercuote direttamente sul benessere di una popolazione (…) ma dipende anche da altri fattori, come il controllo sulla propria vita, l’autonomia e i legami sociali (…). I governi hanno un ruolo fondamentale nel creare le condizioni per conferire forza alle persone e alle comunità, promuovere e proteggere il loro benessere e rafforzarne la resilienza. (WHO e al.,2013)

Questo sembra essere stato capito dai fautori del cosiddetto Rilancio Italia; lungi dal dare una valutazione sulla effettiva validità ed efficacia del piano per rilanciare o meno il Paese a seguito dell’emergenza da Covid-19 in cui ancora siamo, quello che emerge da una prima lettura delle schede di lavoro è l’inclusione (e chiaramente ancora da finalizzare e attuare) di tutta una serie di proposte che vanno effettivamente a toccare i principali ambiti da cui poter ripartire, da potenziare e da sostenere per far sì che le condizioni di vita della popolazione migliorino (presupposto importante per il mantenimento di una buona salute mentale). In particolare, vengono inserite proposte e azioni che dovrebbero incidere sul benessere dell’individuo e delle comunità in termini di welfare, lavoro, inclusione della disabilità, lotta alla violenza e alle disparità di genere, conciliazione dei tempi di vita (lavorativa e privata) come sostegno alla genitorialità e soprattutto sostegno psicologico e potenziamento dei servizi sociosanitari. Rispetto a questi ultimi due ambiti, vengono definite delle prime linee guida per accedere ad un supporto psicologico attraverso pacchetti di colloqui alle famiglie e agli individui che sono stati direttamente impattati dal Covid-19, con lo scopo di prevenire e ridurre sindromi depressive e i connessi costi sociali e sanitari, e viene proposto il potenziamento dei Servizi Sociosanitari e dei Progetti Terapeutico-Riabilitativi Individualizzati per sostenere e promuovere l’inclusione e la partecipazione attiva al proprio percorso di vita delle persone più fragili e rese ancora più vulnerabili dall’emergenza Covid-19, come ad esempio, anziani, minori, disabili, persone con problemi di salute mentale o dipendenze in strutture residenziali.

E’ interessante notare come queste azioni proposte siano effettivamente in linea con le politiche europee e mondiali sulla salute mentale e come il ruolo della Psicologia inoltre, entri di diritto nell’immaginario collettivo della ‘ristrutturazione’ del nostro modello di società, partendo da una presa di consapevolezza dei ritardi e dei limiti che esistono nel nostro Paese ma anche delle potenzialità esistenti e di quanto è possibile fare, ad ogni livello.

E a tal proposito, per citare un altro passo importante rispetto al ruolo che la Psicologia sta prendendo, non può non essere menzionato il progetto approvato nella regione Puglia, ovvero lo Psicologo di base che collabora col medico di famiglia; una proposta che nasce dalla constatazione che ‘nonostante il notevole incremento dell’offerta di assistenza psicologica registrato negli ultimi decenni nel nostro Paese, metà delle persone che sperimentano uno stato di disagio continua a non rivolgersi allo psicologo. Si rileva, però, che il 35% degli interventi richiesti al medico di famiglia sono mossi proprio da fattori psicologici’ (Ordine Psicologi Puglia).

Già in passato erano stati avanzati alcuni progetti pilota isolati che avevano mostrato l’utilità e l’efficacia della collaborazione tra medico e psicologo ma che non erano diventanti sistematici e diffusi come invece è accaduto in altri Paesi; questa esperienza ha dimostrato la necessità della presenza nello studio medico di uno specialista della salute mentale, della promozione del benessere psicologico e della presa in carico del disagio emotivo dei pazienti per rendere più efficace e soprattutto tempestivo l’intervento. Infatti, uno dei problemi legati alla necessità della promozione (e prevenzione) della salute mentale è la cronicizzazione dei disagi e della sofferenza prima che arrivino al consulto professionale, con la conseguente perdita di produttività per la persona e un eccessivo carico economico che spesso grava sull’individuo o la famiglia in quanto i servizi territoriali non riescono sempre a farsi carico di tutte le richieste in tempi brevi (altro problema legato alla salute mentale). Solitamente, infatti, la persona, nel tentativo di risolvere il problema, passa dal volercela fare da sola o rivolgersi a figure di riferimento, per poi passare ad un piano non specialistico, come figure religiose o volontariato sociale, e solo alla fine ad un professionista del settore. Se invece, le persone che operano sul territorio (ad esempio i medici di base), fossero adeguatamente formate e potessero collaborare con i professionisti della salute mentale, si potrebbe intervenire in modo corretto su un disagio al suo esordio o promuovere un invio adeguato ai servizi competenti così da evitare cronicizzazioni (Becciu, Colasanti, 2016).

Dunque, queste considerazioni aprono ad una calda accoglienza verso il progetto che sarà portato avanti dai colleghi in Puglia, con la speranza che possa diventare una prassi comune e diffusa in tutto il Paese. Le premesse infatti, sembrano andare verso la giusta strada, piccole aperture che con quest’emergenza sanitaria richiedono ancora di più di essere prese in considerazione; tanto c’è ancora da fare ovviamente, e uno degli esempi è il portare lo Psicologo anche nelle scuole, essendo un ambito che difficilmente riesce a ‘trovare pace’ nel nostro Paese, molto danneggiato negli anni e in continuo cambiamento vista la complessità dell’emergenza in cui siamo (lo Psicologo a scuola meriterebbe da solo un intero articolo).

Ciò che si spera è che possa essere, intanto, attuato davvero tutto ciò che è stato pensato per favorire e incidere positivamente sul benessere delle persone e continuare a ‘tenere a mente’ che senza salute mentale anche tutto il resto diventa più difficile.

Le implicazioni psicologiche del morbo di Crohn

Le principali aree di vita della persona con morbo di Crohn risultano condizionate dall’andamento dei sintomi della malattia: il lavoro, le relazioni affettive e le attività a cui dedicarsi nel tempo libero..

 

Abstract: Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino che colpisce prevalentemente i giovani tra i 18 e i 30 anni. Negli ultimi decenni si è registrato un aumento significativo dei casi diagnosticati. I sintomi tipici di questa patologia possono essere molto invalidanti e compromettono in maniera decisiva la qualità della vita dei pazienti, determinando una serie di implicazioni psicologhe da non sottovalutare.

Il morbo di Crohn è una delle principali malattie infiammatorie che interessano l’intestino. Si tratta di un disturbo cronico per il quale non è stata ancora individuata una terapia adeguata e risolutiva. I sintomi con cui si manifesta sono molteplici. I più comuni sono i dolori addominali di tipo colico, le scariche diarroiche, la perdita di peso, la formazione di fistole e nei casi più avanzati possono verificarsi complicanze gravi come gli episodi di occlusione e subocclusione intestinale (S. Fanti, E. Lopci, N. Monetti, 2006). Le coliche addominali possono presentarsi in ogni momento della giornata, anche se gli esordi notturni sono quelli più diffusi e anche quelli più difficili da gestire. Nonostante l’alimentazione giochi un ruolo fondamentale nella gestione sintomatologica di questa patologia cronica, il rispetto dei più rigorosi piani alimentari non è sufficiente per prevenire le fasi più critiche del morbo di Crohn. I dolori lancinanti provocati dall’infiammazione, sono spesso legati a delle ostruzioni che vengono a formarsi nel tratto digerente (B. Nardo, 2009). Tali ostruzioni ostacolano un normale svuotamento intestinale, producendo in tal modo una condizione di alvo irregolare in cui si alternano periodi di stipsi a periodi di continue ed estenuanti scariche diarroiche.

Nella maggior parte dei casi si arriva alla diagnosi con molti anni di ritardo, poiché il morbo di Crohn ha molte caratteristiche in comune con altri disturbi intestinali più lievi, come la sindrome del colon irritabile. Tuttavia c’è una differenza significativa tra queste due condizioni, in quanto la prima rientra nell’ambito delle malattie organiche ed infiammatorie, mentre la seconda può essere classificata come una sindrome funzionale caratterizzata da una serie di irregolarità riguardanti le funzioni intestinali (A. Montano, S. Vitali, 2018). Il morbo di Crohn è un disturbo importante e spesso grave. Non sono poche le situazioni in cui risultano necessarie operazioni chirurgiche di asportazione di segmenti intestinali fortemente infiammati (S. Fanti, E. Lopci, N. Monetti, 2006). Pertanto è fondamentale intervenire in tempi rapidi per formulare una diagnosi accurata, evitando sia il rischio di confondere la malattia con altri disturbi di minore rilevanza, sia quello di una possibile progressione patologica. Difatti, una delle difficoltà che si palesa al momento della diagnosi, è la constatazione di un livello avanzato dell’infiammazione, condizione che può verificarsi proprio a causa di un ritardo o di un inadeguato iter diagnostico (A. Luna, R. Ribes, P. R. Ros, 2008).

L’insieme di tutti questi fattori caratterizzanti il morbo di Crohn si accompagna ad importanti implicazioni psicologiche da non trascurare. L’impossibilità di esercitare un controllo sulle proprie funzioni intestinali, porta il paziente a rivedere e riformulare tutte le sue attività di vita quotidiana, pianificandole sulla base dei suoi sintomi. Si può, dunque, evidenziare una forte compromissione della qualità della vita. Ogni programma ideato dal paziente affetto dal morbo di Crohn, diventa un impegno da confermare ‘last minute’ perché c’è il rischio di rimandare ogni piano programmato a causa di una colica improvvisa o per via di un inatteso accesso al pronto soccorso. Le principali aree di vita del paziente risultano condizionate dall’andamento dei sintomi della malattia. Il lavoro, le relazioni affettive e le attività a cui dedicarsi nel tempo libero sono tutte dimensioni che non possono essere gestite in maniera ordinata e serena, perché su ognuna di esse incombe l’ossessione dei possibili attacchi da parte del morbo di Crohn. Un semplice pranzo fuori con gli amici o con i colleghi di lavoro diventa motivo di irrequietezza, per il timore di sviluppare sintomi critici dopo l’assunzione di pasti consumati fuori casa. Quindi, nella maggior parte dei casi il paziente rinuncia anche ad occasioni di socialità per evitare che la sua malattia possa prendere il sopravvento. L’isolamento sociale che ne consegue produce nel paziente un senso di inadeguatezza e anche un forte senso di colpa derivante dal continuo rifiuto che egli è obbligato a manifestare verso gli impegni sociali, per poter meglio fronteggiare i sintomi della sua indomabile patologia.

Per comprendere meglio il disagio psicologico derivante dalla malattia di Crohn, può essere utile riflettere su alcuni fattori culturali che connotano il nostro paese e da cui dipendono una serie di abitudini sociali che scandiscono la vita quotidiana. Uno di questi fattori è rappresentato senza dubbio dalla tradizione culinaria. Difatti, nello scenario culturale italiano, più che in altri paesi, il cibo è sempre stato uno dei principali motivi di aggregazione sociale. Non a caso, molte occasioni in cui coltivare la socialità vengono a formarsi intorno ad un tavolo apparecchiato e ricco di pietanze da gustare. Si tratta di una immagine che evoca nelle nostre menti delle esperienze prevalentemente piacevoli, associate alla buona cucina e alla buona compagnia. Purtroppo, per i pazienti affetti dal morbo di Crohn, immaginare una scena del genere non suscita di certo le stesse sensazioni di benessere. Non sono rari i racconti di pazienti che soffrono quotidianamente le conseguenze del digiuno, pur di evitare la comparsa dei sintomi più dolorosi che il morbo di Crohn provoca. Ciò accade perché le manifestazioni cliniche più rilevanti, purtroppo, tendono a verificarsi dopo la consumazione dei pasti, a prescindere dal tipo di cibo ingerito.

I vissuti di sofferenza legati all’idea di dover rinunciare alla buona cucina o alla buona compagnia, o (come accade più di frequente) a entrambe le cose, logorano col passare del tempo le dimensioni sociali ed affettive che contraddistinguono la qualità della vita dei pazienti, mettendo in crisi il benessere psico-fisico. In realtà, oltre alla sfera sociale e a quella riguardante l’alimentazione, ci sarebbero molte altre aree rispetto alle quali i pazienti con malattia di Crohn sono costretti a rinunciare o a partecipare in forma limitata. Dunque, la vita di rinunce che faticosamente affrontano i pazienti affetti da questo disturbo, in molti casi può sfociare in vere e proprie forme di disagio psicologico. I vissuti di ansia e l’umore depresso che derivano dai sintomi della patologia e dall’isolamento sociale che essa produce, non possono essere trascurati. I pazienti affetti dal morbo di Crohn, hanno il diritto di condurre una vita più serena e con minori limitazioni sociali e psicologiche. Pertanto, sarebbe opportuno seguire parallelamente al percorso di terapia medica e farmacologica, anche un percorso di sostegno psicologico in grado di fornire al paziente gli strumenti per gestire in maniera più efficace le difficili implicazioni che riguardano la sfera mentale e sociale. Inoltre, aderendo ad una visione bio-psico-sociale della salute e del benessere, un adeguato intervento psicologico può avere delle ripercussioni positive anche sulla gestione dei sintomi fisici tipici del morbo di Crohn. Dunque, per favorire una migliore qualità della vita dei pazienti, risulta indispensabile integrare le competenze mediche con quelle psicologiche, al fine di intervenire in maniera completa e precisa su ogni livello fisico e su ogni area psicosociale che la malattia intacca.

 

La bussola delle emozioni. Dalla rabbia alla felicità, le emozioni raccontate ai ragazzi (2019) di A. Pellai e B. Tamborini – Recensione del libro

Un libro sull’adolescenza e sulle emozioni, una guida pratica e interattiva per ragazzi e adulti alla scoperta di come funziona il cervello emotivo.

 

Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore e noto al pubblico per aver condotto su Radio24 il programma Questa casa non è un albergo, e la moglie pedagogista, scrittrice e madre dei loro 4 figli, Barbara Tamborini, propongono insieme un libro rivolto ai ragazzi preadolescenti e adolescenti in grado di aiutarli ad orientarsi nella comprensione della loro mente e delle loro emozioni.

Perché un manuale per comprendere le emozioni? E perché rivolgerlo direttamente ai ragazzi?

Chiunque abbia conosciuto un ragazzo preadolescente o adolescente (o semplicemente se cerchiamo di sforzarci di ricordare quegli anni turbolenti in cui inizia a strutturarsi la personalità) sa che le emozioni sono spesso vissute come uno tsunami violento che prende il sopravvento e non lascia scampo.

Questo libro può essere visto come una guida all’autoanalisi delle proprie emozioni. In questo senso, il titolo stesso, La bussola delle emozioni, rimanda alla possibilità per i ragazzi di avere finalmente tra le mani un libro per orientarsi all’interno di sei emozioni primarie: la tristezza, la paura, il disgusto, la rabbia, la sorpresa e la gioia.

Il libro affronta temi complessi delle neuroscienze e le recenti scoperte scientifiche sul cervello utilizzando un linguaggio semplificato, accessibile anche ai più piccoli. La guida aiuta i ragazzi a comprendere come funzionano i diversi livelli del nostro cervello. Spiega, per esempio come mai l’incompleta maturazione cerebrale porti l’adolescente a sentirsi in balìa delle proprie emozioni, incapace di modularle e gestirle.

Il cervello viene presentato dagli autori come una casa a tre piani, il cui piano terra è il piano della sopravvivenza, il secondo piano corrisponde al cervello emotivo e l’ultimo piano è costituito dal cervello cognitivo, grazie al quale, è possibile controllare e modulare i conflitti emotivi.

Il libro è diviso in sette parti che comprendono specifici capitoli su ciascuna emozione con test creati per indicare ai ragazzi come si rapportano con le emozioni. Ogni concetto è accompagnato da esemplificazioni utili al lettore per comprendere i contenuti in modo divertente. Per ogni emozione sono presenti consigli su come gestire le situazioni emotive e racconti di vita personale che il giovane può paragonare alle sue esperienze.

Infine, una sezione è dedicata alla filmografia. Questa comprende pellicole di film per ogni emozione, utili ai ragazzi per avere immagini concrete che possano spingerli ad una riflessione più profonda sull’argomento.

La Bussola delle emozioni non è solo un libro per i ragazzi, la bussola diventa utilissima anche per i genitori che molto spesso si sentono impotenti di fronte a queste tempeste emotive adolescenziali.

Risulta così un libro che merita di essere letto da tutti, ragazzi, genitori, educatori e insegnati per guidarli nella comprensione di questo momento delicato e spesso incompreso della vita di un preadolescente/adolescente!

 

A seconda di con chi sei il tuo modo di ridere cambia?

Sebbene le origini della nostra sensibilità alla risata possano essere fatte risalire a milioni di anni fa, questa è un’abilità che per noi oggi è ancora rilevante. Come spettatori, quanto bene possiamo usare il suono delle risate per inferire la natura delle relazioni?

 

La quantità e la qualità di risate tra due persone possono potenzialmente dirci molto di più rispetto al fatto che stanno semplicemente condividendo una battuta. Ad esempio, gli amici ridono più degli estranei e le risate condivise possono essere un indicatore dell’interesse sessuale tra una coppia. Ma come spettatori, quanto bene possiamo usare il suono delle risate per fare questo tipo di inferenze? Un studio pubblicato su PNAS è il primo a indagare queste dinamiche; sembrerebbe che indipendentemente dalla nostra cultura di appartenenza, siamo abbastanza bravi ad utilizzare le risate per identificare la natura delle relazioni degli altri.

I ricercatori hanno chiesto a coppie di studenti universitari americani di lingua inglese di entrare in laboratorio e parlare di vari argomenti, come per esempio le “brutte esperienze dei compagni di stanza”. Entrambe le persone indossavano dei microfoni, tramite i quali, le loro risate sono state registrate. Fondamentalmente, alcune delle coppie di persone erano buoni amici e alcuni di loro erano estranei che si erano incontrati solo quel giorno (Bryant et al., 2016).

I ricercatori hanno quindi preso queste registrazioni audio ed estratto momenti di “colaughter” tra le coppie: cioè, quelle volte in cui entrambe le persone, avevano iniziato a ridere entro un secondo l’una dall’altra (Bryant et al., 2016).

È stato quindi chiesto ai partecipanti reclutati da tutto il mondo di ascoltare queste brevi clip e di cercare di capire (ascoltando i momenti in cui ridevano) se era una coppia di amici o di sconosciuti. C’erano 966 ascoltatori da 24 paesi in cinque continenti, tra cui India, Namibia, Perù e Slovacchia (Bryant et al., 2016).

Gli ascoltatori sono stati in grado di giudicare se le clip di risate provenissero da amici o estranei con un ragionevole grado di accuratezza: hanno capito bene il 61% delle volte, il che statisticamente parlando è significativamente differente rispetto a se avessero semplicemente indovinato. Molto probabilmente gli ascoltatori stavano sfruttando il fatto che il modo in cui ridiamo con i nostri amici suona diverso dal modo in cui ridiamo con gli estranei, incluso un periodo di tempo più breve per ogni scoppio di risata, tono e volume più irregolari. Sorprendentemente, la capacità degli ascoltatori di giudicare quali coppie erano amiche e quali erano estranee era molto simile in tutte le culture, comprese quelle senza familiarità con l’inglese. Non importa da dove vieni: sembra che la risata sia un linguaggio che tutti capiamo (Bryant et al., 2016).

Questa abilità si è probabilmente evoluta perché identificare le relazioni degli altri a distanza era vantaggioso per i nostri antenati primati. Per un estraneo, è utile riconoscere che due individui sono vicini l’uno all’altro – potrebbe segnalare che questo è un gruppo unito a cui vale la pena unirsi, o se ciò non è possibile, che la coppia rappresenta una minaccia maggiore perché sono strettamente alleati (Bryant et al., 2016).

A conferma di questa idea che la risata umana abbia profonde radici evolutive, uno studio precedente ha coinvolto ricercatori che solleticavano giovani oranghi e gorilla: i rumori che facevano erano simili al suono delle risate dei neonati umani (Bryant & Atipis., 2014).

Sebbene le origini della nostra sensibilità alla risata possano essere fatte risalire a milioni di anni fa, è un’abilità che per noi oggi è ancora rilevante. Immagina di iniziare un nuovo lavoro e di cercare di capire il rapporto tra gli altri nel tuo ufficio. Proprio come sarai in sintonia con il linguaggio del corpo di altre persone e il contenuto del loro discorso, probabilmente dedurrai informazioni dal modo in cui ridono tra loro. Ma ricorda, funziona in entrambi i modi. Quindi la prossima volta che ridi forzatamente con un collega o un conoscente, non dimenticare: per ragioni che risalgono ai tuoi antenati primati, qualcuno che ti sta guardando o lo stesso interlocutore potrebbe scoprirti (Bryant et al., 2016).

 

Il congresso EABCT di Atene 3-5 settembre 2020 – Report dalla seconda giornata

Nella seconda giornata del congresso della European Society of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), che si è svolto online ad Atene dal 3 al 5 settembre, ho assistito alle presentazioni di Anke Ehlers dell’Università di Oxford sul disturbo post traumatico da stress (PTSD) e di Janet Treasure del King’s College di Londra sull’anoressia nervosa.  

 

Anke Ehlers sul disturbo da stress post traumatico

Due le idee più significative esposte dalla Ehlers, con solidità empirica: ha ribadito -dati alla mano- la superiorità della terapia cognitivo comportamentale (CBT) per il PTSD su ogni altra terapia, compresa l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), e ha illustrato le nuove ipotesi sul reale meccanismo d’azione della CBT nel trauma, ipotesi legate a parallele scoperte sul meccanismo patologico del PTSD.

Ribadire la superiorità della CBT non è solo il frutto di una mera rivalità tra psicoterapie -CBT e EMDR- ma è anche lo sforzo di fornire ai pazienti linee guida affidabili sulle cure più specifiche per il PTSD. Come si sa, negli ultimi anni l’EMDR ha legittimamente avanzato la propria candidatura a terapia specifica e di scelta per il PTSD e per molti altri disturbi legati al trauma. Il merito di questa sfida alla CBT, che deteneva questo privilegio, è di aver generato una sana rivalità clinica sull’efficacia dei trattamenti che va a vantaggio della cura dei pazienti.

I dati di efficacia portati dalla Ehlers mostrano che entrambe le psicoterapie d’elezione, CBT e EMDR, sono molto più efficaci di ogni altra psicoterapia in termini di effect size e di varie altre misure statistiche (di cui ignoro gli arcani segreti tecnici) e che la CBT mostra un margine di superiorità rispetto all’EMDR. Quindi per il PTSD si raccomandano CBT ed EMDR di gran lunga rispetto a ogni altra terapia e si concede una significativa preferenza alla CBT. È una conclusione importante in tempi in cui il verdetto di Dodo, per altri casi affidabile (ad esempio i disturbi di personalità), rischia però, se abusato, di favorire un quadro scientifico e clinico stagnante in cui ogni cosa fatta in compagnia del paziente in una stanza più o meno funziona.

Accanto a questo risultato significativo a favore della CBT ma per certi versi non nuovo ma solo un po’ dimenticato, Ehlers ha offerto anche risultati, anch’essi empiricamente supportati, innovativi sul funzionamento della CBT. Anche in questo caso va riconosciuto un merito alla rivalità con l’EMDR: essa ha stimolato ricerche più approfondite sul meccanismo psicopatologico del PTSD e sul processo d’azione della CBT. Il modello clinico del PTSD proposto dalla Ehlers è più processuale e metacognitivo di quello classico del gruppo CBT di Oxford (gruppo a cui Ehlers peraltro appartiene a pieno titolo). È vero che la natura clinica del PTSD favoriva uno sguardo processuale già nel modello CBT classico: il malessere post traumatico non dipendeva da valutazioni distorte della realtà ma da una gestione disfunzionale di memorie traumatiche intrusive. Insomma, processi interni distorti e non distorte valutazioni dell’ambiente.

Questa intuizione processuale e metacognitiva già presente nella CBT classica è stata ulteriormente sviluppata da Ehlers che ha studiato a fondo il meccanismo intrusivo delle memorie traumatiche nel PTSD, dimostrando come esse si presentino alla coscienza con l’immediatezza di un’esperienza reale e prive del loro carattere di ricordi passati, di modo che il paziente che le vive attribuisce loro un valore di minaccia reale e immediata. La memoria degli episodi di pericolo è totalmente disgiunta (se vogliamo, dissociata) da tutte le altre memorie e per questo essa perde la sua qualità di ricordo. La conseguenza terapeutica è un lavoro metacognitivo e normalizzante di costruzione -faticosa e non spontanea- della consapevolezza del carattere di ricordi di queste memorie traumatiche. Costruzione faticosa, non spontanea e controintuitiva perché avviene malgrado e nonostante il presentarsi di queste memorie in forma di esperienza immediata e presente.

In tal modo tutta una serie di ipotesi passate sul PTSD basate sulla esplorazione degli episodi traumatici come un lavoro di scavo e di ricostruzione di informazioni dimenticate o addirittura rimosse si ribalta nel suo contrario: le memorie non sono affatto rimosse ma sono fin troppo ben presenti e immediate alla mente del paziente. Ma non si tratta della solita critica alla psicoanalisi; si tratta anche di ridimensionare la concezione di certi interventi immaginativi oggi di moda come rivisitazione vivida e intensa di un passato che condiziona perché semi dimenticato. Al contrario, si tratta di rivisitare il passato in una condizione di distacco emotivo che li renda meno vividi, meno immediatamente immaginati e per niente rivissuti con intensità. Invece è il distacco critico e razionale che favorisce la consapevolezza che si tratta di ricordi e non di esperienze presenti. Un lavoro quindi metacognitivo e, in un certo senso, anti-esperienziale se con questo termine intendiamo un contatto diretto con l’emotività del momento presente. Semmai si tratta di una esperienzialità metacognitiva, mediata e non immediata. E sia la CBT che l’EMDR al loro meglio sembrano funzionare in questa direzione.

Gli interventi CBT raccomandati dalla Ehlers si chiamano “updating trauma memories” e “discriminating triggers of reexperiencing (THEN and NOW)” e consistono in un lavoro di riconnessione delle memorie traumatiche con il contesto passato da cui si sono disgiunte e di riconoscimento degli stimoli del presente che scatenano le intrusioni in maniera imprevedibile per il paziente (anche se poi spesso ci sono delle associazioni inconsapevoli per analogia). Lavoro fondamentalmente consapevole e riflessivo, basato su una forte condivisione della formulazione del modello del PTSD che favorisca una gestione razionale (diciamolo) di stati mentali sgradevoli e non su una liberazione dalle memorie intrusive dopo una qualche esperienza emozionale correttiva.

Janet Treasure: keynote sull’anoressia nervosa

Dedico meno righe alla keynote della Treasure sull’anoressia perché si è trattato di una presentazione di taglio in buona parte più psichiatrico che cognitivo comportamentale, con molti dati sui fattori di rischio.

Interessanti tuttavia i dati sugli aspetti cognitivi e interpersonali dell’anoressia, empiricamente confermati (che è un grande merito) seppure non nuovi: si ribadisce il tratto criticista, copertamente conflittuale e iperprotettivo delle relazioni familiari dell’anoressica, che favoriscono nelle pazienti un atteggiamento evitante e poco propenso alla crescita personale e all’esplorazione e che si rifugia in un perfezionismo singolarmente ristretto, limitato al controllo del peso e dell’aspetto corporei.

 

Giù dal burrone la Sportività, su gli indici di gradimento e il guadagno degli sponsor: il fascino del trash talking nello sport e delle personalità che lo utilizzano

L’attività agonistica è sottoposta a controlli etici e di parità per rendere lo Sport possibilmente più equo ed assente di conflitti incontrollabili. Tuttavia, a causa degli elementi caratteriali di certi atleti professionisti, si assiste spesso a degli scambi verbali dal contenuto “sotto la cintura” che, paradossalmente, lo rendono più apprezzato e tifato. Segue una analisi divulgativa di questo fenomeno comunicativo legato alla teoria dei personal traits.

 

L’attività sportiva dà sfogo necessario per soddisfare i nostri istinti primordiali ereditati dal nostro atavico passato di cacciatori e di nomadi di sussistenza (Liebenberg, 2008), si è evoluta fino ad essere un elemento di incontro fra le varie Società Umane, un fenomeno economico globale e semplicemente un punto di incontro con l’Altro. Con l’evolversi del concetto di Legge e di Rispetto nella Cultura Umana, questa ha poi portato alla nascita di una vera e propria Giurisprudenza nel mondo delle Attività Agonistiche (Martens, 1987), cosa che ha dato i natali al comportamento chiamato “sportività” (“sportsmanship”), un comportamento rispettoso ed equo nei confronti dell’avversario (Vallerand, Deshaies,  Cuerrier,  Brière & Pelletier,1996).

La sportività è una caratteristica attitudinale considerata favorevole nella Storia, che porta l’atleta ad essere percepito dal pubblico come dotato di buona apertura caratteriale e di buona capacità di giudizio (Sharpe, Brown, & Crider, 1995). L’atteggiamento sportivamente corretto è generalmente considerato con tale positività che gli Accademici Filosofici  se esso potesse essere considerato materia di studio nel campo delle categorie morali (JW Keating, 1964).

Tuttavia, con l’avvento e lo sviluppo delle telecomunicazioni, si è visto l’assunzione di rilevanza dell’elemento comunicativo definito “trash talking”, ovvero quella comunicazione aggressiva dove uno o più soggetti rivolgono insulti all’avversario con obiettivo di squalificarlo psicologicamente per dare l’impressione di esserne superiori (Yip, Schweitzer, Nurmohamed, 2018).

Sebbene una parte della psicologia della comunicazione (e di chi abbia una attitudine orientata all’etica con salienza) considera questa comunicazione come veicolo di inciviltà (ibidem), un’altra parte, assieme agli studiosi odierne delle Scienze Motorie, considerano il trash talking come un elemento normale all’interno della competizione sportiva, essendo ciò una reazione psicoattitudinale e di rilascio della tensione da parte di certi tipi caratteriali quando hanno a che fare con la tensione (Dixon, 2007).

Come si può evidenziare paradossalmente, l’insulto sportivo sul campo e/o attraverso i media è considerato una strategia non ortodossa con possibili risultati favorevoli (Silverman, 1999) o certamente buoni sia dal punto di vista dei risultati sul campo che omeostatici (Gorvett,2019).

Di fatto, il trash talking, più che un elemento comunicativo di cornice che possa creare interesse nei confronti dell’evento sportivo, è oggi ritenuto ingrediente essenziale dello stesso evento (Jarett, 2019), di cui bisogna avere una perenne e solida capacità di utilizzo (Cohn, 2020).

Inoltre, come evidenziato dallo status sociale e culturale che famosi trash talkers come Cassius Clay/Muhammad Ali, Tito Ortiz, John McEnroe, Larry Bird, Charles Barkley e Conor McGregor hanno raggiunto, le personalità controverse sono state spesso accolte favorevolmente dal pubblico, a dispetto delle impressioni negative che sono date da comportamenti come l’arroganza e l’aver nessun rispetto (Thorngate, 1976).

Questo si verifica perché spesso i risultati dei loro sproloqui hanno l’effetto desiderato (Best, 2019), permettendogli di avere una buona accoglienza dal pubblico (Ring et al, 2019). Oltretutto, questa impressione spesso evolve in simpatia ed attrazione verso questo tipo di attore, che sia per la sicurezza ostentata o che sia per la personalità fuori dagli schemi, poiché l’esposizione incondizionata dei lati meno accettabili del carattere umano è spesso accolta favorevolmente, poiché è segno di ribellione contro le leggi Etiche e Sociali imposte, percepite spesso come un limite imposto (Gruber, 2015). Per questo alcune personalità sportive possono rientrare nel profilo descritto dalla Dark Triad, ovvero soggetti con tratti comportamentali machiavellici, narcisistici e psicopatici (Pahulus, Williams, 2002).

Ovviamente, sebbene il trash talking sia un argomento interessante e a volte, come strategia, crei un interesse oggettivo nei confronti dell’attore e dell’attività agonistica che pratica, di base è un elemento controverso e facilmente controproducente, che può portare a squalifiche evitabili, sia sportivamente che psicologicamentee (Gracia, 2018) ed è spesso frustrazione e aggressività disfunzionale fatta passare per sicurezza (Edger, 2011).

 

Pornografia durante il lockdown: un’indagine descrittiva sull’utilizzo di materiale pornografico

Le conseguenze del COVID-19 hanno avuto un grande impatto sulla sfera relazionale e sessuale. La situazione di isolamento e la sospensione della routine quotidiana potrebbero aver portato a un incremento della fruizione della pornografia. E’ davvero così?

 

I DPCM che si sono susseguiti nel periodo dell’emergenza sanitaria da COVID-19 hanno portato ad un cambiamento radicale nella vita di ogni persona. Il distanziamento sociale e l’isolamento nelle proprie abitazioni sono state le principali cause di difficoltà di varia natura, tra cui si collocano anche quelle della sfera relazionale e sessuale.

Tutte le relazioni hanno subito un drastico cambiamento e rottura della propria routine. È stato pertanto possibile ipotizzare tre differenti tipologie di relazioni durante questo periodo:

  • Coppie conviventi: in questo caso la sessualità era permessa e del tutto sicura, a patto che entrambi i partner rispettassero le norme di sicurezza di prevenzione Covid-19. Il periodo del lockdown può essere stato usato per riscoprire una sessualità più serena e senza fretta. Può essere stata l’occasione per dare spazio a nuove pratiche, a nuovi giochi o ad una maggior intimità relazionale. Al contrario, le coppie con figli in casa hanno potuto avere una maggior difficoltà nella gestione dell’attività sessuale all’interno delle mura domestiche e una diminuzione drastica dei momenti da dedicare solamente alla coppia.
  • Coppie a distanza: l’impossibilità di potersi vedere fisicamente ha portato all’utilizzo della tecnologia per ricercare una sorta di vicinanza. Quindi sexting, chat o chiamate sono stati sicuramente mezzi importanti per mantenere accesa la sessualità nella relazione.
  • Single: sono state le persone più sacrificate in questo periodo. Questo perché hanno dovuto rinunciare ad avere qualsiasi tipo di conoscenza fisica che avrebbe potuto portare all’instaurare una nuova relazione o solamente ad iniziare un’attività sessuale. L’unico mezzo per scaricare la tensione erotica è stata la masturbazione.

Le attività sessuali online

Internet viene utilizzato nella quotidianità dalla maggior parte della popolazione mondiale e sta diventando uno strumento sempre più essenziale nella vita di una persona (Vianzone, 2017).

L’isolamento e il distanziamento sociale hanno fatto sì che la maggior parte delle persone navigassero nel web utilizzandolo anche come mezzo per la soddisfazione sessuale attraverso l’uso di pornografia, chat erotiche o praticando sexting.

Infatti internet può essere sia visto come un’alternativa per soddisfare i propri bisogni sessuali, sia usato come un’estensione della vita sessuale con il/la proprio/a partner, al fine di sperimentare nuove pratiche o confrontarsi con gruppi di minoranze sessuali (Eleuteri et al., 2012).

La pornografia online e le chat room offrono quotidianamente la possibilità di entrare in contatto con diverse preferenze e pratiche sessuali. Molti autori identificano questi comportamenti con il nome di Attività Sessuali Online (ASO), mentre tutte le pratiche in cui viene utilizzato materiale esplicito (video o foto), in letteratura, vengono identificate con l’acronimo SEMI (Sexually Explicit Material on the Internet) (Eleuter et al., 2012).

Copper (1998) ha ideato il modello delle 3 A per comprendere meglio la forza e l’attrattività del web, individuando tre elementi di forza:

  • Access (accessibilità);
  • Affordability (economicità);
  • Anonimity (anonimato).

Griffiths (2000) ha individuato tutta una serie di motivazioni che spingono una persona ad utilizzare il web per l’ASO, alcune di queste sono:

  • Ricerca di partner sessuali;
  • Divertimento sessuale;
  • Divertimento sessuale online (chat erotica, sesso via webcam);
  • Gratificazione sessuale;
  • Auto-esplorazione;
  • Ricerca di informazioni riguardante pratiche sessuali.

Per quanto riguarda gli utenti che utilizzano ASO troviamo i partner, i solitari e i parafilici. I primi sono persone che hanno una relazione esistente e stabile offline e utilizzano la modalità virtuale per arricchire la propria attività sessuale, ricercando nuove pratiche o nuovi stimoli. Per quanto riguarda le persone solitarie, la motivazione principale è quella di ricercare un piacere erotico attraverso la masturbazione o la ricerca di partner sessuali offline. Gli ultimi, i parafilici, trovano spazio nell’ASO per individuare pratiche sessuali minoritarie e non convenzionali e per poterle condividere, o anche solo per avere un confronto, con le comunità che possono essersi sviluppate nel web (Cosmi, 2009).

Indagine Start&Up

Ipotizzando alcuni cambiamenti relativi al comportamento sessuale nel periodo di lockdown, all’interno del progetto social Start&Up, abbiamo condotto un’indagine descrittiva per valutare un eventuale incremento o diminuzione della visione di materiale pornografico on line.

L’indagine è stata realizzata attraverso un questionario divulgato tramite canali social (principalmente Facebook ed Instagram) con campionamento casuale. Il campione è composto da 203 persone provenienti da diverse zone d’Italia: il 52% dal centro Italia, il 30% dal nord, mentre il 18% dal sud e isole.

Come possiamo notare dal grafico seguente, le risposte sono state date principalmente da un pubblico di genere femminile.

FIGURA 1 – Dati riguardanti il genere dei partecipanti allo studio.

Inizialmente l’attenzione è stata posta sull’eventuale cambiamento del desiderio sessuale durante il lockdown e dal grafico che segue possiamo notare come il 24% dei partecipanti ha manifestato una diminuzione.

FIGURA 2 – Dati relativi alla variazione del desiderio sessuale nel periodo di quarantena.

E’ stato possibile osservare una diminuzione della fruizione di materiale pornografico durante il lockdown. Prima di tale periodo, il 59% del campione ne faceva uso, con la seguente frequenza:

  • 61% 1-2 volte la settimana;
  • 29% 3-4 volte la settimana;
  • 10% tutti i giorni.

Nel periodo della quarantena questa percentuale è scesa al 53%, soprattutto per il genere femminile (46% nel pre quarantena contro il 38% durante la quarantena); si è notato invece un incremento del 4% sull’utilizzo quotidiano.

La maggior parte delle persone ha dichiarato di visionare materiale pornografico quando è solo (96%), mentre solo una minima parte insieme al/alla partner (4%).

Le motivazioni che hanno spinto all’utilizzo della pornografia sono state:

  • desiderio sessuale (51%);
  • noia (19%);
  • stress o ansia (6%);
  • combinazione di più fattori (24%).

Conclusioni e limiti

La situazione di isolamento e la sospensione della routine quotidiana ci hanno portato ad ipotizzare un incremento della fruizione della pornografia, considerando anche gli abbonamenti gratuiti offerti da diverse piattaforme pornografiche; i dati emersi invece non hanno confermato tale ipotesi. E’ pur vero che questa indagine presenta dei limiti: in primis un campione relativamente piccolo, il che lo rende poco rappresentativo della popolazione italiana; inoltre non sono state effettuate analisi di correlazione tra le diverse variabili, quindi non è stato possibile stabilire un legame di causa-effetto tra queste.

 

La Paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi (2019) di C. Dambone e L. Monteleone – Recensione del libro

Il libro si concentra su uno dei più complessi e dibattuti temi della nostra società: il fenomeno migratorio e la paura dello straniero.

 

Carmelo Dambone, psicologo clinico, psicoterapeuta e docente universitario, insieme a Ludovica Monteleone, laureata in Interpretariato e Comunicazione e appassionata di giornalismo, analizzano il fenomeno migratorio e le complessità della società multiculturale offrendoci un punto di vista nuovo su una tematica che ci interessa particolarmente in questo periodo storico.

“Tutti gli immigrati sono terroristi”, oppure “gli immigrati sono troppi”, o ancora “ci rubano il lavoro e non pagano le tasse e sono tutti in Italia, aiutiamoli a casa loro!”.

Quante volte abbiamo sentito queste frasi pronunciate da persone al bar, per strada o in televisione? E quante volte ci siamo chiesti se fossero frasi dette tanto per dire o vere credenze e convinzioni diffuse nella nostra società?

Pensare che gli immigrati siano portatori di pericolo, che siano troppi per essere gestiti, che la loro cultura sia troppo diversa e per questo incompatibile con la nostra è un atteggiamento che caratterizza la nostra società. In realtà, l’immigrazione a cui stiamo assistendo in questi anni è un fenomeno senza tempo. Esiste da sempre. L’Italia è stata un Paese di emigrazione e noi stessi, prima, siamo stati i migranti di altri paesi. Ma come abbiamo fatto a dimenticarcene? Come mai disdegniamo questo fenomeno quando in passato ne siamo stati protagonisti?

Il fatto di cercare in un altro paese una vita migliore fa parte dell’essere umano, tuttavia oggi la migrazione ha assunto un significato diverso. Il fenomeno è associato alla paura dell’immigrato e dello straniero, la “xenofobia”. Ma tutto è più complesso di quanto possa sembrare, perché se da un lato un gruppo di persone riconosce questa paura come insensata e si prodiga per la difesa dello straniero, un’altra parte della società vede lo straniero come diverso e pone così una distinzione netta tra le categorie sociali.

I mass-media, inoltre, sembrano giocare un ruolo fondamentale nella reazione di paura verso lo straniero. Quotidianamente assistiamo a storie di violenza e delinquenza che riguardano i migranti, spesso narrate con un linguaggio non appropriato, il quale, irrobustisce gli stereotipi di paura e devianza che riguardano queste persone. Proprio l’esposizione continua, il condizionamento a questi racconti e le informazioni mediate non permettono la creazione di pensieri e idee obiettive e libere da pregiudizi e stereotipi.

Cosa dire poi del terrorismo, tema ampiamente trattato dagli autori? La percezione del migrante come potenziale terrorista è talmente esasperata che ci spinge a considerare terroristi anche innocenti che scappano dai loro Paesi a causa della guerra.

Così la paura si alimenta e la diversità diventa una barriera, un ostacolo paralizzante per la crescita della società.

Come porci di fronte a questi ostacoli? Secondo gli autori:

Per un processo di integrazione è necessario un nuovo modello di pensiero, una rivoluzione culturale che metta le basi per nuovi valori per includere l’altro. Le differenze non sottraggono nulla agli altri, ma aggiungono.

Il lettore troverà di fronte a sé un libro che gli regalerà un’ottima occasione per una riflessione su uno dei temi più importanti della nostra società. Speriamo in un cambio di prospettiva, magari inaspettato, di chi la presenza dello straniero la vive ogni giorno con un timore infondato!

 

Svelato un altro mistero sul cervello, le spine dendritiche alla base dell’apprendimento

I ricercatori del CHU Sainte-Justine Hospital and Universite de Montreal hanno indagato i meccanismi sottostanti l’apprendimento e la formazione della memoria. I risultati del loro studio sono stati pubblicati su Nature Communications.

 

Guidato dal professor Roberto Araya, il team ha studiato la funzione e la trasformazione morfologica delle spine dendritiche, minuscole sporgenze situate sui rami dei neuroni, implicate nella plasticità sinaptica, ritenute il meccanismo alla base dell’apprendimento e della memoria. Questa è la prima volta che le regole della plasticità sinaptica, un processo direttamente correlato alla formazione della memoria nel cervello, sono state indagate con una metodologia che ci permette di comprendere meglio la plasticità neuronale e, in definitiva, come si formano i ricordi quando i neuroni della neocorteccia cerebrale ricevono flussi singoli e/o multipli di informazioni sensoriali.

Il cervello è composto da miliardi di cellule nervose eccitabili meglio conosciute come neuroni. Sono specializzati nella comunicazione e nell’elaborazione delle informazioni. Un esempio calzante e che rende l’idea è il seguente, immagina un albero, le radici sono rappresentate dall’assone, il tronco centrale dal corpo cellulare, i rami periferici dai dendriti e, infine, le foglie dalle spine dendritiche; quest’ultime ricevono informazioni eccitatorie da altre cellule e decidono se queste informazioni sono sufficientemente significative da essere amplificate e diffuse ad altri neuroni (Tazerart et al., 2020).

Questo è un concetto chiave nell’elaborazione, integrazione e archiviazione delle informazioni e quindi nella memoria e nell’apprendimento.

Le spine dendritiche fungono da zona di contatto tra i neuroni ricevendo input (informazioni) di forza variabile. Se un input è persistente, viene attivato un meccanismo mediante il quale i neuroni amplificano il “volume” in modo che possano “sentire” meglio quella particolare informazione (Caporale & Dan., 2008).

In caso contrario, le informazioni di un “volume” basso verranno ulteriormente abbassate in modo da non essere notate. Questo fenomeno corrisponde alla plasticità sinaptica, che implica il potenziamento o la depressione della forza di input sinaptica (Tazerart et al., 2020).

Questa è la legge fondamentale della plasticità dipendente dal tempo, o plasticità dipendente dal tempo di Spike (STDP), che regola la forza delle connessioni tra i neuroni nel cervello e si ritiene che contribuisca all’apprendimento e alla memoria (Tazerart et al., 2020).

In letteratura, la precisa organizzazione strutturale delle spine dendritiche e le regole che controllano l’induzione della plasticità sinaptica sono sconosciute. Il team di Araya è riuscito a far luce sui meccanismi alla base della STDP. Fino ad oggi, nessuno sapeva come gli input sinaptici (informazioni in arrivo) fossero disposti nell’albero neurale e cosa causasse precisamente una colonna vertebrale dendritica per aumentare o diminuire la forza, o il volume, delle informazioni che trasmette (Tazerart et al., 2020).

L’obbiettivo dei ricercatori era quello di estrarre “leggi di connettività sinaptica” responsabili della costruzione di ricordi nel cervello. Per lo studio sperimentale, il team ha utilizzato soggetti in età adolescenziale, dato che questo è un periodo critico per l’apprendimento e la formazione di memorie nel cervello. Utilizzando tecniche avanzate nella microscopia a due fotoni che imitano i contatti sinaptici tra due neuroni, i ricercatori hanno scoperto un’importante legge relativa alla disposizione delle informazioni ricevute dalle spine dendritiche. Il loro lavoro mostra che, a seconda del numero di input ricevuti (sinapsi) e della loro vicinanza, le informazioni verranno prese in considerazione e memorizzate in modo diverso, infatti se più di un input si verifica in un punto del neurone, la cellula considererà queste informazioni più importanti e aumenterà il suo volume (Tazerart et al., 2020).

Questa è una scoperta importante perché le alterazioni strutturali e funzionali delle spine dendritiche (i principali destinatari di input da altri neuroni), sono spesso associate a condizioni neurodegenerative, poiché il paziente non può più elaborare o memorizzare correttamente le informazioni. Comprendendo i meccanismi alla base delle dinamiche delle spine dendritiche e il modo in cui influiscono sul sistema nervoso, potremmo quindi essere in grado di sviluppare approcci terapeutici nuovi e potenzialmente più efficaci per il trattamento di malattie neurodegenerative (Tazerart et al., 2020).

 

Il congresso EABCT di Atene 3-5 settembre 2020

Si è appena concluso il congresso della European Society of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), il cinquantesimo della serie ma anche il primo online. La sede reale è stata Atene dove il congresso è stato organizzato dal 3 al 5 settembre, mentre quella virtuale era nei computer dei partecipanti.

L’online offre i suoi vantaggi: spostamento immediato da una presentazione all’altra invece che il pellegrinaggio nei corridoi dei congressi, disponibilità -per una settimana- di tutte le presentazioni che rimanevano registrate, e così via. D’altro canto, mancava l’esperienza del congresso come incontro tra persone in carne e ossa.

A che punto siamo con i disturbi di personalità

Molte le presentazioni della prima giornata; tra le tante privilegio le keynote di Arnoud Arntz sulla Schema Therapy (ST) e quella di Judith Beck sulla Case Conceptualization. Arnoud Arntz sta portando avanti da anni un lavoro di valorizzazione della ST, questa forma di terapia cognitiva specializzata per i disturbi di personalità. Merito di Arntz è non limitarsi a illustrare i limiti e l’efficacia della ST ma presentare ogni anno a ogni congresso EABCT una panoramica dello stato scientifico della psicoterapia dei disturbi di personalità, panoramica in cui inserisce poi i suoi dati sulla ST. In tal modo apprendiamo che la ricerca è piuttosto stagnante. Gli studi davvero affidabili sono davvero pochi (solo 9) e anche un po’ vecchiotti (risalgono a prima del 2010).

Arnoud Arntz - EABCT 2020

A voler essere poi davvero rigorosi, dice Arnzt, gli studi davvero inattaccabili sono addirittura solo 2. I risultati poi non sono trionfali. Tutte le terapie mostrano un 40% di drop-out, compresa quella dialectical behavioral therapy (DBT) che è il golden standard. Inoltre, il margine di superiorità della DBT rispetto alle altre psicoterapie è minimo e significativo soprattutto nel fornire un (piccolo) margine di minore rischio di suicidio. Ciò che poi davvero interessa è che nel gruppone delle altre terapie tutte egualmente efficaci (sia pure di una virgola di meno della DBT) c’è anche la cara vecchia cognitive behavioral therapy (CBT) classica, altrettanto efficace di una serie di terapie in genere indicate come più indicate ed efficaci della CBT nei disturbi di personalità, come la mentalization based therapy (MBT) di Fonagy o la Transference Focused Psychotherapy (TFP) di Kernberg. È uno dei meriti di Arntz avere sfatato questo mito della minore efficacia della CBT nei disturbi di personalità e di aver detto varie volte che, invece di analizzare i difetti della CBT, forse sarebbe ora di tentare un passo avanti che per ora non c’è, con l’eccezione del passettino della DBT.

Pagato questo debito alla CBT, Arntz passa poi a presentare i suoi forti dati sulla Schema Therapy, sempre più forti ogni anno che passa. All’obiezione che Arntz abbia un conflitto di interessi in quanto terapeuta ST si può rispondere che i suoi dati sembrano rigorosi e il prestigio scientifico di Arntz è indiscusso. Attendiamo che questi dati, se sono davvero così forti, ricevano il definitivo riconoscimento delle linee guida ufficiali delle varie organizzazioni sanitarie di prestigio mondiale.

Judith Beck e la concettualizzazione del caso

L’altra keynote del primo giorno è stata tenuta da Judith Beck che, seguendo una tendenza recente, ha valorizzato l’aspetto della case conceptualization nella CBT come momento chiave del trattamento. È una mossa che trova molti di noi d’accordo. La condivisione della case conceptualization è sempre di più non semplicemente uno schema astratto, ma un intervento psicoterapeutico concreto in cui si costruisce il patto terapeutico e si condivide con il paziente una ipotesi sulla sua sofferenza e sul suo funzionamento e una proposta di trattamento. In passato questo passaggio era considerato come automatico e garantito mentre oggi ci si rende conto che esso deve essere oggetto di una attenta operazione di condivisione e negoziazione esplicite. Che anche Judith Beck lo affermi con maggior forza che in passato è incoraggiante. Nella sua presentazione, inoltre, la Beck ha introdotto anche una concettualizzazione aggiuntiva delle risorse positive del paziente da condividere accanto alla formulazione del disfunzionamento.

Il suicidio: molto oltre la depressione

La depressione non rappresenta una causa necessaria al suicidio, ma sono più direttamente coinvolti altri aspetti indipendenti da diagnosi psichiatriche (Flamenbaum, 2009), che vanno poi a costituire il costrutto di dolore mentale.

Introduzione

La comprensione della complessità della sofferenza umana, come i professionisti della salute sanno, va spesso al di là di un mero incasellamento all’interno di un continuum tra normalità e psicopatologia, e questo vale ancora di più parlando di un fenomeno come il suicidio. Quello che vorrei qui presentare è un costrutto, ancora in fase di elaborazione e oggetto di studi, che sembra essere promettente nello spiegare, e successivamente intervenire o prevenire, nell’ideazione suicidaria, chiamato dolore mentale. Credo, infatti, sia importante portare a conoscenza nuove concettualizzazioni in ambito di salute e malattia mentale, soprattutto quando questi si discostano dalla psicopatologia ufficiale e (forse proprio per questo) possono aiutarci, come clinici, a comprendere sempre più profondamente la sofferenza umana.

Il suicidio e il dolore mentale

Il suicidio, ad oggi, rappresenta una delle principali cause di morte al mondo (Mattew et al, 2008). In particolare, per quanto riguarda gli ultimi anni, questa alta incidenza, soprattutto nel contesto italiano, è stata associata alla crisi economica (Goleman, 2011), ma risulta estremamente riduttivo considerare solamente determinati eventi esterni per comprendere un comportamento così complesso come l’atto suicidario. È opinione comune, infatti, che il suicidio avvenga in soggetti con disturbi psichici, in particolare in soggetti depressi, mentre in realtà, pur essendo sempre presente una percentuale di rischio suicidario durante quadri depressivi come disturbo depressivo maggiore o distimia (American Psychiatric Association, 2018), si sta sempre più osservando che chi è depresso non necessariamente penserà al suicidio (Clark & Fawcett, 1992; Johns & Holden, 1997). Escludendo anche gravi disturbi psicotici o di personalità, il costrutto clinico che si è visto poter essere più direttamente associato al suicidio è il dolore mentale, ovvero uno stato di forte sofferenza psicologica innescato, in particolare, dalla frustrazione intollerabile di determinate esigenze psicologiche percepite come vitali dalla persona, che si può collocare al di fuori di quadri diagnostici di tipo psichiatrico o psicopatologico. Consiste, inoltre, nella tendenza a provare vergogna, sconfitta, umiliazione e dolore, tutti stati emotivi che entrano a far parte di un’esperienza generalizzata di angoscia insopportabile sentita come una perturbazione emotiva (Shneidman, 1993). È una sensazione spiacevole che trae origine da una valutazione negativa di sé e delle proprie funzioni accompagnata da forti emozioni negative (Orbach, 2003). È nel momento in cui questa esperienza così negativa diventa insopportabile, superando le capacità di tolleranza del soggetto, che si manifesta il rischio dell’attuazione di un comportamento suicidario (Holden, 2001). Il suicidio è stato spesso affiancato ad altri tipi di costrutti psicopatologici, primo fra tutti la depressione, come detto sopra (Carroll, 1991; Shneidman, 1993; Holden, 2001; Orbach, 2003), ma anche disturbi ansiosi e disturbi da dipendenza correlati all’uso di sostanze (Orbach, 2003; Guimaraes, 2014). Malgrado questa concomitanza tra suicidio e psicopatologia, dalla letteratura emerge che considerare il dolore mentale (e quindi anche il suicidio come sua conseguenza più grave) come un costrutto puramente psicopatologico sia estremamente limitativo. È possibile supporre, infatti, che il dolore mentale, per quanto simile in certi elementi alla depressione, in realtà si discosti da essa, proprio osservando che non solo la depressione non è una causa sufficiente alla realizzazione del suicidio, ma che il desiderio di porre fine alla propria vita può essere interpretato come l’espressione di specifici bisogni non soddisfatti, soprattutto nell’età infantile (Clark & Fawcett, 1992; Johns & Holden, 1997). La depressione non rappresenta, quindi, una causa necessaria al comportamento suicidario, ma sono più direttamente coinvolti altri aspetti indipendenti da diagnosi psichiatriche (Flamenbaum, 2009), che vanno poi a costituire il costrutto di dolore mentale (riassunti nell’ultima parte dell’articolo). Nello specifico, la gran parte dei suicidi sembrano essere conseguenza di un intenso dolore psicologico associato a sentimenti di vergogna, umiliazione, sofferenza, angoscia, disperazione, solitudine, paura e terrore. Uno studio di Van Heeringen (2010) ha analizzato i cambiamenti di funzionamento cerebrale associati al dolore mentale nei pazienti depressi e i risultati hanno mostrato che i livelli di dolore mentale non sono correlati alla gravità della depressione, ma sono piuttosto associati all’accrescimento del rischio di suicidio. Il dolore mentale è comunque spesso presente nella depressione, ma analizzando la relazione causa-effetto, risulta essere il dolore mentale di per sé la causa principale del suicidio (Shneidman, 1993). Quindi, depressione o altre psicopatologie si possono considerare associate al suicidio ma non ne rappresentano la causa, il suicidio è conseguenza di dolore estremo dovuto alla presenza di affetti negativi uniti all’incapacità di sopportare tale dolore e alla convinzione cognitiva che il suicidio rappresenti l’unica via di fuga da questo stato di sofferenza.

Cos’è il dolore mentale

A questo punto è opportuno illustrare più nello specifico che cos’è il dolore mentale e in che cosa sembra essere diverso dalla depressione. Per questo, è altrettanto importante specificare che definire esattamente cosa si intenda per dolore mentale rappresenta, ad oggi, una sfida ancora alquanto complessa, ma è ormai evidente l’interesse e la volontà di diversi studiosi di addentrarsi in essa. Infatti, con il sempre più crescente sviluppo della psicosomatica a livello internazionale e con la diffusione di un modello psichiatrico sempre più olistico, appare sempre più importante in ambito clinico portare l’attenzione anche a costrutti diversi dalla psicopatologia ufficiale e che emergono proprio dalla consapevolezza dell’inscindibilità tra mente e corpo. Il dolore mentale è uno di questi. Basta analizzare questa definizione: termini quali dolore (che richiama più prettamente la dimensione fisica) e mentale (che richiama invece il pensiero), intendono sottolineare come questo tipo di dolore possa essere considerato qualcosa di non meno reale di altri tipi dolore percepiti in determinate parti del corpo, anche senza coinvolgere nessuna area specifica (Tossani, 2012), comportando un vissuto intenso tanto quanto il dolore fisico. In realtà, il confine stesso tra dolore mentale e dolore fisico appare, a livello teorico, di difficile definizione. Il dolore fisico, infatti, coinvolge sempre anche dimensioni psicologiche e allo stesso modo il dolore mentale coinvolge inevitabilmente componenti fisiche. Questo significa che la sofferenza, fisica o corporea, può essere causa di dolore e può essere generata da stati psicologici come paura, ansia, depressione, fatica, perdita dell’oggetto amato (Loser, 1999-2000). La sofferenza esiste principalmente nella mente e gli eventi che possono portare a sofferenza differiscono da paziente a paziente. La sua presenza o assenza è riscontrabile solo in base a ciò che riferisce direttamente il paziente: soffrire è un vissuto della persona non solo derivante dal corpo e ha origine nei cambiamenti che minacciano l’integrità della persona come entità sociali e psicologiche complesse (Saunders, 1963). Frank (1961-1962) ha invece definito il dolore mentale come una forma di vuoto causata dalla perdita di significato nel vivere, sottolineando come il dolore mentale origina da un senso di frustrazione esistenziale che non è di per sé patologico né patogenetico, in quanto termina nel momento in cui viene trovata soddisfazione a quella frustrazione oppure viene trovato un senso alla propria vita. Engel (1961), invece, afferma che il dolore mentale è una caratteristica risposta alla perdita della condizione di essere amato. Ciò che è interessante osservare, è che in nessuna di queste molteplici definizioni, sebbene diverse, troviamo una qualche patologizzazione del dolore mentale. Questo sta ad indicare come il dolore mentale sia un costrutto che si pone probabilmente al di fuori della patologia ufficiale, ma che merita altrettanta attenzione clinica anche come fattore di rischio fondamentale di diversi quadri psicopatologici. La ricerca sul dolore mentale può dirsi comunque ancora ad una fase preliminare e sono necessari più studi per analizzare, più nello specifico, le sue componenti, i suoi effetti a brave e lungo termine (anche in un’ottica di prevenzione di determinati disturbi psichiatrici ai quali è correlato) e ciò che la distingue dai disturbi depressivi.

Tenendo in considerazione ciò, è comunque possibile qui elencare, per una migliore comprensione del costrutto, le caratteristiche comuni individuate negli gli studi fin qui effettuati (citati nel testo), cercando di differenziarlo il più chiaramente possibile dalla depressione:

  • discrepanza tra il sé ideale e il sé attuale: questo aspetto può essere presente in modo indiretto nella depressione, ma nel caso del dolore mentale ne rappresenta una delle caratteristiche fondamentali;
  • valutazione negativa di sé come mancante di qualità desiderate, provocata dalla frustrazione di desideri infantili o dal mancato raggiungimento delle proprie ambizioni, tutto ciò associato a colpa e vergogna: l’auto-giudizio negativo è presente anche nella depressione (American Psychiatric Association, 2018), ma nel caso del dolore mentale la vergogna sembra essere una caratteristica più presente di quanto lo sia nella depressione;
  • consapevolezza del proprio ruolo nell’esperienza, ovvero sentirsi responsabili (e poi in colpa) per il proprio stato di sofferenza: sentimenti di colpa sono molto comuni nella depressione (American Psychiatric Association, 2018), ma nel dolore mentale la colpa preminente (o unica) non è riferita al proprio stato di sofferenza, ovvero la persona crede di essere l’unica artefice del proprio dolore (nella depressione, invece, ad esempio, la colpa del proprio stato di sofferenza potrebbe essere anche attribuita ad altri o all’ambiente esterno);
  • sentimenti di incompletezza: nella depressione, invece, troviamo maggiormente senso di vuoto, disperazione, mancanza di interesse o piacere (American Psychiatric Association, 2018);
  • sentirsi senza significato e attribuzione di un giudizio negativo a questo stato (stato di sofferenza sopportabile): questo costituisce un aspetto che potrebbe essere correlato al vissuto di vuoto spesso presente nella depressione, ma può andare anche oltre, significando, quindi, mancanza di uno scopo nella propria vita, nell’esistenza stessa o di qualcosa/qualcuno che inneschi nella persona il desiderio di vivere o continuare a vivere, e non si colloca all’interno di una diagnosi di depressione;
  • sempre più crescente senso di essere carenti, accompagnato da assenza di speranza e significato (stato di sofferenza insopportabile): la perdita di speranza non sempre compare direttamente nella depressione, mentre rappresenta un punto centrale nella decisione di vivere o morire nel caso del dolore mentale; infatti rappresenta la variante che determina se il dolore può essere sopportabile o non sopportabile;
  • percezione che questo tipo di sofferenza durerà a lungo nel tempo (è questa lunga durata che può portare a conseguenze negative patologiche, da qui la necessità di prevenzione e riconoscimento precoce): questo non è sempre vero nella depressione, in quanto per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore è sufficiente che i sintomi siano presenti anche solo per un periodo di due settimane (American Psychiatric Association, 2018);
  • pressante tema della perdita, sia di qualcuno/qualcosa di amato, sia di un’aspettativa futura, provocando senso di fallimento personale (la persona sente di non essere stata in grado di raggiungere qualcosa di piacevole o evitare qualcosa di spiacevole): questo senso della perdita come fallimento personale può far parte, anche in questo caso, di una forma di auto-giudizio negativo nella depressione (American Psychiatric Association, 2018), ma nel caso del dolore mentale diventa qualcosa di molto più specifico e pervasivo e può andare a costituire l’origine stessa del dolore;
  • idee suicidarie o suicidio come effetto massimo: questo aspetto è presente, come già detto, sia nel dolore mentale che nella depressione, ma il dolore mentale sembra essere maggiormente correlato.

 

“Perché lui non mi ama?”: il caso di una terapia di coppia

Claudio vive “ad alta velocità”, cerca stimoli intensi, vuole “tutto e subito”. Giorgia è una donna perfezionista, dedita all’ordine e alla disciplina, desidera essere “nel giusto” e “irreprensibile”. Un breve assaggio della loro terapia di coppia, che attraverserà anche i mondi individuali, alla luce dell’approccio sistemico-relazionale.

 

“Perché non mi ama?”: questa la domanda con cui Giorgia si presenta in terapia insieme al compagno Claudio. Giorgia ha 42 anni. Tesa e concitata, mi racconta che non sente il partner coinvolto quanto lei vorrebbe. E desidera ardentemente – quasi pretende – un “perché”. Una bella donna, con un’aria addolorata e stanca ben mascherata da un trucco accurato, che forse vorrebbe “aggiustare” il suo compagno che lei descrive “freddo e anaffettivo, tranne quando si arrabbia”. Claudio, 45 anni, non bello, ma attraente, si mostra insofferente e irritato, ma chiarisce che, nonostante non sopporti le continue “liti, vendette e recriminazioni” della compagna, lui le vuole bene e vuole stare con lei. Decidiamo di fare una terapia di coppia riformulando insieme l’obiettivo: capire se queste due persone possono sopravvivere a questa tempesta rimanendo uniti, se possono tollerare le loro differenze individuali e se esiste il modo di essere appagati insieme.

Il percorso psicoterapico con loro, che attraverserà la dimensione di coppia, ma anche i loro mondi individuali, avviene alla luce dell’approccio sistemico-relazionale. Il presente verrà letto infatti alla luce del sistema familiare trigenerazionale e dunque in virtù di dinamiche, ruoli, confini e transazioni a esso legate.

Claudio, inizialmente restìo alla terapia, è una persona che, in vari ambiti della sua esistenza, vive “ad alta velocità”: cerca stimoli intensi. E’ molto ambizioso e dinamico, ama gli sport estremi e riempie la vita di attività. Prima della relazione con Giorgia, aveva una vita sessuale molto ricca in cui si destreggiava tra più frequentazioni parallele. Vuole “tutto e subito”, un po’ come un adolescente. Indagare la sua storia ed elaborarla in presenza di Giorgia avrà un grande valore per la coppia: lui si scoprirà di fronte a lei (e di fronte a se stesso), lei lo comprenderà più a fondo e tra loro si farà strada un senso di maggiore vicinanza emotiva. Claudio ha avuto un’infanzia in cui, in un clima familiare altamente conflittuale e aggressivo, gli è stato negato il diritto ad essere un bambino: è stato costretto a crescere rapidamente e a badare a sé stesso, e questo gli ha sempre impedito di riconoscere le parti più fragili e tenere di sé: “io sono fiero di non essermi mai pianto addosso: chi lo fa è solo un debole” mi dice una volta, con un mezzo sorriso che esprime un apparente disprezzo. Ma è anche cresciuto con una grande tenacia, come se avesse bisogno di essere risarcito di ciò che ha patito. Nel corso della vita è stato animato da una forte determinazione nel raggiungere certi traguardi (belle donne, avanzamenti di carriera), quasi a voler ristabilire una sorta di giustizia o saldare dei conti in sospeso. Tutto questo è avvenuto però a spese dell’empatia, che Claudio non ha potuto sviluppare al meglio perché non si è mai potuto permettere innanzitutto di entrare in contatto con le proprie emozioni, cosa che sarebbe stata insostenibile. Esclusa la rabbia, che invece vive ed esprime in modo piuttosto esplosivo. Ha imparato a essere forte, forse credendo che nella forza risieda il valore per cui sarà amato. Sarà molto difficile per Claudio avvicinarsi al suo bisogno d’amore, avendoci rinunciato sin da piccolo ed essendosi diretto piuttosto, nel corso della sua crescita, alla ricerca del piacere e del potere. Nel tempo, ha capito che l’amore è qualcosa che merita e che anche lui è “buono”, nonostante azioni che non lo hanno fatto sentire tale: “ero un bambino terribile, a scuola ero il più feroce dei bulli e anche a casa facevo il matto” mi racconta una volta con voce molto seria, abbandonando per un po’ quell’aria disinvolta e così sicura di sé.

Solo quando riuscirà a empatizzare col suo “bambino interiore” riuscirà ad aprirsi all’altro (non solo alla sua fidanzata) e a trasformare la possessività in intimità.

Anche Giorgia ha ripercorso la sua storia. E’ stata una “brava bambina”, ricoperta di aspettative elevatissime. Mi dice un giorno, armata di abbigliamento e capelli impeccabili: “a casa mia non mi erano permessi errori, un voto sufficiente era per mia mamma una coltellata” e alza gli occhi al cielo. E’ diventata una donna perfezionista, verso di sé e verso gli altri, dedita all’ordine e alla disciplina. Sin dall’inizio colgo come il suo desiderio di essere “nel giusto” e “irreprensibile” nasconda un gran bisogno di riconoscimento. Al contrario di Claudio, ha forti difficoltà a riconoscere la rabbia, che nasconde dietro un atteggiamento di compostezza e controllo e che trasforma nella tendenza a “correggere” l’altro, ma anche se stessa (cercando di diventare sempre più “perfetta”). Giorgia capirà che non serve controllare ogni cosa, né essere perfetta per volersi bene.

Uno dei più grandi traguardi lo raggiungerà quando un giorno, parlando della dimensione del piacere, che smette di essere per lei una temibile perdita di controllo, mi dirà: “ero così concentrata sui miei doveri che quasi mi ero dimenticata cosa significasse abbandonarmi a qualcosa che mi piace e basta, come rimanere a letto la domenica mattina ad ascoltare la musica o uscire con Claudio a fare una passeggiata, senza dover correre a sbrigare le faccende domestiche”. E il viso rilassato, con un trucco leggero e la voce più morbida mi confermano che qualcosa sta veramente cambiando.

Giorgia e Claudio capiranno perché si sono trovati, sulla base di quali incastri e congiunture, ma soprattutto sentiranno che il sentimento c’è ancora, nonostante le incomprensioni passate. Sarà quindi possibile continuare a camminare insieme sostenendosi nelle loro differenze e fragilità, ma anche incoraggiandosi nei rispettivi punti di forza. Le loro diversità non sono necessariamente ostacoli nella loro coppia, anzi l’uno può essere supportivo e stimolante per l’altra: Claudio, coi suoi aspetti impulsivi e vitali, la aiuta nello scoprire la spontaneità e nell’attenuare le rigidità, Giorgia invece dà struttura alla tendenza caotica ed esuberante di lui e lo incoraggia nello scoprire l’importanza di limiti e regole. Ad oggi stanno ancora insieme, in una coppia che talvolta ha ancora i suoi conflitti, ma che è uno spazio in cui entrambi sono maggiormente consapevoli di sé e di chi hanno di fronte. Conoscendo, ognuno dei due, chi sono, chi sono stati e chi possono diventare. Perché, come dice Carl Rogers:

È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare.

 

EMDR e disturbo di panico (2018) di Elisa Faretta – Recensione del libro

Questo libro, riconoscendo l’elevata frequenza del Disturbo di Panico (DP), si propone di fornire una guida completa al suo trattamento attraverso l’EMDR; è stato infatti strutturato un protocollo specifico per il DP, che viene presentato fase per fase ed esemplificato attraverso un caso clinico reale.

 

Il libro parte dal presupposto che non tutti i pazienti con DP accedono o richiedono le cure necessarie, nonostante la farmacoterapia e la psicoterapia possano dare un aiuto concreto. Il presupposto alla base dell’utilizzo dell’EMDR per trattare il panico risiede nell’idea che i vissuti legati a questa patologia siano particolarmente angoscianti, imprevedibili e provocanti paure e impotenza estreme, come i Traumi, con la T maiuscola ad identificarne la loro importanza e pervasività: l’Attacco di Panico (AP), infatti, può essere considerato di per sé come esperienza traumatica. Durante la crisi, infatti, spiega Faretta, la persona prova una paura incontrollabile, insieme alla percezione di perdita di controllo e la certezza di stare per morire; ecco perché è fondamentale rielaborare i ricordi legati al panico.

Il libro nella sua prima parte definisce il DP secondo la descrizione del DSM-5 e ne contestualizza l’eziologia, considerando anche le più recenti teorie neuropsicologiche: ad esempio, include la teoria Polivagale di Porges (che distingue due circuiti del sistema parasimpatico, uno ventrovagale, che ha effetto calmante sul cuore, e uno dorsovagale, che invece permette una difesa attraverso un progressivo rallentamento fino all’immobilizzazione, come fanno ad esempio i rettili), le neuroscienze di Panksepp e anche la teoria dell’attaccamento di Bowlby; è esposta anche la teoria dell’Adaptive Information Processing (AIP), base del metodo EMDR, secondo la quale le esperienze sfavorevoli infantili (ACEs) ed i traumi successivi non vengono adeguatamente elaborati, danneggiando le strategie di coping e rendendo il soggetto vulnerabile alle esperienze stressanti.

Attraverso l’EMDR vengono elaborate diverse informazioni:

  • Il ricordo degli AP, in particolare il primo, l’ultimo ed il peggiore.
  • Quali situazioni li elicitano maggiormente.
  • I traumi pregressi, in particolare le eventuali esperienze di trascuratezza che hanno favorito lo sviluppo di DP.
  • Il rafforzamento di una prospettiva adattiva per affrontare i futuri AP.

Fondamentale per il terapeuta è considerare la storia di attaccamento, per elaborare le esperienze infantili stressanti con l’EMDR, perché l’insorgenza del DP può essere correlata alla riattivazione di tali esperienze precoci. A conclusione della prima parte del libro, si può attendere una remissione totale o parziale della sintomatologia con un numero di sedute compreso tra 12 e 19.

Nella seconda parte del libro sono spiegate le 8 fasi del protocollo, con attenzione ai fattori terapeutici specifici e aspecifici, considerando anche l’alleanza terapeutica e la “dual attention”; il protocollo modificato per AP comprende:

  1. Psicoeducazione: per conoscere il panico e le modalità dell’EMDR, per selezionare poi la stimolazione bilaterale più adatta (es movimenti oculari) attraverso l’esercizio del Posto al Sicuro;
  2. Target: si decide su quale attacco di panico lavorare, ossia se sul primo, sull’ultimo o sul peggiore, ossia quello che ha provocato sensazioni, emozioni o ricordi maggiormente impattanti;
  3. Immagine: si sceglie quella più disturbante per ciascun target, individuando anche l’emozione associata e collocando il disagio nel corpo, in quanto la manifestazione somatica del panico è una componete importante dell’AP;
  4. Ricordi traumatici: vengono individuati i traumi della storia personale del paziente per poterli elaborare, quindi con la già accennata attenzione alla storia di attaccamento;
  5. Lavoro sul presente: per poter specificare i fattori scatenanti, che è uno degli obiettivi del protocollo, come anticipato già sopra;
  6. Rafforzamento di azioni positive future.

Nell’ultimo capitolo è esposto il protocollo EMDR di gruppo per il DP, presentando anche le ricerche svolte a riguardo negli ultimi 15 anni. Nel contesto di gruppo, l’attenzione è focalizzata particolarmente sulla concettualizzazione del caso, sugli interventi psicoeducativi, sull’individuazione delle risorse, sulla storia di attaccamento; inoltre, si propone l’intervento con EMDR-Drawing Integration, cioè l’elaborazione del target attraverso stimolazione bilaterale + disegno. Durante l’intero trattamento, il gruppo è visto come una grossa risorsa, perché permette di creare vissuti condivisi con altre persone nella stessa difficile condizione di vita.

Infine, nell’appendice si trova una rassegna di alcuni strumenti fondamentali nel trattamento dei pazienti, come il questionario per la concettualizzazione del caso, le tecniche di stabilizzazione, delle quali sono riportati alcuni script di casi reali, i suggerimenti per una psicoeducazione mirata allo specifico disturbo in oggetto.

 

Amici con benefici: fino a che punto è possibile?

Gli amici con benefici permettono ai partner di accedere ad un’attività sessuale conveniente, minimizzando teoricamente le conseguenze negative o i rischi associati a relazioni più impegnate. Tuttavia, per mantenere questi benefici è necessario che i partner siano in grado di discutere le regole emotive, di comunicazione e sessuali.

 

Capire come e perché le relazioni occasionali si evolvono e si dissolvono è un importante obiettivo di ricerca, considerando quanto siano comuni queste relazioni: ben il 50-65% delle persone dichiara di avere almeno un partner sessuale occasionale ad un certo punto della propria vita (Bisson & Levine, 2009; Jonason, Li, & Cason, 2009). Nello specifico, questo studio prende in considerazione il corso temporale longitudinale di un particolare tipo di accordo casuale, sempre più popolare e comune, ovvero le relazioni tra amici con benefici (FWBR), al fine di fornire un primo sguardo sulle potenziali traiettorie che tali relazioni possono seguire.

Questa tipologia di relazione coinvolge due amici che scelgono di impegnarsi in attività sessuali, mantenendo contemporaneamente un’amicizia (Bisson & Levine, 2009; Owen & Fincham, 2011). Anche se di solito raggiungono un certo livello di vicinanza, non c’è necessariamente l’aspettativa del forte attaccamento emotivo e dell’impegno che caratterizza le tradizionali relazioni romantiche (Olmstead, Billen, Conrad, Pasley, & Fincham, 2013; VanderDrift, Lehmiller, & Kelly, 2012). Tuttavia, le FWBR sono caratterizzate da alti livelli di incertezza circa le traiettorie future (48,9%; Bisson & Levine, 2009).

Quand’è che le relazioni tra amici con benefici producono risultati desiderabili per i loro partner? La ricerca ha dimostrato che le FWBR forniscono alcuni “benefici”, come suggerisce il nome stesso: permettono ai partner di accedere ad un’attività sessuale conveniente, minimizzando teoricamente le conseguenze negative o i rischi associati a relazioni più impegnate (VanderDrift et al., 2012; Weaver, MacKeigan, & MacDonald, 2011). Tuttavia, per mantenere questi benefici è necessario che i partner siano in grado di discutere le regole emotive, di comunicazione e sessuali per la loro relazione, cosa che non sempre avviene (Hughes, Morrison, & Asada, 2005).

Il presente studio si è proposto di rispondere alle seguenti domande: (a) le persone impegnate nelle FWBR ottengono alla fine il tipo di relazione che desiderano, (b) quali fattori anticipano la transizione verso la tipologia di relazione futura desiderata e (c) quali fattori sono associati a una trasformazione delle FWBR nel tempo? A tale scopo è stato considerato un campione di 192 soggetti implicati in relazioni tra amici con benefici, dei quali sono stati raccolti dati in due momenti a distanza di 11 mesi l’uno dall’altro: i partecipanti hanno riferito il coinvolgimento in un FWBR, cosa volevano per il futuro della loro relazione, come e perché la loro relazione è cambiata nel tempo e la comunicazione all’interno del loro rapporto. I partecipanti sono stati reclutati attraverso siti web di uso comune e Social Network. Gli unici criteri di inclusione presenti erano: avere più di 18 anni ed essere impegnati in una relazione tra amici con benefici.

Per rispondere alla domanda relativa a quale sia il desiderio circa il futuro del loro rapporto, i partecipanti dovevano rispondere alla seguente domanda di Lehmiller et al. (2011), “Come speri che il tuo rapporto ‘amici con benefici’ cambi nel tempo” (opzioni di risposta: “Spero che rimanga lo stesso”, “Spero che diventiamo una coppia”, “Spero che diventiamo amici intimi che non fanno sesso”, o “Spero che interrompiamo del tutto la nostra relazione sessuale e l’amicizia”). Al Tempo 2, è stato chiesto alle persone di indicare la loro attuale relazione tra le seguenti quattro opzioni: “siete ancora ‘amici con benefici'”, “siete solo amici, ma non coinvolti sessualmente”, “siete coinvolti in una relazione romantica”, o “non avete nessuna amicizia o relazione di alcun tipo in questo momento”. Successivamente, è stato chiesto a tutti i partecipanti, ad eccezione di quelli che hanno selezionato “siete ancora ‘amici con benefici'”, di rispondere a 12 domande relative al motivo per cui hanno percepito che il loro stato di relazione al Tempo 2 era cambiato: tre valutavano la comunicazione (ad esempio: “Io e il mio partner non siamo riusciti a definire quale fosse la nostra relazione”), le altre nove valutavano se l’individuo o il suo partner FWB desiderassero un particolare tipo di relazione. Per esaminare il motivo per cui le relazioni potevano cambiare nel tempo è stata misurata la soddisfazione e l’impegno per gli aspetti sessuali e di amicizia delle relazioni tra amici con benefici, così come l’impegno per le FWBR nel loro insieme, attraverso una versione ridotta e modificata della scala del modello di investimento (Rusbult, Martz, & Agnew, 1998), così da essere applicabili alla componente di amicizia delle relazioni tra amici con benefici (ad esempio, “Mi sento soddisfatto della nostra amicizia”), alla componente sessuale delle relazioni tra amici con benefici (ad esempio, “Il nostro rapporto sessuale è molto migliore di quello degli altri”) e alle relazioni tra amici con benefici in generale (ad esempio, “Voglio che il nostro rapporto ‘amici con benefici’ duri per sempre”).

I risultati mostrano che al Tempo 1, il 48% dei partecipanti sperava che la propria FWBR rimanesse così com’era, mentre il 25% esprimeva il desiderio che la propria FWBR diventasse una relazione romantica, il 12% a un’amicizia senza sesso, e il 4% a nessuna relazione. Inoltre, l’11% ha scelto di scrivere una risposta alternativa. Al contrario, al Tempo 2, il 31% dei partecipanti è passata a non avere alcun tipo di relazione con il proprio partner FWB del Tempo 1, mentre il 28% si è trasformato in amicizie senza sesso, il 26% è rimasto così com’è e il 15% è passato a relazioni romantiche. Nel complesso, solo il 17% dei partecipanti ha riferito che, al Tempo 2, si trovava nel tipo di relazione che aveva dichiarato di volere al Tempo 1: le persone i cui desideri sono stati realizzati sono quelle che al Tempo 1 desideravano, alla fine, diventare amici che non hanno rapporti sessuali (il 59% che ha voluto questo al Tempo 1 era in amicizia con il proprio partner del Tempo 1 FWBR al Tempo 2); il 43% dei partecipanti, che volevano non avere alcun tipo di relazione, nel Tempo 2 non aveva alcuna relazione e il 40% dei partecipanti, che volevano che la loro relazione rimanesse così com’era, non hanno mostrato variazioni nella relazione al Tempo 2. Inoltre, i fattori che predicono una trasformazione futura della relazione “amici con benefici” sono i seguenti: la transizione verso le relazioni sentimentali viene predetta significativamente e positivamente dall’impegno per l’amicizia, per la relazione sessuale e per la FWBR, così come dal grado di soddisfazione dell’amicizia e dal livello di comunicazione dell’amicizia; l’impegno per l’amicizia e la soddisfazione dell’amicizia erano anche significativamente e negativamente associati con la transizione verso la cessazione di ogni tipo di rapporto; infine, l’impegno sessuale era negativamente associato con la transizione verso un’amicizia senza sesso.

Infine, analizzando le ragioni che hanno condotto alla trasformazione della relazione da un tempo all’altro è emerso un livello di accordo elevato circa i desideri futuri tra entrambi i partner, ad eccezione del caso in cui si è giunti alla cessazione del rapporto al tempo 2. In quest’ultimo caso, le motivazioni alla base potevano essere di due tipologie differenti: (1) i due partner desideravano cose differenti (ad es. mentre uno voleva una semplice amicizia, l’altro voleva una relazione romantica), oppure (2) i due partner non sono stati in grado di comunicare abbastanza sulla relazione.

 

Discalculia: definizione e trattamenti

Il 3-6% circa dei bambini in età scolare sono affetti da Discalculia Evolutiva, un disturbo specifico dell’apprendimento che si manifesta in assenza di deficit cognitivi.

Elena Eccher – OPEN SCHOOL, Psicoterapia Cognitva e Ricerca Bolzano

 

Caratteristiche rilevanti sono la resistenza alla modificabilità e all’automatizzazione e attualmente non è ancora stato strutturato un trattamento efficace e condiviso che consenta di risolvere o ridurre il deficit che comporta. Un team di ricercatori del Developmental and Cognitive Neuroscience Lab dell’Università di Padova ha dimostrato gli effetti positivi di un trattamento condotto tramite videogiochi d’azione.

La discalculia evolutiva è un disturbo delle abilità numeriche e aritmetiche che si manifesta in bambini con intelligenza entro la norma, che non hanno subito danni neurologici. Può presentarsi associata a dislessia, ma è possibile che ne sia dissociata (Temple, 1992). Il 20% circa degli studenti incontra difficoltà nella matematica, ma solo l’1% è discalculico, di conseguenza il 99% circa delle segnalazioni sarebbe costituito da casi di difficoltà di apprendimento e non di disturbo specifico del calcolo.

Al fine di distinguere tra le due condizioni, Tressoldi e Vio (2008) hanno identificato le seguenti differenze:

  • Innato vs non innato: ci sono diversi studi che confermano l’ipotesi secondo cui i disturbi specifici dell’apprendimento presentano delle caratteristiche neuro-funzionali specifiche sin dalla nascita (Grigorenko, 2001), che permettono di evidenziare dei precoci indicatori di rischio già in età prescolare, mentre una difficoltà o un ritardo nell’apprendimento possono insorgere anche dopo un avvio regolare.
  • Resistenza alla modificabilità: se la modificazione dell’espressività del problema cambia in tempi rapidi e con semplici adattamenti didattici, è possibile supporre che non dipenda da alterazioni neuro-funzionali, ma da una momentanea difficoltà. La misura degli esiti ottenuti in seguito a questi interventi (la cosiddetta risposta all’intervento, response to intervention o response to treatment) costituisce un elemento utile e importante per individuare i soggetti che permangono resistenti, cioè che non manifestano miglioramenti significativi. Questi soggetti si confermerebbero come maggiormente a rischio, presentando le caratteristiche che raccomandano un invio ai servizi specialistici.
  • Resistenza all’automatizzazione: nei ragazzi con discalculia, De Candia, Bellio e Tressoldi (2007) osservano che dopo mesi di training specifico sulle componenti del calcolo deficitarie, si assiste ad un miglioramento nella correttezza, che raggiunge i criteri di sufficienza, ma lo stesso non vale per la velocità, segno che è presente un’importante resistenza all’automatizzazione del compito.

La classificazione internazionale utilizzata dai clinici in Italia per la diagnosi dei Disturbi specifici d’apprendimento, l’International Classification of Diseases (ICD 10), descrive la disclaculia come caratterizzata da prestazioni sostanzialmente inferiori rispetto a quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto nella capacità di calcolo, misurata con test standardizzati somministrati individualmente; il disturbo inoltre interferisce in modo significativo con l’apprendimento scolastico e con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di calcolo.

Come discusso da Tressoldi e Vio (2008), il disturbo si caratterizza per una resistenza al trattamento, in particolar modo all’automatizzazione; ovvero, mentre per l’accuratezza si potranno raggiungere risultati simili a quelli dei coetanei a sviluppo tipico, per la velocità questo risultato probabilmente non sarà mai raggiunto. Essendo la velocità di esecuzione la caratteristica del disturbo più difficile da modificare, sarà fondamentale adottare un protocollo di intervento che abbia le caratteristiche per tentare di migliorarla e questo è possibile solo se le esercitazioni proposte sono a tempo e se vengono ripetute frequentemente (non inferiori a 2-3 volte a settimana).

Per poter impostare un buon progetto di aiuto per bambini con discalculia evolutiva, una volta effettuata la diagnosi, è necessario distinguere tra abilità numeriche e aritmetiche: le prime si riferiscono alla capacità di leggere, scrivere e riconoscere i numeri, identificarne la collocazione lungo la linea dei numeri, riconoscerne l’ordine di grandezza; le seconde riguardano la capacità di utilizzare i numeri per eseguire i calcoli, a mente o per iscritto, i fatti numerici (tabelline, calcoli entro la decina).

Per quanto riguarda il sistema dei numeri, Biancardi e collaboratori (2011) hanno individuato tre ambiti sui quali intervenire: la linea dei numeri, la transcodifica e la codifica semantica.

Utilizzare correttamente la linea numerica è di fondamentale importanza, poiché permette di accedere in modo rapido ed efficace ad informazioni numeriche necessarie per lo svolgimento di molti compiti numerici e aritmetici. Come afferma Dehaene (2000): contare è l’abc del calcolo.

Ogni training riabilitativo destinato al recupero di difficoltà su numeri e calcolo deve quindi prevedere la verifica ed eventualmente un training per rendere efficiente il conteggio e la capacità di operare sulla linea dei numeri.

I meccanismi di transcodifica permettono di trasformare un numero da un codice all’altro, senza alterarne la struttura. Si tratta di una funzione particolarmente importante poiché incertezze ed errori nella scrittura e lettura di numeri comportano un pesante aggravio nelle attività scolastiche. Si tratta di difficoltà che si collocano al livello più elementare dei compiti aritmetici e che pertanto interferiscono con qualunque attività. Va quindi allenata la capacità di riconoscimento, lettura, scrittura e ripetizione di numeri in diversi codici (arabico, alfabetico, scritto e orale).

La codifica semantica si riferisce alla capacità di rappresentare mentalmente la grandezza numerica, la quantità. Tra gli esercizi per allenare la codifica semantica ci sono per esempio le triplette, in cui si chiede di identificare tra tre numeri il maggiore, le inserzioni, in cui il bambino deve identificare la posizione di un numero in rapporto ad altri e la stima numerica, in cui si deve collocare un numero sulla linea dei numeri.

Per quanto riguarda il calcolo scritto i trattamenti riabilitativi possono essere suddivisi in tre ambiti: attenzione alla selezione dell’algoritmo, richiamo delle procedure e strategie metacognitive di controllo dei risultati.

Un gruppo di ricercatori del laboratorio Decone dell’Università di Padova, Andrea Facoetti, Simone Gori e Sandro Franceschini, ha verificato e proposto un intervento alternativo. Data la presenza di un ritardo nell’orientamento rapido dell’attenzione nei bambini con Discalculia Evolutiva (Trussardi, 2010) e supponendo che in tali bambini l’attenzione spaziale visiva potesse essere direttamente coinvolta nelle deficitarie capacità di cognizione numerica e di calcolo, hanno ipotizzato che un training delle capacità di orientamento visuospaziale potesse portare dei benefici. In considerazione degli studi sugli effetti degli action video games sulle capacità attentive (Green e Bavelier, 2012; Green e Bavelier, 2003; Green, Pouget e Bavelier, 2010) e dei risultati della ricerca condotta con bambini con diagnosi di Dislessia Evolutiva (Franceschini et al, 2013), i ricercatori hanno ipotizzato che un training con questo tipo di giochi potesse potenziare le abilità di cognizione spaziale e che questo permettesse direttamente o indirettamente degli apprendimenti verificabili sia a livello delle abilità e della rapidità nell’orientamento visuoattentivo che della cognizione numerica e delle capacità aritmetiche. Tutti i giochi proposti presentavano le caratteristiche riferibili a giochi action e per classificarli nella categoria AVG è stata seguita la checklist prodotta da Green, Li & Bavelier (2009) e già utilizzata nello studio parallelo sulla dislessia da Franceschini e colleghi (2013), secondo cui i videogiochi d’azione hanno una serie di caratteristiche, quali:

  • estrema velocità sia in termini di transitorietà degli eventi che in termini di rapidità degli elementi in movimento;
  • un alto grado di carico percettivo, cognitivo e di precisa programmazione motoria;
  • imprevedibilità sia temporale che spaziale;
  • enfasi per l’elaborazione visiva periferica.

I risultati sono entusiasmanti! I dati dimostrano che solo dodici ore di allenamento con un videogioco d’azione interattivo su piattaforma Wii-™ (Rayman Raving Rabbit), migliorano l’acuità numerica (senso del numero) e le capacità aritmetiche dei bambini trattati. Nelle prove di calcolo e cognizione numerica il risultato è più sostanziale e statisticamente significativo: relativamente al calcolo il gruppo sperimentale ha riportato un incremento dell’accuratezza nelle tabelline saltate e nelle addizioni complesse; nell’area della cognizione numerica migliora sia la velocità che l’accuratezza nella lettura di numeri, la velocità nel confronto tra grandezze delle triplette numeriche, la velocità e l’accuratezza del confronto tra grandezze analogico-numerico e la precisione nell’orientamento sulla linea dei numeri. In seguito alle sessioni di gioco anche le abilità di attenzione visuo-spaziale risultano migliorate. Questi risultati possono avere importanti ricadute sia a livello applicativo che a livello teorico. Emerge, infatti, che il miglioramento delle capacità visuo-attentive può avere un impatto positivo sulle competenze matematiche e che i videogiochi d’azione potrebbero costituire un accattivante e accessibile trattamento per la Discalculia Evolutiva. Inoltre, poiché è emerso che l’attenzione visuo-spaziale può essere efficacemente allenata nei bambini, si potrebbe lavorare in questa direzione per elaborare programmi di prevenzione precoce, che con risorse ridotte riescano a ridurre l’incidenza e/o la gravità di tale deficit. A livello teorico, infine, i risultati emersi potrebbero contribuire a chiarire il ruolo dell’attenzione visuo-spaziale nella cognizione numerica.

 

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