expand_lessAPRI WIDGET

Normal People: Marianne e Connell e gli schemi interpersonali patogeni

Normal People sembra essere, per molti aspetti, la serie rivelazione del 2020. Di certo, è una serie che piace e che sta smuovendo il web

 

ATTENZIONE! L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER

Di certo, è una serie che piace e che sta smuovendo il web, dove molti, partendo dall’accostamento al più ampio genere del Teen Drama, si sono dovuti ricredere e ciò che si può leggere più spesso è: ‘Teen Drama? No, molto di più’.

Ebbene sì, perché le caratteristiche di base sono effettivamente quelle del Teen Drama, se vogliamo anche la trama (la storia di amore e di crescita a partire dai banchi di scuola) muove come un normale Teen Drama a cui siamo abituati dagli albori della serialità anni ‘80-’90, ma dopo aver visto la serie non si può che accordarsi al plebiscito del web che ci ha visto molto, molto di più.

Trasposizione sul piccolo schermo del secondo romanzo di Sally Rooney, classe 1991, sviluppata e distribuita da aprile dalla BBC Three in collaborazione con la piattaforma di streaming statunitense Hulu, dal 16 luglio è anche sulla piattaforma Starz Play in Italia, sebbene ancora sottotitolata e non doppiata, ma poco male, vista l’interpretazione attoriale sorprendente dei giovani protagonisti.

12 avvolgenti episodi da circa 30 minuti ciascuno raccontano il dispiegarsi della storia personale e sentimentale di Connell e Marianne, due adolescenti che frequentano la stessa scuola superiore (e poi lo stesso College) e il cui percorso di crescita personale risulta intrecciato fino alla prima età adulta. Perché non possiamo allora definirlo un Teen Drama? Perché sarebbe assolutamente riduttivo e sminuente. I protagonisti sono dapprima adolescenti, e poi giovani adulti, che crescono, crescono insieme nelle reciproche esperienze e singolarmente nei propri impenetrabili viaggi personali emotivi, cambiano, cambiano tanto, e si conoscono, sempre di più, come succede sempre in quel delicatissimo periodo che porta alla costruzione dell’identità personale. Il racconto, banalmente, segue il dipanarsi della storia d’amore tra i due, ma non si limita a questo.

Ma veniamo ai protagonisti e a quanto tale serie scavi profondamente nell’assetto psicologico di entrambi, mostrandoci dinamiche assolutamente ‘normali’ e ordinarie, in cui possiamo rispecchiarci, ma allo stesso tempo particolari e degne di attenzione.

Marianne e Connell sono due adolescenti irlandesi che frequentano lo stesso liceo, unico aspetto che, almeno inizialmente e apparentemente, li accomuna. I due giovani ci vengono, in prima battuta, mostrati come quanto più di diverso possa esistere. Lei, proveniente da una famiglia benestante ma disastrata dal punto di vista emotivo e relazionale, intelligente e perspicace ma isolata e schernita a scuola. Lui, di ceto sociale modesto, cresciuto con la sola madre con cui ha un rapporto di calda vicinanza, al contrario brillante e popolare, la classica ‘star’ (del rugby e non solo) del liceo.

Si scrutano, si guardano, si osservano, come se percepissero un’affinità data da una comune sofferenza mai completamente dichiarata dovuta ad un’estraneità al proprio contesto, sebbene vissuta diversamente da entrambi con le proprie specifiche modalità di adattamento (Marianne con aperta ostilità e sprezzanza, preservata nell’idea di una superiorità, commista ad una profonda fragilità e paura di non essere mai abbastanza, ad un contesto che non potrà mai capirla e apprezzarla, e Connell al contrario fondendosi con quel contesto, fino a non saper più cosa vuole davvero e a fare passi falsi pur di non risultarne escluso), ma solo un po’ alla volta, di nascosto da tutti, si iniziano a conoscere, a viversi, ad esplorarsi, a riconoscersi nei reciprochi occhi e a sperimentare tutti quei sentimenti che vanno a configurarsi nello specifico assetto tipicamente detto ‘amore’.

Senza voler seguire pedissequamente la trama, basterà dire che i due, dal liceo al College a Dublino, dove la situazione per certi versi si ribalterà – Marianne troverà maggiore facilità a stabilire relazioni in un contesto culturalmente e socialmente più aperto, a lei più affine, della piccola scuola di provincia, e Connell si sentirà maggiormente estraniato e avrà maggiori difficoltà di adattamento – continueranno a cercarsi, senza mai scegliersi davvero, ad amarsi ferendosi e facendosi reciprocamente del male, proponendo una serie di dinamiche che rispecchiano quelli che, intuendo dalla loro storia personale, per come ci viene presentata, sono degli schemi interpersonali ricorrenti spesso disfunzionali, che creano non pochi problemi nello scorrere della loro relazione.

Ma cosa sono gli schemi interpersonali? Gli schemi interpersonali sono il nucleo centrale della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), approccio di ultima generazione delle psicoterapie cognitive sviluppato principalmente per il trattamento dei disturbi di personalità, ma non solo.

Lo schema interpersonale è una struttura procedurale intrapsichica, una rappresentazione soggettiva del destino a cui andranno incontro i nostri desideri nel corso delle relazioni con gli altri. È una struttura consolidatasi nel tempo e derivante da innumerevoli esperienze di apprendimento, da quelle precoci a quelle più recenti delle relazioni tra pari, tra colleghi, sentimentali, che sono state generalizzate (Dimaggio et al., 2013).

Come spiegano Dimaggio e collaboratori (2013), lo schema parte proprio da un desiderio (‘wish’) guidato da immagini di Sé che tendono a prevedere se quel desiderio sarà soddisfatto o meno; il desiderio attiva piani o procedure volti alla sua soddisfazione del tipo ‘se…allora…’ che tipicamente elicitano una risposta dell’Altro. Tale risposta genera una risposta del Sé alla risposta dell’Altro di tipo emotivo, comportamentale e cognitivo.

Gli schemi interpersonali si formano a partire dall’infanzia nel rapporto con la figura di accudimento. Se questo sarà ripetutamente indisponibile a realizzare i desideri/bisogni del bambino, questi svilupperà l’idea dell’Altro-figura di riferimento come non disponibile o rifiutante. Da adulto ciò si trasformerà in uno schema patogeno dove il desiderio di ricevere attenzione o cure da parte dell’altro sarà sempre accompagnato dalla previsione dell’Altro come indisponibile o rifiutante e lo porterà a sviluppare l’idea di sé come di una persona non amabile (Dimaggio et al., 2013).

Le rappresentazioni di Sé più comuni, che portano a schemi interpersonali patogeni, sottostanti al raggiungimento dei desideri, possono riguardare le credenze relative all’essere: non amabile, non adeguato, difettoso, immeritevole, di scarso valore, impotente, paralizzato, colpevole, incompetente, diffidente, tradito e onnipotente. Tra le tipiche rappresentazioni dell’Altro vi sono le credenze: altro minaccioso, rifiutante, abusante, ipercritico, controllante, inetto, incapace, ingannevole, meritevole di punizione, ideale.

La rappresentazione del sé funzionale si può strutturare, invece, in una relazione che faccia sentire il soggetto amabile o valido.

Dopo questa breve e necessaria premessa, torniamo a Normal People e ai protagonisti. Andando ad esplorare ciò che ci viene detto di Marianne e del suo contesto familiare, ci viene mostrata una madre sostanzialmente fredda e rigida, probabilmente persa e cristallizzata nel suo dolore, vittima di passate violenze da parte del marito, e un fratello che, ci viene lasciato intuire, ripropone le stesse modalità aggressive del padre nei confronti di Marianne, nella totale passività (plausibilmente appresa) della madre. Possiamo intuire che il desiderio di attaccamento e vicinanza di Marianne sia stato ripetutamente frustrato, rimandandole l’idea di non essere amabile, e di essere immeritevole di cura, protezione e affetto. L’altro (il padre, il fratello) è minaccioso e abusante. E quando non è apertamente aggressivo (la madre), è comunque incapace di prestarle cura e protezione.

Marianne, ai tempi del liceo, ma anche al College, non si ritiene piacente, sa di essere più intelligente dei suoi compagni che la ritengono strana e la prendono in giro, ma allo stesso tempo ne soffre.

Anche in questo caso, lo schema che si ripropone è di un desiderio di appartenenza al gruppo che viene costantemente castrato, allo stesso tempo Marianne si rifugia nell’idea protettiva che sia il suo status di superiorità intellettuale che non le permette l’integrazione in un contesto come quello scolastico arido, dove i valori, gli interessi, non possono corrispondere ai suoi, e pertanto non vale neanche la pena provare a stabilire relazioni, come strategia di coping al rifiuto.

Partendo da questo presupposto, sebbene la situazione al College per certi versi cambi, Marianne a più riprese ci mostra come sia ancora irrimediabilmente impelagata in credenze disfunzionali che la portano a intraprendere relazioni che vanno a confermare e riproporre determinati schemi.

Marianne sceglie relazioni abusanti, in diverse misure e manifestazioni, dove si sente riconosciuta solo quando l’Altro le conferma l’idea di persona immeritevole di amore.

Sebbene ci dica chiaramente, a proposito delle relazioni successive intraprese al College, che anche l’atto sessuale deve trasformarsi in un atto aggressivo nei suoi confronti e che riesce a riconoscere l’amore solo sotto forma di ‘abuso’, non dobbiamo dimenticare che la prima relazione abusante, quella che conferma il suo schema interpersonale patogeno in forma più sottile ma sicuramente più penetrante, è proprio quella con Connell.

Emblematico è quando dice a Connell, a proposito della relazione intrapresa con Jaime, che mentre con quest’ultimo la forma di sottomissione che vuole provare durante l’atto sessuale è cercata e voluta e esteriorizzata sotto forma di violenza fisica, con Connell non ce n’è mai stato bisogno perché da Connell si sarebbe fatta fare qualsiasi cosa, e lui lo sapeva, ed effettivamente così è stato: Marianne da Connell accetta qualsiasi cosa.

Connell fin al liceo usa ‘violenza’ nei confronti di Marianne, mantenendo la loro relazione nascosta e non portandola al ballo di fine anno.

Il wish di Marianne di vicinanza, cura e attaccamento viene, come da copione, frustrato e castrato, la rappresentazione di Sé non amabile viene confermata, la rappresentazione dell’Altro si conferma abusante e incapace di offrirle cura. La sua risposta è di accettazione (sofferente) ad uno status di cose a cui è abituata e che non potrebbe essere altrimenti.

Lo schema interpersonale, quando sperimentato ripetutamente, diventa patogeno: diventa cioè così forte che porta la persona a selezionare e a prestare attenzione solo a quelle informazioni che le confermano lo schema, senza dare spazio ad altre possibilità interpretative (Dimaggio et al., 2013), infatti quando la madre di Connell si scusa con Marianne per il comportamento del figlio per il mancato invito al ballo, la ragazza risponde che in fondo è stato l’unico ad essere gentile, rimarcando l’idea di Sé come di persona immeritevole delle più basilari e semplici attenzioni, quasi ‘colpevole’ per non riceverne.

Connell, in altri momenti, nel corso del tempo, le dà anche dimostrazioni differenti, prendendosi cura di lei, ma sicuramente uno schema interpersonale ben sedimentato e radicato avrà bisogno di molte disconferme (e spesso una psicoterapia) per trasformarsi in modo più funzionale.

Anche Connell presenta degli schermi interpersonali specifici. Il wish che muove più spesso le sue azioni è quello dell’accettazione e appartenenza al gruppo. Connell sembra vivere in modo contrastante questo aspetto: sebbene ricerchi l’appartenenza al gruppo a tutti i costi, vive spesso male e con estraneità contesti in cui all’apparenza sembra fondersi con facilità. Allo stesso tempo, per probabile retaggio culturale e sociale, in un’ottica di riscatto, tende a perseguire la vittoria e la conquista, quindi il desiderio è sostanzialmente di rango, che sente come una richiesta che il contesto gli pone e che a lui spetta mantenere. Paradossalmente, però, sembra non sperimentare apertamente il ‘desiderio’, lamenta di non sapere chi è e cosa vuole, cosa perseguire (è Marianne, in base ai suoi interessi e talenti, a indirizzarlo verso il College da frequentare).

L’Altro (in modo più ampio, il contesto di vita) spesso, probabilmente, gli ha rimandato l’idea che debba sempre raggiungere qualcosa per poter essere accettato (e accettarsi), a scapito del proprio mondo interno, ‘guardare fuori’ ed essere sempre sul pezzo fuori dimenticando a volte di ‘guardare dentro’.

La serie dà tanti spunti, che aprono infinite riflessioni, anche spiccatamente psicologiche, perché l’approfondimento dei personaggi è ben fatto, i dialoghi sono densi, così come i tanti silenzi, o le musiche scelte con delicata attenzione. Mentre si snodano le vicende, interne ed esterne, di Connell e Marianne, lo spettatore viaggia su due canali, su ciò che vede e sui rimandi emotivi che inevitabilmente scatena.

Connell e Marianne si curano e si feriscono, si feriscono e si curano, più o meno reciprocamente, più o meno consapevolmente, come in tutte le relazioni, come tutte le ‘persone normali’.

Eh no, sarebbe proprio un peccato definirlo solo un ‘Teen Drama’.

 

L’emergenza COVID-19: trauma o risorsa?

Le conseguenze dell’emergenza sanitaria sembrano aver colpito più profondamente la popolazione adulta, che si è trovata ad affrontare nuove grandi sfide. Il Covid-19, però, non ha prodotto solo evidenti, quanto scontati, effetti traumatici, la pandemia ha permesso anche di mobilitare nuove risorse.

 

Durante l’emergenza sanitaria causata dal COVID-19, è cambiata la percezione del pericolo per l’incolumità fisica propria e dei propri cari. Se oggi viviamo in un’epoca storica in cui l’attenzione all’infanzia è notevolmente aumentata rispetto al passato, non fosse altro perché i figli fanno spesso da collante in famiglie sempre più fragili, negli ultimi mesi la preoccupazione si è decisamente spostata verso gli adulti, in quanto soggetti più esposti dei bambini agli effetti diretti della pandemia sulla salute fisica (Whyte, 2020).

Quale può essere stata l’influenza di un simile cambio di prospettiva?

La pandemia come trauma…

E’ possibile ritenere che la pandemia abbia avuto un effetto “traumatico”: se alcune famiglie hanno subito dolorose perdite, molte hanno comunque affrontato la situazione con preoccupazione. Che i genitori abbiano parlato ai figli in modo esplicito della pandemia, dando talvolta vita a fenomeni di “infodemia”, o che abbiano scelto di non coinvolgerli troppo, allo scopo di evitare loro un “trauma”, è certo che i bambini abbiano colto, attraverso i loro occhi, le emozioni che essi stavano provando. Alcune ricerche evidenziano che il modo con cui i bambini e i pre-adolescenti affrontano un trauma non è tanto influenzato da quanto essi siano stati esposti direttamente ad un evento stressante, quanto dalle reazioni dei loro adulti di riferimento (Green BL, Karol  M, Grace MC et al, 1991; McFarlane A.C., 1987).

Il lockdown, naturalmente, ha avuto anche degli effetti indiretti: se è indubbio che i bambini e gli adolescenti hanno sofferto per la mancanza della dimensione sociale della scuola, è possibile ritenere che i genitori che hanno perso il lavoro, o comunque hanno avuto difficoltà che hanno portato con sé incertezza per il futuro, abbiano avuto un notevole carico dal punto di vista emotivo.

…e come risorsa

Chi adotta una prospettiva sistemico-relazionale non si limita a considerare i tanto evidenti quanto scontati effetti traumatici della pandemia, ma guarda con interesse anche alle risorse che si mobilitano in conseguenza a una situazione tanto straordinaria.

Consideriamo un primo aspetto “strutturale” (Minuchin, 1974): i cambiamenti della routine quotidiana, avvenuti durante la cosiddetta fase 1, hanno portato alla drastica riduzione delle attività extra-familiari e ad un evidente aumento delle interazioni tra i membri che appartengono allo stesso nucleo convivente. Si può quindi affermare che la pandemia è stata una naturale occasione per rendere i confini tra l’extra-familiare e l’intra-familiare più solidi.

Nella pratica psicoterapeutica, ad esempio, non è infrequente imbattersi in situazioni nelle quali i confini tra la famiglia nucleare e una o entrambe le famiglie di origine siano diffusi: vi sono famiglie di origine che intervengono sulle scelte a tanti livelli, sia sul piano educativo dei figli, che, in casi più gravi, su decisioni sostanziali della vita in famiglia. In situazioni simili, il lockdown può aver avuto quale effetto strutturale la riduzione del livello di intrusività e una maggiore definizione dei confini, con l’ulteriore vantaggio di non connotare la mancata interazione in modo espulsivo, ovvero come un movimento per tutelare i figli dall’intrusività dei nonni, ma bensì per proteggere i nonni stessi dalla possibilità di essere contagiati.

Un secondo effetto del lockdown, sono state le maggiori interazioni tra familiari appartenenti allo stesso nucleo: se normalmente il tempo che genitori e figli condividono tende ad essere esiguo, l’emergenza ha offerto la possibilità di trascorrere, quanto meno dal punto di vista fisico, più tempo insieme, facendo riscoprire lo scambio emotivo, talvolta faticoso, che solo l’interazione quotidiana può garantire.

Il lockdown è stata poi un’occasione per valorizzare i legami con il vicinato: se in molte grandi città spesso tra i vicini i rapporti sono così scarsi da far pensare a forme di isolamento collettivo, la pandemia ha permesso talvolta di riscoprire l’importanza dei rapporti di prossimità abitativa, spesso una risorsa fondamentale per chi è socialmente isolato. Paradossalmente, per alcune famiglie particolarmente sole, talvolta con figli anche piccoli, il fatto di avere dei vicini più disponibili del solito è stata un’occasione per stringere maggiori legami.

Arriviamo infine alla scuola, argomento tanto dibattuto in questi mesi: se la didattica a distanza, comportando la necessità di disporre di strumenti tecnologici per poter essere sostenuta, in alcuni casi ha aggravato fenomeni di dispersione scolastica, è stata l’occasione per la scuola di rinnovarsi, di superare alcune rigidità burocratiche, nonché l’opportunità di attivare risorse di rete tra i docenti e i servizi. Gli alunni, dal canto loro, hanno dimostrato, in molti casi, di essere comprensivi verso le difficoltà che i docenti andavano affrontando.

Personalmente, ho avuto l’occasione di condurre alcuni progetti presso la scuola secondaria di primo grado: se è evidente che, rispetto all’interazione in presenza, lo scambio emotivo a distanza è più difficile, interagire con i ragazzi attraverso il video ha permesso di conoscerli da una prospettiva diversa. La possibilità, offerta dalle piattaforme per le videoconferenze, di far parlare i partecipanti uno alla volta senza essere interrotti, aspetto non sempre possibile in presenza, ha permesso di dare maggior spazio a chi solitamente parla poco in classe, permettendo non solo al conduttore, ma anche ai compagni, di conoscere meglio le risorse di ciascuno. Un’esperienza dunque che, se letta con attenzione, permette di ampliare le abilità che vengono valorizzate durante l’attività scolastica, migliorando il coinvolgimento degli alunni più difficili.

La mia attività di psicologo scolastico, in questi mesi, ha anche previsto la consulenza agli insegnanti e alle famiglie. Il caso di Dario, che ho iniziato a seguire prima della quarantena, risulta particolarmente emblematico per evidenziare le risorse emerse nel corso di questo periodo.

Un caso clinico: il lockdown di Dario

Il caso di Dario, ragazzo di 11 anni che frequenta la prima classe della scuola secondaria di primo grado, mi viene presentato a dicembre 2019: si tratta di un ragazzo molto chiuso da un punto di vista relazionale, soprattutto con i compagni, e con alcune difficoltà didattiche, che pure compensa grazie a uno studio scrupoloso. Già la maestra della scuola dell’infanzia aveva segnalato il problema: a seguito di una valutazione presso la neuropsichiatria infantile, era emersa la necessità di un sostegno educativo, che era stato tuttavia rifiutato dalle insegnanti della primaria, che avevano dichiarato di non averne bisogno. Così Dario arriva alla scuola secondaria.

Il contesto in cui Dario vive non sembra aiutare la sua apertura relazionale: è figlio unico; i genitori hanno notevoli difficoltà economiche in quanto la madre è disoccupata ed il padre lavora in modo precario come bracciante agricolo: il ragazzo non svolge alcuna attività ludico-ricreativa extrascolastica a pagamento; il nucleo familiare abita in una corte lontana dal centro abitato e ha scarsi rapporti con il vicinato; la famiglia di origine paterna è totalmente assente; Dario e la madre, senza il padre, si recano, spesso per l’intero fine settimana, dalla famiglia materna, composta da genitori anziani che coabitano con il nucleo composto dalla zia del paziente, dal marito e dal loro unico figlio, un bambino di 8 anni con una grave disabilità fisica e intellettiva.

La situazione del lockdown ha avuto, nel caso di Dario, alcuni aspetti positivi: la situazione economica della famiglia, pur negativa, non è peggiorata; il fatto di abitare in una corte ha permesso a Dario di giocare con alcuni coetanei, che, durante il tempo libero, sono normalmente impegnati in attività extrascolastiche; Dario, nel fine settimana, ha avuto la possibilità di trascorrere più tempo con il padre, che l’ha coinvolto in alcuni piccoli lavori manuali, cosa che non accade quando frequenta la famiglia di origine materna, che presenta una situazione per lui poco stimolante.

Gli aspetti positivi intervenuti nel corso della pandemia vissuta da Dario e dalla sua famiglia, hanno permesso al ragazzo di essere più attivo e disponibile nel corso dei colloqui psicologici, migliorando la sua compliance.

Conclusioni

Il COVID-19, e tutto ciò che ne è conseguito, è stata un’esperienza straordinaria, che non dimenticheremo e che, come tutte le esperienze non comuni, ci ha permesso di vivere la vita e le relazioni in modo nuovo: non si è quindi trattato solo di un trauma, che può essere o meno superato a seconda che si abbia più o meno resilienza, ma di un processo di conoscenza di se stessi, degli altri e della relazione tra noi e gli altri che avrà tanto più valore quanto più non verrà dimenticato.

 

La prevenzione del declino cognitivo: fattori di rischio e strategie di vita

Attività fisica, corretto regime alimentare e training cognitivo sembrano essere elementi importanti non solo per mantenere una vita sana e stimolante, ma anche per diminuire il rischio di declino cognitivo durante l’invecchiamento.

 

Già da tempo le neuroscienze suggeriscono che invecchiare bene rappresenta una prospettiva raggiungibile. Per intenderci, mentre l’invecchiamento di per se stesso è inevitabile, i processi che lo regolano possono essere gestiti attraverso delle modifiche al proprio stile di vita ed azioni appropriate. Questa opportunità resta valida sia nell’invecchiamento fisiologico che nelle forme iniziali di declino cognitivo patologico (Sherman, et al., 2017).

Attualmente possiamo stimare un margine di controllo del 40% sui fattori solitamente implicati nello sviluppo di una sindrome neurodegenerativa. La percentuale è derivata dagli studi che si occupano dell’individuazione dei fattori di rischio: non modificabili (età, genere, gruppo etnico, genetica), sui quali il margine di azione è scarsissimo, e modificabili (stile di vita, istruzione, alimentazione), sui quali esistono importanti prospettive (Klimova, et al., 2017).

Uno studio recente (Livingston et al., 2017) ha identificato, nelle diverse età, dei precisi fattori che concorrono al rischio globale di demenza in età senile: in gioventù la bassa scolarizzazione; nell’età adulta l’ipertensione, l’obesità e i deficit sensoriali quali la perdita dell’udito o della vista; in tarda età il fumo, la depressione, l’inattività fisica, il diabete e l’isolamento sociale.

Tipton e colleghi (Tipton, et al., 2018) hanno identificato ulteriori fattori implicati nello sviluppo di disfunzioni cognitive, in grado di aumentare il rischio di demenza:

  • utilizzo di particolari medicinali (statine, inibitori di pompa protonica, anticolinergici);
  • carenza di vitamina C, E, D;
  • iperomocisteinemia;
  • sindrome da apnee ostruttive del sonno.

Negli ultimi anni diversi studi si sono focalizzati sui fattori di rischio modificabili al fine di delineare delle precise strategie di prevenzione.

Sembra esistano 3 macro-aree di intervento che influenzano in maniera cruciale i processi di neuroplasticità a partire dall’età adulta: attività fisica, dieta sana e training cognitivo (Klimova et al., 2015).

E’ ormai noto che l’attività fisica contribuisca ad incrementare la vascolarizzazione, il metabolismo energetico, la resistenza nei confronti dello stress ossidativo e favorisca l’aumento dei livelli dei fattori neurotrofici implicati nei processi neuroplastici (NGF, BDNF). Nella popolazione anziana, l’attività motoria promuove inoltre il mantenimento di un funzionamento quotidiano indipendente, favorisce l’efficienza delle funzioni cognitive (in particolare le funzioni esecutive e la memoria), riduce il rischio di demenza (Nuzum et al., 2020).

Una dieta sana, in particolare la dieta mediterranea, ricca di elementi antiossidanti ed anti-infiammatori si è dimostrata in grado di aumentare l’efficienza cognitiva nella popolazione anziana (Valls-Pedret et al., 2015) e rappresenta uno tra i fattori protettivi contro lo sviluppo di MCI -Mild Cognitive Impairment- e Alzheimer (Gardener et al., 2018).

Il training cognitivo, in accordo con la The Scaffolding Theory of Aging and Cognition – Revised (Reuter-Lorenz et al., 2014), promuove nell’età adulta i meccanismi di efficienza neurale e nell’invecchiamento rafforza i meccanismi di compensazione attraverso il rafforzamento della connettività e il reclutamento neurale in nuove regioni, soprattutto fronto-parietali. Il training cognitivo, quando non condotto solo su singolo dominio, è uno dei fattori che promuovono il mantenimento dell’efficienza del sistema nervoso centrale e che riducono il rischio di incorrere nel declino cognitivo avanzando con l’età (Baumgart et al., 2015).

Uno studio longitudinale finlandese (Ngandu et al., 2015) che ha coinvolto per 2 anni 1260 individui in un programma multidimensionale (intervento nutrizionale, esercizio fisico, training cognitivo, monitoraggio del rischio cardiovascolare) ha registrato un miglioramento del 25% nei risultati dei test neuropsicologici nei soggetti sottoposti al trial, dimostrando come un approccio combinato possieda grandi potenzialità nella prevenzione del declino cognitivo.

Attività fisica, corretto regime alimentare e training cognitivo possono essere identificati come elementi importanti per mantenere una vita sana e stimolante. Possono diventare inoltre degli strumenti attraverso i quali correggere il rischio di declino cognitivo legato all’età.

 

L’analisi delle catene comportamentali nella DBT (2020) – Recensione del libro di Shireen L. Rizvi

L’analisi delle catene comportamentali nella DBT presenta ed esemplifica i fondamenti di un metodo né rigido, né schematico, che identifica i rapporti di causa-effetto tra eventi e comportamento.

 

Tra gli approcci di terza onda la Dialectical Behavior Therapy (DBT) ha fornito numerose prove di efficacia. Le tecniche utilizzate hanno come obiettivo il miglioramento delle abilità, l’incremento della tolleranza alla sofferenza, l’incremento dell’efficacia interpersonale, la regolazione emotiva, in definitiva l’acquisizione e generalizzazione di un repertorio alternativo di risposte emotive, cognitive e comportamentali allo scopo di ridurre il discontrollo comportamentale. L’analisi funzionale del comportamento è lo strumento fondamentale per passare dall’identificazione dei problemi alla costruzione di soluzioni.

Nel volume L’analisi delle catene comportamentali nella DBT sono presentati ed esemplificati i fondamenti di un metodo né rigido, né schematico, che identifica i rapporti di causa-effetto tra eventi e comportamento:

Quale comportamento problematico è causato da quale/i evento/i in termini probabilistici? Come influisce la vulnerabilità emozionale, relazionale, biologica? Il contesto che influenza assume? Il modo di pensare, le emozioni, le azioni conseguenti all’evento che ruolo esercitano rispetto agli effetti del comportamento?

Le catene comportamentali offrono la possibilità di individuare diverse soluzioni e attuare quella/e più efficace/i tenendo in debita considerazione gli ostacoli e le strategie da adottare per superarli.

I cinque componenti della chain analysis sono:

  1. fattori di vulnerabilità;
  2. evento scatenante;
  3. passaggi (pensiero, emozione, comportamento, altri eventi riguardanti il soggetto e le altre persone);
  4. obiettivo del comportamento;
  5. conseguenze (a breve e lungo termine).

I terapeuti DBT usano l’analisi della catena comportamentale per ottenere una comprensione completa di ogni singolo episodio di un comportamento bersaglio.

Sono descritte da Rizvi le linee guida per orientare i pazienti alle procedure e per aumentarne la collaborazione; per l’identificazione del comportamento bersaglio dell’analisi; per mantenere il terapeuta e il paziente impegnati; sul processo di inserimento delle soluzioni nelle analisi della catena comportamentale.

Il terapeuta deve descrivere spesso cosa sta facendo e perché lo sta facendo. L’orientamento consiste nel fornire al cliente informazioni sullo scopo, sul processo e sui requisiti di un compito o di una procedura.

Le tecniche di validazione sono esplicitamente inserite nell’analisi e sono utilizzate per bilanciare e migliorare le strategie di cambiamento. L’impegno è volto a bilanciare dialetticamente la comunicazione responsiva, calore, reciprocità, sincerità, self disclosure e la comunicazione irriverente, umoristica, che spiazza e stimola un nuovo modo di pensare.

Nel quinto capitolo l’autrice fornisce una panoramica delle soluzioni che possono essere inserite nelle analisi della catena comportamentale classificabili in quattro categorie: (1) apprendimento di abilità, (2) modificazione cognitiva, (3) esposizione e (4) gestione delle contingenze.

E se il comportamento non cambia? Sono elencati i motivi caratteristici per cui un problema non migliora. L’analisi è svolta anche su problemi che riguardano comportamenti occulti sotto forma di impulsi e pensieri che è necessario valutare e trattare. Sono presentate esemplificazioni di analisi quando il comportamento bersaglio è meno chiaramente definito.

L’ultimo capitolo del libro si sofferma sull’analisi della catena comportamentale nelle riunioni del team terapeutico, nello skills training e nel coaching telefonico.

Una lettura molto utile ricca di esemplificazioni che rendono molto chiara la teoria alla base della trattazione e offrono procedure interessanti da applicare nel setting terapeutico.

 

La pornografia influenza il nostro benessere psicologico e la nostra soddisfazione sessuale?

Un sondaggio online ha interrogato uomini e donne sulla frequenza dell’uso di pornografia e ha valutato benessere mentale, soddisfazione sessuale, soddisfazione del proprio corpo e atteggiamenti sessisti (Charig et al., 2020).

 

Con la crescita dell’uso di materiale sessualmente esplicito online, è cresciuta anche la preoccupazione per la sua influenza sul benessere mentale (Charig et al., 2020).

Una nuova ricerca suggerisce che, contrariamente alla letteratura precedente, l’uso della pornografia online non avrebbe un impatto negativo sulle valutazioni di sé o degli altri. I risultati sono stati pubblicati su Sexual and Relationship Therapy. Nonostante il crescente interesse, le conclusioni scientifiche rimangono incoerenti. Alcuni studi hanno riportato un’associazione tra l’uso pornografico e conseguenze psicologiche negative, come una ridotta soddisfazione del proprio corpo, un aumento degli atteggiamenti sessisti e una riduzione della soddisfazione sessuale (Charig et al., 2020).

Altri studi hanno delineato risultati positivi, come una migliore soddisfazione sessuale. Nel tentativo di chiarire la relazione tra l’uso della pornografia e i risultati sulla salute mentale, l’autore dello studio, Ruth Charig, e il suo team hanno voluto esplorare l’argomento attraverso il DSMM (Differential Susceptibility to Media Effects Model). Una delle proposizioni centrali del DSMM è che gli stati di risposta individuali come le valutazioni cognitive, mediano la relazione tra l’esposizione ai media e gli effetti che essi producono sull’individuo (Charig et al., 2020).

Una variabile che può influenzare la suscettibilità di un individuo ai media è il realismo percepito – in questo caso, il grado in cui una persona crede che la pornografia sia una rappresentazione realistica del comportamento sessuale. Gli autori, quindi, hanno esaminato il realismo percepito come un potenziale mediatore. Un sondaggio online ha interrogato 252 uomini e donne eterosessuali sulla frequenza dell’uso di pornografia. Il sondaggio ha anche valutato il benessere mentale, la soddisfazione sessuale, la soddisfazione del proprio corpo, atteggiamenti sessisti nei confronti degli uomini e atteggiamenti sessisti nei confronti delle donne (Charig et al., 2020).

I risultati hanno mostrato che il 79% degli intervistati aveva utilizzato la pornografia negli ultimi tre mesi e l’85% l’aveva utilizzata nel corso della propria vita. La maggioranza del campione (80%) riteneva che il sesso in ambito pornografico fosse irrealistico. È interessante notare che i risultati non hanno riportato alcuna relazione significativa tra l’uso della pornografia e il benessere mentale, la soddisfazione sessuale, la soddisfazione del corpo o il sessismo. Inoltre, l’analisi non ha rilevato il ruolo di mediazione del realismo percepito nelle relazioni tra l’uso della pornografia e conseguenze negative (Charig et al., 2020).

Come affermano i ricercatori, questi risultati forniscono probabilmente alcune prove che i correlati negativi dati dall’uso della pornografia potrebbero non essere così pervasivi o significativi come evidenzierebbero alcuni studi (Charig et al., 2020).

Nel campione preso in esame, c’era poca associazione tra l’uso di pornografia e importanti valutazioni di sé (in termini di soddisfazione sessuale e corporea e benessere mentale) o di altri (in termini di atteggiamenti sessisti), nonostante i collegamenti ipotizzati (Charig et al., 2020).

Prevenzione del suicidio

Gli interventi di prevenzione del suicidio prevedono attività educative e sociali per il riconoscimento degli stressors, l’insegnamento di strategie di coping, il miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari e l’incremento della socializzazione.

Alessandra Curtacci – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

La prevenzione del suicidio e l’assistenza ai soggetti a rischio suicidario sono argomenti relativamente recenti il cui sviluppo parte dal presupposto che il fenomeno del suicidio è molto complesso da comprendere, prevenire e trattare. Si punta allo sviluppo di una “cultura” della prevenzione del suicidio cercando di implementare approcci diversi, dai modelli neuropsicobiologici, ai costrutti del dolore mentale o Hopelessness, o ancora analizzando il fenomeno dell’emarginazione sociale. La prevenzione del suicidio si rivolge primariamente all’acquisizione della consapevolezza delle emozioni negative, disperazione, angoscia, tristezza, rabbia, che a lungo andare portano gli individui a decidere di togliersi la vita perché non in grado di sopportare lo stato di profonda disperazione in cui vivono. In generale gli interventi prevedono attività educative e sociali che puntano a riconoscere gli stressors, l’insegnamento di strategie di coping, il miglioramento dell’accesso ai servizi sanitari e l’incremento della socializzazione.

Il Suicidio

Anche l’uomo più sano e più sereno può risolversi per il suicidio, quando l’enormità dei dolori e della sventura che si avanza inevitabile sopraffà il terrore della morte. (Arthur Schopenhauer)

Con il termine suicidio si intende l’atto col quale una persona si procura volontariamente e consapevolmente la morte. E’ un gesto estremo di autolesionismo probabile in condizioni di grave disagio o malessere psichico. Può essere determinato anche da cause o motivazioni strettamente personali, particolari situazioni esistenziali sfavorevoli, stati avversi di salute o di non accettazione del proprio corpo, gravi condizioni economiche e sociali. Non esiste un modo per prevedere con certezza se un individuo metterà realmente in atto il gesto, ci sono però alcuni fattori statisticamente correlati all’esecuzione di questo atto:

Il proposito di suicidio imminente, a prescindere dalla palese dichiarazione di togliersi la vita, è determinato da tutte quelle situazioni in cui il soggetto si espone ad un elevato rischio o che attiva una serie di comportamenti mettendo in scena situazioni pericolose per la propria incolumità: salire su tetti, davanzali, maneggiare armi da fuoco o elementi taglienti, presenza di farmaci, di liquido infiammabile, di strumenti connessi all’alta tensione, gas, ecc. E’ possibile effettuare una distinzione tra i principali comportamenti suicidari:

  • autolesionismo deliberato: atti autoinflitti senza che vi sia la reale intenzione di morire, che possono però rappresentare un fattore di rischio;
  • ideazione suicidaria: pensieri riferiti alla messa in pratica di azioni atte a produrre la propria morte;
  • gesto suicidario o parasuicidio: azione sostenuta da una scarsa intenzionalità, attuata con mezzi poco lesivi. Fa quindi riferimento a tutte le manifestazioni di comportamenti suicidari non fatali ai quali la persona sopravvive. Rientrano in tale definizione anche azioni agite a scopo manipolativo/comunicativo e senza alcuna reale intenzione;

In generale in riferimento a quelli che potrebbero essere considerati dei gesti dimostrativi importante è essere consapevoli del fatto che non vanno sottovalutati in quanto chi li compie potrebbe commettere degli errori e provocare davvero la sua stessa morte.

  • mancato suicidio: il soggetto sopravvive per circostanze impreviste a gesti autolesivi potenzialmente efficaci nel causare la morte;
  • suicidi mascherati: ossia un suicidio provocato ad esempio rifiutando le cure o l’alimentazione, oppure per mezzo di incidenti stradali, creando situazioni che richiedono l’intervento e l’interesse di altre persone.

La persona potrebbe apparire lucida oppure alterata da una qualsiasi sostanza assunta (ebrezza alcolica, uso di sostanze psicoattive, ecc) o disturbo (crisi d’ansia, crisi psicotica sia essa delirante o allucinatoria, ecc). Ogni situazione andrebbe affrontata secondo criteri specifici a seconda delle differenti cause e caratteristiche e, preferibilmente, da personale specializzato (psichiatri o psicologi). Quanto appena descritto è inerente ad una situazione in cui l’atto suicidario è in procinto di essere commesso; un intervento differente di supporto psicologico va invece dedicato alle vittime sopravvissute al tentativo. Questo ha l’obiettivo di indagare e ottenere informazioni utili sulle capacità personali di riconoscimento delle future condizioni di stress ed in particolare di sviluppare efficaci strategie per la gestione di queste ultime. L’intervento andrebbe portato avanti temporalmente, oltre il momento critico della messa in pratica dell’azione suicidaria, in quanto queste manifestazioni sono spesso espressione di una grave frattura avvenuta nel proprio ambito personale e sociale. La continuità del trattamento quindi persegue da un lato lo scopo di affrontare il disagio che ha causato la crisi, e dall’altro insegnare ai soggetti a rischio strategie alternative, comportamentali e cognitive, per far fronte ad eventuale altri momenti di disagio.

Prevenzione del suicidio

Nel corso dello sviluppo storico dell’uomo è sempre esistito il fenomeno del suicidio, e le parole, i pensieri associati o l’espressione di tale volontà sono rimaste sempre le stesse. Shneidman, a tale proposito, descrive la genesi dell’evento:

la mente passa in rassegna tutte le opzioni per risolvere il problema che causa sofferenza estrema finché ad un certo punto emerge il tema suicidio; la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni; ritrova il suicidio e lo rifiuta di nuovo; ma alla fine, scartate tutte le altre opzioni, la mente accetta il suicidio come soluzione, lo identifica come l’unica risposta disponibile e lo pianifica.

Può accadere quindi che quando un soggetto si trova a dover affrontare una sofferenza ritenuta estrema possa iniziare ad immaginare concretamente il suicidio che viene considerato con grande ambivalenza psicologica: da un lato il desiderio di morire e porre fine al dolore ed alla sofferenza dall’altro quello di essere salvati. Due aspetti fondamentali per una corretta attività di valutazione e gestione del suicidio sono:

  • la corretta valutazione del rischio;
  • la gestione dei soggetti che, in seguito all’adempimento della prima valutazione, risultano a rischio.

I fattori di rischio sono quelli che aumentano la probabilità che esso si verifichi, ed in linea generale questi vengono suddivisi in:

  1. fattori biopsicosociali: disturbi mentali, dipendenza da sostanza, hopelessness, storia personali di abusi e traumi;
  2. fattori ambientali: problemi economici, sociali, relazionali;
  3. fattori socioculturali: mancanza di sostegno sociale, isolamento, specifiche credenze culturali e religiose.

Il suicidio infatti raramente è un impulso dovuto ad una decisione improvvisa, possono essere preceduti da indizi, anche minimi e non palesi:

a) Segnali di tipo verbale o scritti, alcuni esempi:

  • parlare del suicidio e della morte,
  • espressioni più o meno dirette (es: prima o poi la farò finita; a cosa serve vivere, ecc),
  • accennare di aver già tentato il suicidio,
  • esprimere sensi di colpa illogici o sproporzionati,
  • dichiarare di dover espiare errori commessi.

b) Segnali di tipo non verbale o comportamentale, alcuni esempi:

  • isolarsi socialmente,
  • disfarsi o regalare cose o oggetti cari,
  • mettere in ordine i propri affari,
  • trascurare l’aspetto fisico e l’igiene,
  • mostrare un miglioramento improvviso ed inspiegabile dell’umore (segno che la persona ha trovato la soluzione per non soffrire più).

La valutazione del rischio deve poter essere supportata da quante più informazioni possibili ed alcune aree di interesse potrebbero corrispondere, oltre a quella già descritte, a:

  • la definizione di un piano su come suicidarsi;
  • tentativi di suicidio in anamnesi;
  • disturbi psichiatrici;
  • abuso di sostanza;
  • familiarità;
  • religione;
  • lutto e eventi di vita avversi.

La lettura di questi segnali può essere arricchita e completata dalla conoscenza delle esperienze pregresse del soggetto che li emette (es: storia familiare di suicidi e violenza, aver subito un lutto importante, problemi di salute, economici, legali, ecc). Alla luce di tali conoscenze il programma di prevenzione di un comportamento disfunzionale come il suicidio distingue 3 livelli di attività ciascuno dei quali si caratterizza per obiettivi ed interventi specifici:

1) Prevenzione primaria: diretta alla prevenzione ed al lavoro sui fattori di rischio e nella fattispecie a:

  • Migliorare le condizioni sociali (es: disoccupazione, isolamento sociale, ecc);
  • Promuovere ed aumentare le competenze personale di gestione e reazione agli eventi stressanti;
  • Assicurare una formazione specifica al personale e agli operatori che si occupano della popolazione ad alto rischio (es: comprensione degli indicatori dello stato di sofferenza che può anticipare un gesto suicidari).

Questo tipo di intervento è rivolto alla popolazione in generale.

2) Prevenzione secondaria: insieme di azioni orientate al controllo del fenomeno nella popolazione considerata a rischio. Esempi di gruppi a rischio sono:

  • Soggetti con diagnosi psichiatrica;
  • Soggetti che hanno vissuto eventi in grado di innescare uno stress traumatico, condizione in grado di alterare le capacità di adattamento alla realtà aumentando la sensazione di perdita di controllo e il senso di vulnerabilità;
  • Soggetti che subiscono quella che viene definita una crisi emozionale, ossia un grave stato di alterazione che porta alla rottura dell’equilibrio psichico, a un’intensa sofferenza emotiva ed al malfunzionamento degli abituali meccanismi di fronteggiamento dello stress.

Le persone che vivono determinate condizioni di tristezza ed angoscia possono sperimentare la sensazione di non avere vie d’uscita e l’unico modo per uscirne  consiste nell’attuare scelte disfunzionali che prevedono gravi alterazioni del comportamento, abuso di sostanza, agiti suicidari e parasuicidari. La fine della crisi, sia essa costituita da manifestazioni psicopatologiche sia dallo sviluppo di un nuovo equilibrio adattivo, dipende da una serie di fattori come le caratteristiche di personalità, il contesto e la rete sociale e la possibilità di accedere ad interventi specifici.

3) Prevenzione terziaria: consiste nell’insieme di interventi che vengono attivati:

  • In seguito ad un atto autolesivo non letale, al fine di scongiurarne la ripetizione;
  • Sostenere a livello emotivo i familiari di coloro che riescono a compiere l’atto del suicidio.

Conclusione

I programmi di prevenzione hanno quindi come obiettivo finale quello di sviluppare ed incrementare i fattori protettivi e ridurre i fattori di rischio noti e suscettibili di modifiche grazie all’applicazione di interventi mirati. I programmi per essere efficaci devono prevedere una durata adeguata e la possibilità di essere ripetuti nel tempo. Gli interventi descritti sono realizzati in modo tale da permettere di essere rivolti sia ad ogni membro della popolazione con informazioni che sensibilizzano al tema della prevenzione del suicidio, sia agli individui considerati ad alto rischio con interventi specifici. I principi che si intende veicolare con tali interventi riguardano il modo di riconoscere o aiutare un soggetto in crisi, accedere ai servizi di assistenza e rafforzare i fattori protettivi come il sostegno sociale e familiare e le proprie capacità di coping, promuovendo la presa di coscienza del fenomeno da parte della società.

 

Quando il cibo aiuta a gestire le emozioni – Report dell’evento

Report dell’evento gratuito del 27 Luglio Mangio che mi passa… quando il cibo mi aiuta a gestire le mie emozioni promosso dal Centro per i Disturbi di Personalità di Modena

 

Le emozioni sono dei processi fondamentali che hanno molteplici funzioni: prima di tutto, una funzione adattiva, ossia guidano e proteggono dai pericoli, in secondo luogo una funzione sociale e comunicativa e, infine, una funzione motivazionale. Esistono diverse modalità di regolazione delle emozioni negative, tra cui il cibo, la cui ingestione può aumentare, arrivando a svolgere una funzione consolatoria oppure diminuire nel tentativo di riprendere il controllo di una situazione difficile.

Se polarizzato, il rapporto tra cibo ed emozioni può diventare disfunzionale; alcuni fattori di rischio in tale direzione sono rappresentati dalla pressione culturale verso la magrezza e dai pregiudizi verso l’obesità (ad esempio, gli obesi mangiano di più). Un altro fattore è la storia di attaccamento, poiché i primissimi legami con altre persone influenzano il modo in cui verranno percepite e gestite le relazioni successive. Infatti, se ad esempio ogni volta che un bambino piange gli viene offerto del cibo, crescendo potrebbe imparare che quella sia l’unica modalità di gestione delle emozioni negative e conseguentemente sviluppare un rapporto disfunzionale con il cibo. Infine, possono essere presenti varie caratteristiche personologiche che favoriscono lo sviluppo di un rapporto disfunzionale con il cibo, tra cui una preoccupazione eccessiva per il peso e la forma fisica; un deficit di autostima che porta a iperinvestire l’apparenza corporea, considerandola l’aspetto principale della propria realizzazione personale; un deficit di autoconsapevolezza, vale a dire non riuscire a dare un nome alle emozioni provate; tratti perfezionistici, ossia valutare se stessi in base al raggiungimento di standard esigenti autoimposti; un pensiero dicotomico, consistente nella tendenza ad estremizzare in tutto o nulla (ad esempio: non ho seguito perfettamente lo schema alimentare quindi tanto vale mangiare tutto); tratti impulsivi.

Come per le emozioni, anche le funzioni del cibo sono svariate e consistono in: uno strumento di oblio (‘il cibo mi aiuta a non pensare a quanto sto male’); un modo per affermare la propria indipendenza (‘il cibo e il peso sono l’unica cosa che controllo io’); una fonte di gratificazione o consolazione (‘quando mangio è l’unico momento della giornata per me’); infine, svolge una funzione sociale (si esce per andare a mangiare insieme, è un momento di condivisione).

Nel momento in cui una persona si accorge di avere un rapporto disfunzionale con cibo ed emozioni, quello che può fare è, in primo luogo, accettare il problema e richiedere aiuto ad un professionista, il quale lo sosterrà nel raggiungimento di una maggiore consapevolezza e nello sviluppo di una motivazione solida al cambiamento. Inoltre, può rallentare, restando in ascolto del proprio corpo con i relativi segnali di fame e sazietà (mindfulness) e, in ultima analisi, mantenere dei ritmi regolari di alimentazione, di sonno-veglia e di attività piacevoli svolte durante la giornata.

 

CIBO ED EMOZIONI – Guarda il video integrale dell’evento:


Giovinezza e Salute: i canoni di bellezza femminile

Da sempre e in tutte le culture gli uomini sono stati attratti da donne con determinate caratteristiche fisiche che, da una prospettiva evoluzionistica, indicherebbero l’elevato valore riproduttivo della potenziale partner

 

Da sempre e in tutte le culture gli uomini sono stati attratti da donne di giovane età e con determinate caratteristiche fisiche come un seno abbondante o uno specifico rapporto tra punto vita e fianchi. Da una prospettiva evoluzionistica tale preferenza è guidata dal criterio base che la potenziale partner abbia un elevato valore riproduttivo (Trivers, 1972). Con tale espressione si descrive il numero di figli che un individio, in base all’età e al genere, può dare alle luce.

Le donne hanno un limitato rifornimento di ovuli, la cui produzione è di circa uno al mese e tra i quaranta e i cinquant’anni termina l’età fertile. In questa prospettiva il corpo e il cervello maschile si sono evoluti in modo tale da essere attratti, in modo inconsapevole, da quelle caratteristiche osservabili in una donna che indicano una buona fertilità e un buono stato di salute e quindi un pool di geni sani da trasmettere alla prole (Symons, 1979, 1995). Infatti, mentre la giovinezza indica un lungo periodo di fertilità, la bellezza è un indicatore di salute, due caratteristiche legate all’azione degli ormoni della femminilità: gli estrogeni.

Certo, sia uomini che donne esprimono entrambi una preferenza per partner intelligenti, comprensivi e con cui condividere i propri valori, ma come è emerso da diverse ricerche, la bellezza fisica ricopre un ruolo molto più importante nelle donne che negli uomini (Buss et al. 2001). Le differenze tra uomini e donne nella scelta del partner si estendono anche a culture non occidentali e rimangono pressoché invariate indipendentemente dal gruppo etnico o religioso (Cunningham et al. 1995; Jones, 1996). Le preferenze maschili, per compagne fisicamente attraenti, sono il prodotto di un meccanismo psicologico specifico che va oltre la variazione culturale.

Per il sesso femminile invece l’aspetto fisico ha molto meno valore rispetto ad altre caratteristiche, come l’affidabilità, stabilità emotiva, maturità e operosità nella scelta del compagno a lungo termine (Buss et al. 1990; Lund et al. 2007). Il grande investimento del sesso femminile nella fasi della gestazione, nutrizione e protezione di un figlio richiede molte energie e tempo. L’evoluzione ha fatto sì che la donna sia perciò molto più selettiva nella scelta del partner rispetto al maschio, che invece è molto più competitivo per l’accesso al sesso femminile (Trivers, 1972).

In generale i canoni di bellezza femminile sono ricorrenti in tutte le culture, ma alcune caratteristiche possono variare maggiormente da un contesto culturale ad un altro e da un’epoca ad un’altra e uno di questi è la corporatura e la predilezione per un corpo più o meno grasso. Si pensi ad esempio all’Età della Pietra e alle Veneri Paleolitiche le cui curve pronunciate e il seno abbondante erano la rappresentazione della fertilità e prosperità nonché di donna ideale. In certi contesti odierni la situazione non è molto differente. Si è visto in effetti che nelle culture caratterizzate da ristrettezza di cibo e in via di sviluppo gli uomini ritengono più attraenti donne più corpulente e con una maggiore quantità di grasso corporeo. In questi contesti la robustezza segnala appunto salute, benessere e un buono stato economico (Rosenblatt, 1974; Sugiyama, 2005). Non è il caso invece dei paesi post industrializzati e ad alto reddito dove c’è abbondanza di cibo, come il nostro, in cui la relazione è invertita e un corpo magro e asciutto è percepito come più attraente rispetto ad un fisico più robusto (Symons, 1979).

Molte evidenze hanno mostrato che il rapporto vita e fianchi rappresenta un accurato indice sia dello stato di salute a lungo termine che del valore riproduttivo ed, in generale, le donne con un basso rapporto vita-fianchi sono valutate come più attraenti rispetto a quelle con elevato rapporto vita-fianchi (Singh, 1993; Singh e Young, 1995)

La femminilità del viso è tra i più importanti indici di attrattività delle donne (Gangestad e Scheyd, 2005; Rhodes, 2006). Caratteristiche come occhi grandi, fronte ampia e pelle soffice, che caratterizzano il viso dei neonati e dei bambini, vanno a costituire la cosiddetta baby face. Questa configurazione di tratti è in grado di elicitare risposte istintive di accudimento e cura da parte degli adulti e combinata con caratteristiche facciali che segnalano la maturità sessuale, come zigomi alti e labbra piene, aumentano significativamente il sex appeal di una donna. Non a caso molte donne quando si truccano enfatizzano questi tratti, fanno sembrare gli occhi più grandi, gli zigomi più pronunciati, le labbra più in carne, la pelle più uniforme e luminosa. Un altro segnale dell’età e salute di una donna è infatti la qualità della pelle, un colorito omogeneo, intenso e senza macchie è percepito come più attraente, giovane e in salute (Sugiyama, 2005).

Anche la lunghezza delle gambe, così come un’andatura dinamica e giovanile, sono aspetti importanti nei giudizi di attrazione di una donna. Entrambi i sessi, nel nostro contesto culturale, giudicano seducenti una donna con gambe più snelle e lunghe ed è per questo motivo che l’utilizzo di tacchi è così frequente e risulta particolarmente efficace in tal senso (Bertamini e Bennet, 2009; Swami et al. 2006). Non a caso, Marilyn Monroe disse:

Non so chi abbia inventato i tacchi alti, ma tutte noi donne dobbiamo molto a lui!

È fuori dubbio l’importanza delle forze sociali e culturali nel determinare il valore che viene attribuito alla bellezza e nell’indirizzare le preferenze maschilli. La pressione diffusa e costante dei mass media ha progressivamente delineato, nel corso degli anni, un determinato ideale di bellezza spesso idealizzando la magrezza anche con conseguenze molto gravi tra gli adolescenti e i giovani adulti. A partire dagli anni 90′ infatti la prevalenza dei disturbi alimentari, come l’anoressia nervosa e la bulimia, è stata in costante aumento colpendo più frequentemente il sesso femminile nella fascia di età compresa tra i 12 ed i 25 anni ed è attualmente uno dei temi più importanti e delicati in ambito clinico (Treasure et al. 2010).

Spiegazioni di tipo sociologico e culturali non escludono però le ipotesi fino ad ora discusse. Al di là degli standard che ci vengono proposti, ancora oggi, come per i nostri antenati, resta il fatto che siano giovinezza e bellezza a concorrere nel garantire il successo riproduttivo della donna.

 

Due Figlie e altri animali feroci (2019) di Leo Ortolani – Recensione del libro

Due figlie e altri animali feroci si candida a diventare un tassello fondamentale all’interno dei libri da consigliare a chiunque fosse interessato al tema dell’adozione internazionale, che permette al lettore di immergersi nelle implicazioni emotive e metacognitive di un tema complesso che può essere affrontato anche in chiave ironica.

 

A Johanna, Lucy Maria e Caterina. Volevo donarvi il mio cuore, ma ce l’avete già. Allora vi ho preso un libro.

Inizia con questa dedica e con l’immagine di due genitori che osservano dalla porta della cameretta due bambine che dormono stremate sul letto il libro Due figlie e altri animali feroci, che tratta di adozione internazionale, con un occhio diverso rispetto ai testi convenzionali sul tema.

Scrivere di adozione non è mai semplice: le nozioni e le tematiche in gioco sono davvero complesse e richiedono uno studio preliminare ampio che va dagli aspetti sociali a quelli psicologici, passando per le implicazioni economiche e burocratiche. Se a farlo è Leo Ortolani, poi, inizialmente si sorride e si pensa ad un gioco.

L’autore del testo è infatti uno dei più importanti fumettisti italiani, pluripremiato, dallo stile ironico e pungente. E’ conosciuto principalmente per la serie Rat-Man (1995-2017), oltre che per Venerdì 12 (1996-2004), Cinzia (2018), il più recente Dinosauri che ce l’hanno fatta (2020) ed altre numerose parodie.

Due Figlie è stato pubblicato inizialmente nel 2011 per poi conoscere una nuova vita grazie a BAO Publishing che nel 2019 ne pubblica una nuova versione, arricchita da materiale inedito e più recente.

Nel testo Leo Ortolani esce dal ruolo di grande fumettista, mostrando coraggiosamente quello di marito di Caterina e di padre, di Johanna e Lucy Maria, le sue due figlie adottive di origine colombiana, giunte in Italia al termine di quella che viene dichiarata fin dalle prime pagine come “l’avventura di una vita”.

L’avventura in questione è un romanzo epistolare, caratterizzato dalle e-mail che venivano inviate a un gruppo di amici e parenti proprio durante il viaggio in Colombia del 2010, dove l’autore e sua moglie si erano recati per completare il’iter di adozione. La struttura è quindi dettata dalla pubblicazione di materiale originale pensato inizialmente per rimanere privato all’interno della cerchia di conoscenze della coppia. Proprio questo aspetto, la spontaneità, la naturalezza e la “verità” senza filtri, risulta essere assolutamente vincente ed oggi il testo rappresenta uno strumento davvero prezioso per i futuri genitori adottivi che si apprestano ad intraprendere il tortuoso percorso dell’adozione internazionale.

L’intero arco narrativo si sviluppa sul filo sottile dell’ironia, che permette a chi scrive di parlare di sé, delle proprie emozioni, delle idee e delle credenze puntualmente stravolte dalla quotidianità vissuta con i due “animaletti feroci”, senza scivolare nella retorica che troppo spesso si cela dietro ai testi sul tema.

Oltre alle bambine e alla diade genitoriale, le vere protagoniste del libro risultano essere le emozioni dell’autore: la rabbia per un percorso pre-adottivo che talvolta risulta difficile da digerire a causa delle tempistiche, delle modalità e dei costi economici del procedimento; lo stupore nell’osservare le improvvise variazioni del proprio stato emotivo provocate dai comportamenti delle bambine; l’amore, che traspare in ogni pagina, non solo per i gesti di affetto, ma soprattutto per i piccoli difetti, i capricci, che giorno dopo giorno rivelano il temperamento vivace delle bambine; la frustrazione, che non viene mai nascosta, dovuta alle difficoltà con la lingua, alla fatica fisica, al dover imparare in pochi giorni ad essere genitore; il timore di non farcela e la riconoscenza, per sua moglie e forse per se stesso, per avere avuto la forza di intraprendere questo viaggio in Colombia, vero, ma soprattutto dentro se stesso.

Il testo si candida quindi a diventare un tassello fondamentale all’interno dei libri da consigliare a chiunque fosse interessato al tema dell’adozione internazionale, che permette al lettore di immergersi nelle implicazioni emotive e metacognitive di un tema complesso che può essere affrontato anche in chiave ironica.

 

Il disturbo da uso di smartphone e il disturbo da uso di internet: quale associazione con il Big Five Model e l’I-PACE Model?

Si stima che 2.71 miliardi di persone nel mondo usino gli smartphone e che la diffusione di questo mezzo di comunicazione sia diventata considerevole a partire dall’uscita del primo iPhone sul mercato nel gennaio del 2007 (Montag & Diefenbach, 2018).

 

Nonostante molto spesso il suo utilizzo sia considerato in modo negativo e reputato dannoso per l’individuo, è bene riconoscere le potenzialità di questo strumento in termini di facilità di comunicazione e di reperibilità delle informazioni, oltre all’essere un importante ausilio in ambito lavorativo; si sottolinea però come il suo uso diventi patologico quando eccessivo (Billieux et al., 2015). In tali casi può ridurre la produttività dell’individuo, aumentare la disattenzione, oltre che distaccare l’individuo dalla realtà e predisporlo ad un alto rischio di sviluppare sintomatologia depressiva e affettività negativa (Elhai et al., 2016).

Diversi studi (Kwon et al., 2013; Lackmann et al., 2019) hanno infatti esplorato le relazioni tra il disturbo da uso di smartphone e quello da uso di internet e i tratti di personalità teorizzati dal Big Five Model of Personality e trovato che entrambi sono associati ad alti livelli di Nevroticismo, bassi livelli di Gradevolezza e bassi livelli di Coscienziosità, ma sono state trovate anche delle differenze tra i due disturbi. Più bassi livelli di Estroversione sono stati associati ad un utilizzo più elevato di internet, mentre non sono state rilevate delle associazioni significative con il disturbo da uso di smartphone. D’altro canto una bassa Apertura Mentale è stata associata in modo significativo ad alti livelli di disturbo dell’uso dello smartphone, ma non sono state trovate delle associazioni significative con il disturbo da uso di internet.

A partire da ciò, il presente studio (Peterka-Bonetta et al., 2019) vuole replicare questi risultati, servendosi di strumenti di valutazione diversi da quelli usati nelle precedenti ricerche, oltre a considerare la relazione con due aspetti tratti dal I-PACE model, ovvero l’alta impulsività e l’alta ansia sociale.

773 soggetti sono stati sottoposti alla compilazione della versione breve del TSDI di Olaru e collaboratori (2015), in modo da ottenere un punteggio per ciascuna dimensione di personalità (Apertura mentale, Coscienziosità, Estroversione, Gradevolezza e Nevroticismo), alla versione breve dell’Internet Addiction Test (Pawlikowski et al., 2013) per valutare il disturbo da uso di internet, allo Smartphone Addiction Inventory (Lin Y-H et al., 2014) per misurare il disturbo da uso di smartphone, alla versione breve del Barratt Impulsiveness Scale 15 (Spinella, 2007) per valutare l’impulsività e al The Interaction Anxiousness Scale (Leary, 1983) per rilevare la presenza dell’ansia sociale.

I risultati hanno confermato i dati rilevati dalle precedenti ricerche (Kwon et al., 2013; Lackmann et al., 2019), dimostrando come essi possano essere considerati validi ed indipendenti dal tipo di strumento di valutazione utilizzato. Inoltre, è stato evidenziato come sia il disturbo da uso di internet che quello da uso di smartphone siano caratterizzati da associazioni positive significative con l’alta impulsività e l’alta ansia sociale, in linea con le evidenze secondo cui l’alta impulsività è generalmente associata in modo significativo alle dipendenze comportamentali e l’ansia sociale conduce ad utilizzo più frequente di internet (Peterka-Bonetta et al., 2019).

In conclusione, possiamo dire che Internet e gli smartphone hanno rivoluzionato la nostra vita in ogni suo aspetto, cambiando abitudini e modo di relazionarci con gli altri, comportando aspetti positivi e negativi, che devono essere opportunamente indagati, tenendo conto delle differenze individuali e dell’uso specifico che viene fatto di questi strumenti.

Digital sensory marketing: coinvolgere il consumatore attraverso esperienze multisensoriali – Psicologia Digitale

Il sensory marketing utilizza i sensi per creare esperienze che legano i consumatori al prodotto o al brand; queste esperienze generano credenze, emozioni, comportamenti che guidano il consumatore e le sue intenzioni di acquisto.

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr.12) Digital sensory marketing: coinvolgere il consumatore attraverso esperienze multisensoriali

 

Cos’è il sensory marketing

Cos’è il sensory marketing? A volte definito sensory branding (più precisamente: sensory branding fa riferimento al modello, sensory marketing alle tecniche utilizzate), il sensory marketing è un approccio, un modello e una strategia di marketing che utilizza strategie di tipo visivo, uditivo, olfattivo, marketing tattile e gustativo per catturare l’attenzione e coinvolgere il consumatore: vengono stimolati i sensi – uno o più contemporaneamente – per creare una connessione emotiva e cognitiva e, ne consegue, influenzare il comportamento e il processo decisionale verso un prodotto (Hultén, 2020). Secondo questa prospettiva la nostra esperienza coi prodotti è indissolubilmente legata ai nostri sensi: vista, olfatto, udito, gusto e tatto, tutti i sensi possono essere sfruttati per farci vivere esperienze uniche e significative.

L’approccio del sensory marketing mette insieme neurobiologia, psicologia sociale, economia comportamentale. Come spesso accade nel marketing, è una visione multidisciplinare a guidare la creazione di modelli. Non si tratta di qualcosa di nuovo: da decenni la pubblicità così come i negozi fanno appello ai nostri sensi, in particolare alla vista, per attrarci e farci percepire positivamente un prodotto o marchio con tecniche ampiamente utilizzate: quando entriamo in un negozio della Apple o di Abercrombie & Fitch, per fare degli esempi, veniamo avvolti da un’esperienza che ci coinvolge anche a livello sensoriale (visiva e tattile nel primo caso, anche olfattiva nel secondo). Si tratta di ambienti studiati perché si crei in noi una certa associazione sensoriale col brand e perché quest’ultimo consolidi nella nostra mente la sua peculiare identità.

Sensory marketing: la cognizione incarnata

Come ci suggeriva la prospettiva feeling-as-information di Schwarz (1990), le persone utilizzano l’esperienza sensoriale – vedere, toccare, odorare, ascoltare ed assaggiare un prodotto – per formare una valutazione emotiva su di esso, oltre che una rappresentazione interna di come sia effettivamente il prodotto.

Come avviene questo processo?

Per spiegare meglio questo fenomeno, ci viene in aiuto la cognizione incarnata, embodied cognition. Essa presuppone che le esperienze fisiche e sensoriali concorrano nella formazione delle rappresentazioni mentali. Facciamo un esempio: mentre beviamo una Coca-Cola, tutte le percezioni e le esperienze formulate durante questa interazione sono archiviate come una rappresentazione multimodale nella memoria (ad esempio, l’aspetto e la consistenza della lattina, l’azione motoria di afferrare la lattina, il tocco della lattina fredda, la sensazione di freschezza ecc.). In più, una volta che si è formata la rappresentazione, quando lo stimolo percettivo si ripresenta, ad esempio quando vediamo una Coca-Cola su uno scaffale del supermercato, viene rievocata la precedente esperienza e le emozioni ad essa legate. Ancora, anche la riesposizione online allo stesso prodotto può innescare la rievocazione spontanea (ovvero ‘simulazioni mentali incarnate’) di quelle rappresentazioni multisensoriali. Queste rievocazioni percettive coinvolgono alcune delle stesse aree cerebrali attive durante le precedenti esperienze, che, a loro volta, possono produrre sensazioni simili (Florack e Palcu, 2017).

Digital sensory marketing: dispositivi che ‘abilitano i sensi’

Secondo la teoria della cognizione incarnata i processi cognitivi sono fondati negli stati corporei e nei sistemi di elaborazione specifici della modalità sensoriale. Se le esperienze dei consumatori si basano sull’integrazione di input sensoriali che poi influenzano il loro giudizio e comportamento, allora coinvolgendo i sensi si può influenzare in modo efficace il processo decisionale.

Se pensiamo ai nostri cinque sensi, a quello che vediamo, sentiamo, ascoltiamo, odoriamo, tocchiamo, non pensiamo certo a contesti digitali dove le interazioni sono limitate e/o mediate da interfacce. Ma questo non significa che i sensi smettano di influenzare la cognizione nell’ambiente online: l’attività cognitiva è ancora supportata da sistemi sensoriali.

Le percezioni sensoriali possono essere rievocate tramite appositi dispositivi: le digital interactive technologies, le tecnologie interattive digitali, ed in particolare le SET, sensory-enabling technologies, tecnologie che ‘abilitano i sensi’ e che forniscono sensoriali. Le SET includono dispositivi che sono già molto diffusi come cuffie e touchscreen, oltre a tutta una serie di altre nuove tecnologie come la realtà virtuale (VR), realtà aumentata (AR) e interfacce digitali che riproducono perfino gusti e odori. La maggior parte ancora oggetto di sperimentazione, le SET producono proprietà sensoriali di un prodotto (ad esempio, il gusto o la consistenza).

Digital sensory marketing: alcuni esempi

Al momento la maggior parte delle SET disponibili agiscono sulla vista: le visual-enabling technologies, tecnologie di abilitazione visiva come visualizzazioni più grandi o da più angolazioni (primo piano super; ingrandimento / riduzione con lo zoom, viste da 2-3 angoli, vista 3D interattiva a ogni angolo trascinando col mouse) e prove virtuali (virtual try-ons, VTO), che ​​come specchi virtuali consentono di provare vestiti tramite un avatar con le nostre fattezze. Queste tecnologie consentono di ingrandire il prodotto, di ruotarlo e di vederlo da una varietà di differenti angoli rendendo l’esperienza online più coinvolgente, piacevole e divertente.

Alcune persone sentono il bisogno di toccare un prodotto o di immaginare di toccarlo: questo bisogno viene definito need for touch (NFT). Il NFT varia in base agli individui e in base alle proprietà tattili dei prodotti: ad esempio è più saliente per oggetti che hanno alcune proprietà più rilevanti di altre (ad es. forma, dimensioni e struttura). Oltre alla vista quindi i ricercatori si stanno focalizzando anche sul tatto con interfacce che simulano il tocco tramite mouse e touchscreen con tessitura e sensibilità molto elevate. Ci sono già dispositivi che permettono di simulare esperienze tattili come Shoogleit, che consente all’utente di pizzicare e ‘stropicciare’ virtualmente una sezione del tessuto agendo con la punta delle dita su un tablet (Cano et al., 2017). Sono disponibili anche interfacce vibrotattili, attuatori tattili che permettono di toccare, schiacciare, girare, ad esempio inFORM, un display che cambia forma quando viene toccato (Leithinger et. Al, 2014).

Anche il gusto ha la sua tecnologia dedicata: MetaCookie+, dispositivo di realtà aumentata che consente di cambiare il sapore percepito del cibo, come un biscotto, manipolando virtualmente il suo aspetto e diffondendo odore aggiuntivo (ad esempio di cioccolato) tramite i sistemi di Edible Marker e Pseudo-gustation che rilevano in tempo reale lo stato di ogni pezzo di cibo e cambiano il gusto percepito del cibo cambiando aspetto e profumo (Narumi et. Al, 2011).

Ancora più immersivo il Season traveller, un sistema indossabile Head Mounted Display (HMD) che riproduce odori, calore e vento per simulare condizioni ambientali di paesaggi diversi mentre li si esplora virtualmente (Ranasinghe et. Al, 2018).

L’utente al centro: attenzione all’overload sensoriale

Sappiamo che le nostre cognizioni sono embodied, che tutte le nostre esperienze sono mediate dai sensi; abbiamo parlato di che cosa possono fare, quale valore può avere per i marketer l’utilizzo delle tecniche di sensory marketing, compreso l’utilizzo di interfacce digitali; a seconda degli obiettivi e dei risultati da raggiungere, si può personalizzare il tipo di esperienza da proporre ai consumatori; e se loro non volessero?

Petit e collaboratori (2019) parlano di ‘sensotipo’, cioè la combinazione unica di livello di stimolazione sensoriale oltre la quale quest’ultima risulta eccessiva e fastidiosa. Capire quando il livello di connessione e realismo è ottimale è necessario per evitare il sovraccarico cognitivo e sensoriale e creare esperienze positive e coinvolgenti, senza il rischio di annoiare il consumatore.

Le sfide per il futuro: opportunità

Le nuove tecnologie incrementeranno la sensazione di essere immersi in ambienti ed esperienze virtuali sempre più convincenti, promuovendo nuovi modi di interagire coi prodotti.

Si tratta però ancora di prototipi e scenari futuristici. Le limitazioni da superare sono tante, come ad esempio le differenze individuali nella percezione gustativa, o nella NFT, ma anche sfide tecniche (ad esempio le sensazioni di gusto sono più difficili da suscitare rispetto a quelle tattili).

Se quindi tali tecnologie sono ancora lontane dall’essere di uso comune e quotidiano, suggeriscono nuovi modi di interagire con i consumatori online nel prossimo futuro.


EUROPEAN CONFERENCE OF DIGITAL PSYCHOLOGY

 ISCRIZIONI APERTE >> Clicca qui per scoprirne di più

ECDP 2021 Virtual Forum - Banner 1600x900

Reazioni ad un evento critico: la duplice “divisa” di soccorritore e vittima

Può capitare che le persone che prestano servizio in particolari situazioni di emergenza, si trovino a ricoprire due ruoli speculari, quello di Soccorritore e quello di Vittima, e si ritrovino così a dover fare i conti con diverse reazioni fisiche, cognitive, emotive e comportamentali.

Alessandra Curtacci – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Introduzione

Quotidianamente differenti accadimenti si verificano causati dalla distrazione dell’uomo, dall’inaffidabilità delle nuove tecnologie e/o dalle forze distruttive della natura. Ogni evento scaturito da queste circostanze costituisce un’emergenza, che può essere considerata sia dal punto di vista pratico e tecnico, sia dal punto di vista umano per le sue caratteristiche di drammaticità e di pericolosità per la persona che la vive, costretta a dover combattere per la propria sopravvivenza “fisica” e “psicologica”. Maggiore attenzione viene così rivolta alla componente emotiva e cognitiva del soggetto coinvolto la quale risulta essere fondamentale per una buona gestione della situazione e considerata come elemento in grado di mitigare gli effetti di un probabile contesto negativo. Un’emergenza può essere definita quindi anche dal punto di vista psicologico come una situazione in cui è presente un pericolo, inteso come un evento non controllabile percepito come una minaccia incombente, seguita dalla richiesta di una rapida attivazione e, soprattutto, caratterizzata da un importante divario tra il “bisogno” e la “possibilità di risposta” attivabile immediatamente. Fondamentale per gli operatori che si trovano ad affrontare situazioni problematiche risulta lo sviluppo della capacità di saper gestire stati di disagio emotivo e psicologico, proprie e altrui. I Soccorritori sono spesso considerati nell’immaginario collettivo come eroi capaci di superare difficoltà e riportare alla normalità qualsiasi tipo di situazione, forti della propria preparazione ed esperienza. Spesso non si considera che la persona che indossa quella divisa, in particolari situazioni avverse, si trova a ricoprire un duplice ruolo: quello di Soccorritore e quello di Vittima, vedi ad esempio i grandi eventi emergenziali come i terremoti. Una circostanza questa in grado di mettere a dura prova il Soccorritore scisso tra due poli opposti: quello professionale, caratterizzato dall’obbligo dell’estrema concentrazione e lucidità, e quello personale in cui è presente l’intensa preoccupazione per l’incolumità e la sicurezza personale e dei propri cari.

E’ possibile dare una schematica descrizione delle differenti risposte che i Soccorritori possono esperire dal momento di inizio a quello finale di un evento emergenziale. In linea generale sono suddivise in reazioni definite come normali o patologiche.

Reazioni normali

L’intervento degli operatori può essere distinto in 4 fasi ad ognuna delle quali si associano specifiche reazioni del soccorritore. Nel dettaglio:

1) Fase dell’Allarme, comincia quando arriva la comunicazione di un intervento da effettuare in una situazione di emergenza. I soccorritori in questa fase di impatto vivono varie categorie di reazioni:

  • reazioni fisiche (es: accelerazione del battito cardiaco);
  • reazioni cognitive (es: iniziale confusione, difficoltà nel dare senso alle informazioni ricevute e nel comprendere la gravità dell’evento);
  • reazioni emozionali (es: ansia, paura per ciò che si incontrerà sulla scena dell’evento, irritabilità e irrequietezza);
  • reazioni comportamentali (es: aumento del livello di attivazione).

Non mancano anche soccorritori in cui si determina una risposta più o meno grave di tipo inibitorio. I pensieri che si accavallano in questa prima fase riguardano direttamente la tipologia di intervento che si andrà ad affrontare, le condizioni dello scenario, il materiale ed i mezzi più idonei e, in maniera più indiretta, potrebbero riguardare le persone care, come ad esempio figli, conviventi (es: dove potrebbero trovarsi in quegli istanti, se sono luoghi o strade frequentati dagli stessi, ecc);

2) Fase della Mobilitazione, nella quale gli operatori si preparano all’azione. L’agire aiuta a dissolvere la tensione e lo stato di allarme, e inoltre l’interazione con i colleghi, necessaria per predisporre e coordinare i piani di intervento, favorisce il recupero dell’autocontrollo emozionale. In questa fase sono quindi presenti in tono minore la maggior parte dei vissuti e delle reazioni della fase precedente;

3) Fase dell’Azione, nella quale si concretizza il passaggio all’attività. I vari tipi di reazioni che spesso si manifestano in questa fase si possono raccogliere nelle seguenti categorie:

  • reazioni fisiche (es: aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria);
  • reazioni cognitive (es: disorientamento, confusione, perdita di obiettività);
  • reazioni emozionali (es: euforia, ansia, rabbia, assenza di sentimenti);
  • reazioni comportamentali (es: iperattività, aumento dell’uso di tabacco, alcol, farmaci).

4) Fase della Smobilitazione, quella in cui avviene il graduale ritorno alla normale routine lavorativa e sociale. Due diversi tipi di contenuti emozionali caratterizzano questa fase. Il primo è costituito dal carico emotivo, che durante la fase dell’azione è stato represso e inibito per dare spazio all’attività di soccorso, ed è caratterizzato prevalentemente da ansia, possibile delusione, tristezza, tensione, il riaffiorare di episodi e vissuti particolarmente forti sul piano emotivo, rabbia. Il secondo consiste, invece, in un complesso di vissuti indotti dalla separazione dagli altri soccorritori, e dalle attese positive o negative rispetto al ritorno alla quotidianità lavorativa e socio-affettiva, come il desiderio continuo di tornare a casa, il timore della conflittualità con i familiari e con i colleghi, il disagio per il lavoro arretrato, i sensi di colpa verso il partner e i figli, ecc.

Reazioni patologiche

Possono essere conseguenti alla sperimentazione di particolari situazioni di rischio altamente stressanti e coinvolgenti sia a livello fisico che emotivo nelle quali il soccorritore può trovarsi coinvolto. Consistono in reazioni problematiche e più complesse.

Ansia acuta

Condizione caratterizzata da intensa ansia (intesa come emozione associata ad uno stato di allarme indipendentemente dal fatto che lo stimolo che la provoca sia reale oppure mentale, ossia immaginato o ricordato). L’ansia, in generale, può durare per alcuni secondi fino a caratterizzare intere fasi di vita di chi la esperisce, ma nel caso specifico della crisi di ansia acuta si sviluppa rapidamente e può portare in breve tempo ad uno stato di rilevante gravità in termini di sintomatologia fino ad ulteriori sviluppi problematici (es: agitazione psicomotoria, crisi di panico). Una crisi di ansia acuta si manifesta attraverso una serie di sintomi che corrispondono generalmente a respiro affannoso o sensazione di mancanza di aria, aumento della frequenza cardiaca, tensione muscolare e tremori, desiderio irrazionale di trovarsi altrove lontano dalla situazione stressante e pericolosa.

Blocco della performance da ansia situazionale

Definita in tal senso in quanto indotta dal dover affrontare specifiche situazioni che costituiscono fonte di stress per la persona. Il soggetto manifesta i segni e i sintomi simili alla crisi di ansia acuta, e in prossimità dell’avverarsi dell’evento temuto alcuni sintomi sono preminenti, come tachicardia e palpitazioni, aumento della sudorazione e timori collegati (es: deludere delle figure di riferimento importanti, perdere il controllo in pubblico).

Blocco della performance per stimoli inconsueti

Inteso come condizione che potrebbe palesarsi durante l’esposizione a stimoli e condizioni inconsuete, come la presenza di fuoco o altri elementi pericolosi e l’esposizione ad ambienti fisici difficoltosi. L’essere esposti a prove del genere può suscitare differenti reazioni: evitare in modo sistematico la situazione, ostentare un approccio eccessivamente fiducioso, manifestazioni di paura e panico, fino alla piena consapevolezza dei propri timori e quindi l’estrema cautela ed impegno nella realizzazione dell’obiettivo.

Tutti i fattori descritti, se non adeguatamente presi in considerazione, possono condurre a reazioni di stress più o meno gravi, che in condizioni di emergenza possono essere definite normali, ma che vanno comunque tenute sotto controllo. Queste reazioni possono essere sia immediate che protrarsi a lungo nel tempo:

  • le reazioni a Breve Termine possono condurre a riduzione della reattività psichica, menomazioni transitorie della memoria, delle capacità di problem-solving e della comunicazione;
  • le reazioni a Lungo Termine, sono quelle in cui lo stress può condurre a quadri clinici ben più gravi come ansia cronica nonché al disturbo da stress post-traumatico.

Conclusioni

Nonostante quanto descritto, i Soccorritori, grazie ad una formazione specifica e all’esperienza pregressa, applicano strategie funzionali che promuovono la salvaguardia del proprio benessere fisico e psicologico e contestualmente quello della vittima. Ognuno, a causa di determinate caratteristiche personali, può essere più o meno esposto al potenziale sviluppo di problemi psicologici di differente natura se costretto ad affrontare un evento fortemente stressante e potenzialmente pericoloso per la propria sopravvivenza, e a mostrare differenti tipi di reazioni più o meno problematiche durante la fase del soccorso. Tutto questo potrebbe essere amplificato nella sfortunata situazione in cui l’operatore sia coinvolto in un’emergenza sia come vittima che come soccorritore.

 

La triade abuso emotivo-freezing-anoressia nella individuazione degli eventi traumatici nascosti

La triade abuso emotivo-freezing-anoressia è molto frequente e rimanda ad esperienze traumatiche precoci, correlate a stili comunicativi patologici delle figure parentali. In particolare, l’alternanza fra manipolazione psicologica e neglect attuata durante l’infanzia produce effetti devastanti sull’alimentazione e sul corpo delle bambine.

 

Caratteristiche dell’abuso emotivo

L’abuso emotivo, secondo la National Association of Adult Survivors of Child Abuse, è una delle forme di “abuso all’infanzia” (Montecchi, 1998). Essa prevede l’utilizzo sistematico di comportamenti in grado di dominare la sfera affettiva e di influire negativamente sulle emozioni e sull’autostima,  privando il bambino delle cure e della protezione di cui necessita. I genitori, anziché offrire vicinanza ed empatia, negano i bisogni affettivi e costantemente invadono gli spazi psicologici e fisici del figlio. Si può parlare di “traumi nascosti” (Lyons-Ruth et al., 1999) qualora si creino condizioni invisibili di trascuratezza rispetto ai bisogni fondamentali del bambino di sicurezza, di riconoscimento, accompagnate da disregolazione comunicativa da parte delle figure parentali.

I danni allo sviluppo cognitivo ed affettivo sono, purtroppo, sottostimati, in quanto la prevaricazione psicologica è comunemente considerata molto meno grave rispetto alla violenza fisica.

L’abuso emotivo avviene prevalentemente attraverso accuse, insulti e critiche, minacce, svalutazione e manipolazione e mediante forme di trascuratezza nei confronti dei bisogni psicologici, accompagnate da rifiuto dichiarato e da isolamento fisico del bambino, soprattutto in caso di disobbedienza (neglect).

A questo proposito, la Psicoanalista J. G. Goldberg, nella sua opera The dark side of love (1993), ha analizzato le tendenze autoaggressive precoci, in particolare nella bambina, come una forma di reazione alla manipolazione psicologica messa in atto sistematicamente da parte di uno o di entrambi i genitori, mediante stili di comunicazione patologici.

L’azione manipolativa è esercitata in tre tempi, secondo un modello di comportamento ripetitivo e continuativo. In un primo momento viene intenzionalmente provocata rabbia attraverso la continua frustrazione delle richieste di ascolto; in un secondo momento viene bloccata l’espressione della ostilità, determinata dalla frustrazione, attraverso il linguaggio verbale oppure attraverso il linguaggio non verbale (sguardi, espressioni del viso, pianto), paralizzando qualsiasi forma di protesta emotiva, con la conseguenza di favorire, in un terzo momento, il progressivo spostamento dell’ira, indirizzata originariamente al genitore o ai genitori maltrattanti, sul corpo.

La “invalidazione emotiva” è, quindi, il vero focus del problema (Waller, 2007): chi subisce abuso emotivo percepisce la condizione psicologica personale minimizzata o trattata con indifferenza e, pertanto, si abitua a percepire sempre meno i propri bisogni fisici e a considerare il corpo come luogo scenico di rappresentazione dell’abuso emotivo, mediante la diafanizzazione anoressica come strategia per la sopravvivenza.

Secondo J. G. Allen (2008),

la fin troppo comune copresenza di abuso e di trascuratezza (indisponibilità psicologica) è traumatizzante perché lascia il bambino emotivamente solo con stati emotivi insopportabili che egli non è in grado di regolare.

Abuso emotivo e trauma

L. Terr divide le esperienze traumatiche  in  Tipo I e Tipo II e Tipo Misto I e II.

Per trauma di Tipo I si intendono episodi di solito causati da eventi circoscritti e inaspettati, come terremoti o disastri ambientali.

Fanno parte dei traumi di Tipo II gli abusi fisici, sessuali, emotivi prolungati nel tempo: dopo il primo episodio traumatico inaspettato, il succedersi di altri episodi crea una predisposizione mentale che mobilita tentativi di preservare la mente mediante particolari difese e strategie di coping come negazione, rimozione, dissociazione, identificazione con l’aggressore e aggressione rivolta contro di sé, con conseguenze drammatiche sullo sviluppo emotivo ed affettivo. A queste difese psicologiche si aggiunge una modalità di reazione fisica definita freezing (congelamento), frequente nei rettili e nei mammiferi superiori, in presenza di un grave pericolo. Essa provoca un distacco dalle modalità di comportamento attacco/fuga e può indurre perfino amnesie dissociative rispetto ai vissuti che accompagnano gli eventi traumatici, con conseguente difficoltà nella elaborazione dell’esperienza (Liotti-Farina, 2011).

Secondo la Teoria Polivagale di S. Porges (2018), il circuito dorsovagale del sistema nervoso autonomo responsabile del freezing è collegato con la regolazione dei processi vegetativi e del funzionamento degli organi posti al di sotto del diaframma (stomaco, intestino tenue, colon e vescica). Nei mammiferi superiori questa condizione di immobilizzazione è collegata a perdita del senso di controllo ed a ottundimento mentale, accompagnati da tristezza, disgusto, imbarazzo e paura. Quando il circuito dorsovagale è attivo, si produce un rallentamento delle risposte muscolari e scheletriche, con riduzione dell’apporto di ossigeno. Inoltre lo stato dorsovagale si associa frequentemente a condizioni depressive.

Il passaggio inverso da uno stato dorsovagale ad una attivazione del sistema simpatico (dall’immobilizzazione alla mobilizzazione del corpo) è difficile: il sistema nervoso autonomo è configurato per abbassarsi rapidamente in caso di necessità, non altrettanto facilmente per risalire qualora subentri uno stato di sicurezza. Il sistema nervoso di una bambina che ha subito un trauma emotivo rimane intrappolato nello stato continuo di allerta dorsovagale, come se il pericolo fosse sempre imminente, con conseguenze inevitabili per quanto concerne la percezione dello stimolo della fame e la ricerca del cibo.

Incidenza dell’abuso emotivo nel disturbo del comportamento alimentare

Le ricerche condotte in tempi recenti a livello internazionale affrontano sempre più frequentemente la correlazione fra abuso infantile e comparsa di DA (Disturbo Alimentare), spesso a carattere recidivante.

A. Vajda (2013) si è  particolarmente interessata al ruolo esercitato dall’abuso emotivo e dal neglect nella genesi dei disordini alimentari (anoressia e bulimia). La psicologa ha lanciato un segnale d’allarme sulla possibilità che la disregolazione emotiva, conseguente al trauma, diventi nel tempo una modalità comunicativa abituale del malessere.

Secondo M. Teicher (2003), il neglect o altri maltrattamenti psicologici determinano una cascata di risposte allo stress che organizzano il cervello secondo uno specifico assetto selezionato per facilitare la sopravvivenza in un ambiente pericoloso, caratterizzato dalla deprivazione e dalla lotta. Tale sviluppo alterato è costoso poichè viene associato ad un incremento del rischio di sviluppare seri disordini psichiatrici ed è comunque portatore di disadattamento in situazioni maggiormente favorevoli.

Inoltre stress conseguenti ad eventi traumatici provocano una riduzione volumetrica della porzione ippocampale sinistra che comporta un difetto nella codifica e nell’immagazzinamento di informazioni spaziali, temporali e semantiche nella memoria esplicita (Zennaro, 2011).

Nei casi più gravi si determina una vera e propria dissociazione somatoforme, vale a dire una disgregazione della memoria, della coscienza e dell’identità corporea, al punto che le stesse funzioni corporee possono essere sottoposte a dissociazione.

In alcune bambine, la tendenza autodistruttiva mediante la restrizione alimentare dovrebbe essere diagnosticata non solo come DCA, ma anche come precoce DTS (Disturbo traumatico dello sviluppo) (Van Der Kolk, 2014), da collocare nell’area di ricerca che ultimamente sta indagando le conseguenze a lungo temine dei traumi psicologici sulla maturazione di alcune strutture cerebrali e sull’affettività.

Abuso emotivo ed anoressia

Secondo R. Matrullo, (2005)

il corpo si colloca al confine tra gli oggetti esterni e gli oggetti interni, è un mezzo comunicativo e relazionale essenziale, è il luogo dove si situa la costruzione dell’immagine di sé, ma è anche il luogo dell’Altro, il rappresentante dei genitori dell’infanzia.

Secondo Kestemberg (1972), alla formazione dell’assetto psicologico del figlio contribuisce in maniera preponderante l’organizzazione psichica dei genitori. Così la qualità delle interazioni di cui il bambino è stato oggetto si riflette nelle modalità di investimento della bambina sul proprio corpo (Jeammet e Corcos, 2002). L’abuso emotivo interrompe la costruzione della relazione di fiducia con la coppia parentale e il corpo, oggetto di neglect da parte dei genitori, viene sempre meno amato dalla bambina che disinveste progressivamente la cura di sé, a vantaggio di più opportune reazioni difensive.

La anoressica ha paura di essere metaforicamente inghiottita (e, per questo, non riesce ad inghiottire); può unicamente difendersi bloccando qualsiasi reazione (freezing) per diventare un bersaglio minuscolo e lasciando totalmente ai genitori l’occupazione di uno spazio fisico che prima lei stessa occupava.

Anche gli studi transculturali di H. Ullrich (2017) considerano la passività femminile come fattore di protezione nei contesti familiari di abuso fisico e psicologico, in particolare per le donne che vivono nell’India meridionale.

L’anoressia potrebbe essere parzialmente superata dopo l’adolescenza, grazie ad un parziale distacco dalla famiglia e ad un aumento degli spazi esterni di autonomia, ma è spesso recidivante perché le anoressiche mantengono i loro conflitti a livello latente. Solo poche ragazze riescono ad orientarsi precocemente verso un partner che sia l’opposto del genitore abusante, cioè capace di provare tenerezza e sentimenti profondi.

Poiché si tratta di un “trauma interpersonale”, la probabilità che permanga o si ripeta anche in nuovi e diversi contesti, in particolare nella scelta di partner disfunzionali, come coloro che presentano problemi di narcisismo,  è quindi considerevolmente elevata e deve essere tenuta in seria considerazione. Lo Psicoanalista S. Ferenczi (1932), a questo proposito, cita una interessante metafora sugli effetti dei maltrattamenti:

Viene da pensare a quei frutti che la beccata di un uccello ha fatto maturare troppo in fretta e reso troppo dolci…

Infatti il Narcisista è stato spesso vittima, a sua volta, dei medesimi stili di abuso emotivo e di neglect da parte delle figure parentali, ma con l’interessamento di modalità di difesa opposte, come l’identificazione con l’aggressore. La compresenza degli stessi traumi emotivi in entrambi i partners predispone al ripetersi delle condizioni di abuso, con alto rischio di ritraumatizzazione e di ricomparsa/esacerbazione dei sintomi per l’anoressica.

Psicoterapia dell’anoressia conseguente ad abuso emotivo traumatico

I gravi traumi sono stati considerati da S. Ferenczi come eventi tragici che predispongono l’individuo alla ricerca di soluzioni estreme di adattamento, per evitare la morte.

Si tratta di comportamenti che hanno lo scopo di aiutare la persona ad uscire dalla condizione di pericolo: da una parte vi è la soluzione alloplastica che interviene per modificare le condizioni esterne al sé e dall’altra la soluzione autoplastica che spinge il soggetto a modificare se stesso, mediante la dissociazione di parti del Sé o attraverso tentativi di autodistruzione. Secondo l’Autore, le parti dissociate possono essere proiettate su una figura immaginaria, modellata sulla personalità del soggetto, che assume il nome di Orpha. Orpha è una figura soccorritrice dei bambini abusati che si assume il difficile compito di

sostituire la morte con la follia. (Ferenczi, 1932)

La follia può diventare una soluzione conservativa che tende a ricercare un parziale adattamento all’interno di una situazione senza via uscita.

Nei momenti di forti difficoltà, a cui il sistema psichico non è preparato, o in presenza di grave distruzione di organi particolari (nervosi o psichici) o delle loro funzioni, si risvegliano forze psichiche primitive che cercano di assumere il controllo della situazione perturbata. Nei momenti in cui il sistema psichico viene meno, l’organismo comincia a pensare. (ibidem, p. 52)

Nel caso dell’abuso emotivo, l’esclusione dei sentimenti originari di ostilità e il divieto genitoriale di piangere il dolore di sentirsi maltrattati lasciano spazio ad un corpo che vive profondamente il trauma e ad una mente che si rifiuta di mentalizzare la sofferenza per non impazzire.

L’abuso psicologico, fra tutte le diverse tipologie,

incide forse più direttamente sulla mentalizzazione, in quanto si tratta di un attacco diretto alla mente. (J.G. Allen, 2008)

Per l’anoressica, che ha subito un attaccamento traumatico, diventa indispensabile riportare alla luce ed accettare gli impulsi ostili indirizzati originariamente verso le figure parentali, allo scopo di interrompere le azioni distruttive fino a quel momento deviate sul corpo.

Tale abilità deve essere insegnata da un terapeuta capace di mentalizzare i propri vissuti e di fornire al paziente un attaccamento sicuro, compito difficile per le resistenze messe in atto, nel transfert, dalla paziente non abituata alla disponibilità psicologica dell’Altro.

Ricostruire il trauma: Trauma Recovery Model di J. Herman

Si tratta di un percorso che identifica specifiche modalità di trattamento sintonizzate con i tempi di autoregolazione della paziente. L’intervento psicoterapeutico sul trauma e sull’anoressia viene attuato secondo un modello a tre stadi. (v. tab.1 – in Italiano) oppure (Fig. 1 – in inglese).

Tabella 1 – Modello a tre stadi

Figura 1 – Modello a tre stadi

Stadio 1 – Stabilire una condizione di sicurezza

In seguito ad insieme di traumi emotivi, l’anoressica ha sviluppato una neurocezione alterata, nel senso che possiede una percezione inappropriata dell’ambiente a livello corporeo e ha sempre l’impressione di essere in pericolo. Anche un semplice cambiamento nel tono di voce del terapeuta può essere scambiato per disapprovazione. E’ importante considerare la prosodia come importante indicatore di accettazione, al fine di generare un senso di sicurezza e condurre la paziente verso la calma e il lento abbandono della modalità di freezing.

Attraverso il “limited reparenting”, il terapeuta cerca di contrastare l’influenza negativa dello stile genitoriale mediante il contatto oculare che diventa uno strumento essenziale per soddisfare i bisogni inappagati dell’infanzia e per la costruzione di un relazione terapeutica di fiducia. E’ importante operare un costante confronto fra la situazione traumatica e la nuova situazione di cura, attraverso un graduale ascolto empatico. Nel setting, occorre dare spazio alla trasmissione di sensazioni corporee che favoriscano un processo di co-regolazione degli stati emotivi.

Training autogeno (Schultz, 1932) ed esercizi di respirazione migliorano la neurocezione e la percezione del corpo in stato di rilassamento. S. Porges sottolinea l’importanza di riportare il paziente a sintonizzarsi con i propri vissuti somatici e con le emozioni ad essi collegate per uscire dallo stato dorsovagale ed iniziare a percepire diversamente il bisogno di nutrimento, primo step per una adeguata cura di sé. E’ opportuno far fluire l’energia dirigendola verso l’alto e l’esterno (far alzare in piedi la persona, farla spingere o afferrare qualcosa, stimolare braccia e gambe, assecondare i movimenti, anche molto piccoli, di reazione attiva).

Stadio 2 – Ricordo ed elaborazione del trauma

Si tratta di uno stadio estremamente delicato da affrontare, in particolare per la possibile comparsa di pensieri intrusivi e di trigger durante l’arco della giornata. Il temine “trigger” indica il grilletto metaforico che scatta di fronte a determinati stimoli in grado di risollevare un ricordo traumatico, sotto forma di fotogramma, che sollecitano sofferenza e dolore già provati durante l’infanzia. Il rischio di interruzione della terapia in questa seconda fase è veramente elevato, per la sofferenza alla quale la paziente è nuovamente esposta. Lo Psicoanalista S. Bolognini (2008) sostiene che chi è stato vittima di neglect possa tentare di trasferire i propri vissuti di inadeguatezza e di indegnità sul terapeuta, attraverso un meccanismo di difesa definito ”identificazione con l’esclusore”, in modo da impedire l’accesso al trauma e far percepire “da dentro” tutta la sofferenza provata nella relazione con le figure parentali.

a) Schema Therapy e Imaginery Rescripting

Nella Schema Therapy di J. Young, (2004), indicata come psicoterapia cognitiva anche per l’anoressia, viene approfondita l’analisi di schemi maladattivi precoci (Mode), intesi come insieme di ricordi, pensieri, emozioni e sensazioni, appresi durante l’infanzia a contatto con figure parentali maltrattanti.

Nel caso di abuso emotivo, agli schemi disfunzionali di abbandono, deprivazione, dipendenza e sottomissione corrispondono specifiche credenze disfunzionali che orientano la crescita verso la percezione di un mondo negativo dal quale difendersi.

Nella vita adulta, di fronte a determinati stimoli, si riproducono automaticamente i medesimi schemi disfunzionali che innescano, a loro volta, determinati stili di coping.

Quindi, l’obiettivo della Schema Therapy  sarà quello di correggere e di trasformare uno schema maladattivo in uno schema più adeguato, con l’intento di facilitare anche l‘apprendimento di nuove strategie di adattamento e di stili di coping più consoni. Per raggiungere questo obiettivo, occorre riportare alla luce le memorie d’abuso mediante la rivisitazione degli eventi e la ricostruzione del trauma.

La tecnica di esposizione “Imagery Rescripting”  è una strategia esperienziale della Schema Therapy che facilita il recupero dei ricordi e la riscrittura/ridefinizione di un nuovo finale da attribuire all’evento traumatico. Lo stesso Psicoterapeuta si inserisce nella scena evocata mediante opportuni stimoli verbali, aiutando e difendendo la bimba rispetto agli attacchi genitoriali, in modo da attribuire un finale positivo e, soprattutto, diverso a quanto accaduto. Così la paziente recupera la presenza di un supporto emotivo e si allontana dalla propria immagine di vittima impotente.

b) Enactive Trauma Therapy

Secondo l’approccio di Ellert R.S. Nijenhuis, alcune persone sottoposte durante l’infanzia a gravi maltrattamenti e trascuratezza emotiva generano tre sottosistemi dissociativi prototipici denominate “parti”: Parte Apparentemente Normale, Parte Emotiva Fragile, Parte Emotiva Controllante. Le fobie che vengono sviluppate dalle parti dissociate l’una dalle altre mantengono i sintomi. La Enactive Trauma Therapy si fonda sull’assunto secondo il quale paziente e terapeuta rappresentano due sistemi organismo-ambiente che co-creano un mondo comune e si impegnano attivamente per curare e superare la dissociazione somatoforme, senza tuttavia far riferimento alla cognizione e all’elaborazione delle informazioni. Si prediligono le tecniche ipnotiche ispirate alle analogie e alle metafore di M. Erickson, con l’obiettivo di guidare la paziente anoressica verso la progressiva integrazione e simbolizzazione degli episodi traumatici, anche attraverso contatti fisici indiretti nel corso delle sedute (Nijenhuis, 2017). Il Terapeuta, definito Testimone tollerante, accompagna con calore empatico la sofferenza della paziente, aiutandola a rimanere nel tempo presente e a ristabilire una connessione emotiva con se stessa, con gli altri e con il mondo rappresentato nella traumatizzazione (Van Der Hart-Nijenhuis, 1999).

Fase 3 – Riconnessione

Qualora sia stata possibile la rielaborazione delle memorie traumatiche, nell’ultima fase della terapia il Terapeuta solleciterà la paziente a riconciliarsi con se stessa ed a provare sentimenti positivi rispetto alla propria cura, attraverso una psicoeducazione che consideri il corpo degno di amore. Il raggiungimento di una intimità con il proprio Sè predispone alla identificazione e alla trasformazione del proprio mondo emotivo, rendendo possibili nuove relazioni sane ed improntate ad una ritrovata fiducia.

 


 

 

Questo matrimonio non s’ha da fare (2019) di M. Morretta – Recensione del libro

Il testo Questo matrimonio non s’ha da fare di Mattia Morretta ci lancia uno schiaffo in faccia e un pugno nello stomaco e ci risveglia peggio di una doccia fredda.

 

L’autore ci racconta verità scomode sulla famiglia e sulla genitorialità, non ha parole buone per nessuno, non gli importa dell’identità o orientamento sessuale del lettore. Totalmente politically correct. Ognuno può sbagliare.

Con tono provocatorio, satirico, nero, descrive cosa accade oggi alle coppie etero e omosessuali nella società che cambia col tempo, e non in meglio. Difficile leggere più di due pagine non provando emozioni intense. Una volta può essere la tristezza, una la rabbia, poi la malinconia e forse l’ansia, per poi spesso sorridere anche. Ma questo è possibile per chi sa apprezzare le citazioni, i doppi sensi, la scrittura ironica. Per chi non ha paura di ammettere “cavolo forse le cose vanno un po’ così”. Il linguaggio è forte, la matrice psicoanalitica ben presente e bisogna essere forti di stomaco per stargli dietro e bisogna aver accettato e fatto pace con le proprie vulnerabilità del tutto umane. Questo perché è un saggio che distrugge ciò che stiamo portando avanti, costruendo però poco di concreto.

L’amore dell’autore verso l’arte, la letteratura, la cultura in generale, è presente in ogni pagina. Tante le citazioni e anche di grande interesse. Credo però che, leggendo la realtà da questa prospettiva “alta”, si possa incorrere nel rischio di sottovalutare la natura umana e le dinamiche di vita quotidiana, fatte di paure, compromessi, liti, egoismi e tanto altro ancora.

Un paio di anni fa visitai Haworth, villaggio inglese dove vissero le sorelle Brontë. Un tuffo emotivo nel mio passato adolescenziale in cui cercavo di capire cosa significasse amare. Per anni ho creduto che quello fosse il vero amore: gli sguardi rubati tra Mr. Rochester e Jane Eyre, i tormenti interiori, l’unica forza in grado di cambiare le persone, l’unico motore per raggiungere la felicità. Se avessi continuato a ricercare tra quelle righe il senso della vita forse avrei vissuto a metà, in angosce profonde e frustrazione, alla ricerca di un ideale impossibile.

Abbiamo bisogno di essere accettati, abbiamo bisogno che ci venga riconosciuto il nostro valore personale, abbiamo bisogno di non sentirci troppo diversi o sbagliati. E per raggiungere tutto questo spesso seguiamo le spinte della famiglia, della comunità, della tradizione. Possiamo sposarci anche se non sentiamo le famose farfalle nello stomaco perché semplicemente “è arrivato il momento di accasarci”. Il nostro passato evolutivo ci ha lasciato (in sottofondo) il timore della morte se veniamo esclusi dal gruppo. E secondo queste basi comprendo e accolgo l’esigenza di alcuni individui (etero ed omosessuali) di volersi “omologare” a determinate richieste della società.

Sull’argomento genitorialità (tema sempre molto delicato) Morretta, con coraggio, evidenzia come l’essere genitori biologici non fa di quei genitori i migliori sulla piazza:

non è padre chi è donatore di seme e non è madre chi ha portato in grembo, a distanza di anni si vedrà chi davvero lo è diventato.

Restituisce a figure esterne alla coppia genitoriale biologica l’importanza del loro ruolo per la crescita della discendenza perché, come lui scrive, “la procreazione è mortale, la cultura immortale”. Avremmo goduto delle opere di Giotto, Michelangelo, Canova, Verdi (giusto per citarne una piccola parte) senza il supporto dei loro mecenati? Probabilmente no. Ma sicuramente no, se non fossero proprio nati. Questo è il punto di incontro tra la natura umana più istintuale e l’importanza della cultura e di un ideale più alto. L’equilibrio lo troviamo nella mescolanza e non nella separazione.

 

Odio online: i predittori psicologici del comportamento degli haters

L’atteggiamento dispregiativo è da tempo identificato come un grave problema sociale. Non sorprende che, insieme alla crescita della popolarità di Internet, tali comportamenti siano stati osservati anche nei setting online (Blaya, 2019; Gauducheau, 2019; Johnson et al., 2019; Mathew et al., 2019) e quindi identificati come odio online.

 

L’odio online non consiste necessariamente nell’esprimere un’opinione denigratoria su un gruppo sociale. Esso, infatti, può essere dispregiativo senza fare riferimento alla posizione sociale di una data persona od oggetto e/o mirare a sminuire la posizione sociale di un gruppo (Nockleby, 2000).

Nonostante la crescente letteratura sull’odio online (Blaya, 2019), attualmente si sa ancora poco sulle caratteristiche personali delle persone – gli online haters – che si impegnano abitualmente in tali comportamenti.

Uno studio recente (Sorokowski et al., 2020) ha cercato di identificare i predittori psicologici di chi abitualmente invia commenti di odio online, concentrandosi sui seguenti tratti: la Triade Oscura (narcisismo, psicopatia e machiavellismo), il livello di frustrazione esperita, il livello di invidia vissuta e la soddisfazione nella vita. Per fare questo sono state confrontate le caratteristiche di persone che pubblicano commenti di odio e non odio su Internet nei confronti di atleti polacchi durante i Giochi Olimpici invernali a Pyeongchang del 2018, arrivando così a dividere il campione in due gruppi: haters e non haters. Novantaquattro utenti (41% donne) hanno partecipato allo studio, tra i quali 46 erano stati individuati per aver pubblicato commenti di odio (haters).

Dopo un mese dalla loro identificazione e assenso alla partecipazione allo studio, gli utenti sono stati invitati a sottoporsi a un’indagine psicologica, compilando una serie di questionari: il Dark Triad Questionnaire (Jonason & Webster, 2010) per la valutazione dei livelli di narcisismo, psicopatia e machiavellismo; la Scale of Frustration (costruita appositamente per lo studio) per la misurazione dei livelli di frustrazione; la Scale of Envy (Tandoc et al., 2015) per la misurazione dei livelli di invidia e la Satisfaction with Life Scale (Diener et al., 1985) per valutare la soddisfazione nella vita.

I risultati hanno mostrato che i punteggi più alti nei tratti psicopatici erano predittori significativi della pubblicazione di commenti di odio online; livelli di invidia più alti erano marginalmente significativi. Per le altre scale non si sono registrate differenze sensibili.

Questi risultati forniscono una prova iniziale che le persone che si impegnano in comportamenti sprezzanti online sarebbero caratterizzati da alti livelli di tratti psicopatici, ma, contrariamente a studi precedenti, non hanno fatto registrare livelli elevati di altri tratti comunemente associati a comportamenti distruttivi.

Questo studio è uno dei primi a stabilire un background psicologico per gli online haters e si auspica che la ricerca futura possa continuare a far luce su un fenomeno sempre più diffuso, le cui contromisure sono ancora evidentemente poco efficaci.

 

Psicologo e salute mentale: a che punto siamo?

Mai come in questo periodo si sente parlare dell’importanza della salute mentale e si invoca alla presenza dello Psicologo nei vari punti strategici della nostra società.

 

Sicuramente questo periodo che stiamo vivendo poteva (e può) diventare uno stimolo a fare davvero qualcosa in più, a incidere meglio sul favorire una cultura del benessere mentale e psicofisico a 360 gradi.

Ma cosa si intende per salute mentale? Secondo l’OMS è ‘uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di realizzare i propri bisogni a partire dalle proprie capacità cognitive ed emozionali, esercitare la propria funzione nella società e nella vita di comunità costruendo e mantenendo buone relazioni, far fronte alle esigenze della vita quotidiana, superando le tensioni e gestendo ed esprimendo le proprie emozioni e le proprie capacità di cambiamento per raggiungere una soddisfacente qualità di vita, operare le proprie scelte ed esprimere la propria creatività lavorando in maniera produttiva‘ (Ministero della Salute, 2020).

In realtà non è il Covid-19 che ha fatto emergere questa necessità, perchè sono anni che se ne parla ed esiste una presa di consapevolezza da parte di organi ed enti italiani, europei e mondiali che auspicano un avanzamento nel portare nuove proposte e nuove pratiche per promuovere e favorire la salute mentale nelle popolazioni. Ad oggi ovviamente, nel periodo che stiamo vivendo, appare ancora più pressante questa necessità e, fortunatamente, si comincia a darle più importanza. Perché, certamente, implica una sorta di ‘rivoluzione culturale’ rispetto a come viene vista la figura dello Psicologo e come viene pensata la salute mentale e questo richiede tempo e impegno, ma implica anche la volontà da parte delle istituzioni e della politica di investire nella salute mentale in termini sia di cura e prevenzione dei disagi psichici che di promozione delle risorse necessarie a tutelarla questa salute. Nel piano d’azione per il ‘Rilancio Italia’ (2020), viene sottolineato come il nostro Paese, fino ad oggi, è tra quelli che investono meno in salute mentale.

Il motivo di tanta importanza per la salute mentale è sempre più sotto agli occhi di tutti, poiché la sua mancanza ha conseguenze deleterie per l’individuo ma anche per la collettività e la tenuta dei Paesi. Già nell’ormai 2013, il Piano d‘azione europeo per la salute mentale (un piano che nasce dalla collaborazione tra gli Stati Membri e l’OMS per l’Europa e che propone obiettivi e azioni efficaci per migliorare la salute e il benessere mentale) riportava che:

I problemi di salute mentale, tra cui figurano la depressione e l’ansia, sono la principale causa di invalidità e pensionamento precoce in diversi paesi, rappresentano un peso grave per l’economia e richiedono un intervento politico.

Questo significa che il benessere della popolazione dovrebbe essere un tema centrale per i governi perché si possano attuare delle politiche volte a migliorare il benessere mentale e ridurre l’esposizione ai fattori di rischio. Infatti, in un periodo caratterizzato, nel nostro Paese, da difficoltà economiche, dalla disoccupazione, dall’incertezza lavorativa e dall’invecchiamento demografico, a cui vi si aggiunge una crisi sanitaria ancora in corso, è fondamentale concentrarsi su come mantenere e massimizzare il benessere in tutte le fasi della vita.

Il benessere mentale migliora la resilienza, rafforza la fiducia nel futuro, incrementa la capacità di adattarsi ai cambiamenti e di affrontare le difficoltà.(…) Il tenore di vita si ripercuote direttamente sul benessere di una popolazione (…) ma dipende anche da altri fattori, come il controllo sulla propria vita, l’autonomia e i legami sociali (…). I governi hanno un ruolo fondamentale nel creare le condizioni per conferire forza alle persone e alle comunità, promuovere e proteggere il loro benessere e rafforzarne la resilienza. (WHO e al.,2013)

Questo sembra essere stato capito dai fautori del cosiddetto Rilancio Italia; lungi dal dare una valutazione sulla effettiva validità ed efficacia del piano per rilanciare o meno il Paese a seguito dell’emergenza da Covid-19 in cui ancora siamo, quello che emerge da una prima lettura delle schede di lavoro è l’inclusione (e chiaramente ancora da finalizzare e attuare) di tutta una serie di proposte che vanno effettivamente a toccare i principali ambiti da cui poter ripartire, da potenziare e da sostenere per far sì che le condizioni di vita della popolazione migliorino (presupposto importante per il mantenimento di una buona salute mentale). In particolare, vengono inserite proposte e azioni che dovrebbero incidere sul benessere dell’individuo e delle comunità in termini di welfare, lavoro, inclusione della disabilità, lotta alla violenza e alle disparità di genere, conciliazione dei tempi di vita (lavorativa e privata) come sostegno alla genitorialità e soprattutto sostegno psicologico e potenziamento dei servizi sociosanitari. Rispetto a questi ultimi due ambiti, vengono definite delle prime linee guida per accedere ad un supporto psicologico attraverso pacchetti di colloqui alle famiglie e agli individui che sono stati direttamente impattati dal Covid-19, con lo scopo di prevenire e ridurre sindromi depressive e i connessi costi sociali e sanitari, e viene proposto il potenziamento dei Servizi Sociosanitari e dei Progetti Terapeutico-Riabilitativi Individualizzati per sostenere e promuovere l’inclusione e la partecipazione attiva al proprio percorso di vita delle persone più fragili e rese ancora più vulnerabili dall’emergenza Covid-19, come ad esempio, anziani, minori, disabili, persone con problemi di salute mentale o dipendenze in strutture residenziali.

E’ interessante notare come queste azioni proposte siano effettivamente in linea con le politiche europee e mondiali sulla salute mentale e come il ruolo della Psicologia inoltre, entri di diritto nell’immaginario collettivo della ‘ristrutturazione’ del nostro modello di società, partendo da una presa di consapevolezza dei ritardi e dei limiti che esistono nel nostro Paese ma anche delle potenzialità esistenti e di quanto è possibile fare, ad ogni livello.

E a tal proposito, per citare un altro passo importante rispetto al ruolo che la Psicologia sta prendendo, non può non essere menzionato il progetto approvato nella regione Puglia, ovvero lo Psicologo di base che collabora col medico di famiglia; una proposta che nasce dalla constatazione che ‘nonostante il notevole incremento dell’offerta di assistenza psicologica registrato negli ultimi decenni nel nostro Paese, metà delle persone che sperimentano uno stato di disagio continua a non rivolgersi allo psicologo. Si rileva, però, che il 35% degli interventi richiesti al medico di famiglia sono mossi proprio da fattori psicologici’ (Ordine Psicologi Puglia).

Già in passato erano stati avanzati alcuni progetti pilota isolati che avevano mostrato l’utilità e l’efficacia della collaborazione tra medico e psicologo ma che non erano diventanti sistematici e diffusi come invece è accaduto in altri Paesi; questa esperienza ha dimostrato la necessità della presenza nello studio medico di uno specialista della salute mentale, della promozione del benessere psicologico e della presa in carico del disagio emotivo dei pazienti per rendere più efficace e soprattutto tempestivo l’intervento. Infatti, uno dei problemi legati alla necessità della promozione (e prevenzione) della salute mentale è la cronicizzazione dei disagi e della sofferenza prima che arrivino al consulto professionale, con la conseguente perdita di produttività per la persona e un eccessivo carico economico che spesso grava sull’individuo o la famiglia in quanto i servizi territoriali non riescono sempre a farsi carico di tutte le richieste in tempi brevi (altro problema legato alla salute mentale). Solitamente, infatti, la persona, nel tentativo di risolvere il problema, passa dal volercela fare da sola o rivolgersi a figure di riferimento, per poi passare ad un piano non specialistico, come figure religiose o volontariato sociale, e solo alla fine ad un professionista del settore. Se invece, le persone che operano sul territorio (ad esempio i medici di base), fossero adeguatamente formate e potessero collaborare con i professionisti della salute mentale, si potrebbe intervenire in modo corretto su un disagio al suo esordio o promuovere un invio adeguato ai servizi competenti così da evitare cronicizzazioni (Becciu, Colasanti, 2016).

Dunque, queste considerazioni aprono ad una calda accoglienza verso il progetto che sarà portato avanti dai colleghi in Puglia, con la speranza che possa diventare una prassi comune e diffusa in tutto il Paese. Le premesse infatti, sembrano andare verso la giusta strada, piccole aperture che con quest’emergenza sanitaria richiedono ancora di più di essere prese in considerazione; tanto c’è ancora da fare ovviamente, e uno degli esempi è il portare lo Psicologo anche nelle scuole, essendo un ambito che difficilmente riesce a ‘trovare pace’ nel nostro Paese, molto danneggiato negli anni e in continuo cambiamento vista la complessità dell’emergenza in cui siamo (lo Psicologo a scuola meriterebbe da solo un intero articolo).

Ciò che si spera è che possa essere, intanto, attuato davvero tutto ciò che è stato pensato per favorire e incidere positivamente sul benessere delle persone e continuare a ‘tenere a mente’ che senza salute mentale anche tutto il resto diventa più difficile.

Le implicazioni psicologiche del morbo di Crohn

Le principali aree di vita della persona con morbo di Crohn risultano condizionate dall’andamento dei sintomi della malattia: il lavoro, le relazioni affettive e le attività a cui dedicarsi nel tempo libero..

 

Abstract: Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino che colpisce prevalentemente i giovani tra i 18 e i 30 anni. Negli ultimi decenni si è registrato un aumento significativo dei casi diagnosticati. I sintomi tipici di questa patologia possono essere molto invalidanti e compromettono in maniera decisiva la qualità della vita dei pazienti, determinando una serie di implicazioni psicologhe da non sottovalutare.

Il morbo di Crohn è una delle principali malattie infiammatorie che interessano l’intestino. Si tratta di un disturbo cronico per il quale non è stata ancora individuata una terapia adeguata e risolutiva. I sintomi con cui si manifesta sono molteplici. I più comuni sono i dolori addominali di tipo colico, le scariche diarroiche, la perdita di peso, la formazione di fistole e nei casi più avanzati possono verificarsi complicanze gravi come gli episodi di occlusione e subocclusione intestinale (S. Fanti, E. Lopci, N. Monetti, 2006). Le coliche addominali possono presentarsi in ogni momento della giornata, anche se gli esordi notturni sono quelli più diffusi e anche quelli più difficili da gestire. Nonostante l’alimentazione giochi un ruolo fondamentale nella gestione sintomatologica di questa patologia cronica, il rispetto dei più rigorosi piani alimentari non è sufficiente per prevenire le fasi più critiche del morbo di Crohn. I dolori lancinanti provocati dall’infiammazione, sono spesso legati a delle ostruzioni che vengono a formarsi nel tratto digerente (B. Nardo, 2009). Tali ostruzioni ostacolano un normale svuotamento intestinale, producendo in tal modo una condizione di alvo irregolare in cui si alternano periodi di stipsi a periodi di continue ed estenuanti scariche diarroiche.

Nella maggior parte dei casi si arriva alla diagnosi con molti anni di ritardo, poiché il morbo di Crohn ha molte caratteristiche in comune con altri disturbi intestinali più lievi, come la sindrome del colon irritabile. Tuttavia c’è una differenza significativa tra queste due condizioni, in quanto la prima rientra nell’ambito delle malattie organiche ed infiammatorie, mentre la seconda può essere classificata come una sindrome funzionale caratterizzata da una serie di irregolarità riguardanti le funzioni intestinali (A. Montano, S. Vitali, 2018). Il morbo di Crohn è un disturbo importante e spesso grave. Non sono poche le situazioni in cui risultano necessarie operazioni chirurgiche di asportazione di segmenti intestinali fortemente infiammati (S. Fanti, E. Lopci, N. Monetti, 2006). Pertanto è fondamentale intervenire in tempi rapidi per formulare una diagnosi accurata, evitando sia il rischio di confondere la malattia con altri disturbi di minore rilevanza, sia quello di una possibile progressione patologica. Difatti, una delle difficoltà che si palesa al momento della diagnosi, è la constatazione di un livello avanzato dell’infiammazione, condizione che può verificarsi proprio a causa di un ritardo o di un inadeguato iter diagnostico (A. Luna, R. Ribes, P. R. Ros, 2008).

L’insieme di tutti questi fattori caratterizzanti il morbo di Crohn si accompagna ad importanti implicazioni psicologiche da non trascurare. L’impossibilità di esercitare un controllo sulle proprie funzioni intestinali, porta il paziente a rivedere e riformulare tutte le sue attività di vita quotidiana, pianificandole sulla base dei suoi sintomi. Si può, dunque, evidenziare una forte compromissione della qualità della vita. Ogni programma ideato dal paziente affetto dal morbo di Crohn, diventa un impegno da confermare ‘last minute’ perché c’è il rischio di rimandare ogni piano programmato a causa di una colica improvvisa o per via di un inatteso accesso al pronto soccorso. Le principali aree di vita del paziente risultano condizionate dall’andamento dei sintomi della malattia. Il lavoro, le relazioni affettive e le attività a cui dedicarsi nel tempo libero sono tutte dimensioni che non possono essere gestite in maniera ordinata e serena, perché su ognuna di esse incombe l’ossessione dei possibili attacchi da parte del morbo di Crohn. Un semplice pranzo fuori con gli amici o con i colleghi di lavoro diventa motivo di irrequietezza, per il timore di sviluppare sintomi critici dopo l’assunzione di pasti consumati fuori casa. Quindi, nella maggior parte dei casi il paziente rinuncia anche ad occasioni di socialità per evitare che la sua malattia possa prendere il sopravvento. L’isolamento sociale che ne consegue produce nel paziente un senso di inadeguatezza e anche un forte senso di colpa derivante dal continuo rifiuto che egli è obbligato a manifestare verso gli impegni sociali, per poter meglio fronteggiare i sintomi della sua indomabile patologia.

Per comprendere meglio il disagio psicologico derivante dalla malattia di Crohn, può essere utile riflettere su alcuni fattori culturali che connotano il nostro paese e da cui dipendono una serie di abitudini sociali che scandiscono la vita quotidiana. Uno di questi fattori è rappresentato senza dubbio dalla tradizione culinaria. Difatti, nello scenario culturale italiano, più che in altri paesi, il cibo è sempre stato uno dei principali motivi di aggregazione sociale. Non a caso, molte occasioni in cui coltivare la socialità vengono a formarsi intorno ad un tavolo apparecchiato e ricco di pietanze da gustare. Si tratta di una immagine che evoca nelle nostre menti delle esperienze prevalentemente piacevoli, associate alla buona cucina e alla buona compagnia. Purtroppo, per i pazienti affetti dal morbo di Crohn, immaginare una scena del genere non suscita di certo le stesse sensazioni di benessere. Non sono rari i racconti di pazienti che soffrono quotidianamente le conseguenze del digiuno, pur di evitare la comparsa dei sintomi più dolorosi che il morbo di Crohn provoca. Ciò accade perché le manifestazioni cliniche più rilevanti, purtroppo, tendono a verificarsi dopo la consumazione dei pasti, a prescindere dal tipo di cibo ingerito.

I vissuti di sofferenza legati all’idea di dover rinunciare alla buona cucina o alla buona compagnia, o (come accade più di frequente) a entrambe le cose, logorano col passare del tempo le dimensioni sociali ed affettive che contraddistinguono la qualità della vita dei pazienti, mettendo in crisi il benessere psico-fisico. In realtà, oltre alla sfera sociale e a quella riguardante l’alimentazione, ci sarebbero molte altre aree rispetto alle quali i pazienti con malattia di Crohn sono costretti a rinunciare o a partecipare in forma limitata. Dunque, la vita di rinunce che faticosamente affrontano i pazienti affetti da questo disturbo, in molti casi può sfociare in vere e proprie forme di disagio psicologico. I vissuti di ansia e l’umore depresso che derivano dai sintomi della patologia e dall’isolamento sociale che essa produce, non possono essere trascurati. I pazienti affetti dal morbo di Crohn, hanno il diritto di condurre una vita più serena e con minori limitazioni sociali e psicologiche. Pertanto, sarebbe opportuno seguire parallelamente al percorso di terapia medica e farmacologica, anche un percorso di sostegno psicologico in grado di fornire al paziente gli strumenti per gestire in maniera più efficace le difficili implicazioni che riguardano la sfera mentale e sociale. Inoltre, aderendo ad una visione bio-psico-sociale della salute e del benessere, un adeguato intervento psicologico può avere delle ripercussioni positive anche sulla gestione dei sintomi fisici tipici del morbo di Crohn. Dunque, per favorire una migliore qualità della vita dei pazienti, risulta indispensabile integrare le competenze mediche con quelle psicologiche, al fine di intervenire in maniera completa e precisa su ogni livello fisico e su ogni area psicosociale che la malattia intacca.

 

La bussola delle emozioni. Dalla rabbia alla felicità, le emozioni raccontate ai ragazzi (2019) di A. Pellai e B. Tamborini – Recensione del libro

Un libro sull’adolescenza e sulle emozioni, una guida pratica e interattiva per ragazzi e adulti alla scoperta di come funziona il cervello emotivo.

 

Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore e noto al pubblico per aver condotto su Radio24 il programma Questa casa non è un albergo, e la moglie pedagogista, scrittrice e madre dei loro 4 figli, Barbara Tamborini, propongono insieme un libro rivolto ai ragazzi preadolescenti e adolescenti in grado di aiutarli ad orientarsi nella comprensione della loro mente e delle loro emozioni.

Perché un manuale per comprendere le emozioni? E perché rivolgerlo direttamente ai ragazzi?

Chiunque abbia conosciuto un ragazzo preadolescente o adolescente (o semplicemente se cerchiamo di sforzarci di ricordare quegli anni turbolenti in cui inizia a strutturarsi la personalità) sa che le emozioni sono spesso vissute come uno tsunami violento che prende il sopravvento e non lascia scampo.

Questo libro può essere visto come una guida all’autoanalisi delle proprie emozioni. In questo senso, il titolo stesso, La bussola delle emozioni, rimanda alla possibilità per i ragazzi di avere finalmente tra le mani un libro per orientarsi all’interno di sei emozioni primarie: la tristezza, la paura, il disgusto, la rabbia, la sorpresa e la gioia.

Il libro affronta temi complessi delle neuroscienze e le recenti scoperte scientifiche sul cervello utilizzando un linguaggio semplificato, accessibile anche ai più piccoli. La guida aiuta i ragazzi a comprendere come funzionano i diversi livelli del nostro cervello. Spiega, per esempio come mai l’incompleta maturazione cerebrale porti l’adolescente a sentirsi in balìa delle proprie emozioni, incapace di modularle e gestirle.

Il cervello viene presentato dagli autori come una casa a tre piani, il cui piano terra è il piano della sopravvivenza, il secondo piano corrisponde al cervello emotivo e l’ultimo piano è costituito dal cervello cognitivo, grazie al quale, è possibile controllare e modulare i conflitti emotivi.

Il libro è diviso in sette parti che comprendono specifici capitoli su ciascuna emozione con test creati per indicare ai ragazzi come si rapportano con le emozioni. Ogni concetto è accompagnato da esemplificazioni utili al lettore per comprendere i contenuti in modo divertente. Per ogni emozione sono presenti consigli su come gestire le situazioni emotive e racconti di vita personale che il giovane può paragonare alle sue esperienze.

Infine, una sezione è dedicata alla filmografia. Questa comprende pellicole di film per ogni emozione, utili ai ragazzi per avere immagini concrete che possano spingerli ad una riflessione più profonda sull’argomento.

La Bussola delle emozioni non è solo un libro per i ragazzi, la bussola diventa utilissima anche per i genitori che molto spesso si sentono impotenti di fronte a queste tempeste emotive adolescenziali.

Risulta così un libro che merita di essere letto da tutti, ragazzi, genitori, educatori e insegnati per guidarli nella comprensione di questo momento delicato e spesso incompreso della vita di un preadolescente/adolescente!

 

cancel